Sul riordino

luglio 2025

di Paolo Repetto, 21 novembre 2025

Ma bene, andiamo avanti così.
Si comincia facendo il pesto con le noci e si finisce a letto con i consanguinei!
da “Accoglienza ligure”

Quelli che non studiano la storia sono condannati a ripeterla.
E quelli che la studiano sono condannati a vedere come la storia si ripeta
per colpa di coloro che non la studiano.
George Santayana

Ho trascorso l’intera mattinata a mettere ordine in magazzino. In questa stagione la mattinata è lunga, inizia alle 6:30, quindi avevo grandi aspettative. Il risultato però non è all’altezza. Quando a mezzogiorno esco, volgendo indietro un ultimo sguardo per vedere l’effetto, stento a capacitarmi di aver trafficato per sei ore lì dentro, visto che non ho sistemato alcunché e il grande sgombero ha prodotto solo uno striminzito sacchetto di rifiuti.

Il problema è che il magazzino non è un vero magazzino: lo chiamo così per distinguerlo dal garage, ma in realtà è un deposito per tutti gli utensili, metà dei quali fuori uso, un ricovero per mobili che si tarlano in attesa di restauro e per imballaggi e materiali di scarto che “potrebbero sempre tornare utili”, un laboratorio per riparazioni, verniciature, bricolage, fantasiosi assemblaggi. Le pareti sono occupate da scaffalature e da armadi di varia natura, che nelle intenzioni avrebbero dovuto consentire la reperibilità al primo colpo di ciò che vai a cercare, ma nella realtà si sono andati stipando col tempo in maniera tutt’altro che sistematica. Così oggi mi capita quasi sempre di sapere che un dato oggetto ce l’ho, ma non avere la minima idea di dove cercarlo. Purtroppo è quel che comincia a capitarmi anche coi libri, malgrado per questi un certo ordine di collocazione l’abbia mantenuto.

C’è anche un altro settore nel quale inizio a perdere colpi. È quello della manutenzione della memoria. A volte gli amici si meravigliano del fatto che ricordi nomi e situazioni lontani nel tempo, che mi sovvenga di cose che ho vissuto o che ho letto o che ho visto al cinema sessant’anni fa; e aggiungo che mi meraviglio anch’io, soprattutto quando si tratta di roba di poca o nessuna rilevanza (il nome di un autore, di un personaggio, di un attore, il titolo di un film). Questo nel momento stesso in cui ad esempio non rammento il titolo del libro che sto leggendo, o mi accorgo che le pagine lette non mi si stampano affatto in testa.

Sto divagando, ma mica poi troppo. Il tema voleva essere quello dell’ordine, sul quale peraltro ho già scritto, anche recentemente (vedi Essere …). Solo che vorrei trattarlo da un altro punto di vista.

L’ordine di un magazzino, di un’officina, di un laboratorio, così come quello di una biblioteca, o volendo anche di un cervello, dovrebbe essere finalizzato a semplificare l’attività cui in quel luogo o con quello strumento ci si dedica. Non sempre però lo scopo è quello. Spesso l’ordine è fine a stesso, oppure ha una funzione di rappresentanza. In genere comunque è specchio della personalità dell’ordinante. Ne Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta Robert Pirsig identifica due tipologie di officina meccanica, quella “classica” e quella “romantica”.

Nella prima tutti gli strumenti sono ordinatamente disposti in sedi apposite, nella seconda sono buttati a casaccio sul carrello o sul piano di lavoro. Ma non per questo, secondo Pirsig, chi li usa ha maggiore difficoltà a rintracciarli: semplicemente ricorda a memoria dove avrebbe potuto riporli, e li trova subito. A queste due tipologie di meccanici corrispondono anche due diverse tipologie di motociclisti: quelli che apprezzano il vento in faccia e il senso di libertà che la motocicletta ti dona, e non si preoccupano e non hanno conoscenza degli aspetti tecnici; e quelli che invece auscultano le pulsazioni del motore, e godono della sua efficienza, per cui ad esempio hanno cura di regolare la mandata dell’aria quando devono affrontare dislivelli altimetrici importanti. Tutto questo, anche se sembrerebbe entrarci per nulla, è al contrario significativo di atteggiamenti diversi nei confronti della vita: il primo meno responsabile, più “anarchico”, e tutto sommato più egoistico, il secondo più apprensivo e responsabile. Poi c’è il mio, diviso tra la voglia di riordinare il mondo intero e una rassegnata pulsione a lasciare che il mondo si ordini da solo. Per cui passo la vita a riassestare la mia mente, per cercare di conciliare le due spinte opposte e capire quale è innata e quale acquisita.

Qui volevo arrivare. Nel pezzo postato mesi fa sul mettere ordine e sul mio atteggiamento quasi maniacale in proposito, non avevo indagato da dove questo atteggiamento discenda: o forse ho dato l’impressione di considerarla tutta una questione di carattere innato. Beh, non è proprio così. Certamente nella disposizione o meno all’ordine c’è una componente biologica, ma credo che a determinarla siano anche le condizioni ambientali in cui uno cresce. Il che è abbastanza ovvio, c’entrano sia la genetica che l’epigenetica: ma in genere il peso di questi fattori viene equivocato, e chiamato in causa a seconda dei casi per giustificare un comportamento o per stigmatizzarlo. Credo che la questione sia un po’ più complessa.

Intanto so bene che noi umani costituiamo un’anomalia nell’ordine “naturale” delle cose, e che siamo un’anomalia a termine: se credessi in un disegno superiore direi che siamo un esperimento della natura destinato a finir male. Ma so anche che ci siamo, e che per il momento l’esperimento sembra aver avuto successo, vista la velocità con la quale ci moltiplichiamo e abbiamo colonizzato ogni parte della terra. Un successo senza dubbio “quantitativo”, mentre sulla qualità si può ovviamente discutere. Penso dunque che dei due aspetti occorra prendere atto in maniera diversa, convivere con l’esperimento senza darci troppa cura del progetto. Cosa che oggi, a dispetto di quanto può sembrare, non facciamo affatto (ma su questo tornerò dopo).

Veniamo invece all’origine dei diversi atteggiamenti.

In casa mia ho vissuto, per tutto il periodo dell’infanzia e della prima adolescenza, una povertà dignitosa, ma sempre sul filo del rasoio: voglio dire che ogni minima sbandata poteva significare cadere nella miseria. (e qui sarebbe da riflettere su quanto sia cambiato in settant’anni il concetto di povertà, quando ci viene raccontato quotidianamente che sei milioni di italiani, la metà dei quali bambini, vivono sotto la soglia di povertà, ma il novanta per cento, bambini compresi, dispone di un cellulare molto più recente e performante del mio). Questa condizione tuttavia non mi pesava più di tanto. Ne sono diventato consapevole solo a posteriori, quando ho potuto accedere a uno stile di vita meno precario. Allora costituiva la normalità, e quando la rievoco non me ne compiango affatto, ne ho addirittura nostalgia.

Comunque. In quello scenario la possibilità del disordine non era nemmeno concepita: si tirava avanti con lo stretto necessario, non potevamo permetterci di perdere, di trascurare, di sciupare qualcosa. Nessun alimento aveva il tempo di scadere, ogni capo d’abbigliamento aveva una doppia o tripla vita, e anziché nel raccoglitore della Caritas finiva in pezze da rammendo o in stracci per la pulizia. Il raccoglitore d’altra parte non esisteva, e la Caritas credo nemmeno. L’attenzione non c’era alcun bisogno di inculcarmela: avevo davanti agli occhi i comportamenti dei miei genitori, e mi sembrava perfettamente naturale viverla. Anche quando mi confrontavo con situazioni diverse (quasi mai all’interno della nostra piccola comunità: piuttosto coi villeggianti estivi prima, poi con i compagni delle scuole secondarie: con quelli insomma che potevano permettersi di comprare i fumetti e i libri, di mangiare un gelato o bere una gazzosa) me ne facevo una ragione: tirando dritto avremmo forse potuto un giorno permettercelo anche noi.

In effetti col tempo anche la situazione nostra è cambiata, siamo usciti dall’economia di sopravvivenza: ma il mio atteggiamento nei confronti delle cose, e del mondo, è rimasto. Non ho certo atteso le mode mainstream e i guru televisivi dell’ecologia per praticare il riciclo. Ma soprattutto, non ho mai accettato l’idea che il mondo possa essere cambiato col disordine. Anzi, con gli anni e con l’approdo ad una razionalità più matura il legame tra vita ordinata e vita dignitosa nella mia mente si è rafforzato. Questo non significa che abbia poi sempre vissuto un’esistenza tranquilla e ordinata, per alcuni versi è stata disordinatissima: ma il concetto e l’aspirazione di fondo sono rimasti sempre quelli.

Mi chiedo allora: se fossi cresciuto in un’altra famiglia, in un ambiente diverso, sarei stato altrettanto fermo nei miei convincimenti, avrei scoperto comunque il mio imperativo categorico? Malgrado quanto ho detto sinora, tendo a credere di sì: sono in fondo un determinista, quasi un lombrosiano. E mi spiego soprattutto in termini di determinazione genetica la mia intolleranza o quanto meno il mio atteggiamento negativo nei confronti dello spontaneismo e del movimentismo, quando con questi termini si intendano azioni distruttive fini a se stesse, non mirate alla creazione di un ordine nuovo. O quando questo fine diventa solo un pretesto per scaricare frustrazioni, risentimenti, invidie, per cambiare non l’assetto di una società, ma la propria posizione all’interno di quell’assetto.

E tuttavia, ripeto, non sono così sicuro. Porto un esempio. Durante la prima occupazione dell’Università di Genova (nel dicembre ‘67) mi scontrai piuttosto bruscamente con alcuni “compagni” che, da brave “guardie rosse” nostrane, stavano devastando la biblioteca dell’istituto di storia moderna (a loro parere sentina della famigerata “cultura borghese”). Alla fine li costrinsi a rimettere ordinatamente i libri sugli scaffali dai quali erano stati strappati (ero molto “determinato”, anche in questo senso. E, per inciso: fu lì che capii che la mia lotta non era la loro, e che se dai “nemici” dovevo guardarmi io, dovevo farlo poi tanto più nei confronti di quelli che teoricamente avrebbero dovuto essermi amici). Ora, questa può sembrare una situazione estrema, significativa in fondo solo di una particolare contingenza e della mia ipersensibilità di bibliomane: in realtà ha continuato a ripetersi, complice anche una classe intellettuale che i libri li scrive e non ha ritegno a promuoverli in televisione o nei festival come un tempo solo i mobili di Aiazzone, ma “decostruisce” la tradizione culturale da cui discendono e asseconda ruffianamente la bovina ignoranza del proprio pubblico. Continuo a ripetermi, ma ritengo che l’atteggiamento degli odierni “maîtres à penser”, per fortuna effimeri, nei confronti della cultura “borghese” occidentale non sia mai sufficientemente smascherato.

Ebbene, ricordo chiaramente di aver pensato in quell’occasione: “Se li vedesse mia madre – che non avendo mai potuto permettersi di acquistarne uno, ma amando sinceramente la lettura, considerava i libri oggetti sacri – tirerebbe loro il collo come alle galline”. Ho agito io, ma dietro di me c’era un preciso ambiente che si indignava.

Il mio è dunque un atteggiamento complesso, quasi contradditorio. Perché può sembrare che per come lo concepisco io l’ordine comporti in fondo una rinuncia alla libertà. Ma non è affatto così. L’idea di fondo è invece che il massimo possibile di ordine sia la migliore garanzia per il massimo possibile di libertà. La mia libertà di spostarmi da un luogo ad un altro non può essere confusa con la libertà incondizionata di muovermi alla velocità e nella direzione e lungo la traiettoria che più mi aggrada. Questo può valere all’interno di uno spazio disabitato, non certo in un mondo sovraffollato e comunque condiviso con milioni o miliardi di altre persone. Ordine in questo caso significa un minimo comune accordo di reciprocità per cui la mia velocità e la mia traiettoria non interferiscono, non intralciano, non configgono con quelle di altri. È una limitazione, non una privazione di libertà.

Quel che mi si obietta a questo punto è che una società perfettamente ordinata è una società utopica, e come tale immobile, posta fuori dal tempo. Infatti: nessuno ha però parlato di società perfettamente in ordine, primo perché non esiste, non è mai esistita e non esisterà mai, poi perché ogni progresso, ogni cambiamento, non sono una rivolta contro l’ordine, ma evidentemente contro qualcosa che non funziona, quindi che crea disordine. Ogni avanzamento è un ripristino dell’ordine ad un livello più alto.

Ecco: io penso che oggi più che mai dovremmo avere chiaro in mente questo concetto. E invece dalla sinistra, dove mi ostino a collocarmi, ultimamente sentendomi sempre più disagio, l’ordine è visto come un attacco reazionario alle libertà: per cui, ad esempio, le forze dell’ordine, quando cercano di impedire il saccheggio dei supermercati o la distruzione dei beni pubblici come la segnaletica e i contenitori di rifiuti, diventano automaticamente forze del male. E il malinteso è avvallato quando non si prendono le distanze dalle bande di sciagurati che scandendo bovinamente slogan e ammantati di bandiere sempre diverse cercano di mettere il mondo a soqquadro.

Tutta questa tirata non voleva essere altro che una premessa per arrivare a parlare dell’oggi, per enunciare i miei prolegomeni ad ogni futuro scambio di vedute. Spero che un’operazione onesta di pulizia concettuale possa rimuovere qualcuno degli ingombri che rendono faticoso il cammino verso un minimo di “verità” condivisa.

Nelle quotidiane discussioni con gli amici mi trovo sempre a recitare la parte di chi pretende una conoscenza e un’interpretazione “ordinata” della materia di cui si dibatte, e non sopporta le argomentazioni passionali, fondate sulla simpatia e sull’emotività. Questo vale particolarmente per la storia: pur nella consapevolezza che non potremo mai conoscere tutti i fatti, e che quelli che conosciamo ci giungono filtrati da sguardi immancabilmente partigiani, sono convinto si possa arrivare, sia pure con molta approssimazione, a delineare un qualche ordine. Nella mia interpretazione l’ordine non sottende una finalità superiore, uno scopo ultimo: è solo un’ordinata sequenza. Che di per sé parrà non dire molto, ma è a mio parere la condizione necessaria per affrontare qualsiasi argomento. Partendo da ciò che è più attendibilmente documentabile si può infatti procedere a individuare e dipanare il filo. Non dico che si possa pervenire ad una “verità storica”, ma con un po’ di buona volontà, attraverso il confronto e la verifica di tutte le fonti possibili, si può comunque accedere ad un denominatore di lettura comune. E in questo processo non devono avere spazio la passionalità e la simpatia.

È chiaro che quando della storia di cui si è diretti testimoni, o addirittura attori non protagonisti, e di cui si discute (oggi ad esempio della questione ucraina o di quella palestinese) abbiamo una informazione immediata, e soprattutto una rappresentazione anche visiva, l’impatto emotivo è forte, e riesce difficile non assumere atteggiamenti pregiudiziali. Ma anche in questi casi, se ci si sforza un poco si è in grado di capire da dove arrivano le informazioni, e come sono gestite e manipolate, e perché.

Per spiegarmi meglio vado a ripescare nel passato due casi che permettono di esemplificare sia il modo in cui è prodotta, intenzionalmente o a volte magari per semplice omissione, la disinformazione storica, sia il perché mi sembri così importante “fare ordine” nella ricostruzione storica, a partire da quelli che possono sembrare “dettagli” puramente quantitativi.

Il primo riguarda la vicenda della resistenza opposta dai militari italiani all’ordine di resa impartito loro dai tedeschi, sull’isola di Cefalonia, dopo l’armistizio dell’8 settembre. Fino a un paio di decenni fa il numero degli uccisi in combattimento o fucilati dopo la resa era quantificato, sulla base delle frettolose e svogliate inchieste avviate nell’immediato dopoguerra dalla magistratura militare, in circa diecimila, comprensivi di oltre un migliaio di prigionieri annegati per l’affondamento (da parte degli alleati) delle navi che li stavano trasbordando verso l’Italia.

Solo agli inizi del nuovo millennio, a seguito di polemiche che si trascinavano da mezzo secolo, le inchieste sono state riaperte e diversi storici, sia italiani che tedeschi, hanno ricostruito attraverso una documentazione più solida e più ampia tanto i fatti quanto le motivazioni che li determinarono, ridimensionando tra l’altro il numero dei caduti e dei fucilati. Attualmente, a detta di uno studioso serio come Gianni Oliva, “le cifre su Cefalonia sono verosimilmente comprese fra un minimo di 3 500 e un massimo di 5 000”.

Quel che suona incredibile è che per arrivare a queste conclusioni, tutt’altro che precise e definitive, siano occorsi ottant’anni. E più incredibile ancora è che di fronte all’ammissione degli storici che per primi avevano affrontato l’argomento (è il caso di Giorgio Rochat) di essersi fidati di testimonianze poco attendibili, ci sia chi contesta gli ultimi dati in nome di una “sacralità” del sacrificio resistenziale dei nostri militari. Come se rivedere al ribasso le dimensioni dell’eccidio ne sminuisse la tragicità.

Una vicenda molto simile riguarda la narrazione della repressione del brigantaggio nell’Italia postunitaria, e nella fattispecie quella delle “stragi” di Pontelandolfo e Casalduni. Per un secolo e mezzo si è fantasticato di una carneficina con centinaia di vittime, compiuta dall’esercito piemontese per vendicare l’agguato in cui erano stati uccisi quarantacinque bersaglieri. Questa versione era stata fatta propria ad un certo punto da Gramsci e dalla storiografia marxista, nel quadro di uno schema interpretativo decisamente antirisorgimentale (Gramsci scriveva nel 1920: “Fino all’avvento della Sinistra al potere, lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di briganti”).

Qui la comprensione della storia c’entrava poco: si trattava di creare una coscienza di classe fondata sulla divisione netta in buoni e cattivi, in oppressi e oppressori. E bene o male, sia pure immersa nell’oblio rapido che caratterizza tutta la nostra storia più recente, è rimasta quella la versione corrente della vicenda.

La cito perché ultimamente è stata ripescata e amplificata da un gruppo di intellettuali meridionali (i sedicenti neoborbonici, che predicano nostalgie pre-unitarie) che hanno fatto a gara nello sparare cifre esorbitanti (tra i seicento e i novecento trucidati) oltre che nel dare versioni romanzate dei fatti.

Fortunatamente altri storici, anch’essi meridionali, hanno opposto a questo delirio un lavoro di ricerca minuzioso e obiettivo, col risultato che i morti verificati a Pontelandolfo risultano essere tredici, e a Casalduni nessuno (non lo dico io, lo ha confermato il sindaco del paese vittima della repressione, in occasione del centocinquantesimo anniversario dei fatti)

Ora, la questione qui non è quella del ridimensionamento dei numeri: sotto un profilo morale, importa poco che i trucidati fossero diecimila o tremila, seicento o tredici. Fossero stati anche solo trenta a Cefalonia e cinque a Pontelandolfo l’orrore di quanto accaduto non sarebbe minimamente sminuito. Ad essere sminuita invece è la credibilità dei narratori, per cui riesce difficile poi dare credito a qualsiasi altro aspetto della loro versione, e soprattutto alla loro buona fede. Un confronto su questi temi diventa impossibile, fino a quando non si sono accertati con una certa verosimiglianza i dati di fondo, quelli materiali: numero dei morti, effetto delle distruzioni, proporzione delle forze in campo, ecc … Perché questi non sono dati freddi, ma cifre che anche attraverso le loro entità suggeriscono poi le cause, le motivazioni; e soprattutto perché tradiscono abbastanza l’apertamente l’uso che se ne vuol fare.

L’ordine che io esigo si chiama in questo caso chiarezza delle posizioni e correttezza e concretezza delle argomentazioni. Devo sapere che sto parlando con persone che cercano di fare il mio stesso percorso, che vogliono conoscere, e non essere confermate in ciò che già credono di sapere, che non hanno già scelto pregiudizialmente le fonti su cui fare affidamento, ma cercano di orientarsi tra tutte quelle che si ritrovano a disposizione. Esigo interlocutori che non dicano le mie stesse cose, ma parlino la mia stessa lingua. Come posso prendere sul serio, ad esempio, gente che non ha il minimo dubbio sui numeri delle vittime della guerra di Gaza, forniti tutti solo dalla fonte palestinese, mentre quel dubbio lo ha coltivato e continua a coltivarlo sulla possibilità che siano state le stesse autorità statunitensi ad orchestrare l’attacco alle torri gemelle, o quelle israeliane a guidare il raid sanguinario del 7 ottobre? Quando basterebbe ad esempio prendersi la briga di conoscerli, quei numeri, per accorgersi che le due uniche versioni esistenti, quella del Ministero della Salute e quella dell’Ufficio governativo per i media, presentano discrepanze enormi ma cifre finali sorprendentemente uguali (Per chi non abbia il tempo di andarsele a cercare: al giugno 2025 i morti maschi erano per il Ministero della Salute 24.618, le donne 9.790 e i bambini 15.613; per Ufficio per i media ( in pratica, il Ministero per la propaganda) sono invece rispettivamente 19.702, 12.365 e 19.954. Un quarto di maschi in meno, un quarto delle donne e 2.341 bambini in più. Per arrivare nel totale ad una cifra identica: 50.021).

Non è una questione di pignoleria maliziosa. Cosa mi cambiano quei numeri in termini di orrore, di sdegno, delle responsabilità di Netanyahu per la strage, e del popolo che lo ha eletto, e dell’esercito che se ne fa strumento? Niente, naturalmente: stiamo parlando di esseri umani, di decine di migliaia di vite stroncate, e comunque non c’è un limite al di sotto del quale la colpa sia veniale. Ma in termini di credibilità mi cambia, eccome. Comincio col pensare che le cifre siano state manipolate per puntare sull’effetto “innocenza”, sulla sensibilità particolare alla violenza praticata sui più deboli. E posso anche capire il motivo: la propaganda, soprattutto oggi, con le potenzialità offerte da una rete informativa che copre in tempo reale tutto il mondo, vale come arma di guerra quanto i missili e i carri armati.

Ma a questo punto è logico che qualche dubbio possa averlo anche sulla veridicità oggettiva dei numeri, buttati sul piatto per alzare la posta finale, e quindi su una qualche volontà di arrivare ad una soluzione che non contempli il vendicare quei morti facendo sparire completamente Israele. (Questi ultimi dubbi non dovrei nemmeno coltivarli, perché le intenzioni sono state chiaramente espresse in qualsiasi documento delle organizzazioni politiche palestinesi già da ben prima della nascita di Israele stessa).

Sono perplesso riguardo la possibilità di un confronto serio quando vedo che lo sdegno che dovremmo condividere ed esprimere per ogni massacro sembra risvegliarsi solo di fronte ad unica situazione. Non ricordo manifestazioni di piazza contro il massacro dei tibetani da parte dei cinesi (un milione di morti): quelli più informati lo hanno giustificato con la necessità di abbattere un regime sermi-feudale. O contro la pulizia etnica che si sta effettuando in Sudan, che dura da oltre mezzo secolo e che ha provocato oltre mezzo milione di vittime e cinque milioni di profughi; o contro quello che è accaduto in Cecenia, che ancora accade in Nigeria, in Birmania, in Medio oriente, lo sterminio degli Yazidi e dei Curdi, e potrei continuare per un’ora. Non si tratta di uscirne con la scappatoia del famigerato “benaltrismo”, ma al contrario di mantenere nei confronti dell’umanità intera lo stesso calore, di esprimere la stessa solidarietà. Invece la giustificazione dietro la quale si trincera questa freddezza è che certe vicende ci toccano meno, che rimaniamo indifferenti perché si tratta di situazioni lontane. E sarebbe già grave così, ma la verità è che i motivi sono molto più meschini.

Possiamo riscontrarlo anche nella vicenda ucraina. Ogni volta che si cerca di partire dall’unico dato di fatto inoppugnabile, e cioè che esistono un aggressore e un aggredito, scatta il meccanismo pavloviano delle obiezioni: le provocazioni della Nato, il presunto nazismo degli ucraini, la corruzione dilagante nel paese, ecc. Un meccanismo che applicato alla seconda guerra mondiale vedrebbe nei polacchi, rei di avere rioccupato nel precedente dopoguerra le terre che erano state loro sottratte un secolo prima con due successive spartizioni, i veri responsabili dello scoppio del conflitto e dell’aggressione nazista. Che l’Ucraina sia un paese corrotto (ma ne esiste uno che non lo sia?), che abbia fornito quattro divisioni alle SS durante l’ultimo conflitto (ma forse in questo c’entrano un po’ l’Holodomor, il grande terrore del ‘37/’38 e il genocidio dei Tartari di Crimea del ‘44), tutto questo lo so anch’io: ma mi trovo a discutere con gente che i precedenti non li conosce o non vuole prenderli in considerazione, e accusa l’Occidente di fare propaganda attraverso la falsificazione della storia, mentre dà credito all’offensiva di disinformazione intrapresa dalla Russia putiniana, senz’altro più subdola, più agguerrita e senza dubbio meno contrastata e denunciata dall’interno.

Ora, quando esponi le tue perplessità, i tuoi dubbi, le tue contrarietà, ti viene immediatamente ribattuto che dall’altra parte, diciamo da una generica “destra”, che ormai non ha più una connotazione politica e men che mai ideologica, ma comprende un’ampia maggioranza trasversale ai partiti, ai credi e alle classi, la manipolazione della storia e l’uso propagandistico della sua falsificazione sono da sempre lo strumento principe per la conquista o la conservazione del potere. E fin qui ci arrivo anch’io. Ma questo implica che ci si debba adeguare, prendendo per vero tutto ciò che arriva dalla nostra (quale?) parte e dubitando a prescindere di tutto ciò che arriva dagli “altri”? Al contrario: il fatto è che non dobbiamo competere coi nostri antagonisti su un terreno che loro hanno scelto, dove peraltro non toccheremmo palla, ma soprattutto l’adeguarsi a certe modalità rappresenterebbe una sconfitta in partenza. La vera vittoria sta semmai nel non porsi sullo stesso piano, nel tenere un atteggiamento che ci distingua. Che non significa “fare gli strani” o percepirsi élite, ma esigere da noi stessi innanzitutto, e poi dagli altri, una conoscenza conseguita col sudore dei nostri neuroni e un’onestà intellettuale che vale ben più dell’oro, anche se oggi è molto meno quotata.

Questi atteggiamenti li ritrovo però in merito a un sacco di altri temi, da quello del cambiamento climatico a quello dei vaccini, sino a quelli solo apparentemente meno urgenti dell’analfabetismo globale di ritorno o della interpretazione distorta dei diritti: ed è difficile di fronte a certi arroccamenti fondamentalisti evitare la resa, o non cadere a propria volta nella partigianeria. Ciò che mi riporta alla sensazione che avevo espresso all’inizio di questo scritto.

Insomma. Non presumo di avere in mano argomenti validi per suffragare ogni mia convinzione (perché immagino sia chiaro che le mie posizioni le ho – e anche i miei pregiudizi: ma almeno li riconosco e li dichiaro subito, e in questo modo li ripongo in un cassetto); vorrei solo poterne discutere con lucidità, con la massima obiettività possibile e senza condizionamenti emotivi: e magari rivederle, o addirittura, se mi si convince del contrario, prenderne le distanze. Non mi capita spesso, purtroppo. E il rischio è di arrivare a chiedersi se davvero ne vale ancora la pena, se le quattro ore che ho impiegato a scrivere questo pezzo o i dieci minuti che occorrono per leggerlo non siano buttati. Ma per rispondermi subito dopo che è la mia natura “ordinatrice” a impormelo, e che persino mia madre, per una volta, sarebbe d’accordo.

Allora ho deciso. Visto che il mio laboratorio mentale è ancora sottosopra, tornerò a riordinarlo. Nel frattempo però non ci voglio intrusi poco rispettosi. Per entrare, da domani, si bussa, si lasciano fuori le calzature pregiudiziali e si usano le pattine.

Ariette 27.0: Quel che non ha rimedio

di Maurizio Castellaro, 19 ottobre 2025 [1]

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

Sempre più spesso di fronte alle notizie dalla Palestina ripenso alla Shoah e alla nascita di Israele come tentativo dell’Occidente di un risarcimento impossibile, come speranza di purificazione di una ferita aperta, ancora e per sempre. L’inconcepibilità di Auschwitz si rovescia nell’inconcepibilità di un Israele terra promessa inventata, legittimata dalla forza, che afferma l’insostenibilità del suo esistere aprendo ferite inguaribili attorno a sé e dentro di sé. Il veleno che ancora oggi intossica le nostre vite e i nostri pensieri è stato prodotto nelle camere a gas dei lager nazisti, ed è sempre attivo. Ne bastano poche gocce per inquinare per sempre i mari delle buone intenzioni.


[1] L’immagine d’apertura è di Anselm Kiefer, “Angeli caduti”.

Nuovi record e antiche paure

di Paolo Repetto, 2 agosto 2025

“Debito pubblico italiano, nuovo record ad aprile, sfondati i 3.063 miliardi di euro”
Italia da record: nel 2025 la spesa dei visitatori stranieri supererà i 60 mld di euro
Duplantis salta 6.28: nuovo record del mondo nell’asta

I record sono fatti per essere battuti, ma ultimamente ciò avviene tanto spesso che non abbiamo nemmeno più il tempo (e la voglia) di realizzare quando siano tali. Ci sono quelli climatici (ogni nuovo giugno è il più caldo dal Big Bang, ogni acquazzone porta tanta pioggia quanta era solita caderne fino a ieri in un anno), quelli finanziari (ogni novità nell’ambiente digitale crea nuovi stuoli di paperoni, ogni rutto di Trump fa crollare o decollare la borsa, l’una e l’altra cosa aumentano esponenzialmente la forbice tra i più ricchi e gli altri otto miliardi), quelli della belligeranza (sono in atto in questo momento nel mondo cinquantasei conflitti “dichiarati”, più tutti quelli “sotterranei)”, quelli sportivi, quelli dei compensi per calciatori e attori e cantanti e “consulenti” delle amministrazioni regionali, quelli della crescita demografica, ecc… Restano al palo solo le vendite di auto elettriche e di libri, mentre calano gli incassi al botteghino (in testa è ancora Via col vento), ma è facile spiegarsi il perché. Insomma, la tendenza è ad andare sempre oltre, e sempre più velocemente. In positivo, a volte: più spesso in negativo.

I record più sensazionali riguardano infatti indubbiamente la stupidità, la creduloneria, l’ignoranza voluta e compiaciuta, il risentimento generalizzato (e più ancora quello specifico) e urlato. E non è nemmeno necessario accendere la televisione e assistere a un talk o a un telegiornale per rendersene conto.

Sono reduce da un’allucinante discussione, bruscamente troncata, nella quale persone della mia età, apparentemente normali e di media cultura, con le quali mi ero già più volte intrattenuto a scherzare e a fare gossip sotto i tigli del viale, sono arrivate ad affermare che Hitler aveva ragione a voler sterminare gli Ebrei, visto quanto sta accadendo in Palestina. È venuto a galla un livello di odio antiebraico, in gente che un ebreo non l’ha mai conosciuto, che mi ha lasciato sconvolto, perché ne ho realizzato l’effettiva diffusione: ma non mi ha affatto sorpreso. E ho capito anche quanto fosse inutile cercare di mantenere il discorso su un piano razionale, e provare a spiegare sia il mio rapporto con l’ebraismo in genere che quello con Israele.

Riprovo adesso, a freddo, a spiegarlo a me stesso, partendo da una dichiarazione di Edith Bruck, testimone della shoah ungherese. La Bruck ha scritto recentemente: “Netanyahu sta provocando uno tsunami di antisemitismo, perché tutti identificano gli ebrei con il governo israeliano”. Il che è assolutamente condivisibile, ma è vero solo in parte. Perché sappiamo tutti che l’antisemitismo non ha atteso Netanyahu per riesplodere: era già lì, covava sotto le ceneri dei forni di Auschwitz, ha allignato clandestino per qualche decennio, sbandierato solo dai neonazisti più feroci, perché l’ombra sia pur sempre più pallida dello sterminio consigliava agli altri prudenza e un po’ di ritegno: ma era ben vivo e condiviso e non attendeva altro che l’occasione per uscire allo scoperto. Aveva alle spalle secoli, millenni addirittura, di strumentale istigazione, fomentato di volta in volta, o di concerto, dai monoteismi rivali, dalle autocrazie traballanti, dagli interessi economici concorrenziali e persino dalle ideologie teoricamente più libertarie e rivoluzionarie. Oggi infatti è diffuso, neanche tanto paradossalmente, soprattutto nelle sinistre, e non solo in quelle che dopo aver fatto tutto il giro hanno finito per confondersi e sovrapporsi alle destre.

Ora, non è possibile che questa cosa la percepissi solo io, che ne scrivo da sempre (vedi Chi ha paura dell’ebreo cattivo, oppure Una scrittura antisemita rosa pallido), da ben prima dell’esplosione della vicenda di Gaza. E tutto sommato non è nemmeno necessario andare a scandagliare ragioni remote o pretesti recenti per spiegare il fenomeno: al di là di tutte le motivazioni contingenti c’è un’ignoranza gretta e risentita, la vigliaccheria di fondo di chi ha sempre avuto bisogno di capri espiatori su cui scaricare la responsabilità dei propri disagi, delle proprie insoddisfazioni, dei propri fallimenti.

Questa atmosfera la percepivano infatti nettamente anche gli ebrei, in tutto il mondo, al di là delle inutili giornate della memoria e dei sacrari dell’olocausto diffusi in mezza Europa, o della solidarietà ambigua e pelosa espressa di fronte ad ogni sua manifestazione da politici e intellettuali. “Ci odieranno sempre, ovunque e comunque – mi disse una volta un amico ebreo –; dobbiamo prenderne atto, e metterci semmai in condizione di non lasciar ripetere quello che è successo già troppe volte”. Ora ne hanno la riprova, e questo spiega anche il progressivo silenzio, la cautela nei giudizi degli oppositori storici di Netanyahu in Israele, dei Grossman, per capirci, di Gavron, di Zeruya Shalev, di Harari (un silenzio relativo, comunque: questi ed altri 300 scrittori, artisti e scienziati israeliani hanno sottoscritto ancora due mesi fa un appello per la cessazione della guerra). Hanno realizzato che delle loro lotte per la pace, per i diritti civili estesi a tutti, per il rispetto dei principi fondativi dello stato di Israele, non frega niente a nessuno: che in quanto ebrei e tanto più in quanto israeliani sono considerati a prescindere meritevoli di sterminio: e che nessuna garanzia internazionale varrà mai a proteggerli, come dimostrato da quanto accaduto nel corso del secondo conflitto mondiale, quando tutti sapevano, dagli angloamericani al Vaticano e alle popolazioni europee, quella tedesca in primis, e nessuno fiatava.

Sia chiaro, non sto affatto esagerando la dimensione del fenomeno: anche prima dell’attuale recrudescenza solo uno sprovveduto o un ipocrita potevano fingere di non accorgersi del sottile fastidio che di norma l’argomento induceva. Il fastidio era indotto certamente anche dallo “sfruttamento” a fini politici della Shoah da parte di Israele (che peraltro per un paio di decenni l’aveva volutamente “oscurata”), o dagli eccessi del bombardamento mediatico nelle occasioni anniversarie: ma germogliava su un terreno già abbondantemente concimato.

Dicevo che questo pericolo gli ebrei l’hanno sempre avvertito. Lo hanno anche visto tragicamente inverarsi, in ripetuti cruentissimi pogrom, e proprio su esso hanno fatto leva Netanyahu e le destre ultraortodosse israeliane per prendere il potere prima e per portare avanti poi una politica criminale di discriminazione interna e di colonizzazione dell’intera area palestinese. In realtà costoro non hanno inventato nulla, la colonizzazione e la discriminazione erano già presenti nei piani della destra israeliana prima di Netanyahu, seppure non in maniera così conclamata: ma c’erano anche forti resistenze, si erano create occasioni di marcia indietro, e comunque, al di là di tutto, questo riguarda le dinamiche di Israele come stato, non degli ebrei come popolo. Quanto sta accadendo è invece la voluta confusione delle due situazioni.

Cerco di essere ancora più chiaro. Personalmente penso che Netanyahu e gli ultraortodossi stiano portando il paese in un baratro, abbiano bruciato le già scarse simpatie di cui Israele godeva (non vanno confuse le simpatie con le convenienze strategiche ed economiche) e stiano sciaguratamente offrendo al mondo intero la pezza giustificativa per un futuro disinteresse riguardo la sua sorte. Si potrà così sempre dire che “se la sono voluta”. Ma se non giustifico in alcuna misura l’efferato massacro in corso, credo però che un atteggiamento tanto feroce non possa essere spiegato solo come una arrogante esibizione muscolare, dettata da una capovolta presunzione razzista o da una spietata volontà di potenza, O peggio ancora liquidato come la strategia diversiva di chi ha potere per non perderlo: a dettarlo c’è innanzitutto la paura, quella di cui parlavo sopra, che è ormai entrata nel dna ebraico, e che non è affatto immotivata.

A questo punto però vado anche oltre. Nel corso della discussione mi è stato neanche tanto velatamente rinfacciato di fare della mia conoscenza storica un pulpito dal quale pontificare. Un rapido ma sincero esame di coscienza mi assolve: mi sono limitato ad affermare che la confusione di cui sopra non è giustificata, e che quanto Netanyahu sta facendo non è affatto condiviso dagli ebrei sparsi in tutto il mondo. Non ho sciorinato riferimenti storici, non ho millantato alcun superiore sapere. Eppure “La storia la conosciamo anche noi”, mi è stato opposto, “e la storia dice che ovunque gli ebrei si sono comportati allo stesso modo, è la loro natura [sottinteso: malvagia]”. E già questo la dice lunga. Mi fa pensare che tra le presunte fonti storiche accampate ci siano anche i Protocolli dei savi di Sion: ma forse non è neppure il caso di concedere un credito eccessivo, gente simile non ne ha bisogno, il baco è già nella loro testa, il virus scorreva già nel loro sangue. La veemenza e l’astio con cui queste cose sono state dette mi hanno chiarito che non di solo antisemitismo si tratta: a quel punto il capro ero diventato io, reo di avere studiato (non hanno potuto insinuare “anziché lavorare”, perché sanno benissimo che sin da ragazzo ho lavorato, anche manualmente, più di ciascuno di loro): ho studiato, guarda caso proprio come sono tenuti a fare tutti gli ebrei, e questo mi accomuna all’oggetto del loro risentimento. Se Internet ha dato la parola agli imbecilli, Gaza sta aprendo praterie agli ignoranti, ai frustrati e ai rancorosi. Dato che sia i primi che i secondi sono legioni, c’è poco da stare allegri.

La cosa ancor più grave però è che nessun altro dei coinvolti nella discussione ha controbattuto quelle esternazioni demenziali: non dico che le condividessero, ma non hanno manifestato alcuna significativa reazione: forse erano più sbalorditi di me, forse non hanno ritenuto valesse la pena rispondere a tanta proterva stupidità. Spero solo sia così, perché se non lo fosse dovrei starmene tappato in casa a piangere per il resto dell’estate.

E invece, forse è giusto mettere al bando ogni ipocrita condiscendenza e ribaltare la prospettiva. So benissimo che abbassarsi a discutere a questi livelli non porta a niente, anzi, è controproducente. Ma ciò non significa che ci si debba sempre ridurre a tacere, o a fare professione di antifascismo davanti a fascisti di fatto o di pacifismo davanti ad aspiranti aguzzini. In fondo, è questo l’atteggiamento davvero discriminatorio: se uno è un idiota, se è un ignorante e un frustrato, ha tutto il diritto di sentirselo dire. Si incanaglirà ancor più, dubito che una qualche consapevolezza possa sfiorarlo: ma almeno io saprò di aver fatto il mio dovere, di aver opposto un minimo di resistenza all’imbarbarimento.

Forse però sto rischiando anch’io: forse dietro il mio disgusto si sta insinuando la paura, perché venendo via mi sorprendo a pensare: se fossi in Israele, con gente del genere come mi comporterei?

L’estate del nostro scontento

Ebdomadario (presentazione 2.0)

di Paolo Repetto, 2 agosto 2025

Un tempo applicavo il motto che Plinio (il vecchio) attribuisce ad Apelle, Nulla dies sine linea. Non mi illudevo di acquisire con l’esercizio quel talento scrittorio che la natura non mi aveva prodigato, volevo solo tenere viva una passione che mi era stata trasmessa, quella sì, da mia madre e dalla maestra delle elementari. Interpretavo dunque la “linea” come una riga o addirittura una pagina di scrittura e affidavo quest’ultima a un diario quotidiano. Anziché una scelta di metodo, come lo era ad esempio per Simenon, che scriveva tutti i santissimi giorni per cinque o sei ore, e si considerava un “artigiano della scrittura”, nel mio caso era un modo per non considerare persa l’intera giornata.

Era diventata un’abitudine, l’ultimo gesto prima di dormire, così come la sigaretta era il primo al risveglio. Mi forzavo a buttar giù qualcosa, fosse anche solo un pensiero, la cronaca telegrafica del giorno, una citazione o un’annotazione su un libro appena letto. Dovevo vincere la pigrizia mentale e spesso la fatica di una giornata intensa di lavori in campagna, ma alla fine anziché uno sforzo era diventato un bisogno.

Poi, quasi all’improvviso ho smesso: e me ne rammarico, perché con l’avanzare dell’età la colla che teneva assieme i ricordi è arrivata a scadenza, e il vuoto si fa profondo.

Non voglio ricominciare: i motivi che una volta mi spingevano sono venuti meno, e comunque avrei ben poco da annotare. O anzi, troppo. Tutto procede ad una velocità e in una confusione tali che ciò che oggi ti sconcerta o ti conforta sarà già irrilevante domani. D’altro canto, tenendomi più sul personale rischierei solo di aggiornare una cartella clinica.

A dispetto di ciò, continuo tuttavia ogni tanto ad affidare a fogli volanti o a taccuini sparsi umori e considerazioni, ripromettendomi magari di svilupparli in seguito: cosa che quasi mai avviene. Ho pensato dunque, per non darla vinta alla pigrizia e tenere in vita il sito, di postare alcuni di questi frammenti, lasciandoli come li ritrovo, allo stato di appunti. Per me una piccola flebo di volontà, per qualcuno potrebbero costituire uno stimolo a riflettere, magari ad intervenire. Come avrete già capito, in fondo sono un inguaribile ottimista.

Nuovi record e antiche paure

di Paolo Repetto, 2 agosto 2025

“Debito pubblico italiano, nuovo record ad aprile, sfondati i 3.063 miliardi di euro”
Italia da record: nel 2025 la spesa dei visitatori stranieri supererà i 60 mld di euro
Duplantis salta 6.28: nuovo record del mondo nell’asta

I record sono fatti per essere battuti, ma ultimamente ciò avviene tanto spesso che non abbiamo nemmeno più il tempo (e la voglia) di realizzare quando siano tali. Ci sono quelli climatici (ogni nuovo giugno è il più caldo dal Big Bang, ogni acquazzone porta tanta pioggia quanta era solita caderne fino a ieri in un anno), quelli finanziari (ogni novità nell’ambiente digitale crea nuovi stuoli di paperoni, ogni rutto di Trump fa crollare o decollare la borsa, l’una e l’altra cosa aumentano esponenzialmente la forbice tra i più ricchi e gli altri otto miliardi), quelli della belligeranza (sono in atto in questo momento nel mondo cinquantasei conflitti “dichiarati”, più tutti quelli “sotterranei)”, quelli sportivi, quelli dei compensi per calciatori e attori e cantanti e “consulenti” delle amministrazioni regionali, quelli della crescita demografica, ecc… Restano al palo solo le vendite di auto elettriche e di libri, mentre calano gli incassi al botteghino (in testa è ancora Via col vento), ma è facile spiegarsi il perché. Insomma, la tendenza è ad andare sempre oltre, e sempre più velocemente. In positivo, a volte: più spesso in negativo.

I record più sensazionali riguardano infatti indubbiamente la stupidità, la creduloneria, l’ignoranza voluta e compiaciuta, il risentimento generalizzato (e più ancora quello specifico) e urlato. E non è nemmeno necessario accendere la televisione e assistere a un talk o a un telegiornale per rendersene conto.

Sono reduce da un’allucinante discussione, bruscamente troncata, nella quale persone della mia età, apparentemente normali e di media cultura, con le quali mi ero già più volte intrattenuto a scherzare e a fare gossip sotto i tigli del viale, sono arrivate ad affermare che Hitler aveva ragione a voler sterminare gli Ebrei, visto quanto sta accadendo in Palestina. È venuto a galla un livello di odio antiebraico, in gente che un ebreo non l’ha mai conosciuto, che mi ha lasciato sconvolto, perché ne ho realizzato l’effettiva diffusione: ma non mi ha affatto sorpreso. E ho capito anche quanto fosse inutile cercare di mantenere il discorso su un piano razionale, e provare a spiegare sia il mio rapporto con l’ebraismo in genere che quello con Israele.

Riprovo adesso, a freddo, a spiegarlo a me stesso, partendo da una dichiarazione di Edith Bruck, testimone della shoah ungherese. La Bruck ha scritto recentemente: “Netanyahu sta provocando uno tsunami di antisemitismo, perché tutti identificano gli ebrei con il governo israeliano”. Il che è assolutamente condivisibile, ma è vero solo in parte. Perché sappiamo tutti che l’antisemitismo non ha atteso Netanyahu per riesplodere: era già lì, covava sotto le ceneri dei forni di Auschwitz, ha allignato clandestino per qualche decennio, sbandierato solo dai neonazisti più feroci, perché l’ombra sia pur sempre più pallida dello sterminio consigliava agli altri prudenza e un po’ di ritegno: ma era ben vivo e condiviso e non attendeva altro che l’occasione per uscire allo scoperto. Aveva alle spalle secoli, millenni addirittura, di strumentale istigazione, fomentato di volta in volta, o di concerto, dai monoteismi rivali, dalle autocrazie traballanti, dagli interessi economici concorrenziali e persino dalle ideologie teoricamente più libertarie e rivoluzionarie. Oggi infatti è diffuso, neanche tanto paradossalmente, soprattutto nelle sinistre, e non solo in quelle che dopo aver fatto tutto il giro hanno finito per confondersi e sovrapporsi alle destre.

Ora, non è possibile che questa cosa la percepissi solo io, che ne scrivo da sempre (vedi Chi ha paura dell’ebreo cattivo, oppure Una scrittura antisemita rosa pallido), da ben prima dell’esplosione della vicenda di Gaza. E tutto sommato non è nemmeno necessario andare a scandagliare ragioni remote o pretesti recenti per spiegare il fenomeno: al di là di tutte le motivazioni contingenti c’è un’ignoranza gretta e risentita, la vigliaccheria di fondo di chi ha sempre avuto bisogno di capri espiatori su cui scaricare la responsabilità dei propri disagi, delle proprie insoddisfazioni, dei propri fallimenti.

Questa atmosfera la percepivano infatti nettamente anche gli ebrei, in tutto il mondo, al di là delle inutili giornate della memoria e dei sacrari dell’olocausto diffusi in mezza Europa, o della solidarietà ambigua e pelosa espressa di fronte ad ogni sua manifestazione da politici e intellettuali. “Ci odieranno sempre, ovunque e comunque – mi disse una volta un amico ebreo –; dobbiamo prenderne atto, e metterci semmai in condizione di non lasciar ripetere quello che è successo già troppe volte”. Ora ne hanno la riprova, e questo spiega anche il progressivo silenzio, la cautela nei giudizi degli oppositori storici di Netanyahu in Israele, dei Grossman, per capirci, di Gavron, di Zeruya Shalev, di Harari (un silenzio relativo, comunque: questi ed altri 300 scrittori, artisti e scienziati israeliani hanno sottoscritto ancora due mesi fa un appello per la cessazione della guerra). Hanno realizzato che delle loro lotte per la pace, per i diritti civili estesi a tutti, per il rispetto dei principi fondativi dello stato di Israele, non frega niente a nessuno: che in quanto ebrei e tanto più in quanto israeliani sono considerati a prescindere meritevoli di sterminio: e che nessuna garanzia internazionale varrà mai a proteggerli, come dimostrato da quanto accaduto nel corso del secondo conflitto mondiale, quando tutti sapevano, dagli angloamericani al Vaticano e alle popolazioni europee, quella tedesca in primis, e nessuno fiatava.

Sia chiaro, non sto affatto esagerando la dimensione del fenomeno: anche prima dell’attuale recrudescenza solo uno sprovveduto o un ipocrita potevano fingere di non accorgersi del sottile fastidio che di norma l’argomento induceva. Il fastidio era indotto certamente anche dallo “sfruttamento” a fini politici della Shoah da parte di Israele (che peraltro per un paio di decenni l’aveva volutamente “oscurata”), o dagli eccessi del bombardamento mediatico nelle occasioni anniversarie: ma germogliava su un terreno già abbondantemente concimato.

Dicevo che questo pericolo gli ebrei l’hanno sempre avvertito. Lo hanno anche visto tragicamente inverarsi, in ripetuti cruentissimi pogrom, e proprio su esso hanno fatto leva Netanyahu e le destre ultraortodosse israeliane per prendere il potere prima e per portare avanti poi una politica criminale di discriminazione interna e di colonizzazione dell’intera area palestinese. In realtà costoro non hanno inventato nulla, la colonizzazione e la discriminazione erano già presenti nei piani della destra israeliana prima di Netanyahu, seppure non in maniera così conclamata: ma c’erano anche forti resistenze, si erano create occasioni di marcia indietro, e comunque, al di là di tutto, questo riguarda le dinamiche di Israele come stato, non degli ebrei come popolo. Quanto sta accadendo è invece la voluta confusione delle due situazioni.

Cerco di essere ancora più chiaro. Personalmente penso che Netanyahu e gli ultraortodossi stiano portando il paese in un baratro, abbiano bruciato le già scarse simpatie di cui Israele godeva (non vanno confuse le simpatie con le convenienze strategiche ed economiche) e stiano sciaguratamente offrendo al mondo intero la pezza giustificativa per un futuro disinteresse riguardo la sua sorte. Si potrà così sempre dire che “se la sono voluta”. Ma se non giustifico in alcuna misura l’efferato massacro in corso, credo però che un atteggiamento tanto feroce non possa essere spiegato solo come una arrogante esibizione muscolare, dettata da una capovolta presunzione razzista o da una spietata volontà di potenza, O peggio ancora liquidato come la strategia diversiva di chi ha potere per non perderlo: a dettarlo c’è innanzitutto la paura, quella di cui parlavo sopra, che è ormai entrata nel dna ebraico, e che non è affatto immotivata.

A questo punto però vado anche oltre. Nel corso della discussione mi è stato neanche tanto velatamente rinfacciato di fare della mia conoscenza storica un pulpito dal quale pontificare. Un rapido ma sincero esame di coscienza mi assolve: mi sono limitato ad affermare che la confusione di cui sopra non è giustificata, e che quanto Netanyahu sta facendo non è affatto condiviso dagli ebrei sparsi in tutto il mondo. Non ho sciorinato riferimenti storici, non ho millantato alcun superiore sapere. Eppure “La storia la conosciamo anche noi”, mi è stato opposto, “e la storia dice che ovunque gli ebrei si sono comportati allo stesso modo, è la loro natura [sottinteso: malvagia]”. E già questo la dice lunga. Mi fa pensare che tra le presunte fonti storiche accampate ci siano anche i Protocolli dei savi di Sion: ma forse non è neppure il caso di concedere un credito eccessivo, gente simile non ne ha bisogno, il baco è già nella loro testa, il virus scorreva già nel loro sangue. La veemenza e l’astio con cui queste cose sono state dette mi hanno chiarito che non di solo antisemitismo si tratta: a quel punto il capro ero diventato io, reo di avere studiato (non hanno potuto insinuare “anziché lavorare”, perché sanno benissimo che sin da ragazzo ho lavorato, anche manualmente, più di ciascuno di loro): ho studiato, guarda caso proprio come sono tenuti a fare tutti gli ebrei, e questo mi accomuna all’oggetto del loro risentimento. Se Internet ha dato la parola agli imbecilli, Gaza sta aprendo praterie agli ignoranti, ai frustrati e ai rancorosi. Dato che sia i primi che i secondi sono legioni, c’è poco da stare allegri.

La cosa ancor più grave però è che nessun altro dei coinvolti nella discussione ha controbattuto quelle esternazioni demenziali: non dico che le condividessero, ma non hanno manifestato alcuna significativa reazione: forse erano più sbalorditi di me, forse non hanno ritenuto valesse la pena rispondere a tanta proterva stupidità. Spero solo sia così, perché se non lo fosse dovrei starmene tappato in casa a piangere per il resto dell’estate.

E invece, forse è giusto mettere al bando ogni ipocrita condiscendenza e ribaltare la prospettiva. So benissimo che abbassarsi a discutere a questi livelli non porta a niente, anzi, è controproducente. Ma ciò non significa che ci si debba sempre ridurre a tacere, o a fare professione di antifascismo davanti a fascisti di fatto o di pacifismo davanti ad aspiranti aguzzini. In fondo, è questo l’atteggiamento davvero discriminatorio: se uno è un idiota, se è un ignorante e un frustrato, ha tutto il diritto di sentirselo dire. Si incanaglirà ancor più, dubito che una qualche consapevolezza possa sfiorarlo: ma almeno io saprò di aver fatto il mio dovere, di aver opposto un minimo di resistenza all’imbarbarimento.

Forse però sto rischiando anch’io: forse dietro il mio disgusto si sta insinuando la paura, perché venendo via mi sorprendo a pensare: se fossi in Israele, con gente del genere come mi comporterei?

Le elezioni americane e noi

di Giuseppe Rinaldi, 18 novembre 2024

Pubblichiamo la tempestiva riflessione di Beppe Rinaldi sull’esito delle presidenziali americane, col consenso dell’autore e per gentile concessione del blog “Città futura”, dove questo breve saggio è già comparso. Inutile dire che un’analisi così puntuale ed esauriente non l’avevamo ascoltata in alcuna trasmissione televisiva o letta su alcun quotidiano. Di Trump si è parlato sin troppo, ma Rinaldi si è concentrato giustamente, con la lucidità impietosa che già abbiamo imparato a conoscere dagli altri suoi scritti postati nel sito dei Viandanti, sull’ “… e noi”, allargando lo sguardo ben oltre la specifica contingenza delle elezioni americane. L’invito che rivolgiamo ora ai quattro gatti che ci seguono è di farsi vivi con eventuali osservazioni, obiezioni o proposte alternative di lettura della vicenda. Questo non servirà a rendere meno drammatica la situazione che ci apprestiamo a vivere (e che in realtà stiamo già vivendo da un pezzo), ma almeno ci aiuterà a rimanere un po’ più svegli.

1. Le recenti elezioni[1] americane del 5 novembre 2024 – che hanno determinato la vittoria del repubblicano Donald Trump sulla concorrente democratica Kamala Harris – meritano qualche riflessione, poiché costituiscono senz’altro un evento rivelatore, non soltanto della situazione politico sociale degli USA ma anche delle prospettive della democrazia in Occidente e nel resto del mondo. Si tratta dunque di un evento che ci riguarda da vicino, ben più di quanto non sembri.

2. Personalmente, ammetto di avere sbagliato le previsioni. Sapevo bene come Trump fosse un candidato forte e pericoloso. Sapevo anche bene come la Harris fosse un candidato piuttosto debole, sia per la prestazione scarsa svolta come vice presidente, sia per l’avventurosa e sciagurata scelta dei Democratici di candidare prima Biden e poi di cambiare il candidato in corsa. La Harris non ha così avuto la possibilità di sfruttare il lungo processo delle primarie per farsi conoscere dagli elettori e mettere a punto il suo programma.

Tuttavia mi aspettavo, da parte degli elettori americani, una qualche reazione nei confronti di Trump, peraltro già visto all’opera, sempre più impresentabile, con la sua sfilza di denunce e condanne, con la questione giudiziaria pendente per l’assalto al Campidoglio da parte dei suoi seguaci. E con il suo atteggiamento nei confronti delle donne, con le sue spacconate da showman. Perciò mi aspettavo una vittoria di stretta misura da parte della Harris. Una vittoria che avrebbe potuto derivare da una specie di fronte di resistenza civile della parte migliore del Paese contro un candidato manifestamente pericoloso per i fondamenti stessi della democrazia americana. Mi aspettavo perciò anche un passaggio di consegne travagliato e lunghe contestazioni, magari su poche migliaia di voti. In altri termini, pensavo che il Paese dalla democrazia più vecchia del mondo avrebbe alla fine mostrato un residuo minimo di cultura civica democratica e sarebbe stato capace di reagire contro una minaccia così grave. Mi sbagliavo.

La vittoria di Trump è invece risultata netta e inequivocabile, non solo nella conquista dei delegati ma anche nel voto popolare. Trump ha ora in mano il Paese, avendo la Presidenza, avendo la maggioranza delle due Camere, avendo la Corte dalla sua parte. Avendo dalla sua oltretutto uno spoils system che produrrà un ricambio totale dei piani alti dell’Amministrazione. A questo quadro va aggiunta la presenza inquietante di Elon Musk, cui a quanto pare sarà conferito il compito di “alleggerire” lo Stato. Ci dobbiamo rassegnare: dell’America di Roosevelt non c’è neppure più l’ombra.

3. Certo, è stato da più parti sottolineato come gli avversari di Trump, i Democratici, guidati da una ristretta oligarchia di personaggi del tutto privi ormai di visione e di programmi, abbiano compiuto una serie incredibile di errori, consapevoli o meno che ne fossero. I Democratici avevano addirittura visto di buon occhio la candidatura di Trump nel campo repubblicano, con la convinzione di poterlo battere facilmente. Tuttavia, invocare come spiegazione della sconfitta le colpe dei Democratici sarebbe estremamente riduttivo. Al di là degli errori e delle carenze dei Democrats, evidentemente il sistema politico americano, nel suo complesso, non possiede più, al proprio interno, alcun antidoto efficace nei confronti delle tendenze anti-democratiche. I Repubblicani, dal canto loro, come partito tradizionale sono spariti, fagocitati dal movimento di Trump, il MAGA, (Make America Great Again!).

4. La cosa più preoccupante è che qui non siamo soltanto di fronte al caso americano. Non siamo soltanto di fronte ai limiti del sistema americano. Siamo evidentemente di fronte a un limite stesso dei sistemi democratici attuali, per lo meno in Occidente, che hanno mostrato di essere incapaci di reagire adeguatamente quando messi di fronte allo stile maturo del nuovo populismo. Il problema non è nuovo. Nel nostro Paese abbiamo ampiamente sperimentato il berlusconismo che aveva molti punti in comune con il Trump odierno e che addirittura, per molti aspetti, ha rappresentato una perfetta anticipazione del trumpismo. Dobbiamo costatare ormai che, in Occidente, le forme degenerate di democrazia (cui sono applicati nomi spesso fantasiosi, come democrazie autoritarie, democrature, sovranismi, democrazie del leader) sono sempre più diffuse, seppure con numerose varianti. E che si relazionano sempre più strettamente con le numerose altre democrazie border line ormai presenti in ogni angolo del Pianeta. Con queste ultime elezioni americane, la linea di tendenza è divenuta chiara.

Le elezioni americane e noi 02

5. Se guardiamo questi esperimenti antidemocratici solo dal punto di vista del leader, dobbiamo rassegnarci a caratterizzarli col nome stesso dei leader, poiché ciascuno possiede caratteristiche proprie: trumpismo, berlusconismo, orbanismo, putinismo, erdoganismo, melonismo, mileismo (dall’argentino Javier Milei), bolsonarismo e così via. Possiamo metterci anche il lepenismo che non ha ancora governato in Francia ma che, probabilmente, vedremo all’opera ben presto. Ognuno ha il suo stile. Ognuno la sua storia. Ognuno i suoi caratteri idiosincratici. Ciò impedisce all’osservatore di identificare eventualmente i loro tratti comuni e impedisce di cogliere la questione di fondo: come è possibile che costoro siano democraticamente eletti, in un quadro di democrazia formale e poi, nella loro azione di governo, si esibiscano in provvedimenti anti istituzionali e anti democratici. Detto in altri termini, com’è possibile che le democrazie, invece di progredire e di maturare emendando i propri difetti, tendano oggi a scadere in circoli viziosi che danneggiano e indeboliscono sempre più le democrazie stesse. Spesso questi leader, nonostante il loro pessimo rendimento politico, sono felicemente rieletti, proprio com’è accaduto nel caso di Trump, di Berlusconi di Orban e di altri ancora.

6. Si tratta allora di cambiare il punto di vista. Si tratta di domandarsi com’è possibile che i cittadini elettori, in società ove sia presente un livello accettabile di democrazia formale, finiscano per eleggere, talvolta con maggioranze notevoli, dei personaggi che si atteggiano a leader popolari ma che nel contempo operano per distruggere le stesse fondamenta della democrazia. Il sospetto ormai è che non si tratti più di semplici errori dei cittadini elettori, dovuti ad astensione, distrazione, cattiva informazione, propaganda, creduloneria. Si tratta di prendere atto definitivamente dell’efficacia dello stile populista e, soprattutto, della più totale incapacità di reagire a questo stile da parte dei difensori della democrazia[2]. Del resto non si tratta di fatti rari o del tutto nuovi: è noto che alcune delle peggiori dittature del XX secolo hanno visto l’elezione degli stessi dittatori da parte del popolo e/o dei suoi rappresentanti. Non è il caso tuttavia di usare il solito appellativo di fascismo o totalitarismo nei confronti di questi nuovi populismi. Si finirebbe per non capire un bel niente. Proviamo allora a circoscrivere il problema: occupiamoci degli ultimi decenni e occupiamoci delle tendenze antidemocratiche che in vario modo hanno preso piede in molte delle democrazie, anche quelle di più antica e nobile origine. Con l’ipotesi che l’odierno Trump sia solo l’ultimo caso in ordine di tempo. Altri ne verranno.

7. Siamo in presenza, dunque, di trasformazioni regressive della democrazia che avvengono attraverso competizioni elettorali che possono anche essere formalmente regolari, sebbene siano sempre possibili anche brogli, forzature e simili. Perché si arrivi agli esiti delle maggioranze populiste che ci interessano, occorre una qualche forma di polarizzazione, con il conseguimento di una maggioranza che si contrappone a tutti, in nome del popolo. La retorica populista, con al centro il leader, tenderà ad avallare l’idea che la maggioranza costituita rappresenti l’intero popolo e che la volontà dell’intero popolo sia impersonata nel leader e nella sua cerchia. Non importa più di tanto se il movimento populista è orientato a destra o a sinistra. Il M5S in Italia ha ben rappresentato un populismo di sinistra, ma lo stile anti istituzionale era lo stesso. Le democrazie sono per loro natura pluralistiche. Ogni forma di polarizzazione dunque tende già di per sé a indebolire il pluralismo. Quando poi uno dei poli pretende di costituire la totalità siamo palesemente su una strada regressiva.

Le elezioni americane e noi 03

8. Che cosa rappresentano effettivamente queste maggioranze populiste incarnate nel leader? La risposta tradizionale è che rappresentino degli interessi di tipo economico sociale. In genere si fa riferimento alle classi sociali coinvolte, che di volta in volta si ritiene di poter individuare e descrivere: operai, contadini, ceto medio, alta finanza, borghesia, militari, disoccupati, precari e così via. A volte si usano appellativi più fantasiosi: gli esclusi, gli emarginati, i danneggiati dalla globalizzazione, i dimenticati, i ceti medi sull’orlo della proletarizzazione, le fasce deboli, “Quelli che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese”. E così via.

Queste analisi potevano andare bene nel primo Novecento. Poi le cose si sono complicate. Il sociologo americano Ronald Inglehart[3] ha posto una linea di distinzione tra le società in cui la maggior parte della popolazione si confronta ancora con problemi di ordine materiale e le società in cui la maggior parte della popolazione gode invece di un relativo benessere e dunque può cominciare ad affrontare problemi di ordine immateriale. A cercare di soddisfare quelli che lui chiamava i bisogni post-materialisti. Così è accaduto che, con la crescita delle società occidentali, i portatori immediati di interessi “materiali” siano diventati via via meno numerosi, più evanescenti, lasciando il posto a una nuova configurazione sociale basata su distinzioni di tipo culturale. Accanto alle tradizionali differenze economiche e sociali, cosiddette di classe, hanno cominciato a comparire e a esser poste in primo piano altre differenze: differenze generazionali, di tipo religioso, di tipo linguistico, di tipo etnico, oppure anche differenze di genere. Si tratta di differenze che potremmo considerare non più di classe, bensì come identitarie. Ebbene sì, il benessere relativo diffuso in Occidente ha permesso a strati sempre più ampi il lusso di occuparsi di questioni identitarie.

9. Ma non basta. Andando ancora oltre, le identità si sono ulteriormente moltiplicate e suddivise secondo rivoli sempre più particolari. Spesso secondo linee di frattura di carattere etico[4]. Abbiamo avuto l’irruzione dei valori: i difensori della vita, i pacifisti, i difensori delle frontiere, i sovranisti, i beneficiari del reddito di cittadinanza o dei bonus, i negatori della crisi climatica e così via. Schierati, ovviamente, contro il nemico opposto: gli abortisti, i bellicisti, gli immigrati, i mantenuti a far nulla o gli sfruttatori delle regalie, gli ecologisti fondamentalisti. Ma poi abbiamo avuto anche – sociologicamente – delle linee di frattura che non rappresentano neppure interessi, identità o valori consapevoli, ma che semplicemente si limitano a registrare differenze in termini di distanza, separazione, repulsione, odio, rancore, stigma. Spesso si coagulano come atteggiamenti taciti che sono sempre in cerca di occasioni per esplicitarsi e scatenarsi. Ad esempio l’omofobia, il rancore verso le élite, l’antipolitica, ossia il rancore verso i politici (“Roma ladrona”), il rancore verso le istituzioni (il “pizzo di Stato”), la xenofobia, e così via. In questo quadro di istigazione e moltiplicazione delle divisioni, possono anche comparire stigmatizzazioni del tutto inventate, come quella trumpiana recente degli “immigrati clandestini che uccidono e mangiano i cani e i gatti dei nativi”. A questi elementi si possono aggiungere anche ulteriori forme di identificazione in termini meramente simbolici, come le curve dello stadio, il machismo, le ideologie estremistiche magari dotate di riferimenti storici nazifascisti. Oppure i movimenti fake nati in rete, come nel caso di QAnon.

10. Tutti questi elementi divisivi, e svariati altri la cui lista è senza fine, costituiscono la materia basilare grazie alla quale viene oggi orchestrata la propaganda populista, con la quale si cerca di unificare, dietro al leader e ai suoi slogan, una maggioranza di seguaci convinti, con la quale si cerca cioè di dare vita a un “popolo”[5]. Il tutto in un intreccio inestricabile che mette insieme rivendicazioni economiche, invidia sociale, supposti diritti violati, rivendicazioni identitarie, paure, rancori, pulsioni violente, rituali simbolici contro gli avversari. Le motivazioni al voto, di cui sono portatori i populisti e che coesistono nel loro “popolo”, possono così intrecciare cose diversissime, come la concorrenza sul mercato del lavoro, l’astio verso gli omosessuali, il costo della vita, la paura di essere aggrediti per strada, l’invidia sociale verso particolari tipi di privilegiati, emarginazione e frustrazioni personali, l’adesione credula a fake news, a narrazioni complottiste, e così via. Vale qui il principio di Thomas: nella vita sociale, ciò che è creduto è reale nelle sue conseguenze. Dal loro punto di vista, si può dire che abbiano tutti ragione. Il populismo, nelle sue narrazioni pigliatutto, cerca di agitare tutte le motivazioni possibili, almeno quelle compatibili tra di loro. E talvolta riesce anche a mettere insieme motivazioni incompatibili (che cioè si rivelano incompatibili solo alla prova dei fatti). Ci si dovrebbe ricordare di quelle tecniche di propaganda sui social media, che adattano il messaggio al profilo di chi lo riceve. Il profilo di ciascun destinatario viene costituito sulla base dei big data raccolti in rete. Steve Bannon era specializzato in lavori simili. Un caso macroscopico dell’uso di queste tecniche, che ha avuto pieno successo, è stato quello della propaganda per la Brexit, inscenata da Farage e dai suoi in Gran Bretagna.

In altri termini, dobbiamo convincerci che non c’è più la marxiana classe universale, quella che subendo l’ingiustizia più totale diventava rappresentativa dell’umanità nel suo complesso. Che poi era ciò che giustificava la lotta degli sfruttati e organizzava la loro azione nella storia. E veniva così legittimata a prendere il potere, magari anche con la forza. Ci sono solo più degli aggregati eterogenei di motivazioni tenute insieme dal collante generico e superficiale, per lo più emotivo, degli slogan prodotti dal leader e dalla sua propaganda. Strano a dirsi, ma la cosa funziona.

11. Tuttavia, per fortuna, non tutti finiscono nel mucchio. Osservando queste improbabili artificiose aggregazioni, ci possiamo domandare se ci sono ancora delle variabili di ordine generale, che possano dar conto di questi rassemblement, di queste molteplici e infinite motivazioni, magari anche contraddittorie, che si ritrovano insieme, un po’ come attratte da una calamita. La calamita ovviamente, più che un programma politico dettagliato, è il leader. La vecchia sinistra nostrana su questo punto ha una risposta preconfezionata: dietro a tutto ciò, ci sono le condizioni economiche. Il vecchio economicismo è sempre di moda e opera come una spessa fetta di salame sugli occhi che impedisce di vedere le cose come stanno. È il caso dunque di ribadire ancora una volta che le condizioni economiche e sociali, per quanto ancora importanti, non sembrano essere più una variabile fondamentale nella costituzione dei nuovi blocchi elettorali populisti. Non ci sono più movimenti e partiti di classe (anche perché le classi sono sparite). Abbiamo cominciato ad accorgercene quando gli operai italiani hanno preso a votare per la Lega Nord, hanno cioè deposto l’universalismo tradizionale della sinistra e hanno aderito a una nuova formazione particolaristica su base etnica. Una vera e propria mutazione. È ormai luogo comune come il cosiddetto “popolo” del Novecento si sia allontanato dai partiti di sinistra per approdare spesso ai partiti di destra o all’astensionismo[6]. Mentre i partiti di sinistra vedrebbero ormai soltanto più l’adesione del ceto medio alto, la cosiddetta “area ZTL”[7]. Di questa tendenza sono state trovate notevoli conferme empiriche.

12. Spesso s’incolpano i partiti della sinistra storica di avere abbandonato il loro “popolo”, avendo compiuto così un colossale errore nell’offerta politica. Un errore dovuto evidentemente a dirigenti che hanno preso a coltivare ideologie sbagliate. I loro programmi si sarebbero così “imborghesiti”. Può darsi anche ci sia qualcosa di vero, soprattutto per quel che concerne i dirigenti, ma è un dato di fatto che quel popolo, cui la sinistra tradizionale si rivolgeva con notevole successo, oggi non c’è più. O, meglio, è diventato un’altra cosa. Quel popolo ha subito nei decenni una colossale mutazione antropologica[8], tale che le proposte della sinistra tradizionale sono diventate per loro estranee e irricevibili. Qualcuno storcerà il naso, ma è sufficiente guardare come stanno le cose, al di là delle più pervicaci illusioni. Tra i seguaci di Trump, già ricco di suo, abbiamo Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo. Accanto a costoro, stretti nello stesso “popolo”, abbiamo però numerosi bianchi del ceto medio, numerosi black e latinos, e i poveracci crédule di QAnon, nonché la feccia degli assaltatori del Campidoglio. È il caso di ricordare che da noi, il ricchissimo Berlusconi, notoriamente, raccoglieva il voto presso i ceti popolari e le casalinghe (nonostante trattasse le donne con una certa disinvoltura).

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13. Allora, chi sono prevalentemente quelli che finiscono nel mucchio populista? Osservando la dinamica delle aggregazioni elettorali populiste, la variabile più rilevante in assoluto sembra essere costituita dalla dicotomia tra le grandi città e le località periferiche. Una volta si diceva città e campagna. Oppure centro e periferia. Talvolta – come per ragioni storiche in Italia – questa dicotomia prende anche la connotazione di nord e sud. Basta osservare una mappa del voto territoriale di qualsiasi Paese occidentale per rendersi conto del peso enorme di questa variabile.

Certo, ogni Paese ha le sue specifiche mappe. Ad esempio, la distribuzione elettorale di destra e sinistra in Francia vede l’opposizione tra città e campagna: la sinistra sta nelle grandi città, e nell’area di Parigi in particolare. Gli estremisti di destra si concentrano nelle aree periferiche e nelle campagne. Si pensi ai gilet gialli. Spesso si qualificano come “i dimenticati”. Oppure, si vada a vedere la distribuzione territoriale del voto per la Brexit in Gran Bretagna: la dimensione città/campagna è stata clamorosa. Nel caso americano poi – si vedano le mappe elettorali – abbiamo la contrapposizione tra le due coste con la concentrazione delle grandi città (New York e Los Angeles/San Francisco) che son sempre state la tradizionale area dei Democratici, insieme agli Stati attorno ai Grandi Laghi, ora persi. D’altro canto, gli stati centro meridionali, la Bible belt e la Rust belt che sono ora terreno dei Repubblicani. Per capire l’enorme divide tra questi mondi, si pensi che una quota spropositata di americani nella Bible belt non crede alla teoria darwiniana e preferisce sostenere il creazionismo. Pare che nella prossima amministrazione, a occuparsi della salute degli americani sarà un fondamentalista No-vax. I seguaci di Trump, contro ogni evidenza, tendono a negare il cambiamento climatico. Insomma, due Mondi sempre più estranei.

14. La seconda variabile decisamente rilevante nella caratterizzazione delle aggregazioni populiste è il livello di istruzione. Da tempo è noto che il livello di istruzione condiziona enormemente l’analisi e la elaborazione delle informazioni ricevute. Può spingere a credere o a non credere ai messaggi, alla propaganda, alle fake. Il livello di istruzione determina poi il livello della definizione dei propri interessi materiali e culturali, dal particolarismo legato prevalentemente alla bassa istruzione, all’universalismo legato invece alla istruzione più elevata.

Abbiamo poi la variabile delle generazioni, cioè l’età, sebbene questa in sé non sia molto significativa e lo diventi quando legata ad altri fattori. Ad esempio, nell’America odierna la popolazione dei giovani dei college e delle università ha caratteristiche sue proprie ed è generalmente più progressista. In taluni casi sono presenti forme assai radicali di universalismo. Ciò è dovuto al fatto che i giovani che vanno al college o alle università si devono per lo più trasferire e così sono in un certo senso risocializzati nel nuovo ambiente che di solito è progressista e politicamente corretto.

Abbiamo poi ancora variabili come il genere e l’etnia (specie se legata a minoranze) che possono – seppure non sempre – avere un peso rilevante. Nel caso americano s’è visto come gli immigrati si siano schierati nettamente a favore di Trump contro l’immigrazione clandestina, considerata fonte di concorrenza economica e di disordine. All’interno delle diverse etnie, i rapporti tra i generi sembra abbiano avuto un certo peso elettorale: maschi neri non avrebbero simpatizzato per una possibile Presidente donna nera. Più in generale, l’America è ricca di movimenti, magari anche progressisti, che tuttavia pare abbiano finito per promuovere fratture e divisioni. Addirittura reazioni anti-establishment. Si pensi a stay woke e a BLM (Black Lives Matters). In molti Stati americani ci sono programmi progressisti che hanno lo scopo di favorire le minoranze (nell’ingresso alle università, nei concorsi, nelle assunzioni nel pubblico e nel privato). Tuttavia ciò ha prodotto l’accantonamento del criterio del merito, scatenando così rancori e rimostranze da parte degli esclusi. Tutto ciò s’è visto alla perfezione nei risultati elettorali americani.

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15. Tuttavia, per completare il quadro della polarizzazione antropologica delle società democratiche, va riconosciuto che tutto questo calderone non sarebbe stato possibile senza l’effetto dei media e soprattutto dei nuovi media. Nel nostro Paese abbiamo avuto una chiara anticipazione del peso di questa variabile nella figura di Berlusconi e del suo impero mediatico, con il suo relativo enorme conflitto di interessi che le istituzioni democratiche non sono riuscite a fronteggiare. Sottolineo, en passant, che i conflitti di interesse sono senz’altro tra le cause più sottovalutate del degrado delle democrazie. I nuovi media stanno dando un enorme contribuito alla polarizzazione e alla compartimentazione delle società contemporanee. I media relazionali producono una sorta di effetto bolla per cui essi tendono a mettere in comunicazione principalmente persone che si somigliano quanto a caratteristiche di fondo, motivazioni, interessi, visioni del mondo, tipo di linguaggio. In Italia ha fatto scuola la auto selezione dei militanti operata sul blog in rete dal movimento di Grillo. Il risultato era che i grillini si somigliavano tutti e ripetevano tutti le stesse cose.

16. In particolare, nel caso americano, i nuovi media hanno contribuito pesantemente a differenziare e separare la cultura delle élite rispetto alla cultura dei ceti popolari. Per essere più precisi, hanno consentito, in particolare, alla cultura dei ceti popolari di esprimersi, di organizzarsi e di contrapporsi con successo alla cultura delle élite, la quale aveva avuto invece da sempre anche altri canali. La cultura delle élite è la cultura delle due coste, delle grandi città, del reticolo delle grandi università e dei centri di ricerca, delle grandi imprese private che operano nel campo delle nuove tecnologie, o della AI, come Google, Facebook, Microsoft, che spesso si rappresentano come progressiste, sottoscrivono e promuovono le discriminazioni positive a favore delle minoranze e la cultura woke e il politically correct.

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17. La cultura dei ceti popolari è invece sempre stata assai più frammentata, distribuita sull’immenso territorio e spesso compartimentata in termini localistici, etnici e di genere. Tuttavia anche tra i ceti popolari le nuove tecnologie hanno contribuito a costruire e a mettere in contatto le bolle comunicative locali. Senza le nuove tecnologie, un fenomeno come QAnon sarebbe stato impossibile. Lo stesso vale anche – si badi bene – per le bolle dei progressisti: senza i nuovi media non avremmo il politically correct, la cancel culture, stay woke, me too e quant’altro. Solo che le bolle dei progressisti numericamente finiscono per contare assai meno. Notoriamente le élites costiere sono percepite in modo assai negativo dai ceti popolari, tra i quali fiorisce un forte sentimento anti-establishment. A loro volta le élites mostrano spesso un senso di superiorità e paternalismo nei confronti di questi ultimi. Sono mondi che non si parlano e che, così facendo, favoriscono la polarizzazione populista. È chiaro che i populisti possono realisticamente aspirare ad avere il numero dalla loro parte, poiché le culture delle élite sono per definizione numericamente ristrette.

Prima dei nuovi media si poteva pensare che le élite potessero fungere da avanguardie, guadagnare un’egemonia sul resto del Paese. Dopo i nuovi media, l’egemonia delle élite è sempre più contestata, poiché le culture popolari sono divenute relativamente autonome. E si esprimono. Si esprimono spesso identificando un leader, come paradossalmente diceva Marx, che fosse transfuga dalla propria classe, che usa linguaggi volgari, che si comporta come un carrettiere, disprezza la legge e le istituzioni, e così via. Senz’altro, tra i transfughi di successo dalla loro classe, possiamo annoverare Berlusconi, Trump e Musk.

18. Sulla scorta di questi elementi analitici di ordine generale, possiamo ora provare a decrittare alcuni aspetti specifici della cronaca che abbiamo visto all’opera in queste elezioni. Non sarò del tutto sistematico, farò solo alcune osservazioni sparse, scelte tra le questioni che mi sono parse più rilevanti.

La volgarità paga. In questo quadro, è stato un grande errore ritenere – come hanno fatto i democratici – che i trascorsi giudiziari di Trump, unitamente al suo stile volgare, antipolitico, immorale e scandaloso, avrebbero contribuito a screditarlo presso l’opinione pubblica. È invece accaduto esattamente il contrario. Nell’America polarizzata e spaccata, il personaggio Trump è stato visto dal polo populista come elemento anti-establishment, come il castigamatti nei confronti dell’élite. Del resto, anche nel caso di Berlusconi, il suo comportamento border line, nel pubblico e nel privato, il suo anti-istituzionalismo non gli hanno mai fatto perdere il consenso. Le volgarità non hanno mai fatto perder consenso alla Lega, sia nella versione di Bossi sia in quella di Salvini. Il linguaggio da borgatara di Meloni e quello parafascista di parte della sua compagine di governo – per quanto susciti strilli e infinite contumelie da parte della opposizione – non intacca minimamente il consenso della destra.

I diritti civili e la difesa della democrazia non pagano. La concentrazione delle piattaforme elettorali democratiche intorno ai civil rights non paga, non fa vincere le elezioni. I civil rights sono per lo più percepiti come faccende delle élite. La Harris si è impegnata in particolare sulla questione del diritto all’aborto, un diritto della persona che riguarda le donne, cioè la metà elettorato. Un diritto che evidentemente non è stato considerato prioritario dalle elettrici. Molte avranno pensato che la questione non le riguardasse direttamente. Ugualmente, un’eventuale prima Presidente americana donna non ha costituito una retribuzione simbolica e morale tale da mobilitare le stesse donne. Il fatto di essere donna e nera pare poi abbia sfavorito la Harris presso taluni gruppi sociali, in particolare tra i maschi neri.

Anche la difesa delle regole della democrazia – cavallo di battaglia di Harris – pare non avere lasciato traccia. Inutile ricordare agli elettori americani la lunga sequela di reati, processi, scorrettezza in cui era incorso il candidato Trump. Inutile ricordare agli elettori che il candidato Trump – se eletto – avrebbe potuto concedere la grazia a se stesso, facendo di lui un cittadino diverso da tutti gli altri, dotato di privilegi estranei a qualsiasi altro. Come un monarca assoluto. Ciò in aperta violazione dell’etica repubblicana. Ma il Partito repubblicano odierno non si sofferma più su questi dettagli.

Insomma, la questione dei civil rights, della difesa della democrazia e delle istituzioni, è ormai divenuta distintiva della “sinistra ZTL”, destinata a rimanere sempre più una minoranza, di chi abita le città, di chi ha elevata istruzione e reddito elevato.

Progressisti senza cultura politica. Anche se in Italia la questione è poco conosciuta, i Democratici e i progressisti americani (siamo dentro le élite dunque) hanno tagliato i ponti con la loro tradizionale cultura politica e hanno aderito a una specie di subcultura comunitaristica[9] dei diritti e delle pari opportunità declinata non più in termini universalistici, come diritti e pari opportunità del cittadino, bensì in termini particolaristici, come diritti e pari opportunità degli innumerevoli gruppi e minoranze che si sono via via costituiti, in base alla lingua, alle preferenze sessuali, al colore della pelle, al genere. E si battono per il riconoscimento. In questo ambito si sono sviluppati vari movimenti, come il politically correct, la cancel culture, Me Too, Stay Woke, LGBTQ(ecc.), Black Lives Matters e così via. Si tratta di movimenti che senz’altro hanno avuto all’origine radici democratiche e progressiste, ma che hanno subíto varie degenerazioni fondamentaliste. In un suo recentissimo saggio intitolato Il follemente corretto[10] il sociologo Luca Ricolfi ha descritto, analizzato e stigmatizzato questi movimenti, mostrandone le conseguenze devastanti in termini di disgregazione politica, sociale e culturale. Trump ha avuto buon gioco a usare la propria totale “scorrettezza” contro queste forme degeneri e modaiole di elitarismo. È appena poi il caso di sottolineare che la correctness nordamericana ha origine nella elaborazione delle filosofie postmoderne e nella importazione del poststrutturalismo europeo. Ma di questo tratterò eventualmente altrove.

Le improvvisazioni si pagano. Va poi osservato che la tattica dei democratici è stata disastrosa. Purtroppo qui ha pesato la mancanza di una struttura di partito di qualche rilievo (tipica dei partiti americani) capace di esaminare la situazione, di definire una strategia e di prendere le decisioni. Di fatto i democratici americani sono ridotti a una stretta oligarchia di pochi personaggi che sono titolati a decidere a prescindere. È mancata poi, in campo democratico, una seria analisi del quadriennio di governo di Biden, che invece è stato fatto a polpette dalla propaganda di Trump. È mancato il tempo e il modo, per la Harris, di differenziare ove necessario il suo nuovo programma da quello di Biden. Su alcune questioni, Biden si è limitato a portare avanti l’impostazione del Trump I, soprattutto sulla questione della immigrazione. E anche in politica internazionale.

La questione internazionale conta. Harris si è trovata ad avere le mani legate – nella campagna elettorale – anche a causa della situazione di indecisione nella politica estera condotta da Biden e a causa dei diversi gruppi di pressione presenti nell’area dei democratici. Del resto, la Presidenza di Biden era cominciata proprio con la disfatta afghana, che tuttavia era stata accuratamente preparata dal pacificatore Trump I e che Biden ha eseguito pedissequamente nella maniera più becera. Biden è riuscito a farsi accusare, anche dai suoi sostenitori, di essere un guerrafondaio in Ucraina e di essere un complice dei massacri condotti da Netanyahu a Gaza. Per paura di perdere sostenitori, il messaggio di Harris è stato confuso e indeterminato, a differenza di Trump che ha promesso di far finire le guerre in un battibaleno. Così i democratici in politica estera hanno finito per scontentare tutti. È chiaro che, in generale, dopo la loro opzione fallimentare per la globalizzazione, i Democrats non hanno più un’idea chiara e salda di politica internazionale. Per Trump e i suoi seguaci è stato molto più semplice sventolare la pace: farsi i fatti propri e darci dentro col MAGA (Make America Great Again). Basta che a pagarne le spese siano gli altri.

Manco a dirlo – lo dico qui solo en passant – tutti questi aspetti dovrebbero essere attentamente considerati anche nel nostro Paese, da quelle forze che intenderebbero operare per la difesa della democrazia dalle tendenze antidemocratiche.

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19. Tra le conseguenze più importanti di queste elezioni americane, ci saranno notevoli cambiamenti nella politica estera. In seguito alla vittoria di Trump, è il caso di domandarsi cosa potrebbe accadere nelle relazioni tra USA e il resto del mondo. Vediamo. Per avere un’idea grezza di come si svilupperà la politica internazionale americana, basta vedere chi sono coloro che hanno esultato per la vittoria di Trump. Pare che Alexandr Dugin, il filosofo russo rossobruno più estremista di Putin, abbia esultato per la vittoria di Trump. Putin dal canto suo sta dichiarando aperture pacifiste a più non posso, ovviamente alle sue condizioni. Praticamente siamo all’esordio del trumputinismo. In effetti, nella visione distorta di Dugin, il populismo occidentale è sempre stato considerato come il migliore alleato dell’euroasiatismo.

Anche i pacifinti[11] nostrani hanno esultato, convinti che Trump, in politica internazionale, facendo l’isolazionista e mettendo così da parte l’imperialismo americano, sarà pronto a “fare la pace” con la Russia (molti pacifinti nostrani hanno sempre pensato che la guerra in Ucraina fosse una guerra differita degli USA e della NATO contro la Russia). Ovviamente il tutto avverrà a spese di Kiev (e del diritto internazionale), che sarà disarmata e ricondotta a più miti consigli, oltre che territorialmente amputata. Finalmente qualcuno che sarà in grado di mettere a posto Zelensky e i suoi nazi! Nella retorica trumpiana, i Democratici fanno le guerre, mentre i Repubblicani trumpisti le faranno finire. Si prospetta dunque lo strano caso dei pacifisti filotirannici che vedremo presto all’opera, anche e soprattutto nel nostro Paese[12].

Anche Netanyahu pare abbia esultato, poiché ormai nulla si frapporrà al suo progetto massimalista e colonialista di un Israele esteso dal Giordano al mare. Il recente licenziamento di Gallant è un segnale abbastanza chiaro. Il progetto dei “Due popoli, due Stati”, con cui la nostra falsa coscienza occidentale si è baloccata per ottant’anni, è ormai divenuto impossibile. I palestinesi, col contributo suicida determinante di Hamas, hanno perso la loro tragica partita e faranno la fine degli indiani americani. Non che i Democrats fossero stati difensori convinti della causa palestinese, la prova è che hanno sempre foraggiato Israele con le armi, lasciandole ogni libertà di azione, ma almeno hanno tentato di mettere in atto un’azione calmieratrice, seppure alquanto ipocrita e nei fatti alquanto inefficace.

20. Xi è senz’altro un altro di coloro che hanno gioito per la vittoria di Trump, anche se i cinesi sono più composti, educati alla vecchia scuola, e sanno ancora controllare le emozioni. I prossimi quattro anni trumpiani – considerato anche in che stato critico è la Russia e lo stato comatoso in cui è ridotto l’ONU – costituiscono una perfetta finestra di tempo, una occasione insperata, per la Cina, di regolare i conti con Taiwan, con le buone o con le cattive. Il che potrebbe comportare, a tempi relativamente brevi, una nuova fonte di instabilità nel Pacifico. Non solo di tipo militare, ma anche di tipo economico, visto il ruolo rilevante che i prodotti tecnologici di Taiwan hanno per l’economia mondiale. Dopo la crisi dovuta alla fornitura del gas russo, avremo con buone probabilità la crisi dovuta alla carenza dei chip di Taiwan.

Sicuramente poi a livello di opinione pubblica avranno esultato i negazionisti del cambiamento climatico e le lobby dei combustibili fossili. Assieme a tutti i No-vax. Tutti coloro che ritengono che la transizione ecologica sia solo una futile moda di élite che si vorrebbe imporre a tutto il mondo per oscure finalità. Trump ha detto chiaro quello che pensa sugli Accordi di Parigi sul clima.

Gli altri esultanti, per ora, a livello di Stati -nazione sono senz’altro di rango minore. Ma tutti insieme costituiscono una bella banda. Sono tutti gli aspiranti facenti parte della internazionale populista e sovranista, quella che era stata messa in piedi proprio da Steve Bannon e che ora risorgerà a nuova vita. Per tacere di Orban e del nostro Salvini, magari comprendendo anche il M5S, non possiamo evitare di citare Bolsonaro, sempre attivo, oppure personaggi come l’argentino Milei.

21. Se c’è qualcuno che invece non può proprio gioire è la UE. I rapporti tra USA e UE sono stati sempre problematici, poiché interesse degli USA, in generale, è sempre stato di avere una Europa debole e divisa. Non è chiaro quel che farà Trump, data la sua imprevedibilità, anche se, da quanto annunciato, verranno al pettine sicuramente due questioni: la questione della difesa e la questione dei dazi.

Per ciò che riguarda la difesa, l’Europa sarà inevitabilmente tenuta a investire maggiormente nelle spese militari e a cercare di costituire una forza militare europea, di cui tanto finora si è parlato senza nulla concludere. Su questa questione, che è di una ovvietà totale, la politica europea sembra però paralizzata. È il caso di tener conto che in UE ci sono anche quelli che vorrebbero smantellare la NATO. Si prospettano dunque quattro anni di vuote discussioni ed eventualmente di realizzazioni puramente di facciata. Quattro anni in cui l’Europa si giocherà definitivamente la propria posizione internazionale. In ogni caso, questi tentennamenti costituiranno di fatto un indebolimento della difesa europea, tanto da incoraggiare le pressioni della Russia sui vari numerosi punti critici, quelli che tutti fanno finta di non vedere, dai Paesi baltici a Kaliningrad, alla Moldavia e alla Transnistria, fino alla Georgia.

Nel campo del commercio internazionale Trump ha enunciato con chiarezza quale sarà la sua politica. Una specie di miope ritorno al mercantilismo pre-liberista: esportare le proprie merci ed evitare di importare le merci degli altri. Una furbata colossale. I dazi americani nei confronti dell’Europa comunque ci saranno (nonostante l’“amica” Meloni), per cui l’Europa dovrà prendere delle decisioni radicali circa la sua struttura produttiva e finanziaria e la propria posizione nel mercato mondiale. E l’Europa non ha attualmente neppure la struttura politica adeguata che sarebbe indispensabile per questo compito.

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22. Se l’analisi che abbiamo svolto fin qui ha qualche fondamento, la vittoria di Trump dovrebbe allarmare alquanto quel che è rimasto del fronte democratico internazionale, almeno in Occidente. Dovrebbe allarmare anche e soprattutto i nostri democratici italiani. Cioè, quel gruppo eterogeneo di partiti e partitini più o meno di sinistra, che, nel tracollo di mezzo mondo, il massimo che stanno a fare è di concentrarsi sulla luminosa prospettiva del campo largo. Come già detto in esordio, si tratta di prendere atto ormai che il populismo funziona. Nelle democrazie più vecchie come in quelle più recenti. In ciò dobbiamo rivedere tutta la nostra storia recente. Il populismo che abbiamo sperimentato finora non è stato una parentesi. Non lo si può più considerare un incidente di percorso (come molti avevano fatto col primo Trump. O con il nostro Berlusconi che, erroneamente, abbiamo considerato come una storia lunga ma ormai conclusa[13]). Le mutazioni antropologiche delle democrazie hanno reso possibile questa nuova forma di populismo e l’hanno resa oltremodo efficace.

23. Oltretutto, i nuovi populisti sono in una botte di ferro, poiché i loro oppositori, chiamiamoli Sinistra, Democratici, oppure Progressisti, se vogliono restar tali, non possono usare lo stile e il metodo populista. Sarebbe paradossale combattere le tendenze anti democratiche usando stili e metodi antidemocratici. A meno che non si intenda adottare la prospettiva di Popper. Il quale sosteneva, appunto, che non si possono usare metodi democratici con gli anti democratici (quando Popper scriveva, però c’erano i nazisti). Credo che in linea teorica avesse perfettamente ragione. Soprattutto nel campo della politica internazionale. Tuttavia applicare oggi il metodo di Popper nelle democrazie populiste, per contrastare le tendenze anti democratiche, esporrebbe a gravi forme di conflittualità interna che non ci possiamo permettere. Sperando che la situazione non degeneri così tanto da rendere necessaria una reazione dura di resistenza.

Se non possiamo usare oggi il populismo contro il populismo, allora si tratta anche di considerare che il populismo di sinistra – di cui si è parlato fino alla noia[14] e di cui abbiamo ottimi esempi – è una palese contraddizione in termini, anche se momentaneamente e localmente può anche funzionare. La tentazione di combattere il populismo di destra alleandosi con il populismo di sinistra (tentazione ben presente nel nostro Paese) non tien conto del fatto che il metodo populista di per sé erode la democrazia. Sempre e comunque. I democratici allora sono con le spalle al muro. E lo saranno sempre di più. E ciò è divenuto perfettamente visibile. Stando così le cose, la destra populista vincerà sempre.

24. Come se ne esce? Occorre considerare, allargando un poco lo sguardo, che la mutazione antropologica di cui s’è detto ha prodotto, in sostanza, la evanescenza del citoyen. Gli elettori dei rassemblement populisti sono dei citoyen dimezzati[15]. Uso qui il termine originario francese citoyen per sottolineare il fatto che si trattava, sia teoricamente sia praticamente, di un tipo umano ben preciso. Quello che ha permesso la sostituzione della dimensione verticale della politica, la sudditanza, con la dimensione orizzontale, cioè la cittadinanza[16]. La costruzione del citoyen della democrazia ha richiesto un lungo percorso storico, assai faticoso e non privo di incognite. Erroneamente si pensa che il citoyen sia un dato di fatto, una specie di prodotto naturale. Basta esser nati in uno Stato nazionale e si è per ciò stesso cittadini. I marxisti poi hanno sempre pensato che il cittadino fosse un elemento sovrastrutturale superfluo, illusorio e ingannevole. Il cittadino sarebbe finito con l’eliminazione dello Stato nel comunismo. Invece il citoyen è un raro prodotto storico, un prodotto che può realizzarsi solo in determinate condizioni, attraverso una lunga fase di formazione, anche sulla base di precisi e generosi investimenti delle istituzioni pubbliche. Condorcet è stato uno dei primi a rendersi conto che i cittadini dovevano essere formati, costruiti come corpi artificiali[17]. Schiere di studiosi hanno esaminato con cura i contesti storici e culturali in cui questa formazione è stata possibile[18]. Ma sono stati per lo più ignorati.

In realtà, accade sempre che i citoyen rendono possibile l’esercizio della democrazia e a, sua volta, la democrazia esercitata dovrebbe produrre e riprodurre in forma allargata i citoyen stessi. Ebbene, si tratta di prendere atto del fatto che questi processi virtuosi stanno vistosamente smettendo di funzionare, almeno in ampi settori delle società democratiche. So che dalle nostre parti l’antiamericanismo pregiudiziale è ancora molto diffuso. Gli antiamericanisti cronici si stanno fregando le mani, ma costoro non si rendono conto che, furbi come sono, stanno segando proprio il ramo su cui sono seduti.

25. I partiti democratici nelle democrazie occidentali, quale che sia la loro tradizione, sono del tutto impreparati di fronte alla mutazione antropologica di cui s’è detto e all’insorgere del nuovo populismo. Questo perché il populismo erode la formazione dei loro i citoyen e li trasforma in una moltitudine di estranei, ciascuno chiuso nella sua bolla comunicativa, in costante ricerca di una appartenenza virtuale al mondo simbolico artificioso messo in piedi dal leader. In un simile contesto non è più possibile alcun dibattito pubblico razionale intorno al bene comune, come voleva Rousseau. Diventa impossibile una opinione pubblica come quella preconizzata da Habermas. Diventa possibile solo un’adesione individuale al “popolo” per lo più di carattere emotivo, sulla base di una informazione limitata e spesso distorta. L’adesione avviene per le motivazioni più eterogenee, sulla base di interessi per lo più particolaristici, legati a situazioni specifiche e subordinati alle miriadi di frammenti virtuali di discorso che si producono ogni giorno. Diceva Umberto Eco che, prima della rete, le chiacchiere da bar degli avvinazzati restavano tali e non facevano danni. Dopo la rete, qualsiasi chiacchiera, per quanto assurda, può essere riprodotta e ricevere milioni di Like!. Può cioè costituire un popolo, buono a tutti gli usi.

Le elezioni americane e noi 09

26. Se questo è vero, per le nostre forze democratiche, invece di continuare a concentrarsi sulla recita del campo largo, cui non crede più nessuno, e che comunque lascerebbe sempre vincere alla destra, si tratterebbe di prendere il toro per le corna. Si tratta di affrontare proprio quella mutazione antropologica di cui s’è detto, che sta dando ovunque il potere ai populisti. Le mutazioni non sono inesorabili. Ma intanto bisogna vederle, capirle e cominciare a combatterle. Non possiamo più permettere che i nostri citoyen siano sistematicamente corrotti (è proprio questo che avviene) e cadano nelle mani dei populisti come utili idioti.

Come si fa? Finché i democratici o progressisti saranno “sinistra ZTL”, per di più divisi, rissosi e privi di una cultura politica di qualche rilievo, non vinceranno mai e non combineranno niente di buono. Occorre una vera e propria rivoluzione culturale nel campo democratico. Le elezioni americane e le vicende dei Democrats americani come s’è visto, hanno parecchio da insegnare. Ma facciamo un esempio specifico, d’altro genere ma assai pertinente. Lo psicologo sociale Jonathan Haidt ha pubblicato una sua ricerca, davvero impressionante, che ha fatto discutere mezzo mondo[19]. È stata ora appena pubblicata in Italia. In soldoni, Haidt dimostra che l’uso dello smartphone e dei social da parte degli adolescenti produce danni gravissimi al loro sviluppo emotivo e cognitivo, fino a determinare un preoccupante aumento di disturbi psichiatrici e un aumento dell’autolesionismo e perfino del suicidio. Questo è un piccolo esempio di quello che ho chiamato mutazione antropologica. Ebbene, Haidt fa una serie di proposte radicali per ovviare alle problematiche denunciate. La più significativa, perfettamente fattibile, è proibire lo smartphone ai minori di 16 anni. Un piccolo passo per rientrare dalla mutazione. Ce la sentiamo?

27. Fuor di metafora, cosa possiamo fare per ricostituire i nostri citoyen? Si noti che è indubbio che si tratta di ricostruirli. Altrimenti saranno sempre pronti a seguire il primo Trump che passa. C’è un lavoro di lungo periodo che bisogna incominciare a fare, al di là delle contingenze della politichetta quotidiana. E questo lavoro possono farlo solo i democratici, quelli che sono rimasti. In primo luogo, i democratici devono riscoprire una cultura politica autentica della democrazia e devono fare una seria autocritica per quel che sono attualmente diventati. Secondariamente, si tratta di ricostruire la cultura civica della democrazia, quella che è stata devastata dalla mutazione antropologica e che rischiamo di perdere per sempre. In terzo luogo si tratta di ricostruire il capitale sociale, quella modalità relazionale fondamentale a livello locale che i populisti, nella loro illusione di unione totalizzante col popolo e col leader, distruggono sistematicamente. Cosa implica in pratica tutto ciò? Non ho spazio qui per affrontare la questione. Ci vorrebbe un altro saggio. Per intanto, sarebbe importante l’acquisizione di ciò che siamo andati sostenendo nella nostra analisi. Le elezioni americane ci stanno semplicemente spiegando che, senza un urgente e radicale cambiamento da parte dei democratici, non ci sarà più alcun futuro per la democrazia.

Le elezioni americane e noi 10

Opere citate

2024 Haidt, Jonathan, The Anxious Generation, Penguin Press, New York. Tr. it.: La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli, Rizzoli, Milano, 2024.

2020 Henrich, Joseph, The WEIRDest People in the World, Farrar, Straus and Giroux. Tr. it.: WEIRD. La mentalità occidentale e il futuro del mondo, Il Saggiatore, Milano, 2022.

1977 Inglehart, Ronald, The Silent Revolution, Princeton University Press, Princeton. Tr. it.: La rivoluzione silenziosa, Rizzoli, Milano, 1983.

2018 Mouffe, Chantal, For a Left Populism, Verso, London. Tr. it.: Per un populismo di sinistra, Laterza, Bari, 2018.

2017 Ricolfi, Luca, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano.

2022 Ricolfi, Luca, La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, Rizzoli, Milano.

2024 Ricolfi, Luca, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, Milano.

2021 Wagenknecht, Sahra, Die Selbstgerechten. Mein Gegenprogramm – für Gemeinsinn und Zusammenhalt, Campus Verlag GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Contro la sinistra neoliberale, Fazi Editore, Roma, 2022.

Note

[1] Questo saggio ha origine da una serie di appunti che ho preso mentre seguivo la maratona elettorale del bravo Mentana (su La 7). A partire dall’evento in diretta, ho poi sentito l’esigenza di formulare una qualche spiegazione di quel che stava accadendo. Si tratta ancora di riflessioni grezze, che avranno bisogno di ulteriori approfondimenti. Ringrazio gli amici di Città Futura, con i quali ho avuto occasione di discutere l’esito elettorale americano. Naturalmente, la responsabilità di quanto qui sostenuto è solo mia.

[2] A questo punto sento il ruggito dell’imbecille di turno: “L’ho sempre detto io, che la democrazia non funziona!”.

[3] Cfr. Inglehart 1977.

[4] Ne ho parlato in un mio saggio recente pubblicato su Città Futura. Cfr. sul mio Blog: Finestre rotte: Toh, chi si rivede. Etica e politica!

[5] In un mio saggio del 2017 mi sono occupato in dettaglio del populismo. Cfr. Finestre rotte: I soggetti del populismo.

[6] Cfr. Ricolfi 2017 e Ricolfi 2022.

[7] Cfr. Wagenknecht 2021.

[8] Naturalmente mi riferisco alla antropologia culturale, sebbene alcuni studiosi abbiano sostenuto la presenza anche di inquietanti mutazioni di ordine psicofisiologico.

[9] Il riferimento va qui al comunitarismo nord americano, che è una filosofia ivi alquanto diffusa e che sostiene che i soggetti della democrazia non sono gli individui bensì le comunità, le quali devono ottenere dallo Stato il riconoscimento.

[10] Cfr. Ricolfi 2024.

[11] Il termine “pacifinto” è nato come termine spregiativo in occasione degli accesi dibattiti intorno alla guerra tra Russia e Ucraina e serviva a sottolineare il fatto che la volontà di pacificazione di costoro era tale da prescrivere la resa immediata dell’Ucraina (col rischio anche di una sua sparizione dalla carta geografica) e dunque tale da determinare una pace ingiusta, accettando come un dato di fatto la forza superiore della Russia (e i suoi dati per scontati interessi “imperiali”). Personalmente, pur criticando questo tipo di pacifismo, mi sono sempre rifiutato di usare questo termine, proprio per il fatto che esso veniva usato più come strumento di offesa che come strumento di analisi. Ora possiamo invece intravvedere effettivamente uno schieramento amplissimo di forze – a livello internazionale e a livello nazionale, di destra e di sinistra – che sosterranno questa posizione, ovviamente ai danni della autodeterminazione della Ucraina e ai danni di qualsiasi sopravvivenza dell’ONU. Dunque, poiché ormai il fatto c’è, il termine è destinato a divenire un termine descrittivo, perfetto descrittore dei tanti creduli promotori di una pace fasulla. Un altro motivo che mi ha indotto all’utilizzo descrittivo del termine è il fatto che i pacifinti della prima ora erano tutti intenti a predicare che qualsiasi invio di armi fosse sicuramente controproducente, da non farsi anche a costo di indurre, per ciò stesso, alla resa gli aggrediti. Ebbene, in seguito ai fatti di Gaza, non ho sentito nemmeno uno dei pacifinti – oltre alla dovuta condanna di Hamas – battersi per sospendere qualsiasi rifornimento di armi a Israele, visto l’uso che Israele ha fatto, sta facendo e farà di quelle armi. Più finti di così! Secondo costoro, mentre l’Ucraina non è legittimata a difendersi, Israele è legittimata a usare la forza “per difendersi” come meglio le aggrada, fregandosene del diritto internazionale e dell’ONU. Si è arrivati a sostenere che l’ONU sia antisemita. Che a Gaza e altrove ci sia stato un uso sproporzionato della forza non lo dico solo io. Su queste basi equivoche, si costruirà il trumputinismo nostrano. Prevedo già che qualcuno ci farà sopra un bel movimento e magari si presenterà anche alle elezioni.

[12] I pacifisti filotirannici sono quelli che concepiscono l’uomo in termini hobbesiani, come naturalmente incapace di vivere pacificamente. L’unica pace possibile, per costoro, è la sottomissione a un tiranno cui sono concessi tutti i poteri, compreso il potere di vita e di morte. Ci si aspetta la pace dal tiranno perché si ritiene che costui, avendo già tutto, non sia spinto a togliere la vita ai sottomessi. Tuttavia c’è il piccolo inconveniente di trovarsi a fare un patto con un tiranno, il quale a rispettare i patti non è tenuto. Beninteso, l’assolutismo hobbesiano è una rispettabile teoria politica, che poteva anche essere adeguata ai suoi tempi. La quale tuttavia pare non abbia mai garantito la pace. Ai tempi nostri, i pacifisti filotirannici rientrano nel prototipo dei servi del potere. Spesso, di mestiere, fanno a vario titolo gli intellettuali.

[13] Il berlusconismo è più vivo che mai. Meloni e Salvini ne sono i continuatori.

[14] Vedi Mouffe 2018. Ho sviluppato una critica alla nozione di populismo di sinistra nel mio saggio Populisti, Ircocervi e Sarchiaponi. Cfr. Finestre rotte: Populismi, ircocervi e sarchiaponi.

[15] So bene che affermazioni del genere possono condurre alla facile accusa di elitismo. Nelle mie parole non c’è alcun disprezzo morale nei confronti degli elettori populisti. C’è solo la costatazione che le loro scelte alimentano di fatto le tendenze antidemocratiche.

[16] La distinzione è di Steven Lukes.

[17] Per questo alcuni individualisti fondamentalisti hanno accusato la democrazia di essere totalitaria.

[18] Questi temi sono stati trattati da giganti del pensiero come Tocqueville e Max Weber. In ordine di tempo, si veda Henrich 2020.

[19] Cfr. Haidt 2024.

Il legno storto

Una dieta ricostituente. Ho chiesto a Beppe Rinaldi l’autorizzazione a riportare sul sito dei Viandanti delle Nebbie due suoi recenti saggi, già postati nel blog Finestre rotte. Il link che rimanda a Finestre rotte compare da tempo nella home page dei Viandanti, e a quello avrei potuto semplicemente indirizzare: ma ho ritenuto opportuna in questo caso anche la pubblicazione diretta, per più di una ragione.

In primo luogo perché ritengo che questi scritti abbiano una rilevanza intrinseca assoluta: ultimamente ho letto ben poche cose di questo livello (forse nessuna) e mi pare dunque doveroso pubblicizzarli e renderli disponibili il più possibile. La nostra non sarà una gran tribuna, ma è comunque una “finestra” in più.

In secondo luogo perché ho egoisticamente “calcolato” (eccola la “ragione calcolante” tanto aborrita dai post-moderni) che la loro pubblicazione avrebbe alzato decisamente il tiro e il tono del nostro sito, negli ultimi tempi piuttosto moscio.

Infine perché questi scritti costituiscono una sfida, alla nostra intelligenza e alla nostra capacità di concentrazione: stiamo rammollendo i nostri cervelli, nutrendoli di pappine omogeneizzate e precotte che non richiedono alcuno sforzo nell’assunzione e nella digestione, ma atrofizzano le nostre papille gustative e il vello intestinale. I risultati purtroppo si vedono, non solo in tivù o nell’informazione cartacea, ma nella impossibilità di un qualsivoglia confronto serio nel dibattito “domestico”, conviviale, socratico, chiamatelo un po’ come volete. Questi saggi vanno in una direzione diametralmente opposta: esigono impegno nella lettura e coerenza nella riflessione. Li ho letti una prima volta, mi hanno colpito e li ho riletti, non perché temessi di non aver capito – si capisce tutto benissimo, ogni argomento è spiegato e sviscerato come meglio non si potrebbe – ma per assicurarmi di non aver saltato alcun passaggio. Ora li ripropongo agli amici, appunto come una sfida, come stimolo a rompere un po’ la linea sulla quale si va appiattendo il pensiero.

Gli scritti di Beppe mi sembrano costituire il miglior campo base per ogni eventuale tentativo di risalita. Le sue argomentazioni e le idee ad esse sottese possono essere condivise in toto, com’è nel mio caso, oppure discusse e contestate: ma se si vuole chiudere la ricreazione e tornare allo studio serio non si può prescinderne.

Spero dunque sia evidente che non propongo questi saggi come testi sacri, novelli Atti dei Viandanti, o come manifesti programmatici del sodalizio: li promuovo a titolo personale, me ne assumo ogni responsabilità, e li concepisco come strumenti per tornare a far lavorare un po’ i nostri cervelli. Sono strumenti che vanno dalla pinzetta da orafo al martello pneumatico, per cui ci sarà da divertirsi (e da nutrirsi) per tutti.

Il piano di pubblicazione prevede per i due saggi (che sono piuttosto impegnativi rispetto allo standard dei documenti digitali) momenti separati, un intervallo di qualche settimana l’uno dall’altro, per dare modo ai Viandanti “volenterosi” di digerire e assimilare con calma il loro enorme apporto proteico. Nel frattempo io rimango in attesa, curioso di vedere se la nuova dieta avrà qualche effetto.

Il tema che Beppe tratta in questo primo saggio è quello della pace. Tema scivoloso e controverso, rispetto al quale siamo abituati a prendere posizioni decisamente rozze (cfr. ad esempio il mio Contare a fino a dieci, del 2003) o ambigue e superficiali, oppure assolutamente ipocrite (vedi le manifestazioni pacifiste che finiscono a sassate e manganellate): sempre comunque dettate da una profonda ignoranza rispetto all’argomento. Qui ci è offerta l’occasione, una volta per tutte, di avere almeno chiaro di cosa parliamo quando parliamo di pace. Dopodiché, non ci saranno più alibi all’uso improprio o distorto o strumentale del termine.

di Paolo Repetto, 18 ottobre 2023

Una dieta ricostituente 01

Il legno storto

Note di filosofia della pace e della guerra

di Giuseppe Rinaldi, pubblicato su Finestre rotte il 24 novembre 2022

1. Solo quando scoppiano le guerre[1], come quella attuale in Ucraina, tendiamo a porci una serie d’interrogativi sulla pace come fossimo nati ieri. E gli interrogativi tendono a moltiplicarsi, quanto più le prospettive della pace si fanno oscure e incerte e quanto più siamo coinvolti dalla guerra, anche nella nostra vita quotidiana. La riflessione sulla pace e sulla guerra sembra dunque procedere a sbalzi, al ritmo delle guerre che ci colpiscono da vicino. Le due Guerre del Golfo (1990-91 e 2003-11) erano state, in ordine di tempo, l’ultima ormai scordata occasione di riflessione pubblica sull’argomento. Quasi contemporaneamente, analoghi dibattiti si erano tenuti in occasione delle Guerre jugoslave (1991-2001) e in occasione dell’11 settembre 2001. Nessun dibattito ovviamente intorno alle innumerevoli guerre lontane o guerre dimenticate[2], quelle guerre che, abitualmente, appena possiamo, ci scrolliamo di dosso.

La guerra russo ucraina combattuta alle porte dell’Europa ci ha dunque trovati piuttosto impreparati e così abbiamo finito per rispolverare e riportare in auge vecchi luoghi comuni. Si sono avute molte grida ma decisamente poche riflessioni approfondite e argomentate. E si è preferito trascurare l’ampio patrimonio di riflessione sulle questioni della pace e della guerra che si è ormai accumulato nel campo degli studi politologici e filosofici, nonché nel campo storiografico. In questo scritto cercherò di compiere un’esposizione sintetica intorno alle principali questioni teoriche che si pongono da sempre a proposito della pace e della guerra. Niente di particolarmente nuovo dunque, ma una sintesi intorno alle questioni fondamentali. Insomma, quello che a me pare il minimo indispensabile da cui partire.

2. Pace e definizioni. Per mettere un po’ di ordine nelle diverse questioni, è preferibile, come sempre, cominciare dalle definizioni. Cominceremo proprio dalla pace. Si tratta anzitutto, in via preliminare, di mettere da parte certi usi generici della parola “pace”. La pace che ci interessa e sulla quale ci concentreremo è quella connessa all’ambito stretto delle comunità politiche, sia nei loro rapporti esterni, internazionali, sia al proprio interno, come nel caso della guerra civile. Il termine “pace” sta a indicare genericamente, in quest’ambito, un’assenza di conflitto violento[3], quel tipo di conflitto cioè che generalmente è identificato con il termine guerra. Parlare di pace significa necessariamente tirare in ballo il suo rovescio, cioè appunto il conflitto violento e la guerra. Si tratta dunque di una definizione in termini negativi. La pace, a quanto pare, non ha un suo significato autonomo e non può che essere definita in stretta antitesi con la guerra. Pace e guerra sono due diversi alternativi stati possibili. Una familiare dicotomia suggerisce che ci si trovi in pace, oppure ci si trovi in guerra.

Le cose tuttavia non sono così semplici. Se appena facciamo un qualche sforzo di riflessione, ci renderemo conto immediatamente che, all’occorrenza, possiamo individuare diversi stati intermedi compresi tra la pace e la guerra. In certi casi può anche risultare non del tutto chiaro se una certa situazione sia di pace o di guerra. Nel linguaggio comune si esprime qualcosa di simile dicendo: “Siamo sull’orlo di una guerra”, oppure: “Ci sono segnali di pace all’orizzonte”. In taluni casi, un chiarimento definitivo può derivare solo da un’esplicita dichiarazione di guerra o dalla sottoscrizione di una tregua, oppure di un trattato di pace. Ci sono poi delle situazioni che possono essere considerate come guerre anomale o guerre non convenzionali.

Una simile incertezza terminologica e concettuale la stiamo sperimentando proprio in questi mesi. Notoriamente, per i Russi l’aggressione all’Ucraina non è una guerra. È stata denominata operazione militare speciale. I cittadini russi che la chiamassero “guerra” potrebbero essere perseguiti penalmente[4]. Del resto nessuna esplicita dichiarazione di guerra è stata pronunciata da entrambe le parti. Secondo Putin, chi fornisce armi all’Ucraina è già “in guerra” con la Russia. Secondo alcuni pacifisti, gli USA, la UK, l’Europa sarebbero già in guerra con la Russia. Secondo il papa, questa sarebbe la Terza guerra mondiale “a pezzi”. Secondo alcuni altri, poi, la NATO aggressiva era già in guerra con la Russia fin dagli anni Novanta. Come si vede, la definizione dei confini tra pace e guerra è tutt’altro che semplice. I dati di fatto e la propaganda sembrano ormai intrecciarsi in maniera indissolubile.

Ancora più complessa è la situazione nel caso della guerra interna, o guerra civile. È difficile che le guerre civili siano dichiarate (anche se talvolta accade). Ci sono guerre civili de facto che non sono mai state combattute come tali e che sono state riconosciute come tali solo successivamente. È il caso, ad esempio, del riconoscimento, da parte dello storico Claudio Pavone, della Resistenza italiana al nazifascismo come guerra civile. È probabile che nel Donbass, dal 2014 in poi, si sia combattuta una guerra civile, con ogni probabilità fomentata dalla Russia con l’introduzione clandestina di uomini e mezzi. O forse una guerra di secessione.

3. Almeno due tipi di pace. Nella letteratura filosofica e politologica è stato spesso fatto notare come si possano annoverare due tipi di pace, quella negativa, quella più ovvia cui abbiamo già accennato, e quella positiva. La distinzione risale a Johan Galtung 1969. Galtung tratta non tanto della guerra quanto della violenza. La pace negativa è costituita dalla assenza di violenza personale, mentre la pace positiva è costituita dall’assenza della violenza strutturale. Per Galtung la pace positiva coincide dunque con la giustizia sociale. La distinzione tra pace negativa e positiva è stata poi usata ampiamente da Bobbio specificatamente in relazione alla guerra. Si parla comunemente di pace negativa quando il significato che si conferisce al concetto è soprattutto quello di negazione della guerra, cioè negazione del conflitto violento interno o internazionale. Si parla invece di pace positiva quando, oltre alla mera negazione della guerra, si vuol riempire il concetto della pace di una serie di connotazioni positive, che appartengano solo e soltanto alle situazioni di pace. Queste connotazioni dunquesi aggiungono alla pace negativa, cioè all’assenza di guerra. Si può parlare, in tal caso, di cessazione della violenza strutturale, ma anche di tranquillità, felicità, di fioritura umana, di prosperità, di progresso e simili. Oppure anche di armonia, integrazione, aiuto reciproco, cooperazione e scambio. Come ben si vede da questi esempi, se la nozione di pace negativa come assenza di guerra è relativamente precisa, pur con tutti i problemi del caso, la nozione di pace positiva è ancor più vaga, tanto che questa può essere ricondotta al capitolo generico dei benefici della pace – quali che questi possano essere. Oppure anche delle conseguenze positive della pace[5]. Si noti tuttavia che la condizione di pace positiva non si presta a definire un modello preciso di società, come, per esempio, la società cristiana, la società aperta, oppure la democrazia o il socialismo. Cioè, la pace difficilmente si lascia tradurre in un preciso modello di società che sia alternativo ad altri modelli. Sono i diversi modelli di società che possono sperimentare, talvolta, la condizione della pace positiva (o della guerra).

4. La guerra. Se vogliamo sapere cosa è la pace, almeno nella sua forma elementare, dobbiamo dunque come minimo sapere bene cosa sia la guerra. La guerra necessita dunque, a sua volta, di una definizione, che può risultare anch’essa piuttosto difficoltosa. Di solito non basta però definire la guerra come non pace. La guerra ha invece una sua definizione in positivo, cioè dotata di suoi specifici e autonomi contenuti. Vagamente, il termine guerra può significare un conflitto di qualsiasi tipo, ma abbiamo già detto che ci sono conflitti che non sono guerre. Allora abbiamo dovuto introdurre fin da subito la specificazione di “conflitto violento”. La guerra è un conflitto la cui caratteristica precipua è l’uso sistematico della violenza. Secondo una definizione esaustiva proposta da Bobbio, la guerra in senso stretto sarebbe caratterizzata dal conflitto violento entro o tra comunità politiche e/o Stati[6]. Osserva Bobbio: «Va da sé che, una volta definita la pace come non guerra, la definizione di pace dipende dalla definizione di guerra […]. Le più frequenti connotazioni di “guerra” sono queste tre: la guerra è, a) un conflitto, b) tra gruppi politici rispettivamente indipendenti o considerati tali, c) la cui soluzione viene affidata alla violenza organizzata»[7].Si noti che, secondo Bobbio, la guerra rientra nel novero della politica e che la violenza impiegata non ha da essere sporadica o casuale, bensì organizzata.

5. La questione della violenza. La definizione della guerra non poteva che evocare anche la questione della violenza. La violenza è uno dei principali contenuti della guerra. La nozione di violenza, ovviamente, è assai più ampia della nozione della guerra. Non ogni violenza è guerra. Possiamo pensare alla violenza dei fenomeni naturali, a parole violente, alla violenza nei confronti degli animali, oppure alla violenza psicologica. Nel caso della guerra, siamo interessati a un particolare uso della violenza allo scopo di risolvere un conflitto di tipo politico, tra comunità politiche o entro di esse.

Che tipo di violenza è quella della guerra? Secondo Hobbes la guerra era lo stato prepolitico per eccellenza che comportava svariate forme di violenza, la cui massima espressione poteva giungere fino all’estremo dell’uccisione del nemico. La soglia minima che ci interessa in questo caso sembra sia proprio l’ammissibilità dell’uccisione del nemico. Altrimenti anche un incontro di boxe potrebbe essere considerato come una guerra. Per Hobbes, la costituzione dello stato politico attraverso il contratto determinava la fine della guerra di tutti contro tutti e del conseguente rischio di essere ammazzati. La pace negativa (la negazione della guerra) si oppone dunque al conflitto violento entro le comunità politiche e tra gli Stati e, dunque, a quelle forme di violenza che, oltre alla distruzione delle cose, ammettono l’uccisione del nemico.

Fatta questa distinzione fondamentale, tuttavia, fin dai tempi di Hobbes le forme della violenza connesse alla guerra si sono moltiplicate a dismisura, in un museo degli orrori senza fine. Dalla generica uccisione del nemico si è giunti al genocidio, ossia al tentativo di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Oppure alla minaccia atomica, la quale implicherebbe la possibile distruzione dell’intera umanità.

Occorre riconoscere che si è fatto uno sforzo per codificare l’uso della violenza in guerra, giungendo alla proibizione di determinate condotte e alla definizione dei crimini di guerra e di tribunali internazionali. Alla messa al bando di determinati tipi di armi. Va tuttavia riconosciuto che lo ius in bello, cioè il diritto bellico, nazionale e internazionale, nonostante i lodevoli sforzi, ha ottenuto scarsi successi nel governo della violenza in guerra. L’attuale guerra russo ucraina fornisce in merito una documentazione impressionante di barbarie. D’altro canto questa guerra mostra anche come non tutti i contendenti sono uguali nell’osservanza del diritto bellico e nel contenimento della barbarie della guerra. Qui mi riferisco precisamente alla guerra contro i civili messa in atto sistematicamente dai Russi in Ucraina. Ciò va detto chiaramente, contro le troppo facili generalizzazioni che corrono. E contro le troppo comode equidistanze.

In generale, abbiamo dunque la possibilità minimale di cercare di controllare l’uso della violenza in guerra, oppure la possibilità di far cessare ogni violenza bellica attraverso la pace. Abbiamo tuttavia anche la possibilità di rifiutare altri tipi di violenza che sono di fatto possibili. Fino al rifiuto di tutti i tipi possibili di violenza – ammesso che ne sia possibile un inventario[8]. In questo caso non possiamo parlare semplicemente di diritto bellico o di pace negativa, ma dovremo parlare proprio di un’altra cosa e cioè della nonviolenza[9]. Questa va oltre la guerra in senso stretto e diventa così un atteggiamento, una predisposizione a comportarsi, da applicare sempre, in tutte le situazioni, in tutti i casi della vita, non solo in contrapposizione alla guerra. L’insieme della nonviolenza è dunque assai più ampio dell’insieme della pace negativa. Anche se la pace negativa non può che essere uno degli aspetti compresi nella nonviolenza.

6. La nonviolenza. Trascrivo qui una definizione generale e generica: “La nonviolenza è una pratica personale che consiste nel non causare offesa ad altri in qualsiasi caso. Essa può derivare dalla credenza che offendere persone, animali e/o l’ambiente non sia necessario per ottenere qualsiasi tipo di scopo. Può avere come riferimento una filosofia complessiva che implichi l’astensione da ogni violenza. Può essere basata su principi morali, religiosi o spirituali, oppure le ragioni per promuoverla possono anche essere di tipo strategico o pragmatico[10]. La nonviolenza è dunque anzitutto una pratica personale, più che uno strumento di lotta politica, anche se questa è stata talvolta impiegata proprio in questo senso. Si noti che la nonviolenza, secondo Aldo Capitini, non andrebbe intesa semplicemente come negazione della violenza, bensì dovrebbe essere intesa come un valore autonomo, dotato di un proprio contenuto positivo.

Per comprendere la posizione della nonviolenza, che riguarda indubbiamente il nostro discorso e a cui faremo spesso riferimento, può essere utile riandare a Lev Tolstoj (1828-1910). Preferisco rifarmi a Tolstoj, piuttosto che al ben più noto Gandhi, perché la sua posizione mi pare più chiara ed esemplare. Per una considerazione critica di Gandhi, si veda Losurdo 2010. Tra la fine degli anni Settanta e degli anni Ottanta dell’Ottocento, anche in seguito all’ esperienza personale della guerra, Tolstoj visse una profonda crisi[11] e sperimentò un’intensa trasformazione interiore che lo spinse alla fede in Dio, alla semplicità volontaria, al rifiuto di tutte le forme di violenza, alla dieta vegetariana e all’animalismo. In questo ambito elaborò i principi fondamentali della nonviolenza, in un contesto fondamentalmente di tipo religioso. I riferimenti principali da cui aveva attinto sono costituiti dai Vangeli, dal cristianesimo minoritario (ad esempio i Quaccheri), da alcuni testi orientali e da alcune filosofie, tra cui quella di Schopenhauer.

Nell’ambito della nonviolenza, la dottrina centrale di Tolstoj – che si rifà soprattutto al Discorso della montagna evangelico – è quella della non-resistenza al male con il male[12]. Tolstoj ritiene che la non resistenza al male, quando sia perseguita rigorosamente, possa condurre – oltre che alla liberazione interiore – a un’autentica trasformazione sociale e possa provocare il dissolvimento degli ordinamenti sociali oppressivi e disumani. Tutto ciò senza ricorrere ad alcuna forma di violenza. Per questo occorre tuttavia un radicale impegno personale individuale, fino a giungere a praticare la disobbedienza civile, rifiutare il servizio militare e rifiutare il pagamento delle tasse, poiché queste sono usate dagli Stati per finanziare le guerre. In ciò seguendo David Henry Thoreau (1817-1862) come precursore. Il fondamento ultimo della nonviolenza è posto da Tolstoj nel comando divino contenuto nel Vangelo. E in ultima analisi nella fede. Notoriamente fu Tolstoj a influenzare Gandhi, con tutto quel che ne seguirà, circa la dottrina della nonviolenza, dottrina che in Gandhi prende il nome di ahimsa.

Come si può notare, si tratta di un pensiero senz’altro estremamente profondo. È stato tuttavia sempre fatto notare come sia anche piuttosto difficile da praticare, poiché implica, negli eventuali praticanti, un cambiamento radicale di vita e, di fatto, uno scontro radicale con l’esistente, in pressoché tutte le sue manifestazioni. Si noti che la strada proposta dalla nonviolenza implica uno scoglio di gran rilievo in materia di etica, su cui avremo modo di discutere ampiamente, e cioè la possibilità che il male sia lasciato libero di agire senza ostacoli. Questo poiché gli eventuali ostacoli posti al male implicherebbero a loro volta il ricorso alla violenza. E dunque alla riproposizione della violenza stessa. Questa posizione – come vedremo oltre – implica un’irrisolvibile incongruenza dei valori.

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7. Bellicisti, pacifisti e nonviolenti. Siamo così giunti a circoscrivere, in termini di prima approssimazione, oggetti concettuali come pace negativa e positiva, guerra, violenza e nonviolenza. Siamo ora in grado di meglio comprendere le dottrine o le elaborazioni teoriche corrispondenti a questi concetti e, conseguentemente, anche una serie di movimenti pratici che vi si ispirano. Avremo dunque le teorie pacifiste (nel senso della pace negativa ed eventualmente della pace positiva), le teorie belliciste (ed eventualmente violentiste, cioè le filosofie della violenza, anche se queste sono state raramente esplicitate e professate[13]) e le teorie della nonviolenza sul modello tolstojano e poi gandhiano. Avremo dunque, di conseguenza, come prima sistemazione, su un continuum, orientamenti e movimenti bellicisti, pacifisti e nonviolenti. Si potrebbero produrre ulteriori distinzioni, ma la cosa andrebbe troppo oltre i nostri scopi.

8. Esistono davvero i bellicisti? Dei tre punti di vista, il bellicismo è oggi l’orientamento meno caratterizzato, meno teorizzato, meno organizzato. Si tratta di un “–ismo”, il che comporterebbe, in senso proprio, una sorta di esaltazione della guerra, una sua promozione fino alla sua massima realizzazione, che corrisponderebbe al perseguimento di una sorta di guerra perfetta o di guerra perpetua[14]. Sicuramente, guardando al passato, possiamo trovare in merito numerosi casi storici. Molte società del passato si sono costituite avendo la guerra come fulcro. O, per lo meno, avendo al proprio interno gruppi sociali interamente devoti alla pratica della guerra. I quali spesso, proprio per questa loro attività connessa all’esercizio della forza, finivano per ricoprire una posizione sociale centrale e dominante. Oggi, in generale, nelle più diverse società, la centralità della guerra sembra in via di superamento. Anche molti di coloro che oggi sono impegnati settore della guerra, nel settore militare, ritengono auspicabile non doversi mai ricorrere effettivamente alla guerra. Il termine “bellicismo” oggi – almeno in Occidente – viene applicato in forma residuale soprattutto per designare coloro che ritengono possibile l’uso della guerra in determinate situazioni, oppure che, pur non esaltando la guerra, la accettano come necessaria, oppure ancora coloro che, una volta scoppiata una guerra, non vi si oppongano con la dovuta risolutezza. Talvolta si tratta di un termine che ha abbandonato la connotazione descrittiva e ha assunto connotazione retorica e dispregiativa, come il ben più noto termine guerrafondaio.

La domanda che ci dobbiamo porre allora è se oggi esistano realmente i bellicisti in senso proprio, o se questi non siano soltanto dei pacifisti deboli. Oppure pacifisti minimali, pacifisti moderati, o anche pacifisti imperfetti. In talune situazioni retoriche coloro che, pur non desiderandola, accettano la guerra come una necessità sono stati considerati come dei bellicisti. Si ponga mente al dibattito occorso in Italia alla vigilia della Grande guerra. Bellicisti autentici erano sicuramente gli interventisti, ma oggi sarebbero considerati bellicisti anche coloro che avevano come motto “Né aderire, né sabotare”, oppure i cattolici che, pur disapprovando la “inutile strage”, la ritenevano comunque doverosa in termini di obbedienza alle leggi vigenti dello Stato. Ancora diversa la posizione di taluni interventisti democratici, che volevano unicamente quella guerra per porre fine a tutte le guerre.

Come si vede, anche in questo caso, la distinzione tra bellicismo e pacifismo sembra piuttosto evocare un continuum, piuttosto che una secca dicotomia, come sembra invece emergere invece dal dibattito superficiale dei giorni nostri. Può essere anche comprensibile il fatto che nello scontro politico si sia indotti a dicotomizzare, ma è sufficiente un minimo di riflessione per concludere che la dicotomia tra pacifismo e bellicismo costituisce una ben povera rappresentazione della realtà. Soprattutto una rappresentazione di fatto priva di utilità. Tratteremo più in là della teoria della guerra giusta, che è un caso esemplare di situazione di continuità tra i due opposti.

9. Militaristi. Abbiamo visto che la guerra è una forma di violenza organizzata. Nelle società a elevata divisione del lavoro, i militari sono i professionisti della guerra. La questione degli armamenti, degli eserciti e più in generale della tecnica militare, è una conseguenza delle distinzioni precedenti. Armi, eserciti e tecniche militari sono impiegati per produrre i conflitti violenti e organizzati tra le comunità politiche ed entro gli Stati, cioè le guerre. La posizione attribuita all’organizzazione militare nell’ambito della società diventa dunque fondamentale. Quando la sfera strumentale della guerra tende a prevalere e a sopravanzare le altre sfere della società, si parla di militarismo e di società e/o Stati militaristi. Possiamo parlare più correttamente, in generale, di società a trazione militare. Si tratta di società la cui attività fondamentale ruota attorno alla guerra e dove i militari giocano un ruolo centrale nelle principali decisioni. E dove consumano nella loro attività le principali risorse economiche e finanziarie accumulate dalla società stessa. Nel corso dei secoli, in Occidente siamo stati testimoni del passaggio progressivo da società a trazione militare verso società a trazione commerciale, o a trazione industriale, tecnologica e finanziaria. Queste ultime tendono ad attribuire al settore militare un ruolo sempre più strumentale e marginale. Questa tendenza si è accentuata dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il caso degli USA è esemplare: pur essendo una potenza militare, la sua trazione fondamentale è di tipo tecnologico, industriale e finanziario. Oggi è di moda trascurare questo punto, a causa dell’anti americanismo pregiudiziale assai diffuso nel nostro Paese. Sul piano del militarismo, gli USA e la Russia non sono proprio la stessa cosa. La Russia di Putin, insieme a pochi altri esempi, è invece effettivamente una potenza a trazione militare (o si illude di esserlo, viste le scarse prestazioni sul campo).

Dunque, armamenti, eserciti e tecnica militare costituiscono dei mezzi che rendono possibile l’esercizio della guerra. Secondo un certo senso comune diffuso, il semplice possesso di armamenti ed eserciti sarebbe un indice certo di militarismo. Si trascura tuttavia il fatto che oggi, nella maggioranza dei casi, il possesso di armamenti ed eserciti ha la funzione di provvedere alla difesa. Questo per garantire un bene pubblico indubbio che si chiama sicurezza. Si è discusso a lungo su come ottenere la sicurezza senza disporre tuttavia di apparati di difesa ma una soluzione efficace non pare sia stata ancora trovata. Se comunque nel mondo tutti gli eserciti servissero solo per la difesa, non ci sarebbero più guerre. Forse è vero che in determinate circostanze i mezzi militari rendono anche più probabile l’esercizio della guerra. Ma è anche del tutto possibile pensare ad armi, eserciti e tecniche militari che siano perfettamente approntate, ma mai adoperate. L’idea che se hai un’arma prima o poi la usi è un’idea stupida e superficiale. Anche gli svizzeri tengono lo schioppo sotto il letto, ma è difficile pensarli come pericolosi aggressori e guerrafondai. Secondo la teoria della deterrenza, le atomiche sarebbero armi prodotte proprio per non essere mai usate.

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C’è ancora indubbiamente, da qualche parte nel mondo, un militarismo aggressivo. Ci sono ancora imperialismi a trazione militare, com’è proprio il caso della Russia. Ma oggi nel mondo c’è anche un realistico impiego di eserciti e armamenti per la mera difesa. O anche per gli interventi umanitari nelle situazioni di crisi. L’esigenza di finanziare con risorse pubbliche una forza di difesa non può che dipendere dalla valutazione razionale di quanto pericoloso sia l’ambiente internazionale in cui ci si trova. I recenti avvenimenti dell’aggressione della Russia all’Ucraina hanno indubbiamente reso più pericoloso l’ambiente internazionale, determinando così – a parere di molti – l’esigenza di maggiori investimenti nella sicurezza[15]. Dunque, anche nell’ambito del militarismo, sarebbe il caso di introdurre delle distinzioni. Anche il povero Enrico Letta è stato rappresentato con l’elmetto. Non tutti i militarismi sono uguali. Dovrebbe essere evidente che il militarismo della NATO non è esattamente uguale al militarismo della Russia di Putin. Le semplificazioni eccessive precludono la comprensione della realtà e impediscono un’azione efficace nel mondo.

Può ben essere che il superamento e infine l’abolizione dell’apparato militare possa essere in futuro una conseguenza desiderabilissima dell’affermazione universale di una situazione di pace positiva. Magari connessa anche all’accettazione universale della prospettiva filosofica e religiosa della nonviolenza. Al giorno d’oggi però un simile obiettivo non sembra essere alla nostra portata. Può al più costituire al più una idea regolativa, nel senso kantiano del termine.

10. La pace si dice in molti modi. Gli elementi definitori che abbiamo fin qui introdotto hanno mostrato la complessità delle questioni affrontate, tale da afflosciare la sicumera di molti protagonisti dell’odierno dibattito pubblico. La prima acquisizione inevitabile, per chi frequenti ancorché saltuariamente questo campo, è proprio quella per cui la pace “si dice in molti modi”. Questo vuol dire che, a dispetto del senso comune, non c’è un concetto unico di pace. Si tratta piuttosto – come dicono i filosofi – di una “somiglianza di famiglia”, cioè di una rete di concetti interconnessi e di relativi usi linguistici. Dunque chi dice di essere per la pace non ha ancora detto niente: dovrebbe sforzarsi di esplicitare chiaramente cosa intende per pace. Altrimenti, bisognerebbe concludere inevitabilmente che tutti vogliono la pace. Ma una volta affermato il punto, tutti si scontrerebbero immediatamente intorno alle questioni che hanno appena evitato di chiarire. Nella letteratura filosofica e politologica si fa riferimento ad almeno quattro tipi di pace[16]. Molto diversi tra loro. Abbiamo dunque: a) la pace come resa incondizionata; b) la pace come tregua; c) la pace come trattato; d) la pace positiva. Potremmo aggiungere un quinto tipo: e) la pace come conseguenza della nonviolenza, che sarebbe poi un tipo particolare di pace positiva, alla quale abbiamo tuttavia già accennato.

11. La pace come resa incondizionata. È questo un tipo di pace che sopravviene quando uno dei contendenti (o più di uno) è talmente coartato che non può neanche decidere di scendere in guerra. Di solito si cita in proposito un famoso esempio da Rousseau. Il filosofo, all’inizio del suo Contratto sociale[17], scrive contro Hobbes: “Si vive tranquilli anche nelle carceri: basta questo per trovarcisi bene? I Greci rinchiusi nell’antro del Ciclope ci vivevano tranquilli, aspettando che venisse il loro turno di essere divorati”. Si trovavano dunque certo in pace i marinai di Ulisse, chiusi nella prigione del ciclope, in attesa di essere divorati. È questa una condizione di pace (senz’altro assenza di guerra e di violenza nell’immediato!) che deriva dalla totale passività, dalla totale costrizione, cioè dalla resa incondizionata al nemico.

La storia è piena di casi in cui una comunità politica avrebbe sicuramente scelto di combattere, solo se appena avesse potuto farlo. Possiamo pensare a situazioni nelle quali l’oppressione è così forte che i soggetti non hanno neppure la possibilità di scegliere eventualmente la via delle armi. L’attuale Afghanistan gode senz’altro di una situazione di pace in seguito alla resa incondizionata ai talebani. L’attuale Iran, che godeva senz’altro della pace interna, sta mostrando che quella pace si fondava sostanzialmente sull’oppressione (in particolare delle donne) e sta precipitando verso una situazione di guerra civile. Spesso ci si dimentica che per decidere di scendere in guerra occorre perlomeno disporre di un minimo di libertà d’azione. Rispetto a una situazione di totale dominazione, checché ne pensasse Tolstoj, la possibilità di combattere una guerra può anche essere considerata, in taluni casi, come una sorta di miglioramento della propria posizione, un auspicabile avanzamento. Solo la determinazione assoluta di non opporsi al male può sconsigliare di ricorrere alla guerra nelle situazioni più estreme di oppressione.

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12. La pace come non libertà. Coloro che sono nella situazione descritta da Rousseau hanno sicuramente la pace (ammesso che così si possa chiamare), ma non hanno alcuna libertà. Non si tratta di un caso tanto raro. Assomiglia questa alla situazione hobbesiana post contrattuale, dopo che i cittadini hanno ceduto tutti i loro poteri al Leviatano (lo stato assolutistico) e sono così diventati sudditi. Hanno la pace ma sono sottomessi in tutto e per tutto al potere assoluto. Per di più l’hanno fatto per propria scelta e volontà. Si ricorderà che quella situazione, secondo Hobbes, in un solo caso si sarebbe potuta risolvere in una guerra civile: qualora il Leviatano avesse attentato alla vita dei cittadini. I sudditi sottomessi nel patto hobbesiano sarebbero dunque appena più fortunati dei marinai di Ulisse nella prigione del ciclope. Questo tipo paradossale di pace, intesa come resa incondizionata e totale sottomissione all’arbitrio, è stata ampiamente teorizzata e praticata. Ad esempio, nel caso di certi martiri cristiani. O nel caso della nonviolenza tolstojana già citata. È tuttavia davvero singolare – dovrebbe indurre a qualche riflessione coloro che in questa materia mostrano grandi certezze – che il tipo più infimo di pace, la pace come resa incondizionata, finisca con il coincidere con quella che taluni presumono essere il tipo più nobile di pace e cioè quello derivante dalla applicazione integrale della nonviolenza.

13. Una digressione nell’attualità: forse la pace non è tutto. Più recentemente, e assai più ignobilmente, nel dibattito nostrano seguente alla guerra in Ucraina, il noto opinionista prof. Orsini ha teorizzato l’opportunità della resa incondizionata di fronte all’aggressore russo, pur di avere salva la vita. Così, secondo il professore, avrebbero dovuto fare gli Ucraini di fronte all’invasione russa. In uno dei tanti talk-show, il prof. Orsini ci ha ricordato anche che: “Anche sotto il fascismo i bambini potevano vivere felici”. Poiché Putin non avrebbe probabilmente divorato gli Ucraini come il ciclope – anche se avrebbe potuto far ammazzare il loro presidente – dunque gli Ucraini, se si fossero subito arresi, avrebbero certo perso totalmente la libertà ma avrebbero guadagnato comunque la pace. Almeno per la popolazione civile e per i bambini. Dunque, ne conseguirebbe che i morti che la resistenza degli Ucraini ha indirettamente provocato (militari, civili e i bambini) sarebbero tutti da mettere sulla coscienza di Zelens’kyj, del suo bellicoso governo, con tutti i suoi alleati, che non si sono prontamente arresi. E sulla coscienza di tutti quelli che hanno dato ragione a Zelens’kyj e lo hanno aiutato. Si tratta ovviamente, questa di Orsini, non della conseguenza di una professione di fede nonviolenta, ma di una davvero singolare applicazione dell’etica della responsabilità (vedi oltre). Al professor Orsini non viene neppure in mente il punto problematico fondamentale e cioè il fatto che forse la pace non è tutto.

14. Scoglio: la pace e l’incongruenza dei valori. La situazione della pace come resa incondizionata ci fornisce l’occasione per affrontare uno scoglio teorico di notevole interesse. Ci costringe a domandarci se la pace (la pace prima di tutto, a qualunque costo) possa essere davvero considerata come il bene supremo. Se possa cioè essere considerata indipendentemente dalla situazione nella quale essa si realizza. Se possa cioè essere valutata in piena autonomia da ogni altra considerazione, se sia davvero un valore in sé, incomparabile rispetto ad altri valori. Appena la pace viene tolta dal suo carattere assoluto e viene considerata in termini situazionali, viene cioè confrontata con altri valori, o altri beni, nascono molte questioni inaspettate. Per avere in cambio la pace, possiamo rinunciare completamente alla nostra libertà? Cos’è una pace senza libertà? Anche la giustizia può essere tirata in causa. Una pace ingiusta è una vera pace?

Molti autorevoli intellettuali nostrani, soprattutto di sinistra, negli infiniti talk-show che si sono susseguiti dopo il 24 febbraio, seguendo più o meno consapevolmente il prof. Orsini, consigliavano senz’altro agli Ucraini di non resistere. Che deponessero le armi. Qualcuno si affannava addirittura a negare con argomentazioni fantasiose che quella messa in atto dagli Ucraini fosse una resistenza. Addirittura, si sentivano di decidere che non si dovessero mandare armi agli Ucraini, perché questi si arrendessero prima, dunque con meno danni per loro. Qualcuno, beato lui, s’inventò anche le “armi non offensive”. Possiamo qui parlare di altruismo? Se gli Ucraini avessero subito obbedito a questi desiderata, oggi sarebbero senz’altro in pace, sarebbero cioè sotto la pace di Putin (dove senz’altro anche i bambini potrebbero vivere felici!). Qualcuno ha pensato di mettere a confronto il bene di una simile pace con i beni della libertà e della giustizia? Qualcuno di questi “altruisti” ha pensato almeno di chiedere il parere degli Ucraini? Cioè dei diretti interessati. Purtroppo nell’epoca del pensiero incontinente nessuno si ferma ad approfondire le questioni.

Credo abbia colto nel segno il filosofo Alexandr Dugin (un filosofo russo euroasiatista e nazibolscevico, per chi non lo conoscesse) quando dice che gli Occidentali si sono rammolliti, sono in piena decadenza, perché non sono neanche più in grado di pensare di poter morire per la propria causa. Del resto Heidegger era dello stesso parere. Fa davvero pena, oggi, vedere coloro che hanno imbracciato le armi per difendere il proprio Paese, o chi per essi, negare ad altri di fare la stessa cosa, in nome della pace.

Queste considerazioni (e questi esempi) ci pongono di fronte a un problema ben noto nell’ambito dell’etica. Normalmente si pensa che i valori e/o i beni siano semplicemente di carattere additivo, che possano cioè essere sempre assommati tra loro a piacere. Per questo tutti i valori e/o i beni dovrebbero sempre essere tra loro compatibili. In realtà è noto fin dalla filosofia antica che i valori o i beni possono non essere compatibili tra loro. Perseguire determinati valori può implicare necessariamente la rinuncia ad altri. I due tipi aristotelici di giustizia, la giustizia distributiva e la giustizia commutativa, ad esempio, non sono affatto compatibili. Per avere l’uno si deve necessariamente sacrificare l’altro. In generale, è poi noto come sia molto difficile essere giusti e buoni contemporaneamente. In campo teologico, se Dio è giusto, non può essere buono, e viceversa. Nel caso del contratto hobbesiano, accade che per avere la pace si debba sacrificare la libertà. Questa spiacevole situazione è nota come incongruenza dei valori[18]. Dunque – spiace per taluni pacifisti puri – la pace deve scendere dal piedistallo del bene assoluto o per lo meno deve accettare di essere messa a confronto con altri possibili valori o beni. Come minimo con la libertà e la giustizia. Ma anche con beni assai più prosaici. Come ad esempio la sopravvivenza materiale, cioè la vita[19]. Per Orsini, la vita dei bambini vale la capitolazione e dunque la pace come resa incondizionata. Per altri tuttavia la guerra può significare una possibilità di vita. I poveri buriati (una delle etnie asiatiche prevalenti nell’esercito Russo attuale che combatte in Ucraina – la Repubblica di Buriazia è una repubblica della Federazione Russa) sono spinti ad arruolarsi e a combattere perché è pressoché l’unico lavoro che è messo loro a disposizione. Non possono permettersi di fare i pacifisti più di tanto. Poiché l’incongruenza dei valori è una questione fondamentale, ce ne occuperemo oltre.

15. La pace come tregua o “situazione di pace”. È questa la pace che corrisponde all’interruzione temporanea delle ostilità. Se vogliamo, corrisponde alla nozione della tregua. I contendenti sono ostili tra loro. Sono liberi di decidere se continuare o meno a combattersi. Decidono tuttavia di sospendere le ostilità. Siamo cioè in una situazione di ostilità non belligerata.

È questa una situazione ben nota, poiché l’abbiamo sperimentata nel corso della lunga Guerra fredda. Anche se la Guerra fredda è stata in realtà belligerata indirettamente, attraverso una serie notevole di proxy war, le guerre indirette o guerre per procura. È questa anche la situazione descritta dalla locuzione della pace armata. È anche la situazione descritta dall’equilibrio del terrore, o dall’equilibrio della deterrenza. Non si combatte più, cioè ci si è messi in una situazione di tregua, per il fatto che la prosecuzione dei combattimenti produrrebbe esiti non desiderati o temuti da entrambe le parti. Dunque, ci si mette in uno stato di tregua per la paura degli effetti di una continuazione dello stato di guerra belligerata. Si accetta di smettere di combattere perché si è sottoposti a una minaccia (o a uno svantaggio) più grande (sia da parte dell’altro contendente, sia da parte di un Terzo che sia intervenuto). Tuttavia perdura l’inimicizia e la minaccia reciproca, e resta alta la probabilità di riprendere il conflitto.

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16. Scoglio: si può imporre la pace? Un caso filosofico interessante, un vero e proprio scoglio etico, è quello dell’imposizione della pace (nel senso della tregua o del trattato). Affinché si dia il caso, occorrono minimamente due contendenti e un Terzo, il mediatore, il pacificatore, che costringa i due a deporre le armi. Usando magari la persuasione, l’influenza, distribuendo garanzie e vantaggi di qualche tipo. Ma è possibile anche pensare che il Terzo possa provvedere all’imposizione della pace attraverso l’uso della forza.

Non sarà sfuggito al lettore che, in un certo senso, la possibilità di imporre la pace, cosa spesso effettivamente successa nella storia, ha in sé qualcosa di contradditorio. In una visione completamente irenica, la pace dovrebbe in un certo senso imporsi da sé. Tuttavia purtroppo la guerra, una volta iniziata, tende ad auto alimentarsi, tende addirittura a intensificarsi. Il Terzo allora è posto di fronte al dilemma di lasciare che la guerra continui oppure di imporre la pace. Se tuttavia sceglie di imporre la pace, si troverà a usare una guerra per imporre la pace. I pacifisti si scandalizzeranno, ma questo è un altro problema legato all’incongruenza dei valori. Per avere la pace si finisce per accettare che si apra una nuova guerra tra il Terzo pacificatore e i due contendenti. Non affrontiamo qui quali possano essere gli eventuali interessi del Terzo nello scendere in guerra per imporre la pace. In generale, dall’intervento del Terzo non si ha alcuna garanzia preventiva; potrebbe certo scaturire anche una pace senza libertà e/o senza giustizia.

L’idea di un Terzo pacificatore attraverso l’uso della forza non dovrebbe tuttavia risultare così peregrina. Si tenga conto che l’ONU dovrebbe, in teoria, proprio agire come un Terzo virtuoso, capace di sedare i conflitti internazionali eventualmente anche con la forza, come sta scritto nella sua Carta. Si noti tuttavia di sfuggita che, se appena si accetta la prospettiva che il Terzo possa (o sia tenuto a) intervenire con la forza per riportare la pace, allora si dovrà come minimo ammettere che non tutte le guerre sono uguali. Alcune sarebbero guerre comuni destinate a continuare o a finire con la sopraffazione dell’uno da parte dell’altro. Altre sarebbero invece guerre determinate dall’intervento del Terzo che avrebbe tuttavia come scopo il ristabilimento della tregua o della pace.

Dovrebbe suscitare un certo stupore il fatto che – in concomitanza con la attuale guerra russo ucraina – a livello mondiale non si sia aperto per lo meno un acceso dibattito circa la riforma dell’ONU, organizzazione oggi pesantemente screditata dal fatto che lo Stato palesemente aggressore, la Russia, siede nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con il diritto di veto. Questo significa che la Russia, con la sua aggressione, ha di fatto privato il mondo intero di quel minimo di organizzazione internazionale abilitata a fungere da Terzo virtuoso nelle controversie. È come pretendere da ora in avanti che – ove sia violata – la pace si ristabilisca da sola. Perché questa reticenza ad affrontare la questione della riforma dell’ONU? Evidentemente l’idea di una forza militare internazionale capace di fare interventi di pacificazione anche con le armi non è così popolare, in parte per una forma di pacifismo estremista ma in parte anche per malcelato bellicismo: qualora ci si trovasse nella situazione di fare la guerra è preferibile avere le mani libere.

Così avviene che si stia togliendo di mezzo proprio il Terzo virtuoso che sarebbe in grado di intervenire con la forza e di “rendere il male con il male” all’aggressore. Ciò paradossalmente potrebbe anche essere in linea con i migliori auspici dei nonviolenti. Quel che seguirà tuttavia a questa nuova situazione non sarà il regno della pace positiva ma il regno dell’anarchia internazionale, dove ognuno farà quello che vuole, o quello che si potrà permettere, grazie magari alle sue bombe atomiche. Così gli Stati deboli cercheranno la protezione degli Stati forti, di coloro che sono in grado di vendere protezione nel più puro stile mafioso.

17. La pace come ordine privo di ostilità. È la condizione che si configura quando cessano tutte le ostilità. Solitamente questa è la condizione che si consegue sul piano del diritto attraverso la stipulazione di un trattato di pace e, in termini fattuali, attraverso la cessazione delle violenze, il ritiro delle forze e il disarmo. È quella che Bobbio, sulle orme di Aron, chiamava la pace di soddisfazione. Perché è così difficile la pace di soddisfazione? La difficoltà è dovuta al fatto che la condizione di pacificazione, una volta raggiunta, non garantisce il mantenimento della pace stessa. Detto in altri termini, la pace non si auto rigenera, la pace non è in grado di garantire il mantenimento della pace stessa. Poiché i trattati di pace possono sempre essere violati, la condizione pacifica guadagnata è sempre reversibile. La pace non ha alcuna autonomia, è comunque instabile e può tendere a precipitare verso la guerra.

Si tratterebbe allora di comprendere quali siano le condizioni, che non dipendono dalla pace stessa, che possono favorire (o addirittura garantire) il mantenimento della pace. Ad esempio, secondo un famoso assunto del politologo Michael W. Doyle, gli Stati democratici di solito non si fanno la guerra tra loro. Dunque la democratizzazione globale degli Stati costituirebbe una delle precondizioni per il mantenimento di una pace priva di ostilità. Anche un ONU riformato e funzionante (non quello attuale) potrebbe dare un contributo. È chiaro che le condizioni che potrebbero mantenere la pace potrebbero essere le più varie. Non posso entrare nel merito. C’è un’intera disciplina dedicata a questo tipo di questioni e cioè i peace studies, o anche peace and conflict studies.

In generale, possiamo però dire con relativa certezza che una delle cause principali della fine della pace è il sopravvenire dell’ingiustizia, sia all’interno delle nazioni sia tra di loro. Il mantenimento di un ordine privo di ostilità, il mantenimento di una pace di soddisfazione conseguita, implica evidentemente la giustizia. La pace senza giustizia percorre poca strada. Chi voglia mantenere una pace ordinata senza ostilità dovrebbe dunque contemporaneamente procurare la giustizia. È chiaro che una condizione di ingiustizia può spingere al ricorso alla violenza, determinando una catena causale che può portare alla guerra, interna o esterna. Sappiamo bene tuttavia che la pace di per sé non è senz’altro in grado di procurare la giustizia. D’altro canto, lo scopo di procurare la giustizia può implicare anche la rottura della pace. Per questo la pace è sempre a rischio. Ovviamente, la giustizia sussistente in una data situazione viene sempre giudicata dal punto di vista dei soggetti coinvolti, i quali potrebbero non essere affatto concordi sulla natura giusta o ingiusta della pace in questione. Anche in questo caso si presenta l’opportunità di ricorrere all’intervento di un Terzo, capace di intervenire nel merito delle ingiustizie rivendicate. Ma il Terzo come si è visto non è sempre un ospite gradito.

Queste semplici considerazioni stanno a significare che gli sforzi per realizzare e mantenere la pace non possono avere mai fine. Una volta stipulato il trattato di pace c’è sempre il rischio che l’ingiustizia, sopravvenuta o latente, rovini la pace. Allora al pacifista consapevole non resterebbe altro che reinterpretarsi come politico impegnato indefinitamente per l’implementazione della giustizia. Impegnarsi solo per la pace è indice davvero di corte prospettive sulla natura della pace stessa.

18. Pace positiva. I filosofi hanno spesso anche trattato della pace positiva, della quale abbiamo già accennato in apertura, per circoscrivere la pace negativa. Questa non è soltanto un effetto del diritto, attraverso un trattato di pace, che come abbiamo visto può però sempre essere violato. È piuttosto la condizione che la società nazionale e la comunità internazionale assumono dopo che si sia instaurata una pace giusta e sia stata instaurata la giustizia. Un caso tipico è costituito dalla teoria di Galtung, cui abbiamo già accennato.

Spesso questo concetto è stato tacciato di essere un concetto assai vago e di fatto utopico. Esso implica l’esistenza di società pacifiche e giuste e la contestuale trasformazione spirituale degli individui in modo da diventare essi stessi pacifici e giusti. Quando si pensa alla pace positiva non si può fare a meno di evocare la kantiana pace perpetua[20]. La quale tuttavia – Kant era un pessimista cronico – assomigliava più a una pace trattata che non a una pace positiva universale. Sul piano filosofico si può disquisire se una pace positiva fondata sulla giustizia sia possibile, sia effettivamente alla portata della natura umana o se non sia piuttosto incompatibile con questa. Per qualificare la inemendabilità della natura umana Kant ha usato la nota metafora del legno storto: “Dal legno storto dell’umanità non si potrà mai cavare alcuna cosa dritta”[21]. Non posso addentrami in questa problematica del rapporto tra la guerra e la natura umana ma la segnalo al lettore come stimolo per la riflessione.

Tutto ciò ha comunque una conseguenza importante, cui ho già accennato ma che vale la pena di ribadire in forma più estesa. La realizzazione della pace positiva non può essere conseguita restando all’interno dell’esclusivo dominio della pace stessa (e dei relativi pacifismi). La pace da sola non è sufficiente. Non pare bastevole alla sua compiuta realizzazione positiva. Questo significa che l’impegno per la pace non può essere disgiunto dall’impegno politico per la realizzazione di una società giusta. L’impegno per la pace non può dunque essere single issue. Raramente tuttavia i movimenti pacifisti mostrano esser consapevoli dell’esigenza, per la costruzione e il mantenimento della pace, di connettere strettamente la difesa della pace con la realizzazione della giustizia. Questa miopia dei pacifisti si spiega col fatto che ammettere di doversi impegnare per la giustizia finirebbe per sporcare le mani alla purezza apparente dell’impegno per la pace. Queste considerazioni mostrano anche i limiti della nonviolenza. La quale azzarda a ritenere che sia sufficiente la diffusione della nonviolenza per la realizzazione della giustizia. Una società con una maggioranza di nonviolenti praticanti sarebbe presumibilmente comunque sempre ostaggio di una minoranza di violenti praticanti. Anche a Paperopoli c’era la Banda Bassotti.

19. Un’altra classificazione. I diversi tipi di pace di cui abbiamo discusso rappresentano solo una delle tante classificazioni delle situazioni di pace[22]. Un’altra classificazione della pace, che riprende alcuni aspetti della precedente, è stata fornita da Raymond Aron[23].Egli distingue tre tipi di pace. A) Anzitutto la pace di potenza. È la pace che si ottiene grazie al sopravvenire di un potere forte che impone l’ordine e, dunque, la pace. Può essere di tre tipi, di equilibrio, di egemonia o di imperio. B) Abbiamo poi la pace di impotenza, che era quella fondata – all’epoca di Aron – sull’equilibrio del terrore tra le potenze atomiche. Queste erano costrette a non farsi la guerra poiché la guerra avrebbe implicato la mutua distruzione assicurata. C) In ultimo, abbiamo la pace di soddisfazione. È la pace che sopravviene quando ciascuno è in sé soddisfatto della propria situazione, per cui non cerca in nessun modo l’aggressione. Spiega Bobbio che: “La pace di soddisfazione ha luogo quando in un gruppo di stati nessuno ha pretese territoriali o d’altro genere verso gli altri, e i loro rapporti sono fondati sulla fiducia reciproca (che è proprio l’opposto del timore reciproco); pace di soddisfazione è quella che vige dopo la seconda guerra mondiale fra gli stati dell’Europa occidentale”[24].

La classificazione di Aron ha il merito di mettere in luce la dimensione di potere (e di disuguaglianza) che comunque è spesso connessa anche alle situazioni di pace (come nel caso estremo dell’antro del ciclope) e che contribuisce drammaticamente a privare la pace di quel manto idealistico che spesso i pacifisti le attribuiscono. La pace non elimina il potere e questo può sempre riprodurre l’ingiustizia.

20. Dai tipi di pace ai tipi di pacifismo. Visti i diversi tipi di pace, si possono anche dare per definiti i principali obiettivi possibili dei diversi movimenti pacifisti, cui – come dicevamo – possiamo aggiungere anche i movimenti nonviolenti. Per la chiarezza del discorso pubblico, e per l’efficacia del dibattito, questi movimenti dovrebbero però dichiarare esplicitamente quale tipo di pace vorrebbero raggiungere, nelle diverse specifiche situazioni. E dovrebbero evitare di contrabbandare un tipo di pace per un altro, come invece amano fare abitualmente, quasi senza accorgersene.

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21. Intermezzo. Nell’intento di capitalizzare i dubbi del lettore volenteroso che sia giunto fino a questo punto, propongo un esercizio di riflessione su un caso concreto[25]. Vediamo con qualche dettaglio la narrazione di quel che accadde a Srebrenica tra il 6 e il 25 luglio 1995. Siamo in Bosnia-Erzegovina, pochi mesi prima della firma dell’accordo di Dayton sulla spartizione interna del Paese tra la Repubblica serba (RepublikaSrpska) e quella croato bosniaca. Srebrenica era una delle tre enclave bosniache in territorio serbo (Srebrenica, Žepa e Goražde). Di qui la forte pressione dell’esercito serbo nei confronti delle poche enclave rimaste. L’intento era quello di effettuare una pulizia etnica dell’enclave che sarebbe in prospettiva divenuta territorio serbo. Srebrenica era presidiata da un contingente di alcune centinaia di caschi blu olandesi dell’UNPROFOR, cioè dell’ONU. Avrebbero dovuto difendere gli abitanti locali da eventuali aggressioni dei serbi. Tra il 6 e il 25 luglio le forze soverchianti dei serbi, comandati dal generale Mladich, circondarono l’enclave, la conquistarono senza difficoltà e, sotto la minaccia delle armi, ridussero all’impotenza il contingente dei caschi blu olandesi. Nei giorni successivi perpetrarono sistematicamente il massacro di più di 8000 civili bosniaci. La Corte internazionale di giustizia ha successivamente definito il massacro come genocidio.

Nonostante vari processi e inchieste, la posizione del battaglione olandese dell’UNPROFOR non è stata ancora del tutto chiarita. Gli olandesi avevano solo armi leggere ed erano sicuramente inferiori di forze rispetto ai serbi. Per cui non furono in grado di intervenire e di assolvere al loro compito di proteggere la popolazione[26]. In un quadro di disorganizzazione della catena di comando, non ci fu alcun significativo aiuto o intervento aereo dall’esterno in difesa dall’enclave, nonostante fosse stato più volte richiesto dal comandante del contingente, questo perché a quanto si disse non sarebbe stato conforme alle regole di ingaggio della missione. Ai caschi blu non restò che riparare nella loro base e cercare di intavolare qualche timida trattativa con Mladich. Una moltitudine di bosniaci sfollati si radunò nei pressi della base ma gli olandesi non furono in grado né di ospitarli né di difenderli. Gli uomini di Mladich li prelevarono con il pretesto della identificazione, separarono gli uomini, li caricarono su mezzi e li portarono via e procedettero al massacro che infuriò nei giorni successivi.

Quando si resero conto di quel che stava accadendo, gli olandesi non furono comunque in grado di intervenire. Le inchieste e i processi che ci furono, a vari livelli, non hanno portato a nulla di definitivo. Circolano diverse versioni interpretative, da chi dice che, praticamente abbandonati dal Comando centrale della missione, i caschi blu non abbiano potuto fare altro che stare a guardare. Qualcuno li accusa addirittura di avere anche, per certi aspetti, collaborato con i Serbi, avendo consentito il prelevamento di coloro che si erano rifugiati nei pressi o addirittura dentro alla base. È stato accertato che, in alcuni specifici casi, i caschi blu non abbiano dato rifugio ad alcuni bosniaci che lo richiedevano espressamente e che poi sono stati massacrati. Per alcune specifiche omissioni processualmente accertate alcuni ufficiali sono stati condannati. Comunque, nonostante la situazione imbarazzante della loro posizione, forse per una sorta di riparazione, i soldati del contingente hanno anche ricevuto un’onorificenza dal governo olandese.

Il caso dei caschi blu olandesi nella sua complessità resta insoluto. A parte la responsabilità penale, gli olandesi del contingente UNPROFOR restano a tutt’oggi nel limbo indistinto di una non accertata responsabilità morale. In una posizione che può essere definita come “al di là del bene e del male”. Ecco allora qualche motivo di riflessione circa la filosofia della pace e della guerra. Qualcuno può sostenere che l’ONU, come pacificatore armato, non dovesse neppure trovarsi nella ex Jugoslavia, lasciando così che i diversi contendenti di quella guerra si pacificassero da soli. Qualche sincero umanitario può sostenere che, pur essendo inferiori in termini di forze, i caschi blu dovevano comunque intervenire per tentare di proteggere la popolazione; avrebbero cioè dovuto fare il loro dovere morale comunque, eventualmente anche sacrificando la propria vita. Oppure si può sostenere che l’ONU abbia peccato di omissione: doveva intervenire con regole di ingaggio più dure, con maggiori forze e più efficacemente, costringendo i Serbi a stare al loro posto. Anche con la minaccia o l’uso delle armi. Ma c’è anche un altro interessante punto di vista: i caschi blu olandesi non hanno fatto altro che tenere un comportamento del tutto consono con le prescrizioni nonviolente tolstojane di non rispondere al male con il male.Meglio dunque sarebbe stato in questo caso che non si fossero neanche presentati in Jugoslavia.

22. Un po’ di metaetica. Dopo il nostro intermezzo, passiamo ora a proseguire il nostro ragionamento. Finora ci siamo accontentati di individuare diversi tipi di pace, mostrando svariati problemi ad essi connessi. Ci siamo cioè occupati principalmente dei diversi obiettivi che possiamo avere in mente quando dichiariamo di essere per la pace. Dovrebbe essere emerso come minimo che la pace è un obiettivo di per sé assai problematico. Ma la pace non è solo problematica in quanto obiettivo. È anche decisamente problematica se consideriamo il modo con cui la vogliamo. Ebbene sì, la pace non solo si dice ma anche si vuole in diversi modi. Prenderemo in considerazione due modi principali. Ce ne sarebbero anche altri, ma questi due sono i più importanti. In termini di metaetica[27], la pace può essere considerata in due modi diametralmente opposti: dal punto di vista deontologico oppure da quello consequenzialista. Si tratta di una distinzione del tutto analoga a quella forse più nota di Max Weber tra l’etica dell’intenzione (o convinzione) e l’etica della responsabilità. Il primo punto di vista tende a considerare la pace come principio in sé. Il secondo punto di vista tende a considerare la pace in base alle sue conseguenze. Detto in sintesi, se assumiamo la pace come un principio universalmente valido, e dunque moralmente doveroso, saremo portati a disinteressarci delle sue conseguenze, le quali però, come s’è visto, possono anche non essere sempre buone. Se consideriamo invece primieramente le conseguenze della pace, non saremo più in grado di trattare la pace come un principio universale, valido sempre e comunque. Potremmo anche mettere in conto, in certi casi, di dover rinunciare alla pace, per evitare certe sue conseguenze negative e/o per conseguire altri beni che siano ritenuti preferibili o prioritari.

23. Deontologi. Vediamo meglio. Chi adotta la prospettiva deontologica ritiene in generale che ci siano dei principi, proprio come la pace, che sono buoni o cattivi in sé. Questi principi sarebbero dunque dotati di un loro valore intrinseco. Questa convinzione si traduce in un dovere, in un comandamento morale al quale si deve soltanto obbedire. Chi non obbedisce si rende colpevole e si colloca ipso facto dalla parte del male. Il principio della pace è dunque considerato una cosa buona di per sé e dovrebbe sempre essere realizzato senza discutere, a tutti i costi: etsipereat mundus.

Resta allora solo il problema di definire come si giunga a stabilire un principio come quello della pace, quale ne sia il fondamento o la giustificazione. I fondamenti che possono essere individuati sono molteplici e curiosamente possono anche essere in contrasto tra loro. Tuttavia mirano tutti a conferire alla pace il suo valore intrinseco. Qui può essere utile, a scopo meramente illustrativo della problematica, rammentare la vecchia classificazione kantiana delle etiche eteronome, formulata a seconda del carattere internoo esternorispetto all’individuo del principio che le guida. In termini esterni, il dovere della pace può derivare da un comando divino, oppure da un’abitudine sociale trasmessa (la tradizione e l’educazione) oppure ancora da una legge degli uomini. In termini interni può derivare invece da un impulso socievole, fornitoci dalla natura, oppure da un sentimento morale, oppure ancora dalla spinta verso la perfezione derivante dalla nostra coscienza razionale. Se si vuol essere kantiani fino in fondo, si può poi invocare anche l’imperativo categorico, come caso di etica dell’autonomia[28].

Quale che sia il fondamento posto alla sua base, è opportuno notare che, in ambito deontologico, il principio della pace viene in tal modo assolutizzato. Ciò indubbiamente lo mette al riparo da qualsiasi dubbio e da qualsiasi eccezione. Questa strategia può tuttavia essere controproducente. Già Kant aveva avvertito come l’assolutizzazione di un principio possa costituire l’anticamera del perfezionismo morale, del ritualismo e financo del fanatismomorale. In fin dei conti le cose dai tempi di Kant non sono cambiate molto. L’impressione è che coloro che si auto proclamano pacifisti in senso deontologico non siano gran che consapevoli di questi rischi. Se il principio così individuato è considerato come un assoluto allora non può mai essere confrontato e messo in concorrenza con altri valori. Gli eventuali insuccessi pratici derivanti dall’applicazione del principio (la prova dei fatti) non scalfiscono minimamente il valore che è stato assunto. Il tutto in linea con la convinzione che le conseguenze non interessino più di tanto: “Il mio dovere l’ho fatto, accada ciò che vuole”.

24. Qualche esempio particolare. Discutiamo più concretamente qualche caso. Almeno i casi principali. Chi è religioso è facile che, per fondare la pace, invochi la legge divina. Spesso in ambito cristiano si cita il Vangelo come legge suprema. Tuttavia ciò non sempre sembra bastare. Il caso di Tolstoj mostra come ci si possa trovare in disaccordo anche a partire dal Vangelo. Tolstoj riteneva che il vangelo predicasse una forma radicale di nonviolenza e ciò lo portò allo scontro con la sua Chiesa. Il moscovita patriarca Kirill oggi benedice la guerra di Putin. Il Catechismo della Chiesa cattolica sostiene invece la teoria della “guerra giusta” discostandosi dalla prospettiva deontologica (vedi oltre). Non ci potrebbero essere interpretazioni più divergenti dello stesso principio.

Secondariamente, tra i deontologisti c’è chi preferisce fondare il principio della pace sulla legge umana, sulle prescrizioni del diritto. In Italia, ad esempio, c’è chi sostiene che la nostra Costituzione proibirebbe la guerra in tutte le sue forme. Secondo i pacifisti che fondano la pace sulla Costituzione, poiché la Costituzione proibisce la guerra, il nostro Paese non dovrebbe neppure partecipare alle missioni internazionali di pacificazione, non dovrebbe produrre e vendere armi. Non dovrebbe stare nella NATO. In teoria non dovrebbe neppure possedere un esercito e (forse) non dovrebbe neppure difendersi in caso di aggressione. È evidente che una simile interpretazione della Costituzione istituirebbe la Pace non solo come obbligo morale o politico individuale ma anche come obbligo legale per tutti i cittadini italiani e le loro istituzioni. In realtà sappiamo che la questione è piuttosto controversa. Secondo autorevoli giuristi, sembra che la Costituzione proibisca certamente le guerre di aggressione. Tuttavia non è certo che proibisca le guerre di difesa e/o di resistenza. Altrimenti non sarebbe stato neanche previsto un Ministero della Difesa.

In terzo luogo è stata spesso indicata come fondamento della pace una convinzione della coscienza, intima e individuale, che imporrebbe all’ individuo di non indossare divise, di non portare armi, di non fare il servizio militare, di rifiutare dunque la guerra, o anche tutte le forme di violenza. Si tratta della cosiddetta obiezione di coscienza. Si tratta questo di un principio che non è fatto valere per tutte le coscienze o per le istituzioni ma limitato alla coscienza individuale. L’obiettore, insomma, ammette che gli altri eventualmente facciano la guerra, tuttavia rivendica per sé la prerogativa di seguire la propria coscienza e di rifiutarsi di farla. Il principio dell’obiezione di coscienza è stato accolto – com’è noto – dalla legge italiana dopo molte controversie (è appena il caso di ricordare in merito la figura di Don Milani[29] e la sua polemica con i cappellani militari). Naturalmente anche in questo caso la convinzione intima può derivare da una pluralità di fonti, dall’adesione a qualche religione, dall’adozione di un qualche imperativo morale, o simili, da un sentimento di amore verso tutti gli umani o addirittura verso tutti gli esseri viventi. Molte delle argomentazioni individuali addotte per l’obiezione di coscienza possono essere legate non solo al rifiuto della guerra ma anche al rifiuto di ogni violenza.

25. Consequenzialisti. Vediamo ora l’altra posizione metaetica. Secondo la prospettiva consequenzialista, o dell’etica della responsabilità, non accade mai che un’azione sia buona o cattiva in sé, ma va sempre valutata in base ai suoi effetti o conseguenze. Una scelta è buona solo se produce conseguenze buone, anche e soprattutto nel caso specifico. Unico criterio normativo che deve stare alla base della scelta sono dunque le conseguenze. Questo orientamento si richiama alla responsabilità di colui che sceglie la linea di condotta. L’eventuale ossequio a principi a-priori implicherebbe invece laderesponsabilizzazioneindividuale e una universalizzazione irrealistica. Per comprendere questa posizione ci si può rifare dibattito intorno alla questione dell’obbedienza assoluta alle leggi. Se n’è discusso alquanto a proposito del caso Eichmann. Se obbedire alla Legge o allo Stato è sempre un atto dovuto, allora non si sarà mai responsabili delle eventuali conseguenze dannose. Deontologicamente, in senso stretto, Eichmann avrebbe avuto perfettamente ragione. La sentenza di condanna contro Eichmann – piaccia o no – è stata pronunciata in un quadro consequenzialista.

Mentre sul piano deontologico, il principio della pace è considerato come universale, sul piano del consequenzialismo invece non può mai essere considerato come universale, deve sempre essere messo in relazione alle specifiche situazioni. Dipende, in altri termini, dalle circostanze. Questo significa che il principio della pace, come ogni altro principio, viene considerato come contingente. Poiché le conseguenze di una scelta possono essere diverse da caso a caso, nella prospettiva consequenzialista è ammesso dare valutazioni diverse a seconda dei casi. In certi casi si può decidere per la pace, in altri per la guerra. Dato quest’approccio per così dire minimalista, i consequenzialisti tendono a non assolutizzare le loro scelte e così rischiano assai meno di incorrere nel perfezionismo morale o nel fanatismo.

26. Obiezioni. Un’obiezione al consequenzialismo è che non possiamo conoscere tutte le conseguenze delle nostre scelte, per cui il processo decisionale per essere corretto dovrebbe essere infinito. Inoltre tutti i principi sarebbero relativizzati alle singole situazioni esaminate. Ogni decisione sarebbe unica e diversa da ogni altra. In questo modo il mondo dei valori diverrebbe altamente instabile, sottoposto all’arbitrio valutativo di ciascun singolo e di ciascuna situazione. Un’altra obiezione è che possiamo non trovarci d’accordo sull’analisi delle conseguenze, poiché, in quanto umani, ragioniamo sempre in condizioni di incertezza o di relativa ignoranza. Oppure siamo sempre sottoposti ai condizionamenti più diversi. Il consequenzialista dunque non avrebbe alcuna garanzia di essere nel giusto, non potrebbe mai rifarsi ad alcun fondamento consolidato. I consequenzialisti risponderebbero che è proprio così, che queste sono le autentiche condizioni di ogni scelta morale.

 

27. Qualche implicazione. Vediamo qualche concreta implicazione. Nello specifico della guerra russo-ucraina, i pacifisti deontologici anche più soggettivamente sinceri si stupiscono di essere considerati spesso come “amici di Putin”. In realtà essi, adottando deontologicamente il principio della pace, facendo dunque il loro “dovere”, non si faranno mai carico delle specifiche conseguenze delle loro azioni, anche quando siano abbastanza prevedibili. Ad esempio, è fattualmente abbastanza chiaro che se si togliessero gli aiuti militari all’Ucraina, questa sarebbe facilmente sopraffatta. I deontologisti tuttavia non si sentono minimamente imbarazzati da simili conseguenze, perché le conseguenze non li riguardano affatto. Se tutti ragionassero come loro, Putin avrebbe già vinto. Ma questo, appunto, non li riguarda proprio. E così si stupiscono di essere considerati “alleati oggettivi” di Putin.

Anche gli interventisti consequenzialisti (si noti che i consequenzialisti possono anche essere non interventisti) hanno un dilemma da risolvere. Accettando la guerra, anche dopo articolata riflessione, non possono che accettarne anche le gravose conseguenze, le quali si manifesteranno però solo dopo la scelta. Essi, al momento della scelta avevano ritenuto che le conseguenze sarebbero state tutto sommato accettabili se messe a confronto con un male peggiore che sarebbe derivato se avessero deciso altrimenti. Tuttavia costoro si espongono alla confutazione da parte della realtà. La posizione dei deontologi resta invece inconfutabile. Il consequenzialista interventista può essere comunque accusato di avere scelto il male minore della guerra, perché è comunque un male. Ma potrebbe anche essere ancor più accusato qualora il male minore si riveli essere in realtà un male peggiore. Il consequenzialista non può mai avere la coscienza del tutto tranquilla, finisce sempre per avere in qualche modo le mani sporche. E questo può sempre essergli rimproverato dal deontologo (il quale può sempre comodamente dire “Non in mio nome!”). In altri termini, i consequenzialisti sono indotti, in ogni situazione, a cercare di calcolare e prevedere i risultati (di cui saranno comunque responsabili, nel bene e nel male) e a scegliere di conseguenza. Ai deontologi invece non importa dei risultati specifici, dei quali non si sentono responsabili. Per loro conta solo l’aderenza al principio assoluto.

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28. Dell’incompatibilità delle due posizioni. Possiamo domandarci a questo punto se sia possibile conciliare queste due prospettive. Ebbene, no, non è possibile. Si può solo stare da una parte o dall’altra. Si può, volendo, argomentare a favore dell’uno o dell’altro punto di vista, in maniera più o meno convincente, ma mai in termini risolutivi. Per questi due mondi, “fare la cosa giusta” può significare cose completamente diverse.

Che fare allora? Di fronte a questi due orientamenti incompatibili si finisce spesso per scegliere una modalità o l’altra a seconda dei casi. Diciamo pure a seconda della convenienza del momento. Si finisce per formulare delle argomentazioni miste che possono essere anche abbastanza ridicole. Ci sono tuttavia dei soggetti che sono invece più costanti e tendono più o meno a essere sempre deontologi oppure sempre consequenzialisti, in base a un atteggiamento personale spesso poco consapevole. Una specie di predisposizione.

Mi permetto qui di suggerire una scappatoia. Di porre all’attenzione la possibilità di adottare un criterio di tipo decisamente pragmatico, un criterio piuttosto “a spanne”, anche se si tratta di un criterio piuttosto vicino al modo di pensare consequenzialista. Si tratta di far ricorso alla casistica empirica nota, all’esperienza passata. Nella storia passata hanno avuto migliori risultati (cioè, hanno fatto meno disastri) coloro che hanno applicato ciecamente i loro valori o principi, oppure coloro che hanno esaminato attentamente e prudentemente le possibili conseguenze delle loro scelte? Cosa convien fare in generale, sulla base del senno di poi? È chiaro che ciascuno formulerà la propria risposta. Dal mio punto di vista, da un esame spassionato, emerge come i consequenzialisti siano meglio adattati alla democrazia. Le ragioni dovrebbero essere facilmente ricavabili da chiunque conosca appena un po’ le regole elementari della democrazia. Propongo al lettore questo compito come esercizio. Sono disposto a correggere gli elaborati.

29. La teoria della guerra giusta. Il caso più celebre di consequenzialismo è senz’altro quello della teoria della guerra giusta[30] alla quale val la pena di riservare uno spazio particolare. È una teoria che risale addirittura ad Agostino e a Tommaso d’Aquino[31]. Prima ancora si trova, ad esempio, in Cicerone. È stata ripresa nell’ambito del giusnaturalismo moderno e, per suo tramite, è giunta fino a noi. A tutt’oggi è una teoria che ha molti sostenitori ed è ancora ampiamente dibattuta. C’è una letteratura immensa sull’argomento. In campo filosofico, tra i sostenitori contemporanei della teoria della guerra giusta possiamo annoverare i filosofi Michael Walzer[32] e Norberto Bobbio[33].

La premessa minimale della teoria è che le guerre non sono tutte uguali. Ci sono guerre inique e guerre giuste. Le guerre giuste si distinguono per essere tali sia nelle motivazioni che le hanno scatenate (jus ad bellum) sia nella condotta sul campo (jus in bello). Per quel che concerne lo jus ad bellum, la sola guerra giusta tendenzialmente è quella che è messa in atto per difendersi da una aggressione. La guerra di offesa non è mai giusta. Nel corso della complessa storia di questa teoria sono state dettate precise condizioni affinché si possa parlare di guerra giusta. Abbiamo, nell’ordine: 1) La giusta causa. 2) La retta intenzione. 3) L’autorità appropriata (legale) e la dichiarazione pubblica. 4) La guerra come ultima risorsa. 5) La probabilità di successo. 6) La proporzionalità. Entrare nel merito dei punti precedenti esula dalle finalità di questo scritto. Il lettore che fosse interessato non farà fatica a trovare un’adeguata documentazione. Va segnalato che l’epiteto di “guerra giusta” non ha in questo caso alcun significato morale, bensì ha un significato giuridico. È definita giusta la guerra che abbia determinati requisiti accertabili in base alla tecnica giuridica. La teoria permette dunque di esprimere un giudizio di tipo giuridico sulla guerra. Il giudizio ovviamente, come tutti i giudizi, potrebbe anche essere errato. Potrebbe anche essere riconsiderato nel caso del sopravvenire di nuovi dati.

Non manca chi ha fatto notare come la teoria della guerra giusta sia del tutto corretta ma che nessuna delle guerre passate sarebbe in grado di passare la prova, se questa fosse condotta in maniera rigorosa. Questa teoria si presta soprattutto a essere impiegata quando in sede internazionale un consesso di nazioni (ad esempio in sede ONU) deve decidere se operare o meno un intervento. Come accade facilmente nelle faccende umane, la teoria è tuttavia stata anche usata strumentalmente dai bellicisti. L’aggressione americana all’Iraq nel 2003, ad esempio, è stata giustificata anche col pretesto che fosse una guerra giusta[34]. In quell’occasione fu anche elaborata una assai discutibile dottrina della guerra preventiva. Occorre dunque tener conto di un possibile uso ideologico e propagandistico della teoria della guerra giusta. Le strumentalizzazioni non bastano tuttavia a invalidarla e, come si diceva, è ancora ampiamente dibattuta.

Taluni hanno sostenuto – lo riporto per imparzialità affinché siano chiare tutte le posizioni – che la teoria della guerra giusta poteva valere per le guerre convenzionali. Non varrebbe più ora che c’è la possibilità della guerra atomica. Norberto Bobbio ha discusso ampiamente su questo punto. Il problema è che la possibilità della guerra atomica non ha messo fuori mercato le altre guerre convenzionali. E su queste, che sono di fatto le uniche a essere praticate, è comunque il caso di pronunciarsi. In effetti l’arma atomica ha una funzione di deterrenza ed è poco probabile che venga mai più usata (dopo il caso del Giappone) poiché con la tecnologia odierna l’uso dell’arma atomica implicherebbe la mutua distruzione assicurata. Le guerre convenzionali hanno invece molta più probabilità di essere utilizzate e di fatto lo sono. Abbiamo dunque bisogno anche di ragionare circa il da farsi relativamente alle guerre non atomiche.

Ma avremmo anche bisogno di ragionare rispetto alle armi atomiche. Negli ultimi decenni l’arsenale atomico mondiale è rimasto congelato dal TNP (Trattato di non proliferazione nucleare) e l’opinione pubblica non pare si sia mai preoccupata più di tanto circa la questione dello smantellamento. Solo nel 2017 è stato proposto da un ristretto gruppo di Paesi il TPNW (Trattato per la proibizione delle armi nucleari) cui però non hanno aderito gli Stati possessori delle bombe o aspiranti tali. Certi pacifisti si rifiutano di mandare qualche cartuccia e qualche obice agli Ucraini che stanno facendo la loro resistenza, un caso cioè che sarebbe generalmente riconosciuto come guerra giusta, ma non dedicano neanche un tweet alla causa della messa al bando delle armi nucleari. Meno male che ci ha pensato Putin a riproporre la questione.

30. L’ambiguo caso della Chiesa cattolica. Come ho spiegato ampiamente in un mio saggio precedente[35], da sempre la Chiesa cattolica sostiene esplicitamente la dottrina della guerra giusta, fin da Agostino e Tommaso d’Aquino. Nel mio saggio ho mostrato dettagliatamente come il Catechismo della Chiesa cattolica sia totalmente incentrato intorno alla teoria della Guerra giusta. Ciò significa l’adesione piena a una prospettiva consequenzialista. Ciononostante, il Papa nel suo attuale pubblico insegnamento mostra di condividere una prospettiva deontologica talvolta assai estrema, fino quasi alla nonviolenza tolstojana, cioè alla proibizione di rendere il male con il male. Questo soprattutto quando sono in questione gli aiuti militari e le spese per la difesa. Ma poi il Papa non trae tutte le conseguenze dalla sua adesione alla nonviolenza. Il messaggio è dunque piuttosto ambiguo. Nel Catechismo si teorizza il diritto alla difesa e alla resistenza da parte di chi è aggredito e invece nelle piazze la Chiesa tuona contro l’invio delle armi in Ucraina e contro gli investimenti nella sicurezza. Si tratta di una palese contraddizione che, nel mio saggio, ho sintetizzato nella formula del peace populism. Intendendo con ciò che questa contraddizione sia dovuta principalmente allo scopo più o meno consapevole della Chiesa di ottenere una qualche popolarità a buon mercato. Un pacifismo deontologico e fondamentalista è senz’altro più popolare di un consequenzialismo responsabile.

Va notato che la teoria consequenzialista della guerra giusta della Chiesa cattolica (almeno quella contenuta nel Catechismo) si espone alle critiche deontologistiche di coloro che professano rigorosamente la teoria della nonviolenza. Per rendersene conto, basta mettere a confronto il Catechismo della Chiesa cattolica con Tolstoj[36]. Agli occhi di Tolstoj, il Catechismo cattolico sarebbe da considerarsi come una mera manifestazione di eresia, un vero e proprio tradimento dell’insegnamento di Cristo. Se stiamo alla lettera, è probabile che Tolstoj abbia ragione. Solo la plateale ignoranza dilagante presso il grande pubblico permette oggi alla Chiesa cattolica di sostenere e insegnare la guerra giusta nel Catechismo e, contemporaneamente, di presentarsi come sostenitrice di un pacifismo deontologico nonviolento, senza che nessuno ne ravvisi le incongruenze.

31. Di che pacifismo sei? Da quanto detto, dovrebbe risultare chiaro fin qui che i problemi che questa materia comporta sono davvero complessi e che ciascuno dovrebbe essere attentamente impegnato nel costruire la propria posizione personale. Una posizione comunque che, per la natura stessa della cosa, non sarà alla fine esente da lati oscuri, incongruenze, conseguenze non desiderate. Sarà dunque una posizione che avrà punti forti, ma anche punti di debolezza. Sarà una simile posizione che sarà poi utilizzata per formulare gli opportuni cauti giudizi sui casi concreti. Dovrebbe dunque risultare chiaro che non ci si può accontentare di superficialità e banalità. Se il ragionamento fin qui sviluppato sarà sembrato eccessivo, ebbene pensi il nostro coraggioso lettore che quel che qui è stato fornito è solo un approccio del tutto elementare. La complessità delle questioni è ben maggiore. In altri termini, non c’è via di scampo, bisogna studiare! Vediamo allora in sintesi, ad usumdelphini, quali sono le principali posizioni possibili.

32. Nonviolenti. Abbiamo anzitutto i nonviolenti. Pare questo il caso relativamente più chiaro, sebbene sia il più difficile da mettere in pratica. Riteniamo di doverli collocare in una loro categoria a parte per il fatto che essi hanno, come obiettivo, non tanto la eliminazione della guerra bensì l’eliminazione della violenza in generale. Se poi intendono – come fa Galtung – per violenza anche la violenza sociale (cioè le disuguaglianze, lo sfruttamento, l’impedimento allo sviluppo delle potenzialità umane di ciascuno, la discriminazione e simili) essi sarebbero impegnati nella impresa di costruire, senza fare uso della violenza, una società completamente nuova, in una vera e propria rivoluzione, sia sul piano istituzionale sia sul piano degli individui. Dal punto di vista metaetico, l’approccio dei nonviolenti è generalmente di tipo deontologico, con tutti i suoi pregi ma anche con i difetti che abbiamo ampiamente discusso in precedenza. I nonviolenti, posti di fronte alla guerra, si troveranno comunque a dover affrontare e risolvere la molteplicità dei dilemmi circa la pace e la guerra che abbiamo segnalato. In particolare, potranno facilmente trovarsi di fronte alla incongruenza dei valori e ai paradossi derivanti dal “non opporsi al male con il male”. E al rischio del fanatismo. Un problema particolare poi è quello della efficacia effettiva in termini pratici della metodologia nonviolenta.

33. Pacifisti assoluti. Abbiamo poi i pacifisti deontologici. Sono coloro che – per i principi più diversi – scelgono sempre la pace, “senza se e senza ma”. Costoro potrebbero essere definiti come pacifisti assoluti. Diciamo pure che costoro, per quanto ampiamente variegati al loro interno, costituiscono un blocco relativamente monolitico. Questa posizione deve comunque risolvere il problema (che non hanno i nonviolenti) di identificare cosa si debba intendere per guerra, cioè di identificare l’oggetto della loro opposizione. Abbiamo visto che l’oggetto guerra è piuttosto fuzzy e, a seconda di quel che si intende, può produrre comunque già delle differenziazioni interne assai marcate nello schieramento. Ci possono essere posizioni assai radicali ove si vietino la produzione e il commercio di armi, ove si chieda lo smantellamento degli eserciti, ma anche ove si vietino i cosiddetti interventi umanitari, le varie forme di interposizione, oppure gli interventi dell’ONU. Ove si condannino nel passato e nel futuro tutte le forme di resistenza armata e ove si condanni anche la guerra passata al nazifascismo. C’è poi anche chi intende la pace solo come obiezione di coscienza individuale (la riserva solo per sé e non la impone agli altri) e chi la intende invece come norma legale da imporre a tutti attraverso una Costituzione. Anche i pacifisti deontologici possono facilmente trovarsi di fronte alla incongruenza dei valori e al paradosso di “non opporsi al male con il male”. E al rischio del fanatismo. Il pacifismo assoluto sembrerebbe dunque la posizione più facile ma al proprio interno, osservando un minimo di rigore, può riservare molti problemi piuttosto difficili da risolvere.

34. Pacifisti relativi. Ma l’elenco non è finito. L’approccio metaeticoconsequenzialista pone più di un problema, per quel che riguarda il da farsi rispetto alla pace (e alla guerra). Se i pacifisti deontologici sceglieranno pressoché sempre la pace, senza badare alle conseguenze, i consequenzialisti invece potranno essere indotti a scegliere, in casi specifici diversi, sia la pace sia la guerra. Ma allora, i consequenzialisti sono da considerare come pacifisti o non piuttosto come bellicisti? Oppure vanno considerati di volta in volta, solo sulla base della loro scelta del momento? Risultando così come dei ballerini morali che transitano troppo facilmente da una posizione all’altra?

Una dieta ricostituente 09Facciamo un esempio per capirci. Bertrand Russell (1872-1970) è ritenuto generalmente un’importante figura di filosofo e attivista pacifista. È famoso per essersi impegnato per la messa al bando delle armi atomiche. Si è opposto alla partecipazione della Gran Bretagna alla Prima guerra mondiale. Per questo fu privato della cattedra e fu perfino incarcerato. Eppure Russell, dopo un notevole impegno per prevenire il conflitto, giunse ad approvare la guerra contro la Germania nazista. Come dovremmo considerare la sua posizione? Siamo in presenza di un pacifista eroico, oppure di un bellicista guerrafondaio? Oppure di un voltagabbana? Russell ha chiarito la sua posizione in un famoso articolo del 1943[37] nel quale egli si considera non un pacifista assoluto ma “pacifista politico relativo”[38]. Ben al di là di essere un altalenante, egli si considera dunque un pacifista perfettamente coerente. Ma come tale, e proprio in quanto tale, ammette che talune guerre vadano appoggiate. Va da sé che i nonviolenti e i pacifisti assoluti difficilmente accetterebbero Russell in loro compagnia.

Se non vogliamo trattare anche Russell come un guerrafondaio allora non possiamo fare altro che accettare la sua argomentazione e ampliare la nostra classificazione dei pacifisti. Avremo allora, da un lato, i pacifisti assoluti che deontologicamente scelgono sempre la pace e poi avremo, d’altro canto, anche i pacifisti non assoluti, pacifisti “relativi”, che non scelgono sempre la pace e si riservano di giudicare caso per caso. Dovrebbe essere abbastanza chiaro, almeno a partire dall’esempio di Russell, che i pacifisti relativi non possono essere assimilati tout court ai bellicisti (i quali sceglierebbero pressoché sempre la guerra). Assumiamo dunque che non basta dare un appoggio circostanziato a una certa guerra, per essere considerati tout court bellicisti o guerrafondai. Si può combattere Hitler anche in nome della causa della pace. Anche qui, le distinzioni sono importanti, non si tratta della stessa cosa! Nella recente letteratura anglosassone sulla pace e sulla guerra si parla tranquillamente di relative pacifism, di contingentpacifism, oppure di conditionalpacifism. Se non si accetta questa soluzione si corre il rischio di screditare una categoria di pacifisti sicuramente numerosa e ben impegnata. Facendo un cattivo servizio alla causa della pace. Si tratterebbe dunque di ammettere una buona volta che i pacifisti relativi siano comunque dei pacifisti a pieno titolo e che un pacifista in certi casi possa anche stare dalla parte della guerra. Pazza idea! Ancora una volta, questa non è una questione che può essere affrontata in maniera schematica. Il pericolo del fanatismo è sempre alle porte.

35. Pacifisti relativi insufficienti. I pacifisti relativi (che non possono che essere consequenzialisti) costituiscono tuttavia un gruppo davvero composito, spesso diviso al proprio interno in base alle diverse analisi condotte circa l’opportunità o i costi e i benefici delle diverse scelte di pace o di guerra. È il caso di ricordare che molti pacifisti relativi (forse la maggioranza!) sembra che, nel caso del conflitto russo – ucraino, abbiano optato proprio per la pace (cioè, di fatto, per la resa incondizionata dell’Ucraina). Sembra tuttavia che i pacifisti relativi facciano notizia solo quando scelgono di appoggiare la guerra. Nel caso della guerra russo – ucraina, diversi di loro hanno appoggiato la resistenza ucraina, fino ad approvare le sanzioni, l’invio di armi, guadagnandosi così l’appellativo dispregiativo di pacifisti con l’elmetto. Ugualmente hanno approvato l’aumento delle spese militari per la sicurezza, beccandosi l’accusa di essere dei guerrafondai e di voler togliere risorse alla sanità, all’istruzione e a una miriade di altre buone cause.

Il livello decisamente poco elevato dell’attuale dibattito italiano sulla guerra in Ucraina suggerisce, ahimè, una pessimistica considerazione circa i molti pacifisti relativi che sono in circolazione. Tra i quali può essere anche collocato il già citato prof. Orsini. Nonostante il parere autorevole di Ockham[39],per tutti costoro mi verrebbe di suggerire una nuova categoria, quella dei pacifisti relativi insufficienti. Se non piace questo termine, si potrebbe anche parlare di pacifisti relativi deboli. Come diceva Viano: “di quelli che non ce la fanno”. O, ancora, di pacifisti relativi opportunisti. Che abbiano optato per la pace o per la guerra, costoro, come consequenzialisti, mostrano abbastanza palesemente di avere operato la loro scelta in base ad analisi assai discutibili delle conseguenze. Purtroppo, l’analisi delle conseguenze non sempre è caratterizzata da onestà e imparzialità, da considerazioni approfondite e di ampio respiro. Talvolta può essere caratterizzata da basse e ciniche convenienze, da abietti e futili motivi. Non tutti si chiamano Bertrand Russell. Non tutti si chiamano Albert Einstein (il quale sulla guerra a Hitler ha sostenuto posizioni analoghe a quelle di Russell). L’analisi delle conseguenze poi può non sempre essere caratterizzata dall’impiego di dati fondati e deduzioni logicamente corrette. Dunque, bisogna purtroppo riconoscerlo, il consequenzialismo è in fin dei conti fin troppo democratico. Ce n’è davvero per tutti i gusti, e anche gli imbecilli sono comunque sempre autorizzati a fare la loro brava analisi delle conseguenze. Del resto in una democrazia è senz’altro giusto che sia così. La democrazia dovrebbe essere così robusta da scoraggiare gli imbecilli e invece li subisce continuamente. E forse li alimenta.

36. Utilitarismo e verità. I pacifisti relativi insufficienti, che sono una legione, non sono purtroppo una sorpresa poiché abbiamo già sottolineato la possibile parentela del consequenzialismo con le etiche utilitaristiche. L’utilitarismo tradotto in pratica purtroppo spesso dimentica il principio cardine che lo dovrebbe improntare, il principio della “maggior felicità per il maggior numero”[40],e tende a scadere in mero opportunismo individualistico. Questo è il motivo per cui, in ambito consequenzialistico occorre sempre esercitare una grande vigilanza affinché l’analisi delle conseguenze non sia viziata dagli innumerevoli bias in cui ci si può imbattere. Mentre in campo deontologico il dibattito non può che vertere intorno ai valori universali (i quali però per lo più si assumono a torto o a ragione senza gran ché dibattere), in campo consequenzialista invece il dibattito è essenziale.Dovrebbe sempre essere approfondito, ampio, documentato, e soprattutto pubblico, per permettere la formazione di un’opinione pubblica matura e consapevole. In altri termini, per fare bene i consequenzialistibisogna studiare. Mi permetto in proposito di richiamare una considerazione recentemente espressa da Emanuele Parsi[41], e cioè che le democrazie non possono proprio funzionare al di sotto di una certa soglia di circolazione della verità. A maggior ragione, ciò dovrebbe valere di fronte a questioni gravi come quelle della pace e della guerra. Occorrerebbe dunque un forte commitment per la verità. È invece un dato fatto che il pubblico medio attuale non si occupa di politica e men che mai di politica internazionale. E le informazioni che circolano sono quelle che corrono sui social media e sui media nazionali. E, soprattutto, i nostri pacifisti relativi insufficienti tendono a decidere piuttosto irresponsabilmente con un tweet o con un Like, magari in base a un bel corredo di fake.

37. Per concludere. Lo scopo di questo saggio, divenuto ormai fin troppo lungo, era quello di fornire alcuni strumenti elementari di analisi a chi volesse condurre una riflessione indipendente e non banale sulle questioni della guerra e della pace. Lo scopo era anche di esercitare un’opera minima di chiarificazione del linguaggio che, su questo tema, è oggi davvero molto inquinato. Spero di avere mostrato ancora una volta come la filosofia possa disseminare dubbi piuttosto che propinare certezze e come possa rappresentare tuttavia uno strumento critico nei confronti per lo meno delle forme più crasse di superficialità. Ho cercato di essere il più obiettivo possibile, non rinunciando ovviamente di volta in volta a esprimere le mie opinioni. Per rispetto nei confronti del lettore, mi sono tuttavia sforzato di rendere sempre ben distinguibili le mie analisi argomentate dalle mie opinioni e valutazioni. Ringrazio i pochi lettori che siano giunti fin qui, sperando di avere fatto loro un qualche buon servizio. Disponibilissimo a ricevere critiche e osservazioni. E a ricevere, qualora fosse il caso, anche qualche ringraziamento. In ossequio al motivo kantiano del “legno storto”, non mi faccio comunque nessuna illusione che tutto ciò possa servire a migliorare anche di un solo millimetro la nostra etica pubblica.

Opere citate

2021 AA. VV., (a cura di), Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo. Decima edizione, Terra Nuova Edizioni.

1962 Aron, Raymond, Paix et guerre entrelesnations, Calmann-Lévy, Paris.Tr. it.: Pace e guerra tra le nazioni, Edizioni di Comunità, Milano, 1970.

1990 Berlin, Isaiah, “Alla ricerca dell’ideale”, in AA., VV. (a cura di), Etica ed economia, La Stampa, Torino. [1988]

1984 Bobbio, Norberto, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna.

1989 Bobbio, Norberto, Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, Edizioni Sonda, Torino.

1991 Bobbio, Norberto, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Marsilio, Venezia.

2010 Losurdo, Domenico, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Bari.

1967 Erasmo, da Rotterdam, Il lamento della Pace (a cura di Luigi Firpo), UTET, Torino. [1517]

1969 Galtung, Johan, “Violence, Peace, and Peace Research”, in Journal of Peace Research, Vol. 6, No. 3 (1969), pp. 167-191.

1995 Kant, Immanuel, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Kant, Immanuel, Scritti di storia, politica e diritto (a cura di Filippo Gonnelli), Laterza, Bari. [1784]

1965 Milani, Lorenzo (Don), L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze.

1991 Kant, Immanuel, Per la pace perpetua (a cura di salvatore Veca), Feltrinelli, Milano. [1795]

2022 Parsi, Vittorio Emanuele, Il posto della guerra e il costo della libertà, Bompiani, Milano.

1992 Rousseau, Jean-Jacques, Il contratto sociale (a cura di Tito Magri), Laterza, Bari. [1762]

1943-44 Russell, Bertrand, “The Future of Pacifism”, in The American Scholar, Vol. 13, No. 1 (Winter 1943-44), pp. 7-13.

2009 Tolstoj, Lev, La confessione, Feltrinelli, Milano. [1882]

1988 Tolstoj, Lev Nikolàevič, La mia fede, Editoriale Giorgio Mondadori. [1884-1892]

1894 Tolstoi, Leone, Il Regno di Dio è in voi, Fratelli Bocca, Roma.

1997 Walzer, Michael, Just and Unjust Wars, Basic Books, Harper Collins Publishers. Tr. it.: Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Liguori, Napoli, 1990.

[1]Ho iniziato a scrivere questo saggio pochi giorni dopo il 24 febbraio 2022, data dell’aggressione all’Ucraina da parte della Russia. Per questo sono andato a ripescare materiali relativi alla mia attività di insegnamento, insieme a una gran quantità di vecchi appunti e scritti risalenti al periodo delle guerre jugoslave e al periodo della occupazione dell’Afghanistan. Ricordo in proposito di avere dato un mio perdurato contributo alla Campagna contro le mine antiuomo in Afghanistan, condotta dall’ICS. La stesura del saggio è durata per tutti questi lunghi mesi di guerra, nel corso dei quali ho potuto tuttavia assistere al pressapochismo sia del dibattito mediatico sia delle prese di posizione delle diverse forze politiche, pacifisti compresi. Ho potuto assistere anche alle incertezze, alle ambiguità e al tradimento della causa dei resistenti ucraini da parte di molti degli appartenenti alla mia stessa parte politica, fattori questi spesso uniti all’ignoranza e allo stravolgimento della verità storica. Ho pensato più volte di lasciar perdere. Che non ne valesse proprio la pena. Ho trovato la motivazione minima per condurre a termine questo lavoro dopo la liberazione di Kherson. Slava Ukraini!

[2]Cfr. AA. VV. 2021.

[3]Si noti che possono ben sussistere conflitti d’altro tipo, considerati come accettabili o addirittura utili e indispensabili. Come, ad esempio, il conflitto tra i candidati in una democrazia.

[4] Putin dichiara che la sua è un’operazione militare speciale, ma poi dichiara la mobilitazione “parziale” come se fosse in guerra. D’altro canto, l’Ucraina non ha mai dichiarato guerra alla Russia. Si è trovata in guerra suo malgrado.

[5]Si veda il noto saggio di Erasmo da Rotterdam: Il lamento della pace. Cfr. Erasmo da Rotterdam 1967[1517].

[6] È il caso di far notare che perché si possa parlare di guerra occorre che ci siano delle comunità politiche. La nozione di guerra dunque ha poco a che vedere con la questione dell’aggressività umana, com’è stata trattata dagli etologi, o dagli psicologi. Certo, l’aggressività rappresenta uno dei substrati biologici della guerra. Ma si può dire la stessa cosa anche del pollice opponibile.

[7] Cfr. Bobbio 1984: 124.

[8] La definizione di ciò che è considerato violento è senz’altro di tipo storico e culturale. Certi rituali primitivi erano – e sono talvolta tuttora – violenti. Violenti i sacrifici, animali ma anche umani, previsti da talune religioni. Violenti certi metodi educativi, o certe modalità nel rapporto tra uomo e donna. Taluni considerano violento il cibarsi di carne animale o di certi prodotti animali. Qualcuno considera violento anche l’uso di certi aggettivi o espressioni linguistiche. Ma violenza è anche quella legale, esercitata dallo Stato. È nozione comune il fatto che lo Stato moderno abbia il “monopolio della violenza”.

[9] Scrivo “nonviolenza” senza il trattino seguendo un’indicazione di Aldo Capitini.

[10]La definizione è tratta da Wikipedia, versione in lingua inglese. La traduzione è mia.

[11]Di questa crisi è dato conto nello scritto La confessione. Cfr. Tolstoj 2009.

[12] Trascrivo per comodità del lettore quello che secondo Tolstoj costituirebbe l’autentico comandamento del Discorso della Montagna. Il testo è banalmente tratto da Wikipedia:

“Primo precetto (Matteo, V, 21-26). L’uomo non solo non deve uccidere l’uomo, ma nemmeno adirarsi contro di lui, suo fratello; non deve disprezzarlo né considerarlo “stupido”. Se avrà questionato con qualcuno dovrà riconciliarsi con lui prima di offrire i suoi doni al Signore, vale a dire prima di accostarsi a Dio con la preghiera.

Secondo precetto (Matteo, V, 27-32). L’uomo non solo non deve commettere adulterio, ma neppure servirsi della bellezza della donna per il proprio piacere; e se sposa una donna, deve restarle fedele per tutta la vita (nella tradizione cattolica corrente sono qui unificate la seconda e terza antitesi).

Terzo precetto (Matteo, V, 33-37). L’uomo non deve impegnarsi in niente, sotto giuramento.

Quarto precetto (Matteo, V, 38-42). L’uomo non solo non deve rendere occhio per occhio, ma quando qualcuno lo percuote su una guancia, deve porgergli l’altra; deve perdonare le offese, sopportarle con rassegnazione e non rifiutare nulla di ciò che gli venga chiesto.

Quinto precetto (Matteo, V, 43-48). L’uomo non solo non deve odiare i suoi nemici e combatterli, ma deve amarli, aiutarli e servirli”.

[13] Nella filosofia di Hobbes, lo stato di natura è descritto come una lotta violenta di tutti contro tutti, dove è contemplata l’uccisione del nemico. In Hegel la violenza è generatrice della Storia. Si ricordi la sua metafora del bancone del “macellaio della storia”. La volontà schopenhaueriana è eminentemente conflittuale e violenta. In alcuni aspetti della filosofia di Nietzsche la violenza è contemplata come fondamento stesso della realtà. La teoria darwiniana – che è teoria scientifica – implica, di fatto, la predazione che rappresenta comunque una forma di violenza. Ma una vera e propria filosofia della violenza è contenuta nel darwinismo sociale che è uno stravolgimento della teoria darwiniana. Molte filosofie della razza si fondano sul conflitto razziale inteso come motore della storia. Nonostante molte ragguardevoli filosofie abbiano posto come fondamento la violenza, nella storiografia filosofica si esita a riconoscere l’esistenza di una corrente sotterranea che potremmo chiamare violentismo. Quando si vuol dire qualcosa del genere di solito si ricorre al realismo politico. Ma non è la stessa cosa.

[14]Osserva Bobbio che, mentre si può pensare a una pace perpetua, assai più raramente è stato elaborato il pensiero di una guerra perpetua. I bellicisti che ammettono la guerra normalmente la considerano come un elemento temporaneo, da concludersi con una pace. Sorge dunque il dubbio che i bellicisti possano, in qualche misura, essere considerati minimamente pacifisti.

[15]Coloro che sono contrari alle spese militari di solito lo sono per principio. E tendono a non considerare se la situazione attuale internazionale sia o meno una situazione di insicurezza. Il problema sembra non li riguardi. Posto che si ammetta di essere in una situazione di insicurezza, non spiegano se in tal caso si debba ugualmente procedere con un disarmo unilaterale.

[16]Faccio qui riferimento all’articolo di Andrew Fiala contenuto nella Enciclopedia Stanford. Vedi: Fiala, Andrew, “Pacifism”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2021 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = https://plato.stanford.edu/archives/fall2021/entries/pacifism/.Fiala è uno tra i più importanti studiosi anglosassoni della materia.

[17] Cfr. Rousseau Capitolo IV, Della schiavitù.

[18]Per un orientamento sulla questione si può vedere: Hsieh, Nien-hê and Henrik Andersson, “IncommensurableValues”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2021 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = https://plato.stanford.edu/archives/fall2021/entries/value-incommensurable.

[19]Si noti si può sostenere che anche la vita non sia un valore assoluto. E che vada comunque sempre commisurato con altri beni materiali o immateriali altrettanto importanti. È noto che gli umani, essendo animali culturali, sono in grado di sacrificare volontariamente la propria vita, in determinate condizioni. Giusta o sbagliata che sia la decisione. Una riflessione articolata sulla questione si trova nel mio saggio: Durkheim e i “suicide bombers”. Cfr. Finestre rotte: Durkheim e i “suicide bombers”.

[20]Cfr. Kant 1991 [1795].

[21]Cfr. Kant 1995[1784]. La traduzione che propongo qui si trova in Berlin 1990.

[22]Ci siamo rifatti particolarmente ad Andrew Fiala, uno dei più importanti studiosi anglosassoni di queste questioni.

[23] Cfr. Aron 1962.

[24]Cfr. Bobbio :137

[25]Il resto di questo paragrafo è tratto da un mio saggio precedente.

[26]Cfr. Pirjevec 2001: 469 e segg..

[27]La pace può essere trattata anche sul piano della metaetica, cioè attraverso quella disciplina dell’etica che riflette sui metodi dell’etica stessa.

[28]Non posso qui dilungarmi su questa classificazione. Chi fosse interessato troverà ampi ragguagli in merito su un qualsiasi manuale di storia della filosofia o in qualsiasi monografia su Kant.

[29] Cfr. Milani (Don) 1965.

[30] Si noti che il consequenzialismo ha prodotto molte altre argomentazioni a proposito della pace e della guerra.

[31] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II-II, Questione 40.

[32]Cfr. Walzer 1997.

[33]Cfr. Bobbio 1984, Bobbio 1989, Bobbio 1991

[34]Detta anche Seconda Guerra del Golfo, fu combattuta nel 2003 anche se gli eventi possono essere datati tra 2003 e 2011. La guerra fu condotta dagli USA (allora presidente era George W. Bush) e da una coalizione dei cosiddetti Volenterosi. Si tratto di una cosiddetta “guerra preventiva”. Le analisi e le inchieste successive dimostrarono che non sussistevano le motivazioni per considerare questa guerra come una “guerra giusta”.

[35]Cfr. il mio saggio Catechismo, guerra e resistenza. Finestre rotte: Catechismo, guerra e resistenza.

[36]Si veda Tolstoj 1988 e Tolstoi 1894.

[37]Cfr. Russell 1943-44.

[38]La qualificazione di “politico” Russell intende distinguere la sua posizione da quella degli obiettori di coscienza.

[39]Il quale sosteneva che le entità (i concetti) non dovrebbero essere moltiplicate se non per estrema necessità.

[40]Il principio benthamiano costituisce un nobile tentativo di universalizzare in qualche modo l’utilitarismo.

[41]Cfr. il recente Parsi 2022.

Viaggiando in rimoti paesi

Carlo Vidua e il destino della Virtù

Viaggiando in rimoti paesi copertina Quadernodi Paolo Repetto, 6 maggio 2023, vedi il Quaderno

Introduzione

Un’educazione casalese

I primi viaggi

Romantico controvoglia

Dalla Lapponia all’Equatore

Nella culla della civiltà europea

In America!

Verso ovest e verso sud

Nell’Estremo Oriente

Morire nelle isole della Sonda

Sulle consonanze

Una bibliografia commentata

Viaggiando in rimoti paesi 02

Introduzione

Un uomo che logorò la sua vita
viaggiando in rimoti paesi,
e morì nell’Oceanica.
(Vincenzo Gioberti a Pier Luigi Pinelli, 1834)

Leggetelo. È il libro di un saggio;
un po’ arretrato, come me.
(Gino Capponi a Niccolò Tommaseo, 1834)

Non ho un buon rapporto col Romanticismo italiano. Forse perché un autentico Romanticismo in Italia non c’è mai stato, e coloro che più gli si avvicinano in realtà ne hanno preso le distanze: Leopardi vale per tutti, e Manzoni è quanto di meno romantico riesca ad immaginare. Dal momento però che non può essere applicata al fenomeno una denominazione di origine controllata, ma soprattutto che le mie idiosincrasie non interessano giustamente a nessuno, mi limito a dire che come tutti i prodotti culturali d’importazione il Romanticismo è stato recepito da noi con le cautele e i distinguo e le ammortizzazioni del caso (vedi appunto Manzoni), sino a farne un’altra cosa, oppure si è ridotto ad una serie di dignitosissime cover degli originali nordici (vedi Berchet o D’Azeglio). Il che, intendiamoci, per quanto mi riguarda non implica alcun giudizio negativo o riduttivo: se I promessi sposi fosse stato scritto in uno stile più autenticamente romantico ne sarebbe uscito un feuilleton o una telenovela. Che poi mi ci riconosca o meno, è un altro discorso.

Eppure, a volerlo cercare, qualcuno che interpreta appieno quello spirito (per come, appunto, lo intendo io), negli intenti, nella pratica e purtroppo anche negli esiti, lo si trova. Personalmente l’ho trovato nella figura di Carlo Vidua, che ho incontrato troppo tardi perché potesse entrare nel mio ristrettissimo Pantheon, ma che si è senz’altro guadagnato il diritto di non finire nell’armadio degli accumuli inutili. Se proprio volessimo classificarlo entro gli schemi canonici, Vidua potrebbe essere ascritto alla scuola tedesca, a dispetto del fatto che la sua lingua madre fosse praticamente il francese: è apparentabile per molti più versi a Goethe e ad Alexander von Humboldt che a Chateaubriand (che pure amava particolarmente) e a Lamartine (che non amava affatto). Col che, chiudo le etichettature e passo al nostro protagonista.

La vita di Vidua è un emozionante romanzo di vagabondaggio, e proprio di questo voglio raccontare, del fuoco che ardeva nei suoi polpacci (e che fuor di metafora letteralmente glieli bruciò): cercando tuttavia di non trascurarne gli aspetti e gli interessi meno “avventurosi”, quelli che ardevano nella sua mente, a partire dalla politica (intesa in senso “globale”) sino alla linguistica, all’archeologia e alla musica. Nei limiti di questa breve presentazione cercherò dunque di dare spazio anche ad essi, anticipando, quando mi parrà il caso, quelle che dovrebbero essere considerazioni conclusive. Insomma, si sarà già capito che proverò a documentare il più possibile il Vidua “autentico”, ma che ne uscirà soprattutto l’idea che di Vidua mi sono fatto.

Viaggiando in rimoti paesi 03

Un’educazione casalese

Carlo Vidua nasce conte di Conzano, paesino a metà strada tra Alessandria e Casale Monferrato, nel 1785. Tanto per “contestualizzarlo”, nasce lo stesso anno di Manzoni (li separa una settimana). Troppo tardi dunque per partecipare, anche solo emotivamente, all’infervoramento per la rivoluzione e agli umori contrastanti del periodo napoleonico, e troppo presto per vivere con ardore giovanile i primi moti carbonari. Diciamo che arriva giusto in tempo a beccarsi in pieno l’ondata reazionaria.

Si spiega così quello che potrebbe apparire un suo “disimpegno”: Vidua non è disimpegnato, è piuttosto un “non allineato”, che non si riconosce in alcuno dei modelli politici del suo tempo. È invece intrigato dalla loro varietà, quella che va emergendo mano a mano che gli orizzonti europei si allargano e nuovi popoli e nuove istituzioni si affacciano alla ribalta. Inoltre è un provinciale, e come Leopardi vive tutta la giovinezza lontano dai grandi centri dove la politica la si fa e la cultura ha i suoi luoghi deputati: cosa che in genere, e alla sua epoca ancor più, concorre a far vedere le cose con maggiore distacco (e, oserei dire, anche con maggior chiarezza).

Sempre come Leopardi, ha un padre convinto legittimista, col quale lo scontro è inevitabile, anche se per motivi che poco hanno a vedere con le opinioni politiche. Pio Vidua è un conservatore prudente, che ha evitato di compromettersi col bonapartismo ma anche di rovinare i propri interessi opponendoglisi apertamente, e che ottiene nel 1814 la nomina a ministro degli Interni nel primo gabinetto della restaurata monarchia sabauda per meriti puramente cortigiani. Non si segnala per spirito d’iniziativa o per particolari capacità politiche: è solo un passatista arroccato in difesa del prestigio e del rango del proprio casato. Per questo si opporrà sempre testardamente alle ambizioni e alla natura dell’unico figlio maschio, dal quale si attende solo la continuità della stirpe. Fino a quando gli è possibile ne condiziona quindi pesantemente le scelte, costringendolo a studiare privatamente con precettori religiosi (non gli consente nemmeno di iscriversi all’università e gli compera una laurea vaticana) e a tenersi lontano dagli ambienti “pericolosi”. Con tutto ciò, credo che quest’uomo abbia amato sinceramente, anche al netto delle motivazioni dinastiche, un figlio che ai suoi occhi pareva cercare ogni maniera e ogni pretesto per scontentarlo.

Da parte sua il giovane Vidua non riuscirà mai ad emanciparsi del tutto dalla soggezione filiale: anche se da un certo punto in avanti farà ciò che vuole, arrivando sino alla rottura insanabile, vivrà sempre la propria ribellione con un pesante senso di colpa. Continuerà a considerare sino all’ultimo il padre il suo principale interlocutore (delle 286 lettere di Carlo raccolte e pubblicate da Cesare Balbo la metà sono indirizzate a lui), e cercherà costantemente di rabbonirlo e consolarlo informandolo degli incontri con le massime personalità e autorità in ogni angolo del globo, del rispetto portato al suo nome e di come in fondo egli stesso contribuisca a farlo conoscere nel mondo e ad onorarlo. E comunque, quanto alle restrizioni impostegli in gioventù, il giovane patrizio ne fa buon uso, perché oltre che nelle lettere e nel diritto si impratichisce nel disegno e nella musica, e si sfoga con la scherma, l’equitazione e la danza.

Diversamente da Manzoni, Carlo non ha una madre (l’ha persa a quattro anni) che gli spalanchi le porte dei circoli intellettuali più avanzati. Ha in compenso un nonno materno che è stato un grande viaggiatore, dal quale eredita la passione, sia per via genetica che attraverso le rievocazioni serali (ed erediterà poi anche i mezzi per coltivarla). Lui stesso racconta che ancora molto piccolo, avendo udito un giorno il nonno narrare degli antipodi che abitano l’altra faccia della terra, aveva cominciato a scavare in giardino per andare a conoscerli. Credo che questo episodio, se anche fosse inventato, aiuti a capire per quale motivo Carlo rimanga tutto sommato estraneo al movimento patriottico e costituzionalista nel quale saranno coinvolti tutti i suoi migliori amici: nutre una conservatrice diffidenza nei confronti delle cospirazioni carbonare, ma soprattutto ha orizzonti e ambizioni più vasti.

Queste ultime le manifesta sin dalla giovane età. La matrigna Elisabetta, attenta ai sentimenti del ragazzo indubbiamente molto più del padre, scrive che “covava un fuoco segreto sin dall’età di otto anni e solo l’affliggeva il pensiero di non aver forse l’ingegno da farlo”. Un ritratto perfetto dell’animo di Carlo. Un ritratto che torna a più riprese nel diario e nelle lettere di quest’ultimo: “Se non sono gettato in un tourbillon io non farò mai e poi mai niente […] io, a venticinque, ventisei anni, voglio qualcosa di buono o nulla”. E continuerà a ribadirle (e a rimpiangerle), sino all’ultimo: “Ho tardato troppo, ho dilungato, nulla lascio di finito, e questa fama che sarà od è vanità, ma il cui desiderio mi animò tutta la vita, non la potrò conseguire fuor di pochi amici o parenti che in quarant’anni saran finiti, nessuno saprà che ho esistito” scriverà poco prima di morire.

Dunque: dobbiamo immaginare un’infanzia e un’adolescenza tutt’altro che libere e spensierate, ma in realtà molto meno oppressive di quanto a posteriori Carlo le ricordi (arriva a definire a più riprese la villa di Conzano “un carcere”). Più di una volta, mentre sta dall’altra parte del globo, gli capiterà di confrontare i paesaggi e le atmosfere con quelli della sua adolescenza monferrina, di trovare questi ultimi sempre superiori e di provare nostalgia per il grande giardino e per le cavalcate e le passeggiate, anche notturne, nelle “selve” e sulle colline tra Casale ed Asti (“Malgrado la presenza di briganti e ladri”, sottolinea). Queste “uscite” sono già una manifestazione dello spirito avventuroso e un po’ avventato che lo caratterizzerà, nonché di una propensione al protagonismo, e sono comprensibilmente viste con una certa apprensione in famiglia. La sorella, in una lettera alla nonna, scrive: “Sapevo già, cara nonna, delle scappate che il nostro giovanotto ha fatto quest’inverno, da un lato ne ho piacere, perché il movimento e le scappate con qualche amico gli sono necessarie e giovano alla sua salute, poi se lui prende le cose sempre in maniera un po’ eccessiva mi pare lo si possa perdonare a causa della sua età, tutti i giovani sono così”. A quanto pare, così prigioniero poi non era.

La nostalgia per l’aria di casa è tuttavia ogni volta smentita, non appena rimette piede nel regno di Sardegna. Non lo infastidisce solo la pressione dei familiari, ma tutto il vuoto apparato di convenzioni nel quale la classe cui appartiene si muove, quelle che lui stesso definisce “coglionerie”. “La mia solita felicità mi abbandona solo quando voglio fare ritorno in Piemonte; pare, che qualche genio me ne volesse allontanare per forza. Se fossi ai tempi degli antichi greci crederei che v’è una divinità nemica che mi caccia lungi dal Piemonte, come Ulisse lungi da Itaca.”

Se si escludono comunque pochi casi, ad esempio quello di Foscolo, la sua educazione non è diversa da quella dei giovinetti suoi contemporanei di condizione nobiliare o agiata. Ed è comprensibile che nei ritagli di libertà dagli impegni di studio e dai rituali domestici il ragazzo abbia cercato di evadere a piedi o a cavallo nei dintorni, e almeno con la mente negli spazi più remoti. Con la differenza, rispetto agli altri, che di là non è poi più rientrato.

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Da Casale Monferrato, dov’è cresciuto, Carlo si trasferisce poco prima dei vent’anni con la famiglia a Torino. Lì frequenta i circoli letterari e politici “che contano”, stringendo amicizia particolarmente con Cesare Balbo, futuro patriota, ideologo (Le speranze d’Italia), storico e primo ministro del regno di Sardegna, nonché suo primo biografo. Con Balbo e coi rampolli di altre famiglie dell’aristocrazia torinese fonda un sodalizio (la Società dei Concordi), avente come scopo niente meno che il riscatto dell’Italia dal ritardo culturale in cui giace, e in particolare dalla soggezione, non solo politica, nei confronti degli occupanti francesi. Nel gruppo Vidua (che ha assunto il soprannome de “L’allungato”) mantiene una posizione defilata: da un lato è senz’altro una figura di riferimento, per la sua intelligenza e la sua erudizione, e anche per sua alfieriana intransigenza: dall’altro si riconosce solo sino ad un certo punto negli scopi della società, sia per una spiccata tendenza all’individualismo, sia perché convinto che occorra guardare oltre gli angusti confini della patria. La sua smania di viaggiare non sempre è compresa dagli altri affiliati, e questo creerà col tempo una crescente distanza.

Lo disturba anche il fatto che alcuni di loro ad un certo punto scendano a patti con quello che egli considera un invasore e un despota. Balbo stesso ad esempio accetta incarichi nell’amministrazione napoleonica a Firenze, e Carlo non esita a rinfacciarglielo. “Oserai tu entrare nella chiesa di Santa Croce? Non temerai l’ombre di quei grandi?” Quanto ad un personale impegno nella politica però è molto restio. Le sue simpatie vanno all’ala più liberale del movimento patriottico piemontese, impersonata da Santorre di Santarosa, piuttosto che a quella moderata facente capo a Balbo: ma nella sostanza, poi, dei destini politici del Piemonte gli importa solo fino ad un certo punto. Lo dimostra anche la scelta dei temi dai lui proposti e trattati nel corso delle adunanze dei Concordi: Pensieri sulla Gloria; Sopra il destino della Virtù; Sull’oblio in cui sono caduti alcuni uomini grandi, ecc…. La dimensione nella quale vuole dare senso e visibilità alla sua esistenza è ben altra.

Oltre a quella per i viaggi, la sua grande passione sono i libri. È un raffinato bibliofilo, ma non è mosso dal puro istinto collezionistico: la sua bibliofilia è sin dall’inizio finalizzata al disegno che va concependo. Dovunque arrivi si procura ogni possibile documento su qualsivoglia aspetto della vita politica, sociale, economica e culturale del paese, e spedisce poi il tutto in patria: nel corso dell’esperienza americana raccoglierà ad esempio oltre milletrecento volumi. Nelle lettere agli amici e ai famigliari ricorre costante l’ansia per le casse zeppe di scritti, oggetti d’arte, cimeli storici, inviate dai luoghi più impensati.

È anche un lettore appassionato e vorace, che rivendica e mantiene una forte autonomia di giudizio rispetto a quanto legge. È significativo, ad esempio, che sia un grande ammiratore dell’intelligenza di Joseph de Maistre, ma che non condivida affatto le idee espresse dal conte savoiardo ne Le serate di San Pietroburgo. O che adori le tragedie alfieriane, ma non esiti a deprecarne gli accenti anti-gerarchici e anti-religiosi. E lo stesso vale per l’Ortis.

Le sue letture sono sterminate: nella prima gioventù si nutre naturalmente, oltre che di Alfieri e di Foscolo, di Chateaubriand ma anche di Vico, dei classici della storiografia italiani e latini, degli illuministi francesi (e un po’ più tardi, quando avrà acquisito una sufficiente padronanza linguistica da quelli inglesi): in seguito si volgerà sempre più specificamente ad opere legate alle mete dei suoi viaggi, per preparare questi ultimi e per poi commentarli. Humboldt, naturalmente, e Ferguson, Gibbon, Montesquieu, Robertson, De Las Casas, ecc…

Come ho già accennato, tra i suoi amori c’è anche la musica. Questo gli è stato trasmesso soprattutto dalla nonna materna, ma in famiglia sono tutti appassionati, compreso il padre. È un ottimo esecutore, oltre che un discreto compositore. Scrive di lui Cesare Balbo: “Studiò la musica su varii strumenti e principalmente sul cembalo. Fece progressi grandi nell’ esecuzione e nell’accompagnamento, e tali poi nella composizione che non solo la musica sua corse il paese e l’Italia, ma egli ebbe il piacere navigando molti anni appresso tra i mari di Grecia d’udir risonare le sue melodie in quei climi così propizi”. Magari Balbo enfatizza un po’, ma pare davvero che il Vidua cembalista riscuotesse un gran successo nei palazzi e alle corti frequentati durante i suoi viaggi. Senza dubbio usava anche la musica come passepartout per entrare in confidenza con gli interlocutori che lo interessavano.

Viaggiando in rimoti paesi 05E sempre a proposito di amori, poco o nulla si sa di una sua vita sentimentale “attiva”. Il giovanile accenno ad una fanciulla morta prematuramente (che si chiamava Teresa, come la Teresa Fattorini di A Silvia) è molto generico, e più che da un moto di commozione sincera sembra dettato dalla moda romantico-sepolcrale dell’epoca: “Io mirava quei flutti: e come l’onda, mio dicevo tra me stesso, che vedo trascorrere e confondersi, ratto così passò la gentile donzella, e già sta per confondersi, o si confonde il suo nome nella notte del tempo, e le sue belle forme tra le altre ceneri del sepolcro […]” . Più tardi ironizza sul fatto che gli sia stato attribuito un innamoramento per una “ninfa sestrina”, chiarendo che: “Nessuna donna possiederà mai una parte del mio cuore. Conviene che questo sesso sia al servizio del nostro divertimento e delle nostre necessità, non che sconvolga l’anima”. Il che lo escluderebbe da ogni sospetto di romanticismo, e parrebbe condannarlo all’aridità sentimentale. Anche se poi, quando arriva il tempo dei bilanci, sembra provare rimpianto quel flirt appena accennato: “[…] ricorderò con dolore di aver seguito i tuoi suggerimenti, e di non aver tolto quella ninfa sestrina di cui nel 1813 ti feci già una sì vantaggiosa descrizione”.

In verità, l’ostinata resistenza che Vidua oppone al destino matrimoniale impostogli dal padre e dagli obblighi del suo status viene sempre da lui stesso intesa come una scelta non definitiva. “La sola ragione che mi indurrebbe ad abbandonare la libertà, che tanto apprezzo, sarebbe consolare mio padre che moltissimo rispetto, e che amo. Vedo dunque che alla fine per compiacerlo, finirò per rinunziare al genere di vita indipendente che finora ho goduto.” La sua opposizione non è ideologica, ma strategica. Ha pianificato la propria esistenza in funzione di un’opera che ne eterni la memoria, e questa opera suppone una conoscenza che può essere acquisita solo attraverso i viaggi. La passione per i viaggi, che in un’ottica del genere diventa strumentale, è tale che tutto di fronte ad essa passa in second’ordine. È l’unica cosa per la quale valga la pena ribellarsi e difendere le proprie scelte, e va vissuta sin a quando si regge. “Io voglio preparare alla mia età matura meno regrets che possa. Ne avrei certo se mi maritassi senza compiere il corso dei miei viaggi.” Una volta appagata – e l’appagamento può venire solo dall’aver completato il giro del mondo e dall’aver conosciuto tutte le civiltà possibili – al resto ci si può adattare di buon grado.

Può anzi essere la condizione indispensabile per tirare le somme e dedicarsi finalmente alla scrittura: “Ma per tutto questo ci vorrebbe tempo, tranquillità, ritiro e compagnia, e in questo inclino al parer tuo, compagnia di una donna, che assorbendo a sé l’affetto, non lo lasciasse più divagare. Hai ragione, è tempo di stabilirsi.”

Non fosse per la smania di muoversi, Vidua potrebbe dunque essere il perfetto protagonista dei salotti romantici torinesi, e permettersi anche il brivido della cospirazione. Tutto questo però non lo soddisfa: “Molte cose ci sono in questo particolare degne di attenzione, che non si possono o malagevolmente apprender dai libri; onde è necessario vederle ove sono, osservare come vengono poste in uso e qual effetto ne procede, per questo motivo i viaggi potranno servire di strumento efficacissimo, onde ampliare le idee e moltiplicare le cognizioni”.

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I primi viaggi

Vallo però a spiegare al padre, che lo vorrebbe sposato e avviato ad una carriera amministrativa o politica di alto livello e che tiene ben stretti i cordoni della borsa. Di fatto Carlo riesce a sganciarsi e ad allontanarsi più spesso da casa solo dopo i venticinque anni, quando comincia a godere di una rendita propria. “Io era dunque così sovranamente stufo di non far niente, di non avere nessuno scopo nella mia vita, così annoiato, senza alcuna speranza nemmeno di poter viaggiare stanti le difficoltà di mio padre, che mi saltò l’idea di partire da Torino, andare in qualche città lontana […].” Lo fa viaggiando nel 1810 per la prima volta fuori d’Italia, in terra francese, compiendo una sorta di pellegrinaggio nei luoghi petrarcheschi. Si porta dietro tutti i suoi pregiudizi nei confronti della patria del giacobinismo (“Più vedo questa Francia e più mi insuperbisco di essere nato italiano.”), pregiudizi che conserverà per tutta la vita, ma matura per Petrarca una vera adorazione. E soprattutto ha la conferma che il suo futuro non può essere che nel viaggio: “Trovo che l’agitazione dei viaggi, il moto, il cambiamento di oggetti, la varietà dei naturali e dei costumi delle persone che vi si incontrano, innalzano l’animo, fanno nascere delle riflessioni, vi tolgono molti pregiudizi e maniere di pensare, vi danno dell’esperienza di mondo, vi accostumano a parlar bene”. E infatti al rientro intraprende subito un lungo giro per l’Italia centrale. Percorre a cavallo tutta la Toscana e buona parte dell’Umbria, riempiendosi gli occhi di arte e di natura e il cuore di emozioni: ad esempio davanti alle selve di abeti di Vallombrosa, che “fanno parer vere le selve incantate dell’Ariosto”. Naturalmente tutto questo, anziché appagarlo, gli alimenta una irrequietudine e una voglia di fuga sempre maggiori.

È costretto però ancora per qualche tempo a mordere il freno, anche se ormai il bisogno di muoversi è diventato quasi un’ossessione: “Se non esco da quel circolo di Casale, Conzano e Torino languirò eternamente senza far nulla di buono”. Il primo vero strappo con la famiglia avviene nel 1813: dopo un lungo soggiorno in Liguria (dove conosce la “ninfa sestrina”, e tra una camminata e una cavalcata lavora a una storia di Firenze – poi perduta), alla fine dell’anno torna in Francia, passando per Ginevra e raggiungendo questa volta Parigi, in tempo per assistere alla caduta di Napoleone e all’occupazione della città da parte degli Alleati. La cosa non lo emoziona più di tanto, non ne parla quasi. Si potrebbe manzonianamente dire che “di mille voci al sonito / mista la sua non ha”. Si limita a commentare: “Quantunque questi avvenimenti siano degni di memoria, nondimeno se fossi io un Tacito preferirei a tutti gli argomenti e le scene che presentano quei giorni quello della condotta e dei sentimenti della nazione vinta; io non ne fui mai gran cosa ammiratore. Chi non è stato in Francia non può ben apprezzare, e poi chi non li ha veduti in questa occasione non può non conoscere in tutta la sua estensione quel misto di leggerezza e di eccesso, di sedizioso e di pieghevole, che non ne fa un popolo unico”. Col che, i francesi sono sistemati.

Questa volta ha deciso l’itinerario autonomamente, all’insaputa della famiglia (anche se di fronte al fatto compiuto il padre provvederà a finanziargli parte delle spese). E ne approfitta. Infatti non rientra, ma durante l’estate del 1814 si sposta in Inghilterra e in Irlanda, e passa poi in Scozia. Oltremanica constata i primi effetti della rivoluzione industriale sul paesaggio, sulle tradizioni, sui costumi e sui caratteri, e ne è disgustato. “Quel che non si sente più è la voce del Bardo. Né più si incontra la dolce ospitalità né la valorosa ferocia. Grazie a quelle malnate novità si sono aperte per ogni dove delle nuove strade, si sono costruiti dei ponti, si tagliarono i boschi. Invece dei famosi guerrieri si ritrovano dei grossi mercanti accorti nel loro interesse […].” In un viaggio successivo sarà invece positivamente colpito dalle istituzioni anglosassoni, soprattutto dopo aver assistito alla sobrietà di una seduta parlamentare. Per ora rientra infine attraverso Belgio e Olanda, ripassando nuovamente per Parigi e rinnovando il suo giudizio negativo.

Nel frattempo è assai cresciuto, e non solo intellettualmente. La descrizione fattane da un corregionale che lo ha incontrato a Parigi nel 1814 ci offre un sembiante ben diverso da quello rimandato dai suoi unici due ritratti esistenti. “[…] grandissimo di statura, ma cotanto magro che di più nol potea essere. La di lui fisionomia era veramente brutta, la pelle giallognola, la bocca squarciata, mostrando denti e gengive in pessimo stato, dimesso assai nel vestire, gonzo nel camminare e vi si aggiungeva la vista breve […]. Ma allorché parlava, era tanta la sua istruzione, tale la sua eloquenza, che tutto facea dimenticare l’orrido della sua presenza […]. Era erudito nelle lingue italiana, latina francese e inglese, e tutte le parlava con facilità e bella pronuncia. Era avido di apprendere le costumanze delle genti ove egli recavasi […].Era tutto originalità del modo suo di vedere e di giudicare […]. Al clavicembalo […] suonava con grande maestria e profonda espressione. Avea una voce perfida, ma la sapea modulare a cagionar diletto.”

Evidentemente i viaggi, soprattutto se affrontati come in questo caso con scarsità di mezzi, lasciano il segno. Sembra davvero il brutto anatroccolo: e il prosieguo del racconto, dove si parla di un suo brutale arresto a Le Havre per sospetto di spionaggio o di contrabbando, e di come il conte abbia atteso di essere portato davanti a un tribunale per palesare la sua identità e impartire una lezione di civismo alle autorità francesi, completa il quadro.

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Romantico controvoglia

La vera vita di Carlo Vidua, quella che a me interessa, comincia dunque proprio mentre si chiude in Europa la parentesi napoleonica. Non è solo una coincidenza. A chi come lui è assetato di gloria la cappa grigia della restaurazione chiude nel vecchio continente ogni orizzonte. Scrive a Cesare Balbo: “Credi tu che gl’istorici dei nostri tempi tra la folla dei nomi da tramandare ai posteri sceglieranno il mio? Mai no: fuori che una qualche circostanza rarissima attacchi il mio nome a qualche grandissimo avvenimento”. Cosa che oggettivamente non solo a Conzano, ma in tutto il Piemonte, per uno che oltretutto rifiuta di entrare nella guardia imperiale, è difficile attendersi. Per qualche tempo, tra il luglio 1815 e la primavera del 1818, torna dunque a muoversi tra Casale e Torino, mettendo mano anche alle osservazioni maturate nel primo viaggio; ma ha ormai chiaro ciò che vuole e già progetta mete lontane (nel mirino ci sono gli Stati Uniti, il Canada e l’America Latina). Coltiva pertanto le amicizie e le conoscenze che possono procurargli agganci e agevolare i suoi futuri spostamenti, si dedica alle studio delle lingue e delle storie, e comincia a maturare il disegno di una grande opera comparativa tra i vari sistemi politici di tutto il mondo, da fondarsi sull’esperienza diretta.

Con tutto questo non rimane estraneo al dibattito culturale acceso in Italia dal clima della Restaurazione, quello che contrappone i “classicisti” ai “romantici”. Vi partecipa anzi tempestivamente, stendendo nel 1816 (o forse già nel 1813) un discorso Dello stato delle cognizioni in Italia che anticipa non solo nei tempi, ma nei modi e nelle conclusioni, il leopardiano discorso Sullo stato presente dei costumi degli italiani, pubblicato otto anni dopo (nel 1824). Lo fa però a modo suo: sia perché sposta il discorso dal piano artistico-letterario e da quello politico all’analisi storico- antropologica, sia perché alla fine non pubblica il trattatello (che verrà dato alle stampe ad opera di Cesare Balbo solo dopo la sua morte, nel 1834).

Nel suo scritto Vidua imputa il ritardo accumulato dalla cultura italiana principalmente a tre fattori. Intanto la tendenza dei nostri intellettuali a oscillare tra l’imitazione pedissequa e idolatra dei classici, che si risolve in pura erudizione, e quella altrettanto acritica degli stranieri. Poi l’ignoranza diffusa tra le classi basse. A questo proposito più tardi scriverà: “Dobbiam confessare per nostra vergogna che in molte parti d’Europa e specialmente in Piemonte v’è molta minor proporzione di persone del popolo che sappian leggere che nelle Filippine e tra’ Cristiani delle Molucche”. Su questa ignoranza hanno fatto sempre leva le classi dominanti (nelle quali Vidua però non fa rientrare la Chiesa: le riconosce anzi una funzione civilizzatrice), usandola strumentalmente per il loro dominio, mentre “ormai la propagazione della lingua, la celebrità della letteratura, ed il vanto delle cognizioni sono divenute una maniera di acquistar reputazione, un titolo di gloria nazionale, uno strumento di potere”. Strumento da utilizzarsi nei confronti del popolo “ad addolcirne i costumi, ad affezionarlo alla patria e ad istruirlo nei rudimenti della religione, della lingua e dell’ agricoltura”.

Viaggiando in rimoti paesi 08Per intanto il primo dei problemi da affrontare è, secondo Vidua, l’assenza di una lingua comune, conseguenza di un desolante provincialismo: “Siamo più stranieri a noi stessi che agli altri: è cosa deplorevole che più differenza e opposizione di idee e di costumi vi sia tra l’una e l’altra delle nostre province e un’altra nazione europea o anche asiatica”. Questo nasce, oltre che dalle contingenze storiche (le diverse dominazioni che si sono susseguite sulla penisola), dal fatto che da noi la classe colta ha continuato testardamente e arrogantemente ad esprimersi in latino, salvo poi nel corso del Settecento volgersi al francese, allargando così sempre più la forbice culturale nei confronti degli altri ceti e non favorendo l’evoluzione dei diversi volgari verso un idioma comune. In realtà, gli esempi per la costruzione di una lingua condivisa esistono, arrivano da tutta la letteratura rinascimentale pre-barocca e possono costituire la base per mettere fine alle sterili dispute in difesa degli usi lessicali localistici. E una volta individuata la direzione, la lingua per Vidua deve essere difesa da un lato contro la “corruzione dei dialetti”, dall’altro dall’“infranciosamento”, dall’adozione di termini e costrutti stranieri che sono le crepe attraverso le quali si insinuano anche le perniciose idee d’oltralpe.

Ciò non implica assolutamente un atteggiamento di chiusura nei confronti delle culture straniere. Il ritardo nei loro confronti è evidente, e Vidua indica naturalmente come rimedio più efficace per ridurlo quello dei viaggi (citando tra l’altro come esempi proprio i fratelli Humboldt, un linguista e uno scienziato-viaggiatore): “Di due fratelli illustri in Prussica, un passava come ambasciatore dall’una ad altra corte d’Europa, mentre l’altro passava come dotto dall’una all’altra Cordigliera del Perù”.

Quanto alla mancata pubblicazione del suo piccolo trattato, Carlo la spiega poi in una lettera lamentando incertezze sullo stile e accampando la necessità di lasciar decantare lo scritto per qualche mese: ma la ragione vera è che ha altro per la testa. Ha superato i trent’anni, è uno spilungone alto più di un metro e novanta e in buona salute, possiede tutti i numeri e la preparazione di base per svolgere un lavoro scientifico serio, compresa la conoscenza di diverse lingue, antiche e moderne, sa conversare piacevolmente, perché sa porre le domande e soprattutto sa ascoltare le risposte, gode finalmente anche di una discreta indipendenza economica per aver ereditato dai nonni materni: non può perdere altro tempo rispetto ai suoi progetti. E, non ultimo, vuole sottrarsi il più possibile al controllo del padre.

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Dalla Lapponia all’Equatore

Per questo continua a scalpitare, e alla fine di aprile del 1818 s’incammina nuovamente per Parigi e Londra, questa volta in compagnia dell’amico Alessandro Doria e di un domestico, Leonardo. È riuscito “dopo qualche difficoltà” a strappare l’assenso del padre – o almeno così lui dice in una lettera alla matrigna, alla quale chiede ora sostegno, e non solo morale: “Il desiderio mio di istruirmi, di non perdere l’occasione di essere con un amico, i grandi vantaggi e per conto della sicurezza e anche pel caso di malattia che derivano dall’essere in buona compagnia, la considerazione che se ritardo ancora a viaggiare, aspetterei poi troppo tardi a maritarmi […] mi spinsero a partir subito ed a fare quanto era in me per non lasciar sfuggire questa opportunità. […]. Ma i viaggi lontani a farli con comodo e senza rischiar la salute esigono assai maggior spesa, a cui lo stato presente dei miei interessi non potrebbero forse bastare, laonde […] la prego volermi aiutare in questa circostanza … Se n’avrò i mezzi, l’idea mia sarebbe di fare tutto in una volta il giro di que’ paesi, che meritano esser veduti, onde poi tornare a casa tranquillo e stabilirmi”.

Dall’Inghilterra, dove si riconcilia se non col paesaggio almeno con la cultura giuridica e politica anglosassone, passa all’inizio dell’estate in Danimarca, e poi in Svezia. Assiste ad alcune udienze concesse dal sovrano ai rappresentanti dei diversi ceti popolari, e le trova decisamente istruttive. Risale quindi la penisola scandinava spingendosi sino alla Lapponia, dove soggiorna per un mese. Ha probabilmente in mente l’esperienza di Giuseppe Acerbi (all’epoca direttore de la Biblioteca Italiana, la rivista dei “classicisti”), che in Lapponia era stato negli anni 1798/99, e aveva poi raccontato i suoi viaggi in due fortunati volumi: ma non è escluso abbia notizia anche del Viaggio settentrionale di Francesco Negri, pubblicato più di un secolo prima. Raccoglie numerose notizie sulla demografia e sui costumi dei Sami, che affida al suo taccuino, e trova e annota le tracce dei viaggiatori che lo hanno preceduto.

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Ridiscende quindi attraverso la Finlandia sino a Pietroburgo (1 ottobre), dove è ricevuto persino dallo zar Alessandro I, e a Mosca, dove dimora per altri due mesi. Sin qui ha in pratica seguito l’itinerario del suo quasi concittadino Vittorio Alfieri, che all’epoca, assieme al Foscolo, è un po’ il modello di tutti i giovani italiani, e in specie dei piemontesi. La Russia, al contrario della Svezia, non gli piace granché: ma vi dimora comunque undici mesi e fa incetta di documenti e di incontri. E non ha nei confronti del dispotismo russo la stessa reazione sprezzante che era stata dell’Alfieri (che non aveva neppure voluto essere presentato a Caterina II).

A questo punto, mentre Doria rientra in Italia, Vidua prosegue per Novgorod e quindi verso il Caucaso. Il viaggio occupa la primavera e l’estate del 1819, e durante questi mesi il conte entra a contatto con Cosacchi, Circassi e Tartari, e partecipa anche alle loro attività di caccia. Per un certo periodo si ferma poi presso i Calmucchi, dei quali apprezza soprattutto i riti religiosi, le danze e la musica. Infine passa in Crimea.

Da Odessa attraversa dunque il Mar Nero e il primo di settembre è a Costantinopoli. Trova i turchi sgarbati ed insolenti, sospettosi e ostili nei confronti degli stranieri, per cui è necessario viaggiare sempre accompagnati da un giannizzero. In realtà ciò che maggiormente lo disturba è la difficoltà nel reperire quei piccoli tesori archeologici dei quali altrove fa man bassa. Lascia dunque la capitale ottomana e visita Smirne e le isole greche, e alla fine del 1819 approda in Egitto. Qui si fermerà per un anno, spingendosi nel corso di varie spedizioni lungo il Nilo sino alla seconda cateratta, nella Bassa Nubia.

Viaggiando in rimoti paesi 11Il trasferimento da Alessandria al Cairo è compiuto con una piccola carovana che consente di farci un’idea di come viaggia Vidua: è accompagnato da due arabi che conducono un cammello, un cavallo e due asini con i bagagli, mentre lui e il suo domestico Lorenzo viaggiano a loro volta a cavallo. Il bagaglio comprende una tenda, due letti, le vesti, la biancheria e le scarpe, i fucili e le pistole, più una batteria da cucina, i viveri e le bevande. Non è l’immagine classica (e romantica) dell’esploratore o del giramondo alla quale noi oggi siamo abituati, ma occorre considerare come all’epoca, e specialmente in quelle terre, non fosse facile trovare sistemazioni notturne e posti di ristoro. Non mancavano certamente gli avventurieri capaci di affrontare i deserti o le foreste africane armati solo del loro coraggio (vedi René Caille o, più tardi, Richard Burton), ma Vidua non è né un esploratore né un avventuriero, è un giovanotto di famiglia patrizia che ha scelto di compiere il suo Gran Tour, il suo viaggio iniziatico, fuori dell’Europa. L’equipaggiamento di cui sopra è comunque praticamente lo stesso col quale si muoveva nei medesimi luoghi, esattamente due secoli prima, un altro viaggiatore italiano, Pietro della Valle.

In Egitto dà la concreta dimostrazione di non essere un viaggiatore per diporto, ma uno studioso dotato di notevole intuito e di metodo nella ricerca. Lo testimonia l’egittologo Frédéric Caillaud, che condivide con lui un breve periodo di ricerca: “Durante il mio soggiorno al Cairo ho conosciuto un viaggiatore assai interessante, il conte Vidua di Torino, che era arrivato in Egitto dalla Lapponia: aveva già visitato i monumenti della Bassa Nubia, disegnato le piante di quei monumenti con la cura più scrupolosa, e usato la stessa esattezza nel copiare le iscrizioni […]. Eravamo insieme sulla via per Suez quando ho scoperto gli alberi pietrificati […]. Ho ascoltato i suoi racconti con viva curiosità, ed egli volle ascoltare con lo stesso interesse la narrazione dei miei viaggi”. Vidua visita appunto tutti maggiori siti storici, corredando i suoi appunti con disegni, e trascrive una serie di iscrizioni trovate all’interno del tempio di Abu Simbel (che pubblicherà dopo il ritorno, unica opera sua edita in vita). Il colpo da maestro è però l’acquisto a nome del governo sabaudo della collezione di antichità egizie raccolte da Bernardino Drovetti, un ex ufficiale napoleonico con l’animo dell’avventuriero e del saccheggiatore, che ha ammassato una quantità di reperti unica al mondo. Questo acquisto porrà le basi per la nascita del museo egizio di Torino, mentre la raccolta di iscrizioni lo farà conoscere a tutti gli studiosi della nascente egittologia, compreso Champoillon, che cercherà di associarlo alle sue ricerche.

Viaggiando in rimoti paesi 12Carlo Vidua non è però uomo da concentrarsi su un solo paese e votarsi a un unico campo di studi. Vuole lasciare la sua impronta un po’ in tutti. Intanto comincia col lasciarla concretamente. In Egitto, ad esempio, incide il proprio nome su tutti i monumenti visitati, tanto da guadagnarsi lo stigma negativo di Flaubert: “Leggiamo nei templi i nomi dei viaggiatori: mi sembra una vana piccineria. Ce ne sono che hanno richiesto tre giorni per essere incisi. Qualcuno si ritrova dappertutto, con una costanza di imbecillità sublime. C’è uno di nome Vidua, che non ci lascia mai […]”. In effetti, la cosa può riuscire fastidiosa: ma è chiaro che nel caso del nostro non è una imbecillità da turista, bensì quasi un marcare il territorio, e inviare un messaggio agli amici e ai posteri. Che a volte lo recepiscono: è già capitato a lui in Lapponia, e quando qualche anno dopo Santorre di Santarosa troverà su una colonna di un tempio di Atene il nome di Vidua, suo amico, inciderà accanto ad esso il proprio.

È comunque evidente che il viaggio non è più per lui solo lo “stromento efficacissimo onde ampliare le idee e moltiplicare le cognizioni”: quando fa incidere su uno dei colossi di Abu Simbel “Carlo Vidua Italiano qui venne dalla Lapponia” posa un mattone per un suo futuro monumento. E lo stesso fa quando racconta in termini “eroici” agli amici le proprie esperienze: “Ho sofferto il soffribile, otto giorni con acqua putrida nel mese di luglio sotto questo sole, tre giorni non avendo altro cibo, né bevanda che quattro meloni, trottar sui dromedari: infine ho voluto provare che cosa era un viaggio al deserto, e ne posso dire qualche cosa”.

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Nella culla della civiltà europea

Ad agosto del 1820 Vidua lascia l’Egitto e risale verso la Terrasanta. Qui compie il rituale pellegrinaggio a Nazareth, a Betlemme e al Santo Sepolcro di Gerusalemme: poi trascorre l’autunno visitando Tiro, Sidone, Damasco, Tripoli e Beirut, e spingendosi sino a Palmira. Nel dicembre finalmente decide di rientrare in Europa, facendo scalo prima a Cipro e poi a Rodi. Il maltempo che osteggia la navigazione lo costringe a sbarcare nell’isola di Cos, e qui la sua imperturbabilità di fronte al genere femminile viene scossa: “Le donne sono molto belle, molto vivaci, molto disinibite, e lungi dal coprirsi il volto come in tutto il resto della Turchia, esse amano guardare e farsi guardare […]. Le ragazze si affrettano ad andare alla passeggiata o a danzare per le vie, dove piazzate davanti alle porte delle loro case stuzzicano gli uomini con proposte piccanti, e si divertono a ridere, a motteggiare, a sostenere conversazioni sfrontate”. Sembra di leggere pari pari l’elogio delle donne di Cos tessuto due secoli prima da Della Valle. Quindi, delle due l’una: o Vidua ha letto i Viaggi di Della Valle, o le donne di Cos sono davvero sempre state così, belle e impudenti.

Durante la successiva navigazione nell’Egeo deve addirittura sostituirsi al comandante della nave su cui viaggia, visto che “[…] il capitano, il pilota e tutti i marinai erano nelle tenebre”. Approda ad Atene nell’aprile del 1821 e vi si ferma per sei settimane. La città è in rivolta contro il dominio ottomano, ma il conte non sembra affatto essere emotivamente partecipe della vicenda. L’unico suo coinvolgimento arriva da una palla di cannone che gli entra in camera durante il bombardamento turco: “Una palla di cannone venne a trovarmi in camera, mentre ero ancora a letto, senza far altro che guastare un poco il muro […]. Quanto alle palle di fucile, ne vennero molte in casa mia, senza far danno né a me, né ad altri. Se i turchi avessero saputo […]”. Per il resto, passeggia tranquillamente per la città mentre piovono le bombe. Sembra il tipico understatement inglese, un po’ cinico e decisamente antiromantico, ma in realtà è lo stesso atteggiamento col quale Leopardi (ancora lui) prendeva le distanze dai patrioti “progressisti” del circolo Viesseux. È uno sguardo disincantato sulle cose e sulla storia, che non significa rassegnazione, ma ricerca di senso, per sé e per il mondo, in ideali filosofici ed estetici più alti delle infatuazioni patriottiche o delle lotte per le cause perse. Insomma, per dirla in altre parole, Vidua è senz’altro in cerca di gloria e di fama personale, ma vuole guadagnarsi l’una e l’altra con qualcosa che vada oltre il bel gesto o l’atto di insensato coraggio. A combattere con i Greci è invece il suo domestico Leonardo, che rompe gli indugi, lascia il padrone dopo avergli sequestrate tutte le armi e passa nelle fila dei rivoltosi, facendo una carriera militare rapidissima. “A quest’ora sarà diventato generale”, commenta sarcasticamente Carlo quando ne dà notizia al padre. E licenzia il domestico.

Viaggiando in rimoti paesi 14Intanto, le vicende rivoluzionarie che potrebbero magari direttamente coinvolgerlo (i moti piemontesi del 1821), e che vedono protagonisti i suoi amici Balbo e Santorre di Santarosa, si stanno consumando in sua assenza. Ma anche su quelle, a posteriori, il suo giudizio non si spingerà oltre la personale simpatia per gli sfortunati (e ingenui) patrioti.

A risparmiare a Carlo la necessità di schierarsi interviene comunque il caso. Ripartito da Atene dopo aver assistito alla sua capitolazione, si trova nuovamente bloccato per due mesi a Smirne, dove nel giugno del 1821 assiste inorridito alle stragi compiute dalle milizie ottomane. Anche il resto del viaggio è travagliato, o quanto meno interminabile, tanto da fargli scrivere: “Pareva che fossimo incaricati di disegnare le coste, o di dar l’ispezione ai porti”. Arriva infatti in vista di Marsiglia solo alla fine di settembre del 1821. Qui però deve scontare un lunghissimo periodo di quarantena (due mesi senza poter sbarcare dalla nave e altri due confinato in un lazzaretto della città), perché proveniente da località nelle quali imperversa la peste. La descrizione che fa di questo soggiorno conferma i lati migliori del suo carattere: “Io del resto mi trovo qui molto bene. Ho una buona camera con due gabinetti. In uno dormo io, e nell’altro un Francese molto civile e cortese […]. Egli suona bene del flauto. Mi sono fatto affittare un buon cembalo per opera del console che mi mandò anche della musica. Così facciamo de’ concerti, io compongo delle piccole arie per flauto, egli le eseguisce. Inoltre possiamo aver comunicazione colle nostre signore – Esse vengono la sera in camera mia, e come ce ne sono tre giovani che cantano, io le accompagno, gli altri quarantenari vengono ad ascoltarci, e così passiamo una delle più dolci quarantene che si sieno mai fatte”.

Viaggiando in rimoti paesi 15Le “nostre signore” di cui parla sono le componenti di una bizzarra famiglia di otto donne, che così ha prima descritto: “Una bisava decrepita – due sue figlie vecchie, di cui una ha tre figlie, una delle quali maritata ha una serva indocile, e una bambina che completa la quarta generazione, e ch’è la sola persona tranquilla di tutta la famiglia. S’immagini tutta questa gente col loro cane rinchiusi con me ed un altro passeggiero (negoziante Francese assai buona persona) in una piccola camera, gridando, piangendo, disputando fra loro, con noi, col capitano; la bambina che stride, la decrepita che tosse, il cane che abbaia, non è un vivere, ma è continuo morire. La notte, per caldo che faccia, vogliono restar stivati nella camera colle finestre chiuse, e cento altre indiscrezioni colle quali corrispondono alle cortesie ed attenzioni, che abbiamo usato verso loro”. Il quadretto è fantastico, per l’essenziale efficacia della scrittura ma soprattutto perché dimostra che Vidua è un viaggiatore vero. Riesce prima ad adattarsi ad una simile infernale situazione, e a reinterpretarla poi simpaticamente come una “dolce quarantena”.

Si capisce comunque molto bene da un’altra lettera dello stesso periodo perché questo indugio non gli pesi affatto. “Il mio viaggio è terminato. Non ho scordato che tu (n.b. il Marchese del Carretto) ne facilitasti il principio, Tutto sta nell’uscir una volta di prigione. Ora vado a costituirmi di nuovo. Veramente il solo stimolo che mi v’induca, e credo il solo piacere che avrò nel rivedere il paese natio sarà quello di rivedere mio padre, mia sorella, e qualche raro amico. come te, e come pochi altri. E che vi farò? Durante il mio viaggio ho trovato de’ peregrini pari miei, che anelavano al momento di finire le loro peregrinazioni. Altri che mi dicevano: oh, quando sarete ritornato in Piemonte sarete un oggetto di curiosità, Vi opprimeranno d’interrogazioni […] io rideva, e pensavo tra me stesso: eh quanto poco conoscete il Piemonte! È vero che altrove i viaggi danno buona riputazione, da noi piuttosto la tolgono. Buono per me, che non li ho intrapresi per vanità ma per mia istruzione, e particolarmente per mio diletto. Posso dire di aver vissuto in questi tre anni e mezzo, e se avrò lunga vita le memorie che ne serbo faranno il divertimento della mia vecchiaia”.

Finalmente agli inizi della primavera del 1822 rientra nel regno di Sardegna. Non è un ritorno trionfale, come Carlo aveva ben presagito. I moti ‘patriottici’ sono stati soffocati da un pezzo, alcuni amici sono in carcere, altri in esilio, e il clima, in generale e in casa Vidua in particolare, è decisamente pesante: lo constata appena mette piede in Piemonte, allorché gli viene imposto di tagliare immediatamente i baffi che aveva lasciato crescere alla turca e che portava da due anni (c’è un’ordinanza reale apposita). Non ha così modo di mostrarsi ai familiari nel suo nuovo look orientaleggiante, spettacolo per il quale si era munito di caffetani e turbanti. Ma, ciò che più importa, non è ancora rientrato che già il padre e tutto il parentado tornano all’attacco con le insistenze sul matrimonio.

Carlo riesce a prendere respiro per altri tre anni opponendo una resistenza passiva. Trova mille motivi per procrastinare: deve stendere le relazioni dei suoi viaggi (ma ha molti dubbi sull’interesse che possono destare nei piemontesi), redigere un libro sulle iscrizioni antiche che ha raccolto in Egitto e in Grecia (le Inscriptiones antiquae a comite Carolo Vidua in Turcico itinere collecte, unica opera sua edita in vita, Parigi 1826), ma soprattutto deve curare la fase decisiva dell’affare Drovetti, che si conclude solo nel 1823 con l’acquisizione della collezione da parte del governo sabaudo, e comporta ora la sistemazione museale dei materiali.

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In America!

All’inizio del 1825 lo troviamo nuovamente in Francia: l’aria di casa si è fatta irrespirabile. A Parigi questa volta conosce Alexander von Humboldt. La mia prima curiosità nei confronti di Vidua è nata proprio da questo incontro, dalla menzione che Humboldt ne fa sia nelle sue lettere, lodando il libro sulle iscrizioni, sia nel Kosmos, dove parla di “un viaggiatore dalle molte peregrinazioni e libero ricercatore, il mio amico piemontese conte Vidua”. Il grande viaggiatore-scienziato tedesco è in quegli anni una vera star, ammirata in tutta Europa, ed è estremamente disponibile nei confronti dei giovani animati da curiosità scientifica e spirito d’avventura. Vidua possiede entrambe queste caratteristiche, e in più è fortissimamente determinato a metterle a frutto. E Humboldt gliele riconosce subito. Un loro contemporaneo (il conte Federico Sclopis) qualche anno dopo la morte del viaggiatore racconta: “Ho incontrato in questa biblioteca il signor Humboldt, col quale abbiamo parlato dei viaggi di Vidua, che egli ha personalmente conosciuto e che sembra tenere in grande considerazione. Egli ritiene che l’idea dominante in Vidua fosse quella della politica, e che guardasse soprattutto a quella in tutti i suoi viaggi […]. Il signor Humboldt non conosceva che le iscrizioni raccolte da Vidua nel suo viaggio mediorientale, le ritiene importanti e si è fatto l’idea che questo viaggiatore dovesse avere una grande conoscenza delle lingue antiche”.

È vero che Humboldt ha conosciuto praticamente mezzo mondo, e che tendenzialmente andava d’accordo con tutti, ma l’apprezzamento espresso nei confronti del casalese, anche molti anni dopo la scomparsa di quest’ultimo, è decisamente lusinghiero. Dimostra che i due si sono trovati e subito intesi. Vidua d’altra parte non è lì per caso: sta per mettere finalmente in atto il suo progetto americano. Ne espone al barone le motivazioni e le linee principali e riceve un profluvio di consigli sulle mete, sui tempi di percorrenza, sull’equipaggiamento; ma soprattutto ottiene una serie di lusinghiere commendatizie, che gli permetteranno di incontrare le figure più importanti della politica americana del tempo. Non poteva godere di un viatico migliore.

Viaggiando in rimoti paesi 17Molto diversa, com’era da attendersi, è la reazione paterna. Carlo ha meticolosamente programmato e preparato il viaggio in America, ma non ne ha mai discusso in famiglia. Tutto rischia quindi di saltare quando a Marsiglia, poche settimane prima della data fissata per la partenza, arriva un ordine restrittivo dello stato sabaudo nei suoi confronti, fatto emanare probabilmente proprio dal padre. Il giovane non si rassegna, e in una lettera al genitore fa chiaramente intendere che da un rimpatrio inglorioso non uscirebbe offuscata solo la sua immagine. A quanto pare tocca il tasto giusto, perché l’ordine è rapidamente revocato. Carlo si imbarca dunque per l’America alla fine di febbraio del 1824, salpando dal porto di Le Havre.

In questo periodo l’America non è ancora meta di migranti economici in fuga dal nostro paese, come lo sarà alla fine dell’Ottocento: è frequentata invece dal fior fiore della intellighenzia italiana. I giovani si recano oltreoceano per viaggi più o meno lunghi, come nei casi di Paolo Andreani e di Francesco Arese, o per trapiantarsi definitivamente, spesso in ruoli di prestigio, come il librettista Lorenzo da Ponte, gli storici e politici Filippo Mazzei e Carlo Bellini, il militare e trapper Francesco Vigo, o addirittura per portarne a compimento l’esplorazione, come Costantino Beltrami. In molti casi si tratta di fuorusciti politici, reduci dalla militanza napoleonica o dalle rivoluzioni costituzionaliste degli anni venti (Pietro Maroncelli è uno di questi). Sono attratti da un’istituzione repubblicana che sembra funzionare e si propone come alternativa ai dispotismi restaurati in Europa: ma anche dalla vastità di un mondo aperto sull’Ovest, nel quale è pensabile ogni esperimento sociale, ogni realizzazione economica, ogni fuga dall’avanzata del moderno o, in alternativa, da ogni ritorno dell’antico. Carlo Vidua in qualche modo riassume in sé tutte queste motivazioni.

La traversata oceanica è tutt’altro che tranquilla: la nave passa da un fortunale all’altro, impiegando quarantatre giorni per raggiungere il nuovo continente. Ma anche in questa occasione il conte non si smentisce: mentre fuori infuriano i marosi si distrae suonando la spinetta. Sembra un atteggiamento alla Chateaubriand (che durante la traversata si tuffava in mare dalla nave per fare un po’ di moto – salvo poi dover essere fortunosamente recuperato), un’esibizione per impressionare gli altri passeggeri e farsi precedere da un alone di imperturbabile eccentricità: ma direi che è in linea con la sua personalità, e se anche l’aneddoto, che dobbiamo al protagonista stesso, fosse inventato, sarebbe comunque verosimile.

Vidua approda a New York nei primi giorni di aprile. Di lì prosegue per Filadelfia, e visita in successione Boston, Washington e Monticello. Grazie alle lettere di presentazione di Humboldt e a quelle che si è procurato nelle varie ambasciate ha modo di incontrare durante questo tour tre ex-presidenti e il presidente in carica, prima separatamente e poi eccezionalmente tutti assieme. Certamente l’essere figlio di un ministro di uno stato europeo e l’essere munito di commendatizie autorevoli gli apre le porte: ma è poi lui, col suo genuino interesse e la sua intelligenza a guadagnarsi una sincera e spontanea ospitalità, perché gli americani ci tengono a che il loro sistema di governo sia correttamente conosciuto nel vecchio continente. Tutti coloro che lo incontrano ne sono conquistati.

Eppure Vidua è molto diverso dal barone tedesco che lo aveva preceduto vent’anni prima, e che a sua volta aveva suscitato entusiasmo negli stessi interlocutori. Non li lascia storditi e quasi in soggezione: è al contrario uno che fa domande, è curioso di quel mondo e apprezza l’immediatezza e la semplicità che caratterizza anche i rapporti con persone di altissimo rango. Per questo piace molto ad esempio al presidente Quincy Adams, che così annota nel suo diario: “Il conte è davvero curioso […] è un ottimo concertista al pianoforte, ci ha suonato due o tre arie […]” e ancora “[…] è una persona di grande intelligenza e conoscenza”. A sua volta a Vidua piace Adams, perché è un moderato e perché dotato di un forte senso etico: non a caso il presidente una volta tornato all’avvocatura assumerà, diversi anni più tardi, la difesa degli schiavi ammutinati dell’Amistad, e ne otterrà l’assoluzione. Tra i due si instaura una calda simpatia, tanto che Vidua viene trattenuto a colloquio e a pranzo dal presidente più volte in pochi giorni. “La prima visita fu un dialogo lungo e animato di un’ora. Lunghi discorsi tenemmo pure il giorno che mi invitò a pranzo, ed un’altra sera che passai seco, e se mi fossi fermato lungamente a Washington avrei potuto vederlo bene spesso, giacché mi fece padrone di andare a passare ogni sera con lui.”

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La cosa si ripete a casa di Thomas Jefferson, dove si trovano in visita altri due ex-presidenti, Madison e Monroe, oltre allo stesso Quincy Adams. “I momenti che si passano con uomini di questa sorta sono preziosi, ma ordinariamente perduti, perché la presenza di altre persone e la circospezione impediscono di interrogare e di rispondere. Qui invece eravamo in villa, eravamo soli, io straniero, essi ritirati dagli affari, sicchè la conversazione non potè essere né più libera né più interessante. E siccome essi non si mostravano schivi di rispondere, io non mostrai paura di interrogare.” Credo di non sbagliare pensando che i quattro si fossero riuniti lì appositamente per conoscere lui, incuriositi dagli elogi che Adams junior ne aveva tessuto. E credo anche che posti di fronte a domande come: “Quanto tempo è credibile che la loro propria (repubblica) duri senza separarsi?” abbiano capito di avere davanti uno che vedeva lontano.

Un altro ex-presidente, John Adams (il padre di Quincy), incontrato qualche tempo dopo, ne riceve evidentemente un’immagine altrettanto positiva: “[Adams] le aveva parlato molto di me, dicendole che certo io avevo studiato bene la loro storia, e che di tanti viaggiatori che gli erano stati presentati nessuno gli aveva mai fatto interrogazioni di quella natura, che gli avevo fatto io”. E anche il sindaco di Boston scrive: “Analitico, curioso, intelligente, […] Vidua è intento in modo non comune nella ricerca della storia e dello stato attuale di questo paese”.

Questa la favorevolissima impressione che Vidua desta (e che ricambia, parlando dei singoli personaggi). Ma che impressione matura riguardo le istituzioni e le prospettive della giovane repubblica? Quando da Boston e da Washington si sposta a New York incontra un altro tipo di americani. “New York – scrive – non mi piace quanto Boston. È vero che or molta gente è in villa, e poi queste gran città commerciali non sono mai fatte per divertire uno straniero. La gente vi è troppo occupata a far denari.” E anche a fare politica, ma in maniera diversa da quella dell’aristocrazia schiavista della Virginia. Gli uomini nuovi sono i grandi imprenditori, i mercanti alla John Jacob Astor, i lobbisti e i finanzieri come Aaron Burr e Martin Van Buren, che condizionano la macchina elettorale e di lì in poi determineranno la politica americana.

La nube sul futuro degli Stati Uniti è rappresentata per Vidua da personaggi come Andrew Jackson, già candidato alla presidenza e all’epoca probabile futuro presidente, mercante di schiavi e odiatore degli indiani, fondatore del partito democratico e sostenitore del protezionismo: il tipico self made men semi-analfabeta che ha fatto carriera per la sua spregiudicatezza e irruenza, quanto di più lontano dall’aristocrazia intellettuale che ha così benevolmente accolto il giovane conte europeo.

Più in generale, Vidua sembra essersi fatto questa idea. La rivoluzione americana è stata gestita da una minoranza di privilegiati che aveva come scopo principale quello di sostituire la propria egemonia a quella inglese. Lo stesso vecchio Adams gli ha confermato che la maggioranza degli americani era contraria all’indipendenza o era indifferente. Ma tutto sommato gli artefici della rivoluzione, pur partendo da concezioni di fondo molto diseguali, e pur adottando nella competizione politica e nell’ accaparramento del consenso mezzi molto spregiudicati, hanno creato un sistema equilibrato, anche se fragile per l’esistenza nelle diverse ex-colonie di esigenze economiche spesso contrastanti. È un sistema che garantisce in primo luogo le libertà, quindi costituisce un esempio cui guardare. Vidua è colpito ad esempio dalla tranquillità nella quale si svolgono le operazioni di voto: “Ho assistito ad una elezione nello stato del Maine; ciascuno andava a portare il suo biglietto, la gente di diverso partito s’incontravano senza dir nulla, ciascuno dava il voto al suo candidato, i signori di città ne tenevano registro, un silenzio, una quiete, non si sarebbe sentito volare una mosca; quando scadde il tempo fissato per dare i voti, fu fatto lo scrutinio ossia il sommario dei voti in presenza di tutti, e fu dichiarata l’elezione senza gridi, senza tumulto”. (mi chiedo cosa penserebbe oggi!). O ancora, dall’ordine e dalla sicurezza che regnano nelle ex-colonie: “Sui costumi e sulla religione di questo popolo vi sarebbe molto che dire; ma esso merita questo grande encomio, che sebbene si governi da sé, e la forza pubblica vi sia debolissima, pure le persone e le proprietà vi sono talmente sicure che si viaggia ad ogni ora, e le case sono aperte fin di notte, senza serrature, senza chiavi e senza feriate” (anche su questo, avrebbe forse dei ripensamenti).

Ritiene però che quello americano sia un modello difficilmente ripetibile al di qua dell’oceano. In effetti, le condizioni sia fisiche (gli spazi) che sociali (l’eguaglianza dei diritti) degli Stati Uniti sono ben diverse da quelle europee. Inoltre, tutto il conclamato egualitarismo, che teoricamente è la base del modello democratico, è clamorosamente smentito dal fatto che una parte considerevole della popolazione, tra nativi che vengono espropriati delle loro terre e schiavi che sono stati importati (e continuano ad esserlo), non partecipa di nessuna liberà, né civile né politica (nel 1830, a fronte di una popolazione di oltre quindici milioni, i votanti sono un milione e mezzo) Col passare del tempo, secondo Vidua, questi problemi diverranno sempre più gravi, e peseranno moltissimo sulla tenuta dell’unione. “Una tranquillità perfetta che continuerà tanto che non ci sia sovrabbondanza di popolazione, una sicurezza personale illimitata, e indipendente dal capriccio dei governanti, una libertà intera di vivere e di scrivere, limitata però dall’uso dei duelli, da processi per calunnia e in certi punti dalla pubblica opinione, nessun timore di potere arbitrario, questi sono beni reali e preziosi, e certo questi beni si godono in America dai cinque sesti degli abitanti. Ma lo spettacolo dell’altro sesto, cioè di due milioni di creature umane staffilate, vendute, affittate come bestie sol perché non hanno la pelle bianca, mi amareggiava continuamente il soggiorno sì vantato della terra di libertà.

Ciò che intravvede, e che non ha potuto poi dettagliare e commentare con calma e in maniera più approfondita, è né più né meno ciò che vedrà Alexis de Tocqueville esattamente cinque anni dopo.

Tocqueville arriva in America nel 1831, con Gustave De Beaumont, inseparabile sodale di una vita. La motivazione ufficiale del suo viaggio è lo studio del sistema giuridico e penale degli Stati uniti, ma il soggiorno di quasi un anno gli consente indagare in profondità le differenze tra la “rivoluzione” americana e quella francese. Studia gli effetti della democrazia, e constata che questa promuove l’uguaglianza a scapito della libertà e l’individualismo a scapito della coesione sociale. Il rischio (a suo parere molto concreto) sul lungo termine è quello della massificazione e del trionfo del conformismo: la democrazia finisce allora per scadere nel dispotismo della maggioranza. Questo il succo de La democrazia in America, il poderoso saggio scritto negli anni immediatamente successivi al ritorno, e destinato a dargli la fama.

Vidua non ha modo di ordinare le sue impressioni, non effettua questi collegamenti, ma coglie già perfettamente quelli che ne saranno i presupposti. Nel resoconto della sua esperienza americana inviato all’amico Roberto D’Azeglio, rispondendo alla domanda di quest’ultimo: “Osserva ben quegli uomini, e dimmi se veramente son più felici degli altri. Vi trovi libertà vera?” scrive: “Non andai in America fanatico, ma a dir vero inclinato in favore. Non ho incontrato nessun dispiacere … nessuno disse male di me, e alcuni dissero più bene che non merito. Lungi dall’aver motivo di disgusto, ho dunque doveri di gratitudine. Ma pur la verità, ch’è il primo dei doveri, mi costringe a confessare che quegli uomini e quel paese mi gustaron pochissimo. … quanta diremo sia la felicità di un popolo che tutto intero corre ansante, senza riposo e senza intermissione in cerca del solo guadagno; in cui le scienze e le arti sono coltivate solo nell’interesse commerciale; in cui l’attività individuale tende ad isolare e a infievolire i nodi più stretti di un popolo sommamente industrioso, è vero, ma privo di fantasia, incapace di passioni generose, tenere o magnanime, del popolo il più freddo e il più calcolatore, che la terra abbia visto giammai? Parlo dell’universale, Dio mi guardi dal calunniare i particolari; son pronto a rendere giustizia a questi, e forse ancora sarei inclinato a riconoscere in favore dell’universale, che que’ difetti medesimi li rendon più capaci di sostenere la libertà, la quale difficilmente si può acquistare, o presto sfugge dalle mani delle nazioni dotate di tempra fervida e di calde passioni. Però, se la libertà si paga a tal prezzo […]”.

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Verso ovest e verso sud

Vidua ha naturalmente letto i libri di Chateaubriand e quelli di James Feminore Cooper, anche se questi ultimi non lo entusiasmano. Cooper l’ha poi anche conosciuto personalmente durante il viaggio. Vuole ora visitare le foreste canadesi teatro delle gesta dell’ultimo dei Mohicani, ma soprattutto completare la sua ricognizione dei sistemi politici nordamericani andando a verificare i modi della colonizzazione inglese: e vuole anche esplorare la frontiera occidentale statunitense, aperta una ventina d’anni prima con l’acquisto della ex Louisiana francese. Negli ultimi mesi del 1825 compie quindi un itinerario che dal Canada lo porta lungo la linea della frontiera sino a st. Louis, nel Missouri. Ha modo di ammirare le cascate del Niagara, delle quali scrive con entusiasmo: “Non mi sazio di vederle: son qui da due giorni e non fo altro che vagheggiarle: la pioggia, la nebbia e soprattutto la luna diversificano in mille modi la scena, e senza essere tacciati di romanticismo si può dire che questo è uno dei luoghi più romanzeschi del globo”. Altrettanto entusiasmo mostra però, oltre che per gli spettacoli della natura, per quello dell’intraprendenza umana, che in pochissimi anni ha creato città come Rochester e Pittsburg, ricche di manifatture d’ogni genere e pulsanti di vita: “È incredibile l’industria e l’attività di questa nazione, qualità in cui essa sorpassa e la Francia e l’Inghilterra che pur sono reputate le nazioni più industriose d’Europa”.

È un percorso più lungo di quello compiuto dallo scrittore bretone trent’anni prima, e anche di quello che di lì a pochi anni intraprenderà de Tocqueville. Tocca l’Ohio, il Kentuky, l’Indiana, l’Illinois e il Missouri: e Vidua si rende conto che il futuro dell’America è proprio nella frontiera.

Tutta questa parte degli Stati Uniti chiamata Western Country, che si estende lungo i grandi fiumi dell’Ohio e del Mississippi, è comparativamente agli altri stati sulle sponde dell’Atlantico, un paese nuovo. […] Questo è il più brillante teatro dell’industria di questo attivissimo popolo. L’americano non ha l’attaccamento al campanile, il rincrescimento di staccarsi dagli amici, dai parenti, da una patria. […] All’età di vent’anni ei si prende una moglie e va a cercare fortuna nell’Ovest. La terra è a buon mercato […] i raccolti di due o tre anni bastano a vivere, a pagare la terra e a fabbricare una cascina. A poco a poco la famiglia cresce, ma crescono le braccia: ed i suoi figli a vent’anni imitano il padre, abbandonando la casa paterna e andando a cercar fortuna sempre più all’ovest.

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Da St. Louis si imbarca su un battello che discende il Mississippi, e nel febbraio 1826 lascia gli Stati Uniti, partendo da New Orleans e recandosi in nave in Messico. È intenzionato a raccogliere materiali per una storia della rivoluzione messicana e più in generale di tutte le recenti rivoluzioni che si sono prodotte o sono ancora in corso nell’America Latina, nelle ex-colonie spagnole: e anche in questo caso non si accontenta di intervistare le massime autorità nei palazzi del potere, ma intende visitare in lungo e in largo i diversi paesi. Vuole ricalcare quasi passo passo le orme di Humboldt, ed aggiornare le considerazioni riportate da quest’ultimo quando l’ondata rivoluzionaria era ancora all’inizio.

In Messico però la delusione è cocente: riguarda il paesaggio (una campagna squallida e deserta), la viabilità (è questo uno dei paesi in cui viaggiare è più costoso, più difficile, più faticoso), gli abitanti, che hanno una fisionomia selvaggia, l’economia, poverissima e se possibile in dissesto, e poi, soprattutto, le istituzioni. La chiesa tollera manifestazioni religiose carnevalesche: “Il giovedì santo, trovandomi in un borgo presso s. Luis Potosi andai In parrocchia dopo pranzo credendo assistere all’ufficio: ma trovai che invece dell’Ufficio sì commovente […] si facevano in cambio tre processioni con grandi mascheroni, con fiaccole, con tiri e spari e musiche di violini come se fosser balli”. La classe politica uscita dalla rivoluzione non promette granché bene: “Qui in tutte le parti sono occupati a costituirsi; con quanta perizia, e quanta scienza politica e governativa nol so”. Vidua presenzia ad alcune sedute degli organismi di governo provinciali, e constata come nei confronti degli spagnoli l’odio sia radicato (e meritato, a giudicare da quel che sente). Ritiene quindi impossibile che la Spagna possa riprendersi le sue colonie. Ma ha anche forti dubbi sulla tenuta del nuovo assetto politico. “Io sono per l’emancipazione, però dopo che ho visto Messico, desidero per loro bene che i Repubblicani arrabbiati non abbian tanta influenza, e che non sia dato loro il potere di piantare il pugnale nelle viscere della loro patria, come sgraziatamente fanno.”

Mentre è in Messico gli capita anche un fatto tra il comico e l’increscioso. “Passando ad altro soggetto, vorrei raccontarti la storia della mia morte, ma non la so bene. Mentre io stava visitando il Messico fu pubblicato negli Stati Uniti il racconto della maniera con cui io era stato ammazzato ne’ deserti dagli Indiani; colà son tanti i giornali! dall’uno all’altro lo ripeterono, e un letterato di Filadelfia, città ove mi aveano conosciuto molto, fece la mia Necrologia, e la fece stampare nel più famoso di que’ fogli periodici […]. Il console generale negli Stati Uniti scrisse al Ministro al Messico per saper s’era vero, ed io poi seppi da lui la mia morte e la mia risurrezione tutto in una volta quando fui di ritorno a Messico. – Desiderava leggere la mia necrologia per la rarità del caso, che al solito non la legge il morto, però finora non l’ho potuta avere. Il suddetto Ministro degli Stati-Uniti al Messico, ch’è mio amico, mi disse ’che m’avean detto molto bene. – Sia un compenso per quelli che dicon male.” Il problema è che la notizia giunge sino in Europa, e solo il sopraggiungere di una tempestiva smentita evita ai famigliari di Carlo un coccolone.

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Anche Città del Messico, dove arriva il 21 giugno dopo aver girovagato per quattro mesi nella zona centrale del paese, non corrisponde affatto alle sue aspettative. La paragona a Torino, per le montagne che le fanno cornice, ma trova che tanto il panorama che la configurazione urbana siano decisamente inferiori. Naturalmente non manca di raccogliere tutto ciò che può, e di spedire dalla capitale il solito stock di casse pieno di libri, tele, statuine, medaglie, ecc…

Nel paese dilaga però la febbre gialla, e decide allora di lasciare il Messico e dirigersi verso il Perù. Non senza concedersi, lungo il cammino che lo porta verso la costa pacifica, un mese di sosta a Guadalajara, che giudica la più bella città del Messico e dove trova ospitalità presso un gentiluomo inglese. In realtà è anche incerto se proseguire nel suo progetto dell’America Latina o volgersi direttamente all’Asia (ha in mente la Persia).

A sciogliere ogni dubbio arriva una missiva della sorella che lo informa del grave stato in cui versa la salute del padre. Sconvolto dal rimorso, Carlo intraprende una galoppata che in un mese lo riporta a Città del Messico, e di lì a vera Cruz, dove trova un passaggio per l’Europa. Si imbarca il 22 febbraio e giunge a Bordeaux nell’aprile del 1827, dopo una traversata ancora una volta tempestosa. Ma sta scritto da qualche parte che il ritorno non sia definitivo. Un duro contrasto epistolare con il padre, nel frattempo ristabilitosi, induce il nostro a non rientrare in patria. I motivi della rottura si possono facilmente immaginare: gli viene dettato l’ennesimo ultimatum, pena l’essere definitivamente diseredato. Carlo non è disposto ad accettarlo e si ritiene quindi sciolto moralmente da ogni vincolo. “Sarebbe stato naturale qualche rincrescimento della strada fatta indietro, e quale strada! Tuttavia pensai che non era possibile pentirsi di aver fatto ciò che si deve, e io sono contento di aver avuto occasione di mostrare in un modo così poco volgare il mio rispetto e affetto per mio padre. Avevo compiuto un dovere. Tal dovere non esistendo più, era naturale di finire ciò che avevo incominciato. Invece di fare il giro della palla da levante a ponente, questo accidente me lo fa fare da ponente a levante.”

Del resto, era già chiaro molto prima, quando a proposito di matrimonio e di carriera scriveva ad un amico: “Se mai mi decidessi, sarebbe unicamente per far piacere a mio padre. Capisco che ei ne dee avere gran desiderio, e s’io fossi a suo luogo l’avrei. Ma la perdita della libertà, l’interruzione de’ miei studi, e soprattutto l’obbligo di dovere vivere in un paese sì diviso, e in mezzo a tante piccolezze, e ad opinioni che per la loro esagerazione da una parte e dall’altra, non si combaciano con le mie idee moderate […]”.

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Nell’Estremo Oriente

Vidua deve aggiornare i suoi programmi, e non impiega molto. Solo tre mesi dopo il rientro, nel luglio del 1827, riparte da Bordeaux per quello che nelle intenzioni dovrebbe essere il suo ultimo viaggio (così almeno scrive alla sorella): la destinazione prossima è l’Estremo Oriente, in particolare la penisola indiana e il sud-est asiatico, ma il progetto è molto più ambizioso: prevede l’Australia e la traversata del Pacifico sino al Cile e al Perù, e quindi di valicare le Ande per toccare Buenos Aires e Rio de Janeiro.

Arriva dunque a Calcutta a metà novembre del 1827 (dopo cinque mesi di navigazione!). Nel gennaio dell’anno successivo risale il Gange fino a Benares, per essere poi a Delhi in febbraio. Il tam tam che lo precede funziona, comincia ad essere conosciuto anche negli angoli più remoti del mondo come “il Viaggiatore”. Le credenziali a questo punto se le firma da solo. Incontra così i massimi esponenti della Compagnia delle Indie ed è presentato personalmente al Gran Mogol. Ha il tempo anche di frequentare i “salotti” coloniali, e di biasimare la spocchia che li caratterizza. Gli inglesi guardano con sprezzo alla sua curiosità per culture che ritengono inferiori: e al contrario degli americani ritengono inferiore anche la cultura sua. Significativo è quanto racconta a proposito di un’accesa discussione a casa di un alto funzionario della Compagnia: “Alla fine milady alzandosi mi disse che ero bigot. Le risposi: è bigot chi attacca, non chi si difende, chi vuol perseguitare, non chi apologizza, io amo i protestanti, non ho declamato contro di essi. È bigot chi fa accuse senza fondamento, chi vuole escludere i suoi compatrioti dall’esercizio di egual diritti, ecc […]”. Questo ci rimanda un illuminante quadretto degli ambienti frequentati da Vidua, ma ci dice anche che lo stesso non ci sta a recitare la parte dell’ospite che si fa andare bene tutto.

È indignato soprattutto dalla netta linea di separazione che gli inglesi hanno tirato tra sé e gli indiani, e dallo sfruttamento di questi ultimi: a Calcutta “io tentai qualche passeggiata a piedi: gli indiani mi fissavano come si guarda un pazzo, sì poco sono avvezzi a veder un bianco muovere le gambe. I cavalli stessi paion riservati solo ad usi nobili, condurre carrozze o portar eleganti cavalieri. Raro si vedon cavalli condurre carrette; bestie da soma son gli indiani, cavalli di stanza son gli indiani, l’ufficio degli asini, dei buoi è fatto dagli indiani: tutte le mercanzie son care fuorché la carne umana”.

D’altro canto, “il pregiudizio della casta è insuperabile, e necessita questo numero considerevole di domestici giacché non ridurreste mai quel che vi veste a servirvi a tavola e quel che vi serve a pranzo a salir dietro il cocchio, uno non può toccar le scarpe perché è pelle di animale; l’altro non può portarvi il brodo perché è bevanda immonda, tutto li contamina, tutto li sporca, gettano il resto delle nostre vivande appena abbiamo finito di pranzare! Indi nasce quel notabile e quasi incredibile contrasto, che cento milioni di uomini rispettano ed ubbidiscono a pochi europei, ciascun dei quali è riguardato da loro come creatura sì nauseosa, sozza, immonda, che nemmeno il più povero non consentirebbe a dividere seco lui un pezzo di pane”.

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In India non si ferma a lungo. Abbastanza però per raccogliere un sacco di materiale, da spedire a casa in un “ricco baule”, pieno di “manoscritti Indiani in differenti lingue, ornamenti donneschi, rappresentazioni de’ costumes ossia abiti delle differenti condizioni di persone, ed altri vari oggetti”. Nell’aprile del 1828 è comunque sui primi contrafforti dell’Himalaya, senza peraltro sembrarne particolarmente impressionato: si limita a prendere atto che le vette sono indubbiamente molto più alte di quelle alpine, e che per salirle occorrerebbe una sosta prolungata, ma le trova molto meno spettacolari.

Poi, tornato alle pianure, si sposta nell’estate a Singapore e trascorre un intero anno tra il porto aperto di Canton e i possedimenti portoghesi (Macao) e spagnoli (Manila).

Canton è diventata verso la fine del secolo precedente la sede ufficiale dei traffici inglesi con la Cina, soppiantando il ruolo che era stato in precedenza dei portoghesi di Macao (a metà dell’Ottocento sarà a sua volta soppiantata da Hong Kong). In una lettera al padre (col quale la comunicazione epistolare è ripresa) Vidua racconta come gli stranieri che risiedono a Canton siano soggetti a forti restrizioni nei movimenti e a continui controlli. In sostanza non possono uscire dalle aree destinate allo scambio commerciale. Qualora ciò accada, c’è il rischio di essere aggrediti e bastonati da una moltitudine di cinesi furiosi. Gli stessi impiegati della compagnia delle Indie non possono risiedere sul territorio cinese per più di sei mesi l’anno, e trascorrono gli altri sei a Macao. Non possono nemmeno portare con sé le mogli o la famiglia.

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La curiosità di Vidua però la vince. Con vari espedienti, come l’accompagnare un medico della compagnia nelle sue visite ai maggiorenti della città, o dietro invito diretto di ricchi mercanti cinesi, riesce ad intrufolarsi in alcuni templi e monasteri, o in grandi ville con magnifici giardini, e persino ad assistere a rappresentazioni teatrali. Si arrischia anche, assieme ad altri tre giovani europei, a sbarcare su una spiaggia deserta a qualche chilometro dalla città, e a fare poi un giro nell’interno della campagna, mantenendosi sempre fuori vista e annotando tutto il possibile sui sistemi di coltivazione, sulle abitazioni rurali, sulle piantagioni del the, ecc. Scrive a suo padre, forse anche per dimostrargli che non va a spasso senza scopo: “La campagna nei dintorni di Cantòn è molto coltivata e le fattorie frequenti, i canali di irrigazione e i diversi livelli del suolo destinato alla coltivazione del riso molto bene curati, indicano grandi progressi anche in Cina in questo settore così importante dell’agricoltura”. È l’occhio del proprietario di risaie in Italia.

Alla fine del febbraio 1829, data del trasferimento semestrale degli europei, il governatore della Compagnia delle Indie gli offre un passaggio per Macao. A dispetto della sosta forzatamente breve Vidua è riuscito a raccogliere una gran quantità di oggetti che forniscono una importante documentazione sulla Cina dell’epoca: statuine di divinità o di personaggi del taoismo, paesaggi in miniatura, mappe locali o del Giappone, carte da gioco, armi, nonché una intera Bibliothèque Chinoise, che spedisce immediatamente al padre.

Il 3 maggio abbandona definitivamente l’Estremo Oriente continentale diretto a Singapore. Durante la primavera ha intanto iniziato la stesura di un trattato politico, in cui intende riunire proprie le osservazioni sugli ordinamenti dei luoghi visitati. Pervenuto a Cesare Balbo e confluito infine nella Biblioteca nazionale di Torino, il manoscritto dell’opera incompiuta è andato distrutto nell’incendio che devastò la biblioteca nel 1904.

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Morire nelle isole della Sonda

A metà del 1829 si trasferisce a Giava, dove rimane sei mesi ed entra in contatto con un sistema di colonizzazione diverso. La compagnia olandese delle Indie pratica una politica più morbida, ma non meno repressiva, rispetto a quella inglese: a Vidua sembra decisamente più intelligente. Ma a Giava, forse per la suggestione del paesaggio, porta avanti un altro progetto, direttamente ispirato dalla Naturgemalde (più o meno, la descrizione della natura) di Humboldt: quello di percorrere e in lungo tutta l’isola e di mapparne l’orografia, determinando con il barometro l’altezza delle principali montagne. In effetti ne scala due che superano i quattromila metri, col risultato di dover poi rimanere a letto e a digiuno per diversi giorni. Giava non è innervata da una vera e propria catena montuosa, ma sulla linea da est ad ovest sorgono ben centoventi vulcani, un quarto dei quali ancora attivi. Vidua si propone di censirli e di redigere poi una serie di tavole che presentino la distribuzione geografica delle piante, che nell’isola varia dalla foresta equatoriale lungo le coste ai boschi di tipo alpino oltre i duemila metri.

Nel marzo del 1830 si sposta alla vicina isola di Madura, e successivamente ad Ambon, nelle Molucche, dove è ospite del governatore olandese. Viaggia sull’Iris, una goletta comandata da Jan Hendrik De Boudyck-Bastiaanse, che gli dedicherà i suoi Voyages faits dans les Moluques, à la Nouvelle-Guinée et à Célèbes, avec le comte Charles de Vidua, de Conzano, à bord de la goëlette royale l’Iris (Parigi 1845). Nel corso della navigazione vengono scoperte alcune nuove isole, e ad una di esse viene dato il nome di Isola di Vidua: ciò che la dice lunga sulla stima e sull’amicizia che “il Viaggiatore”, come ormai è chiamato ovunque, riesce rapidamente a conquistarsi. Il comandante scriverà di lui che era anche un abilissimo navigatore (complimento non comune per un piemontese), e che a bordo lavorava come qualunque altro membro dell’equipaggio.

Viaggiando in rimoti paesi 26L’esplorazione delle isole della Sonda è però solo un’ulteriore tappa di avvicinamento al continente australe, rispetto al quale l’interesse torna ad essere prevalentemente politico. “Il mio scopo nel visitare la Nuova Olanda è di osservare nella sua infanzia una colonia tutta di razza europea, destinata a divenire in cento o centocinquant’anni uno stato importante. Ho visitato gli stati Uniti nell’età giovanile. Visitar la Nuova Olanda è come veder dei secondi Stati uniti ancor bambini […]

È anche ossessionato dalla perfetta salute fisica: non che sia un ipocondriaco, anzi, non manca mai, nelle lettere a parenti e amici, di sottolineare come con tutto il suo viaggiare non si sia mai beccato un malanno: e quando questo accade, nell’ultimo anno, lo rileva con rammarico e stupore, quasi un presagio.

A dispetto delle febbri intestinali, ad agosto Vidua è sull’isola di Celebes, viaggiando sempre con Bastiaanse: e qui avviene la tragedia. Durante un’escursione in una caldara scivola con una gamba nella lava bollente. Un po’ se la cerca; il governatore delle Molucche scrive ad un suo omologo: “La rapida fine del conte Vidua deve essere attribuita all’accidente che gli è capitato nelle contrade dell’interno di Menado, e del quale è stato lui stesso la causa, non avendo voluto ascoltare il capo indigeno che lo aveva avvertito del pericolo e voleva trattenerlo, cosa di cui egli si era mostrato irritato. Il defunto era posseduto da un ardore eccessivo: non concedeva al suo corpo alcun riposo”. L’incidente appare subito molto grave, ma non per questo il casalese vuole rinunciare alla sua esplorazione. Trova però un medico solo venti giorni dopo, a Ternate, la regina delle Isole delle Spezie: e qui deve necessariamente fermarsi. Sfrutta comunque l’immobilità forzata mettendo ordine nei suoi appunti e scrivendo. Spera ancora di poter riprendere il viaggio: ma la situazione si va velocemente aggravando. La cancrena alla gamba sale sino alla coscia: l’ultima flebile speranza è legata all’amputazione.

Il 21 dicembre s’imbarca pertanto per Ambon, dove spera di farsi operare: ma è troppo tardi. Muore durante il viaggio, il giorno di Natale del 1830. In una lettera inviata quindici giorni prima al governatore olandese suo amico ha scritto: “Ciò che rimpiango è di non avere davanti altri tre anni di vita, per poter raccogliere il frutto di tante fatiche, di tante ricerche, di tanto lavoro nelle quattro parti del mondo. Sia fatta la volontà di Dio”. Chiede anche che tutti i suoi scritti vengano distrutti. Il suo corpo è tumulato sulla spiaggia dell’isola, dove il governatore fa erigere un sepolcro. Anche il luogo dove è avvenuto l’incidente porta oggi il suo nome: è il Count Vidua Solfatara Field, sul vulcano Tondano.

Poi, nel 1833 almeno le sue spoglie tornano finalmente a casa. Il padre si attiva in tutti i modi e la salma, con un’ultima lunghissima navigazione che passa per Rotterdam e Genova e che sembra rinnovare postuma le peregrinazioni del Viaggiatore, è traslata a Conzano.

Pio Vidua gli sopravvive sei anni. Un anno dopo, nel 1837, muore anche la sorella. Il timore che aveva angustiato il padre per trent’anni si avvera: il ramo casalese dei Vidua si estingue. Ma si avvera anche, almeno in parte, e almeno fino ad oggi, quello che aveva angustiato il figlio: sul suo nome cade l’oblio.

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Sulle consonanze

Non mi resta ora che spiegare brevemente i motivi della particolare simpatia che provo per Carlo Vidua. Sono tantissimi e diversi, e in qualche caso anche un po’ difficili da spiegare, perché il personaggio è un groviglio di contraddizioni. Provo a riassumerli.

Intanto c’è il suo straordinario curriculum di viaggiatore. L’ho scoperto colpevolmente tardi ma ha calamitato subito il mio interesse, perché nell’Ottocento nessun altro italiano ha viaggiato quanto lui. Quando poi ho saputo dei suoi rapporti con Humboldt l’interesse naturalmente si è moltiplicato. A rendermelo particolarmente caro è stato infine il suo tragico destino, che non solo lo ha strappato alla vita ma lo ha anche relegato in un angolo in ombra della storia. Diciamo che rientra a pieno titolo tra i “quasi adatti” dei quali mi sono prevalentemente occupato: di quei “perdenti” che non inseguendo il successo, ma la virtù e la conoscenza, a volte anche inconsapevolmente, hanno in realtà vissuto esistenze straordinarie.

Che tipo di viaggiatore fosse l’ho già detto. Non è annoverabile tra i grandi camminatori perché si è mosso quasi sempre a cavallo (o su cammello), in carrozza o in nave, in genere con uno o più servitori al seguito. Nemmeno è stato un viaggiatore “eroico”, di quelli che cercano il confronto coi propri limiti o si spostano sempre sul filo della sopravvivenza. Ha visitato un’enorme fetta di mondo ben coperto sia sul piano economico che su quello delle conoscenze e delle credenziali. Era perfettamente consapevole di godere di una condizione di privilegio, non se ne scusava affatto e riteneva semmai doveroso metterla a frutto: “Coloro appunto, cui la fortuna fu larga de’suoi doni, e che talvolta come usarne non sanno, quelli potrebbero agevolmente andar ricercando le contrade straniere, onde giovare alla patria, ed illustrare il loro nome”. Non dunque da turisti, ma da studiosi. Come tale Vidua pianificava meticolosamente i suoi percorsi, solo che questi poi si dilatavano e si ramificavano in ogni direzione, senz’altro perché poteva permetterselo, ma prima ancora perché trovava costantemente nuovi motivi di interesse, scopriva e inseguiva nuove curiosità. Il fine “scientifico” di tutto questo vagare era autentico, almeno negli intenti, anche se credo che con l’andar del tempo sia diventato quasi un pretesto, e che Vidua abbia continuato a spostare sempre un po’ più in là gli orizzonti per non dover affrontare, una volta fermo, l’onere di un bilancio. A dispetto dei reiterati propositi di ritorno e di stabilizzazione definitiva, espressi soprattutto nelle ultime missive, penso che ad un certo punto il viaggio sia diventato per lui, da strumento che era, il fine. O che lo fosse sin dall’inizio.

Cos’ho trovato dunque di particolarmente attrattivo nel Vidua viaggiatore? Senz’altro la determinazione: intraprendeva quasi tutte le sue avventure in compagnia di amici o conoscenti che ad un certo punto, per vari motivi, rinunciavano, mentre lui proseguiva imperterrito. E fino all’ultimo, anche a dispetto del grave incidente occorsogli, non intendeva rinunciare al completamento del giro del mondo. Mi piace poi il suo senso di responsabilità, anche se talvolta può sembrare pretestuoso: se uno sceglie di viaggiare non è giusto, né nei confronti propri né in quelli altrui, che contragga legami ai quali poi non può convenientemente ottemperare: “Quando l’uomo si marita, conviene che rinunci ai viaggi, e stabilisca di tenere compagnia bene o male a quella donna che per sua ventura o disgrazia ha scelto”.

E mi piace infine la capacità di adattarsi. Non mi riferisco chiaramente alle condizioni materiali del viaggio, che erano comunque disagevoli, anche muovendosi col minimo di comodità concesso dall’epoca, ma a quelle psicologiche. Si trovava altrettanto a suo agio ovunque e con qualunque interlocutore, fossero sovrani, presidenti, marajà, governatori coloniali, mercanti o beduini: non adulava, non si umiliava, li interrogava mostrando un interesse genuino, li ascoltava e cercava di trarre da tutti il numero maggiore di informazioni possibili: non era lì per giudicare, anche se poi nelle lettere i suoi giudizi li esprimeva, ma per capire.

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Il Vidua “uomo” mi ha intrigato invece perché sfugge ad ogni incasellamento. È impossibile metterlo perfettamente a fuoco. Lui stesso non ha collaborato granché. Non ha lasciato opere compiute (se si eccettua la raccolta di iscrizioni antiche, che è un lavoro specialistico), fallendo malinconicamente nell’adolescenziale assillo di tutta una vita, la costruzione di una immagine di sé ricalcata su quella degli eroi antichi. Quindi non abbiamo un autoritratto “autorizzato”, la sua versione soggettiva. Ma riesce difficile anche ricostruirne un ritratto sufficientemente oggettivo attraverso ciò che ci è rimasto, perché le sue lettere, che pure di quella immagine sono piene, la cambiano poi in realtà a seconda dei destinatari: la loro scrittura si adatta di volta in volta a trasmettere ciò che Carlo riteneva l’interlocutore si aspettasse.

Viaggiando in rimoti paesi 29Ciò non significa che Vidua fosse uno Zelig, un uomo senza personalità. Era semmai un personaggio un po’ pirandelliano, costantemente lacerato tra la mozione paralizzante degli affetti e quella liberatoria degli istinti. Alla fine ha prevalso la seconda, ma non ha mai soffocato definitivamente la prima: così che ogni esperienza è stata da lui vissuta sotto una doppia luce. Dovessimo giudicare solo dalle lettere al padre, ad esempio, ne verrebbe fuori un aristocratico un po’ eccentrico che si compiace soprattutto delle sue frequentazioni altolocate – oggi sarebbe un cacciatore di selfie con le celebrità –, del rispetto tributato alle sue ascendenze nobiliari e del ruolo di ambasciatore itinerante dello stato savoiardo nel mondo: mentre è evidente che tutto questo serviva solo a tentare di giustificare davanti al genitore la propria disobbedienza, e che la frequentazione di quegli ambienti era strumentale al lavoro che intendeva compiere (e alla fama che sperava ricavarne). Così, in quelle agli altri famigliari la preoccupazione costante è di rassicurarli sul proprio stato di salute, sulla sicurezza dei viaggi e sul fatto che non si dimentica di loro, usando però spesso la formula “è stato un po’ pericoloso, o un po’ difficile, ma comunque sono ancora vivo e sano”, come a tenerli comunque allertati sull’eccezionalità di quanto stava facendo; mentre nelle lettere agli amici si compiace di inserire aneddoti, avventure e osservazioni che rimandino l’immagine di un originale freddo e coraggioso e riscattino la sua apparente diserzione dalle lotte patriottiche.

Le testimonianze esterne trasmettono invece un Carlo Vidua molto diverso: Quincey Adams ne parla come di una persona semplice e alla mano; Caillaud è conquistato dalla sua serietà e al tempo stesso dalla sua disponibilità; il comandante olandese dell’Iris racconta come sulla nave si adattasse volenterosamente a qualsiasi compito, pur essendo un passeggero pagante. Alla fine la versione meno credibile è proprio quella del suo già intimo amico e primo biografo Cesare Balbo, che nell’editarne le lettere ha costruito con tagli mirati una oleografica figurina di eroe romantico, malinconico e sfortunato.

Io mi sono fatto questo personalissimo quadro. Vidua è un personaggio anacronistico. Ma lo è nel senso più letterale del termine; sta fuori dal tempo, e non solo dal suo. Non era un romantico, pur avendone tutte le caratteristiche, non era un illuminista, pur utilizzando tutti i criteri illuministici di interpretazione della realtà. Questo crea l’impressione che non abbia mai veramente capito quanto stava accadendo e avesse idee piuttosto confuse su quanto sarebbe potuto accadere in futuro. Io credo invece che Vidua si sia volutamente (e quindi consapevolmente) rifiutato di capirlo, perché ciò che lo circondava andava a configgere, oltre che con la sua indole irrequieta, con tutte le sue idealità: e non parlo delle convinzioni politiche e religiose, ché quelle sono legate all’ambiente in cui era cresciuto e al periodo in cui ha vissuto, ma delle idealità etiche delle quali si era nutrito sin da bambino. C’è un passo di una sua lettera (a Roberto d’Azeglio) che fa intendere benissimo la sua posizione: “È vero che a Torino, a sentir le esagerazioni insopportabili di certa gente, mi sentivo sì trascinato alla liberalità, che mi facevo forza per non diventarlo eccessivamente. – Così nell’altro mondo le esagerazioni liberali mi disgustavano tanto, che mi facevo forza per non diventare partigiano delle Soirée de st.Petersbourg”. È una frase che avrebbe potuto essere pronunciata da Corto Maltese (tra l’altro, fisicamente Vidua gli somiglia un po’), e che naturalmente sottoscrivo.

Vidua era un aristocratico, ma non un codino. Era un conservatore, ma non un reazionario. Si rifaceva agli ideali degli àristoi greci e latini come raccontati da Plutarco e da Tacito, ma quelle idealità le vedeva reincarnate anche nei crociati e nei paladini cristiani, o nei missionari gesuiti del Paraguay (quelli del film Mission). Tra i contemporanei che più ammirava c’erano i quaccheri americani, perché non si limitavano a professare la fede, ma la praticavano, e il filantropo inglese John Howard, uno che aveva girata tutta l’Inghilterra e buona parte dell’Europa visitando le carceri, denunciandone le atrocità e formulando suggerimenti per il miglioramento delle condizioni di vita dei prigionieri. Ecco, Howard era il suo modello più prossimo: un grande viaggiatore (si calcola abbia percorso più di 70.000 chilometri) e un benefattore dell’umanità, ascoltato dai potenti, riconosciuto e celebrato (almeno nella sua epoca) un po’ ovunque. E Vidua lo contrappone in positivo, ad esempio, al nostro Beccaria, che si era conquistato la fama cercando di applicare alla realtà italiana i principi riformatori d’oltralpe, senza mai muoversi dal suo studio.

Insomma, Vidua era un utopista: ma non di quelli che immaginano un’utopia buona per tutti gli uomini, e cercano sciaguratamente di attuarla, bensì di coloro che se ne creano una individuale e cercano il più possibile di abitarla.

Già questo basterebbe ad assicurargli un posto nel mio cuore. C’è però molto di più. Sono convinto infatti come Machiavelli che i lettori più attenti del presente siano sempre i conservatori, che sanno ciò che perdono con il cambiamento, e non i progressisti, che oggettivamente non sanno cosa troveranno e ritengono che ogni novità sia di per sé positiva. E sono anche convinto che per lo stesso motivo i grandi reazionari (si pensi a De Maistre) siano i più sensibili ai dettagli anche minimi del cambiamento, coloro che ne scorgono prima degli altri gli indizi e ne presagiscono più lucidamente le derive negative. Il bilancio che traccia al termine del viaggio in America è la migliore testimonianza di questa capacità premonitoria.

Altri motivi di consonanza sono forse più banali, ma per me non meno significativi. Dell’ammirazione per Humboldt e di quella per De Maistre ho già parlato: aggiungerei quella per Vico, che all’epoca di Vidua era ignorato dalla gran parte dei nostri intellettuali, e ha continuato ad esserlo almeno sino alla riscoperta da parte di Croce. Ma pure quella per Plutarco e Tacito e Senofonte tra i classici antichi, e per Machiavelli tra i moderni.

C’è poi il legame forte con la campagna. Certo, nel suo caso è il legame che può avere un proprietario di risaie, dalle quali trae la rendita che gli consente di viaggiare, troppo distratto da altri impegni negli ultimi quindici anni di vita per curarne l’amministrazione. Ma dalle lettere traspare comunque un certo orgoglio per la propria origine “rurale”. Si manifesta anche in questo caso la bipolarità di Vidua, diviso tra l’ammirazione per l’industriosità e la crescita economica e la nostalgia per un mondo preindustriale che va scomparendo. Ciò spiega il fastidio per i disboscamenti selvaggi in Inghilterra prima e in America poi, la preoccupazione per perdita della centralità economica dell’agricoltura, che porta con sé il tramonto del millenario assetto sociale ad essa connesso. Ma spiega anche l’attenzione ai tipi di coltivazione, alle tecniche, alle rese, laddove la maggioranza dei viaggiatori suoi contemporanei in genere non distingueva una spiga di grano da un’erbaccia.

Viaggiando in rimoti paesi 30Tale senso di appartenenza gli fa anche ad apprezzare, ad esempio, le musiche della tradizione popolare in ogni parte del globo; e persino le espressioni dialettali, dalle quali vorrebbe liberare la nostra lingua, ma delle quali sente comunque, almeno in particolari contesti, la forza e l’espressività: racconta ad esempio divertito delle esclamazioni cui si abbandonava il suo maestro di musica: “così s’fa pu prest”, o “à l’è na bestia”.

E questo ci riporta al tema della lingua. Nel Discorso sullo stato delle cognizioni in Italia parla, come abbiamo già visto, della necessità per la lingua (e per la nostra cultura in genere) di spiemontizzarsi e sfrancesizzarsi, di “sottrarsi all’imbarbarimento”. Ma non è solo questione di tornare ad una purezza lessicale che in fondo il nostro idioma non ha mai conosciuto, e che semmai andrebbe costruita: ciò che Vidua auspica è una lingua il più possibile aderente all’oggetto, senza fronzoli e ghirigori, semplice ed efficace. Chiede di uscire dalle esasperazioni metaforiche e immaginifiche del Barocco, che nascono dall’assenza di contenuti, ma anche di rifiutare gli orrori e i languori lessicali del romanticismo. Oggi dovrebbe chiedere un risciacquo nella prosa calviniana per liberare il nostro lessico dai tecnicismi forzati, dagli anglicismi superflui, dagli idiomatismi virali, ma anche delle massicce iniezioni di concretezza nei temi e nelle argomentazioni. Sarebbe più anacronistico che mai, e si sentirebbe più che mai estraneo alla sua terra e alla sua gente. Sensazioni che conosco bene, così come conosco quella di incompiutezza, che fortunatamente in me è stata messa a tacere dall’età. Lui è stato meno fortunato.

I motivi dell’affezione per Vidua sono dunque svariati. I più significativi sono paradossalmente proprio quelli legati alle sue “debolezze”, alle incoerenze che anziché farmi avvertire una distanza me lo hanno avvicinato: il rapporto contradditorio col padre e con i luoghi dell’infanzia, l’oscillazione costante tra nostalgia del passato e speranza nel futuro, l’anelito all’assoluta libertà e la giustificazione, pur parziale del dispotismo, l’apertura e la disponibilità al confronto e l’intimo arroccamento su posizioni pregiudiziali. Ci accomuna persino il rapporto con la scrittura. Scrive a Roberto d’Azeglio: “Ho bisogno de’ tuoi consigli sullo scrivere o non scrivere viaggi — e in che lingua — la nostra è la più bella. Pur se li scrivo in Italiano, nessuno li leggerà. — Dall’uno canto ci inclino — dall’altro penso che già troppi viaggi sono stampati”.

Come esco, dunque, dal viaggio compiuto in compagnia di questo personaggio e delle sue lettere? Con un sentimento di rammarico: per lui, perché non ha completato il viaggio attorno al mondo, e soprattutto non lo ha potuto degnamente raccontare. Per me, che il viaggio non l’ho nemmeno iniziato, perché non ho mai visitato l’isola di Cos.

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Una bibliografia commentata

Nell’intraprendere la scrittura di questo pezzo ero pienamente consapevole dell’inadeguatezza delle mie forze (non ho le capacità di concentrazione indispensabili per una ricerca che risponda ai crismi “scientifici”) e anche del fatto che questo lavoro, indipendentemente dal risultato, non avrebbe contribuito granché ad arricchire e a divulgare la conoscenza del suo oggetto. Dovevo farlo per adempiere ad un impegno preso con Vidua diversi anni fa. Diciamo che era diventata una questione tra me e lui. Ho voluto comunque che nel suo piccolo la narrazione fosse la più esatta possibile. Per questo, oltre che dei testi originali delle lettere e dei pochi scritti editi di Vidua, mi sono avvalso di diversi studi a lui dedicati, scoprendo con mia sorpresa che sono molti più di quanto inizialmente reputassi. Quest’ultima constatazione da un lato mi rallegra, dall’altro mi fa deplorare il fatto che non sia ancora stata realizzata una biografia del Viaggiatore capace di sottrarlo al destino di nicchia, una di quelle cose all’inglese che rendono avvincente anche la storia di impiegato del catasto.

I materiali per un lavoro di questo genere sono a mio giudizio già presenti nel lavoro su Carlo Vidua. Un romantico atipico, di Roberto Coaloa e Andrea Testa, edito a cura del Comune di Casale Monferrato nel 2003, che rimane comunque una raccolta di testi redatti in diverse occasioni. Se organizzati in una corretta sequenza narrativa e depurati delle eccessive ripetizioni potrebbero già offrire un’immagine sufficientemente completa e accattivante del personaggio. Per quanto mi concerne, ho saccheggiato spudoratamente da questo testo le citazioni riferibili ai materiali inediti utilizzati dagli autori. Spero non me ne vogliano.

Per chi si fosse appassionato all’argomento sono reperibili (con un certo sforzo) una serie di testi su aspetti particolari della sua vicenda:

Angela Ferraris – Carlo Vidua. La virtù infelice, in “Piemonte e letteratura 1789-1870” – Atti del convegno di S. Salvatore, ottobre 1981

Vincenzo Moretti – Carlo Vidua viaggiatore, in “Piemonte e letteratura 1789-1870” – Atti del convegno di S. Salvatore, ottobre 1981

Gian Paolo Romagnani – Carlo Vidua. Un inquieto aristocratico subalpino, in “Studi piemontesi”, nov. 1986 vol. XV-2

Gian Paolo Romagnani – Carlo Vidua. Viaggiatore e collezionista – Casale M., 1987

Andrea Testa – Carlo Vidua viaggiatore italiano negli Stati uniti, in “Rivista di storia, arte e archeologia per le province di Alessandria e di Asti” CV 1996

Andrea Testa – Riflessioni sugli ultimi viaggi di Carlo Vidua alla ricerca di nuovi mondi – Atti del convegno “L’altro Piemonte nell’età di Carlo Alberto”, ottobre 1999

Esiste anche uno schizzo biografico di misura analoga a quell0 mi0, un po’ datato nell’approccio “ideologico”, ma nel complesso esauriente e piacevole. È Il conte Carlo Fabrizio Vidua viaggiatore monferrino dell’800, di Mario Cappa, comparso sulla “Rivista di Storia, Arte Archeologia per le province di Alessandria e Asti”, anno LXXXII, 1973

Per leggere direttamente Vidua si possono (insomma!) vedere

Carlo Vidua – Relazioni del viaggio in Levante e in Grecia – Olschki, Firenze 2011 (stampato in facsimile)

Carlo Vidua – In Viaggio Dal Grande Nord All’impero Ottomano – Edizioni Dell’Orso, Alessandria (lo si trova a un prezzo che va dai 350 ai 380 euro)

Carlo Vidua – Narrazione viaggio alla Nuova Guinea 1830 (testo bilingue, a cura di Marisa Viaggi Bonisoli), ed. Angolo Manzoni, Torino 2003

Le Lettere sono rintracciabili invece solo nella versione digitale o a prezzo di antiquariato: Lettere del conte Carlo Vidua pubblicate da Cesare Balbo. Tomi I – II – III, presso G. Pomba, 1834, all’indirizzo https://books.google.it/books/about/Lettere_del_conte_Carlo_Vidua.

Per una bibliografia esauriente (ma aggiornata fino al 2003) rimando al volume di Roberto Coaloa e Andrea Testa.

Una scrittura antisemita rosso pallido

(da: Sette buoni motivi per essere scorretto)

di Paolo Repetto, 31 gennaio 2020

I titoli dei miei pezzi a volte ingannano, perché li scelgo più per come suonano che per quel che annunciano. In questo caso però non c’è nessun inganno: ho scritto “antisemita” volutamente, per parlare di qualcosa (e di qualcuno) che con l’antisemitismo professa di aver nulla a che fare. Ma così non è.

Sono arrivato a Leonardo Tondelli attraverso un singolare post segnalatomi da un amico, “Parlo di teologia, io?”, nel quale si prende spunto da Gregorio di Nissa per stigmatizzare l’odierna riscossa degli incompetenti. Il pezzo mi ha incuriosito e sono quindi andato a leggere altri suoi interventi, che compaiono soprattutto sul blog Leonardo e sul sito The Vision e spaziano da “Se i Beatles nascessero oggi avrebbero davvero lo stesso successo?” a “Il signore degli Anelli è un’opera razzista?”, passando per Greta Tumberg e sul perché gli insegnanti hanno abbandonato la sinistra. Ho avuto conferma che si tratta di una persona intelligente, anche se per i miei gusti un po’ troppo legata a vecchi mitologemi della sinistra: sa scrivere, ama le storie a fumetti di Gérard Lauzier, è divertente e interessante da seguire.

Tutto questo fino a quando non mi sono imbattuto in un intervento dal titolo: Israele ha bisogno di Hamas, i palestinesi no. In pratica, vi sostiene Tondelli, se Hamas non ci fosse Israele dovrebbe inventarlo, e forse lo ha davvero inventato. Perché l’esistenza di Hamas scredita agli occhi dell’Occidente tutta la causa palestinese e giustifica le reazioni spropositate degli israeliani contro la striscia di Gaza. Ad ogni nuovo disordine o azione terroristica promossa da Hamas il perfido Netanyahu si frega le mani.

Anche questa analisi ha una sua logica, e senz’altro un fondo di verità. In effetti, il risultato di immagine è quello. Perché allora, mi sono chiesto, non mi convince? E anzi, mi ha disturbato?

A quel punto tutta una serie di piccoli tasselli che le precedenti letture avevano sparso sul tavolo ha trovato collocazione: si è composto quel quadro che già prima intravvedevo, ma sfocato.

Il fatto che l’analisi di Tondelli sia a suo modo corretta non significa infatti che non sia anche ambigua. Per falsare la verità non è necessario stravolgerla: è sufficiente non raccontarla tutta, o raccontarla da un solo punto di vista, o “virare” di particolari sfumature la narrazione. Ed è proprio ciò che Tondelli fa, a dispetto dell’apparente equità nel condannare sia Israele che Hamas.

Ora, io non penso che Tondelli abbia alterato con malizia la verità dei fatti. Penso anzi sia in buona fede, sia davvero convinto di ciò che dice. Ma è proprio per questo motivo, perché non è un ciabattone alla Vauro o un buffone in cravattino alla Fusaro, che il suo pezzo mi ha colpito. A parer mio è esemplare dell’ambiguità di fondo, parzialmente inconscia, molto strisciante ma chiaramente percettibile, che caratterizza l’atteggiamento di tutta la sinistra, e non solo di quella italiana, nei confronti del “problema ebraico”.

 

Dell’ambiguità di Tondelli (ovvero di quella di tutta la sinistra “intelligente”) ho avuto conferma in prima battuta tornando a curiosare tra le cose da lui postate. Tondelli scrive molto, su diversi blog oltre che sui quotidiani, ma tra questo molto non ho trovato un solo suo pezzo dedicato, che so, a quanto sta succedendo in Tibet, in Birmania o in Indonesia, o nel Kurdistan, in Turchia e in Africa. Nel mondo attuale le minoranze perseguitate, oppresse o sterminate, si contano a decine, per parlare solo delle situazioni più eclatanti: ma il rilievo che tutte assieme sembrano avere (non solo per lui, ma per la stragrande maggioranza) non è minimamente paragonabile a quello dato alla vicenda palestinese. Si, qualcuno ogni tanto ne scrive, missionari, attivisti dei diritti civili, giornalisti a caccia di notizie inedite. Ma tutto finisce lì. Provate a ricordare qual è l’ultima volta in cui avete sentito parlare dei Karen in Birmania, degli Uiguri in Cina, degli Harratin in Algeria e Marocco.

La replica più istintiva a un appunto del genere è abbastanza scontata: ci risiamo, quando non si vuole riconoscere o affrontare un problema si svicola accampando che ce ne sono ben altri. Ma non è certo questo il mio caso: il problema voglio infatti affrontarlo eccome, anzi, voglio andare proprio alla radice. Questa replica potrebbe avere poi anche un corollario: Tondelli parla evidentemente delle cose che lo interessano e che conosce. Perché delle altre non parli tu? Già, è vero, dovrei cominciare a farlo. Ma non l’ho fatto (o l’ho fatto solo parzialmente) per due motivi. Primo: non sono né un giornalista né uno scrittore professionista, non parlo da tribune “qualificate”, non arrivo ad un grosso pubblico (se per questo, neanche ad uno piccolo), per cui le mie analisi sono del tutto ininfluenti, si riducono ad un puro esercizio letterario. Secondo: non ho alcuna pretesa di fare l’osservatore e il commentatore politico. Mi limito a esprimere per iscritto impressioni e perplessità, come in questo caso, e a farle conoscere agli amici attraverso il sito, in attesa di discuterle poi con le gambe sotto il tavolo. Non ho sinceramente le competenze per esprimere un punto di vista significativo, ma forse ne ho a sufficienza per cogliere le incongruenze di quelli altrui. Funziono, diciamo così, un po’ da filtro. Ma dal momento che sento come un dovere tenermi informato (è il minimo che si possa fare quando si gode – temo ancora per poco – di una situazione privilegiata come la nostra) vorrei avere accesso ad una informazione libera da pregiudizi. Quanto a Tondelli, fa molto bene a parlare soltanto delle cose che conosce, è onestà professionale. Ma non riesco a togliermi il sospetto che non si tratti solo di questa, e voglio appunto spiegare il perché.

Per intanto, rispondo ad altre possibili obiezioni. Si potrebbe sostenere che la questione palestinese ha più rilievo semplicemente perché tocca un’area a noi più vicina e perché dura da più tempo: ma non regge. Quanto alla vicinanza, e quindi al fatto che ci coinvolga direttamente, forse dovremmo fare un po’ più di attenzione a quanto accade ad esempio in Africa, dove la Cina sta acquistando silenziosamente interi stati ed è praticamente ormai padrona di tutta la costa orientale, dall’Etiopia al Mozambico. Masse enormi vengono, sempre in perfetto silenzio, fatte sloggiare, creando un effetto a catena le cui onde si rifrangono poi sulle nostre coste: quelle almeno che non si perdono tra le sabbie del deserto. E cose analoghe accadono un po’ dovunque, in Asia (dove le comunità cristiane stanno letteralmente dissolvendosi) come in America Latina (dove a sparire sono popolazioni già confinate da secoli ai margini). Quanto invece alla durata, la questione curda è aperta da assai più tempo di quella palestinese, e quella tibetana ne è coetanea. E la prima alimenta un’onda migratoria che investe l’Europa con ben maggiore rilievo che non quella palestinese. Quindi non possono essere questi i motivi della minore attenzione suscitata.

Nemmeno può esserlo infine il peso del sangue versato, quello delle vittime. I cinquant’anni di conflitto tra Israele e i palestinesi hanno prodotto un numero di vittime civili (meno di diecimila, sommando anche quelle israeliane, in un rapporto di uno a sette) cento volte inferiore a quello delle vittime tibetane o indonesiane. Delle altre si è perso il conto.

Non voglio però perdermi a confrontare cifre per stilare delle graduatorie dell’orrore: i morti palestinesi, così come quelli israeliani, quali che siano i numeri, sono comunque intollerabili: e nemmeno credo si debba cercare di spostare un po’ di attenzione dalla Palestina per spalmarla sul resto del mondo. Al contrario. Semmai, sarebbe opportuno che a quanto accade nel resto del mondo ne fosse riservata altrettanta. È un argomento che ho già affrontato altrove, cercando di darmi una spiegazione storica del perché di una simile disparità di trattamento. Nel frattempo però ho maturato la crescente convinzione che le motivazioni profonde siano più complesse.

 

E questo mi porta al dunque. Allora: chi si riconosce nella “sinistra” si premura in genere di tenere ben distinto il proprio antisionismo – ovvero il rifiuto della politica (ma sotto sotto anche dell’esistenza) di Israele – dall’antisemitismo, ovvero dall’odio antiebraico, quale che ne sia la matrice. Del resto, allo stesso modo chi professa la sua avversione per motivazioni religiose precisa che il proprio non è antisemitismo, ma antigiudaismo. Quindi l’antisemitismo ufficialmente è un sentimento proprio solo della destra, l’antisionismo è invece un chiodo fisso della sinistra. Ebbene, la mia opinione è che l’antisionismo (come del resto l’antigiudaismo), lo si voglia o no, trasuda antisemitismo da tutti i pori anche nelle persone apparentemente più corrette e imparziali. Proprio di questo voglio parlare: perché c’è qualcosa nel sentire antiebraico della sinistra che a mio parere non trova più nella storia una spiegazione convincente.

Io credo si possa parlare ormai di una reazione di origine “epigenetica”, nel senso di un qualcosa che si è radicato nel DNA collettivo, di un rifiuto divenuto nel tempo istintivo, trasversale alle ideologie, alle appartenenze, alle mode. Come se nel corso degli ultimi tremila anni si fosse verificata una mutazione di matrice culturale che ha trovato sfogo e insieme alimento nelle successive identificazioni al negativo degli ebrei (deicidi, usurai, untori, parassiti, servi dell’assolutismo, icone del capitalismo, complottisti, speculatori, ecc …): un’allerta che fa scattare l’insofferenza, la diffidenza e la condanna nei loro confronti anche in assenza di una qualsivoglia concreta motivazione (che non vuol affatto dire giustificata, ma semplicemente in qualche modo tangibile).

 

L’idea che sta al fondo è quella di un “peccato” originale dal quale il popolo ebraico non si è mai redento, di un qualcosa di guasto e di perverso nella sua stessa natura. In effetti, anche quando questa idea veniva ancora espressa in termini religiosi, nessuno poi credeva davvero nella conversione degli ebrei (le vicende della Spagna e le sentenze dell’Inquisizione stanno a dimostrarlo). Lo stesso è accaduto quando il confronto con gli ebrei si è trasferito sul piano economico e politico, dopo l’emancipazione, perché i loro successi sono stati immediatamente interpretati come gli indizi di un grande complotto. Sono stati in sostanza tradotti in un linguaggio laico tutti gli stilemi dell’antiebraismo religioso. Da ultimo questa idea è stata riformulata in termini scientifici, attraverso l’identificazione di una “razza” ebraica. Ciò non lasciava più spazio a soluzioni di compromesso, conversioni o ghettizzazioni o limitazioni economiche, e chiaramente non poteva che condurre al progetto del loro sterminio.

Il paradosso è che nel frattempo, vale a dire nel corso di quasi tutto l’Ottocento, i pensatori considerati più vicini all’ideologia razziale della destra, o addirittura i suoi principali teorici, da De Gobineau a Nietzsche, hanno letto l’identificazione di una razza ebraica in positivo (nel senso almeno che gli ebrei avrebbero conservato “puro” il loro sangue), mentre al contrario i padri dell’ideologia di sinistra, da Proudhon a Marx, l’hanno declinata in negativo, adeguando al nuovo contesto economico e sociale gli antichi stereotipi (e creandone altri).

Ma, al di là dell’uso strumentale che dell’odio antiebraico hanno fatto negli ultimi due millenni tanto il potere religioso quanto quello politico, i reazionari come i rivoluzionari, i regimi di ogni colore, c’è una ragione che spieghi il perché gli ebrei siano diventati il capro espiatorio per eccellenza? Beh, ce ne sono diverse, non ultima il fatto che ciò malgrado siano ancora lì (Tondelli direbbe che se non ci fossero bisognerebbe inventarli?): ma tutte, compresa quella che ho appena citato, fanno capo ad una fondamentale. Gli ebrei danno fastidio non tanto per quel che sono (cosa sono poi, un popolo, un’etnia, una razza, una nazione, una collettività religiosa?) ma per lo specchio impietoso che rappresentano. Per qualche motivo che non voglio indagare in questa sede, comunque legato alla loro condizione iniziale e al tipo di religiosità che tale condizione ha espresso, sono diventati la macchina radiogena che mette a nudo la condizione assieme assurda e libera dell’uomo. Un dio come il loro, così paradossalmente lontano, assente, silenzioso, invisibile, addirittura innominabile, non può che costringere l’individuo a confrontarsi con la propria libertà, che è al tempo stesso responsabilità. Al di là di tutta la rielaborazione cabalistica e rituale e sacerdotale, il messaggio è: può anche darsi che il Messia prima o poi arrivi, ma tu per intanto sai cosa devi fare, e fallo. Non te lo deve spiegare nessuno: hai la tua coscienza. Non è consentita alcuna scusa o consolazione, non c’è santo cui votarsi per l’aiutino. Questo è lo “scandalo” che l’umanità da tremila anni legge riflettendosi negli ebrei, e che rifiuta di accettare. Gli ebrei hanno inventato la coscienza, scriveva Hitler: ed era proprio questo che non perdonava loro.

Ma non era l’unico, naturalmente. Questo tipo di reazione è divenuto negli ultimi tre secoli (proprio dall’emancipazione degli ebrei in poi) un carattere acquisito, e ciò è valso in egual misura, sia pure con sfumature diverse, per entrambe le categorie politiche nate con la modernità, tanto per la destra che per la sinistra. È un carattere che ha nulla a che vedere con la sopravvivenza della specie, ma molto con l’angoscia che la consapevolezza della sua differenza, della sua eccezionalità, le suscita. E che si esprime, si mette in moto anche quando il pericolo non c’è, anzi, se lo inventa per giustificare la propria paura e la propria reazione irrazionale. Non che l’antisemitismo del passato fosse dettato da motivazioni razionali, ma almeno le cercava, le inventava. Quello odierno non sente nemmeno più questa necessità: non è un caso che oggi dilaghi in nazioni come la Polonia o l’Ungheria, dove di ebrei non è rimasta nemmeno più l’ombra, ma anche in Francia, dove la presenza ebraica si è praticamente dimezzata nei primi venti anni di questo secolo, o in Inghilterra: e che in Italia sia diffuso soprattutto tra gente che un ebreo non l’ha mai conosciuto, e men che mai conosce la storia del popolo ebraico, o la sua religione.

Ora, nel pensiero reazionario l’odio antiebraico conserva il suo stigma religioso e razziale: gli ebrei sono odiati da sempre come eretici, come diversi, e dall’avvento della modernità come portatori di caratteristiche “razziali” negative. In più, dopo l’emancipazione, sono visti da un lato come mestatori, potenziali rivoluzionari, eversori di ogni potere costituito, dall’altro come concorrenti temibili e sleali.

In quello della sinistra l’odio ha caratterizzazioni più complesse. Non c’è dubbio che in personaggi come Proudhon fosse ancora debitore di un rancore antico (le motivazioni che adduce sono esattamente le stesse portate da ultrareazionari come De Maistre e De Bonald), ma già in Marx la connotazione che troviamo è diversa. Come dicevo sopra, ho trattato lo stesso argomento, in maniera piuttosto dettagliata, in Chi ha paura dell’ebreo cattivo?, e per evitare di ripetermi rimando a quelle pagine. Il cui succo è poi in sostanza che ciò che accade per la vicenda palestinese è solo un esempio di una disposizione che va ben oltre, di una ripulsa aprioristicamente opposta quando ci sono di mezzo gli ebrei.

 

Voglio esemplificare questa affermazione con un caso, uno tra mille, ma estremamente significativo: l’unico nome universalmente conosciuto, e altrettanto universalmente deprecato, di un finanziere che gioca con la speculazione è quello di George Soros, ebreo di origine ungherese. Ho fatto una piccola indagine tra gli amici: tutti sanno chi è Soros ma nessuno sa cosa abbia davvero fatto o stia facendo, e soprattutto nessuno conosce altri nomi di grandi speculatori, malgrado nella graduatoria degli avventurieri della finanza il nostro ne abbia davanti decine. Tutti, però, manifestano nei suoi confronti quando va bene sospetto, molto più spesso una vera e propria avversione. Penso che se l’indagine fosse ripetuta su scala nazionale darebbe identici risultati.

Ora, Soros può piacere o meno, è indubbio che eserciti una grande influenza attraverso la sua Open Society Foudation, e lui stesso non fa mistero di volerla esercitate: ma i finanziamenti elargiti da questa fondazione (che assommano sino ad oggi a circa tredici miliardi di dollari, a fronte di un patrimonio personale nel 2018 di quasi otto) vanno a organizzazioni che promuovono i diritti civili, la democrazia, la difesa di minoranze discriminate come quella dei Rom, l’accoglienza dei migranti, ecc … Non sono equamente ripartiti, nel senso che nulla arriva alle organizzazioni di destra, e questo per chi non è di destra dovrebbe essere un merito. Il tutto, chiaramente, è ispirato da una idea del mondo e dei rapporti umani e sociali che Soros ha ereditato direttamente da Popper, suo docente all’università, e mira a diffondere. Lo ha anche spiegato in diversi saggi. Un’idea che ha come valore fondamentale la libertà, nell’agire politico, in quello sociale e in quello economico, e che quindi non sempre combacia con quelle della sinistra classica. Le intenzioni, chiamiamole pure le ambizioni, di Soros sono dunque perfettamente conosciute: è tutto alla luce del sole. Eppure sembrano tutti unanimi nel considerarlo il “grande burattinaio”.

Che la destra dipinga quest’uomo come un’eminenza grigia in grado di muovere le fila della politica mondiale, da combattersi quindi con ogni mezzo, comprese (anzi, soprattutto con) la calunnia e le false notizie, non stupisce. È diventato una sorta di Emmanuel Goldstein, il nemico del partito dominante nell’Oceania di Orwell, che la propaganda di regime addita ai cittadini perché scarichino su di lui i due rituali minuti d’odio. Salvini e Trump lo chiamano in causa persino se piove, i siti nostalgici ci ricamano su le trame di un grande complotto, rifacendosi né più né meno al Priorato dei savi di Sion. E direi che non deve nemmeno stupire il fatto che gli stessi attacchi, con le identiche motivazioni e raccontando le stesse falsità, arrivino anche dalla sinistra più estremista. Perché, parliamoci chiaro, qui non si tratta di destra o di sinistra, di possibili diverse visioni del mondo: qui stiamo parlando o di marpioni che giocano la vecchia carta del capro espiatorio e riescono a farsi seguire da una maggioranza rancorosa di poveri di spirito, o di poveri di spirito cresimati alla lotta senza quartiere al capitale prima aver raggiunto l’età della ragione, e quindi incapaci di pensare con la propria testa, fermi a stereotipi che già avevano poco senso un tempo e che con la realtà attuale hanno più nulla a che vedere. Qui le idee non c’entrano nemmeno di striscio: è anzi l’assoluta mancanza di idee che crea gli spazi nei quali coltivare il sospetto.

Ma il problema vero è che il ruolo di burattinaio viene rinfacciato a Soros anche da quella che sino a ieri era considerata la sinistra pensante, per distinguerla da quella berciante. Mossa magari in maniera più soft, sussurrata o appena allusa anziché urlata, l’accusa è la stessa: usa il suo potere economico per influenzare l’opinione pubblica. Santo cielo! Certo che cerca di influenzare l’opinione pubblica, e certo che lo può fare perché ha i soldi. È sempre stato così, da Pericle ai Medici fino a Trump: non si vede dove stiano la novità e lo scandalo. O meglio, lo scandalo c’è sempre stato, e consiste soprattutto nel fatto che l’opinione pubblica si lasci influenzare, mentre la novità è semmai che per farlo Soros ha rinunciato alla gran parte del suo patrimonio. Non sarà san Francesco, ma lo stile è quello.

A motivare il sospetto non è dunque la consistenza dei finanziamenti, perché Bill Gates ha sborsato quasi il doppio e nessuno, tranne i quattro mentecatti di cui sopra, ne mette in dubbio la buona fede; e nemmeno la loro destinazione, perché l’obiettivo è in fondo “progressista” e la gestione finanziaria, proprio per non dare adito alle critiche, è la più trasparente che si conosca. E neppure vale a sottrarlo all’antipatia il fatto che rifiuti di finanziare in qualsiasi modo Israele, e il sionismo in generale, che considera promotore di una politica illiberale e suicida. Quindi, se il problema vero e unico fossero Israele e il sionismo, con un anti-sionista dichiarato e militante non dovrebbero esserci problemi. Invece no, i problemi ci sono: perché evidentemente la vera ragione di tanto astio, manifesto o meno, sta nel fatto che tratti di un ebreo, e come tale in automatico sia considerato legato a forze oscure per perseguire un disegno di dominio e distruzione.

Non ho scelto l’esempio di Soros a caso: dimostra che si può essere antisionisti anche senza essere antisemiti. Ma paradossalmente gli unici che riescono a tener separate le due cose sono proprio gli ebrei. E Soros non è un caso unico: tutt’altro. Tralascio di parlare dell’antisionismo ebraico di matrice religiosa, legato all’ortodossia dalla Torah, perché è solo una forma diversa di integralismo. Mi riferisco invece all’antisionismo motivato (e sofferto, e coraggioso) di gente che pensa con la propria testa anziché con quella dei rabbini. È decisamente antisionista, ad esempio, George Steiner, sia pure per ragioni diverse da quelle di Soros (cfr. il mio Sottolineature): e lo è Edgard Morin, così come lo erano Hannah Arendt e Zygmunt Bauman, Albert Einstein e Primo Levi, e come lo era, con la sua consueta lucidità, Tony Judt (del quale raccomando la lettura di Israel: the alternative. Una proposta che condivido solo in parte, ma che nasce da un’analisi incredibilmente realistica e obiettiva della situazione).

Mi si potrebbe obiettare che, certo, per un ebreo è facile non essere antisemita. Non è così. Esiste anche quello che viene definito “odio di sé ebraico”, quello raccontato da Theodor Lessing e personificato ad esempio in filosofia da Otto Weininger e nella squallida realtà odierna da personaggi come Dan Burros, un ebreo membro del Partito Nazista Americano. Quindi, gli ebrei sono i primi a non farsi sconti.

 

A questo punto però è opportuno (e onesto, soprattutto) che inserisca un paio di precisazioni relative alla mia posizione. Allora: condivido di Soros l’idea del primato della libertà, non condivido invece l’idea che ha della libertà, perché la sua concezione è collegata ad una valutazione fortemente positiva del fenomeno della globalizzazione, agli antipodi di ciò che penso io. Non difendo quindi le sue idee e le sue iniziative, ma il suo diritto ad avere delle idee e a prendere delle iniziative senza portarsi dietro una stigmatizzazione pregiudiziale.

La seconda precisazione riguarda Israele (e il sionismo). La politica attuata oggi da Israele in Palestina non mi piace, segue la stessa logica dei “cuscinetti” difensivi perseguiti a suo tempo da tutti gli stati nazionali, europei e non, e da quelli coloniali: con le idealità del sionismo originale, che prevedeva uno stato socialista e aperto, non ha più alcun legame (per cui anche la dicitura di “anti-sionisti” per gli oppositori dello stato ultra-ebraico odierno è assolutamente impropria). Ma sono comunque convinto del diritto di Israele ad esistere, sia pure in altra forma. E ritengo tra l’altro che la sua politica attuale sia dettata in gran parte proprio dal fatto che gli altri non la pensano affatto così. È ipocrita fingere di dimenticare che nelle carte costitutive dell’Olp prima e di Hamas oggi è indicato come obiettivo principale quello di “sollevare la bandiera di Allah sopra ogni pollice della Palestina”, cioè di eliminare lo Stato di Israele, “perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’islam sino al giorno del giudizio”. In altri termini, qui si parla di liquidare o cacciare a mare tutti gli ebrei. E non è una formulazione retorica, perché con quattro guerre in venticinque anni a renderla fattuale ci hanno provato tutti gli stati arabi del Vicino Oriente. Quanto al tema dei profughi, andrebbe ricordato, se si vuole impostare un discorso serio, che della popolazione israeliana fanno parte anche gli oltre seicentomila ebrei che dovettero sloggiare alla svelta dagli stati arabi all’epoca della guerra del 1948. E che, a rigor di termini, in quella circostanza le ondate principali dell’esodo palestinese precedettero l’azione militare israeliana e furono provocate in primo luogo dalla fuga dei capi e delle classi dirigenti, che scatenò il panico e diede un pessimo esempio, e poi dagli ordini di evacuazione impartiti dal Supremo Comando Arabo, che incoraggiava i palestinesi a rifugiarsi in “aree sicure”. Da parte israeliana non si fece certamente nulla per trattenerli, ma non fu nemmeno mai diramato un ordine di espulsione (ciò non toglie che l’Haganah e l’Irgun abbiano provveduto in proprio a “sgomberare” villaggi arabi, e che alla fine del conflitto le autorità israeliane abbiano attuato un’opera di “ripulitura” delle frontiere). Il fatto poi che a questi profughi non sia stato consentito rientrare, attiene già ad un altro discorso, molto più complesso. Mi preme solo che quando si parla di queste vicende si tenga davvero conto di tutti i dati.

 

Ma torniamo ora a Tondelli. Tondelli a Soros non fa cenno, ma dietro il suo discorso, chissà perché, mi pare di scorgerne l’immagine. Sceglie di parlare (solo) della Palestina perché evidentemente è un argomento che conosce bene, e non lo metto in dubbio: quello della Palestina è da decenni un chiodo fisso delle sinistre, uno di quelli che meglio hanno resistito all’usura del tempo. Ha anche resistito agli scandali legati alla gestione Arafat e alla strumentalizzazione dei poveri cristi di Gaza da parte di Hamas, cosa che peraltro Tondelli stigmatizza correttamente.

È il tono generale dell’articolo però a parlare. Il confronto tra le cifre è costante: “Nel 2014 l’operazione Margine di Protezione causò più di 2000 morti tra i palestinesi (di cui la metà civili) e 71 vittime israeliane. Nel 2009, l’operazione Piombo Fuso aveva visto una sproporzione di uno a cento: tredici vittime israeliane, circa un migliaio di palestinesi”. Mi viene in mente, en passant, che nei campi di sterminio nazisti la sproporzione fu di zero tedeschi contro oltre quattro milioni di ebrei (stima minima). Se di cifre dobbiamo parlare … La popolazione palestinese, quella che ha votato a stragrande maggioranza per Hamas, e quindi per il suo programma di guerra totale ad Israele, è raccontata come incolpevole vittima presa in mezzo tra le astuzie dei due contendenti: “Nell’ultimo mese sono morti più di sessanta palestinesi, alcuni dei quali, forse, nel modo più assurdo che potessero “scegliere”: cercando di varcare il confine della Striscia davanti ai cecchini. Qualcuno non aveva nulla da perdere; qualcun altro eseguiva gli ordini o pensava alla pensione che Hamas paga ai parenti di ogni martire. Ora sono tutti morti e l’organizzazione palestinese li reclama come suoi”. Vorrebbe dire che in realtà la popolazione palestinese è ostaggio di Hamas? A me risulta che nella fascia di Gaza ci siano state delle elezioni, quanto libere non si sa, ma che hanno dato comunque ad Hamas una vittoria schiacciante nei confronti di altre fazioni più moderate. Segno che quest’ultima è in qualche modo legittimata a rappresentare il sentire dei palestinesi. E quindi? Come dovrebbe comportarsi Israele? Pareggiare per equità il numero delle vittime, mandando allo sbaraglio un po’ dei suoi ragazzi? Ma soprattutto, venire a patti con gente talmente ubriacata dalla propaganda integralista da non voler scendere ad alcun patteggiamento? Certo, dovrebbe evitare di mandare i suoi coloni a popolare le aree conquistate: ma, siamo sinceri, questo cambierebbe di una virgola la situazione, la disposizione degli Jihadisti nei suoi confronti? Nelle uniche due occasioni in cui il buon senso aveva prevalso tra gli ebrei tutte le loro proposte sono state respinte, compresa quella della creazione di uno stato palestinese autonomo.

Sto però scendendo su un piano di polemica spicciola che mi ero proposto di evitare, e che comunque non ha a che vedere con l’argomento specifico dell’antisemitismo strisciante. Un antisemitismo “politicamente corretto”, perché ha trovato una “buona” causa dietro la quale mascherarsi. E del quale Tondelli, suo malgrado, offre l’esemplificazione.

Non è necessario, dicevo, evocare il grande complotto pluto-giudaico per esprimere l’antisemitismo. È sufficiente, in un altro articolo, Liberi e non troppo uguali a Corbyn, fare il panegirico del programma di Corbyn (cosa che non riesce difficile, se a termine di paragone si assume quello di Liberi e Uguali), della sua coerenza vetero-marxista e della sua capacità di identificare il nemico di classe e andare dritto alla sostanza dei problemi (compriamo subito ottomila case, nessuno dormirà più per strada), senza accennare minimamente al fatto che questa coerenza riguarda anche l’odio anti-ebraico. Facilmente dimostrabile. Corbyn non si esime dall’esprimere le sue antipatia nei confronti “delle politiche dello stato di Israele”. E fin qui, forzando un po’, si può ancora parlare di antisionismo. Ma partecipa anche a cerimonie in onore di terroristi palestinesi (quelli della strage di atleti israeliani a Monaco, quelli degli attentati alla sinagoga di Gerusalemme e a un ristorante della stessa città), e soprattutto, firma la prefazione di un libro nel quale si afferma che il capitalismo internazionale è controllato da uomini di “una singola razza particolare”. Ora, il libro è la ristampa di un’opera di centoventi anni fa (L’imperialismo, di John Atkinson Hobson), e la cosa ci sta: ma che nella prefazione Corbyn definisca “corretta e lungimirante” questa particolare analisi è rivelatore di qualcosa che va ben oltre l’antisionismo. Saranno dettagli, ma non mi sembrano trascurabili. Tondelli non dovrebbe trascurarli. Perché un insieme di dettagli poi forma un quadro.

E qui, arrivato a questo punto, confesso che mi accingevo a costruire un’arringa finale coi controfiocchi, circostanziando minuziosamente tutti i capi d’accusa. Non fosse che, chissà per quale ispirazione, m’è venuto in mente di digitare “Leonardo Tondelli antisemitismo”. Così, per prova, convinto di non trovare nulla. Caspita! Si è invece aperto il vaso di Pandora. L’avessi fatto prima, mi sarei risparmiato questo spiegone. Il difetto è naturalmente tutto mio, perché ancora non ho assimilato il concetto che in rete c’è già ogni cosa, e continuo a cullarmi nell’idea di essere il solo a cogliere certe sfumature. Vien fuori insomma che è in atto una guerra blogale che dura da almeno una decina anni, al cui centro c’è proprio il nostro Tondelli, accusato senza mezzi termini di antisemitismo puro e semplice. Sono citati diversi altri suoi interventi a gamba tesa, sempre preceduti o seguiti da una presa di distanza dall’antisemitismo e da una professione di antisionismo. Purtroppo col tempo il battibecco è scaduto a livelli molto bassi, da una parte e dall’altra. Si è scesi sul pesante, è scomparsa ogni traccia di ironia. Ma un paio di interventi critici significativi li ho rintracciati, e a questi vorrei affidare il compito di chiudere, almeno per il momento, il discorso. Sono, come potrete constatare, molto di parte, a metà tra l’ingenuo e il prevenuto: ma fatti e parole cui fanno riferimento sono reali.

Non è esattamente la chiusura cui avevo pensato: ma ciò che ho letto nelle due o tre ore successive sinceramente mi ha tolto la voglia di proseguire. Dal momento che quando entri nella rete non ne esci più, ho continuato a navigare da una maglia all’altra, fino ad imbattermi nel blog di Fiamma Nierenstein. La Nierenstein é un’ottima giornalista, “sionista” convinta ma abbastanza onesta da dichiarare apertamente la propria posizione e tanto intelligente da argomentarla con dovizie di motivazioni. Con queste ultime si può essere non sempre d’accordo, ma non si può negare che inducano a riflettere, che costituiscano un’ottima occasione per confrontarsi seriamente con la questione ebreo-palestinese. E invece, andando a spulciare nei commenti, si trovano soltanto insulti rabbiosi e sproloqui demenziali (Che cosa pensereste se ci fossero le prove che dei sei milioni di ebrei morti nell’olocausto si parlava già anni prima che addirittura cominciasse la seconda guerra mondiale e fossero promulgate le leggi razziali? Almeno concedereste qualche minuto per ascoltare? Il livello è questo).

Non mi scandalizzo più di tanto, so che anche l’esistenza degli idioti è da mettere in conto, senza farsi prendere ogni volta da travasi di bile (ma faccio una gran fatica, e mi scopro a mio modo razzista): sennonché, mentre sto scrivendo queste parole arriva dalla camera accanto la voce di uno speaker televisivo che commenta una ricerca dell’ISPES, secondo la quale almeno il quindici per cento degli italiani pensa che l’olocausto non abbia mai avuto luogo. Comincio a credere che per questo paese, ma in realtà per l’umanità tutta, non rimanga speranza: perché un quindici per cento di idioti certificati è un’arma biologica di distruttività inaudita (e la percentuale è calcolata senz’altro per difetto).

Altro che pandemia da Coronavirus!

 

APPENDICI

  1. Senza titolo
    Pubblicato il 10 ottobre 2013 su groups.google.com, da Gerald Bostock

Nel novembre 2012 a Roma un migliaio di bambini sono rimasti chiusi nella loro scuola, e per i genitori era impossibile raggiungerli. Questo perché, fuori dalla scuola, c’era una guerriglia urbana condotta da esagitati, alcuni dei quali urlavano slogan contro lo Stato ebraico. Per Leonardo Tondelli, che fa il professore ma non si è mai trovato rinchiuso in una scuola con una massa di ossessi al di fuori che ti vorrebbe fare la pelle,

“È un episodio triste, che mostra se ce n’è bisogno la necessità urgente di smarcare ebraismo e sionismo.”

“Necessità urgente”.

Tondelli potrebbe aiutare noi ebrei a procedere a questa opera di smarcamento. Indicandoci come fare per evitare che simili “tristi episodi” si verifichino di nuovo. Magari istituendo un apposito comitato con l’incarico di porre ebraismo contro sionismo. Idea già provata con non molto successo.

Capite? Non bisogna evitare che un gruppo di ossessi venga a urlare delle cazzate terrorizzando (letteralmente) i bambini. Bisogna urgentemente smarcare.

E se durante un corteo sindacale qualcuno deposita una bara vuota sui gradini di una sinagoga? Beh, questo succede perché gli ebrei non si “smarcano” dal sionismo. Mica per antisemitismo, no. In effetti è successo. Purtroppo non è accaduto alcuno “smarcamento”… Lo diceva, il Tondelli, che era una “necessità urgente”.

E poi il sempre efficiente (chiedete agli autonomi) servizio d’ordine della CGIL non riusciva a trovare gli autori del simpatico dono. Beh, questo succede perché gli ebrei non si “smarcano” dal sionismo. Mica per antisemitismo, no. Purtroppo non è accaduto alcuno “smarcamento”… Lo diceva, il Tondelli, che era una “necessità urgente”.

E come mai poi la bara si riempie di un cadavere? Beh, questo succede perché gli ebrei non si “smarcano” dal sionismo. Mica per antisemitismo, no. Purtroppo non è accaduto alcun “smarcamento”… Lo diceva, il Tondelli, che era una “necessità urgente”.

BTW sionismo significa sostenere lo Stato ebraico. Quello Stato che non lascia impuniti crimini come quello descritto. Ripeto: in Italia l’antisemitismo uccide. Di quel gruppo di assassini ne venne identificato uno solo, e scampò la galera. Questo in Israele non succede. Ma per Tondelli gli ebrei si devono “smarcare” dal sionismo, dalla aspirazione a vedere i criminali impuniti.

Roba vecchia? Mica tanto. Tondelli di queste cazzate è ancora convinto. Se infatti una manifestazione prende di mira gli ebrei (accusando gli ebrei di complicità in qualche crimine) i responsabili non sono quelli che berciano slogan antisemiti. No. È perché gli ebrei non si “smarcano” anche se c’è una “necessità urgente”. In breve: per Tondelli sono ebrei i responsabili (o colpevoli?) del razzismo antisemita. L’antisemitismo è colpa degli ebrei, che non si vogliono “smarcare” dalle malefatte di altri ebrei. L’avete già sentita?

Come noto, Tondelli ci ha spiegato la triste condizione dei bambini di Gaza, chiedendo ai lettori di immedesimarsi in quei bambini, senza prendere atto del fatto che non sono esattamente emaciati. I bambini di Gaza gli importano molto. Quelli ebrei di Roma, no. E nemmeno quelli di Tolosa, per dire. Infatti Tondelli si guarda bene dal farci sapere cosa proverebbe se lui fosse un insegnante che tutte le mattine deve superare un cordone di polizia per recarsi al lavoro.

E che quando la polizia non c’è, lui muore. Morirà forse per antisionismo e non per antisemitismo. Che, capite, è una differenza fondamentale. Certo, se si fosse “ smarcato”…

  1. La fragile psicologia degli antisionisti
    Pubblicato il 31 luglio 2018, su allegroefurioso.wordpress.com, da Fontana X?

In questi giorni al centro dello scontro tra ebrei inglesi e Partito Laburista non c’è la definizione di antisemitismo, che il Partito non ha problemi ad adottare, ma qualcuno degli esempi, che secondo alcuni renderebbero impossibile per il Partito appoggiare i palestinesi.

Il che è falso. La definizione è già parte della legislatura inglese e non è mai stata usata per bloccare alcuna delle molte iniziative anti Israeliane, dallo sventolare bandiere di Hezbollah durante la marcia per Gerusalemme musulmana, alle varie settimane dell’apartheid israeliano che si tengono ogni anno nelle Università, organizzate da studenti musulmani o rossobruni, o razzisti e cretini. E varie combinazioni.

Basterebbe davvero poco per abbassare le tensioni tra Partito Laburista e mondo ebraico. Accettare la definizione nella sua interezza non è una impresa sovrumana e leverebbe molti argomenti a chi accusa il Partito di antisemitismo. Un passo davvero da poco. Che Corbyn non vuole fare. Perché ha paura di apparire uno che prende ordini dagli ebrei.

Penso a Leonardo Tondelli. Quando annaspava inanellando farneticazioni sulla crisi economica decennale di Israele come origine delle velleità belliche, quando raccontava di aver giocato a “vai avanti tu che hai la faccia da ebreo” per poi affannarsi a spiegare che non lo aveva mai scritto, e i suoi divertenti contorcimenti in nome del povero contadino di Galilea cacciato dai sionisti. È stato grazie a Tondelli che ho inventato il personaggio.

Bastava veramente poco a Leonardo Tondelli per evitare di infilarsi in quel tunnel da cui è emerso coperto di pece e piume, zimbello dei lettori di Informazione Corretta. Avrebbe potuto ammettere da qualche parte che il popolo ebraico ha diritto all’autodeterminazione. Non serviva nemmeno riconoscere che questa è, o dovrebbe essere, una posizione di sinistra. Certo non impedisce alcuna critica a come Israele si comporta, o leva alcunché alle ragioni dei palestinesi. No, Tondelli ha preferito rendersi ridicolo piuttosto che muoversi concettualmente di qualche millimetro. Perché ha paura di apparire uno che prende ordini dagli ebrei.

Vado più indietro, nella Usenet a cavallo tra anni Novanta e Duemila. C’era un tale che si firmava DR e faceva il ricercatore a ingegneria. Nella sua difesa ad oltranza dei palestinesi è riuscito a infilare una serie di stereotipi antisemiti che sembrava lo Sturmer. Un suo passaggio sui tratti somatici comuni degli ebrei è diventato, come si dice oggi, virale. Doveva per forza finire così? Ovviamente no. Avrebbe potuto riconoscere agli ebrei il diritto di definirsi da soli, come lo riconosceva ai palestinesi o agli armeni.

Vi sentite un popolo? Non c’è problema, per me siete un popolo. Vi sentite una religione? Non c’è problema, siete una religione. Vi sentite una combinazione tra i due? Non c’è problema, lo siete. Avesse scritto anche solo una di queste righe non avrebbe ridotto per nulla le ragioni dei palestinesi che stavano così tanto a cuore a lui. Perché non ha fatto questo minimo passo? Per paura di apparire uno che riconosce agli ebrei troppo potere. Compreso quello di definirsi da soli.

E trovo lo stesso meccanismo in altri antisemiti militanti di sinistra con cui mi è capitato di discutere. Da quello che rifiutava di riconoscere che esistessero antisemiti a sinistra, arrivando a sostenere più o meno di conoscere tutti i votanti PCI di Bologna e dintorni. E recentemente il Grande Scrittore che non riesce ad ammettere che i morti sono terroristi di Hamas anche quando è Hamas stesso che lo dice. Anche in questi casi noto la stessa incredibile resistenza psicologica che impedisce di riconoscere anche in minimissima parte le ragioni di Israele e degli ebrei. Ed in ambedue i casi vedo la stessa paura. Se riconosco che Israele ha qualche ragione, anche una sola, anche quando è d’accordo con Hamas sul fatto che XYZ è terrorista, allora perdo. Diranno tutti che obbedisco agli ebrei.

In parte è un problema di identità. Questa gente ha in comune una identità politica che fa sempre qualche fatica ad ammettere di avere problemi con gli ebrei. Perché è un genere di identità che vuole in qualche caso sostituirsi a quella ebraica. La giustizia sociale è un valore ebraico. Ma questa sinistra tollera poco che ci siano in giro idee di giustizia sociale che provengono da altre fonti che non siano gli scritti di Marx. Se poi sono scritti più antichi diventa davvero intollerabile.

Per cui, certo, le persone elencate sopra sentono la propria identità minacciata dal fatto che gli ebrei esistono e che esistevano anche prima di Karl Marx. Ma c’è qualcosa di più dello scontro tra differenti identità che non si riescono ad amalgamare. Infatti stiamo parlando di personalità estremamente fragili. E probabilmente narcisisti. Persone con bassissima stima di sé stessi che temono che qualsiasi movimento, anche piccolissimo. possa farli cadere a pezzi.

Chi non ha paura di perdere stima di sé stesso o degli altri, non ha paura di piccoli movimenti ideologici, che peraltro lo liberano dal sospetto di essere in malafede. Difendere le ragioni dei palestinesi diventerebbe molto più efficace per Corbyn e i suoi, senza il rischio di passare per antisemita. Leonardo Tondelli avrebbe evitato di rendersi ridicolo se avesse riconosciuto il diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione. Il suo impegno per la causa palestinese sarebbe sembrato più credibile se privo di quella ostilità per gli ebrei che in tanti hanno riconosciuto come uno dei suoi problemi

Ma per una psicologia narcisista, per cui il mondo coincide con la pozzanghera nella quale ti specchi, e fuori da essa non c’è nulla, è terribile se qualcosa di esterno (le ragioni di qualcun altro) entra dentro la loro bolla. Il tuo mondo viene distrutto da qualcosa di altro, qualcosa che non puoi controllare.

Non sto dicendo che questa gente non sia pericolosa. Berlusconi è un narcisista patologico, è riuscito a conquistare il consenso di una parte consistente di italiani, forse narcisisti anche loro, che si vedevano come lui, e una volta al potere di danni ne ha fatti. Non pochi. Per cui possono giungere al potere anche questi narcisisti, i quali temono che riconoscere anche solo una ragione agli ebrei sia una minaccia mortale verso di loro e verso il loro gruppo.

Il che secondo me è uno scenario da incubo. Non per Israele, che può ovviamente sopravvivere a tutto. Il vero dramma è se questa gente si trovasse a governare una Europa che già sente la propria identità minacciata e che, con un branco di narcisisti alla guida, potrebbe perdersi del tutto.

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L’utile occasione per stare ai margini

di Fabrizio Rinaldi, 20 gennaio 2019

L’uomo è geometra per diletto, muratore di mestiere.

Da quando l’umanità ha cominciato a costruire baracche e a coltivare orti prova un’irresistibile voglia di prendere misure e di conficcare cippi, per delimitare il possesso e l’uso esclusivo degli spazi. Quindi, una volta rilevate le dimensioni, il carpentiere che è in noi comincia ad innalzare barricate per resistere agli attacchi di chi è rimasto fuori.

Col tempo il geometra s’è talmente impratichito nell’arte della delimitazione da esserne incaricato in esclusiva, per tracciare le linee che definivano i rapporti tra i suoi rappresentati.

Sono nati così i politici, ma soprattutto sono comparsi i confini tra le nazioni, limiti invalicabili che andavano a troncare gli infiniti legami relazionali creatisi nei secoli tra un territorio e l’altro. L’introduzione di linee di separazione fisica, concrete o virtuali che fossero, e le subdole logiche politiche hanno persuaso alla lunga le comunità a riconoscersi in quei confini, a sentire come naturale l’appartenenza all’una o all’altra parte e a considerare chi ne rimaneva fuori come estraneo, straniero, attribuendogli requisiti negativi che ne rendevano incompatibile la presenza. Quei confini sono le righe su cui si è scritta la storia.

Ogni volta, quando la tensione lungo quelle linee si fa eccessiva, la situazione precipita: si arriva a scontri che producono inevitabili sofferenze, e poi a temporanei accordi che lentamente mutano i caratteri delle collettività separate dalle barriere e ne segnano le crescenti distanze.

Ma questo processo non è uguale in tutte le parti del mondo. Mentre ad esempio in Europa il confine identifica il limite fisico tra due mondi o culture distinguibili e riconosciute da entrambe le parti, in America la frontiera è quella linea estrema che separa dall’ignoto e dall’inesplorato: dall’altra parte c’è un territorio franco, aperto alla conquista. I fumetti e i film western ci hanno educato a considerare il significato della frontiera in maniera molto diversa rispetto a quello attribuito al confine.

Per gli americani l’idea di una frontiera da valicare divenne il mito che contribuì a saldare un coacervo di popoli dalle origini culturali differenti. Quel mito rimane vivo anche dopo il raggiungimento di entrambe le sponde degli oceani, è lo stesso in forza del quale si affrontano le frontiere scientifiche, spaziali, digitali, economiche e politiche.

Per gli europei, invece, il confine fisico è stato un elemento sostanziale per la creazione delle identità nazionali, al pari delle diverse lingue. Ha svolto una funzione eminentemente politica di separazione, di chiusura, ha creato delle barriere, al tempo stesso inclusive ed esclusive, e le ha cementate con la malta dei pregiudizi e delle paure. Non è un caso che i ghetti e i lager – per loro natura costruiti con fili spinati e muri – abbiano un’origine europea.

Io vivo di avvistamenti come una sentinella, sono sul bordo, nella mia vita non ho mai frequentato nessun centro.
FRANCO ARMINIO, Geografia commossa dell’Italia interna, Bruno Mondadori 2013

L’Italia stessa è solcata da un reticolo di linee che nei secoli hanno suddiviso il suo territorio e creato differenti consuetudini e culture. Su quelle linee s’è giocato lo scontro politico – spesso cruento – ma è avvenuto anche lo scambio delle idee, e da questo sono germinati proficui meticciamenti. Anche quando l’attrito tra le parti rendeva incandescente la temperatura, da esso nasceva una nuova consonanza culturale, economica o sociale: forse il Rinascimento non sarebbe nato, senza questi dissidi territoriali.

Un esempio dell’esistenza di questi margini ormai superati l’ho colto l’altro giorno mentre camminavo ad Ameglia, lungo le sponde del Magra, in prossimità della sua foce. Il corso d’acqua segna il confine tra Liguria e Toscana, e attraversa un territorio, la Lunigiana, che per secoli fu conteso tra due delle città più importanti dell’Italia medioevale: Genova e Lucca.

Rimane ancora oggi nei lunigianesi la consapevolezza di non essere né toscani, né liguri, tanto che è stata avanzata l’ipotesi di creare una nuova regione, chiamata Lunezia, nella quale il territorio possa identificarsi amministrativamente e culturalmente. Ecco, questo è un esempio di come si continui a credere necessari confini che sono in realtà anacronistici. O forse di come queste rivendicazioni siano diventate oggi, per una classe politica sterile, l’occasione per creare nuove logiche economiche.

In quel territorio, nonostante esso faccia parte della regione ligure, la parlata è decisamente toscana. Le influenze linguistiche che si colgono nella cadenza, nel dialetto e nella toponomastica, testimoniano gli infiniti meticciamenti delle popolazioni. Segno che le successive barriere politiche sono sempre state molto permeabili.

In questa area sono sempre state infatti di vitale importanza le diverse vie di comunicazione che consentivano il superamento dei confini orografici, e conseguentemente di quelli politici e culturali. Dalle vie del sale alle strade romane, da quelle medioevali a quelle odierne, tutte fungevano da collegamento tra le isole territoriali che, nonostante esibissero rocche difensive e chiusure campanilistiche, avevano poi necessità di un continuo interscambio, per non rischiare l’implosione dell’isolamento.

La costruzione di barriere risale, come detto prima, alle nostre più lontane origini: e nonostante si siano dimostrate poco efficaci, anzi spesso inutili, continuiamo a commettere l’errore di costruirne di nuove, fingendo di ignorare che prima o poi cadranno e creando guai ancora maggiori di quelli che hanno portato a costruirle. Ecco alcuni esempi.

– Per decenni l’Europa è stata divisa da un confine creato dalle due grandi super potenze dell’epoca: il muro di Berlino divenne la rappresentazione simbolica dello scontro fra capitalismo e comunismo. Trent’anni fa, quando quel precario equilibrio venne meno, sembrò aprirsi l’opportunità di creare una differente società, sicuramente migliore. L’errore fu quello di fondare il nuovo equilibrio socio-politico su un terreno instabile: il capitalismo stesso. Non è un caso che siamo passati dalla quindicina di barriere (murate, spinate o minate) della fine degli anni ottanta del secolo scorso alle oltre settanta attuali.

– Israele ha costruito 800 chilometri di muro per “proteggersi” nella Striscia di Gaza e nei confini con l’Egitto, con il Libano e con la Siria.

– Risale agli anni novanta, ma è di stretta attualità perché Trump vorrebbe allungarlo ulteriormente, il muro creato per limitare l’immigrazione messicana.

Tutte queste barriere sono nate per impedire che le persone si muovano da un territorio all’altro. Ma a volte è la natura stessa a fornirle. O meglio, a volte gli uomini scelgono di usare come barriera quella che potrebbe essere al contrario una via di incontro. In questo senso anche l’Italia ha creato il suo muro. È molto esteso ed è costituito dal mare che la circonda: l’acqua può portare, ma può anche ingoiare. E in qualche maniera aiuta a contenere e a respingere.

Attorno a questo tema si sta svolgendo nel nostro paese la più stupida e ipocrita delle pantomime, con i politici dei vari schieramenti che passano da uno studio televisivo all’altro a straparlare, come se le loro opinioni avessero un qualche rilievo in un mondo nel quale le vere decisioni le prendono le multinazionali e i governi di interi continenti. L’attuale maggioranza politica, cui corrisponde peraltro quella popolare, si regge e prospera sulla paura biecamente coltivata dell’invasione da parte di orde di stranieri – in realtà poche migliaia di disperati. Siamo al punto che si è reso necessario l’intervento della chiesa (nell’ultimo episodio quella valdese) per dare accoglienza a una cinquantina di migranti. Questo la dice lunga sull’incapacità (o volontà) di decidere – nel bene o nel male – dell’attuale governo.

Questi sciagurati invasori lasciano i loro paesi d’origine per sfuggire a miserie e malattie, soprusi e carestie, o semplicemente per soddisfare la curiosità di conoscere cosa ci sia oltre ciò che li divide da noi. E l’Occidente finge di scordare che le condizioni da cui fuggono sono state create proprio dalle nazioni verso cui viaggiano.

Ancora una volta mi sento inadeguato. Mi ritrovo quindi a cercare altrove spunti da cui ripartire per ragionare.

Mentre porto a passeggio il cane (o lui porta me) mi soffermo sul bordo della strada: il margine quasi mai è netto, in genere è molto frastagliato: la natura cerca di riconquistare lo spazio che le è stato sottratto, mentre l’asfalto cerca di resistere all’aggressione invasiva. Ecco un esempio di barriera artificiale destinata a essere infranta, se non si fa manutenzione: ma mi è utile rifare l’asfalto, e ho le risorse per farlo?

Quando sposto l’attenzione al fosso che c’è tra me e i campi, scopro una incredibile varietà di specie erbacee, fiori e altri vegetali, che sicuramente non troverei nelle coltivazioni a monocoltura che ci sono oltre il solco.

Ad uno primo sguardo questo habitat appare anonimo e insignificante: invece è spesso rifugio di fiori rari, o di quelli in grado di sopravvivere al continuo calpestio e al disturbo arrecato dagli uomini. Vi trovano asilo specie che sono “cacciate” da altri ambienti, soppiantate da rivali più “aggressive” o più idonee alle nuove condizioni sopraggiunte.

A titolo d’esempio, provate a fare una passeggiata lungo la strada sotto Lerma, presso il mulino: in tardo inverno potrete notare una colonia di bianchissimi bucaneve (Galanthus nivalis). È un fiore non comune dalle nostre parti, ma lì, lungo la sponda di una provinciale, ha trovato un substrato a lui congeniale.

Un grande impulso allo studio di questa vegetazione marginale, quella che si è rifugiata nelle città e lungo le strade, fu dato – per una beffa ironica del destino – proprio dai botanici dell’università di Berlino Ovest ai tempi del muro, quando erano costretti ad esplorare un territorio totalmente urbanizzato e delimitato dal muro stesso.

Altri esempi di adattamento della vegetazione ai manufatti umani sono i muretti a secco che caratterizzano il territorio ligure: costruiti per rubare spazio coltivabile alla collina o per suddividere i terreni, ospitano piante perfettamente adattate a questo ambiente povero di terreno, come la caniggea (Parietaria sp.), l’ombelico di Venere (Umbilicus rupestris) e la Selaginella denticulata, una felce i cui antenati, molto simili alle specie viventi attualmente, esistevano già 300 milioni di anni fa.

L’esame delle dinamiche naturali dovrebbe aiutarci a constatare che dalle separazioni fisiche nascono nuove condizioni, e che i diversi modi in cui le si affronta offrono occasioni per fare scelte differenti. Non è un caso che il termine “confine” derivi da cum (condiviso) e finis (limite): il limite separa ma è condiviso; la separazione in realtà unisce; nella divisione fra gli elementi c’è l’intrinseca condizione di una relazione fra essi.

Noi invece viviamo un costante cortocircuito. Da una parte costruiamo barriere – fisiche o mentali – per tenerci a distanza da persone che differiscono da noi solamente per cultura, mentre dall’altra sfidiamo costantemente i confini imposti dal corpo e dal tempo: con gli sport estremi, con l’uso di droghe, ma anche col ricorso a pratiche terapeutiche che vorrebbero modificare i limiti biologici della vita, interrompere il suo invecchiamento e procrastinare all’infinito l’uscita definitiva. In definitiva, vogliamo confini artificiali ma non vogliamo accettare quello naturale della mortalità.

Altro esempio dell’attuale confusione nel tracciare i limiti, è rappresentato dal contrasto tra il tempo in cui la gioventù esibiva atti di ribellione alle limitazioni imposte dalle figure di riferimento – genitoriali o scolastiche che fossero –, ed oggi dove loro stessi diventano i carpentieri che alzano nuovi muri per “difendersi” dall’assenza di adeguate contrapposizioni nella società adulta.

Cosa avverrebbe invece se imparassimo ad accettare i limiti dal nostro corpo, a rivendicare la nostra individualità tenendo conto dell’esistenza e dei diritti di realtà differenti? Riusciremmo a smettere di stendere fili spinati alla prima avvisaglia di una “invasione” del nostro territorio?

Appurato che le zone di confinamento sono limitate nel tempo e destinate ad essere infrante, non sarebbe auspicabile evidenziare le corrispondenze, le convivenze e le compatibilità con gli oppressori?

Certo che significherebbe andare oltre dal facilitare le angosce ed evidenziare le dissonanze: un ghiotto bottino elettorale a cui pare non vogliano rinunciare i poco lungimiranti politici attuali, italiani e non solo.

Rimane però la curiosità di innescare quei cambiamenti sociali che favoriscano soluzioni differenti dal tracciare confini. Magari la cosa intaccherebbe la nostra natura di geometri e carpentieri, ma potrebbe introdurre un mutamento epocale. Ebbene: per una volta voglio essere ottimista. Credo che l’occasione potrebbe essere offerta proprio dall’ingresso nell’era digitale, che sta imponendo – nel bene e nel male – uno sconvolgimento radicale nelle relazioni. Mettendo assieme la buona volontà di chi la gestisce (che non è incompatibile con le motivazioni commerciali) e una più consapevole capacità di utilizzo da parte di chi ne fruisce si potrebbe recuperare la rete internet al fine per cui nacque: favorire la trasmissione capillare di dati reali e impedire che vengano alimentati – come invece avviene oggi – gli equivoci e le falsificazioni.

È una speranza utopistica? Senz’altro, ma è anche l’unica opponibile all’accettazione passiva e rassegnata del trionfo della menzogna e del dominio della paura.

Solo una conoscenza di base oggettiva può abbattere i muri più resistenti, quelli delle nostre singole menti. Può farlo attraverso un intimo lavoro di scavo quotidiano, minuzioso e a lungo termine, eseguito con infinita pazienza, attraverso il quale si evidenzi ciò che nella complessità ci unisce, anziché ciò che ci divide. Implica una compartecipazione dei singoli che ci porti a riflettere su ciò su cui si fonda la nostra identità, su quanto va salvaguardato, sui valori da difendere, e a riconoscere al tempo stesso quelli che sono solo pregiudizi generati dalla paura. La conoscenza può farci scoprire che dall’altra parte del confine si vive, si pensa, si soffre, si spera come da noi, anche se in modalità e con orizzonti differenti.

Sapere che nell’altro emisfero la volta celeste ospita costellazioni diverse è interessante, ma davvero importante è sapere che ci sono occhi e menti che le interrogano come lo facciamo noi.

Vengono alla mente le parole di Nelson Mandela: “Una persona che viaggia attraverso il nostro paese si ferma in un villaggio, e qui non ha bisogno di chiedere cibo o acqua. Appena arrivata la gente le offre il cibo, la intrattiene. […] Ubuntu non significa che le persone non debbano dedicarsi a sé stesse. La questione piuttosto è: Vuoi farlo per aiutare la comunità che ti circonda a migliorare”?

Il pensiero africano di ubuntu cozza con l’individualismo europeo, ma è una proposta da cui partire per rinnovare rapporti e relazioni nella coscienza che siamo intrinsecamente connessi l’uno all’altro: che cioè la singolarità esiste solamente se è riconosciuta la reciprocità.

Desmond Tutu diceva: “Una persona che ha ubuntu è aperta e disponibile verso gli altri, riconosce agli altri il loro valore, non si sente minacciata dal fatto che gli altri siano buoni o bravi, perché ha una giusta stima di sé che le deriva dalla coscienza di appartenere a un insieme più vasto, e quindi si sente sminuita quando gli altri vengono sminuiti o umiliati, quando gli altri vengono torturati e oppressi, o trattati come se fossero inferiori a ciò che sono”.

Questo è solo un esempio di società, ma viene non da un sognatore illuso, ma da chi il sogno ha saputo realizzarlo, infrangendo il muro dell’apartheid in Sudafrica.

Immaginare soluzioni differenti dall’innalzare steccati è un obbligo morale per chi vorrebbe un mondo migliore, e risponde anche ad un impulso naturale, all’innato desiderio che contraddistingue la nostra specie di conoscere lo sconosciuto, fisico o sociale che sia.

La siepe di leopardiana memoria ne è un’ottima metafora: ogni barriera, anziché dissuaderci dalla curiosità per ciò che sta oltre, deve diventare lo stimolo ad alimentarla ancor più, e a cercare sentieri per aggirarla o ali per superarla.

Che è poi il modo onesto e giusto, appagante e sereno, per vivere sempre e caparbiamente a ridosso del confine.

Seminatori Di Grano
Sono arrivati che faceva giorno
uomini e donne all’altipiano
col passo lento, silenzioso, accorto
dei seminatori di grano
e hanno cercato quello che non c’era,
fra la discarica e la ferrovia,
e hanno cercato quello che non c’era,
dietro i binocoli della polizia
e hanno piegato le mani e gli occhi al vento
prima di andare via

Fino alla strada e con la notte intorno
sono arrivati dall’altipiano
uomini e donne con lo sguardo assorto
dei seminatori di grano
e hanno lasciato quello che non c’era
alla discarica e alla ferrovia
e hanno lasciato quello che non c’era
agli occhi liquidi della polizia
e hanno disteso le mani contro il vento
che li portava via
GIANMARIA TESTA, Da questa parte di mare, Einaudi 2016

[…] mi sono chiesto infinite volte come sarei stato io se avessi dovuto gestire un’emergenza così definitiva da impormi la decisione di lasciare i miei luoghi, la mia gente, i colori e gli odori che mi accompagnano anche nei sogni.
La risposta certa non me la so dare, mi dico che nella difficoltà estrema ognuno reagisce secondo la sua indole e probabilmente non pensa a se stesso ma alle persone verso le quali sente e ha delle responsabilità. […] Ho l’impressione che nei confronti del fenomeno per noi recente delle migrazioni abbiamo avuto uno sguardo povero e impaurito che ha fatto emergere la parte meno nobile di noi tutti. Siamo stati in difesa, non abbiamo capito l’emergenza e soprattutto abbiamo dimenticato che soltanto fino a due generazioni fa partivano i nostri e trovavano gli stessi ambienti duri e inospitali che noi stiamo ricreando per chi arriva adesso in Italia.
GIANMARIA TESTA,
Da questa parte di mare, Einaudi 2016


Collezione di licheni bottone

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Chi ha paura dell’ebreo cattivo?

di Paolo Repetto, 30 aprile 2014

Non c’è verso. Malgrado l’età rimango un inguaribile ottimista. Mi muovo sempre nella convinzione che un po’ di buon senso e di onestà intellettuale continui a circolare, almeno negli ambienti che conservano un’idea pre-postmoderna della “cultura” (per intenderci, quelli che non attribuiscono la stessa rilevanza culturale a Vasco Rossi e a Leopardi). Invece le cose non stanno così e avrei dovuto capirlo da un pezzo.

Veniamo ai fatti. Qualche mese fa un amico mi comunica che il circolo culturale del quale è presidente ha la possibilità di organizzare in Alessandria un incontro con Ariel Toaff, uno storico medioevalista che insegna presso l’università di Tel Aviv (tra l’altro, figlio dell’ex-rabbino capo della comunità di Roma). Toaff ha alle spalle una bibliografia prestigiosa, a partire dai saggi per la Storia d’Italia di Einaudi fino a Mangiare alla giudia, ed ha recentemente pubblicato uno studio, Storie fiorentine, nel quale compaiono alcuni riferimenti a vicende della comunità ebraica alessandrina nel XVIII secolo. Ho esperienza dei precedenti incontri organizzati dal quel circolo culturale, e sapendo che spesso si risolvono in lezioni di nicchia, con un’utenza molto ristretta, mi dico che forse varrebbe la pena dare una visibilità e un significato diversi a questa occasione. Magari coinvolgendo direttamente l’istituto scolastico più prestigioso della città, e facendone per una sera il teatro di un confronto che offra agli allievi quegli stimoli alla curiosità storica di cui hanno un gran bisogno, e alla cittadinanza l’immagine di una scuola che non si limita a trasmettere con un meccanico rituale dei bocconcini sterilizzati.

La considero un’occasione speciale non tanto per i riferimenti alla storia alessandrina, della quale sinceramente non potrebbe importarmi di meno, quanto piuttosto perché Toaff è stato qualche anno fa al centro di feroci polemiche. Nel 2007 ha infatti pubblicato Pasque di sangue, un quadro storico ambizioso e accuratissimo che indagava il clima, le credenze e il milieu nel quale erano nate, nel tardo medioevo, le accuse di omicidio rituale nei confronti degli ebrei. La tesi sostenuta da Toaff in quell’opera era che le confessioni estorte con la tortura agli innumerevoli ebrei condannati e inviati al rogo non fossero sempre e solo frutto delle fantasie malate degli inquisitori, ma trovassero fondamento quanto meno in un sottobosco settario e dottrinale che ipotizzava e prevedeva rituali di sangue. Per essere più chiari: non ci sono prove della pratica di omicidi rituali da parte degli ebrei, ma è indubbia la sotterranea, e abbastanza diffusa, presenza di una mentalità che questi rituali non li escludeva.

Lo studio aveva naturalmente suscitato reazioni immediate ed era stato attaccato da due differenti versanti. Da un lato si rinfacciava a Toaff di fornire pretesti all’antisemitismo, di servire su un piatto d’argento argomentazioni che andavano ad avvalorare l’immagine perversa degli ebrei diffusa per motivi diversi nel mondo islamico e negli ambienti antisemiti occidentali: dall’altro gli veniva rimproverato dal mondo accademico e dai suoi colleghi storici di utilizzare con eccessiva disinvoltura i “paradigmi indiziari”, per dirla alla Carlo Ginsburg, per trarne delle tesi in realtà non suffragate da prove documentali. Toaff veniva in pratica accusato di essere un ebreo antisemita, un rinnegato affetto dalla sindrome tipicamente ebraica dell’odio di sé, oltre che uno storico ambiguo e poco professionale, disposto a sacrificare la correttezza storica al sensazionalismo.

Non scendo nel dettaglio della querelle perché è già stato esaurientemente ricostruito in un intelligente articolo da Franco Cardini (Il caso “Ariel Toaff” e il mestiere dello storico, su “Vita e Pensiero”, 2, 2007), al quale rimando. Riassumo soltanto i tratti principali. In sostanza, scrive Cardini, la prima levata di scudi è venuta da gente che il saggio nemmeno lo aveva ancora letto (e lo confessava apertamente), e che rispondeva con una reazione pavloviana al solo sentore dell’argomento. Il polverone sollevato in Italia è arrivato sino in America, allarmando anche i finanziatori dell’università nella quale Toaff insegna, e ha suscitato rimbalzi tali da indurre l’autore stesso a chiedere dopo qualche settimana che il saggio fosse ritirato. Non certo per un pentimento, o per calcoli opportunistici; semmai con un po’ di disgusto per i modi dell’aggressione, e con l’intento comunque di riprendere fiato e difendere ad oltranza la dignità propria e del proprio lavoro. Il libro è stato infatti riproposto pochi mesi dopo senza alcun taglio, con qualche leggera modifica nella prefazione e con indicazioni interpretative più chiaramente esplicitate.

Nel frattempo la polemica ha però preso un’altra direzione. Imbarazzati dagli effetti del proprio zelo, e richiamati ad un po’ di serietà da quelli che avevano almeno atteso di leggere il libro prima di aprir bocca, gli stessi inquisitori della prima ora si sono affrettati a buttare acqua sul fuoco, rivendicando la loro estraneità ad ogni tentativo di censura. Per carità, non volevano tacitare e tantomeno insultare nessuno: non sia mai detto, in un paese civile come il nostro. Qualcuno ha addirittura cercato di girare la frittata, insinuando che la polemica fosse stata strumentalmente alimentata dallo stesso Toaff, e che il ritiro del libro era una mossa da manuale del marketing. È stata quindi adottata un’altra tattica: quella del silenzio. Esauritosi il can can iniziale, si è applicata la forma di censura senz’altro più efficace: non riparlare del problema. Dopo l’articolo di Cardini non mi risulta un solo altro intervento di qualche peso su tutta la faccenda. Il che ha significato per l’intelligencjia bacchettona e politicamente corretta non esporsi al ridicolo, ma ottenere ugualmente il risultato di lasciare in vigore l’ostracismo.

Senza dubbio l’ho messa giù molto all’ingrosso, ma la riprova che le cose hanno funzionato così viene proprio dalla vicenda in cui mi sono trovato coinvolto, e che vado a completare.

Ero rimasto alla proposta di un coinvolgimento degli studenti delle scuole superiori. L’ho girata al collega che dirige l’istituto prescelto, il quale l’ha accolta con interesse; salvo però richiamarmi preoccupato dopo un paio di giorni, per comunicarmi di essere in difficoltà di fronte alle resistenze opposte da alcuni docenti. Per costoro, Toaff era un personaggio squalificato sotto ogni punto di vista, umano e professionale: sbugiardato dalla storiografia seria, scaricato dall’università presso la quale lavora, messo all’indice da tutta la comunità ebraica, ripudiato dallo stesso anziano genitore. Oltre che squalificato, dunque, anche squalificante: non era quindi il caso di associare il suo nome a quello dell’istituto, di rendersi complici della divulgazione delle sue aberranti ipotesi.

Sono rimasto di sasso. Avendo letto il libro, al contrario di questi docenti, e conoscendo la polemica che ne era conseguita, sapevo che non un solo appunto aveva potuto essere avanzato sulla correttezza della documentazione prodotta da Toaff. Sapevo che l’università di Tel Aviv, in luogo di scaricarlo, aveva difeso a spada tratta la serietà del suo lavoro, e che l’anziano Elio Toaff non si era mai sognato di ripudiare il figlio o di sconfessarne l’opera. Avrei voluto chiedere un incontro con questi docenti, metterli di fronte all’assurdità delle loro affermazioni e più in generale del loro atteggiamento, perché se pur una qualche motivazione ci fosse stata, tanto più opportuna avrebbe potuto risultare l’occasione per fare chiarezza. Volevo anche far comprendere loro che il rituale che celebreranno tra breve, quella liturgia della memoria che tutti i fine gennaio di ogni anno gli studenti subiscono ormai passivamente, preparata dagli opportuni corsi di aggiornamento e convegni su “come insegnare la Shoah”, non ha il minimo valore didattico ed educativo, se confrontata alla possibilità di comprendere cosa c’è davvero alle radici dell’antisemitismo.

Ho poi rinunciato, un po’ per non mettere in difficoltà il mio collega, che si trovava preso tra due fuochi, un po’ perché mi erano veramente cascate le braccia. L’incontro con Toaff si è dunque tenuto in territorio neutro, è risultato più che mai interessante e credo che conoscere e ascoltare di persona lo storico avrebbe senz’altro contribuito a chiarire le idee dei suoi detrattori. Ma forse anche questa convinzione è frutto del mio eccessivo ottimismo riguardo la capacità umana, o in questo caso forse più ancora la volontà, di capire e di apprendere.

Tutta questa faccenda lascia l’amaro in bocca, perché è l’ennesima riprova della palude di ideologismo su cui galleggia gran parte della cultura contemporanea (in realtà è sempre stato così, ma con queste cose io mi scontro qui e ora). A me ha lasciato però anche la voglia di approfondire a mente fredda alcune sfumature della vicenda, per trarne magari riflessioni di carattere più generale.

Vediamo innanzitutto di riassumere come ho interpretato io ciò che è successo. È successo che Toaff ha cercato di ricostruire, dall’interno, in quanto parte in causa e in quanto studioso specializzato del periodo, la temperie spirituale circolante in una minoranza costantemente tenuta sul filo della precarietà più assoluta. Si è chiesto: come può aver vissuto la propria condizione un gruppo esposto in qualsiasi momento a violenze e vessazioni provenienti dal basso e dall’alto, oggetto di un odio radicato e connesso non a situazioni economiche e politiche contingenti, ma ad un sostrato creato nei secoli dalla predicazione cattolica (e ulteriormente rafforzato da quella protestante), fatto proprio all’epoca della secolarizzazione dalla frange più estremistiche della sinistra, per l’identificazione di ebraismo e borghesia finanziaria, e di destra, per il riconoscimento di una filiazione diretta della modernità, intesa come rottura dei vincoli tradizionali, dallo spirito e dal pensiero ebraico?

Quello che ha trovato, e non con una inchiesta da rotocalco, ma in decenni di ricerca documentale accuratissima, è un’umanità composita, tutt’altro che acquiescente al ruolo di capro espiatorio buono per tutte le stagioni al quale il popolo ebraico sembra essere inchiodato. In questo magma si muovevano figure ambigue di ogni risma, avventurieri, mercanti di schiavi, rabbini avidi e corrotti, poveri cristi e fior di mascalzoni. Insomma, quel mondo non era poi molto diverso da quello dei “gentili”; vigevano in esso le stesse regole di sopravvivenza o di prevaricazione sociale. Anzi, erano forse più feroci, perché agli ebrei erano preclusi molti degli spazi d’azione o di fuga consentiti agli altri. Ora, stante la particolare situazione di continua precarietà in cui vivevano, le pressioni cui erano sottoposti e non ultima la speranza in una promessa di imminente riscatto che li cementava e li aiutava a sopravvivere, è anche assai probabile che un qualche spirito di rivalsa, un desiderio di vendetta, un tentativo di anticipare, magari attraverso rituali magici cruenti o sacrileghi, la resa dei conti, serpeggiasse, soprattutto in alcune frange estremistiche, ma anche in vasti strati di quel mondo aschenazita che non aveva conosciuta la relativa “laicizzazione” e contaminazione medievale del ramo sefardita.

In definitiva, secondo Toaff, se davvero ci importa della correttezza storica dobbiamo uscire dal cliché dell’ebreo-vittima, definitivamente consacrato dalla tragedia della Shoah, e studiare la vicenda ebraica da tutte le possibili angolature. A costo di scoprire che gli ebrei sono uomini come tutti gli altri, nel bene e nel male.

La cosa, uno pensa, non dovrebbe essere così scioccante. E invece, a quanto pare, lo è. Ammettiamo che possa esserlo su un piano emotivo, perché si parla di un popolo che ha corso il rischio della totale estinzione in una manciata di anni; ci sta anche questo, un automatico surplus di rispetto dettato dall’entità della tragedia e anche, e soprattutto, dal senso di colpa per averla lasciata accadere. Qui però il problema sembra essere un altro: sembra essere costituito dalla costruzione di un vero e proprio tabù, dalla recinzione di questo popolo e della sua storia in un ambito “sacralizzato”, che è come dire separato dalla realtà e della concretezza “umana”. Il che significa in fondo portare a termine quell’opera che ai carnefici nazisti non è riuscita. Destituire un popolo della sua “umanità”, sia pure in apparenza per una promozione, per un riconoscimento speciale della sua tragedia (che non a caso era chiamata sino a ieri Olocausto, quasi fosse una scelta di immolazione, di volontario sacrificio), significa estrometterlo dalla storia, o proiettarlo in una storia speciale, che è poi la stessa cosa.

Proprio a questo progetto di oleografica imbalsamazione, nel quale il tentativo di risarcimento va a braccetto con la volontà di chiudere una buona volta la pratica, archiviarla e mettersi il cuore in pace, ha cercato di opporsi Toaff. Il quale, torno a ripetere, non ha affatto affermato che gli omicidi rituali e l’utilizzo del sangue umano in funzione medicinale o alchemica fossero la prassi quotidiana, e neppure che fossero comprovate usanze, seppure sporadiche: ha detto che, alla luce delle testimonianze fornite non solo dalle confessioni estorte, ma da lettere, da testi marginali alla Torah, da ricette per la creazione di medicamenti e da prescrizioni sanitarie, si evince come queste idee non fossero poi così estranee, almeno a certi ambienti e in certe aree.

A questi risultati i critici di Toaff hanno opposto, come abbiamo visto, delle obiezioni sul metodo e delle pregiudiziali sul merito. Per quanto concerne le prime, hanno sostenuto che lo storico ha affastellato montagne di indizi senza addurre nessuna prova. Manca la pistola fumante, manca una credibile “certificazione” di avvenuti rapimenti, o delitti, o sacrifici o rituali di sangue. Le confessioni non valgono, perché estorte con la tortura: le accuse non valgono, perché frutto di psicosi collettive o di biechi interessi privati, o del tentativo di sviare sospetti; le testimonianze non sono attendibili per la stessa ragione; i giudizi non valgono, perché pronunciati da magistrati pregiudizialmente ostili agli ebrei e propensi a dare credito a qualsiasi accusa nei loro confronti.

Certo, se l’intento di Toaff fosse stato davvero quello di dimostrare che i sacrifici rituali erano all’ordine del giorno gli sarebbe stato difficile produrre uno straccio di prova. Non credo ci siano in circolazione provette quattrocentesche contenenti sangue essiccato di fanciulli non circoncisi. Allo stesso modo, però, a voler essere pignoli, non esiste un solo documento firmato da Hitler nel quale si diano disposizioni per lo sterminio di massa: questo dovrebbe indurci a dubitare che Hitler ne fosse a conoscenza, come sostiene qualche negazionista? O farci pensare che fosse contrario? O addirittura, che lo sterminio non sia mai avvenuto?

Per quanto concerne il merito invece gli hanno rimproverata, nel caso migliore (l’altro, quello dell’accusa di antisemitismo, non val neppure la pena considerarlo) la non-opportunità del suo assunto: come a dire, perché non te ne stai calmo, visto che ci sono già sin troppi negazionisti e revisionisti e neonazisti che si danno un gran daffare a screditare e insozzare gli ebrei? Quasi che il lavoro dello storico dovesse tener conto della “opportunità”, anziché essere volto a indagare e ricostruire per quel che è possibile una verità sempre tutta da riscoprire.

La serietà con la quale Toaff ha impostato il suo lavoro, e il coraggio col quale lo ha portato avanti, lo mettono già di per sé al riparo da entrambe le imputazioni. Per chi si muove senza paraocchi il percorso da lui compiuto non mi pare così difficile da seguire: è sufficiente leggere il libro. Per quanto mi concerne, ad esempio, la lettura non ha smosso di una virgola il mio convincimento che le accuse, ripetute nei secoli praticamente in fotocopia, fossero frutto di fantasia, di fanatismo e di malafede: ma mi ha fornito anche un quadro credibile nel quale inserire e in base al quale comprendere un po’ meglio quei rigurgiti d’odio che riuscirebbero altrimenti inspiegabili, se non nei termini generici di una ignoranza “coltivata” e strumentalizzata. Mi sono anche chiesto, come peraltro hanno fatto molti dei suoi critici, se il libro potesse suscitare in tutti lo stesso effetto: e mi sono risposto che questo non era un problema dell’autore, ma dei suoi lettori. Allo stesso modo, il fatto che sul web Pasque di sangue compaia in versioni scaricabili offerte da vari siti fondamentalisti islamici non può essere addotto a prova di una sua “intelligenza col nemico” e di una oggettiva pericolosità. Ragionando in questi termini dovremmo astenerci dal trattare di qualsiasi argomento, perché ogni nostra parola può essere strumentalmente travisata.

E qui volevo arrivare. In sostanza, la vera accusa mossa a Toaff è quella di essere stato “politicamente scorretto”. Evidentemente ha toccato qualche nervo scoperto, cosa tutt’altro che infrequente in un momento in cui si hanno sempre meno sicurezze e di nervi allo scoperto ne escono un sacco. La faccenda della “correttezza politica” è tirata in ballo ormai in ogni occasione, persino quando l’argomento sono i gatti: tanto che la storia sta cominciando a stancare, perché uno strumento in teoria concepito a salvaguardia di posizioni deboli a furia di essere malamente usato è divento un’arma, e di offesa piuttosto che di difesa. Verrebbe quindi da liquidare il tutto come una ennesima moda intellettuale, partorita in questo caso dell’ipergarantismo anglosassone, arrivata da noi d’importazione ed interpretata naturalmente con il solito fariseismo indigeno (non c’è mai stata in giro, non solo nel dibattito politico, ma in ogni forma di relazione, tanta scorrettezza). In realtà è qualcosa di molto più serio, connesso ad una crisi d’identità della cultura occidentale talmente profonda da metterne in forse i presupposti. Vale la pena parlarne.

La correttezza è un abito mentale e spirituale, attiene all’etica, ne è anzi il fondamento. Ma appena le si appiccica un’etichetta non è più tale. Il “politicamente” non c’entra affatto con l’etica: implica una trattativa, situazioni di compromesso imposte, non modi di sentire condivisi. Una corretta attitudine è quella che agisce in ingresso, su come si pensa e ci si relaziona, non in uscita, come un guinzaglio imposto alla comunicazione e al comportamento. Il ricorso ad un “galateo” delle idee, ad una sorta di disinfestazione linguistica, a liste di proscrizione e di prescrizione dei contenuti, maschera un disprezzo e una sfiducia di fondo nei confronti dell’umanità (e nella sua applicazione “integralista” dà origine a derive assurde e ridicole). Non importa che a dettarlo sia un disegno di dominio (non a caso la “revisione linguistica” è una delle prime preoccupazioni dei regimi totalitari) o una confusa volontà di riparazione dei torti naturali e storici: di fatto ogni canone di ortodossia del pensiero è una gabbia, e le gabbie non hanno alcuno scopo educativo, sono strumenti di contenzione. Il problema non è dunque che qualche mentecatto neghi la Shoah, o che si chiami spazzino un operatore ecologico e bidello un collaboratore scolastico: il problema sono miliardi di esseri umani che non hanno gli strumenti culturali per capire che di mentecatti si tratta, o che la dignità di un lavoro sta nel modo in cui lo si svolge, e non nei termini usati per definirlo.

Ora, so bene che di fronte a constatazioni come questa non resta che alzare le braccia e arrendersi sconfortati: ma penso sia almeno doveroso cercare di comprendere perché le cose stanno così e che significato viene ad assumere, in un quadro del genere, l’applicazione del “politicamente corretto”.

Io la riassumerei così. Il pensiero occidentale ha coltivato negli ultimi tre secoli il sogno illuministico di una “uscita dalla minorità” dell’umanità, di una redenzione dal basso che avrebbe dovuto realizzarsi educando negli uomini gli strumenti per forgiarsi una coscienza e una dignità. Magari era un sogno troppo ambizioso, ma quantomeno alimentava una speranza e indicava la direzione da seguire per avvicinarsi il più possibile alla sua realizzazione. Non ha funzionato, l’illuminazione risulta fioca, e non tanto perché l’obiettivo fosse irrealistico (si trattava di una meta ideale, del “legno storto” in cui l’uomo è intagliato era consapevole anche Kant), ma perché l’energia va dispersa o è stata convogliata in un’altra direzione, e alimenta oggi un diverso disegno. Il sogno di un’autonomia intellettuale dell’individuo è andato a braccetto per un certo periodo con quello di una sopravvivenza materiale garantita a tutti: giustamente, perché al di sotto di quella soglia non c’è possibilità di vivere una vita dignitosa, e quindi l’autonomia non esiste. Il problema è che quella che doveva essere una condizione è diventata il fine, ha prevalso ed ha creato una nuova schiavitù. Alla sopravvivenza si è sostituito il benessere, alla risposta ai bisogni immediati la creazione di quelli superflui.

Con l’illuminismo, inteso come processo di razionalizzazione delle esperienze e delle idee che ne conseguono, l’uomo ha sancito la definitiva presa di possesso del suo mondo, sia naturale che umano: ma questa presa di possesso non ha affatto “realizzato” quella ragione che l’ha resa possibile. La lotta secolare che ha opposto il pensiero razionale a miti, superstizioni, feticci si è dialetticamente rovesciata nel suo opposto; ha generato un’altra forma di irrazionalità, illusioni e idoli d’altro conio, primo e centrale quello dell’infinito sviluppo. La macchina della soddisfazione dei bisogni materiali bene o male nel secolo scorso ha funzionato (mentre in quello nuovo ha cominciato a perdere vistosamente colpi), sia pure mantenendo vistose diseguaglianze e ingiustizie sociali enormi: ha evitato ad esempio le grandi carestie che ancora nell’800 anche in Europa producevano milioni di morti per fame, ha limitato le pandemie, ecc… Per funzionare bene però questa macchina necessita che vengano limati il più possibile gli attriti, o meglio, di avere di questi ultimi il pieno controllo e la gestione.

Il sistema usato per il contenimento è quello della parcellizzazione (il vecchio divide ed impera declinato nell’era digitale), che si ottiene con un procedimento insiemistico, individuando e caratterizzando in maniera forte, come destinatarie di specifici diritti, sempre nuove “categorie sociali” (negli anni sessanta i giovani e i neri, in quelli successivi le donne, gli omosessuali, gli immigrati, oggi anche gli animali) in luogo di quelle trasversali precedenti (operai, contadini, borghesi, ecc…), molto meno funzionali alle ultime evoluzioni del disegno. Queste categorie vengono cooptate attraverso un riconoscimento ufficiale, loro e dei loro particolari problemi, soprattutto attraverso la concessione e l’alimentazione di una visibilità specifica: ma le concessioni non devono andare a danneggiare o a svantaggiare le altre. L’importante è che ciascuna lotti per i cavoli suoi, che il confronto non avvenga mai sui problemi universali dell’uomo, perché questo potrebbe far crollare tutto il castello. È un esercizio di equilibrio delicatissimo, che necessita di strumenti di controllo e di sensori particolarmente raffinati. Sembra la trama di quelle commedie americane degli anni cinquanta nelle quali Tony Curtis ha cinque amanti e deve gestirle tutte senza farle incontrare. Il politicamente corretto è il risultato di tutte queste equalizzazioni, divisioni calibrate di spazi e tempi, partecipazioni misurate in quote e percentuali. Spostando l’attenzione sulla quantità e sugli aspetti formali riesce a nascondere il vuoto di contenuti.

Politicamente corretto” sarebbe quindi stato, nel caso di Toaff, se proprio non aveva di meglio da fare, produrre una serie di documenti processuali che evidenziassero, essendo l’uno il calco dell’altro, le iniquità dei procedimenti e l’infondatezza delle accuse, per riaffermare quella che è la vulgata ufficiale della vicenda e chiudere il caso una volta per tutte. L’aver avanzato delle ipotesi diverse, magari tutte da verificare, magari azzardate, ha fatto scattare i sensori: come fosse stata accesa una sigaretta in una biblioteca, ha cominciato a piovere. Gli equilibri sono stati turbati: e il paradosso sta nel fatto che i meno turbati sembrano essere proprio gli ebrei.

Credo che questo dipenda dal fatto che, come me, continuano ad essere convinti che le accuse per omicidio rituale loro rivolte negli ultimi nove secoli non abbiano alcun riscontro nella realtà dei fatti, ma trovano assurdo negare che possano averne qualcuno almeno nell’immaginario dei loro antenati. Dovrebbero pensare che mentre a migliaia venivano immolati sui roghi sacrificali dai cristiani, nessuno si augurasse di poter in qualche modo ripagare questi ultimi con la stessa moneta? Sarebbe inumano. A meno che, e questo ci riporta al discorso del “cordone sanitario”, non si voglia asserire che non solo la storia ebraica, ma gli Ebrei stessi, per loro natura, sono diversi dagli altri. Forse è proprio questa la strada: a me i “paradigmi indiziari” suggeriscono questa direzione.

Prima di imboccarla, però, preferisco accomiatarmi da Toaff, il quale peraltro, e buon per lui, non ha alcun bisogno della mia difesa. Vorrei invece provare a delineare un percorso tutto mio, che imbocca sentieri laterali (e mi scuso in anticipo, perché tirerò in ballo argomenti poco piacevoli e alla lunga anche noiosi). Ciò dovrebbe consentirmi di arrivare al punto, o almeno, a quello che io credo essere il punto, giocando di sponda, abbandonandomi magari a considerazioni scontate, ma che evidentemente non sono tali per i pretoriani dello storicamente e politicamente corretto, visto che non le hanno minimamente messe in conto.

Partiamo dalla possibilità che alcune delle confessioni fossero “spontanee”, nel senso di non dettate parola per parola dagli inquisitori. Chiariamo subito: i resoconti dei processi, di questi agli ebrei come di quelli contro gli eretici o della successiva caccia alle streghe, non lasciano dubbi. Dopo giorni e giorni nelle mani degli aguzzini appare semmai incredibile che qualcuno non abbia confessato. Quelli che lo hanno fatto prima ancora che le torture avessero inizio sapevano bene a cosa andavano incontro, compreso il fatto che prima o poi avrebbero ceduto, e hanno voluto risparmiarsi almeno una parte del supplizio o hanno creduto in questo modo di scamparla. Ciò che rivelavano era né più né meno quello che gli inquisitori volevano sentirsi raccontare, dettagli compresi. Basta porre nel modo giusto le domande, se l’interrogato è appeso per i piedi, per ottenere le giuste risposte.

Eppure, in qualche caso le rivelazioni devono aver lasciati sorpresi anche gli stessi carnefici, perché sembravano rinviare ad una rete fittissima e oscura di contatti e trovavano riscontro nelle ricostruzioni incrociate. Questo significa che era in atto una congiura, che gli ebrei celebravano le loro pasque con riti sacrificali e che fioriva il commercio di sangue cristiano? No, certamente: ma significa che senz’altro di queste cose qualcuno all’interno delle comunità ebraiche parlava, per millanteria, per calcolo, per credulità o per il bisogno di sfogare almeno nelle fantasie il suo rancore. Leggende e dicerie e persino segrete ricette circolavano tra quei poveri diavoli (e questo Toaff lo documenta) e nutrivano il loro immaginario. Il resto lo facevano le circostanze, la paura, la tortura e, spesso, un’attitudine psicologica che induce anche individui in pieno possesso delle loro facoltà a distorcere la realtà.

Recentemente ho sentito rievocare una seduta spiritica cui avevo partecipato quarantacinque anni fa come una notte da tregenda, piena di misteri insoluti e di una tensione da cardiopalma. In realtà, a quello che io ricordo, l’unica cosa misteriosa era uno strano rumore di fondo che inquietava il buio, e che dopo un po’ capii essere provocato da un amico, semplice spettatore, intento in un angolo della stanza a sgranocchiare un peperone intinto nell’olio (certamente una cosa insolita alle tre di notte, ma non così tanto per l’amico in questione). E la tensione, se c’era, era di quelle ragazze che cercavano di sottrarsi agli approcci di spiriti molto materiali e dispettosi.

La stessa esperienza era stata evidentemente vissuta in maniera molto diversa da me e dal narratore, e sono convinto che quest’ultimo fosse pronto a giurare di aver avuto un incontro ravvicinato con l’aldilà, mentre io ero solo rammaricato per non averne avuto alcuno di altro tipo. Se lo avessero sottoposto ad interrogatorio, senza alcun bisogno di tortura avrebbe raccontato di chissà quali occulti commerci, non fosse altro perché era un neofita, e quelle farse si svolgevano in un edificio paurosamente fatiscente (quell’ala crollò l’inverno successivo), completamente privo di illuminazione, con mura e pavimenti scricchiolanti e ragazze che squittivano nel buio. Ha continuato a rivivere e a raccontare così la faccenda per quasi mezzo secolo, convincendosi ogni volta di più di aver vissuto una esperienza sovrannaturale. Questo tizio è tutt’altro che un idiota, ma sarebbe stato un testimone ideale per gli inquisitori.

Lo stesso vale per quei processi di rielaborazione del nostro vissuto che tutti più o meno intensamente attiviamo. Il comportamento mantenuto in una particolare occasione viene, attraverso i criteri selettivamente orientati della memoria, accomodato, enfatizzato, in certi casi completamente ribaltato: i connotati reali di quanto è avvenuto si stemperano e sono sostituiti da ciò che è elaborato dalla fantasia, dalle aspettative, a volte da un senso di colpa, sempre dall’immagine che si vuole dare di sé. Se ho partecipato ad una innocente cerimonia, nel corso della quale sono state comunque evocate disgrazie sui nemici, vendette divine, arcangeli giustizieri, poco alla volta, nella narrazione che andrò a farne, è possibile che mi convinca che quelle vendette siano già in atto, o quanto meno che cerchi di darlo ad intendere ad altri. Oppure, messo alle strette sotto tortura, con la prospettiva di finire comunque sul rogo, che scarichi tutto il mio odio per i carnefici facendo intravvedere oscuri pericoli che incombono sul loro capo. Morire per morire, almeno farlo per qualcosa di concreto, o che tale sia ritenuto dagli altri, e incuta inquietudine nei persecutori e un sottile brivido di rivincita nei perseguitati.

Ora, proviamo a trasporre questa rielaborazione nella realtà del medioevo, e nella fattispecie del mondo medioevale ebraico, carico ancor più di quello dei gentili di attese palingenetiche e dell’urgenza di sottrarsi prima possibile ad una condizione intollerabile di terrore fisico, di offese e di quotidiane umiliazioni. Non mi sembra così improbabile che qualcosa del genere potesse accadere. E vado oltre: non mi pare nemmeno impossibile che qualche fanatico, o qualche furfante, possa aver sul serio provato a dare corpo a queste leggende. L’atmosfera, il clima erano quelli. Un paio di secoli più tardi gran parte del mondo ebraico, soprattutto quello della diaspora orientale, avrebbe dato credito ad un ciarlatano come Sabbatai Zevi, che invitava a praticare ogni sorta di abominio per accelerare la redenzione. E dopo altri settant’anni la cosa si sarebbe ripetuta tra gli aschenaziti polacchi con Jacob Frank. Qualsiasi strategia di difesa o promessa di riscatto trovava un uditorio vasto e affamato: perché non anche i rituali sacrificali?

Ma trasferiamoci nuovamente, torniamo all’oggi: non è esattamente quello che sta accadendo, pur in un clima diversamente oppressivo? non c’è un sacco di gente che crede a qualsiasi cosa, dai marziani ai fantasmi, ai complotti galattici, alle medicine miracolose, e si affilia e si affida totalmente alle sette e alle chiese le più improbabili? I meccanismi attraverso i quali si creano le leggende, metropolitane o rurali che siano, sono svariati. I risultati sono più o meno sempre gli stessi. Una volta diffusa, la leggenda può sempre trovare qualcuno che prova ad inverarla. A furia di sentirti addossare un ruolo, dice Pirandello, finisci per volerlo davvero recitare sino in fondo, o almeno per ritenere che ti convenga farlo.

Proviamo ora a fare il ragionamento opposto, a chiederci se la faccenda dei sacrifici rituali ha alle spalle qualche fondamento storico, o si tratta solo di ancestrali psicosi collettive. È un argomento per stomaci buoni, ma va affrontato.

L’accusa di omicidio rituale rivolta agli ebrei, come vedremo, ha una sua storia: ma il tema dei sacrifici umani, del cannibalismo rituale e dell’uso del sangue umano per gli scopi più peregrini non ha atteso gli ebrei per essere di moda. Sacrifici particolarmente atroci di bambini, immolati al dio Moloc, sono attribuiti dagli autori classici e dalla Bibbia ai Fenici: a Cartagine erano celebrati pubblicamente ancora nell’era di Annibale (Diodoro Siculo) e segretamente in epoca imperiale (Tertulliano). Ma anche altrove non andava meglio, se quasi tutti gli imperatori, a partire da Augusto e Tiberio sino al IV secolo, hanno cercato (a quanto pare inutilmente) di porre termine a questi rituali in tutte le provincie. Fuori dell’impero, presso gli Sciti e i Mongoli le sepolture dei sovrani o dei grandi capi erano accompagnate da vere ecatombi sacrificali.

Non era una pratica solo “barbarica”: i poemi omerici, e così pure il teatro di Euripide, ci dicono che sacrifici propiziatori o espiatori erano praticati anche in Grecia (la povera Ifigenia ne sa qualcosa). Roma non era da meno: Dione Cassio racconta che durante le celebrazioni del trionfo di Cesare vennero compiuti sacrifici umani, che pure erano stati proibiti dal Senato agli inizi del primo secolo a.C. (il che significa comunque che anticamente erano in uso). Cesare a sua volta ci informa di un rituale druidico nel corso del quale le vittime venivano arse vive, e sottolinea come presso i Galli la tortura dei prigionieri assumesse un significato sacrificale. Sui Germani è invece Tacito a ragguagliarci, e alcuni dei loro rituali particolarmente cruenti saranno oggetto di un bando ancora mille anni dopo, da parte di Enrico il Leone. Tutte le popolazioni barbariche, dagli Unni ai Goti ai Longobardi, e non ultimi i Franchi, condividevano, sia pure con fantasiose varianti locali, l’usanza del sacrificio, spesso di massa, di prigionieri o di schiavi, oltre a quello delle vedove. Il resto, dalle decine di migliaia di vittime delle grandi celebrazioni azteche ai riti segreti delle sette indiane o cinesi, è storia del recente passato. O del presente, se consideriamo le macabre storie di sette sataniche che la cronaca nera ci racconta anche in Italia, o le immolazioni e autoimmolazioni di massa che dalla Guyana alla Svizzera ci hanno lasciati sconcertati negli ultimi vent’anni.

Oltre a sacrificare vittime umane alle divinità guerriere, gli Sciti e gli Slavi e i Bulgari libavano il loro sangue. Ma è un uso attestato presso molti altri popoli. Secondo Erodoto i guerrieri della Media e della Lidia si succhiavano vicendevolmente il sangue, mentre i Carii, popolo di guerrieri mercenari, bevevano in comunione quello di bambini appositamente scannati, per rinsaldare lo spirito di corpo. Pausania racconta che Licurgo proibì i sacrifici espiatori normalmente celebrati a Sparta durante le epidemie, sostituendoli con fustigazioni a sangue, dalle quali si raccoglieva il liquido da offrire alla divinità. Presso i romani l’uso è certificato persino linguisticamente: Festo fa derivare dall’arcaico termine assir, col quale i latini denominavano il sangue, l’assiratum, una bevanda rituale mista appunto di sangue e vino. D’altro canto Plutarco racconta nella Vita di Publicola che i congiurati contro Tarquinio il Superbo suggellarono il giuramento bevendo sangue umano; e fa ripetere il rituale, in quella di Cicerone, da Catilina e dai suoi complici, con l’aggiunta della degustazione delle carni della vittima.

Evidentemente, soprattutto in questi ultimi casi, si tratta della ripetizione di un cliché stereotipato o di un travisamento delle fonti (anche se non mi stupirebbe che Cicerone stesso avesse fatto circolare questa voce). E tuttavia il cannibalismo rituale era più diffuso di quanto non si voglia pensare. A dispetto del prevalere nella seconda metà del ‘900 di un pensiero “negazionista”– il cui testo sacro fu Il mito del cannibale, di William Arens – che imputava ad un atteggiamento razzista dell’antropologia precedente l’attribuzione di questo costume ai popoli del terzo mondo, oggi l’esistenza e la diffusione anche antichissima di pratiche cannibalesche a scopo rituale è comprovata dagli studi su reperti umani del neolitico e del paleolitico, rinvenuti indifferentemente tanto in Cina quanto in Africa, in Europa o in America.

Per il mondo antico non ne parla solo Erodoto, che lo attribuisce ai Massageti del Mar Caspio e ai Callati dell’India (tra l’altro, a testimonianza della sua incredibile modernità di vedute, dandone anche una giustificazione: “A me pare che Pindaro abbia scritto bene, quando disse che la consuetudine è regina del mondo”). Viene attribuito anche ai “civili” popoli della Mesopotamia, presso i quali gli adepti del culto del sole e della luna arrostivano bambini appena nati e se ne cibavano durante le cerimonie. O a quelli dell’Ellade: Diodoro Siculo racconta che uno dei successori macedoni di Alessandro, Apollodoro, dopo aver immolato un bambino ne diede da mangiare la carne e da bere il sangue misto a vino ai suoi uomini, per legarli ad un indissolubile giuramento di fedeltà.

Anche le testimonianze più recenti, quindi più verificabili, sono svariate: vanno dal racconto di Hans Staden, che visse a lungo come prigioniero tra i Tupì del Brasile, a quelli dei compagni di Cook relativi ai Maori e agli abitanti delle Fiji (l’astronomo imbarcato al seguito della spedizione sulla Resolution scrisse: “non li mangiano per mancanza di cibo animale, ma a sangue freddo, perché ogni giorno pescavano tanto pesce quanto poteva bastare per noi e per loro: la loro pratica di questa orrida azione avviene per scelta”); dagli studi antropologici di Schweinfurth e di Du Chaillu sui Niam Niam e sui Fang in Africa a quelli di Beattie sugli Inuit, di Gaidusek sui Fore della Nuova Guinea, di Pierre Clastres sugli Atchei del Paraguay.

Potrei andare avanti all’infinito, ma non mi sto affatto divertendo. Volevo solo ribadire che ciò che ha fatto storcere il naso ai detrattori di Toaff, l’ipotesi che qualcuno potesse ragionare in termini di riti sacrificali o addirittura cannibaleschi e di uso magico del sangue, non era poi così campata per aria. Va da sé che per la gran parte dei casi si tratta di fantasie, che l’attestazione di questi usi è mirata a denigrare degli avversari o a preparare la strada allo sterminio o alla schiavizzazione di popoli considerati barbari e inferiori, e che anche quando non ci siano queste motivazioni le testimonianze sono spesso di seconda o di ventesima mano, e vengono da soldati o marinai il valore delle cui imprese è proporzionale alla cattiveria dei nemici, o da mercanti che giustificano i prezzi delle loro mercanzie con i pericoli corsi per acquisirle. Al netto, però, resta il fatto che gli usi sacrificali con vittime umane c’erano, erano diffusi tra tutte le popolazioni, ed erano durissimi da sradicare anche quando il potere civile o religioso tentava una umanizzazione dei costumi (ne sanno qualcosa gli inglesi in India).

E non è finita. Non solo questi usi c’erano: ci sono ancora. I satanisti torinesi e californiani non li ha torturati nessuno (purtroppo) per indurli alla confessione. Ma c’è dell’altro. In Come l’uomo inventò la morte, dell’antropologo inglese Timoty Taylor, si riportano i casi di bambini ritrovati smembrati, in Sudafrica e persino in Inghilterra, delitti associabili con ogni probabilità a un rituale per ricavare medicine, i cosiddetti muti. “Ancora oggi – scrive – è un fatto molto più comune di quanto molti suppongano, con parecchie centinaia di casi documentati negli anni ’90 nell’India settentrionale, in Sudafrica e altrove”. “Ma, aggiunge, il tentativo di criticare, o addirittura di investigare, la produzione di muti umano è considerato da alcuni come la prova dell’incapacità di comprendere i valori di una cultura differente, una cultura la cui visione del mondo e della vita è tanto valida quanto la nostra”. E cita alcuni patologi legali sudafricani i quali testimoniano che “in Sudafrica il muti non è considerato un argomento politicamente corretto”.

Non c’era da dubitarne.

Constatato che l’esistenza di rituali sacrificali, tanto quella storica come quella contemporanea, non è solo un parto di fantasie malate o un pretesto strumentale per demonizzare gli avversari, torniamo ai nostri ebrei. Ci chiedevamo se dietro la rete di protezione che li circonda non ci fosse per caso una presunzione di diversità. Ed è questo che vorrei ora provare a verificare.

Che gli Ebrei siano diversi, almeno in una certa misura e per il discorso che ci interessa, è anche vero. È vero cioè che la legge ebraica proibisce espressamente i sacrifici umani già a partire da Mosè, e che la Bibbia sconfessa l’immagine di un dio assetato di sangue sacrificale fin dall’episodio, pur controverso, di Abramo. Nel libro della Genesi, e poi particolarmente nel Levitico, si esplicita il divieto tassativo di consumare sangue di qualsiasi essere vivente, ribadito dal Talmud e dagli scritti rabbinici. Proprio questo divieto è stato il principale argomento a difesa invocato dagli ebrei nei processi loro intentati, e utilizzato all’occasione dai loro protettori. Ma non è stato sufficiente ad evitare che diventassero essi stessi i principali capri espiatori.

Furono comunque i cristiani, e non gli ebrei, i primi sospettati di compiere rituali di sangue. Il sospetto nasceva nei gentili da un’interpretazione equivoca dell’eucarestia, ed era alimentato dal fatto che i riti cristiani si svolgevano generalmente in luoghi appartati o nelle catacombe: è anche probabile che gli ebrei stessi non fossero estranei alle denunce (anche se lo stesso Tertulliano, che non era molto tenero, li scagiona): in fondo nella cerimonia eucaristica veniva perpetrata una violazione del divieto e gli stessi adepti del cristianesimo la consideravano tutt’altro che simbolica. Le voci di pratiche sacrificali orrende e di “agapi” a base di carne di fanciulli erano così diffuse che Plinio il Giovane, console in Bitinia all’inizio del II, secolo, riferisce a Traiano di aver fatto torturare due schiave cristiane per sapere quanto ci fosse di vero. Per la cronaca, le due schiave negarono tutto.

Non fossero bastati i pagani, durante la guerra intestina che lacerò il cristianesimo nei primi secoli furono le diverse sette a rimpallarsi le accuse dall’una all’altra; a noi, per ovvi motivi, sono rimaste solo quelle rivolte agli gnostici e ai manichei. Erano accuse adattabili ad ogni avversario, e infatti Sant’Agostino non esitava ad attribuire ai montanisti sia i sacrifici che l’uso di sangue umano per impastare il pane azimo. Ed erano portate con maggior violenza proprio da chi dalle sette si staccava. Nella sua storia della chiesa delle origini Eusebio parla di persecuzioni innescate alla fine del II secolo dalle false confessioni di apostati, che attribuivano ai loro ex fratelli questi riti sacrificali.

All’epoca della grande esplosione ereticale, tra l’XI e il XIV secolo, le accuse furono riesumate e di volta in volta usate nella persecuzione degli Erbertiani, dei Catari, degli Albigesi, dei Valdesi: ma anche contro i Templari, e nel XIV secolo contro i Fraticelli. Nel ‘500 vennero fatte proprie dai protestanti, e girate a quegli stessi domenicani che ne avevano fatto uso nei confronti degli eretici. Ancora tre secoli dopo i cattolici irlandesi erano accusati, non nelle bettole, ma nel parlamento inglese, di scannare bambini sugli altari. Non solo: a testimonianza di una precoce globalizzazione di ogni sorta di corbelleria, in Cina nella seconda metà dell’Ottocento, all’epoca dei Tai Ping, scoppiarono a più riprese tumulti contro i missionari, accusati di rapire fanciulli per prenderne gli occhi, il cuore e il sangue. E analoghe accuse erano rivolte ai francesi verso la fine del secolo in Madagascar.

Non parliamo poi di quel accade quando scoppia la caccia alle streghe. È un vero festival delle fantasie più perverse. Prima ancora che i domenicani Sprenger e Kramer pubblicassero il Malleus Maleficarum (1487) la vicenda di Gilles de Rais aveva già dato la stura alle più incredibili accuse di commerci satanici e di rituali sacrificali. In questo caso fu portata alla luce una terrificante vicenda di depravazione, anche se le modalità e le circostanze “politiche” del processo fanno dubitare sia del numero delle vittime (centoquaranta bambini) che delle motivazioni degli omicidi. Sta di fatto che di fronte alla prospettiva della tortura De Rais, sapendosi senza scampo per i delitti che davvero aveva commesso, preferì confessare qualsiasi efferatezza contro natura, comprese le evocazioni demoniache e l’offerta sacrificale dei bambini a Satana. Il che ci rimanda a quanto già visto a proposito delle confessioni.

Quella della stregoneria, dei sacrifici e del sangue divenne comunque a partire dal Cinquecento una vera psicosi. Persino un nipote di Pico della Mirandola, Giovanfrancesco, in un suo dialogo latino (Strix) faceva confessare ad una strega di aver ucciso diversi bambini prendendo loro il sangue. Alla fine del secolo nelle opere di Martin del Rio, in particolare nei Disquisitionum magicarum libri sex, venne raccolto l’incredibile repertorio di perversioni e ossessioni elaborato nei secoli precedenti, a costituire il prontuario al quale avrebbero attinto successivamente tutti gli inquisitori.

Gli Ebrei sono quindi in buona compagnia. Paradossalmente, dopo essere rimasti per un buon tratto al riparo, proprio per via del divieto biblico che potevano accampare, finiscono per diventare i più frequenti destinatari degli attacchi. Fino al XII secolo non abbiamo notizie di processi che li vedono imputati per riti sacrificali, anche se i sospetti di rapimenti e di utilizzo stregonesco del sangue umano da parte di Ebrei si erano già diffusi nel secolo precedente, nel clima di fanatismo diffuso dalle crociate. La prima accusa ufficiale di omicidio rituale è intentata loro in Inghilterra, nel 1144, a Norwich. È solo l’inizio; l’accusa è ripetuta a Würzburg nel 1147, poi a Colonia, e quindi in Francia, nel 1171 a Blois e nel 1191 a Bray sur Seine. Nel secolo successivo la faccenda diventa così grave che debbono intervenire ripetutamente sia il potere civile che quello religioso. Federico II in occasione di un processo montato a Fulda nel 1235 tenta di scagionare una volta per tutte gli ebrei e di porre fine alle denunce, mentre Innocenzo IV emana ben quattro bolle successive in loro favore, ribadendo che ciò di cui vengono accusati è assolutamente contrario alla loro legge. Con scarsi risultati: prima del 1500 i processi sono svariate decine: nell’età moderna si arriverà alle centinaia.

Gli impianti accusatori si ripetono sino alla monotonia, persino nel dettaglio delle formule. Ogni caso ricalca con lievissime differenze quelli precedenti. Spesso non si attende nemmeno l’esito del processo per giustiziare i presunti colpevoli; per bene che vada, gli accusati devono subire la carcerazione e la tortura. A tenere alta la pressione provvedono soprattutto gli ordini regolari, domenicani e francescani in testa (successivamente rilevati dai gesuiti), che buttano nella competizione predicatoria tutti gli stereotipi più collaudati, facendo un minestrone di ostie profanate, crocefissioni blasfeme, evocazioni demoniache. E ogni sconvolgimento interno alla chiesa produce un’ondata di persecuzioni. Così dopo la Riforma il fenomeno dilaga tanto nei paesi cattolici, dove il Santo Uffizio da un lato combatte le superstizioni popolari, ma dall’altro le sfrutta contro ogni forma di differenza, quanto in quelli protestanti, dove non c’è nemmeno la protezione papale a difendere le comunità ebraiche. A sua volta l’Illuminismo, come vedremo, non argina gli attacchi, ma apre piuttosto un altro fronte.

Le accuse si ripetono ancora per tutto l’Ottocento, e non soltanto in Russia o nei paesi slavi. Nel 1840 un caso clamoroso scoppia a Damasco, dove sparisce un frate cappuccino di origine italiana. La comunità cristiana accusa gli Ebrei di averlo sacrificato per bere sangue umano, e malgrado nell’Impero vigesse un rescritto del 1530 di Solimano II, nel quale si decretava che “per l’avvenire nessuna accusa che gli ebrei usino per loro Mazzoth sangue umano possa essere ricevuta da alcun giudice dell’impero”, gli indiziati vengono sottoposti a tortura, e quelli che non muoiono tra i tormenti finiscono per rilasciare complete confessioni. Ne nasce un incidente internazionale, con Lord Palmerston e Metternich che intervengono parlando di barbarie inaudita per il XIX secolo, e alla fine i sopravvissuti vengono scagionati e liberati (tra parentesi: il pontefice dell’epoca scrive a Metternich di “non avere neppure un’ombra di incertezza sulla verità di questa imputazione”; l’anno è lo stesso in cui, come ho già detto, alla Camera dei Lord un parlamentare inglese accusava degli stessi delitti i cattolici irlandesi; e la Sublime Porta è un nemico storico dell’impero asburgico).

L’unica novità positiva riguarda gli esiti. Quello del processo di Damasco è tipico. Nel XVIII e nel XIX secolo oltre il novanta per cento dei casi si concludono con un nulla di fatto (che non è proprio un lieto fine, perché quasi sempre gli ebrei, anche se riconosciuti innocenti, devono lasciare località nelle quali risiedevano da tempo, o addirittura sono vittime di pogrom preventivi). Una più forte presenza dello stato e la laicizzazione dei tribunali offrono maggiori garanzie di protezione contro la superstizione popolare. Questo non impedisce comunque che le accuse di omicidio rituale conoscano addirittura una recrudescenza nell’ultimo quarto dell’Ottocento, in concomitanza con una feroce campagna antisemita lanciata dalla stampa cattolica, in particolare dalla rivista dei gesuiti Civiltà cattolica. E anche nel Novecento la leggenda dei riti sacrificali continua a circolare nell’immaginario più retrivo, soprattutto in Russia e nella fascia mitteleuropea: ormai sono i diversi regimi, da quello zarista a quello sovietico, e poi quelli fascisti, a piegare ed enfatizzare l’antisemitismo ai loro fini, per dirottare sugli ebrei il malcontento popolare, per rinsaldare il consenso o per avvallare le politiche razziali. In realtà ormai il tempo delle leggende del sangue è finito: ma non sono del tutto venuti meno quelli disposti a crederci. Gli altri stanno semplicemente trasponendo l’immagine del “cavar sangue” su un piano metaforico.

La “secolarizzazione” del problema ebraico avviene attraverso un processo che ha il suo culmine nella seconda metà del XVIII secolo, e all’interno del quale mi sembra significativo il caso di Voltaire. Il paladino per eccellenza della tolleranza e dei diritti è un antisemita viscerale. Nel suo Dizionario Filosofico un quarto almeno delle voci ha riferimenti spregiativi agli ebrei. Quelle ad essi specificamente dedicate (da Juif a Sacrifici rituali) sono aberranti. Gli Ebrei sono “un popolo ignorante e barbaro, che raggiunse dopo lungo tempo la più sordida avarizia e la più detestabile superstizione e il più invincibile odio per tutti i popoli che li arricchiscono e li tollerano”. Salvo poi aggiungere “Ma non per questo bisogna mandarli al rogo”. Un grande cuore. Alla voce “Antropofagi” va nel dettaglio. «È vero che nel tempo di Ezechiele i Giudei dovevano conservare l’uso di mangiare carne umana … Ciò è provato. E d’altra parte, perché gli Ebrei non sarebbero stati antropofagi? Sarebbe stata la sola cosa che mancava al “popolo di Dio” per essere il più abominevole popolo della terra». E più oltre, alla voce Jefte, o dei sacrifici umani: “Non possiamo dubitare che gli ebrei facessero dei sacrifici umani: nessun punto della storia è forse meglio appurato”. E cita il Levitico, e i suoi precetti: “Cosa aveva votato Jefte, cosa aveva promesso a Dio con giuramento? Di sgozzare sua figlia e di immolarla in olocausto. E così fece”. Rincara la dose nel Candide, e nel Dialogo del cappone e della pollastra fa dire al primo: “Ricordo bene che ci sono molti paesi, tra cui quello dei giudei, in cui talora gli uomini vengono mangiati gli uni dagli altri” al che la pollastra risponde: “È giusto che una specie così perversa divori se stessa, e che la terra venga purificata da questa razza”.

Sembrerebbero le argomentazioni dell’accusa in un processo per omicidio rituale. I toni, gli argomenti sono quelli. E invece siamo già di fronte a qualcosa di molto diverso. Siamo di fronte all’antisemitismo moderno, all’antisemitismo “laico e progressista”. E razzista. Certo, Voltaire tanto laico non sembrerebbe, e ancor meno progressista: e infatti di questo nuovo atteggiamento è paradigmatico solo fino ad un certo punto. È il più famoso degli illuministi, ma non è certo il più esemplare. È paradigmatico piuttosto di altro, di quel modo d’essere “astioso” che caratterizza troppa parte del pensiero progressista e che trae origine dal rancore e dall’invidia anziché dal senso dell’equità e della fraternità. Voltaire è un uomo avido, meschino, opportunista nelle amicizie e pronto a volgerle in disprezzo, teorico di ogni battaglia e combattente di nessuna. Altro che “coltivare il proprio piccolo orto”: gli danno fastidio anche i frutti di quelli altrui. Ciò che pensa degli ebrei lo pensa in fondo di tutta l’umanità, e quindi parrebbe non fare testo. C’è però qualcosa di visibilmente patologico nel suo antisemitismo (nell’antisemitismo c’è più o meno sempre qualcosa di patologico), ed è l’ossessione dettata dalla paura. Il disprezzo sibilato, ostentato, gridato è un modo per esorcizzare una vera e propria fobia: ed è proprio questo ciò che Voltaire traghetta dal vecchio al nuovo antisemitismo.

Che comunque l’atteggiamento antisemita corrisponda ad un sentire generalizzato tra gli illuministi, sia pure in forme meno esasperate, lo dimostra il fatto che accomuna anche Montesquieu, D’Alambert, D’Holbach, Lichtemberg, lo stesso Rousseau. Unici a salvarsi il solito Diderot, che è anni luce più avanti, e naturalmente Alexander von Humboldt, che si fa un punto, in una Prussia da sempre antisemita, di frequentare i circoli culturali ebraici. Più particolare il caso di Kant; nonostante si cerchi di farne un antesignano del razzismo, e si voglia leggere nella sua Antropologia un manifesto dell’antisemitismo, la verità è che quando parla di razze non ne desume gerarchie, ma soprattutto che i suoi migliori amici erano ebrei.

È da chiedersi allora perché mai gli illuministi manifestino tanta insofferenza nei confronti degli ebrei. Io un’idea ce l’ho, e provo a riassumerla mettendo a fuoco quelli che mi sembrano essere i principali motivi.

Una prima motivazione appare già implicita nell’assunto filosofico centrale dell’illuminismo: l’unico strumento per risolvere i problemi dell’umanità e per fornire delle basi etiche all’esistenza è il pensiero razionale. Di conseguenza è necessario condurre una lotta serrata contro ogni forma di superstizione, prima tra tutte quella religiosa: e se il cattolicesimo è il nemico più prossimo e visibile, perché esercita il suo potere attraverso le monarchie teocratiche, l’ebraismo è il più subdolo, perché la religione ebraica è la madre di tutti i monoteismi. Il suo libro sacro è la sentina di tutte le false credenze che hanno resi schiavi gli uomini e che vengono finalmente smentite dagli esiti della rivoluzione scientifica

Gli ebrei sono malvisti però anche per la loro refrattarietà ad ogni forma di integrazione. Il fatto che siano così ostinatamente decisi a mantenere la loro identità religiosa e culturale costituisce un problema sia che si concepisca l’umanità come un unicum cosmopolita (Kant), che deve essere governato dalla razionalità e guidato dalle stesse leggi e accomunato dagli stessi costumi, sia che, al contrario, si ragioni in termini di identità nazionale (Fichte). Nel primo caso è evidente che l’identità ebraica deve sparire, nel secondo che quella nazionale non deve correre rischi di contaminazione. Se si pensa che gruppi di persone che condividono una cultura, una lingua, una storia, un territorio e un sistema di valori costituiscano una naturale e particolare entità, tenuta assieme dal comune senso di lealtà verso la propria nazione, gli ebrei, in quanto estranei che non condividono con gli altri nulla di tutto questo, in tale entità non trovano posto.

Ciò fornisce un fondamento diverso all’antisemitismo moderno; nel momento in cui, attraverso una deriva dell’organizzazione tassonomica del sapere, l’identità assume una connotazione “razziale”, nasce la teoria che gli ebrei, perennemente esiliati, privi di radici, incapaci di integrarsi con gli altri popoli in alcun luogo della terra, appartengano a una “razza” inferiore, o addirittura la costituiscano.

Altri motivi sono invece legati alla trasformazione dei modelli produttivi e dei rapporti tra i settori economici. In pratica: dopo le scoperte l’esplosione dei commerci internazionali ha esaltato il ruolo della finanza: questa non può più essere demonizzata in base ai vecchi tabù cristiani (e a sgombrare il terreno ci pensa proprio il protestantesimo), e viene anzi istituzionalizzata attraverso l’apertura delle borse: ma il retaggio storico che proprio da quei tabù era stato creato (gli ebrei sono già dannati, e quindi a loro va lasciato l’esercizio dell’usura) costringe a fare i conti con una presenza ebraica nel settore estremamente competitiva. Quindi, nasce un doppio problema: da un lato c’è resistenza a quella che appare (e in effetti è) una “virtualizzazione” dell’economia, di contro ad una concretezza produttiva che è sempre stata appannaggio dei cristiani, non fosse altro per l’esclusione degli ebrei da ogni attività sia agricola che manifatturiera (e infatti, il pendant economico dell’Illuminismo, sia nella versione liberista che in quella fisiocratica, insiste molto sulle attività produttive, primarie, di trasformazione o di commercializzazione che siano): dall’altro c’è la necessità di sottrarre il primato nel settore finanziario a chi lo ha saldamente in mano.

Gli sbocchi di questo duplice fronte di conflittualità sono tutti negativi per gli ebrei. La nobiltà li odia perché hanno agito da tramite finanziario nella transazione dei loro possessi alla borghesia e dei loro poteri alla monarchia. Le popolazioni rurali li odiano perché tanto prima quanto dopo questa transazione il sistema delle esazioni fiscali rimane in genere nelle mani degli ebrei, e i contadini in loro identificano chi li rapina. I borghesi, soprattutto la piccola borghesia, se li trovano di fronte come concorrenti nei commerci e davanti nei ruoli amministrativi. I proletari urbani, infine, cominciano ad identificare negli ebrei il grande capitale che sta dietro le spalle di coloro che li sfruttano. È chiaro che la prospettiva di una loro emancipazione, che li ponga sul piano del diritto alla pari con tutti gli altri, non sorride a nessuno, perché in realtà nessuno crede che possa risolversi in una totale integrazione; l’ebreo è il “marrano” per antonomasia, colui che si cela, si mimetizza, ma mantiene intatte le sue convinzioni, i suoi costumi, i suoi legami, e quindi il suo occulto potere.

Accenno infine ad un’altra sottile ragione, quella espressa nella Dialettica dell’Illuminismo da Adorno e Horkeimer. Secondo i maestri della scuola di Francoforte l’antisemitismo moderno eredita da quello precedente una precisa connotazione teologico-politica e la rende finalmente esplicita, in quanto rappresenta la lotta del Dio cristiano con il Dio ebraico. Il Dio dei cristiani sarebbe in fondo la proiezione della volontà di potenza dell’uomo, di innalzare all’assoluto ciò che si presenta come finito: in altre parole, l’idea del progresso senza confini. Il Dio ebraico invece lascia la sua creatura nella finitezza, così come è, senza la pretesa di mediare, per superarla a forza, questa condizione naturale del vivere umano. Messa in questo modo, l’antisemitismo non può più essere interpretato come fenomeno con precise e mutevoli caratterizzazioni storiche, ma come la costante risultanza di un confronto che si è protratto nei millenni (perché la versione cristiana trae origine dalla contaminazione del giudaismo con il pensiero greco). Ho voluto riportare questa interpretazione perché è antitetica a quella che se ne dà solitamente, e che vede, sulla scorta di una lettura impropria di Nietzche, al contrario il giudaismo come responsabile dell’ybris del progresso (contro il naturalismo dei pagani).

Ora, cosa c’entra tutto questo con Voltaire? C’entra perché Voltaire, al di là delle sue paturnie, è il portavoce un po’ di tutte queste motivazioni, pur senza esserlo di nessuna in particolare. Diciamo che fornisce a tutte pretesti e strumenti. Soprattutto crea un precedente illustre, che varrà da pezza d’appoggio per i polemisti antisemiti dell’ottocento, naturalmente più per quelli “progressisti”, visto che un De Maistre, pur dicendo sostanzialmente le stesse cose, non si sognerà mai di fare riferimento, esplicito o implicito, a quell’anticristo di Voltaire. In sostanza comunque mentre i reazionari vedono l’emancipazione come uno dei simboli del trionfo del liberalismo, e quindi portano all’estremo l’identificazione ebrei-liberalismo-fine della società tradizionale, la nascente sinistra ci vede lo stesso connubio dei reazionari, ma lo interpreta in una valenza opposta. La presenza degli ebrei, che sono stati lo strumento finanziario delle monarchie assolute, e che adesso, emancipati, agiscono in proprio, indica il passaggio dalla schiavitù nei confronti dell’autocrazia a quella nei confronti del capitale.

Come si vede, è possibile leggere il problema rappresentato dalla scomoda presenza ebraica in modi diametralmente opposti. Ed è appunto quanto succede subito dopo l’Illuminismo, dopo il trauma della rivoluzione francese e nel bel mezzo di quello della rivoluzione industriale.

Questo ci porta davvero verso la conclusione. La polemica su Toaff, pur nella sua goffaggine, è sintomatica di una ambiguità mai risolta dal pensiero progressista, e soprattutto dalla sua componente più “a sinistra”, con la questione ebraica; ed ha anche un risvolto politico. Perché, sia chiaro, da sinistra sono venuti gli attacchi. E la cosa non è così paradossale: è anzi facile da comprendere.

La polemica è venuta da sinistra perché la sinistra ha la coscienza sporca. Coltiva in seno una tradizione di antisemitismo che è antica almeno quanto quella della destra, erede diretta di quell’astio popolare che ogni forma di potere, papale o imperiale, zarista o socialista, da sempre ha convogliato sugli ebrei, ma che come abbiamo visto era fatto proprio anche da chi quei poteri diceva di combatterli. Dopo la rivoluzione francese gli ebrei sono diventati il simbolo stesso del nuovo, ed è un nuovo che non fa paura solo ai reazionari del calibro di De Bonald, (vedi Sur les Juifs, del 1806). Nei principali ideologi del socialismo utopistico della prima metà dell’Ottocento troviamo ripresi pari pari tutti gli stereotipi della predicazione cristiana che lui utilizza, con l’aggiunta di quelli indotti dall’emancipazione. Fourier ad esempio se la prende con i piccoli commercianti alsaziani, “parassiti, bottegai e usurai”, e ritiene che “gli ebrei siano la lebbra del nostro corpo politico”, e che come i lebbrosi dovrebbero essere segregati, mentre uno dei suoi seguaci, Alphonse Toussenel, attacca invece ne “Les Juifs, rois de l’epoque il “feudalesimo finanziario” praticato dai grandi finanzieri ebrei, e scrive: “La repulsione universale ispirata da loro per lungo tempo non fu che il giusto castigo per il loro implacabile orgoglio, e il nostro disprezzo non è che la giusta rappresaglia per l’odio che essi sembrano nutrire per il resto dell’umanità”.

Più scatenato ancora è Proudhon. Ne “La Justice dans la révolution et dans l’Eglise” (scritto nel 1840, ma pubblicato solo postumo, nel 1883, in “Césarisme e Christianisme”) afferma che “l’ebreo è principio del male, Satana e Ahariman, incarnato nella razza di Sem”. Auspica l’espulsione di “questi speculatori, profittatori e parassiti”, e arriva a scrivere che occorre “rimandare questa razza in Asia, o sterminarla” (va detto che Proudhon ce l’ha con un sacco d’altra gente, tutti gli operai stranieri, ad esempio, e particolarmente con le donne, che a suo giudizio debbono restare sottomesse al maschio e accontentarsi di un salario inferiore). Un altro ossessionato dall’antisemitismo è Bakunin: per lui gli ebrei sono “una setta sfruttatrice, un popolo di sanguisughe, un unico parassita vorace”. E questa immagine la trasmette ai suoi seguaci russi, che in occasione dei pogrom incitavano la popolazione alla caccia all’ebreo, e purtroppo anche a buona parte dell’anarchismo italiano (si salva il solito Berneri).

Anche il socialismo scientifico e materialista, pre-marxista o marxista, mantiene una posizione decisamente negativa nei confronti degli ebrei. Tra i precursori, Fichte non vede altro mezzo per liberarsi di loro che riconquistare la Terra Promessa e spedirceli tutti, mentre Feuerbach pone la religione ebraica (e il popolo che la professa) sul gradino più basso della sua scala di valori, in quanto caratterizzata dall’intolleranza e dall’egoismo utilitaristico. Bruno Bauer pubblica nel 1843 “La questione ebraica”, nella quale accusa gli Ebrei di essersi cercati tutti i loro mali per il rifiuto dell’universalismo e del progressismo cristiano, e si schiera contro l’emancipazione, perché di essa gli ebrei profitterebbero per incistarsi come parassiti nella carne della società borghese. Gli risponde un anno dopo Marx, con Sulla questione ebraica: nipote di un rabbino, Marx si mostra altrettanto sprezzante di Bauer nei confronti degli ebrei (si moltiplicano come i pidocchi), ma per ragioni diverse. L’ebreo non ha bisogno di incistarsi nella borghesia, perché la borghesia ha già assimilato appieno l’idealità ebraica, che si fonda sull’interesse, sul lucro, su una soggezione totale al denaro. Non vanno emancipati gli ebrei, va piuttosto emancipata la società da un ebraismo che è già dominante (troviamo dietro ogni tiranno un ebreo).

Le cose non stanno diversamente per i socialisti moderati; lo stesso Lassalle, di origini ebraiche, e attaccato per le stesse da Marx e da Engels, ritiene che la soluzione del problema verrà proprio dall’avvento del socialismo, nel senso che a quel punto l’ebraismo dovrà sparire. Altri, come Arturo Labriola, non mancano di sottolineare la “chiarezza ariana di Engels contro l’opacità semita di Marx”. E qualcuno, come Eugene Durhing, ne è ossessionato al punto da sfociare in un antisemitismo violento. (È singolare, peraltro, che in quello che è considerato il padre del pensiero razzista dell’ottocento, Arthur de Gobineau, non ci sia traccia di antisemitismo).

Con queste premesse non c’è da meravigliarsi se nella seconda metà dell’Ottocento e nel secolo successivo la sinistra ha mantenuto una posizione ambigua rispetto all’antisemitismo, dando vita a quello che Auguste Bebel, uno dei fondatori del socialismo tedesco, definiva il “socialismo degli imbecilli”. L’identificazione degli ebrei con il capitale, in particolare con quello finanziario, non solo non è venuta meno anche di fronte all’emersione di nuovi modelli economici, ma ha trovato anzi un sempre maggiore alimento. Ciò che scrivevano nei primi decenni del Novecento i rappresentanti della destra imprenditoriale più reazionaria, come Ford, o di quella universitaria come Sombart, era esattamente simile a quanto sostenevano le riviste socialiste (e quelle cattoliche). Basta d’altronde pensare a quale spazio l’antisemitismo ha trovato nella repubblica socialista sovietica nata dopo la rivoluzione d’ottobre. Questa posizione è rimasta defilata tra le due guerre, ma solo per non confondersi col contemporaneo montare e con gli sviluppi di politica razziale dell’antisemitismo di destra: in qualche modo però la sinistra lasciava al nazismo e al fascismo il lavoro sporco della denuncia e dello smascheramento del “complotto plutocratico giudaico”. L’antisemitismo di sinistra è passato in secondo piano, ma non è certo venuto meno. L’orrore della Shoah l’ha poi reso inesprimibile, ma era inevitabile che in qualche altra forma tornasse allo scoperto. E l’occasione per riemergere l’ha fornita la questione palestinese. Il nuovo filone è l’antisionismo: da non confondere, per carità, con l’antisemitismo, perché il nemico non sono più “gli” ebrei. Sono solo “quegli” ebrei che rifiutano di interpretare ancora il ruolo delle vittime.

È questo che la sinistra non accetta. Che gli ebrei, stanchi di aspettare difensori che non li difendono, ma li commemorano, abbiano deciso di farsi commemorare e compatire un po’ meno e farsi rispettare un po’ di più. Israele rappresenta questa scelta. La scelta di rispondere al fuoco col fuoco e al sangue col sangue. Che poi, vuoi per le pressioni esterne (cinque guerre in cinquant’anni e un nemico che ha nello statuto fondativo delle sue organizzazioni la cacciata e la liquidazione di tutti gli ebrei) vuoi per il conseguente prevalere all’interno della componente di immigrazione dell’est europeo, decisamente più integralista (e alla luce di quanto sta accadendo ancora in Europa, e non solo in Polonia, una qualche ragione sembrerebbero avercela anche loro) lo stato di Israele abbia impresso alla sua politica una svolta decisamente discriminatoria e aggressiva, questo è un altro discorso.

Sta di fatto che un’adesione così viscerale alla causa palestinese da parte della sinistra non si spiega se non guardando all’identità dell’avversario. Non mi sembra si sia data altrettanto pensiero per la causa dei Curdi, che sono dieci volte tanti rispetto ai palestinesi e sono stati massacrati e gasati e sterminati tranquillamente da iraniani, turchi, russi e iracheni. E neppure per le popolazioni sudanesi, sterminate dagli arabi nella più assoluta indifferenza del mondo occidentale sino a ieri. Non ho mai visto una manifestazione in difesa di questi popoli, e ne ho viste poche anche a favore della popolazione tibetana (e comunque, non della sinistra), quando le vittime civili dell’occupazione cinese in cinquant’anni superano di gran lunga il milione di morti, mentre quelle dell’occupazione israeliana non arrivano a diecimila. Non è certo il numero delle vittime a determinare la maggiore o minore bontà di una causa, ma dato che questi numeri corrispondono alle sofferenze, al dolore e alla morte di esseri con pari dignità umana, anche nel distribuire solidarietà andrebbe rispettato un certo equilibrio.

Il problema è che per l’antisemitismo di sinistra Israele non dovrebbe proprio esistere. E più estrema è la sinistra, più l’antisionismo rivela il suo carattere di facciata dell’antisemitismo, e si esprime nei termini ormai collaudati della convinzione dell’esistenza di un complotto giudaico internazionale.

Ufficialmente c’è dunque una sinistra che non può non ergersi a difesa della memoria della Shoah, soprattutto in ragione del fatto che chi l’ha provocata, o come nel caso italiano chi l’ha comunque fiancheggiata, era la destra razzista e fascista. Quindi, lotta dura ad ogni forma negazionismo o di antisemitismo, quando si parla di vittime. Dall’altro lato però c’è anche la sinistra che non può non fare propria la causa dei popoli oppressi, del terzo mondo e del popolo palestinese in particolare, che guarda caso le sta particolarmente a cuore, proprio perché dall’altra parte ci sono degli ebrei. In questo caso gli ebrei rappresentano la lunga mano di un imperialismo del quale, attraverso le lobbies americane, sono anche la mente. E a dimostrarlo starebbe anche l’atteggiamento mutato delle destre.

In realtà le simpatie mostrata dalla destra per il nuovo stato ebraico, che non comportano affatto una diminuzione dell’antisemitismo, sono legate al fatto che la vicenda di Israele ha smentito quello che era il luogo comune nazionalistico dei primi dell’Ottocento, di un popolo senza radici e senza terra. Gli ebrei hanno dimostrato invece che, appena si sono date loro le condizioni per riaverla, in quella terra le radici le hanno messe eccome, e non sono disponibili a lasciarsele tagliare. Hanno trasformato il fallito tentativo di cancellarli dalla storia e dal mondo in una potatura terrificante, che ha fatto ripollonare nuovamente la loro pianta. Certo, è la vittoria di un popolo pagata ad un prezzo altissimo, non solo in vite, ma anche in idealità, in termini di spirito e di una paradossale libertà di fondo e distanza da questo mondo che li rendeva capaci di muoversi con una agilità impossibile a tutti gli altri. Sono tornati ad essere uomini, come erano sempre stati, ma come la loro condizione, il loro abito di pellegrini non consentiva di riconoscerli. Sono uomini, e nulla di quanto è umano, nel bene e nel male, è loro estraneo e si può loro negare.

Il problema è dunque questo. Toaff ha avuto il torto di mettere allo scoperto, credo del tutto involontariamente, l’equivoca disposizione di una sinistra che presidia la memoria degli ebrei morti ma nega il diritto ad esistere a quelli vivi. Dicendo che avrebbe potuto benissimo darsi tra di loro una pratica legata al sacrificio di sangue e all’uso del sangue stesso, Toaff ha semplicemente voluto ricordare che gli Ebrei nascono uomini, e diventano vittime non per vocazione o disposizione genetica, ma per la malvagità e l’ignoranza altrui. E che in quanto uomini hanno anch’essi il diritto e il limite di essere creduloni o superstiziosi, e la possibilità di trasformarsi in carnefici. Ciò che si può dire di qualunque popolo, senza scatenare pandemoni.

Per approfondire

ARENS, W. A. – Il mito del cannibale – B. Boringhieri, 1980
BARROMI, Joel – L’antisemitismo moderno – Marietti, 1988
BATTINI, Michele – Il socialismo degli imbecilli – B. Boringhieri, 2010
CAFFIERO, Marina – Legami pericolosi – Einaudi, 2012
CALIMANI, Riccardo – Ebrei e pregiudizio – Mondadori, 2000
COHN-SHERBOK, Dan – Storia dell’antisemitismo – N.Compton, 2005
FOA, Anna – Ebrei in Europa – Laterza, 1992
ISAAC, Jules – Genèse de l’antisémitisme – Calmann-Lévy, 1956
JESI, Furio – L’accusa del sangue – B. Boringhieri, 1993
JOHNSON, Paul – Storia degli Ebrei – Longanesi, 1987
LAZARE, Bernard – L’antisémitisme – Ed. de la Differénce, 1982
LESSING, Theodor – L’odio di sé ebraico – Mimesis, 1995
LIEBMAN, S. B. – Fede, fiamme e Inquisizione – E. della Pace, 1993
MANNUCCI, Cesare – L’odio antico – Mondadori, 1993
MANZINI, Vincenzo – L’omicidio rituale e i sacrifici umani –I Dioscuri, 1988
MAYER, Hans – Diversi Garzanti, 1977
PIPERNO, Roberto – L’antisemitismo moderno – Cappelli, 1964
POLIAKOV, Leon – Storia dell’antisemitismo – La Nuova Italia, 1974
SCHAMA, Simon – La storia degli ebrei – Mondadori, 2014
TARADEL, Ruggero – L’accusa del sangue – Ed. Riuniti, 2002
TOAF, Ariel – Pasque di sangue Il Mulino, 2007
TOLLET, Daniel – Dalla condanna del giudaismo all’odio per l’ebreo – Mariotti, 2002
VOLTAIRE – Juifs – Gallone 1997

 

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