di Antonio Cammarota, da Sottotiro review n. 8, gennaio1998
Il lettore si metta pure comodo e si rilassi: questa volta non è mia intenzione trattare esplicitamente argomenti come il duro lavoro manuale, la fatica, l’alienazione e l’abbrutimento implicito nelle attività fisiche più pesanti. Infatti queste situazioni, questi modi di vivere e di lavorare presentavano anche aspetti positivi: la socialità innanzitutto, e poi la solidarietà, la consapevolezza del comune patire. Il lavoro di fabbrica, ad esempio, determinava negli operai, con il passare degli anni, un senso di appartenenza al gruppo, alla classe sociale, finanche al luogo di lavoro e alla stessa azienda … Anche il nero lavoro nelle campagne, fatto di levatacce e di sudore, di freddo polare e di caldo soffocante, aveva un risvolto positivo: esso era principalmente il senso di appartenenza – valido per tutti – ad una comunità (in legittima contrapposizione con le altre comunità, ovviamente), ad un campanile, ad una serie di “mitiche” e antiche figure che stavano alla base del gruppo sociale stesso. Per le fabbriche e le campagne passava quindi (addirittura) una giustificazione, una legittimazione alla vita. Ebbene, oggi tutto questo non esiste più, o meglio, va scomparendo molto rapidamente, e nel giro di pochi anni fabbriche e campagne assumeranno volti e identità completamente nuovi. Ed è il post-fordismo (in particolare per le industrie) a segnare questo “salto di qualità” verso la disgregazione sociale definitiva, verso la solitudine, verso il nulla … Attenzione, però: questo breve e necessariamente scarno contributo alla riflessione non vuole essere – si badi bene – una melensa nostalgia del passato, un richiamo vuoto ad una mitica ed inesistente “età dorata del lavoro perfetto”. Nessuno rimpiangerà il lavoro dipendente duro e “maledetto”, il lavoro necessario ed alienante, gli infortuni, le morti. Nessuno rimpiangerà situazioni in cui gli uomini si spegnevano poco a poco sui luoghi di lavoro. È invece mia intenzione sottolineare il fatto che nella nuova trasformazione che il concetto di lavoro sta attraversando, tutto quel poco (o tanto) che di positivo si trovava nella vita della gente comune, nella vita lavorativa dei proletari (operai o contadini), va scomparendo. Nelle campagne le comunità di un tempo non esistono più. I pochi rimasti (già il fordismo aveva sconvolto la vita nelle campagne) hanno perduto, hanno smarrito quel senso di appartenenza, quel legame – unico – che avevano con la comunità. Il genuino campanilismo ha ceduto il campo ad un vuoto e cieco localismo leghista. Nelle fabbriche il padronato punta ormai direttamente sulla parcellizzazione definitiva del lavoro, sulla divisione del lavoro e su quella degli stessi operai in “esterni” e “interni”. Non più fabbriche, settori e reparti intesi nella accezione classica, ma ognuno per sé. Contratti nazionali che diventano personali. I vecchi legami di classe si spezzano per sempre: gli operai votano come i loro padroni e si scagliano contro nuovi nemici, quasi sempre fittizi. È la definitiva frattura, nelle città e nelle campagne, con un passato che ancora ci teneva legati (teneva legate cioè le persone “normali”) alla realtà: l’operaio era operaio tra gli operai, e così il contadino. Fabbrica o vigneto, macchina utensile o aratro il duro lavoro era anche professionalità, era realizzazione, era rappresentazione di sé (l’unica possibile, si badi bene!) sul palcoscenico della società. Il lavoro insomma era anche “significare”, dare sostanza, oltre che appartenere, ad un gruppo sociale. Ora che l’ultima pietra – ed è una pietra tombale – è stata posata non ci resta che osservare i vecchi campi vuoti e le decrepite mura delle fabbriche come se fossero vestigia archeologiche di un glorioso passato. Addirittura.