di Giuseppe Schepis, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996
Credo sia possibile far scaturire l’essenza di ciò che definiamo utopia direttamente dalla morfologia del nostro cervello. Questa macchina sembra avere una intrinseca necessità che la spinge a costruire un modello teorico descrivente e capace di decifrare il mondo intero e, inserita in questo, se stessa. Nel fare questa operazione, accade che si trovino modelli ideali migliori della realtà ed auspicabili rispetto ad essa. Così il motore che realizza trasformazioni fisiche ideali è migliore ed ha rendimento più alto rispetto a quello realmente costruibile, la società umana teorizzabile meglio funzionante rispetto a tutti i modelli finora realizzabili, il “cavaliere inesistente” migliore di ogni uomo che abbia mai posato il suo piede su questa terra. Da questo fatto, dall’impossibilità di sottrarsi al secondo principio della termodinamica – sia nei modelli fisici che in quelli antropici o di altro tipo –, si genera il gradiente fra sistema ideale e sistema reale da cui nasce l’utopia. In questo senso definirei la spinta utopica che anima molti uomini come la forza che tende a ridurre e – in via teorica – ad annullare il gradiente sopra menzionato.
L’obiezione più usuale che viene mossa a chi vorrebbe ragionare e vivere in termini utopici sta proprio nel fatto – peraltro indiscutibile – che il sistema ideale risulta irraggiungibile: così gli oppositori dell’utopia derivano da questo, come conclusione ultima, l’inutilità del muovere verso un obiettivo destinato a sfuggire. Proprio l’esempio scientifico dovrebbe invece spingere a conclusioni di segno opposto: se, studiato il modello teorico, il ricercatore si fosse arrestato perché conscio di non poterlo eguagliare nella realtà, non avremmo avuto quasi nulla di ciò che oggi è la nostra scienza. Così, anche nelle scienze umane, l’ideale – l’utopia – deve segnare direzione e verso del moto, pur sapendo che alla meta ultima potremo solo tendere asintotticamente senza che questa e la nostra realtà riescano mai a coincidere.
Le direttive figliazioni della mancanza di una “rotta” da seguire, mancanza derivante dalla rinuncia alla spinta utopica, sono la stagnazione culturale e la passiva accettazione dell’esistente.
Solo la “direzione” è una realtà, la “meta” è sempre una finzione, anche quella raggiunta – e questa in modo particolare. ARTHUR SCHNITZLER