Pubblicare?

di Paolo Repetto, 29 ottobre 2025

Un anatema ebraico, pochissimo conosciuto, recita: “Possa il mio nemico pubblicare un libro”. Non è un augurio, anche se lo sembra, né una professione di tolleranza: è una maledizione. Ora, io non so quanto questo detto sia antico o solo vecchio, e ignorando la lingua ebraica non posso che affidarmi alla fedeltà della traduzione nella quale lo conosco: ma so che poter determinare l’epoca in cui è stato coniato sarebbe tutt’altro che indifferente. Nel caso fosse molto antico infatti quel “pubblicare” andrebbe inteso come “scrivere”, piuttosto che diffondere tramite amanuensi in più copie, e per un popolo che è stato definito “il popolo del libro” mi pare un po’ fuori luogo. Anche se è poi vero che il sospetto nei confronti della scrittura era presente pure nella cultura greca (vedi Platone), e che per gli ebrei poteva essere tanto più giustificato, almeno nei confronti della scrittura “profana”, dall’esistenza di un testo sacro dettato da Dio stesso, da considerarsi quindi rispondente a ogni domanda, esauriente ogni dubbio, definitivo (salvo poi darne infinite interpretazioni).

Propendo dunque piuttosto per la seconda ipotesi, che quantomeno rende il concetto più funzionale a ciò di cui intendo parlare. Il problema a mio giudizio non sta infatti nello scrivere, ma proprio nel “pubblicare” (operazione che assume ben altro significato dopo l’introduzione della stampa), ovvero nel divulgare quanto si è scritto. Sono due cose diverse, mi pare ovvio, perché la seconda presuppone la prima – per ora, in attesa degli sviluppi dell’AI – mentre non vale il contrario: e tuttavia quasi sempre nel linguaggio corrente i due verbi vengono usati come sinonimi, mentre tali non sono. La differenza sta innanzi tutto nell’intenzione che muove alla scrittura, e poi nei contenuti e nella destinazione, che comportano scelte particolari nei modi e nei mezzi in cui sarà diffusa.

Voglio dire che, certo, chi scrive lo fa di norma per relazionarsi col presente e per lasciare traccia nel futuro, ma la scrittura può essere utilizzata anche in forma privata, per memorizzare, per chiarirsi le idee e metterle in ordine, per tenere un diario, per accompagnare un gesto o un regalo, oppure per fare arrivare la propria voce ad amici o confidenti, quando magari si diano poche possibilità di frequentazione. Ad esempio: l’uso che ne faccio io in questo momento, sfruttando una tecnologia che mi permette di dialogare facilmente con uno sparuto gruppo di persone che condivide i miei interessi, ovvero le mie domande e i miei dubbi, rappresenta il limite estremo dell’utilizzo “privato”.

Se si va oltre si accede invece ad un’altra dimensione, quella appunto del “pubblicare”, che come il termine suggerisce significa rendere intenzionalmente pubblico il proprio pensiero. E qui entrano in gioco finalità e ambizioni diverse. Io vorrei occuparmi nello specifico del caso di cui l’intenzione è di orientare o influenzare il pensiero altrui, offrendo al maggior numero possibile di sconosciuti delle “risposte”, delle interpretazioni del mondo e della storia che non possono essere controbattute direttamente, come avverrebbe in un colloquio. Nel formato stampa queste risposte assumono un’autorevolezza che è suggerita già visivamente dall’ordine, dalla nitidezza, dall’irreggimentazione delle righe e dei periodi sulla superficie della pagina. Insomma, la parola stampata incute rispetto, e questo consente di esercitare in qualche modo un potere. E anche se i mass media e le nuove tecnologie e modalità comunicative stanno rendendo obsoleta la stampa, credo che per il momento, e almeno per la mia generazione e per quella immediatamente successiva, l’autorevolezza del pensiero sia ancora legata alla divulgazione cartacea.

Naturalmente ci sono anche, e oserei dire soprattutto, altre finalità: quella pura e semplice di ottenere una qualche visibilità, ad esempio, o di trovare un modo per sbarcare il lunario: oppure, un po’ più ambiziosamente, di combinare il tutto e di proporre, alla maniera di Balzac, sia pure attraverso la finzione, un ampio quadro della reale condizione umana. Sarà il tempo poi a decidere della rilevanza e della sopravvivenza di qualsiasi testo, a farne o no “un classico”, o almeno un riferimento che vada oltre il presente.

Ma mi sto perdendo nelle ovvietà. Ciò che intendevo dire è che attualmente tanto la narrativa, più o meno “impegnata”, quanto la saggistica, rientrano allo stesso modo nei circuiti di un “mercato culturale” che ha acquisito una enorme rilevanza sia finanziaria che politica, e rispondono alle sue leggi, in primis a quelle della “spettacolarizzazione” (un mercato culturale in realtà è sempre esistito, ma senz’altro non aveva come caratteristica dominante quella della spettacolarità). Basti pensare ai tour promozionali cui senza alcun ritegno gli autori si sottopongono, compresi gli scienziati e i filosofi, andando a far marchette nei programmi televisivi, intervenendo ai festival o agli altri innumerevoli “eventi” imbanditi per platee di consumatori totalmente passivi e acriticamente fidelizzati, creando quelli che oggi si chiamano podcast, ecc….

Io ritengo esista però anche una terra di nessuno, quella che ospita i libri scritti non per fornire risposte preconfezionate, ma per suscitare domande, alle quali poi il lettore cercherà di rispondere con un percorso tutto suo. Questi sono per me i soli libri meritevoli di essere “pubblicati”, e non è qui il caso di dettagliare i criteri sui quali baso la distinzione. Emergeranno da soli nel prosieguo del discorso.

Vorrei però fosse chiaro che non auspico alcun tipo di censura preventiva o di esclusione o di protezionismo. Quello culturale è l’unico ambito nel quale sposo il libero mercato. D’altro canto ritengo che leggere e scrivere siano, almeno in linea di principio, le attività meno pericolose per sé e nocive per gli altri, e tra le più piacevoli, che un essere umano può svolgere. L’importante per il “consumatore” è avere sempre ben presente che di un “mercato” appunto si tratta, nel quale i banchi e gli scaffali traboccano di prodotti tra i quali può scegliere. Per come la vedo io, però, per poterlo fare è necessario auto-educarsi a un “consumo culturale” consapevole, e farlo per prove ed errori, prendendo le distanze da tutte le azioni “promozionali” di incentivazione alla lettura. Chi deve essere spinto o incentivato, per non dire precettato, a farsi un’idea, non sarà mai capace di scelte proprie.

Esistono dunque i normali prodotti da supermercato, quelli perennemente in offerta, di per sé abbastanza innocui, perché in fondo nessuno ci obbliga ad acquistarli e a leggerli. Ce ne sono invece altri che sempre all’interno di questo mercato si arrogano un ruolo di orientamento del gusto, si propongono come “bio”, garanti della nostra salute spirituale, e ci gratificano vellicando la nostra ambizione a sentirci al passo coi tempi, o anche un pochino avanti: questi, a dispetto della loro più o meno esplicita ambizione a diffondere sempre nuove e definitive “verità”, andrebbero comunque almeno conosciuti, se non altro per prenderne consapevolmente le distanze. E infine ne esistono altri ancora, che negli scaffali vengono confusi con tutto il resto, ma che bisogna imparare a riconoscere come genuini alimenti per la nostra crescita.

In questa ultima tipologia rientrano senz’altro le opere di George Steiner. Steiner è, assieme a Isaiah Berlin, l’ultimo dei veri “maestri” del ‘900. Uno che scrive: “Quello che mi sentirei di sostenere con fervore è questo: la fede (qualsiasi fede, n,d,r), o l’assenza di essa è, o dovrebbe essere, la parte costitutiva più privata, più gelosamente custodita di un essere umano […]. Pubblicizzare svilisce e falsifica irrimediabilmente il proprio credo”.

Proprio da un suo libro, significativamente titolato I libri che non ho scritto (come gli invidio questo titolo, lo avevo in mente da decenni!), arrivano l’anatema di cui sopra e lo stimolo che mi spinge ora a parlarne.

Nel compendio di uno dei saggi mai scritti, ma fatti assaporare al lettore almeno in forma di spuntino, Steiner sintetizza l’opera e il pensiero di Joseph Needham, eccentrico erudito novecentesco, grande sinologo, che mezzo secolo fa viaggiava ancora sulla cresta dell’onda. Io stesso ho sempre riservato all’unico volume che possiedo del suo Scienza e civiltà in Cina (edizione inglese 1954, italiana Einaudi 1981; primo di tre tomi, s’intitola Linee introduttive e costava un patrimonio) una collocazione di prestigio nella mia biblioteca, sezione storia della scienza. Di Needham però, della sua vita, del suo impegno politico, conoscevo quasi nulla.

Steiner invece lo conobbe personalmente, ebbe diverse occasioni di confronto, e pur riconoscendone la sterminata cultura e tributandogli tutti i dovuti meriti non ne traccia un ritratto positivo. A motivare questo giudizio (che a suo tempo ha indotto Steiner a non redigere una biografia dello scienziato britannico per la quale aveva ricevuto dalla sua università un incarico) sono le posizioni pregiudiziali a partire dalle quali Needham affronta qualsiasi argomento. Il suo approccio è infatti sempre rigidamente vincolato all’ortodossia marxista, una ortodossia peraltro non fedele direttamente a Marx, ma alla lettura che di Marx era stata data, e imposta, dal leninismo. Steiner non mette in discussione le competenze scientifiche di Needham, che era in primo luogo un biologo, né la sua capacità di lavorare su un piano multidisciplinare: ma è il dogmatismo di fondo a respingerlo. Non può fare a meno di mettere in rilievo come tanto le competenze scientifiche quanto quelle umanistiche vengano sempre piegate non ad aprire nuove possibilità interpretative dei fatti, ma ad avvalorare una ipotesi iniziale precostituita. E sottolinea come le incursioni in ambiti specialistici sostanzialmente estranei ai suoi abbiano indotto Needham a prendere per oro colato ogni minimo e discutibilissimo indizio, biologico, antropologico, linguistico, architettonico, che sembrasse portare mattoni alla sua ricostruzione della Storia. Ricostruzione che seguiva le linee di un progetto dettato dal clima ideologico postbellico, dal compiersi della decolonizzazione, dagli entusiasmi del terzomondismo.

In pratica Steiner avverte, dietro il meritevole intento di Needham di portare l’occidente a conoscere e apprezzare l’origine extraeuropea di buona parte dei saperi scientifici e delle tecnologie che ne sono discese, il caparbio proposito di forzare l’entità del debito scientifico occidentale nei confronti di un’area che ai suoi tempi era ancora percepita come sottosviluppata, e sullo sfondo quello di capovolgere (non di equilibrare) le posizioni nel rapporto tra le diverse civiltà. La stessa operazione che trent’anni dopo avrebbe ripetuto Martin Bernal con Atena nera, per provare come la cultura greca classica sia assolutamente debitrice di quella africana e mediorientale (cosa di cui peraltro erano ben consapevoli già Pitagora, Erodoto e Platone).

Insomma, il problema di Needham non sta nell’attribuzione di questi contatti e rapporti e finanche di talune priorità, ma nel darne una interpretazione che nemmeno troppo larvatamente colpevolizza l’occidente: nel voler cioè convintamente affermare che in fondo l’occidente non può vantarsi di aver inventato nulla, e che si è limitato a depredare i patrimoni culturali di altre civiltà (come se il valore intrinseco di una conoscenza fosse nella priorità, e non negli sviluppi e nelle applicazioni che ne discendono). E peggio ancora, nel farlo producendo prove documentarie, linguistiche e archeologiche molto abborracciate e in parecchi casi del tutto irrilevanti, quando addirittura non false.

Ora, tutto ciò, per senza nulla togliere al fascino che i lavori di Needham e di Bernal senz’altro emanano, e al rilievo delle ipotesi interpretative che hanno introdotto, dovrebbe però guidare a una giustificata prudenza nell’accettarne il messaggio di fondo. L’assunzione di un altro punto di vista, o del punto di vista altrui, può scuotere e incrinare una lettura della storia consolidatasi sulla narrazione auto-apologetica dei vincitori, ma non necessariamente ne produce una nuova più veritiera. Semmai dovrebbe indurne una più interlocutoria, più possibilista, e non altrettanto assiomatica.

Questo mi porta a una considerazione solo apparentemente marginale, che concerne la differenza tra gli autori “enciclopedici” del Sette/Ottocento e i “tuttologi” imperanti ai giorni nostri. Enciclopedici, per intenderci, erano gli eruditi eclettici come Diderot, Goethe o Alexander von Humbolt, che ambivano a raccogliere in grandi sintesi lo stato delle conoscenze alla loro epoca. Erano curiosi di tutto, e questo li induceva a non dare nulla per scontato, a considerare i saperi di cui erano depositari come punti di partenza. A dispetto dell’ampiezza e della poliedricità delle loro opere, lo scopo che ad esse attribuivano era di indicare possibili percorsi per la ricerca futura, e anche quando fornivano spiegazioni lo facevano nella consapevolezza di produrre delle congetture. Chi avesse la pazienza di leggere oggi il Cosmos di Humboldt, che nel titolo sembra adombrare un’ambizione sterminata, si accorgerebbe che ogni affermazione viene sempre presentata come provvisoria, e che la frase più ricorrente è “Chissà cosa ci riserverà nel futuro la ricerca in questo campo”. E lo stesso scienziato-esploratore non si limitava ad auspicare, ma incoraggiava i giovani naturalisti a ripercorrere i suoi passi, per verificare e al limite contraddire le sue scoperte e le sue intuizioni, e a tale scopo donava loro anche le sue strumentazioni. Ma non è tutto: si accollò personalmente la pubblicazione dell’opera, e dati i costi enormi finì praticamente sul lastrico.

Tra gli enciclopedici e i tuttologi si collocano proprio Needham e Bernal, che esplorano ambiti nuovi, che producono nuove conoscenze relative ai rapporti e agli interscambi tra le civiltà extraeuropee e la nostra, ma non si limitano ad avanzare delle ipotesi, affermano delle tesi. Sono ancora enciclopedici nel senso che sostanziano le loro opere con l’apporto di saperi diversi, anche se padroneggiati con eccessiva disinvoltura, e spesso con molta approssimazione. Sono già tuttologi perché presumono di dare un significato diverso alla storia, affermandone categoricamente non possibilità interpretative inedite ma linee di sviluppo certe e inconfutabili. Non sono tali però a pieno titolo, almeno nel senso che do io al termine, perché ancora non si avvalgono delle più recenti tecnologie e modalità che portano dalla “pubblicazione” alla “pubblicizzazione” di massa. E alla spettacolarizzazione.

Con ciò vengo finalmente al dunque, prendendo tre nomi a caso (in realtà non proprio a caso) tra i più conosciuti oggi dal grande pubblico italiano: Pier Giorgio Odifreddi, Luciano Canfora e Alessandro Barbero. Già il fatto che possa citarli come largamente conosciuti, come “popolari”, la dice lunga: segna la differenza rispetto agli enciclopedici genuini alla Humboldt, conosciuti soltanto da chi li leggeva (ma questo valeva ancora per Needham e Bernal).

Nessuno può negare le competenze matematiche di Odifreddi, meno che mai chi come me nelle scienze matematiche è un asino; ma quando mi ritrovo in mano testi suoi che sconfinano nell’etica o nella politica mi si rizzano i capelli, perché sono trattazioni che non si propongono all’insegna dell’“io la vedo così”, ma a quella del “è così, e ve lo dimostro”. Odifreddi ha nel mirino soprattutto il cristianesimo, e prima ancora l’intera tradizione biblica, che a suo parere ha impresso alla civiltà occidentale, in tutte le sue componenti, il marchio di una distruttiva pulsione al dominio e alla negazione di ogni alterità: ma spinge costantemente la sua critica sino al limite dell’invettiva, e spesso anche oltre, facendo un solo fascio di tradizioni, istituzioni politiche e giuridiche, indirizzi economici, ecc … Col risultato di scorgervi dietro, a tirare le fila, sempre la lunga mano e il modus operandi del capitalismo, nelle sue svariate versioni pre-moderne e poi coloniali, imperialistiche, liberistiche, liberalistiche e pseudo-democratiche. Quello che denuncia, senza arretrare neppure di fronte ad evidenti anacronistiche forzature, è in fondo un progetto di dominio pluto-giudaico che ha informato tutta la storia occidentale, e che sembra ormai ossessionare più le varie sinistre sedicenti rivoluzionarie che le vecchie destre reazionarie.

Discorso appena leggermente diverso si può fare per Canfora e per Barbero, che quanto meno rimangono nell’ambito della loro disciplina: ma la specializzazione disciplinare si è spinta oggi talmente oltre che è difficile concepire una competenza storica estesa dai Neanderthal alla guerra fredda o ai conflitti attualmente in corso.

L’impressione che ho ricavato dalle sempre più frequenti apparizioni di costoro nei salotti televisivi o come conduttori di programmi disegnati a loro immagine, impressione che si riverbera retrospettivamente su tutta la loro opera, è che la storia venga trattata non come terreno di costante esplorazione, ma come pezza d’appoggio per avvallare dogmatiche certezze. Che riguardano, come per Needham e per Bernal, e per Odifreddi, la nefandezza della cultura e della civiltà occidentale e la denuncia di come è andata sviluppandosi. È evidente che qui non siamo a livello dei vari Galimberti o dei nipotini post-moderni di Foucault e di Vattimo: l’operazione che i nostri conducono è assai più sottile e sofisticata, ma il punto d’arrivo è lo stesso.

Si vedano ad esempio il saggio di Barbero sull’impero ottomano e le conferenze che ne ha tratto. È uno stillicidio di confronti che oppongono la tolleranza, la giustizia, l’uguaglianza, la meritocrazia praticate dalla cultura ottomana all’intolleranza, alle diseguaglianze, alla farraginosità giuridica e ai privilegi correnti nella coeva cultura occidentale. Ora, sarà anche vero che ebrei e cristiani erano molto più tollerati nelle terre del Sultano di quanto lo fossero nell’Europa rinascimentale, e che a Costantinopoli non esisteva una aristocrazia del privilegio ereditario, e che le classe dirigente era reclutata senza badare al censo; ma tanto per cominciare il tutto era arbitrariamente gestito da un despota assoluto, che in alcuni casi poteva essere illuminato e in molti altri no, e il cui potere non conosceva limiti o contrappesi, né religiosi, né politici, né giuridici. C’è poi il fatto che le relazioni dei viaggiatori che per cinque secoli hanno attraversato quelle terre (non moltissimi, perché viaggiare lì era estremamente difficile e pericoloso) concordano tutte nella descrizione di un clima di povertà, di sopruso e di violenza, narrano di massacri continui e spoliazioni, nei confronti ad esempio dei Curdi, degli Yazidi, dei Mandei, dei Copti, o delle popolazioni balcaniche o di quelle elleniche. Checché ne dicessero gli ambasciatori veneziani, che vivevano peraltro nel perimetro della corte, ai quali Barbero attinge tutte le testimonianze, la tolleranza era molto più proclamata che praticata. Vigeva invece senz’altro l’uguaglianza, ma nel senso che la violenza arbitraria davvero non faceva sconti a nessuno.

Per capirci meglio. Richiesto nel corso di una intervista che circola sul web di spiegare cosa significa essere di sinistra, Barbero ha risposto che per lui significa vedere una bandiera rossa o una falce e martello e non averne paura, anzi, provare piacere. “Io se vedo un corteo in piazza con le bandiere rosse che protesta mi piace, e quando vedo che la polizia li picchia non mi piace, mentre a tanti borghesi la cosa fa paura o da fastidio, e pensano che la polizia faccia bene a picchiarli. Basta questo, di base, per essere di sinistra”. Il che, pur essendo una semplificazione provocatoriamente voluta, spiega comunque tante cose. Spero almeno non gli dia gioia anche veder bruciare i cassonetti, simbolo del consumismo borghese, o le bandiere, con l’eccezione naturalmente di quella rossa (o di quelle che vanno al momento per la maggiore): oppure le occupazioni delle università e dei licei, dove si fa resistenza antifascista impedendo a chi non è schierato “dalla parte giusta” di prendere la parola. Stiamo parlando di docenti universitari. Se questo è per loro lo stare a sinistra, stiamo freschi. E soprattutto, io dove sono stato fino ad oggi?

Lo stesso vale per il modo in cui Canfora parla della democrazia occidentale, sottintendendo che le sue storture erano già presenti sin dall’origine e si sono semmai amplificate nella versione moderna, contrariamente a quanto la storia ufficiale vorrebbe raccontarci. Tanto da fargli preferire un sistema come quello spartano, non a caso vagamente “comunista” e livellatore (salvo reggersi, né più né meno come quella da lui definita la pseudo-democrazia ateniese, sulla schiavitù), e da indurlo a mostrare un’evidente simpatia per l’odierno modello putiniano, nonché naturalmente un sincero rimpianto per quello staliniano: “Uno statista può essere valutato per quello che ha fatto per il suo Paese. L’opera di Stalin è stata positiva, anche se aspra, per la Russia al contrario di quella di Gorbaciov”.

Siamo insomma di fronte ad un “odio di sé occidentale” che non trova corrispettivo in altre culture. Tutte le altre civiltà hanno mantenuto bene o male nel corso del tempo un’alta considerazione di sé (gran parte dei popoli si attribuiscono in esclusiva lo status di “uomini”, già a partire dai termini con cui si autodenominano, o considerano la loro terra come il centro del mondo): e attribuiscono le cause della loro decadenza, dei loro ritardi (ammesso che li considerino tali), del loro eventuale asservimento, alla protervia dei competitori, a sfortunate congiunture climatiche o al volere di divinità irritate. La negatività occidentale affonda invece le sue radici in un’attitudine autocritica nata già agli albori della modernità (ma volendo se ne potrebbero trovare tracce anche prima: basti pensare a Erodoto, o alla Germania di Tacito): solo che nel XVI secolo con Montaigne questa attitudine si esprimeva in un equilibrato ripensamento delle modalità di confronto con “gli altri”, e successivamente con Montesquieu nella critica delle istituzioni domestiche, tutte cose che rimanevano nell’ambito di ciò che va perfezionato, rivisto, recuperato. È in fondo questo che ha fatto la differenza, permettendo all’Occidente di spezzare i vincoli della tradizione immobilista, di innovare o cancellare istituzioni sclerotizzate, di sperimentare modelli produttivi e rapporti sociali di convivenza del tutto inediti. Con quali risultati non sta a me qui discutere (in realtà su questo sito se ne è già discusso ampiamente): le scorie dell’idea di “progresso” che sino a ieri l’Occidente ha abbracciato sono tante e tali da non consentirmi di esprimere giudizi e proporre scale dei valori. Oltretutto, se mi guardo un po’ attorno e vedo solo opposti fanatismi e l’idiozia al potere quasi ovunque, qualche dubbio sulle nostre scelte non può non sorgermi. Di certo so però che in pochissime altre culture una discussione come questa sarebbe consentita, e vorrei tenermi stretta questa possibilità.

Già in epoca romantica, però, nel mito esotico del buon selvaggio, il saldo del confronto con altri possibili modelli di civiltà diventava negativo, e nel secolo scorso questo confronto si è tradotto in un vero e proprio rifiuto della civiltà e della cultura occidentali, a partire dai suoi presupposti. Un rifiuto tutto “di sinistra”, perché non fa appello alla tradizione, non chiede un ritorno nostalgico ad altri tempi, ma fa tabula rasa del sistema valoriale sul quale l’occidente si è fondato sin dai primordi della storia. Col risultato di approdare a quello che Nietzsche chiamava nichilismo.

Tanto Odifreddi quanto Canfora e Barbero, che a questo rifiuto si associano, non possono però essere propriamente definiti dei nichilisti: portano avanti convintamente le loro teorie sulla deriva occidentale, che fanno risalire di volta in volta a Euclide, a Pericle o a una non meglio definita “borghesia”. Di certo non vanno annoverati tra gli orfani dell’occidente, e non sono tra quelli che ne vaticinano o ne piangono il tramonto: semmai anzi lo auspicano. Ne vogliono disvelare il “marcio”, e pensano che il frutto sia da buttare e che l’albero non sia da potare, ma da capitozzare radicalmente.

Sta di fatto che interpretano il loro radicalismo anti-occidentale come una missione, e questo li spinge ad essere costantemente presenti, sui teleschermi, sui monitor o in libreria. Ho contato in una bibliografia di Canfora, aggiornata al 2024, centotredici volumi pubblicati, una volta e mezza quelli di Simenon su Maigret. In quella di Odifreddi siamo a soli trentasette, su temi che spaziano da Le menzogne di Ulisse a Caro papa ti scrivo, sino a La democrazia non esiste, ma accanto a un profluvio di audiovisivi e di interviste, più di quattrocento partecipazioni a programmi radio e trecento a trasmissioni televisive. Barbero si attesta per ora a quarantotto volumi (ma è giovane e può dare ancora molto), che a questo punto si può dire abbiano un ruolo secondario rispetto all’intensissima attività da star mediatica. Vorranno dire qualcosa questa grafomania e questo delirio di onnipresenza? Questa fame insaziabile di pubblicazioni e di comparsate? Che ci sia dietro la maledizione talmudica?

Cosa c’è dietro non lo so. Sospetto che ad un certo punto le lusinghe del mercato e della popolarità spettacolare mandino in tilt anche menti di indubbio livello, accendendo ambizioni egoistiche che scadono nella piaggeria (si può essere ruffiani in due modi: salendo sulla carrozza dei potenti o assecondando le rabbie più fumose degli “insorgenti”. Non mi risulta che alcuna lezione universitaria o conferenza dei tre sia mai stata contestata o impedita) Ma credo soprattutto che questo “odio di sé” (rivolto però a un “sé” rappresentato da tutti gli altri condomini che abitano la casa occidentale) nasca da una duplice presunzione: quella di aver individuato cosa c’è di marcio in Occidente (a seconda dei casi: un pensiero tutto fondato sulla “ragione calcolante”, una finzione democratica messa in piedi dalle classi dominanti, una narrazione della storia asservita agli interessi imperialistici): e quella di averlo fatto chiamandosi fuori dalla parte guasta del frutto.

Continuo a chiedermi comunque cosa può indurre persone tanto intelligenti a costringersi in una visione e in un uso del loro sapere così preconcetti. Ammettiamo che possano agire la temperie culturale del momento, le esperienze politiche, le ambizioni di cui sopra, tutto ciò che si vuole: ma il conoscere non dovrebbe indurre semmai a staccarsi progressivamente da ogni certezza, a ingolosirsi di ciò che di nuovo può arrivare, a non chiudersi a riccio dietro le interpretazioni dogmatiche. Come si conciliano le due cose?

Azzardo la spiegazione che mi pare più plausibile. Credo che tutto questo nasca dalla paura. Intendo la paura del vuoto che ci si spalanca davanti se appena apriamo gli occhi e usciamo dal recinto di significati che ci siamo costruiti attorno. La paura di affrontare l’assurdità della condizione umana come raccontata ad esempio da Camus, e prima ancora da Leopardi, e su su fino a Lucrezio, di guardarla negli occhi. Non sono molti quelli che reagiscono a questa consapevolezza rassegnandosi non passivamente all’assenza di uno scopo ultimo, e creandosene uno più modestamente temporaneo attraverso l’autodeterminazione etica. Nei più la paura del vuoto e dell’insignificanza induce l’urgenza di “esserci”, o almeno di apparire, e la necessità di aggrapparsi ad una bandiera (possibilmente a quelle prêt-à-porter, e non a quelle che vengono bruciate). Se poi la bandiera la si sventola o la si “indossa” in testa al gruppo, è più facile finire sui teleschermi e reclutare seguaci.

Infatti. Le arringhe dei guru dell’anti-occidentalismo sono subdolamente conformiste e confortanti, perché scodellano ad un pubblico pigro, smarrito e rancoroso verità “certe”, tra l’altro spacciandole come coraggiose “rivelazioni” che smontano le false pseudo-verità precedenti; in realtà non fanno altro che intrupparsi nella corrente revisionistica alla moda. Sembrano chiudere un lungo discorso di ricerca e di smascheramento, ma la loro ricerca era mirata solo a convalidare una visione ideologica pre-costituita.

Alla fine, ad essere verificato mi pare solo l’anatema col quale ho esordito. Continuando a “pubblicare” libri su libri, a ritmi industriali, e a “pubblicizzarli” spudoratamente abbassandosi a tutte le più perverse dinamiche del mercato, gli impavidi dissacratori della menzognera narrazione occidentale finiscono per rivelarsi i peggiori nemici di sé stessi.

P.S.

1. Needham e Bernal non costituiscono casi eccezionali di acquiescenza al dogmatismo marxista. Nella cultura anglosassone, e segnatamente in Inghilterra, furono molti, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, gli intellettuali che fecero propria questa posizione. Si va dagli scienziati, come J. B. S. Haldane, agli storici, come Christopher Hill o Eric Hobsbawm. Ma all’epoca incombeva sull’Europa la minaccia nazi-fascista, e non tutti avevano la tempra di un George Orwell. Per combattere avevano bisogno di indossare una metaforica divisa.

2. É proprio vero che le immagini a volte sono molto più eloquenti di qualsiasi trattazione scritta. Godetevi le icone dei tre moschettieri dell’anti-occidentalismo. Il quarto non è nemmeno uno scudiero, forse un valletto, ma non può essere considerato solo un intruso. In effetti è la testimonianza vivente che qualcosa nella cultura occidentale è andato storto.

3. Qualcuno tra i miei quattro corrispondenti penserà che queste elucubrazioni siano fini a stesse, frutto di una senile involuzione, e che in definitiva non portino a nulla. Su quest’ultima eventualità sono perfettamente d’accordo, ma credo che ogni tanto vadano comunque fatte le pulizie di primavera. Il cervello sarà di lì a poco nuovamente ingombro e disordinato, ma per qualche tempo almeno le idee potranno circolare un po’ più liberamente. In caso contrario, ci ritroveremo di qui a poco ad ammantarci noi stessi di bandiere, o a bruciarle, a recitare slogan, a rovesciare cassonetti. Ad essere cioè incapaci di relazionarci agli altri e alla storia in maniera civile e consapevole. In parole povere, a odiarci.

Prolegomeni a una nuova sinistra

Una breve nota sull’immaginario della sinistra

Breve nota sull'immaginario della sinistra 01Per una volta siamo di parola. Ecco infatti il secondo intervento di Beppe Rinaldi, promesso un paio di settimane fa

Rinaldi prende spunto nel testo che segue da un piccolo saggio di Aldo Schiavone (Sinistra!, edito da Einaudi nel 2023), per guidarci in una riflessione sullo stato attuale del pensiero di sinistra e sulle sue future prospettive. In effetti ne abbiamo un gran bisogno, sia di riflettere con un po’ di calma che di poter contare su un pensiero di sinistra libero da residuati ideologici. L’argomento non è affatto nuovo per il sito dei Viandanti: direi anzi che in modi e in misure diversi, esplicitamente o sottotraccia, ricorre in tutti gli scritti ospitati, anche in quelli che parrebbero andar per lucciole. La differenza sta nel fatto che in questa occasione è affrontato con la sistematicità analitica e con la lucidità critica di cui solo uno studioso di lungo corso come Rinaldi può essere capace. Sul salto di livello che qui si opera può essere illuminante il confronto con un paio di tentativi miei di fare un’operazione di questo genere, uno già lontano nel tempo (L’ultimo in basso, a sinistra, 1999) e l’altro più recente (Tre manifesti sul futuro dell’umanità, 2021). Tra l’altro, già in quest’ultimo l’occasione era offerta da un precedente testo di Schiavone, “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, nel quale venivano anticipate quasi tutte le tesi poi riprese in Sinistra!. Ciò non significa che il pensiero dello storico campano del diritto sia diventato per i Viandanti un riferimento obbligato: significa invece che Schiavone, al contrario dei “grandi maestri” cui guarda con acritica reverenza lo pseudo-anticonformismo postmoderno, ha il coraggio di affrontare senza troppi giri di parole o ingorghi di citazioni il tema dell’essenza e dell’esistenza di una sinistra. Lo fa a modo suo, magari entusiasmandosi troppo per prospettive difficilmente condivisibili, ma almeno parla chiaro e va dritto al cuore dei problemi, invogliando così anche animi stanchi come i nostri a discuterlo (e a mettersi in discussione). Ma tutto questo lo troverete appunto nella serratissima analisi che Beppe Rinaldi va a proporvi.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 02Due parole vanno invece ancora spese sull’iconografia inserita dalla redazione a corredo del testo. Le immagini scelte non sono un espediente per alleggerire la densità di quest’ultimo (intesa come peso specifico delle argomentazioni e non certo come caratteristica dello stile) e neppure vogliono ridursi a un puro e semplice reliquiario iconografico: sono state inserite ritenendo che abbiano una qualche attinenza con lo scritto, in quanto, sia pure sommariamente, raccontano le trasformazioni di un’idea, della concezione stessa di “sinistra” e delle modalità di appartenenza a questa categoria politica. La trasformazione può infatti essere letta anche attraverso l’evoluzione (o l’involuzione, a seconda dei punti di vista) dei manifesti che celebrano ricorrenze o avvenimenti significativi del calendario liturgico della sinistra, in particolare di quelli relativi alla festa del Primo Maggio. Naturalmente le chiavi di lettura possono essere svariate: quella che molto schematicamente proponiamo ha solo un valore esemplificativo.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 05Al netto dei mutamenti del gusto intervenuti nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, che attraverso le successive correnti artistiche hanno naturalmente influenzato anche l’illustrazione politica, ci sono in questi manifesti altre evidenze, non prettamente estetiche, relative ai contenuti piuttosto che allo stile, che balzano immediatamente agli occhi.

In quelli risalenti all’ultimo decennio dell’Ottocento e ai primi del secolo successivo, ad esempio, la sinistra è personificata in immagini quasi esclusivamente femminili: sono allegorie botticelliane, adattate ai canoni dell’Arts and Crafts di William Morris prima e a quelli dell’Art Nouveau dopo. L’atmosfera e le posture leggere delle giovinette, che sembrano sempre pronte a librarsi in volo (quando già non stanno volando) riflettono in fondo le ottimistiche speranze della Belle Époque in un crescente benessere. A tutto questo non è naturalmente sotteso alcun riconoscimento particolare del ruolo della donna nella realizzazione di una futura società egualitaria. Sono solo rappresentazioni simboliche: e tuttavia quella che trasmettono è l’idea di una possibile transizione armonica. L’immagine femminile non ha nulla di mi naccioso, al contrario, si fa garante di un futuro di bellezza. E i seni generosamente esposti al vento, oltre a sfidare il farisaico moralismo borghese, promettono abbondanza e libertà. 

Breve nota sull'immaginario della sinistra 03Al volgere del secolo cominciano a comparire invece sui manifesti delle figure maschili, di solito in pose statuarie, o immagini di coppie o di gruppi. Dall’idealizzazione allegorica si plana verso una rappresentazione “realistica”, sia pure virata in chiave epica. Cambia anche l’atmosfera. La guerra mondiale ha fatto strage delle vecchie speranze, mentre la rivoluzione bolscevica ne alimenta di nuove, almeno in apparenza più concrete. L’iconografia sovietica è esemplare in questo senso. Un trionfo di solidità e concretezza. Quella italiana invece per tutto il ventennio semplicemente scompare. Nel frattempo si impongono sempre più i loghi, che caratterizzano un modello comunicativo mirante più a creare una immediatezza identitaria che a infondere emozioni: l’immancabile falce e martello, il pugno chiuso, e poi trattori, strumenti di lavoro, paesaggi industriali di taglio futurista.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 06Nel secondo dopoguerra all’iniziale “realismo” di ispirazione sovietica (ma anche hollywoodiana) succede, soprattutto in Italia, un “razionalismo” di chiara matrice architettonica, che punta sulle geometrie dei volumi e allude al titanico impegno della ricostruzione. Ma non sono solo le immagini a perdere levità. Alla loro maggiore pesantezza corrisponde quella dell’atmosfera sociale (lo dicono esplicitamente gli slogan: non di una festa si tratta, ma di una lotta): non è più tempo di famiglie felici e di serenità, ma di guerra fredda, di contrapposizione dura. In quest’ultima direzione muovono a partire dagli anni sessanta i manifesti della sinistra sindacalizzata e radicalizzata, pre e post-sessantottina, mentre quella storica e partitica tende a mettere la sordina al conflitto (è l’epoca del centro-sinistra e poi del compromesso storico) optando per simboli rassicuranti: la rosa in luogo della falce e martello, campi e officine sempre più stilizzati. Nei decenni successivi anche il lavoro cede gradualmente la scena ad altri temi: l’ambiente, la questione di genere, l’informatizzazione, l’integrazione. Questo mentre si completa l’auto-intestazione della ricorrenza da parte dei sindacati e dei partiti, o addirittura delle loro guide storiche.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 04Col nuovo secolo i manifesti praticamente scompaiono. L’informazione e la celebrazione passano ora attraverso i nuovi media. Scompaiono anche, assieme ai cortei e ai comizi, le ultime occasioni per sentirsi bene o male accomunati da una idealità e da una lotta. Lasciano il posto a un’idea di festa di tutt’altro tipo: non si marcia nei cortei, non ci si aduna pei comizi, ma si balla, si urla e ci si sballa ciascuno per proprio conto al concertone. Ricordandosi ogni tanto di alzare il pugno chiuso o di scandire gli slogan lanciati dal palco.

L’immaginario della sinistra ha un gran bisogno di essere non solo rinnovato, ma addirittura rifondato, se vuol tornare a librarsi in qualche modo oltre la desolante realtà del presente: e a questo scopo diventano indispensabili le preliminari disincrostazioni, le ripuliture dalla zavorra ideologica operate da Beppe Rinaldi. Buona lettura, dunque. 

di Paolo Repetto, 15 novembre 2023

Prolegomeni a una nuova sinistra 39

Prolegomeni a una nuova sinistra

di Giuseppe Rinaldi, pubblicato su Finestre rotte il 6 marzo 2023

Prolegomeni a una nuova sinistra 021. Il recente libriccino di Aldo Schiavone[1], presentato niente meno che come manifesto, nonostante le riserve che può avere suscitato[2], ha una sua importanza, perché ha il merito di mettere sul tavolo una serie di problemi di cui la sinistra italiana ha completamente smarrito il senso. Osserva infatti l’Autore che: «La sinistra non discute da decenni dei suoi principî: e questo l’ha messa in uno stato di confusione totale. È ora di venirne a capo»[3]. Siamo perfettamente d’accordo. Tanto per chiarire come stanno le cose nello specifico, l’Autore aggiunge che: «[…] lo scadimento dipende non poco dalla rinuncia quasi unanime degli intellettuali, dopo la fine delle battaglie ideologiche del secolo scorso, a esercitare una funzione pubblica di stimolo, di conoscenza, di critica e di suggerimento, e dal loro ritrarsi – pur se spesso non senza qualche ragione – dalla frequentazione della vita pubblica, o di quel che ne resta»[4]. Ci sentiamo di aggiungere che i nuovi politicanti della sinistra hanno volentieri congedato gli intellettuali per restare essi stessi i soli depositari dei futili giochi tra gli improbabili leader dalla scadenza incerta, seppur sempre più ravvicinata. Sul rapporto sempre più evanescente tra la politica e gli intellettuali nel nostro Paese si veda il recente saggio di Giorgio Caravale[5].

Prolegomeni a una nuova sinistra 01Al di là dei meriti del manifesto di Schiavone, esso è senz’altro utile almeno per fissare i punti essenziali che dovrebbero essere oggetto di un dibattito che si prospetta come piuttosto urgente. Ad esempio, nelle recenti mozioni dei candidati per la Segreteria del PD si è vista in opera la tendenza, in voga da un po’, a compilare lunghi elenchi di obiettivi, lunghe liste della spesa, senza dare alcuno spazio alle considerazioni teoriche. In questo saggio discuteremo passo a passo le argomentazioni principali di Schiavone. Anche se dopo le recenti vicende elettorali della sinistra (compreso l’ultimo Congresso del PD) dubitiamo seriamente che in giro ci sia qualcuno che abbia ancora voglia di discutere di simili questioni. Il saggio che il lettore si appresta a leggere è sicuramente pesante e noioso, per la quantità delle questioni sollevate e anche a causa del numero elevato di citazioni. Non sono qui per divertire, e poi le strade più facili sembra non abbiano poi tanto funzionato.

Prolegomeni a una nuova sinistra 032. Diverse pagine del saggio di Schiavone sono spese per mettere in evidenza il fatto, con cui concordo perfettamente, che la sinistra in Italia ha smesso di pensare: «L’aspetto che più salta agli occhi nella condizione in cui si trova la sinistra nel nostro Paese è il vuoto d’idee che la circonda»[6]. Questa situazione, secondo Schiavone, sarebbe dovuta principalmente a due eventi di lunga durata che hanno cambiato completamente la prospettiva della sinistra. Anzitutto la caduta del comunismo. In secondo luogo l’avvento delle nuove tecnologie. Si tratta oltretutto di fenomeni collegati tra loro. Una nota teoria sostiene, infatti, che l’implosione dell’Unione Sovietica sia avvenuta soprattutto per l’incapacità del sistema autoritario real-comunista di convivere con la diffusione di massa delle nuove tecnologie che include la libertà di produzione e circolazione dell’informazione. Perché andare così indietro nel tempo? Semplicemente perché per almeno un secolo e mezzo il concetto di sinistra è stato coniugato col socialismo e il comunismo. Un passato che è stato semplicemente rimosso, con il quale la “sinistra” deve ancora fare i conti.

Più ancora in profondità, la crisi della sinistra odierna sarebbe dovuta – secondo Schiavone – a un mutamento profondo nella prospettiva della eguaglianza. La sinistra che oggi è in crisi veniva da una storia plurisecolare (dopo la rivoluzione industriale) dove il motivo conduttore era il conflitto tra capitale e lavoro. Se si preferisce usare il linguaggio sociologico, possiamo parlare di lotta di classe. Gli eguali sfruttati e coalizzati avrebbero combattuto la fonte stessa dello sfruttamento e della diseguaglianza e avrebbero instaurato una società di eguali. Con ciò emancipando l’intera umanità. L’aspetto rilevante della questione è il fatto inconfutabile che l’obiettivo della eguaglianza che veniva perseguito era direttamente connesso a questo specifico conflitto. Afferma Schiavone che: «Da allora in poi, dovunque, in ogni partito della sinistra, lavoro ed eguaglianza sarebbero apparsi quasi come sinonimi: il binomio dell’avvenire socialista. La forza del lavoro sarebbe stata anche la forza dell’eguaglianza. Il problema era solo di trasformare la spinta socializzante e uniformatrice della classe operaia in regola generale dell’intera società»[7]. Il ragionamento stringente di Schiavone – ricorrente in tutto il saggio – è che il venir meno progressivo del modello tradizionale del lavoro industriale abbia intaccato l’obiettivo fondamentale dell’eguaglianza che si davano tutte le sinistre. La crisi generalizzata della sinistra sarebbe dunque la crisi di un modello epocale di eguaglianza. Ci sarebbe proprio questo dietro la perdita, di cui tanto si parla, del rapporto tra la sinistra e il suo popolo.

Prolegomeni a una nuova sinistra 043. Si tratta allora di fare i conti fino in fondo con quella matrice culturale che aveva istituito quel legame. La sinistra degli ultimi due secoli – quella che Hobsbawm chiama seconda sinistra[8], è stata caratterizzata, in un modo o nell’altro dalla prospettiva marxista. Anche nelle versioni meno rivoluzionarie e più riformiste. Afferma Schiavone che: «Oggi sappiamo che il pensiero di Marx conteneva errori irrimediabili: fra i più decisivi, una sottovalutazione grave dell’importanza della politica in generale, e della democrazia liberale in particolare, e della loro capacità di retroagire sulle strutture economiche e di modificarle, sia pure solo entro certi limiti. Errori che avrebbero aperto la strada a tragedie su cui ora è inutile tornare»[9]. Tragedie che tuttavia dovremmo avere ben presenti, nel momento in cui ci accingiamo a discutere di una nuova sinistra.

Prolegomeni a una nuova sinistra 07aGli errori irrimediabili di Marx non sono ancora divenuti argomento di pubblico dibattito. E continuano ad agire nella nostra storia quotidiana. Alcune delle società post comuniste costituiscono oggi una gravissima minaccia per il Mondo intero. Insomma, l’assetto delle società capitalistiche e della universale lotta di classe era considerato come un assetto permanente ed eterno, un dato di fatto divenuto visione tradizionale del mondo. L’impianto marxiano era divenuto una specie di scolastica ritualistica che ha tarpato il pensiero e che ha reso la sinistra incapace di comprendere i cambiamenti del Mondo. La scolastica marxiana e marxista – grazie anche agli apparenti successi del socialismo reale – è stata mantenuta stoicamente contro tutte le evidenze e poi è stata abbandonata di colpo, alla fine della Guerra fredda, senza alcuna analisi. Spiega Schiavone che: «Nel nostro Paese, sin dalla Liberazione, il marxismo avrebbe costituito l’intelaiatura culturale e ideale dei due maggiori partiti della sinistra: una scelta difesa con ostinazione dal più forte di essi – il Pci – sino alla fine; per essere poi abbandonata di colpo, guardandosi bene dal pronunciare una sola parola. Un comportamento che non saprei dire se più politicamente disastroso o moralmente vergognoso. E tutto questo senza che nessuno – o quasi – degli intellettuali che pure si erano completamente riconosciuti in quella dottrina sentisse il bisogno di intervenire. La vittoria della destra – di questa destra – è cominciata allora: da quell’incredibile silenzio»[10].

Prolegomeni a una nuova sinistra 054. La caratteristica fondamentale dell’intero periodo della seconda sinistra[11] fu dunque – Secondo Schiavone – l’identificazione del lavoro con l’eguaglianza. Che doveva dare luogo non solo a una eguaglianza formale ma anche a una eguaglianza sostanziale. Il socialismo o comunismo reale era concepito come la terra dell’eguaglianza sostanziale. La fine dell’Unione sovietica significò non solo la fine del socialismo, ma anche la fine del connubio tra lavoro ed eguaglianza sostanziale. In altri termini, significò la fine dell’età del lavoro. Ciò non significherà evidentemente la fine effettiva del lavoro, inteso come attività e funzione sociale, bensì la fine del lavorismo, cioè della ideologia del lavoro. Se vogliamo, la fine della identificazione stretta tra il cittadino e il lavoratore. Una traccia di questa identificazione, peraltro del tutto priva di effetti di sostanza, resta nell’art. 1 della nostra Costituzione.

Secondo Schiavone: «Quel che stava accadendo era, semplicemente, che la trasformazione in atto aveva fatto sparire il contesto sociale e culturale in cui avevano vissuto sino ad allora i partiti progressisti in Occidente: e niente potrà mai restituircelo. Perché con l’età del lavoro finiva anche l’età della lotta di classe, che era connessa a un modo di strutturarsi delle società occidentali che oggi quasi non esiste più. Un epilogo che la sinistra non ha ancora assorbito e metabolizzato, e che riempie tuttora di sé il nostro tempo: la cui importanza, sebbene le conseguenze non smettano di colpirci e di disorientarci, non è stata ancora colta né dal punto di vista storico, né da quello concettuale, della teoria, se non da qualche isolato, grande sociologo. I giovani in particolare non se ne rendono conto, a meno che non gli venga precisamente spiegato, anche se – senza esserne consapevoli – ne vivono sulla propria pelle le conseguenze: tanto i più felici tra loro come i più sfortunati. Ed è sotto le macerie di questo mondo che giace il corpo della sinistra, non solo in Italia, ma più o meno in tutto l’Occidente: a pezzi, per quanto ricoperto di alloro»[12]. Il sociologo cui l’Autore allude nel testo è Alan Touraine.

È vero o non è vero che il mondo sociale della seconda sinistra è finito definitivamente? Se si vuol procedere oltre, con una nuova sinistra, indubbiamente bisogna prenderne atto. La fine dell’identificazione stretta tra cittadino e lavoratore ha costituito per la sinistra un processo lungo e travagliato che – almeno nel nostro Paese – non sembra neanche del tutto terminato[13]. Soprattutto per il fatto che la sinistra per un paio di secoli aveva parlato soprattutto di lavoratori e nel nostro Paese aveva poca dimestichezza con le nozioni relative al cittadino e alla cittadinanza, cioè con le nozioni relative al pensiero liberale e democratico (quello che, secondo Hobsbawm[14], ha caratterizzato la prima sinistra).

Prolegomeni a una nuova sinistra 065. Le trasformazioni tecnologiche ed economiche hanno dunque portato al tramonto della prospettiva della lotta di classe e alla sparizione della soggettività stessa della classe operaia. Che costituiva il riferimento sociale della sinistra, il cosiddetto popolo della sinistra[15]. La perdita del riferimento sociale fu dunque soprattutto un effetto dei grandi processi storici che non furono adeguatamente compresi e problematizzati. La poca dimestichezza della sinistra con il pensiero democratico rendeva poco appetibile l’idea che si potesse pensare a un partito semplicemente di cittadini. Il rifiuto della democrazia borghese avvenuto col Manifesto di Marx sembrava irreversibile. Cominciò così un inutile viaggio alla ricerca del soggetto trasformatore alternativo. Si fecero numerosi tentativi. Il Terzo mondo e le sue rivoluzioni, gli emarginati, le donne, i poveri, gli immigrati, gli scontenti della globalizzazione, i movimenti monotematici per le grandi cause. Si fecero vani tentativi di ripetere quello stesso schema che risale addirittura al giovane Marx. Trovare cioè un soggetto politico che emancipando se stesso riesca a emancipare l’intera umanità. Inutile dire che il soggetto rivoluzionario alternativo non fu mai trovato. In realtà le sinistre hanno continuato a perdere consensi e quello che era il popolo della sinistra si è spostato sempre più verso la destra.

Schiavone qui ha il merito di dire con chiarezza quale sia oggi – secondo lui – la sola soluzione possibile: «Staccare […] definitivamente l’idea di sinistra da qualunque idea di socialismo, con la quale ogni politica progressista si era più o meno identificata sin dalla nascita: un’idea che aveva ormai il sapore arcaico del ferro, del vapore e del carbone. E, di conseguenza, staccare l’idea di eguaglianza – che, se poggiata su nuove basi, mantiene, eccome, tutta la sua attualità – dall’idea di lavoro (e di socialismo); e la figura del cittadino da quella del lavoratore. Ricongiungere direttamente, in altri termini, sinistra e (nuova) eguaglianza, senza passare attraverso il lavoro e il socialismo: come non è stato mai fatto nella modernità dopo la rivoluzione industriale. Mettere in campo un’idea diversa di sinistra per un’idea inedita di eguaglianza: lontane tutt’e due dal mito della socializzazione attraverso il lavoro, ma capaci di svilupparsi in un mondo ormai invaso dalle differenze e dal moltiplicarsi delle soggettività. E collocate entrambe in uno spazio culturale e strategico frutto di una prospettiva finalmente davvero inclusiva e globale, che solo ora – non prima, come sbagliando si pensava – è possibile permettersi. Andando oltre la catastrofe irreversibile del socialismo, e oltre la fine della centralità del lavoro operaio: della classe operaia come classe generale che liberando sé stessa avrebbe liberato l’intera umanità, secondo la formula bellissima ma piena di inganni delle nostre illusioni di una volta»[16].

Sono parole, in un certo senso liberatorie, che hanno il merito di dare una sana scrollata a tutti coloro che hanno avuto in passato una formazione di sinistra, a tutti coloro che ancora albergano i fantasmi inconsci del sol dell’avvenire. A tutti coloro che ancora subiscono gli effetti deleteri della diseducazione comunista[17].

Prolegomeni a una nuova sinistra 076. Questo però significa – a nostro modesto avviso – tornare a prima della seconda sinistra, alla prima sinistra, quella liberaldemocratica[18]. La prospettiva, detta in soldoni, è quella di riprendere in mano il filone dell’emancipazione del cittadino. L’emancipazione del lavoratore (che sarà comunque sempre degna di rilievo) sarà solo un’implicazione, una conseguenza della prima. Schiavone addirittura interpreta questo nuovo programma come un recupero di una prospettiva umanistica del tutto coerente con lo sviluppo storico della civiltà occidentale. Una prospettiva la cui realizzazione solo ora è divenuta possibile: «È indispensabile avere chiarezza e saper distinguere. L’idea fondante della sinistra, che ne racchiude tutto il cammino ed esprime un principio che sta nell’anima dell’Occidente sin dall’antichità greca, è l’emancipazione dell’umano, di tutto l’umano; non il socialismo: che è stato solo un mezzo per raggiungere quell’obiettivo, ma non il fine, anche se spesso le due cose sono state confuse. E oggi proprio quella meta è diventata realistica come mai prima, grazie all’aumento vertiginoso di potenza che la rivoluzione tecnologica sta mettendo a nostra disposizione: solo che la si sappia usare nel verso giusto. Bisogna perciò andar oltre, con un pensiero in grado per prima cosa di restituirci un’immagine attendibile del mondo, e con una visione capace di guardare lontano: virtù oggi rare, che dobbiamo saper ritrovare. Non ne va solo del futuro della sinistra. Ne va del futuro di tutti»[19].

Insomma, arrovellarsi perché la sinistra abbia perso il consenso dei poveri (o degli emarginati, o di altre fumose categorie sociali) non serve a nulla. I poveri de facto non rappresentano il modello per costruire la nuova società e per emancipare l’umanità. I poveri non sono l’avanguardia nuova. Non sono il modello di umanità cui ci si debba riferire (anche se, ovviamente, rientrano a pieno titolo in un progetto di emancipazione umana). Infatti nella prassi politica comune – lo si vede tutti giorni – sono perfettamente compatibili con le ideologie e le politiche della destra. Poveri, emarginati e lavoratori votano tranquillamente i partiti di destra. Insomma, in estrema sintesi, il poverismo non è il rimedio ai limiti ormai storici del lavorismo.

7. Chiarita la questione di fondo, possiamo accingerci a passare ai temi del secondo capitolo. Un altro nodo fondamentale, nella ricostruzione della sinistra nuova, è quello della politica. Qui abbiamo ravvisato tuttavia un qualche limite nel ragionamento di Schiavone. Un non sequitur rispetto alle sue precedenti argomentazioni. Il vecchio manifesto marxiano, dopo la descrizione delle condizioni materiali del proletariato che contribuivano a costruire la classe in sé, si affannava a spiegare come quelle condizioni materiali stesse avrebbero contribuito ad alimentare la coscienza di classe, la nuova soggettività che avrebbe lottato per quel modello di eguaglianza e di cittadinanza basata sul lavoro. Il capitolo sulla nuova politica Schiavone avrebbe dovuto scriverlo dopo, alla fine, dopo l’individuazione del nuovo modello di eguaglianza da proporre non più ai compagni ma, evidentemente, ai citoyens. (Si veda oltre). Collocato invece in questa posizione, finisce per risultare sconnesso dal ragionamento generale e dunque piuttosto generico.

Prolegomeni a una nuova sinistra 088. Seguiamo comunque le argomentazioni proposte da Schiavone perché hanno comunque qualcosa di interessante da dire rispetto al dibattito attuale. È universalmente riconosciuto che le democrazie occidentali attraversino una crisi della politica. C’è una enorme letteratura in proposito. Schiavone riconduce questa crisi a due questioni principali. La prima è la selezione della classe dirigente e la seconda è quella della partecipazione politica.

La crisi della politica nelle democrazie occidentali sarebbe strettamente connessa alla diffusione del populismo. Purtroppo Schiavone non è il grado di dire, a partire dal suo modello, se il populismo sia la causa o l’effetto della crisi della sinistra tradizionale. Noi propendiamo per sostenere che il populismo sia piuttosto un effetto. Il populismo altro non è se non la ricerca dell’ennesimo soggetto trasformatore, di un nuovo protagonista della storia. Il popolo (termine quanto mai generico) messo al posto del lavoratore. Secondo la nostra analisi, il crollo della sinistra di classe – è successo visibilmente in tutti i Paesi dell’Est Europa – ha portato alla luce l’etno-nazionalismo e il sovranismo. Quello stesso che si è manifestato nella Ex Jugoslavia e che si manifesta oggi in Russia. Il populismo è l’ultimo disastroso esito della ricerca del soggetto sociale rivoluzionario. Com’è noto, il populismo è assai flessibile e può avere versioni sia di destra sia di sinistra. In Italia, dove gli orfani della sinistra di classe sono davvero molti (questo perché avevamo il maggior partito comunista dell’Occidente), li abbiamo avuti entrambi: la classe operaia, dopo la fine della civiltà del lavoro, ha ahimè riempito le file dell’etno-nazionalismo leghista e ha riempito le file del movimentismo del M5S. Poiché la politica era sempre stata identificata con la lotta di classe (soft o hard che fosse) la fine della lotta di classe è stata percepita ipso facto come fine della politica. La sinistra non conosceva altra politica che quella. Di qui il sostantivo e progressivo declino della politica, che ha portato la sinistra nell’attuale situazione di sfacelo.

Prolegomeni a una nuova sinistra 09In ogni caso Schiavone è ben consapevole nell’esigenza di andare oltre il populismo che poi si sostanzia nell’antipolitica e nel rifiuto dello Stato. Nella proposizione di scorciatoie illusorie, risolutrici di tutti i problemi. Afferma Schiavone: «Riportare i cittadini – e i giovani in particolare – alla politica è dunque il primo compito di una sinistra tornata in piedi. Stare a sinistra questo innanzitutto significa, oggi: riconquistare alla politica lo spazio e il consenso perduti, ridarle sovranità, e con quest’ultima restituirle etica e conoscenza. Garantirle finalmente un orizzonte all’altezza dei problemi e delle opportunità che abbiamo di fronte»[20]. Non si può non essere d’accordo. Tuttavia Schiavone non coglie che con la lotta di classe se n’è andato anche un preciso specifico significato della politica, con tutto quel che era compreso: la partecipazione, la militanza, la specifica cultura politica della sinistra, un preciso modello d’impegno e di socialità. Un effettivo ritorno alla politica (di questo si tratta) dovrebbe essere in grado di produrre un equivalente di quel che si è perso. Su basi diverse, certo. Ma deve essere un equivalente.

Secondo Schiavone, la nuova politica dovrebbe essere connessa indissolubilmente con il progetto politico europeo. Per questo si tratta di andare oltre all’idea di nazione (altra nozione novecentesca da superare, per Schiavone, insieme a quella di classe). Qui Schiavone riprende implicitamente il riferimento alla cittadinanza nella forma di una comune cittadinanza europea. Afferma Schiavone: «Credo sia il momento di lanciare l’idea di una Costituente per la nascita di una sinistra d’Europa – da portare tra i cittadini dei diversi Paesi coinvolti e non solo nel Parlamento di Bruxelles: per la formazione di un partito progressista da Madrid a Berlino, da Parigi a Roma, in grado di proporre obiettivi e programmi condivisi, pur nella pluralità delle sue culture e delle sue ispirazioni»[21]. Evidentemente l’Europa non può funzionare come patria nazionale. Non può essere costruita con l’etno-nazionalismo. Per la costruzione di una comune patria europea non nazionale occorre mettere in campo quello che Habermas ha chiamato patriottismo della costituzione. Ne ha parlato a lungo il nostro Rusconi.

Val la pena di aggiungere, da parte nostra, anche l’esigenza improrogabile di un sindacato unitario europeo. Chi scrive ha iniziato la sua prima esperienza sindacale una cinquantina di anni fa, sentendo continuamente pronunciare, in quegli ambienti, la litania della unità sindacale. La divisione delle sigle sindacali poteva avere un senso all’epoca della cinghia di trasmissione tra lotta economica e lotta politica, nel contesto della civiltà del lavoro e della lotta di classe. Ora i residui divisivi di quella stagione continuano a intralciare la lotta economica dei cittadini/ lavoratori. A maggior ragione poi, le organizzazioni sindacali – nate tutte nella stagione della seconda sinistra – dovrebbero essere in prima file nel darsi una struttura europea, poiché i problemi dei cittadini / lavoratori sono sempre più dipendenti dal livello decisionale europeo. Schiavone non ne parla ma penso sarebbe perfettamente d’accordo. Adombra perfino l’esigenza di un coordinamento globale dei progressisti, almeno in Occidente. Si tratterebbe di una continuazione della vecchia idea dell’Internazionale dei lavoratori, che nella sua versione originaria fu più o meno limitata all’Europa ottocentesca. Una democratica Internazionale dei cittadini.

Prolegomeni a una nuova sinistra 109. L’altro problema connesso alla crisi della politica è quello della crisi dei partiti. L’analisi di Schiavone qui mi è parsa ahimè piuttosto sbrigativa e decisamente carente. Mi proverò ad aggiungere qualcosa di appena più sostanzioso. Com’è noto, la tradizione dell’eguaglianza lavorista europea aveva dato origine a un modello di partito di massa (il partito della tradizione socialdemocratica tedesca) che aveva una caratteristica fondamentale: quella di riprodurre nel partito le procedure egualitarie della democrazia formale. Sappiamo bene che quelle strutture non erano perfette, tanto che furono minuziosamente analizzate e criticate[22]. Tuttavia quelle strutture ebbero una loro efficacia e si diffusero tosto anche presso i partiti notabilari, tanto da caratterizzare poi un’intera epoca della politica europea. Restavano fuori da un lato il modello di partito nord americano (una tradizione notevolmente diversa, dove comunque la democrazia era recuperata sul piano dell’investitura diretta del leader/notabile) e dall’altro dai modelli di partito di stampo leninista (dove la democrazia interna era sacrificata in nome della compattezza “militare” dell’organizzazione). È rilevante il fatto che sia il modello socialdemocratico, sia il modello leninista si mostrarono funzionali in un modo o nell’altro al quadro storico della lotta di classe. Si tratta allora di capire se – essendo venuta meno la civiltà del lavoro e della lotta di classe – la sinistra nuova debba anche rinunciare alla sua forma partitica tradizionale, quella di derivazione socialdemocratica (quella leninista la possiamo trascurare poiché non ha passato il test della storia). Si tratta cioè di capire se, modificando i contenuti, la forma organizzativa si può salvare.

Indubbiamente, la crisi dei tre partiti di massa italiani che più di tutti avevano adottato e impersonato il modello organizzativo tedesco (PCI, DC, PSI) ha comportato anche l’insorgenza di una sfiducia verso quel modello. E la ricerca di nuovi modelli sperimentali. L’unico partito nuovo che ha adottato un modello approssimativamente leninista è stata la Lega Nord (oltre a qualche cespuglio di estrema sinistra). Abbiamo avuto poi l’epoca dei partitini personali, le cui regole di democrazia interna lasciavano alquanto a desiderare. Compresi i movimenti personali, che poi hanno sviluppato la deriva populista. Abbiamo nel nostro Paese due casi principali di sperimentalismo di nuove strutture organizzative: il M5S e il PD. Non possiamo qui entrare nel merito, ma col senno di poi si può dire che abbiano fallito entrambi. Lasciando una pesante incertezza su quale sia la forma partito adatta per la sinistra nuova. Il modello partitico/ movimentista del M5S è stato indubbiamente il più ambizioso, essendo fondato sulla pretesa novità del direttismo[23] e sullo strumento organizzativo della rete. Dopo un successo momentaneo, dovuto anche alle doti personali di Beppe Grillo nel gestire le adunate e gli spettacoli di piazza, il modello organizzativo grillino ha mostrato le gravi insufficienze tanto da divenire un partito proprietario, da produrre una sequela di espulsioni/scissioni da partito staliniano, e da mostrare un livello di dibattito politico interno prossimo allo zero. Alla faccia della democrazia diretta! Il PD ha invece scimmiottato il modello della democrazia americana, un modello con forti residui sette-ottocenteschi, una democrazia del leader che ha costantemente confuso il dibattito circa la linea politica con la scelta delle persone attraverso le primarie. Su questo argomento ho avuto modo di produrre una serie di analisi approfondite. Tutte reperibili sul mio blog. Chi abbia voglia di entrare nel merito dei gravi limiti organizzativi del PD odierno può studiare seriamente i due splendidi saggi di Antonio Floridia sull’argomento[24].

Prolegomeni a una nuova sinistra 11In ogni caso, il modello organizzativo del PD ha fallito miseramente, alimentando un sistema correntizio nient’affatto democratico e riducendo il PD stesso ai minimi termini. Gli ultimi ad accorgersene sono proprio quelli del PD. L’ultimo Congresso ha mostrato limiti evidentissimi proprio a livello di democrazia interna e partecipazione, contrapponendo la scelta degli iscritti a quella degli elettori. Al di là della scelta del nuovo segretario, il PD attuale sembra non mostrare alcuna consapevolezza critica circa il fallimento sostanziale del suo modello organizzativo sperimentale originario. Tutte le grandi promesse di cambiamento interno per ora restano sulla carta delle mozioni dei diversi candidati. Staremo a vedere.

Schiavone non entra nel merito della questione della democrazia interna dei partiti – come invece avrebbe dovuto fare, proprio a partire dalla sua impostazione. Secondo l’Autore, veniamo da una stagione di attacco ai partiti e ugualmente da una stagione di tentativi di trovare delle alternative ai partiti. Alternative che sono puntualmente fallite. Dichiara Schiavone: «In realtà, bisogna convincersi che i partiti servono, sono consustanziali alla forma rappresentativa della democrazia, e non se ne può fare a meno. Senza, non c’è politica e non c’è democrazia, almeno nelle forme che oggi conosciamo e che ancora ci appaiono prive di alternative credibili. Il pluralismo delle opinioni, l’articolazione delle differenze, senza delle quali non può formarsi nessuna dialettica democratica che abbia un minimo di affidabilità, richiedono necessariamente la presenza di una mediazione. Che le diversità si solidifichino e prendano consistenza strutturandosi in raggruppamenti politici distinti, in competizione fra loro»[25]. Sembra che Schiavone pensi che i partiti in termini organizzativi siano il male, ma che occorre rassegnarsi perché i partiti servono. Su queste basi non si va molto lontano.

Prolegomeni a una nuova sinistra 12Prosegue nella sua analisi: «Il punto è che il modello che si era delineato in Italia al culmine della «Repubblica dei partiti» – cioè di un partito a trama forte, densa di consistenza burocratica e di apparati territoriali – deve essere oggi rimesso seriamente in discussione senza però che questo significhi in alcun modo rinunciare alla funzione da esso svolta nell’organizzazione della politica. E ci sono molte ragioni per essere convinti che questo tipo di revisione debba riguardare soprattutto la sinistra, e che si debba approfittare della fase costituente di cui comunque non si potrà fare a meno per ridisegnare completamente il profilo del soggetto cui consegnare la rinascita»[26]. Si tratta di una proposta alquanto generica. Schiavone avanza in pratica due proposte: quella del “partito ponte” e quella del “partito laboratorio” che, se non andiamo errati, sono vicine al dibattito portato avanti nel PD da Fabrizio Barca e poi affossato da Renzi. Echi di tutto ciò si sono avuti nelle famose mozioni dei candidati al Congresso del PD. Anche qui, staremo a vedere. Schiavone in generale non sembra prendere sul serio la questione organizzativa, quando invece a nostro giudizio è una delle questioni principali.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1310. Il terzo capitolo del saggio di Schiavone ha per titolo Lo sguardo critico sul presente. Qui l’Autore si occupa dell’avvenuta sparizione della critica dall’orizzonte culturale della sinistra. E cioè anche della rottura della sinistra con gli intellettuali e più in generale con l’attività della produzione culturale. Il posto della critica culturale – questa è una mia aggiunta – è stato scandalosamente preso dall’amministrazione delle cose. Generazioni di grigi amministratori hanno occupato il posto dei politici che un tempo avevano una statura intellettuale, scrivevano saggi impegnativi, dirigevano giornali e case editrici, e soprattutto, sapevano scrivere qualcosa di più dei tweet. Vi è mai capitato di leggere anche solo un articolo scritto di pugno da Bonaccini o dalla Schlein? Ma questi sanno scrivere? O twittano soltanto? Sono loro che scrivono quei libri di autopromozione elettorale che circolano, che nessuno legge e che non resteranno certamente nelle cronache letterarie? Sul divorzio tra intellettuali e politica ho già citato il recente Caravale 2023.

Afferma in proposito Schiavone, riallacciandosi ovviamente alla prospettiva di una critica illuministica: «Non c’è sinistra senza pensiero critico. Non c’è sinistra senza mettere in questione l’ordine del presente. Lo abbiamo a lungo dimenticato. Dobbiamo riportarlo al centro del nostro orizzonte. La sinistra, in Italia e in Europa (per l’America il discorso sarebbe in parte diverso), ha confuso la fine della lotta di classe con la fine di un atteggiamento critico di fronte alla realtà contemporanea. Ha confuso la fine del comunismo con l’obbligo intellettuale, prima ancora che politico, di accettare l’ineluttabilità della disciplina tecnocapitalistica del mondo come oggi si configura. E le sparute minoranze che non lo hanno fatto sono riuscite a opporsi a un simile abbaglio solo nel nome di un impossibile ritorno a ciò che abbiamo perduto. Si sono comportate da orfane del comunismo, ostinate a proporre di nuovo una strada che non esiste più»[27]. Adeguarsi all’esistente o riprodurre la tradizione sono per la sinistra reale solo due facce della stessa medaglia.

Il problema è allora quello di definire in modo nuovo il tipo di critica di cui la sinistra nuova si deve occupare e soprattutto il suo oggetto. Non si può evidentemente tornare al modello della critica marxista al capitalismo. Schiavone indica due principali oggetti intorno ai quali la sinistra dovrebbe recuperare un’attenzione critica rinnovata: la tecnica e il capitalismo. Si potrebbe dire di primo acchito che qui non ci sia nulla di nuovo. In realtà per Schiavone si tratta di mutare radicalmente l’impostazione generale di questa critica. Tecnica e capitalismo – mi permetto di aggiungere – non vanno combattuti con i toni diffusi dei molteplici intellettuali che cantano l’avvento del nichilismo e il declino dell’Occidente[28] – e che si spacciano per sinistra – ma vanno criticati affinché questi possano affermarsi proficuamente nel migliore dei modi, a beneficio di tutti. Alla critica disfattista occorre contrapporre una rinnovata critica progressista. La critica rigorosa non deve necessariamente essere disfattista. Deve essere costruttiva.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1411. Va riconosciuto che Schiavone è uno dei pochi intellettuali italiani postmarxisti che non si è unito all’universale piagnisteo reazionario alla moda contro la tecnica (nonostante alcune sue simpatie foucaultiane che traspaiono anche in questo libretto). Un altro ben noto nel nostro Paese è Maurizio Ferraris.

Dice Schiavone a proposito della tecnica: «La tecnica è potenza. Non è un dato metafisico, non si alimenta di forze incontrollabili. L’idea che essa in quanto tale nasconda una sua malefica oscurità, e che il suo intensificarsi non faccia che allargare questo fondo buio e insondabile, non nasconde una verità originaria da riportare alla luce, ma piuttosto un remoto terrore nutrito dalla nostra specie, connesso alla presa di coscienza delle proprie illimitate capacità. È il timore dell’onnipotenza, ben riflesso nel racconto biblico del peccato originale: del presunto carattere antiumano del troppo sapere, se spinto fino al punto da spezzare la barriera della finitezza. Ma la tecnica è solo storia: dalla prima volta in cui un ramo caduto o spezzato è stato usato come un bastone, fino al funzionamento dell’ultimo acceleratore di particelle. In essa c’è solo la pulsione umana, tutta evolutiva, a padroneggiare ciò che abbiamo intorno e dentro di noi per salvarci dall’ignoto, dal pericolo del non conosciuto. E c’è l’attitudine ad acquisire conoscenza e controllo: una spinta primaria che coincide con la nostra stessa forma biologica. Questione del tutto diversa è invece il suo uso sociale […]»[29].

La tecnica, insomma, non ha nulla di dis-umano. Noi stessi siamo tecnica, come sostiene Ferraris con fondate argomentazioni[30]. Quel che siamo, quel che stiamo diventando, lo dobbiamo alla tecnica. La tecnica comprende in sé eccezionali possibilità di liberazione e di invenzione dell’umano (che dipendono tuttavia dall’uso che ne sapremo fare).

Prolegomeni a una nuova sinistra 15In generale, aggiunge Schiavone sulla tecnica: «Più la tecnica diventa potente, sia pur sempre all’interno di rapporti di produzione capitalistici, maggiore risulta penetrante la sua forza trasformatrice, più rende sicure e stabili le condizioni materiali delle nostre vite (cibo, salute, altri beni di consumo primari), tanto più essa consente alle menti di sentirsi meno dipendenti da costrizioni oggettive, e di allargare le proprie vedute fino a renderle universali. E permette alla nostra etica di non restare prigioniera di vincoli imposti solo dalla limitatezza delle risorse disponibili, e di poter concepire l’interezza dell’umano nella sua unità, senza distinzioni e senza gerarchie: e di dare a questa scoperta la forza di una legge morale, il potere di una regola da non infrangere. Di conquistare alla nostra intelligenza la capacità di scoprire nuove connessioni e nuovi equilibri, e di non confondere pratiche sociali determinate solo dalla storia con principî imposti dalla prescrittività della natura. In altri termini: l’aumento di potenza della tecnica accresce la nostra libertà e la nostra capacità di autodeterminarci. O per essere più precisi: l’incremento di potere della tecnica crea le premesse indispensabili perché l’umano possa liberarsi, fino a concepire sé stesso nella sua totale integrità, e nelle potenzialità infinite racchiuse nelle finitezze delle singole vite che lo esprimono. Non è quindi il progresso tecnologico in quanto tale a diventare direttamente emancipazione. Esso determina solo le condizioni per rendere possibili nuovi dispositivi sociali sempre meno costrittivi, differenti quadri culturali, modelli etici più includenti e tendenzialmente universali. Sono questi cambiamenti a creare più libertà e maggiore emancipazione: le quali a loro volta possono gettare le basi per nuove acquisizioni scientifiche e tecnologiche, e quadri sociali ancora più avanzati a livello globale. Ed è in questo modo, attraverso questo circuito – dove si intrecciavano scienza, tecnica e umanesimo – che l’Occidente, e prima ancora l’Europa, che è stata a lungo la parte tecnologicamente più avanzata del pianeta, sono presto diventati anche il luogo dei diritti e delle libertà: certo molte volte calpestati o negati, ma pur sempre dichiarati come irrinunciabili[31]». Qui Schiavone invoca un radicale cambiamento di prospettiva. La tecnica dunque, con tutte le cautele critiche che si vogliano adottare, accresce la nostra libertà e la nostra capacità di auto determinarci. Altro che nichilismo! Sarà il caso dunque di liberarsi della cultura piagnona dei postmoderni (che sono in gran parte post marxisti), una cultura che è solo una reazione inconsulta di fronte a novità che non si sanno governare.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1612. Lo stesso capovolgimento di prospettiva va fatto sul capitalismo. Per Schiavone si tratta di realizzare una nuova analisi del capitalismo. Il capitalismo è un fenomeno storico e noi stiamo assistendo a un’importante trasformazione del capitalismo. Occorre prendere atto della fine, almeno in Occidente del capitalismo industriale classico, al quale si era contrapposta la vecchia sinistra. Da decenni, dopo uno studio approfondito della letteratura allora disponibile, ci eravamo personalmente convinti che l’analisi marxiana e marxista del capitalismo fosse completamente sbagliata. Già riferita al capitalismo dei tempi suoi. La teoria del valore di Marx non ha alcun fondamento, è solo aristotelismo scolastico. A maggior ragione la sua teoria è inapplicabile al capitalismo odierno. La teoria marxista è oltretutto andata incontro a un’impressionante falsificazione da parte della storia. Le aberrazioni della Cina (tuttora comunista!), la follia criminale di Milošević e di Putin, il delirio di Kim Jong-un. Non dimentichiamo tuttavia anche l’ineffabile Pol-pot che aveva imparato il marxismo a Parigi.

Secondo Schiavone, nella nuova configurazione capitalistica che si prospetta: «[…] lo sfruttamento classico – quello che una volta si chiamava l’estrazione del plusvalore attraverso il pluslavoro, il lavoro cioè erogato ma non retribuito – è riservato solo alle forme di lavoro a più bassa densità tecnologica, dove continua a prevalere l’aspetto puramente quantitativo dell’attività umana. Esso è lavoro ormai senza difesa; diventato economicamente e socialmente marginale, perché attraverso di esso non passa nulla di decisivo per il capitale, e nemmeno per la società nel suo insieme. Mentre quanto più il lavoro incorpora competenze complesse – e oggi accade per fasce sempre più vaste di lavoratori, a diversi livelli – tanto più il suo rapporto con il capitale si fa equilibrato, e la differenza fra i loro redditi tende a diminuire. Perché il valore delle merci dipende ormai dalla tecnologia in esse incorporata, e non più dalla quantità di lavoro vivo necessario a produrle, perciò diminuisce il bisogno di nuovo sfruttamento da parte del capitale (un fenomeno che Marx stesso aveva nebulosamente intuito, senza trarne le dovute conseguenze)»[32].

Si noti che lo Schiavone persiste, nonostante tutto, nell’uso di certo vocabolario marxiano (“lavoro vivo”, …). Segno questo del radicamento dell’apparato concettuale marxiano anche nel nostro linguaggio comune odierno. Anche nel linguaggio “critico”. La critica di Schiavone – se rigorosamente adottata – ha notevoli conseguenze per una nuova sinistra. Si tratta di operare una distinzione, all’interno del capitalismo, tra le persistenze tradizionali del vecchio mondo industriale, che andranno via via superate e il carattere innovativo del capitalismo nell’ambito dei settori più avanzati. Questo significa che la sinistra nuova deve accingersi a convivere nella maniera migliore con il capitalismo, senza pregiudizi e demonizzazioni, criticandone duramente e correggendone gli aspetti deleteri. Questo significa che la nuova sinistra dovrà elaborare una teoria matura intorno alle modalità di rapporto tra Stato e mercato.

Prolegomeni a una nuova sinistra 17Su questo punto Schiavone è oltremodo chiaro: «È chiaro che in questo scenario la creazione di merci materiali a media e bassa densità tecnologica non scompare del tutto; né scompare il lavoro meccanicamente esecutivo: ma entrambi vedranno diminuiti progressivamente i loro addetti, in parte sostituiti da macchine dotate di intelligenza artificiale, in parte delocalizzati in aree geografiche al di fuori dell’Occidente, dove per ora il loro costo è minore. Soprattutto, quei lavori diventano in un certo senso residuali, scaduti rispetto al cuore produttivo del sistema. E poiché non sono collegati a più nulla di decisivo per gli equilibri dell’intera struttura – diversamente da quanto succedeva per il lavoro operaio di una volta, che era invece al centro di tutti i principali processi produttivi di tipo industriale – essi non sono in grado di difendersi da forme anche estreme di sfruttamento, che però non costituiscono più contraddizioni rilevanti rispetto all’insieme del dispositivo economico»[33]. Si tratta allora di distinguere. Indubbiamente ci possono essere dei contraccolpi. Nei settori più arretrati possono comparire addirittura forme di lavoro servile o di schiavitù. I cattivi lavori andranno dunque progressivamente aboliti e sostituiti da lavori più a misura d’uomo. Questo non avverrà automaticamente e dovrà essere posto come obiettivo politico.

Allora: «[…] la sinistra deve ritrovare la forza – intellettuale, prima ancora che politica – di rimettere il capitale sotto la sua lente d’ingrandimento, di sottoporlo nuovamente al proprio esame critico. Non per porre all’ordine del giorno la sua fine, ma per misurarne le azioni e le strategie sul parametro – etico, prima ancora che politico – del bene comune della specie; valutarne l’eventuale distanza, e predisporre quanto necessario perché quella lontananza si riduca il più possibile. Riuscire a opporre cioè la razionalità universale e impersonale dell’umano a quella pur sempre specifica e particolaristica della produzione capitalistica. Questo confronto dovrebbe diventare l’anima della sua politica»[34]. Questo in generale significa che la sinistra deve essere in grado di rigettare il suo attuale piatto pragmatismo, che poi diventa assuefazione, adattamento al mondo così com’è, e sottoporre la propria azione a un indirizzo etico politico che abbia una solida fondazione nella propria visione del mondo, nella propria filosofia, nella propria nuova cultura politica. In altri termini, il capitalismo, l’economia di mercato, va governato e spetta alla nuova politica della sinistra mostrare come questo sia possibile. Rispetto al vecchio marxismo, si tratta di riconoscere una buona volta il primato delle idee, il primato della sovrastruttura, se si adotta il vecchio linguaggio marxiano. Del resto su questa strada Gramsci aveva già fatto notevoli passi avanti. E si tratta di rigettare il machiavellismo, il realismo politico, che quando professato come criterio unico non si ferma al pragmatismo ma scivola inevitabilmente nell’opportunismo e nel qualunquismo.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1813. Nel suo quarto capitolo, Schiavone affronta – in maniera va detto non sempre lineare – una serie di questioni davvero importanti. Senza affrontar le quali la sinistra si confonderebbe immediatamente con un club di gretti individualisti. È tuttavia questo il capitolo più discutibile del manifesto. Il più aperto e certo anche il più meritevole di discussione. Anche perché qui potremo riprendere la questione della cittadinanza.

14. Anzitutto Schiavone affronta una questione particolare, non insormontabile. La questione dell’identità italiana. La questione identitaria è stata posta a lungo negli scorsi decenni, a partire dal dibattito sulla patria e sulla identità nazionale della metà degli anni Novanta[35]. È un dibattito su cui sono intervenuti molti studiosi e intellettuali, tra cui lo stesso Schiavone[36]. Un dibattito che manco a dirlo non ha interessato più di tanto il mondo politico.

Schiavone afferma che: «Tra i molti errori della sinistra c’è di sicuro quello di aver lasciato alla destra il monopolio della rivendicazione identitaria. È un tema che invece si deve riprendere con vigore, esibendone una visione completamente diversa rispetto a quella della destra, ma non meno forte, tutt’altro. L’identità italiana non è un bene acquisito una volta per tutte, che si recupera o si lascia perdere, come si cerca di far credere. Non è qualcosa di scritto nel passato. È un insieme di pensieri, di riconoscimenti e di costruzioni culturali che cambia di continuo, e che ogni generazione ricrea in modo diverso; è un patto di fiducia che si rinnova con la propria storia e con la propria coscienza civile. Ed essa non è alternativa all’identificazione europea, né all’auto percezione – che per fortuna avanza sempre di più – di essere cittadini del mondo, di far parte di una comunità globale. All’Europa e al mondo si aderisce con tanta maggiore consapevolezza, quanto più ci si avverte italiani: anzi, quanto più si sa proteggere e rafforzare questo riconoscimento. Intanto, perché il cosmopolitismo è una nostra antica vocazione, senza la quale, per esempio, il Rinascimento non sarebbe stato quello che è stato»[37].

La sinistra nuova, dunque, ha da essere identitaria ma non sovranista. Ma a mio modesto avviso questa conclusione non basta. Proprio dal dibattito sull’identità italiana mi sentirei di precisare che l’identità di cui abbiamo bisogno non è un’identità di tipo etno-nazionale (cui mira invece consapevolmente la destra), bensì un’identità basata sulla nozione habermasiana della cittadinanza della costituzione. Se si preferisce, del patriottismo della costituzione. Una identità dal carattere fondamentalmente politico e di derivazione illuministica[38]. Si tratta di concetti di una certa complessità che non ho spazio qui per approfondire. I nostri politici medi di sinistra ovviamente nulla sanno di queste distinzioni.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1915. Schiavone comunque cerca di sostanziare, anche se non ne parla esplicitamente, i principi di una cittadinanza della costituzione, attraverso la proposta di un patto. Devo qui dire che personalmente non mi piacciono i patti in questi termini. Non è chiaro perché quando si legge qualcosa che assomiglia a un programma politico o a una mozione ci sia sempre qualcuno che propone un patto di qualche sorta. Si vedano le mozioni dei candidati alla Segreteria del PD che sono pieni di patti. Si tratta per lo più di artifici retorici poiché non si precisano mai le circostanze del patto stesso. Non siamo certo in presenza di un patto repubblicano. Schiavone propone (ahimè, anche lui) un patto di carattere politico, basato sulla costruzione europea e sul contrasto alle diseguaglianze. E qui, comunque, con la cittadinanza costituzionale ci stiamo: «L’intero Patto dovrebbe ruotare intorno a due soli punti: solitari e decisivi. Primo: impegno contro le grandi strutture di diseguaglianza attive nella società italiana. Secondo: impegno per fare del nostro Paese il leader di una nuova fase dell’unificazione europea, vista in una prospettiva di sempre più completa integrazione occidentale e planetaria. Formulato in altro modo, e in una sola frase: meno diseguaglianza, ma senza alcun appiattimento, e senza rinunciare ad alcuna differenza; e insieme: un’idea d’Italia con dentro più Sud, più mare, più Europa e più mondo. È tutta qui – in queste sole righe – la sinistra che aspettiamo»[39]. Il grande compito della nuova sinistra dunque dovrebbe essere quello di determinare l’introduzione di nuove forme di eguaglianza, per lo meno a livello europeo, lasciando massima libertà alle differenze. Un compito chirurgico di grande difficoltà.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2016. La questione delle diseguaglianze è ancora dunque fondamentale anche e soprattutto nella costruzione di un programma politico. In questa ultima parte Schiavone si accinge a discutere in profondità il senso nuovo che la nuova sinistra dovrebbe conferire alla questione della eguaglianza. Si tratta cioè – ricordiamolo – di connettere l’eguaglianza non più con il lavoro bensì con la cittadinanza.

Dice Schiavone: «La storia – sia più antica, sia recentissima – ha sedimentato nel nostro Paese grandi strutture di diseguaglianza, che lo rendono estremamente fragile e che stanno compromettendo la sua vita civile e politica, e il funzionamento stesso della democrazia repubblicana. Con questa espressione – strutture di diseguaglianza – intendo l’esistenza, stratificata nel tempo, di complessi apparati di discriminazione, in ognuno dei quali si combinano variamente in un unico meccanismo amministrazione, economia, società, diritto, mentalità. Essi finora sono stati sempre in qualche modo favoriti o coperti dalla politica, e agiscono come vere e proprie macchine del diseguale, moltiplicando i loro effetti su fasce di cittadinanza sempre più ampie. Mi limito a indicarne quattro, a mio giudizio più significativi: la sanità, la scuola, il mercato del lavoro, il sistema-Mezzogiorno preso nel suo insieme: autonomie, burocrazie, intrecci di affari, politica e criminalità che dal Sud si sono estesi all’intera Penisola. Affrontare questi nodi e almeno iniziare a scioglierli sarebbe il segno di un’autentica rivoluzione italiana»[40]. Per questo occorre: «[…] il disegno di un nuovo progetto che sia in grado di costituire il nucleo di un Patto di eguaglianza da proporre al Paese per la salvezza della sua democrazia. Un Patto che sia già un programma politico, stretto non in nome di una classe – che porti cioè dentro di sé il segno dell’esclusione – ma del «comune umano» come soggetto e come valore includente e globale»[41].

17. È proprio la nozione del “comune umano”, che qui compare, a costituire un qualche problema, una potenziale pietra d’inciampo. Schiavone ribadisce che il programma egualitario andrebbe dunque perfezionato e portato avanti «non in nome di una classe». E questo è il rifiuto esplicito della vecchia prospettiva della giustizia socialista, di cui abbiamo già detto. Qui si pone tuttavia il problema di individuare il punto di vista generale che dovrebbe sostenere il nuovo programma egualitario. Nel linguaggio tradizionale del pensiero democratico si parlerebbe forse del bene comune o di una qualche ricetta per individuarlo. Si tratta in altri termini di definire il senso del nuovo egualitarismo. E, nello stesso tempo, anche il suo retroterra sociale universale.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2118. Cominciamo con il richiamare anzitutto perché non va più bene il vecchio modello di eguaglianza. E questo non è difficile. Secondo Schiavone, il vecchio modello di eguaglianza: «È ora di farlo scomparire del tutto: perché crea solo equivoci, e impedisce a chi ancora lo immagina di interpretare e capire davvero il mondo. Per farlo, bisogna guardare da un’altra parte. Bisogna spostare l’idea di eguaglianza dal piano dell’economia dove l’aveva messo lo sviluppo capitalistico di una volta – per non dire del pensiero di Marx – a quello dell’etica e delle coscienze. Un cambiamento non semplice, ma decisivo: prima impossibile, ma che adesso ci possiamo finalmente permettere, proprio perché le basi tecnologiche della società che sta nascendo ce lo consentono. Oggi infatti l’effetto di prossimità che le nuove tecniche permettono di acquisire rispetto a ogni luogo del pianeta – pensiamo alla difesa dell’ambiente come fatto globale, o all’immaginario delle giovani generazioni in tutti i grandi centri urbani – sta rendendo per la prima volta possibile il formarsi di una visione unitaria e totalizzante dell’umano – che ha appunto l’eguaglianza per sua misura – senza più legarla direttamente a un modo di lavorare e di produrre, bensì a una forma complessiva della vita: non l’unica, ma indispensabile. E soprattutto senza cancellare o mettere in discussione le ineliminabili diversità che pure sopravvivono all’interno di quella rappresentazione unificante: né quelle diciamo così naturali, né quelle sociali. E costruire questa nuova veduta – l’eguaglianza come misura dell’umano – non come l’intuizione di una minoranza, ma come l’autorappresentazione di un’intera civiltà»[42].

Quello che Schiavone vuol dire – credo – è che la messa da parte dell’eguaglianza socialista non deve precipitare in un tipo di società sul modello di Mandeville, dove ognuno persegue ferocemente solo e immediatamente il proprio particulare[43]. Uguali in quanto concorrenti. Se in campo economico è ammesso un settore privato, che è il settore dove si producono le differenze più pesanti, nella sinistra si dovrà dare risalto al momento del pubblico e del comune. Il pubblico e il comune deve avere come riferimento l’umano, cioè l’universale, che poi (credo) può essere interpretato come il cittadino universale di questo pianeta. Sarebbe questo presumibilmente il culmine di un lungo e tormentato processo che ha portato alla universalizzazione dei diritti umani, alla universalizzazione condivisa di un nucleo, in continua espansione, di diritti dell’uomo. Tipico dell’oggi tanto esecrato Occidente.

Prolegomeni a una nuova sinistra 22Secondo Schiavone: «Si riconduce così l’eguaglianza – il suo paradigma e il suo fondamento – a un altro riferimento, non più produttivo e sociale, ma morale e cognitivo, in qualche modo antropologico: una svolta senza precedenti, che libera questo concetto da un ancoraggio ormai assolutamente inattuale: quello della socializzazione operaia. E lo lega invece a un diverso modo, storicamente più adeguato e più proprio, di concepire l’indiscutibile universalità dell’umano, che oggi la nuova tecnica e la sua potenza esibiscono sotto gli occhi di tutti con un’evidenza prima impossibile da raggiungere: a quello della sua nuda impersonalità. Si può pensare e costruire cioè – eticamente, politicamente, giuridicamente – la nuova eguaglianza come la forma per eccellenza dell’impersonale umano, e rendere quest’ultimo, attraverso la sua costituzione istituzionale e sociale, il soggetto cui attribuire i diritti (universali) dell’umano: i diritti di un’universale e impersonale cittadinanza, non più connessa a una forma di lavoro, né a un modo di produzione, ma al riconoscimento di una comune identità, spersonalizzata e perciò totalmente inclusiva, l’identità dell’umano, che ha l’eguaglianza come sua unica misura. Un’identità certo consentita dallo sviluppo tecnocapitalistico, ma che tuttavia l’oltrepassa, sporge oltre di esso e della sua logica, e si apre sull’ignoto»[44].

Spiega ulteriormente l’autore: «[…] diventa non solo concepibile, ma estremamente realistica una figura diversa e complementare, che non si identifichi né con l’“io” individuale della vicenda capitalistico – borghese, né con il “noi” della tradizione socialista, ma con l’impersonalità di quell’ “egli”, di quella “non-persona” che, senza identificarsi con alcuno, permette a ciascuno di esistere e di pensare, e di potersi autorappresentare in quanto umano. Perché ognuno di noi sarebbe nulla se non potesse affondare il proprio sguardo negli occhi dell’altro – di ogni altro della terra – e riconoscerlo come parte di un tutto al quale anch’egli stesso appartiene»[45]. In tutto questo ragionamento sull’universale, il concetto che ci è parso più discutibile e bisognoso di qualche approfondimento in termini definitori è quello della impersonalità. Tornerò sull’argomento.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2319. Nel successivo paragrafo Schiavone fa un tentativo di dar corpo concreto a una definizione più precisa. Se abbiamo capito bene, nella nuova prospettiva l’eguaglianza deve venire a patti con le differenze, che rappresentano un bene altrettanto prezioso. Si tratta allora di definire con cura i campi ove deve assolutamente prevalere l’eguaglianza in nome del comune umano impersonale dai campi invece ove è possibile anzi doveroso lasciare spazio alle differenze. Se invece si lasciano le cose come stanno, si ha la produzione delle disuguaglianze e l’avanzamento sistematico del disumano.

Dice Schiavone in proposito: «Le si contrasta invece – quelle strutture [che producono diseguaglianza, ndr] – attraverso un approccio complessivo, che sia in grado di capovolgerle dalle fondamenta, investendo ciascuna di esse con i criteri di una logica sociale mai prima messa alla prova, che comprenda l’inclusione e la differenza, il pareggiamento e la diversità. Costruendo cioè isole di nuova eguaglianza opposte e simmetriche rispetto alle macchine del diseguale: un’eguaglianza non seriale e ripetitiva, ma riferita in maniera puntiforme unicamente all’accesso a beni e servizi molto precisi e determinati. Zone di parità che punteggiano oceani di differenze individuali, anche molto accentuate, che vanno lasciate intatte al proprio posto. E che però si dileguano fino ad annullarsi completamente quando si avvicinano a toccare aspetti per i quali non devono più esistere singole individualità, ma soltanto il «comune umano», nella sua interezza e nella sua impersonale indivisibilità»[46].

Nel riconoscimento delle universali differenze esistono dunque – secondo Schiavone – degli «aspetti per i quali non devono più esistere singole individualità». Qui sta il nocciolo della questione. Ci sembra di capire dunque che l’eguaglianza vada perseguita solo rispetto al “comune umano” e non rispetto ad altre particolarità, che invece vanno utilmente lasciate indisturbate, magari anche valorizzate. L’eguaglianza insomma non è mai assoluta. Occorre sempre dichiarare “Uguali rispetto a cosa?”. Diventa allora essenziale per la sinistra chiarire e concordare quali debbano essere i terreni dell’eguaglianza, i terreni del comune umano. Qui nascono le grandi fonti di disaccordo con cui la nuova sinistra dovrà comunque confrontarsi: le questioni relative ad esempio alla distribuzione, alla pace o alla guerra, ai diritti individuali, alla cittadinanza, alle limitazioni per la salvaguardia ambientale e quant’altro.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2420. Una gran novità, secondo Schiavone, dovrebbe essere la seguente: «Si tratta di un processo che deve avere al suo centro non i singoli soggetti – gli individui – ma gli oggetti, i beni. Non deve localizzarsi all’interno di ciascuno di noi, ma all’esterno; nel tessuto stesso della realtà, sia naturale, sia artificiale: in quelle sue parti condivise dall’umano nel suo insieme. Una sfera, quest’ultima, in continua espansione, grazie ai meccanismi di controllo e di trasformazione che la tecnica introduce non solo nell’ambiente che ci circonda, ma nella nostra stessa conformazione biologica: sulla materialità dei nostri corpi, determinandone il destino»[47]. Un’eguaglianza di tipo distributivo rispetto a certi beni dei quali nessuno, in quanto umano, potrebbe esser privato? Qui siamo nel campo scivoloso e complesso dei diritti umani, quelli che Bobbio considerava in continua espansione, su cui la nuova sinistra dovrà prender posizione. Ben al di là dei miseri elenchi che circolano nei programmi dei candidati. Personalmente andrei cauto nel riservare la questione dell’eguaglianza solo ai beni, agli oggetti. Abbiamo ancora molti problemi di eguaglianza che riguardano i diritti individuali. A meno che non si voglia considerare anche certi diritti individuali come un tipo particolare di beni. Ad esempio il diritto per coppie omosessuali a sposarsi e ad avere dei figli, il diritto alla cittadinanza per i nati in Italia, e così via.

Così sembrerebbe: «Emergerebbero così segmenti di vita regolati da un’eguaglianza che agisce in modo intermittente e discontinuo, legata alla fruizione di alcune precise risorse, e alla protezione di alcuni beni: l’inviolabilità della vita stessa, prima di tutto, nella pienezza della sua esistenza, dall’alimentazione alla salute, alla formazione. L’ecosistema nella sua interezza; l’accesso al digitale e alle tecnologie in grado di modificare lo statuto genetico dell’umano, e così via. Mentre rispetto a tutto il resto rimarrebbero prevalenti quei criteri di differenziazione e di disequilibrio indotti dalla natura, dal genere, dal mercato»[48].

Prolegomeni a una nuova sinistra 25Aggiunge Schiavone, tanto per chiarire: «Negli ultimi anni la riflessione giuridica sui cosiddetti «beni comuni», come quella sui «beni pubblici globali», entrambi patrimonio dell’impersonalità umana che si fa soggetto giuridico e paradigma etico è andata avanti, con risultati significativi. In queste esperienze ci si riferisce a fasce di beni e di servizi sottratti con apposite regole al controllo da parte del capitale, e affidate a un’altra razionalità economica – un’economia dell’universalità umana, l’autentica economia non capitalistica dell’impersonale, produttrice di valori d’uso e non di merci – con una fruibilità garantita in modo eguale, e comunque al di fuori delle discipline di mercato, all’intera cittadinanza»[49].

Prolegomeni a una nuova sinistra 26Possiamo pensare a qualcosa come l’ambiente bene comune. Possiamo pensare forse a qualcosa come il FAI, oppure i beni che l’UNESCO ha dichiarato come patrimonio dell’umanità. Possiamo pensare a certi progetti che girano su internet di mettere a disposizione di tutti gli umani il patrimonio librario universale. Oggi si adombra l’idea di un’intelligenza artificiale con cui chiunque possa interloquire per ottenere informazioni distillate dall’enorme globale infosfera che l’umanità stessa sta costruendo collettivamente. Si può pensare alla messa in comune di brevetti che abbiano una rilevanza “umana” come ad esempio le cure per le malattie oppure le tecnologie per la produzione di energia pulita. Un’espansione, dunque, della sfera del comune umano a discapito del privato proprietario. Alla fine del paragrafo 3 Schiavone fa alcuni esempi ulteriori presi dal campo della discussione sui beni comuni. Dal campo della scuola e della questione del merito e dal campo del lavoro.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2721. È chiaro che dietro a tutto ciò compare la questione (che in termini pratici diventa poi decisiva) del rapporto tra la sfera del comune e la sfera del mercato, che rimane comunque capitalistico, per quanto possa essere ben regolato dalla mano pubblica. Schiavone precisa che: «In queste esperienze ci si riferisce a fasce di beni e di servizi sottratti con apposite regole al controllo da parte del capitale, e affidate a un’altra razionalità economica – un’economia dell’universalità umana, l’autentica economia non capitalistica dell’impersonale, produttrice di valori d’uso e non di merci – con una fruibilità garantita in modo eguale, e comunque al di fuori delle discipline di mercato, all’intera cittadinanza. Essa rappresenterà un fattore di riequilibrio tra offerta (capitalistica) e bisogni (dei cittadini)»[50]. Su tutto ciò si può anche concordare. Tuttavia Schiavone dimentica una questione decisiva. Tutto ciò può essere realizzato grazie a un intervento deciso dello Stato. Lo Stato è l’ospite sconosciuto di tutti i dibattiti sul futuro della sinistra. Nell’inconscio della vecchia sinistra c’è un’ambivalenza – disastrosa nei suoi effetti – nei confronti dello Stato (e dell’amministrazione), il quale dovrebbe essere il solutore di tutti i problemi ma del quale fondamentalmente si diffida e che non di rado è considerato un nemico. Se la nuova sinistra dovrà far pace con la tecnica e con il capitalismo, dovrà anche far pace con lo Stato. Per far pace con lo Stato e per rafforzarlo l’unica strada è quella del patriottismo della costituzione. Bisognerà adottare la prospettiva per cui «lo Stato siamo noi». Solo così lo Stato potrà limitare il mercato, offrire le garanzie ai cittadini e impedire i soprusi. Questo esclude la prospettiva della deregulation neoliberista, se non in quei casi in cui la regulation si sia mostrata disfunzionale. Bisognerà riprendere i temi della riforma dello Stato, di cui nessuno si interessa. Come bisognerà riprendere il discorso sulle organizzazioni internazionali.

Prolegomeni a una nuova sinistra 29Anche il mercato del lavoro potrebbe lasciar spazio a un altro tipo di mercato, oggi anticipato dal vasto settore del volontariato, basato sul dono alla comunità: «Mentre in società in cui si lavorerà sempre di meno – in modo sempre più qualificato, ma per periodi sempre più ridotti – si potrebbe prevedere di liberare in modo sistematico una parte del tempo di lavoro dal vincolo del mercato, e di destinarlo, sotto forma di servizio alla comunità, ad attività utili per l’insieme della cittadinanza, scelte da chi le compie in base alle proprie competenze e vocazioni. Questa possibilità è oggi realistica perché può passare attraverso una separazione cruciale, una volta improponibile: quella tra il lavoro in forma di merce – la forza-lavoro venduta e comprata sul mercato – e il lavoro in quanto tale, come impegno e fatica per la realizzazione di sé. Un lavoro, quest’ultimo, sottratto al mercato e alla forma di merce, e consegnato invece alla comunità senza la mediazione del capitale. La distinzione era stata finora impraticabile perché le condizioni tecnologiche non la consentivano: tutto il lavoro doveva finire sul mercato per permettere la sopravvivenza materiale e la dignità sociale di intere classi, di larghissima parte della società. Oggi invece comincia a non essere più così»[51].

Prolegomeni a una nuova sinistra 30La chiave di svolta è ancora una volta la natura storica del lavoro e della figura del lavoratore. Schiavone in prospettiva è convinto che: «La quantità di lavoro da destinare al mercato tenderà sempre più a ridursi, perché una sua parte sempre maggiore sarà sostituita dalla tecnica, e questo renderà disponibile per scopi diversi una quota sempre maggiore di energia psicofisica umana. Si libereranno in tal modo risorse che costituiscono un potenziale enorme, ma che oggi, per effetto di una distorsione culturale, sociale ed economica – forse addirittura antropologica – appaiono solo come eccedenza di forza-lavoro non impiegata, spesso con conseguenze drammatiche per le persone escluse dal circuito produttivo; mentre si tratta di una riserva preziosa, finalmente da poter destinare a compiti diversi, lontani dalla sola riduzione del lavoro umano a forza-lavoro in forma di merce. È un ordine di pensieri che si apre su immensi campi inesplorati, e che forse potrebbe anche dirci qualcosa sulla storicità del capitale, sulla sua non eternità. Ma c’è bisogno di studio e di coraggio intellettuale. La costruzione di un diverso modo di essere eguali non può fare a meno di simili ricognizioni»[52].

Prolegomeni a una nuova sinistra 3122. Dicevamo di una certa fatica teorica da parte di Schiavone, in questo ultimo capitolo. In effetti, le diverse questioni sembrano piuttosto affastellate. Tutte cose assai interessanti che tuttavia faticano a trovare un ordine concettuale ben definito. Qui si può tornare alla questione poco chiara del concetto di impersonalità. Occorrerebbe secondo Schiavone: «[…] distinguere le due forme in cui si realizza l’umano – quella individuale e quella impersonale – riservando per ciascuna di esse diverse funzioni sociali, economiche, politiche. Non è del tutto chiaro cosa intenda Schiavone con la nozione della “non-persona” come forma di auto realizzazione. Quando Schiavone parla di impersonalità si riferisce evidentemente a un superamento della “persona”. Si tratta evidentemente – per quel che abbia mo capito – di una nozione di stampo foucaultiano risalente a Roberto Esposito[53]. Queste parentele e connessioni si possono capire ricorrendo allo studio precedente di Schiavone, incentrato proprio sulla nozione dell’eguaglianza[54]. Non abbiamo però capito quale vantaggio si abbia nell’utilizzo di questo concetto. È – a nostro giudizio – un poco disdicevole che Schiavone, intendendo produrre un manifesto politico abbia deciso, nella sua parte centrale basilare, di legarlo ai sofismi di una discutibile filosofia postmoderna. L’impersonale di Esposito/Schiavone, spogliato del linguaggio della bioetica e della biopolitica postmoderna, assomiglia comunque alquanto, a nostro giudizio, al kantiano cittadino del mondo. Quello che ha dato l’avvio alla tradizione moderna del cosmopolitismo. Più in generale, c’è dietro tutta la tradizione umanistica, dai Greci ai giorni nostri.

Prolegomeni a una nuova sinistra 32Schiavone, nelle sue argomentazioni, riprende in realtà più o meno consapevolmente – con un linguaggio talvolta oscuro – tematiche vecchie e nuove che hanno alimentato analoghi filoni di discorso. In campo antropologico si è sviluppato da tempo una riflessione sulla economia del dono[55]. Esiste poi un’ampia letteratura nazionale e internazionale facilmente reperibile sull’economia dei beni comuni. La riflessione di Schiavone sul cambiamento del significato del lavoro, è abbastanza analoga alla riflessione prodotta recentemente da Maurizio Ferraris intorno alla produzione di valore che ciascuno di noi realizza, senza alcun comando, senza alcuna retribuzione, in rete, in quanto utente delle nuove tecnologie. Lavoro che impropriamente viene appropriato dai monopolisti del web e che invece in certa misura potrebbe essere ridistribuito. Si veda ad esempio Ferraris 2015 e Ferraris 2021. Una tematica analoga a diversi esempi proposti da Schiavone è quella del capitale sociale. Si tratta di un concetto di cui si è discusso assai nell’ambito delle scienze sociali e che ha trovato una varietà di formulazioni ma anche una varietà di applicazioni. Un’altra tematica analoga è quella della cultura civica della democrazia[56] a proposito della quale esiste un filone di ricerca e riflessione che dura da decenni.

Prolegomeni a una nuova sinistra 33Insomma, si tratta di uscire dai confini disciplinari della tradizionale eguaglianza lavorista e socialista per dare luogo a una nuova elaborazione culturale che sappia fondere varie disparate riflessioni che ci sono già e che attendono soltanto di essere opportunamente e rigorosamente concettualizzate. E qui ci sarà senz’altro molto lavoro da fare.

Prolegomeni a una nuova sinistra 3523. Schiavone contribuisce dunque, in questo suo manifesto, a delineare un nuovo quadro culturale per una futura nuova sinistra. O, almeno, a manifestarne fondatamente l’esigenza. Una futura sinistra sganciata dall’ ingombrante eredità socialcomunista, sganciata dal lavorismo, capace finalmente di non demonizzare la tecnica e di mettere il capitalismo al lavoro in nome dell’umano e non contro l’umano. Il riferimento politico di fondo è la cultura della democrazia e la individualità autonoma della tradizione umanistica occidentale che ha prodotto il cittadino della polis come migliore forma di vita. Se non piacciono le proposte di Schiavone, non lo si potrà comunque ignorare, perché quelli da lui individuati sono comunque i problemi che vanno affrontati. Hic Rhodus, hic salta!

Prolegomeni a una nuova sinistra 37Schiavone inoltre evidenzia – senza dirlo esplicitamente ma con le sue considerazioni complessive – un altro errore della sinistra tradizionale. L’errore di avere ridotto la democrazia a democrazia formale. Nell’ambito della prospettiva socialista, la democrazia era impegnata a fornire l’elemento formale, mentre l’elemento sociale e culturale era fornito dal sol dell’avvenire. Ora che il sol dell’avvenire sembra tramontato per sempre insieme alla civiltà del lavoro, è quanto mai urgente dar voce a un nuovo elemento contenutistico della democrazia, un nuovo profondo contenuto sociale e culturale, incentrato intorno a una nuova modalità di concepire l’eguaglianza. È quanto Schiavone ha cercato di fare e quanto dovremo continuare a fare noi tutti se vogliamo mettere in marcia autenticamente la prospettiva di una nuova sinistra democratica.

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Appendice

Le tre, o quattro, sinistre. Poiché si parla qui di sinistra, cosa il cui significato è oggi pressoché smarrito, può essere utile un inquadramento in prospettiva storica dell’oggetto in questione. Per rimanere nel campo della sinistra, secondo Hobsbawm[57], nel corso degli ultimi duecento anni, si sono succedute diverse sinistre. Almeno tre.

La prima sinistra è stata quella liberale. È la sinistra che ha combattuto l’aristocrazia: ai tempi di Luigi XVIII e di Carlo X in Francia i Liberali si contrapponevano agli Ultras. Insomma, la prima sinistra sarebbe quella che ha guidato le rivoluzioni borghesi e, parzialmente, i movimenti di costruzione della nazione, soprattutto in Europa. In prossimità alla sinistra liberale, ma anche in contrapposizione, tra Settecento e Ottocento è nata una sinistra repubblicana e democratica. Col passare del tempo, la sinistra liberale e quella democratica hanno trovato una sintesi ormai stabile nella cosiddetta liberaldemocrazia.

La seconda sinistra è quella che ha visto la contrapposizione tra i primi movimenti sociali popolari e la borghesia (in questo caso la borghesia si è spesso trovata spinta su posizioni di destra. È il caso, ad esempio, di Luigi Bonaparte). La seconda sinistra, si è sviluppata come una sinistra di classe, ha una storia molto lunga che, approssimativamente, dal 1848 giunge fino agli anni ‘70 del Novecento. È stata in gran parte egemonizzata dal pensiero socialista e comunista e dalla forma organizzativa del partito di massa. Ha dato un contributo importante alla costruzione della nazione e alla democratizzazione della nazione, nel senso dell’inclusione del maggior numero. Mediante un intreccio con la prima sinistra ha dato vita alla socialdemocrazia.

La terza sinistra secondo Hobsbawm (che scrive nel 1999) sarebbe una manifestazione recente, legata alla crisi progressiva del conflitto di classe, cioè alla crisi delle socialdemocrazie e alla crisi dei comunismi. È una sinistra che nasce sul terreno della società e della cultura di massa, e si caratterizza per avere una cultura politica composita, per il possesso di forme organizzative leggere e, spesso, per il carattere mono tematico (single issue) delle sue campagne politiche. Sembrerebbe meno interessata alle questioni specificatamente nazionali e più aperta a una prospettiva di tipo universalistico.

Le cose non sono andate proprio come previsto da Hobsbawm. Per questo mi sento di proporre una qualche variazione al suo schema. Dal mio punto di vista la terza sinistra è la sinistra populista, emersa (o riemersa) negli ultimi due decenni. La considerazione del populismo come un tipo di sinistra pone alcuni problemi, poiché il populismo si schiera spesso e volentieri anche a destra. Oggi tuttavia, soprattutto in relazione alla situazione italiana e al caso del M5S il problema non si pone. Possiamo pensare alla sinistra populista come uno sviluppo degenerato derivante dalla crisi della seconda sinistra. E forse da taluni problemi non risolti nell’ambito della prima sinistra.

Accanto a queste tre, abbiamo oggi ampi sviluppi (che Hobsbawm non poteva allora presagire) della sinistra single issue, che qui considereremo allora come una quarta sinistra.

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Opere citate

1963 Almond, Gabriel A. & Verba, Sidney, The Civic Culture. Political Attitudes and Democracy in Five Nations, Princeton University Press, Princeton.

2023 Caravale, Giorgio, Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni, Laterza, Bari.

1997 de Mandeville, Bernard, La favola delle api, ovvero, vizi privati, pubblici benefìci, con un saggio sulla carità e le scuole di carità e un’indagine sulla natura della società, Laterza, Bari. [1724]

2007 Esposito, Roberto, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino.

2015 Ferraris, Maurizio, Mobilitazione totale, Laterza, Bari.

2021 Ferraris, Maurizio, Documanità. Filosofia del mondo nuovo, Laterza, Bari.

2021 Floridia, Antonio, Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel Partito Democratico. Postfazione di Nadia Urbinati, Castelvecchi, Roma. [2019]

2022 Floridia, Antonio, PD. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi, Castelvecchi, Roma.

1996 Galli Della Loggia, Ernesto, La morte della patria, Laterza, Bari.

1999 Hobsbawm, Eric J., Intervista sul nuovo secolo (a cura di Antonio Polito), Laterza, Bari.

1950 Mauss, Marcel, Essai sur le don, Presses Universitaires de France, Paris. Tr. it.: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 1965.

1997 Rusconi, Gian Enrico, Patria e repubblica, Il Mulino, Bologna.

2023 Schiavone, Aldo, Sinistra! Un manifesto, Einaudi, Torino. Epub.

2019 Schiavone, Aldo, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, Einaudi, Torino.

1998 Schiavone, Aldo, Italiani senza Italia, Einaudi, Torino.

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Commenti

Prolegomeni a una nuova sinistra 42Riportiamo i commenti di Marco da Roma, amico di Vittorio, a questo pezzo e la risposta di Paolo.

M.: Grazie, lettura interessante. Sembra un vecchio articolo di Rinascita. Osservo solo che se nell’introduzione si scrive “di poter contare su un pensiero di sinistra libero da residuati ideologici” (che poi è una contraddizione) si aggiunge poi, in palese, questa volta, contraddizione che “la sinistra non discute da decenni dei suoi principî”.

Prolegomeni a una nuova sinistra 43P.: Mah, sono contento che qualcuno legga con tanta acribia le cose che pubblichiamo, ma in verità la contraddizione che rileva non esiste. Infatti i principi sono una cosa (libertà, equità, uguaglianza, ecc …) e le ideologie sono una cosa ben diversa: sono la pretesa di dare dei principi un’interpretazione insindacabile. Ad esempio, la concezione di “eguaglianza” che avevano Lenin e Pol Pot rientrava in una interpretazione ideologica, che contemplava una dittatura del proletariato, del partito o comunque di una “avanguardia rivoluzionaria”, e lasciava ben poco spazio ad altre possibili interpretazioni dello stesso principio. Io parlavo di “residuati ideologici”, appunto, mentre Beppe parla di “discussione sui principi”.

Prolegomeni a una nuova sinistra 41M.: Non si tratta di far le pulci a un testo, peraltro la mia preparazione è puramente giuridica e solo nell’ambito dottrinale, ma, nonostante le ineccepibili precisazioni, resto convinto che vi sia una contraddizione di fondo. Per premessa seguo Aldo Schiavone dal 1975 quando lui era, se ben ricordo, anche impegnato con la scuola di partito. Ovviamente PCI per chiarire a Vittorio. Ma se, e velocemente entro nel merito, si vuol separare il principio di pensiero, non volendo chiamarlo ideologia, dalla sua applicazione reale possiamo essere d’accordo ma a questo punto cosa sono i residui ideologici? Perché si scrive chiaramente che un pensiero di sinistra deve esserne scevro. Libertà, equità e uguaglianza devo sparire da un ragionamento di sinistra o sono dei capisaldi per i quali dobbiamo trovare un principio applicativo? Se così fosse cosa cambia rispetto ad un passato sbagliato? Diventerebbe comunque ideologia. Nulla nel ragionamento del Rinaldi e anche di Schiavone, di cui ho letto il saggio (pensavo di essere il solo) mi illumina in merito. E trovo qui la contraddizione. Aggiungo, infine, che non ho rinvenuto alcuna traccia di una controparte, né una qualsiasi valutazione di quale sia e come si sia evoluto nel tempo il sistema di potere economico/politico/sociale eventualmente da cambiare. Se non marginalmente al punto 12. La chiudo qui e mi scuso. Non sono mai stato un intellettuale, ho solo il difetto di essere un vecchio comunista italiano. Posso sbagliare, anzi sicuramente sbaglio ma se devo sbagliare devo farlo con il Partito. Che non c’è più. Come cantava Guccini … godo molto di più

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Note

[1] Cfr. Schiavone 2022. NB: avendo utilizzato come fonte un testo in formato epub e non avendo gli epub una numerazione fissa delle pagine, le citazioni saranno posizionate per quanto possibile in riferimento all’indice del testo. Questo lavoro si serve in gran parte di un montaggio di citazioni. Poiché le citazioni provengono da libri di Einaudi, ho provveduto a uniformare gli accenti delle citazioni alla regola standard.

[2] Si veda la recensione assai critica di Egidio Zacheo, su questo stesso giornale.

[3] Cfr. Schiavone 2022: “Per cominciare”.

[4] Cfr. Schiavone 2022: “Per cominciare”.

[5] Cfr. Caravale 2023.

[6] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 1.

[7] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.

[8] Nella Appendice, con l’aiuto di Hobsbawm, ricostruisco una tipologia storica della sinistra.

[9] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.

[10] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.

[11] Si veda sempre la nostra Appendice.

[12] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.

[13] Ad esempio, la scissione del PD del 2017 ha dato vita a un partito denominato “Articolo 1”, con riferimento palese alla identificazione tra cittadino e lavoratore. Si veda la mia analisi di allora sulla natura di questa formazione politica. Cfr. Finestre rotte: Cosa resterà della scissione del PD?

[14] Si veda in appendice.

[15] L’uso del termine popolo al posto di classe è un pietoso mascheramento per occultare il fatto che la classe – semmai ci sia stata – ora non c’è proprio più.

[16] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.

[17] La diseducazione comunista è quella che – tra l’altro – ha impedito e impedisce tuttora di concepire il cittadino democratico come unico riferimento della politica progressista.

[18] Mi riferisco qui alla catalogazione delle diverse sinistre operata da Hobsbawm (cfr. Hobsbawm 1999). Egli distingue tra una prima, una seconda e una terza sinistra. La prima sinistra è la sinistra liberaldemocratica. La seconda sinistra quella socialista, mentre la terza sinistra è quella che si dovrebbe ancora costruire. Si veda l’appendice.

[19] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.

[20] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[21] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[22] Il Riferimento ovvio va agli studi degli elitisti, tra cui Roberto Michels.

[23] La teoria della democrazia diretta.

[24] Cfr. Floridia 2021 e Floridia 2022.

[25] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[26] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[27] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 1.

[28] Si veda il mio recente intervento, pubblicato su Città Futura, sull’ultimo libro di Diego Fusaro La fine del cristianesimo. Finestre rotte: Note sparse intorno alla fine annunciata della trascendenza.

[29] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 1.

[30] Cfr. Ferraris 2021.

[31] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[32] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[33] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[34] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[35] Il dibattito in Italia fu introdotto da un saggio di Ernesto Galli della Loggia ed ebbe notevoli contributi successivi. Cfr. Galli della Loggia 1996.

[36] Cfr. Schiavone 1998.

[37] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 1.

[38] Cfr. Rusconi 1997.

[39] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 1.

[40] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[41] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[42] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[43] Cfr. de Mandeville 1997 [1724]

[44] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[45] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[46] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[47] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[48] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[49] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[50] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[51] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[52] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[53] Cfr. Esposito 2007.

[54] Cfr. Schiavone 2019.

[55] Cfr. Il riferimento originario è Mauss 1950.

[56] Questa tradizione di studi è stata iniziata da Almond & Verba 1963. Significativo è lo studio realizzato in Italia dal Politologo Robert Putnam, che ha utilizzato anche la nozione di capitale sociale.

[57] Cfr. Hobsbawm 1999.

Il giovane Orwell (1° parte)

di Paolo Repetto, 3 luglio 2022

Il giovane Orwell copertinaAvvertenza 2022. Avevo iniziato a scrivere questo mini-saggio circa un anno fa, prima di essere dirottato in un fastidiosissimo tunnel sanitario che si sta rivelando interminabile. All’epoca mi erano chiari gli argomenti da trattare e la modalità nella quale intendevo svilupparli, ma una volta entrato nel balletto delle terapie, delle mezze guarigioni e delle ricadute non ho più trovato la concentrazione per tornarci su e soprattutto la motivazione per portare a termine il mio proposito. È incredibile quanto il crollo della confidenza col tuo stato fisico possa mutare drasticamente l’ordine delle priorità.

Riprendendo oggi in mano, grazie ad una pausa che spero definitiva, le pagine cui avevo già dato una certa sistemazione, mi sembra che in fondo una loro autonomia queste arrivino ad averla, e che il postarle, magari anche solo come bozza di un lavoro destinato ad essere ampliato ed approfondito, possa mettermi in una condizione di debito col lettore: debito al quale, per carattere, sarò poi stimolato ad ottemperare.

Non intendo farla diventare un’abitudine (è vero: ci sono già sul sito altri lavori sospesi): semplicemente, è l’unica proposta che oggi sono in grado di fare.

Quando penso all’antichità, il particolare che più mi spaventa è che quelle centinaia di milioni di schiavi sulle cui schiene poggiò la civiltà, una generazione dopo l’altra, non hanno lasciato di sé traccia alcuna. Non ne conosciamo nemmeno i nomi.
In tutta la storia greca e romana, quanti nomi di schiavi conoscete? Io non so citarne che due o al massimo tre. (George Orwell)

Premessa 2021

Sto rileggendo Nel ventre della balena, di George Orwell, e mi chiedo se la maggior parte delle idee e delle convinzioni che ho l’impressione di portarmi dietro da sempre non arrivino in realtà direttamente da queste pagine. È come le avessi apprese tantissimo tempo fa, e non solo, ma assimilate in vena, fatte mie fino a dimenticarne la provenienza e a riscriverle alla mia maniera. Al tempo stesso però continuo a dubitare di averli già letti tutti, questi saggi, perché di alcuni proprio non ho ricordo, e nemmeno ne trovo traccia quando vado a consultare le vecchie agende nelle quali fino al Duemila, per trent’anni, ho tenuto un diario delle letture.

Non è la prima volta che capita: d’altro canto, alla mia età la smemoratezza è da mettere in conto, e andrà sempre peggio. Solo che mentre in genere riesco poi a rintracciare le fonti dei “deja vu”, scoprendo pagine sottolineate in libri che da decenni avevo dimenticato persino di possedere, in questo caso ho l’impressione che la cosa sia un po’ più complessa, che la consonanza che avverto con l’autore abbia un’altra origine.

Il dubbio si è insinuato già a partire dal piccolo excursus autobiografico che apre la raccolta, intitolato Giorni Felici. Al di là delle ovvie differenze che corrono tra chi cresce in epoche e ambienti totalmente diversi, ho rivissuto attraverso Orwell l’intera gamma delle mie esperienze infantili e adolescenziali, soprattutto di quelle scolastiche, le positive e più ancora le negative. Le sintonie che ho riscontrato non potevano essere frutto solo di una precedente lettura, stavano a monte. Certe emozioni, certe rabbie, aspettative e delusioni già le conoscevo, e mi ci riconoscevo, ben prima di sentirmele raccontare.

È quindi ora che mi chiarisca un po’ le idee, anche per pagare ad Orwell il giusto tributo.

Tributare un Omaggio ad Orwell non significa azzardarne una biografia, come invece ho fatto con altri, sia pure a mio modo. Per più ragioni. Intanto Orwell aveva dettato, tra le sue ultime volontà, “desidero che dopo la mia morte non mi vengano dedicate funzioni commemorative e che di me non sia scritta alcuna biografia”. Le volontà come al solito non sono state rispettate, gli sono stati dedicati un profluvio di studi critici e biografici, oggi è persino protagonista di una grafic novel, per cui è molto noto (anche se questo non significa che sia altrettanto “conosciuto”: è noto, come vedremo, soprattutto per le ragioni sbagliate). Nemmeno intendo poi riassumere o recensire i suoi libri: li do per scontati, penso che tutti dovrebbero averli letti, e quelli che ancora non l’hanno fatto sarà bene si affrettino.

Preferisco invece fare una chiacchierata a ruota libera sul mio particolare rapporto con Orwell, mettere in luce alcuni aspetti particolari della sua vicenda umana e della sua opera (soprattutto della parte più sottovalutata) e sottolineare quei tratti della sua personalità e del suo pensiero che oggi più che mai me lo fanno sentire vicino. Senza trascurare, visto che ne ho l’occasione, di saldare qualche altro debito e di suggerire alcuni possibili apparentamenti. Spero che la cosa non mi prenda la mano, come in realtà accade troppo spesso: ma dovesse succedere, sarebbe un deragliamento annunciato.

Il giovane Orweell02

1. La mia conoscenza di Orwell non ha seguito il tracciato canonico, che in genere procede a ritroso, dai capolavori alle opere minori (o si ferma direttamente ai primi). Ho letto Animal farm piuttosto tardi, forse ne ho addirittura visto prima la trasposizione cinematografica a cartoni animati (quella del 1954). È uno di quei libri che dopo un po’ dai per conosciuti, e finisci quindi per scoprirli con enorme ritardo. E neppure di 1984 posso vantare una lettura precoce. È andata pressappoco alla stessa maniera, ho visto prima il film (anche questo del 1954) con Edmond O’Brien nella parte di Winston Smith.

Sono convinto d’altra parte che sia proprio questo il miglior tipo di approccio. Ci sono pagine che messe prematuramente in mano ai ragazzi rischiano di non essere capite, di suscitare un amore o un rifiuto tutti di pancia (ma, soprattutto, di non essere rilette). Conoscendomi, temo che sarebbe andata proprio così. Credo che persino Animal Farm guadagni da una lettura matura e consapevole più di quanto non perda di impatto sull’ immaginario di un ragazzo o di un adolescente. Il discorso vale poi in assoluto per 1984: ho visto troppi studenti abbandonarne la lettura a metà, traditi dall’eccessivo entusiasmo di insegnanti che alle medie non consiglierebbero mai Salgari o Verne. Ora, non nego che da opere particolarmente significative possa essere colto qualche frutto ad ogni età, ma varrebbe la pena lasciare che i frutti fossero maturi.

Ciò che in realtà voglio dire è che i libri (alcuni libri) possono incidere sulla vita in due modi diversi: o perché ti indirizzano, ti indicano un possibile percorso (e questo accade in genere se li leggi nell’adolescenza; ma non solo) o perché ti danno conferme rispetto a percorsi che hai almeno in parte già compiuti (e questo accade, necessariamente, in età più matura). Nel caso del mio rapporto con Orwell la sua opera ha funzionato in entrambe le maniere, ma proprio perché l’ho accostata gradualmente, ogni volta con motivazioni diverse, e ogni volta uscendone diversamente segnato.

Ho frequentato dunque Orwell fin dall’adolescenza, ma per vie traverse. Attorno ai vent’anni conoscevo direttamente (nel senso che li avevo davvero letti) solo Giorni in Birmania, Senza un soldo a Parigi e Londra e, soprattutto, Omaggio alla Catalogna. Col senno di poi posso affermare che i tratti essenziali del carattere e delle idee di Orwell li avevo incontrati già tutti. Devo anche aggiungere che per questa occasione ho rinfrescato la conoscenza, andando a rileggere i libri di cui si parlerà nelle pagine che seguono. Un piacere enorme e una scoperta continua.

Mi ero imbattuto nel primo romanzo seguendo un percorso a zig zag che dal ciclo salgariano della jungla e dai fumetti de Il Cavaliere ideale e de Il Principe del sogno (pubblicati sul L’Intrepido) conduceva ai racconti indiani di Kipling (ma prima ancora agli straordinari film che negli anni cinquanta ne erano stati tratti, come Kim e Gunga Din) e a Lord Jim di Conrad.

L’approdo a Giorni in Birmania ha costituito un bel salto, e soprattutto mi ha impartito una salutare doccia fredda. Il fascino misterioso del paese evocato nel titolo mi aveva spinto a e cercare un supplemento di esotismo, l’anello di congiunzione tra le jungle indiane e quelle malesi: cosa che naturalmente non ho trovato, perché era del tutto estranea agli intenti dell’autore. Ho invece conosciuto l’aspetto più subdolo del colonialismo, forse meno brutale di quello raccontato nei libri sullo schiavismo, ma non meno odioso: quello del degrado morale che infetta tutti coloro che ne sono coinvolti, quale che sia il loro ruolo, passivo o attivo.

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Orwell era un adolescente tutt’altro che sereno, come lui stesso racconta proprio in Giorni felici. Era incline per indole (e certamente anche per il retaggio di una educazione puritana) ai sensi di colpa, e proprio questo lo aveva spinto, dopo il mezzo fallimento negli studi rimediato al college di Eton, a mollare tutto e ad arruolarsi nella polizia coloniale. Non aveva tardato a pentirsene e a maturare un disgusto e un rimorso ancora maggiori per i cinque anni di servizio prestati in Birmania. Il libro che ci svela tutto questo non ha un carattere autobiografico in senso stretto, perché non racconta le vicende vissute dell’autore: ma raffigura impietosamente la protervia presuntuosa e l’avvilente meschinità in mezzo alle quali si è trovato e il crescente disagio da cui si è sentito pervadere. Era la cosa più antieroica che avessi letto sino ad allora: nessuno dei personaggi, coloni o colonizzati che fossero, poteva vantare non dico la statura di un eroe ma nemmeno una dignità morale accettabile. Stranamente però non ne ero rimasto deluso, perché del tutto ingenuo non ero e alcuni tratti di quel volto li avevo già intravvisti persino in Kipling: anche se poi, per capire l’ambiguità del rapporto del poliziotto Blair (ancora non aveva adottato il nom de plume) nei confronti dei colonizzati, ho dovuto attendere la lettura di racconti come Una impiccagione e Sparare all’elefante.

Il giovane Orweell04Orwell è in genere presentato come il contraltare di Kipling; in tutta la sua opera, e non solo in Giorni in Birmania, c’è una indignata condanna del colonialismo e di ogni forma di imperialismo. In tal senso gli autori a lui più prossimi sono senz’altro Multatuli e Conrad (dei quali troverò modo di parlare altrove). Ma al netto delle differenti esperienze – e del fatto che Orwell abbia preso progressivamente le distanze da Kipling, fino a dichiarare senza mezzi termini di odiarlo – sono convinto che i loro atteggiamenti non fossero poi così lontani, se li leggiamo scomodando il parametro del “razzismo”: nel senso che “razzista” non era neppure il secondo, a dispetto delle sue idee sul “fardello dell’uomo bianco”. In fondo, davanti alla cultura indiana Kipling semplicemente sospendeva il giudizio: “Io ho vissuto abbastanza in questa India per sapere che è meglio non sapere nulla, e posso raccontare solo com’è andata[1]. Cosa che puntualmente, ma in termini molto più pessimistici, pensa anche Orwell: per il quale però, a differenza di quanto pensava Kipling, il rapporto coloniale non fa che portare allo scoperto il peggio di entrambe le culture che si confrontano.

Detto in altri termini: Kipling manifestava ammirazione e meraviglia per la cultura indiana, soprattutto per il suo retaggio sapienziale ed esoterico, ma la giudicava poi alla luce dell’evoluzionismo spenceriano. Ovvero, è tutto molto bello, ma è un mondo che non regge il passo dei tempi. Riteneva che quella antichissima civiltà non avesse mai superato lo stadio della stupefazione infantile, ed era convinto che per far uscire le popolazioni indiane dalla condizione di minorità fosse necessario il pungolo duro ma stimolante del dominio inglese. Ma pensava anche che non si può amministrare un paese se non si convive con la sua cultura, le sue tradizioni, le sue religioni, se non si è in grado di parlare con la sua gente. Un esempio limite di questo possibile rapporto lo proponeva nella simbiosi e nel reciproco rispetto tra il giovanissimo Kim e l’anziano lama, nel legame che si crea tra i due, a dispetto delle differenze e, volendo a tutti i costi scorgerla, della “superiorità” del ragazzo anglo-indiano (perché è Kim in fondo a procurare ad entrambi di che vivere e a superare con la sua scaltrezza e la sua conoscenza del territorio gli ostacoli che di volta in volta si frappongono alla loro “ricerca”).

Orwell non era altrettanto entusiasta, perché considerava di quella cultura anche gli aspetti pratici, le ricadute sui rapporti sociali, e ne coglieva quegli stessi esiti di diseguaglianza e di sfruttamento che sono comuni ad ogni forma di dominio. In più riteneva la civiltà orientale totalmente inquinata dal rapporto di sottomissione agli inglesi: i birmani che ci racconta, quale che sia il loro livello economico o di educazione, non sono molto diversi dai poliziotti inglesi che li bastonano e dai funzionari e dai commercianti che li discriminano. “È di dominio comune – scrive ne Il leone e l’unicornoche l’indiano soffre molto più a causa dei suoi concittadini che non per colpa degli inglesi. Il piccolo capitalista indiano sfrutta gli operai nel modo più spietato. Il contadino trascorre la vita, dalla nascita alla morte, tra le grinfie dell’usuraio”. Anche se era perfettamente cosciente che “questo stato di cose è un risultato indiretto del dominio inglese che, coscientemente o no, cerca di mantenere l’India il più possibile in uno stato primitivo” (esattamente il contrario di quanto pensava Kipling).

Meno che mai confidava che il divario, il discrimine tra le due condizioni, sarebbe stato superato in un sincero rapporto d’amicizia. Il suo alter-ego romanzesco, John Flory, è anch’egli attratto dalla cultura orientale e insofferente dei codici di comportamento dei sahib bianchi, ma deve ad un certo punto prendere atto che i suoi interlocutori indigeni quei codici li hanno introiettati, li applicano anche nei loro rapporti orizzontali e non vogliono affatto mutarli o rifiutarli. In definitiva, piuttosto che del destino dell’una o dell’altra cultura gli importa di quello degli esseri umani, e punta il dito sullo stato di degrado cui questi possono essere ridotti. Ma questa situazione, come vedremo, non è precipua del mondo coloniale.

Nell’un caso e nell’altro non parlerei affatto di razzismo. Nessuno dei due romanzieri è motivato da pregiudizi di tipo biologico. Per entrambi le differenze esistono, e in effetti sarebbe un po’ difficile negarle, ma non si iscrivono in una scala valoriale delle diverse etnie. Le differenze riguardano gli individui, non le razze, e sono addirittura più accentuate all’interno delle culture alle quali quegli individui appartengono.

«Nei riguardi dei “natives” non si nutriva lo stesso sentimento che si nutriva in patria per la ‘gente bassa.’ – confessa Orwell – Il punto essenziale era che gli ‘indigeni’, i birmani, ad ogni modo, non davano l’impressione di essere fisicamente repulsivi […] Sentivo nei riguardi di un birmano quasi quello che sentirei nei riguardi di una donna. Come quasi ogni altra razza, i birmani hanno un odore caratteristico, che non so descrivere: è un odore che ti dà come un formicolio ai denti, ma che non mi ha mai disgustato. (Incidentalmente, gli orientali dicono che ‘noi’ abbiamo odore. I cinesi, credo, dicono che un bianco puzza come un cadavere. I birmani dicono lo stesso, sebbene io non abbia mai trovato un birmano così scortese da dirmelo in faccia.)»

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Piuttosto, sono le convinzioni di fondo da cui i due partono, il diverso rapporto con l’idea di progresso, a segnare in direzioni opposte le loro opere. Orwell, come Conrad e al contrario di Kipling, non crede affatto che gli uomini siano fondamentalmente buoni, e nemmeno crede che con la civilizzazione possano diventarlo. Della marcia del progresso vede soprattutto la parte che rimane in ombra, le scorie e i cadaveri che lascia al bordo della strada, come testimoniano le righe che ho posto in esergo a questo scritto.

Sa anche che l’ottimismo rispetto ad una supposta “natura umana” è alla radice di ogni grande utopia sociale, e Orwell è l’autore distopico per eccellenza. Crede in compenso che tutto ciò che riesce ad assicurare agli individui un maggiore margine di libertà, intesa sia come negativa (la libertà dalle costrizioni, di non fare), sia come positiva (la libertà di pensare e di agire, nella consapevolezza naturalmente del limite, ovvero del diritto altrui alla stessa libertà), valga la pena comunque di essere perseguito. La libertà è condizione irrinunciabile per una esistenza dignitosa. E questo vale per ogni essere umano, a qualsiasi latitudine o longitudine.

Orwell pone quindi già nel suo primo libro il tema dell’illegittimità del dominio coloniale, in un’epoca in cui anche le sinistre, quella inglese principalmente, ma in sostanza tutte le altre europee, lo trovavano compatibile con gli interessi della classe operaia. Lo fa nei termini individuali ed emotivi della reazione disgustata ad uno spettacolo avvilente, ma questo lo porta a prendere le distanze dal compromesso “politico”. Se non si potrà mai realizzare una società perfetta, si dovrà pur sempre aspirare ad una meno ingiusta, partendo dall’eliminazione delle storture più vistose, rispetto alle quali l’unico strumento di riscatto è quello della crescita culturale. E se non si arriverà a migliorare il mondo, si sarà comunque in pace con la propria coscienza, per averci almeno provato. Che è ciò che ho sempre pensato anch’io.

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Penso anche un’altra cosa. Paradossalmente, malgrado il ribaltamento dei rapporti (nel senso che oggi sono gli ex-colonizzati a invadere il mondo occidentale) abbia definitivamente sfatato il mito di una possibile società multiculturale, e malgrado su Kipling sia stato stampigliato il marchio scarlatto dell’imperialismo, la sua posizione sembra preludere alle mode new-age e alla filosofia post-moderna. Persino l’amicizia tra Kim e il vecchio lama, che pure è un rapporto bellissimo e genuino – con buona pace di chi vuole leggervi una strumentalizzazione imperialistica – rischia di essere letta in questa chiave. In qualità di ammiratore precocissimo e tuttora entusiasta di Kipling respingo categoricamente questa interpretazione. Credo invece che l’ulteriore ribaltamento, quello dell’immagine, nasca da una ambiguità che non è affatto di Kipling, la cui posizione (e chiamiamola pure “imperialistica”) è chiara.

L’ambiguità è piuttosto nell’atteggiamento preconcetto di chi lo legge, e si esprime essenzialmente in due modi. Da un lato c’è il lamento vittimistico (mi riferisco alla sua espressione più raffinata, quella resa popolare ad esempio da Edward Said con il suo celebratissimo saggio sull’Orientalismo), per il quale esiste un pregiudizio eurocentrico a tutt’oggi non superato nei confronti delle culture orientali (in particolare nei confronti di quelle arabo-islamiche), nato già con la riscossa medioevale dell’Europa, alimentato nell’Ottocento dalle rappresentazioni romanzesche dei popoli d’Oriente come irrazionali e moralmente corrotti, e supportato da teorie scientifiche che certificavano la loro inferiorità. Tutto vero, fatto salvo un particolare che Said e coloro che si attestano su queste posizioni tendono a trascurare. Il fatto cioè che questa lettura non solo è stata consentita, ma ha ottenuto un vasto consenso, unicamente perché chi l’ha adottata risiedeva e insegnava in Occidente. Un’operazione del genere, la critica radicale della cultura attraverso le cui istituzioni ti esprimi, non sarebbe mai stata possibile né nel vicino né nell’estremo Oriente.

Dall’altro lato c’è quello definito da Pascal Bruckner “il singhiozzo dell’uomo bianco”, che si presenta in apparenza come un doveroso ripensamento sulle storture e le ingiustizie perpetrate nei confronti del resto del mondo in nome di una presunta “missione” occidentale. Anche in questo caso, l’intento è più che positivo: ma quando dal ripensamento si passa al rifiuto in blocco degli esiti del millenario percorso della civiltà occidentale, per cercare altrove significati e valori “autentici”, si scade nella filosofia di comodo. In realtà quei valori e quei significati sono frutto di storie completamente diverse, sono impenetrabili ai nostri occhi, inconciliabili con una sensibilità diversamente educata, sono in disuso persino nei luoghi d’origine, dove continuano ad essere venduti solo sulle bancarelle per turisti, nei pacchetti “tutto compreso” degli ashran. È una filosofia deresponsabilizzante, che induce a cambiare l’arredo e la suppellettile anziché a intervenire decisamente sulle parti strutturali. (Un chiaro esempio di questa interpretazione l’ho poi ritrovato ad esempio, molto più tardi, nella Trilogia Malese di Antony Burgess: ma non mancano anche da noi gli esempi, Terzani in primis)

Quella di Orwell è invece la coscienza lucida che in un mondo governato dalle leggi del mercato non c’è cultura “alternativa” che tenga: non basta fuggirne, bisogna immergercisi per cambiarlo, nei limiti del possibile ma mirando alla sostanza. Come Kipling, che in India aveva trascorso gli anni dell’infanzia, e che da quella suggestione in fondo non era mai uscito, anche Orwell rimpiange lo sguardo del bambino, torna volentieri a rievocare un mondo precedente: ma lo fa nella piena consapevolezza di coltivare un sogno. «Non apro mai uno dei libri di Kipling – scrive – senza pensare: “Mutamento e decadenza in tutto quello che vedo intorno”» Il pensiero immediatamente successivo è però come arginare questa decadenza, senza perdersi nella nostalgia del passato: e questo sarà uno dei temi ricorrenti nella sua narrativa.

2. Da Giorni in Birmania qualcosa della vita di Orwell avevo appreso: ora ero curioso di conoscere il resto. L’occasione è arrivata qualche anno dopo con Senza un soldo a Parigi e Londra, per il quale funzionava ancora una volta la suggestione del titolo. Uscivo infatti dalla lettura di Furore e di Sulla strada, oltre che da un paio di esperienze di brevi espatri a tasche vuote, proprio nelle città cui si riferiva Orwell. Come nel caso precedente, il libro non corrispondeva affatto a ciò che cercavo, ma fotografava perfettamente quel che già avevo trovato in giro, e dava del vagabondaggio un’idea molto meno romantica di quella che Kerouac e la beat generation diffondevano in quegli anni.

Rientrato dalla Birmania, ancora nauseato per quello che aveva visto e di cui era stato anche attore, tormentato come già ho detto dai sensi di colpa, Eric Blair rifiuta di integrarsi attraverso un qualsivoglia impiego e sceglie di vedere il mondo dalla parte degli sconfitti: «Sentivo di dover sottrarmi non soltanto all’imperialismo ma ad ogni forma del dominio dell’uomo sull’uomo. Volevo sommergermi, scendere in mezzo agli oppressi, essere uno di loro e schierarmi al loro fianco contro i loro tiranni. E, soprattutto perché avevo dovuto riflettere e scoprire ogni cosa in solitudine, avevo finito per portare il mio odio dell’oppressione al di là d’ogni limite. In quel periodo, il fallimento mi sembrava essere la sola virtù. Ogni sospetto di carriera, di “successo” nella vita anche nel senso di riuscire a guadagnare qualche centinaio di sterline all’anno, mi pareva spiritualmente turpe, una specie di prepotenza».

È attratto da Parigi, che negli anni venti era la capitale della cultura europea, cosmopolita e liberale. Non ha molto chiaro quel che vuole fare, ma vuole senz’altro sottrarsi all’atmosfera ipocrita e spocchiosa dell’Inghilterra post-vittoriana. Spera che nel clima di creatività e di assoluta libertà di pensiero promesso dalla metropoli francese ci si possa seriamente dedicare alla letteratura. Le cose non sono però così facili. “Nella primavera del 1928 partii per Parigi, dove intendevo vivere con poco mentre scrivevo due romanzi (mi spiace dirlo, mai pubblicati) e magari imparare anche il francese. Nell’estate del 1929 i miei due romanzi erano terminati; ma gli editori non vollero che me ne separassi, e così mi trovai quasi senza un soldo e con un impellente bisogno di lavorare.”

Non entra nel giro che conta, non incontra i protagonisti della vita culturale, letterati e artisti, e nemmeno ha contatti con l’ambiente dei fuorusciti, russi e italiani in testa. Una volta rapidamente esaurito il piccolissimo gruzzolo sul quale faceva conto per i primi tempi, deve ingegnarsi a sbarcare il lunario. “Dici che vuoi scrivere. Scrivere è un’assurdità. C’è un solo modo per far soldi con la penna, ed è quello di sposare la figlia di un editore – gli dice un suo occasionale coinquilino – Ma tu potresti diventare un buon cameriere se ti tagliassi quei baffi.” I baffi non li taglia, e nemmeno riesce a diventare un buon cameriere, ma sopravvive.

Se si confronta la sua esperienza con quanto raccontato da Henry Miller in Parigi 1928 si ha l’impressione che il nostro sia finito in un’altra città. I suoi compagni nell’anno e mezzo di permanenza in Francia sono solo dei falliti che vivono di espedienti, una fauna internazionale sì, ma che si trascina da una occupazione miserabile all’altra, quando la trova. Niente ritrovi di intellettuali o grandi sbornie collettive con risse finali da operetta, non una serata trascorsa nei bistrot del Lungosenna a discutere di letteratura. Solo bevute solitarie per dimenticare la fatica, lavate di testa per il minimo ritardo o errore nel servizio, fregature rimediate da compagni di sventura, dagli strozzini del monte dei pegni o da professionisti dell’arte di arrangiarsi, lunghi periodi di fame nera e ambienti perennemente luridi.

La fatica, il sudiciume, le umiliazioni sono raccontati senza rancore, sono vissuti con passiva rassegnazione, ma costituiscono le uniche costanti di questa esperienza. Dopo aver letto queste pagine e dato uno sguardo a quel che accade oltre le porte delle cucine sarà difficile apprezzare un pranzo in un ristorante parigino o la sosta in un albergo. La cosa più straordinaria è però che tutto questo, in fondo, non ci indigna: come accade per i coevi film di Chaplin, siamo immersi in una vergogna sociale, ma se un riscatto ci attendiamo è solo quello individuale (forse perché sappiamo che il protagonista la sua condizione in qualche modo se l’è scelta). È significativa in proposito la descrizione delle diverse mentalità di chi lavora in questi ambienti:

Il giovane Orweell07«Un albergo va avanti perché chi vi lavora è sinceramente fiero di quello che fa, per quanto possa essere stupido e orribile il suo lavoro. Se uno batte la fiacca, gli altri se ne accorgono subito e cospirano contro di lui per farlo licenziare […] Anche il cameriere è, in certo modo, fiero della propria abilità, che però consiste soprattutto nell’essere servile. Il lavoro gli conferisce l’abito mentale non già dell’operaio, ma dello snob. Vive sempre con gente ricca sotto gli occhi, ne ascolta le conversazioni, sta in piedi accanto al loro tavolo, li adula con sorrisi e piccole facezie discrete. Ha il piacere di spendere denaro per procura.

Per di più ha sempre la possibilità di diventare ricco a sua volta, perché, sebbene la maggioranza dei camerieri muoia povera, ogni tanto godono di lunghi periodi di fortuna. Il risultato è che, a furia di vedere sempre denaro e sperare di farne, il cameriere finisce con l’identificarsi, in un certo senso, col suo datore di lavoro. […] Si adopererà per servire un pranzo con stile, perché sente di partecipare egli stesso a quel pranzo […].

I “plongeurs” (è questo il solo tipo di impiego che Orwell riesce a rimediare), a loro volta, hanno una mentalità diversa. Il loro è un lavoro senza prospettive, è molto gravoso e nello stesso tempo non richiede la minima abilità, così come non presenta il minimo interesse; è il genere di lavoro che solo le donne farebbero, se avessero la forza necessaria. Tutto quello che si chiede loro è di essere sempre in attività, e sopportare un orario gravoso e un’atmosfera soffocante. Non hanno modo di cambiar vita, perché con la loro paga non possono mettere da parte un soldo, e un orario di lavoro che va dalle sessanta alle cento ore settimanali non lascia loro il tempo d’imparare a fare qualcos’altro. Tutt’al più possono sperare di trovare un lavoro un po’ più leggero come guardiano notturno o inserviente ai gabinetti

Per uno che era partito avendo in mente soprattutto di conservare ad ogni costo la propria libertà di pensiero e di movimento non è certo il massimo.

Il giovane Orweell08Rientrato alla fine in patria, cambia scenario, ma non condizione. L’esistenza vagabonda Orwell la conduce per altri tre anni. Finisce persino in carcere, per ubriachezza (sia pure volutamente, per conoscere dall’interno anche quell’ambiente). Si concede delle rare pause quando gli capita qualche offerta per brevi periodi di insegnamento o di collaborazione a piccole riviste, poi torna a peregrinare con gli altri disgraziati seguendo la mappa delle stagioni dei raccolti, del luppolo o delle mele. È talmente impegnato a sopravvivere che non ha molto tempo per pensare. Lo farà solo dopo, al momento di tirare le somme di quell’esperienza: e sarà un bilancio tutt’altro che esaltante.

«Nel complesso il primo contatto con la miseria è un fatto curioso. Ci avete pensato tanto, alla miseria: l’avete temuta tutta la vita, sapevate che prima o poi vi sarebbe piovuta addosso; ma in realtà tutto è totalmente, prosaicamente diverso. V’immaginavate che fosse una cosa semplicissima, e invece è quanto mai complicata. V’immaginavate che sarebbe stata terribile, ma è soltanto squallida e noiosa. Innanzitutto scoprite l’“abiezione” della miseria, gli espedienti ai quali vi costringe, le complicate meschinità, le pitoccherie.

Scoprite il tedio, che è compagno inseparabile della miseria; non avete niente da fare, e siccome siete denutrito non riuscite a interessarvi a niente. Nient’ altro che il cibo potrebbe scuotervi. Scoprite che quando un uomo va avanti una settimana a pane e margarina non è più un uomo; è solo un ventre con qualche organo accessorio

Potevo riconoscermi in qualche modo nella prima parte del libro, quella appunto che si svolge a Parigi, per aver lavorato come lavapiatti su una nave per qualche tempo: capivo dunque di cosa parlava quando raccontava di giornate lavorative da diciotto ore e di settimane da sette giorni senza riposo, e soprattutto conoscevo il disagio di svolgere un lavoro che non ti insegna nulla e ti costringe a prendere ordini da gente per la quale in genere nutri solo disprezzo. Allo stesso modo, in un’altra occasione avevo anche sperimentato cosa significa resistere a Londra senza una lira in tasca, sia pure per un solo mese e mezzo, e come ci si può ingegnare per sopravvivere, passando sopra anche a certi piccoli scrupoli morali.

Senza un soldo mi aveva comunque spiazzato. L’ho letto a vent’anni, col cuore che opponeva qualche resistenza, perché a quell’età per quanto scafati ci si aggrappa ancora ai miraggi di palingenesi: ma nella testa sentivo che era giusto non tacere del degrado morale che si accompagna con la fame e le privazioni a quello fisico, anche a costo di veder svanire quei miraggi. Orwell era il primo autore che riconoscevo totalmente onesto nel raccontare queste vicende e nel descrivere il mondo dei marginali e dei diseredati con i quali aveva convissuto. E, soprattutto, nel valutare lucidamente la parte giocata dal narratore all’interno del quadro: “Sfortunatamente non si risolve il problema classista diventando amici di vagabondi. Al massimo, facendolo, ci si libera di qualche pregiudizio di classe”.

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3. Quanto avevo trovato in Senza un soldo mi è stato confermato qualche anno dopo da La strada di Wigan Pier. Quest’ultimo non è il resoconto di un vagabondaggio, ma un vero e proprio studio sociologico, avvalorato da cifre, dati e statistiche, sulle condizioni in cui vivevano i lavoratori nel nord-ovest industriale dell’Inghilterra, una delle zone più desolate del paese. Il quadro che risulta dalla prima parte dell’indagine è impressionante, sia quando descrive il decadimento fisico e morale degli abitanti dei quartieri poveri che quando racconta il lavoro semischiavile nei pozzi minerari.

Orwell non è affatto un osservatore freddo e distaccato. Anzi: questa sua esperienza diretta la rivendica costantemente, per dire che lo squallore lui l’ha visto da vicino, l’ha addirittura fisicamente vissuto, e proprio per questo può parlarne senza retorica, esponendo le cose così come sono. “Mi sono recato colà un po’ perché volevo vedere che cosa sia la disoccupazione di massa nella sua fase peggiore e un po’ per osservare da vicino la più tipica sezione della classe operaia inglese. Ciò era necessario per me come parte del mio aderire al socialismo. Perché prima di sentirci sicuri di essere genuinamente socialisti si deve decidere se le cose al presente siano tollerabili o non tollerabili e si deve assumere un atteggiamento definito sul problema terribilmente difficile del classismo”.

Nel suo resoconto/racconto c’è un intento fortemente polemico nei confronti della tendenza della sinistra alle costruzioni dottrinarie e puramente teoriche. In virtù di quanto ha potuto conoscere sul campo Orwell si ritiene autorizzato a lanciarsi, nella seconda parte, in un pamplet su ciò che non funziona, non tanto nel socialismo in sé, quanto nel modo in cui viene propagandato e professato. “Per difendere il socialismo occorre cominciare attaccandolo” – scrive, e precisa: “Il socialismo come lo intendo io.” La domanda da cui parte è: “come mai non siamo tutti socialisti, considerata la semplice e palese bontà dell’idea?” La risposta, o meglio, le diverse risposte che si dà mettono impietosamente a nudo le contraddizioni e le ipocrisie della sinistra, e ciò spiega perché il suo editore, un convinto militante, abbia fatto pressioni per pubblicare solo la prima parte. Il libro era stato commissionato infatti dal Left Book Club, e le riflessioni che conteneva non andavano certamente nella direzione attesa. Ma a questo punto Eric Blair era già diventato George Orwell (firma questo libro per la prima volta con lo pseudonimo che lo renderà famoso), e non aveva ceduto. All’editore non era rimasto che cercare di mitigare la deriva “ereticale” con una prefazione “allineata”, che difendeva ad esempio la politica di industrializzazione forzata portata avanti in quegli anni dall’Unione Sovietica, sulla quale invece Orwell picchiava pesante.

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D’altro canto, le ragioni che Orwell adduceva per spiegare la diffidenza della maggioranza degli inglesi, lavoratori compresi, nei confronti del socialismo, rapportate alla sua epoca appaiono perfettamente plausibili (e per certi versi lo sono ancora oggi). Lo erano tanto più proprio perché nascevano dalla personale immersione nell’inferno rivelato dall’indagine. Orwell non si stanca mai di ribadire: “Questa è la realtà dei fatti, così stanno le cose”, e di sottolineare come il socialismo dottrinario quella realtà la ignori, attaccato com’è al dogmatismo dei principi e all’uso di un linguaggio stereotipato, al culto del progresso tecnologico e al pregiudizio di classe esercitato alla rovescia.

«La letteratura socialista – scrive ad esempio a proposito dei modi della comunicazione, del linguaggio della propaganda – anche quando non è apertamente scritta dall’alto in basso, è sempre totalmente estranea alla classe operaia in linguaggio e modo di pensare… È dubbio che qualcosa definibile come letteratura proletaria esista attualmente, ma un buon autore di commedie musicali si avvicina a produrre qualcosa del genere più di qualunque scrittore socialista a cui io possa pensare. Quanto al gergo tecnico dei comunisti, è tanto lontano dal linguaggio comune quanto quello di un manuale di matematica. Ricordo di aver udito il discorso di un oratore comunista a un pubblico operaio. Era un discorso zeppo delle solite cose libresche, tutto frasi lunghissime, parentesi e “ciò non ostante” e “comunque possa essere”, oltre alle consuete espressioni a base di “ideologia”, “solidarietà proletaria”, “coscienza di classe” e così via.»

Il sarcasmo orwelliano tocca però il culmine quando stigmatizza l’ostentazione di anticonvenzionalismo, un atteggiamento che irrita chi ne è spettatore e induce una rancorosa aggressività in chi lo pratica. «Come per il cristianesimo, gli adepti al socialismo sono la sua peggiore pubblicità … c’è l’orribile prevalenza – davvero preoccupante – di eccentrici e di svitati, ovunque si raccolgano dei socialisti. A volte si ha ‘impressione che le sole parole ‘socialismo’ e ‘comunismo’ attraggano a sé con forza magnetica ogni vegetariano, ogni nudista, ogni portatore di sandali, ogni maniaco sessuale, quacchero, guaritore naturista, pacifista e femminista d’Inghilterra.» Può sembrare una notazione molto forzata, ma se traduciamo i termini socialista e comunista, ormai in disuso, con i più vaghi “disobbediente” o “antagonista”, e proiettiamo l’immagine un secolo avanti, magari integrando la galassia degli ‘eccentrici’ con nuove categorie, abbiamo la fotografia della situazione attuale.

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Quanto invece al progresso e alla tecnica, la posizione di Orwell è più articolata: «La specie di individuo che prontamente accetta il socialismo è anche la specie di individuo che guarda al progresso meccanico, “come tale”, con entusiasmo. E ciò è talmente vero che i socialisti sono spesso incapaci di capire che esiste l’opinione opposta. Di norma, l’argomento più persuasivo a cui possano pensare è di dirvi che la presente meccanizzazione del mondo è niente a paragone di ciò che vedremo quando il socialismo si sarà stabilito. Dove oggi c’è un solo aereo, in quei giorni ce ne saranno cinquanta! Tutto il lavoro che è fatto oggi dalla mano sarà allora fornito dalle macchine; tutto ciò che oggi è di cuoio, legno o pietra sarà fatto di gomma, vetro o acciaio; non ci sarà disordine alcuno, non ci sarà incertezza alcuna, non ci saranno distese desertiche, selvagge, non ci saranno belve feroci, male erbe, malattie, non ci sarà né povertà né dolore e così via. Il mondo socialista sarà soprattutto un mondo ‘in ordine’, un mondo efficiente. Ma è precisamente da questa visione del futuro come una specie di scintillante mondo wellsiano che rifuggono le menti sensibili.»

I tre quarti di secolo trascorsi hanno in realtà ribaltato oggi le posizioni della sinistra, almeno di quella più radicale, spingendola su posizioni che un tempo erano proprie del conservatorismo. Orwell fa però riferimento alla forma di pensiero “progressista” dominante nella sua epoca, e la sua originalità sta nel fatto che non si limita a stigmatizzare la mitizzazione della tecnica o l’uso distorto che si ne è fatto, ma ne denuncia la natura già intrinsecamente alienante. Fa parte anche lui delle “menti sensibili”, anche se poi prende atto che un’alternativa credibile al suo utilizzo non c’è. Ma su questo mi riservo di tornare tra poco.

Ciò che più mi aveva colpito in Senza un soldo (e che ho ritrovato in un’altra accezione in Wigan Pier: per questo li accomuno) è la distanza che con disarmante sincerità Orwell confessa di provare nei confronti dei ‘poveri’ ai quali si mescola. “Avevo affetto per loro e spero che essi lo avessero per me; ma mi aggiravo in mezzo a loro come un estraneo, e ne eravamo tutti consapevoli. Da qualunque parte vi volgiate, questa maledizione della differenza di classe vi si para dinanzi come una muraglia. O meglio, non tanto come una muraglia quanto come la parete di vetro di un acquario; è così facile fingere che non ci sia e così impossibile penetrarla.”

Non ha alcuna pretesa di diventare un “proletario ad honorem”: partecipa della miseria, ma non si identifica con i miserabili, Rimane sempre un testimone, ed è aiutato a mantenerne la consapevolezza dal fatto che gli altri avvertono la sua diversa estrazione, vuoi per come muove le mani, vuoi per l’accento o il modo di parlare o di camminare, per l’aspetto nel suo assieme, che a dispetto degli abiti logori mantiene una sua borghese “eleganza”.

Prendiamo me, membro tipico del ceto medio. È facile per me dire che voglio liberarmi delle differenze di classe, ma quasi tutto ciò che penso e faccio è il risultato di differenze di classe. Tutte le mie nozioni – nozioni del bene e del male, del piacevole e dello spiacevole, del buffo e del serio, del bello e del brutto – sono essenzialmente nozioni piccoloborghesi; il mio gusto in fatto di libri, di cibi e di abiti, il mio senso dell’onore, il modo in cui so stare a tavola, il giro delle mie frasi, il mio accento, perfino i movimenti caratteristici del mio corpo, sono i prodotti di un genere particolare di educazione e di una nicchia particolare a mezza via della scala sociale. Quando capisco questo capisco anche che non serve a nulla dare una manata sulle spalle di un proletario, dicendogli che è un uomo bravo quanto me; se voglio avere un autentico rapporto con lui, devo fare uno sforzo per il quale molto probabilmente non sono preparato. Per tirarmi fuori dal brutto affare classista, devo sopprimere non solo il mio snobismo personale, ma anche quasi tutti gli altri miei gusti e pregiudizi. Devo alterare me stesso così completamente che alla fine non sarei più riconoscibile come la stessa persona”.

E allora, per evitare ipocrisie, occorre aver ben chiaro da dove arrivi la distanza, come si è generata. “Ero piccolo, molto piccolo, non avevo più di sei anni, quando mi resi conto per la prima volta delle distinzioni di classe. Prima di quell’età, i miei eroi principali erano stati generalmente operai, perché sembravano sempre intenti a fare cose interessanti come pescare, battere il ferro o costruire case. […]

Ma non passò molto tempo prima che mi si proibisse di giocare coi figli dell’idraulico; erano ‘ordinari’ e mi si disse di stare lontano da loro. Era una cosa un po’ snob, se volete, ma anche necessaria, perché gente del ceto medio non può permettere che i suoi figli imparino a parlare con accento plebeo.”

Arriva ad inserire una considerazione che, malignamente estrapolata, farà gridare allo scandalo i recensori “benpensanti” e i politicamente corretti ante-litteram, e sarà usata per screditarlo, a dispetto della chiarezza e della verità del suo significato: “Ecco che cosa ci insegnavano, che ‘la gente bassa puzza’. E qui, ovviamente, ci troviamo di fronte a una barriera insuperabile. Perché nessun sentimento di simpatia o di antipatia è così fondamentale come un sentimento fisico. L’odio di razza, l’odio di religione, differenze di educazione, di temperamento, d’intelletto, perfino differenze di codice morale, possono essere superate; ma la ripugnanza fisica non si può superare. Potete avere dell’affetto per un assassino o un sodomita, ma non per un uomo dall’alito fetido, abitualmente fetido, intendo. Per quanto bene possiate augurargli, per quanto possiate ammirare il suo carattere e la sua mente, se gli puzza il fiato, è un uomo orribile e, nel più segreto fondo del cuore, lo odiate. Può non avere grande importanza che il borghese medio sia allevato nell’idea che la classe operaia è ignorante, pigra, beona, triviale e disonesta; è quando vi si cresce nell’idea che l’operaio è anche sporco che si fa il guaio. E nella mia infanzia ci crescevano nell’idea che la gente del popolo è sporca. Molto presto nella vita acquisivi il concetto che c’è qualcosa di repulsivo in un corpo d’operaio […].

Il giovane Orweell12Tutto questo non mi indignava e non mi disturbava affatto, anzi: se una cosa non sopporto è proprio l’ipocrisia che sta dietro la mistica del proletariato, la presunzione di saperne cogliere e interpretare le aspettative e le paure, addirittura meglio dei proletari stessi, di esserne insomma la coscienza avanzata. Questa sì, mi è sempre parsa una forma insopportabile di ‘colonialismo sociale’. Persino io, che di quel proletariato facevo parte senza ombra di dubbio, avvertivo una distanza, e non perché fossi stato educato a “percepirne gli odori” (che tra l’altro, l’igienizzazione sempre più diffusa ha cancellati, reali o metaforici che fossero, così come la standardizzazione dell’abbigliamento o la scomparsa dei dialetti ha livellato gli altri indicatori sociali più eclatanti), quanto per il fatto che bene o male avevo potuto accedere a un certo livello d’istruzione e già vedevo la mia condizione da un altro punto di vista. Percepivo (e pativo) la differenza nelle aspettative “di senso”, individuali e sociali, rispetto alla maggior parte dei miei compagni del paese: ma ho patito ancor più quella rispetto ai miei compagni di studi, soprattutto all’università, e di militanza politica successivamente, che si arrogavano l’interpretazione autentica delle “istanze proletarie” e si candidavano ad avanguardie.

In Orwell la consapevolezza di quella distanza non si traduceva in rassegnazione; era il gesto di onestà necessario per cominciare sul serio a parlare di un qualche possibile cambiamento. La confessava senza tanti infingimenti e senza cercare scusanti: le cose stanno così, sembrava dire, ed è inutile e disonesto cercare di raccontarsele in altro modo. Importante è saperlo, e comportarsi di conseguenza.

Per questo, già molto prima di arrivare a quello che sarebbe stato poi giudicato un “tradimento”, non perdeva l’occasione di attaccare i “compagni” borghesi. Ne distingueva diverse tipologie: “gli schiumanti accusatori della borghesia, gli annacquati riformatori… i giovani astutissimi arrampicatori social-letterari che sono oggi i comunisti … e finalmente tutta quella deprimente tribù di donne magnanime, di uomini in sandali e di barbuti bevitori di succhi di frutta”, e di ciascuna denunciava in un aggettivo o in una lapidaria immagine la povertà di spirito, l’ambiguità, la grettezza delle motivazioni. “Un borghese abbraccia il socialismo e forse s’ iscrive addirittura al partito comunista. Ciò, che reale differenza fa? c’è qualche mutamento nei suoi gusti, nelle sue abitudini, nei suoi modi, nella sua mentalità, nella sua ‘ideologia’, per usare il termine dei comunisti? È da notarsi che egli continua a frequentare abitualmente le persone del suo ceto; si sente infinitamente più a suo agio con un membro della sua classe, il quale lo ritiene un pericoloso bolscevico, che con un membro della classe operaia, il quale si suppone condivida le sue idee; i suoi gusti in fatto di cibo, vino, abiti, libri, quadri, musica, balletto sono ancora riconoscibilmente gusti borghesi. I più dei socialisti borghesi, mentre teoricamente aspirano a una società senza classi, restano attaccati come pece ai miserabili frammenti del loro prestigio sociale”.

L’ironia di Owell è incapace di sconti nei confronti di coloro i quali, giocando a identificarsi con il proletariato, lo tradiscono. “Forse, le buone creanze a tavola non sono una cattiva dimostrazione di sincerità. Ho conosciuto molti socialisti borghesi, ho ascoltato per ore la loro tirata contro la loro classe eppure mai, neppure una volta, ne ho incontrato uno che a tavola avesse preso a comportarsi come un proletario – osserva Orwell. – Può essere solo perché in cuor suo sente che le maniere proletarie sono disgustose.

Più tardi, in Fiorirà l’aspidispra, disegnerà la figura di Philip Ravelston, un intellettuale alto borghese che aderisce al marxismo e se ne fa ardente propugnatore, ma che a dispetto degli sforzi per scimmiottare i modi di vita dei proletari non riesce a tagliare i ponti con la classe sociale da cui proviene, e ne conserva inconsciamente gli atteggiamenti e la disposizione mentale. “Gli piaceva pensare alla gente perduta, alla gente del sottosuolo, vagabondi, mendicanti, criminali, prostitute. È un mondo buono quello in cui vivono nelle loro fetide pensioncine equivoche, nelle loro infermerie d’ospizio. Gli piaceva pensare che sotto il mondo del denaro si stendono i vasti bassifondi della sporcizia e della degradazione, dove sconfitta o riuscita non hanno più significato alcuno; una specie di regno di spettri, dove tutti sono uguali.” Ravelston lo pensa però seduto nel proprio salotto, e lo afferma durante le sedute del club di cui è socio. Eppure diventa una figura di riferimento per il protagonista del romanzo, in positivo (lo invidia) e in negativo (si compiace di coglierne le incongruenze). Questi è a sua volta un aspirante intellettuale che della propria frustrazione vuol fare virtù, imponendosi una coerenza esterna estrema nei modi di vivere: ciò che in realtà non lo porta a nulla e non lo rappacifica con se stesso.

***

4. L’idea di Orwell di studiare le classi più povere dall’interno non era così originale. Trent’anni prima Jack London, per scrivere Il popolo degli abissi, aveva vissuto per un mese e mezzo travestito da barbone nell’East End di Londra. Ne ho già parlato altrove (cfr. Tre vagabondi), e quindi non sto a ripetermi. Mi limito a cogliere la sottile differenza sia delle motivazioni che dei modi, ma soprattutto dello spirito, coi quali l’esperienza è stata vissuta dai due.

In entrambi i casi la finalità è quella del reportage giornalistico, ma la destinazione di questo reportage cambia. London intendeva, non senza una punta di sciovinismo, raccontare agli americani il ritardo dell’Inghilterra quanto a progresso sociale. Chiarisce nella nota di presentazione che la sua è una descrizione realistica dell’altra faccia della società inglese, quella che ospita gli sconfitti e gli sfruttati, e che viene sempre celata dietro l’immagine di una crescita economica straordinaria. È una sorta di rivincita nei confronti dello snobismo col quale gli inglesi avevano sempre trattato la cultura e la civiltà americana; nasce come un’indagine sociale, ma alla fine assume il significato di un j’accuse politico.

Il giovane Orweell13Anche London, come Orwell, era un socialista. Sia pure in una maniera tutta sua, molto americana, che combinava Marx con Nietzsche e con Sorel. E anche lui, come Orwell, col socialismo, o meglio, coi socialisti, ebbe un rapporto conflittuale, soprattutto dopo che si rese conto che la gran parte dei suoi consistenti contributi economici alla causa era finita nelle tasche dei capi. Ciò lo aveva indotto, ad un certo punto, a prendere le distanze dal movimento e dalle organizzazioni sindacali, per coltivare un socialismo personalissimo e molto disincantato.

È chiaro che Orwell ha preso a modello il London de Il popolo degli abissi, ed egli stesso non ha esitazioni a confessarlo: così come più tardi riconoscerà, a proposito di 1984, il debito con Il tallone di ferro, tra i primi romanzi distopici del ventesimo secolo.

La disposizione con la quale i due si calano nei bassifondi dell’umanità non è però identica. Intanto, quando aveva deciso di camuffarsi da relitto umano, assumendo le sembianze di un marinaio americano senza un soldo e alla ricerca di un imbarco, London era già uno scrittore ricco, famoso e osannato. Era uscito da una povertà che aveva conosciuto da dentro, senza bisogno di cercarla, e l’impegno di tutta la sua vita fu poi di non ricaderci. Al contrario di Orwell, quindi, arrivava da una educazione tutt’altro che borghese, che non gli aveva trasmesso pregiudizi. In quelle «bande di “cads”, ragazzacci ineducati che ti si buttavano addosso spesso in cinque o dieci contro uno”, che erano il terrore di Orwell bambino, o tra quei “figli della strada londinesi, con la loro voce squillante e la loro mancanza di scrupoli intellettuali, potevano rendere impossibile la vita a coloro che consideravano inferiore alla propria dignità rispondere loro per le rime» London sarebbe stato un capo.

Non stupisce dunque quello gli accade, la sensazione che prova: «Per strada fui ben presto colpito dalla differenza di status causata dal mio abbigliamento. Qualsiasi servilismo era scomparso dall’ atteggiamento della gente comune con cui entravo in contatto. Oplà! Un battito di ciglia, per così dire, ed ero diventato uno di loro. La mia giacca logora, dai gomiti consunti, era il segno e l’attestazione della mia classe, che era anche la loro classe. Mi rendevo simile a loro, e invece dell’attestazione servile e troppo rispettosa che avevo ricevuto fino ad allora, mi trovavo a condividere un certo cameratismo. L’uomo con i calzoni di velluto e la cravatta lercia non mi chiamava più “signore” o “principale”: ero diventato “amico”, adesso, una parola bella e sincera».

Naturalmente la solidarietà cameratesca degli uni ha il suo contraltare nel declassamento da parte degli altri: “Dal mio nuovo abbigliamento discendevano altri mutamenti di condizione. Scoprii che quando attraversavo un incrocio affollato dovevo stare più attento a evitare i veicoli, e mi apparve chiaro che il valore della mia vita era sceso in proporzione a quello dei miei vestiti. Prima, quando chiedevo la strada a un poliziotto, in genere mi domandava: – In bus o in carrozza, signore? – Adesso mi chiedeva: – A piedi? – E nelle stazioni ferroviarie mi davano un biglietto di terza classe, come fosse del tutto ovvio”.

Anche questa era una sensazione che conoscevo: la mia particolare percezione della ‘distanza’, quella di cui parlavo più sopra, l’avevo vissuta anche a parti ribaltate. Ricordo che una notte, nei tardi anni Sessanta, mentre ci aggiravamo per il quartiere di Soho dopo una giornata di digiuno quasi totale e non volontario, il mio compagno di avventura mi chiese: “Ma non dovremmo aver paura?”. Al che risposi: “Guardati attorno: sono loro ad aver paura di noi”.

London la mette giù in maniera più delicata: “E quando finalmente arrivai nell’East End, scoprii con soddisfazione che non avevo paura della folla. Ero entrato a farne parte. Il mare vasto e maleodorante si era richiuso sopra di me, o meglio mi ci ero immerso dolcemente, e non c’era nulla di terribile in questo, fatta eccezione per la maglia da fuochista”.

Il giovane Orweell14

Di terribile c’è invece quello che nell’East End London vede, in un’epoca nella quale l’Inghilterra ha ancora un impero, è la maggiore potenza navale del mondo e accumula ricchezze che affluiscono da tutti i continenti. Vede masse enormi di diseredati: quelli che lavorano, retribuiti con salari da fame e strangolati dai debiti, costretti a spaccarsi la schiena per tirare su pochi spiccioli; i disoccupati e i vagabondi che si aggirano pressoché invisibili per le strade, sperando di trovare un qualsiasi momentaneo lavoro, a dispetto magari dell’’età avanzata o della debolezza fisica, raccolgono gli avanzi di cibo nella spazzatura e dormono di notte sulle panchine: gli uni e gli altri impegnati con tutte le loro forze solo a sopravvivere.

In quella che definisce una “voragine umana infernale” London incontra tuttavia anche alcuni personaggi che sono riusciti a dispetto della miseria a conservare la loro dignità e oppongono una resistenza eroica e solitaria alla nullificazione. Ci offre ogni tanto immagini di un socialismo un po’ deamicisiano, che devono qualcosa anche al culto superomistico di origine nietzschiana. Del resto, lui stesso rappresenta l’esempio più clamoroso di chi dalla miseria ha saputo emanciparsi con la sola forza della sua volontà e con una cultura conquistata con i denti. Sono convinto che fosse questo a fargli scorgere la possibilità di risalita dalla voragine: ma anche che figure come quelle che racconta potessero esistere veramente, prima che la burocratizzazione della lotta del proletariato ne decretasse la scomparsa.

In questo differisce da Orwell, che invece non si fa concessioni. Anche nel quadro da lui dipinto alcune figure emergono rispetto allo squallore generalizzato, ma l’impressione è che lo spazio concesso alle individualità sia davvero ridottissimo. C’entra forse il fatto che Orwell descrive la situazione creatasi immediatamente a ridosso della grande crisi del ‘29, ma la convinzione dello scrittore inglese è quella cui ho già accennato: la fame e la misera disumanizzano totalmente. La sua esperienza non dura sei settimane, ma anni, e il contatto prolungato con quella realtà finisce non per renderla normale, ma per farla cogliere al di là dell’eccezionalità e dello scandalo. Inoltre, a differenza di London, Orwell nella povertà ci si imbatte: almeno per quanto concerne le esperienze parigina e londinese non si può dire che la scelga.

Arrivano comunque alla stessa conclusione. Come scrive London: “Non ci si può sbagliare. La civiltà ha centuplicato le capacità produttive dell’uomo e, a causa della cattiva gestione, i suoi uomini vivono peggio delle bestie”. La cattiva gestione, tanto per lui quanto per Orwell, è quella operata dal modo di produzione industriale. Con la differenza che per il primo il fattore più grave è la redistribuzione ineguale delle risorse, mentre per il secondo l’industrialismo non determina soltanto una sopravvivenza fisica sempre più precaria, ma cancella nei lavoratori poveri anche ogni dignità morale, li rende quasi disumani. I personaggi disgustosi “il cui modo di parlare – dice Orwell – ti dà la sensazione che non siano persone vere, ma un tipo di fantasma che ripete in eterno lo stesso discorso senza né capo né coda […] esistono in centinaia di migliaia, e sono i prodotti caratteristici del mondo moderno, di quello che l’industrialismo ha fatto per noi”.

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5. La denuncia della nuova miseria creata dal produttivismo arriva principalmente dagli scrittori inglesi, ed è comprensibile, dal momento che in Inghilterra le prime due fasi della rivoluzione industriale sono già compiute alla fine dell’Ottocento, e i loro risvolti negativi, a livello sia ambientale che sociale, sono ormai evidenti. La povertà narrata dai romanzieri francesi (da Hugo a Zola), da quelli russi (Gorkij) o scandinavi (Hamsun, Martinsson) o italiani (Verga) è ancora legata ad un mondo preindustriale. Orwell è stato invece preceduto anche da diversi connazionali. Dando per scontato Dickens, autore d’obbligo nella formazione culturale vittoriana, che in opere come Tempi difficili o Oliver Twist lancia una indignata protesta sociale (anche se è poi costretto da esigenze di cassetta ad annacquarla con finali dolciastri), dietro l’opera di Orwell si può ad esempio facilmente cogliere l’influsso di quella di George Gissing.

Gissing la povertà non l’aveva cercata, né ci si era imbattuto. C’era proprio cascato dentro, in seguito ad una serie di disavventure sentimentali che ne avevano troncato le aspirazioni di umanista brillante e appassionato. Aveva conosciuto persino il carcere, e si era trovato a condividere la vita degradata e umiliante degli abitanti dei più squallidi bassifondi londinesi. Non gli restava che fare di necessità virtù, denunciando nei suoi primi romanzi la miserabile realtà degli slums londinesi. “L’arte deve essere oggi il portavoce della miseria, perché la miseria è la nota dominante del nostro mondo” – faceva dire ad uno dei suoi protagonisti – “Voglio far capire alla gente le spaventose condizioni (materiali, intellettuali e morali) delle nostre classi povere, per mostrare l’orrenda ingiustizia di tutto il nostro sistema sociale, e illuminare un piano per riformarlo.”

Quella miseria Gissing la conosce meglio degli stessi London e Orwell, perché è costretto ad affrontarla non da più o meno allegro vagabondo, ma avendo sulle spalle la responsabilità di una famiglia. Per questo motivo, e soprattutto per un’attitudine caratteriale decisamente pessimista, nei confronti dell’ambiente che descrive prova soltanto antipatia ed avversione. C’è un divario enorme tra la sua capacità di rappresentare il degrado sociale e l’incapacità di entrare in sintonia con la massa che lo vive, di intenderne e di parlarne il linguaggio. Non ha nemmeno bisogno di confessare apertamente i suoi sentimenti, come farà Orwell; questo rifiuto lo si avverte subito, perché Gissing non si sforza affatto di mantenersi neutrale. Vive tra i poveri, osserva i poveri e si propone, con i suoi libri, di rendere loro un servizio, ma non riesce né ad amarli né a sopportarli, prova quasi un odio fisico, è costantemente irritato dalla loro meschina materialità. Si sente tra loro come un prigioniero, e i soli personaggi che si distinguono positivamente in tanto squallore sono i prigionieri come lui, costretti in un mondo che è loro estraneo e che tarpa l’ingegno e le speranze.

Il giovane Orweell15Malgrado ciò, per molti aspetti Gissing è molto più prossimo ad Orwell di quanto potrebbe sembrare. Nel suo unico libro di viaggi, Sulle rive dello Ionio, scrive ad un certo punto: “Ogni uomo ha un suo anelito intellettuale; io ho quello di sfuggire alla vita che conosco e di tornare, per virtù del sogno, in quell’antico mondo che deliziò la mia immaginazione di fanciullo” (nel suo caso si tratta del mondo greco e romano). Le vestigia di questo mondo le trova ad esempio nel Meridione italiano, e segnatamente nella sua area più arretrata, in Calabria: ne è talmente suggestionato da tollerare la miseria delle popolazioni calabresi, che gli appare comunque solare, mentre considera torbida e insopportabile quella delle masse londinesi. (In questo è simile a molti suoi contemporanei in fuga dalla società vittoriana, ma molto diverso da Dickens, che nel suo resoconto di un viaggio in Italia parla di “Città sporche e tristi, paese decadente, umanità ambigua” e scrive, in una lettera ad un amico: “Se tu potessi vedere i lazzaroni come sono in realtà: meri animali, squallidi, abietti, miserabili, per l’ingrasso dei pidocchi; viscidi, brutti, cenciosi, avanzi di spaventapasseri!”).

Ora, anche Orwell, come ho già accennato, rimpiange il passato. In effetti moltissime sue pagine appaiono intrise di nostalgia (e questa la fa addirittura da protagonista in Una boccata d’aria). Ma è necessario distinguere tra le possibili disposizioni d’animo con le quali la nostalgia viene vissuta. Nel caso di Orwell la rievocazione nostalgica riguarda un tempo, un mondo, una condizione che ha direttamente conosciuto; per altri, come appunto Gissing, è rivolta invece a mondi solo idealizzati, anche se amati al punto da diventare comunque condizionanti per l’esistenza. In quest’ ultimo caso non è soltanto questione di tornare indietro, ma di andare proprio altrove. In fondo si tratta di utopie personalissime, di nicchie individuali che ci si ritaglia e che paradossalmente possono essere rese concrete, per brevi periodi e in condizioni particolari come quelle che si realizzano per Gissing lungo le rive dello Jonio.

Orwell rimane invece sempre perfettamente consapevole che quel tempo, quel mondo e quella condizione ai quali va con la memoria non possono tornare, e sa benissimo che il ricordo ne ha selezionato solo i lati positivi. “Rassegniamoci al fatto che il ritorno a un modo di vivere più semplice, più libero, meno meccanizzato, per desiderabile che possa essere, non si verificherà. Questo non è fatalismo, è semplice accettazione dei fatti.”

Questo perché: “Nessun essere umano vuol fare checchessia in modo più scomodo di quel che sia necessario. Da qui l’assurdità di quel quadro dei cittadini di Utopia che si salvano l’anima con lavoretti decorativi. In un mondo dove tutto possa essere fatto dalle macchine, tutto sarà fatto dalle macchine. Tornare deliberatamente a metodi primitivi, usare strumenti arcaici, porre piccoli ostacoli idioti sulla propria strada, sarebbe dar prova di dilettantismo, darsi arie da falso artista, rendersi ridicoli. Sarebbe come sedersi solennemente a tavola per far colazione con posate di pietra”.

Usa dunque la memoria solo per trarne una qualche consolazione di fronte ad un presente e a un futuro che non lasciano presagire nulla di buono. Se non altro, essa testimonia il fatto che modi di vita differenti sono stati possibili, e se pure irripetibili, possono fungere da parametro per orientare le nostre scelte future, per non lasciare cadere ogni speranza.

Le città industriali erano lontane, una macchia di fumo e di sofferenza nascosta dalla curvatura della terra. Qui si era ancora nell’Inghilterra che ho conosciuto nella mia infanzia: le scarpate lungo la ferrovia ricoperte di fiori selvatici, i prati dall’erba alta dove grandi cavalli lustri brucano e meditano, i lenti ruscelli in mezzo ai salici, le verdi distese di olmi, la speronella nei giardini delle casette di campagna; e poi il grande deserto tranquillo della periferia londinese, le chiatte sul fiume fangoso, le strade familiari, i manifesti che annunciano gli incontri di cricket e i matrimoni della famiglia reale, i signori in bombetta, i piccioni di Trafalgar Square, gli autobus rossi, i poliziotti in blu – tutti addormentati nel profondo, profondissimo sonno dell’Inghilterra, da cui a volte temo non ci sveglieremo mai finché non ne saremo strappati di colpo dal boato delle bombe.

Quanto a Gissing, Orwell lo stima moltissimo: “Era un uomo intelligente e caritatevole, una persona erudita e raffinata che, dopo aver sperimentato il contatto diretto con i poveri di Londra, arrivò alla seguente conclusione: quella gente è selvaggia, mai e poi mai deve avere accesso al potere politico […] Da questo scrittore, che amava la tragedia greca, odiava la politica e cominciò a scrivere molto prima che Hitler nascesse, si può imparare qualcosa sulle origini del fascismo”.

Sono pienamente d’accordo.

***

Il giovane Orweell166. In una delle primissime recensioni italiane ad Orwell, Giuseppe Bonura scrive che aveva la tempra del martire laico. Questa definizione richiama immediatamente il confronto con un’altra esperienza simile e pressoché coeva, quella vissuta da Simone Weil, e raccontata poi dalla filosofa francese ne “La condizione operaia”.

Nel dicembre del 1934 la Weil, che vuole conoscere “dall’interno” le condizioni di lavoro della classe operaia, entra come manovale nelle officine metallurgiche della Renault. È cresciuta in una famiglia alto borghese, ha ricevuto un’istruzione laica e raffinata, è cagionevole di salute ma incredibilmente determinata, sorretta da uno spirito missionario che sconfina nella patologia.

Regge per otto mesi, sufficienti a farle sperimentare lo stato di semi-schiavitù nel quale il lavoro si svolge, i ritmi infernali della catena di montaggio, la prostrazione da fatica, l’annullamento della personalità in una rassegnata obbedienza. Sono le stesse cose raccontate da Orwell, ma sono vissute in maniera diversa. “Per me, personalmente, ecco cosa ha voluto dire lavorare in fabbrica: ha voluto dire che tutte le ragioni esterne (una volta avevo creduto trattarsi di ragioni interiori) sulle quali si fondavano, per me, la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa sono state radicalmente spezzate in due o tre settimane sotto i colpi di una costruzione brutale e quotidiana […] Mettendosi dinanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima per otto ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto […] Questa situazione fa sì che il pensiero si accartocci, si ritragga, come la carne si contrae davanti a un bisturi. Non si può essere coscienti”.

Quello che la Weil racconta è tutto vero. C’è però un piccolo particolare, tutt’altro che irrilevante. La condizione interiore di cui parla la si vive quando si ha coscienza che ne esistono altre possibili: e diventa tanto più insopportabile quando si sa che è a tempo determinato, che se ne potrà uscire quando lo si vorrà. “Ho creduto di essere minacciata, a causa della prostrazione e dell’aggravarsi del dolore, da una degradazione così spaventosa di tutta l’anima che, per molte settimane, mi sono domandata con angoscia se morire non fosse per me il dovere più imperioso, benché mi sembrasse mostruoso che la mia vita dovesse concludersi nell’orrore.

Ciò che maggiormente preoccupa la Weil è la “degradazione dell’anima”, cosa della quale i suoi compagni di lavoro non hanno affatto modo di rendersi conto, occupati come sono a sopravvivere a quella del corpo. Di fatto, quando non regge più la Weil torna all’insegnamento e alle sue frequentazioni elitarie: è vero che si impone digiuni e ogni tipo di ristrettezza per vivere il più possibile come i poveri, per entrare in “comunione spirituale” con essi: ma è altrettanto vero che può scegliere di farlo o meno.

Intendiamoci: di fronte ad una persona che potrebbe vivere tranquillamente, fregandosene degli orrori e delle ingiustizie che la circondano, e che sceglie invece l’impegno nella sua forma più radicale, ed è coerente con la sua scelta fino ad essere uccisa dai sacrifici che si è autoimposta, non posso che inchinarmi. Ma nemmeno posso impedirmi di pensare che questa scelta sia intrisa di ambiguità, di una esasperazione mistica e religiosa che pare mirata più alla salvezza della propria anima che al miglioramento della condizione altrui. L’altruismo esasperato, quando si traduce in ascesi, mi fa sempre sospettare una forte venatura di egoismo.

Tutto questo in Orwell non c’è. Vive in mezzo ai barboni e ai vagabondi, condivide dormitori pubblici e luride stamberghe, frequenta le povere case e gli infernali luoghi di lavoro dei minatori, ma poi lo racconta rimanendo sempre consapevole della distanza della sua posizione rispetto alla loro. Orwell è un ribelle nell’animo e un riformatore nella testa, la Weill è un’asceta visionaria che anela al martirio, e lo trova.

Ad accomunarli è piuttosto la messa in discussione del progresso, inteso come transizione al modo di produzione industriale. In Simone Weil naturalmente questa opposizione si esprime nella forma più esasperata: “Niente può avere come destinazione qualcosa di diverso dalla sua origine. L’idea opposta, l’idea del progresso, è veleno”.

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In Orwell è più ragionata, anche se non meno radicale. «Noi tutti dipendiamo dalla macchina, e se le macchine cessassero di lavorare la maggioranza di noi morrebbe. Si può detestare la civiltà meccanica, probabilmente avete ragione di detestarla, ma per il momento non si tratta di accettarla o respingerla. La civiltà meccanica è “qui”, onnipresente, e si può soltanto criticarla dall’interno, perché tutti noi ci troviamo nel suo interno. Sono semplicemente degli idioti romantici coloro che si lusingano di essere fuggiti, come il letterato snob nella sua villa in stile Tudor con bagno e acqua calda e fredda, e come il “vero uomo” che se ne va a fare il primitivo nella giungla con un fucile Mannlicher e quattro furgoni carichi di cibarie in scatola. E quasi certamente la civiltà meccanica continuerà a trionfare […]». Però «la tendenza del progresso meccanico, dunque, è di frustrare il bisogno umano di sforzo e di creazione. Esso rende inutili e perfino impossibili le attività dell’occhio e della mano. L’apostolo del “progresso” dirà che ciò non ha importanza, ma potrete metterlo con le spalle al muro facendogli notare a quali estremi orribili può essere portato il processo. Perché, per esempio, usare le mani addirittura, perché usarle anche per soffiarsi il naso o far la punta a una matita?»

Per il resto, ciò che l’una scrive potrebbe essere sottoscritto anche dall’ altro, tranne forse l’ultima considerazione. “Il lavoro di per sé non è opprimente; – scrive la Weil – può certo produrre noia, costrizione, ma non avvilisce. È quanto ad esso si aggiunge nella produzione industriale che opprime: l’idea che il tempo passato lavorando sia perduto per la vita, l’impressione che in nessun momento si produca qualcosa di reale, la cadenza monotona dei gesti, la sottomissione passiva ai capireparto, la schiavitù cui bisogna costringersi da soli, il senso di solitudine pur in mezzo agli altri, l’esperienza dello sradicamento perché si vive in un luogo che non appartiene al lavoratore, la schiavitù che differisce da quella classica perché non consente una libertà interiore come è invece possibile per la figura dello schiavo stoico: meschina consolazione, senza dubbio, ma proibita all’operaio.”

E allora? Da dove può venire la liberazione? Non certo dalle forme di lotta tradizionali: “Gli operai fanno lo sciopero – scrive la Weil – ma lasciano ai militanti il compito di studiare il particolare delle rivendicazioni. L’abitudine della passività contratta quotidianamente nel corso di anni ed anni, non si perde in pochi giorni, anche se così belli”. Neppure da quelle più estreme, come la rivoluzione: “In questa rivolta contro l’ingiustizia sociale l’idea rivoluzionaria è buona e sana. In quanto rivolta contro l’infelicità essenziale inerente alla condizione propria dei lavoratori, è una menzogna. Perché nessuna rivoluzione potrà abolire quell’ infelicità, risolvere i veri problemi dell’uomo che invece trovano radice nel profondo del suo animo […] Infine la rivoluzione è una compensazione dello stesso tipo; è l’ambizione ad un’altra condizione sociale per se stessi o per i propri figli, l’ambizione trasferita nel collettivo, la folle ambizione dell’ascensione di tutti i lavoratori al di sopra della condizione di lavoratori”.

Orwell è decisamente più pratico e concreto: «Compito dell’individuo ragionevole, quindi, non è di respingere il socialismo ma di decidersi a umanizzarlo. Una volta che il socialismo stia in un certo senso per essere, quelli che hanno capito completamente l’inganno del “progresso” si accorgeranno probabilmente di opporgli resistenza. Infatti la loro particolare funzione è di resistergli. Nel mondo delle macchine essi devono rappresentare una specie di opposizione permanente, cosa ben diversa dal fare dell’ostruzionismo o dal tradire. Ma io sto parlando del futuro. Per il momento la sola via possibile aperta a un galantuomo, per quanto anarchico o conservatore possa essere di temperamento, deve lavorare per l’edificazione del socialismo. Nessun’altra cosa può salvarci dalla miseria del presente o dall’incubo del futuro

Entrambe le posizioni, comunque, ci dicono che tra le altre esperienze i due condividono anche il rapporto conflittuale con la sinistra “ortodossa”. Simone Weil non entra mai nei quadri di partito, ma si impegna fortemente nel lavoro sindacale, nella stampa, nell’organizzazione di manifestazioni antifasciste. Arriva ad ospitare in casa propria Trotszkij, col quale litiga immediatamente, e denuncia la politica staliniana già nei primi anni Trenta. Potrebbe riconoscersi perfettamente in questa considerazione di Orwell: “Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere.”

Naturalmente anche la posizione ereticale che parrebbe unirli viene vissuta in maniera differente. Quella della Weil si libra alla fine in una mistica della libertà: “La libertà è una condizione politica ma deve essere inquadrata all’interno di una visione etica: non basta essere liberi, bisogna diventare liberi, cioè bisogna sapere come spendere la propria libertà”, dove l’altro corno della concezione socialista, la giustizia, sembra avere un rilievo molto minore. Quella di Orwell si mantiene invece terra terra, a difesa di un valore etico per lui altrettanto importante e niente affatto disgiunto dalla “libertà”: quella che lui chiamava la “decenza”: «Sarebbe un grandissimo vantaggio se quel continuo, insignificante e meccanico punzecchiare i borghesi, che fa parte di quasi tutta la propaganda socialista, fosse abbandonato per il momento. In tutto il pensiero e gli scritti di sinistra – dagli articoli di fondo del “Daily Worker” alle colonne umoristiche del “New Chronicle” – si perpetua una tradizione anti-cortesia, uno schernire persistente e spesso molto stupido le buone maniere e gli ideali dei ceti evoluti (o, per, usare il gergo comunista, i “valori borghesi”). È in gran parte una impostura, venendo come viene da punzecchiatori della borghesia che sono essi medesimi borghesi, ma fa gran danno, perché lascia che un problema minore ne ostacoli uno maggiore. Storna l’attenzione dal fatto centrale che la povertà è povertà, tanto se il tuo strumento di lavoro è un piccone quanto se è una penna stilografica. Tutto quello che occorre è martellare e ribadire bene nella coscienza pubblica due fatti. Uno, che gli interessi di tutti gli sfruttati sono gli stessi; l’altro che il socialismo e il comune decoro possono andare perfettamente d’accordo».

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7. Con Simone Weil (e con molti altri) Orwell ha infine in comune la partecipazione attiva alla guerra civile spagnola, un’esperienza che per una larghissima parte degli intellettuali formatisi tra le due guerre ha rappresentato un momento di svolta, più ancora del secondo conflitto mondiale.

Il resoconto del suo contributo alla lotta al fascismo si trova in Omaggio alla Catalogna, che ho letto quando già frequentavo l’università. Al liceo naturalmente nessuno mi aveva mai parlato della guerra di Spagna: alla fine del ciclo si approdava si e no alla prima guerra mondiale, e anche i libri di testo vi accennavano appena. Nemmeno era mai stato oggetto di conversazione in famiglia, perché credo che i miei ne sapessero ben poco, o avevo avuto occasione di imbattermi in qualche opera storica sull’ argomento, visto che in Ovada non c’era una biblioteca pubblica. In definitiva tutto ciò che conoscevo di questa vicenda veniva da notizie scarse e contraddittorie raccolte su qualche rivista.

Ad accendere l’interesse era stata però la letteratura, quella frequentata fuori dalle mura scolastiche: l’Hemingway di Per chi suona la campana e il Malraux de La speranza. Di lì a I grandi cimiteri sotto la luna di Bernanos, e finalmente ad Omaggio alla Catalogna, il passaggio era obbligato.

Prima di arrivare a quest’ultimo già sapevo che Orwell aveva militato nelle file del POUM (ma non avevo idea di cosa precisamente fosse il Partido Obrero de Unificaciòn Marxista: d’altro canto, al momento della sua adesione neppure Orwell lo sapeva), che aveva combattuto sul fronte aragonese e che era stato gravemente ferito. Mi intrigava però soprattutto ciò di cui avevo avuto solo sentore, e che sembrava totalmente rimosso dalla memoria ufficiale: le epurazioni degli anarchici e dei trotskisti per mano degli emissari di Mosca (leggi: Togliatti), la sconfortata presa di coscienza degli intellettuali e dei militanti accorsi ad arruolarsi nella Brigata internazionale, l’ambiguità degli atteggiamenti delle potenze “democratiche”. Ho letto quindi la prima volta Omaggio alla Catalogna pieno di aspettative, e queste non sono andate deluse. Ciò che Orwell raccontava costituiva davvero una rivelazione, e ha contribuito in maniera determinante, in un momento di grande confusione (collettiva), a indirizzare le mie scelte di “posizionamento”.

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In Perché scrivo, che fa parte della raccolta che ho tra le mani, Orwell spiega cosa ha ispirato la sua attività di saggista: “La Guerra civile spagnola e altri avvenimenti del 1936-37 hanno contribuito a farmi prendere una decisione, e da allora ho capito da che parte stavo. Ogni riga del lavoro serio che ho prodotto dal 1936 l’ho scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e per il socialismo democratico così come lo intendo io”.

Omaggio alla Catalogna racconta appunto il prima e il dopo di questa decisione. Alla fine del 1936 Orwell arriva in Spagna, nel pieno della guerra civile, nutrito ancora di sogni di rivoluzione e di immagini romantiche della Spagna e degli spagnoli, e accompagnato dalla moglie. Vuole raccontare quello che accade, essere un testimone. Ma si rende conto subito di non poter rimanere neutrale, e diventa protagonista. Si arruola nelle milizie del POUM, non per una scelta meditata ma perché è la prima caserma che trova, e perché ritiene che combattere con l’una o con l’altra formazione non faccia differenza, davanti ad un nemico comune. «Credevo fosse un’idiozia che gente che combatteva per salvarsi la vita dovesse appartenere a partiti diversi; il mio atteggiamento era sempre del tipo: “Perché non la smettiamo con queste sciocchezze politiche e ci concentriamo sulla guerra?”. Naturalmente questo era il corretto atteggiamento “antifascista” che era stato accuratamente diffuso dai giornali inglesi, in gran parte al fine di impedire che la gente comprendesse la vera natura del conflitto. Ma in Spagna, specialmente in Catalogna, era un atteggiamento che non si poteva mantenere a tempo indeterminato e infatti nessuno lo mantenne. Pur se a malincuore, tutti prima o poi si schieravano da una parte o dall’altra».

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Va al fronte, è ferito, dopo un paio di settimane torna a combattere, e quando a maggio del 1937 rientra a Barcellona per un normale avvicendamento si rende conto che è in atto una guerra interna allo stesso schieramento repubblicano in cui milita, anzi, una vera e propria epurazione nei confronti degli anarchici e dei trotskisti, nella quale è direttamente coinvolto. Anche lui è nella lista degli accusati di “tradimento”. A differenza di molti altri (Camillo Berneri, ad esempio, è “giustiziato” per strada in quegli stessi giorni) riesce a scappare per il rotto della cuffia. Appena in tempo per rientrare in Inghilterra e raccontare ciò che ha visto.

Il reportage che scrive a caldo (uscirà nell’ottobre dello stesso anno) si suddivide anch’esso, come Wigan Pier, in due parti. La prima è il resoconto puro e semplice dei fatti bellici, nel quale non nasconde nulla, e va dall’entusiasmo immediato che respira appena giunto a Barcellona («Camerieri e commessi ti guardavano negli occhi e ti trattavano da pari a pari. Le formule d’indirizzo servili o addirittura cerimoniose erano per il momento scomparse. Nessuno più diceva “Señor” o “Don” e neanche “Usted”; tutti si chiamavano “Compagni” e si davano del tu, si salutavano con “Salud!” invece che con “Buenos días” […] si vedevano pochissime persone visibilmente povere e nessun mendicante, tranne gli zingari. Soprattutto c’era fede nella rivoluzione e nel futuro, la sensazione di trovarsi improvvisamente in un’epoca di eguaglianza e di libertà. Gli esseri umani stavano cercando di comportarsi come tali e non come ingranaggi nella macchina capitalista […]») all’insofferenza per l’impreparazione e la disorganizzazione totale che regna nelle fila repubblicane; non parla di atti di eroismo, ma della noia e dei disagi della guerra di posizione (freddo, soprattutto, e poi sporcizia, piattole, indisciplina, ecc…). Nella seconda, che viene sviluppata come una lunga appendice, fa invece un’analisi delle vicende politiche, delle menzogne, degli intrighi internazionali che hanno portato alla disfatta. Orwell vuole raccontare con voce onesta, in base a ciò che visto, i risvolti meno nobili della tragedia spagnola. Partendo dal denunciare che: “Uno degli effetti più terribili di questa guerra è stato apprendere che la stampa di sinistra è falsa e disonesta quanto quella di destra”.

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La motivazione che Orwell dà del suo impegno è chiara, perfettamente in linea con i suoi libri precedenti: «Quando i combattimenti iniziarono il 18 luglio è probabile che ogni antifascista in Europa abbia provato un brivido di speranza. Perché, almeno in apparenza, ecco finalmente una democrazia che resisteva al fascismo. Per anni, in passato, le cosiddette nazioni democratiche avevano ceduto al fascismo a ogni piè sospinto […] e si limitavano a elevare pie proteste “fuori scena”. Ma quando Franco aveva tentato di rovesciare un governo moderatamente di sinistra, il popolo spagnolo, contro le aspettative di tutti, gli si era rivoltato contro».

Lo è anche la disposizione positiva che lo sorreggerà nel primo periodo: l’impressione di combattere a fianco di uomini finalmente all’altezza degli ideali che professano. “Nella caserma Lenin di Barcellona, il giorno prima di arruolarmi nella milizia, ho visto un volontario italiano in piedi davanti al tavolo degli ufficiali. Era un giovanottone dall’aspetto rude di venticinque-ventisei anni, dai capelli biondo-rossicci e un gran paio di spalle. Portava il berretto di cuoio con la visiera minacciosamente inclinato su un occhio. Era di profilo rispetto a me, con il mento sul petto, e scrutava con aria perplessa una cartina che uno degli ufficiali aveva aperto sul tavolo. C’era qualcosa nella sua espressione che mi commosse profondamente. Era l’espressione di un uomo che per un amico avrebbe ammazzato qualcuno e sacrificato la propria vita – l’espressione che ci si sarebbe aspettati di vedere sul volto di un anarchico, anche se con ogni probabilità lui era comunista. C’era un misto di candore e di ferocia in essa, ma anche la patetica riverenza che gli analfabeti mostrano per quelli che ritengono essere i loro superiori. Era chiaro che della cartina non capiva un accidente; che riteneva la capacità di leggere una carta topografica un’impresa intellettuale stupefacente. Non so bene perché, ma mi è capitato raramente di vedere una persona – voglio dire un uomo – che mi abbia ispirato una simpatia così immediata”.

Questa impressione non è destinata a ripetersi. Le differenti motivazioni non tardano a venire a galla, e a creare lo strappo. Tutta la vicenda, alla fine, potrebbe essere riassunta nelle poche righe che descrivono il suo sconcerto al rientro a Barcellona: «C’era lo sconvolgente mutamento nell’ atmosfera sociale – un fenomeno inconcepibile se non lo si è provato di persona. Appena arrivato a Barcellona l’avevo considerata una città in cui quasi non esistevano distinzioni di classe e grandi dislivelli di ricchezza. E senza dubbio l’apparenza era quella. I vestiti “eleganti” erano un’anomalia, nessuno era servile o accettava mance, camerieri, fioraie e lustrascarpe non abbassavano lo sguardo e davano del “compagno” a tutti. Quello che non avevo capito era che tutto questo era un misto di speranza e di mimetizzazione. La classe operaia credeva veramente in una rivoluzione che era iniziata, ma non si era ancora consolidata, mentre i borghesi si erano spaventati e si erano per il momento travestiti da lavoratori. Nei primi mesi della rivoluzione dovevano esserci state molte migliaia di persone che avevano indossato le tute e gridato slogan rivoluzionari solo per salvarsi la pelle. Ora le cose stavano tornando alla normalità».

Lo spettacolo della rivoluzione spontanea è finito. Il finale lo detta una regia remota. Gli attori, quelli stabili e quelli che si sono improvvisati o sentiti per un breve atto protagonisti, le comparse e il coro, dismettono l’abito di scena e tornano ciascuno al ruolo quotidiano. Almeno, quelli sopravvissuti.

«Era strano notare quanto le cose fossero cambiate. Solo sei mesi prima, quando gli anarchici dominavano ancora, si era rispettabili se si aveva l’aspetto di un proletario. Mentre scendevo da Perpignan a Cerbères un commesso viaggiatore francese nel mio scompartimento mi aveva detto tutto serio: “Non deve andare in Spagna con quell’aspetto. Si tolga il colletto e la cravatta. Altrimenti a Barcellona glieli strapperanno di dosso”. Esagerava, ma il suo atteggiamento dimostrava in che considerazione era tenuta la Catalogna. E alla frontiera le guardie anarchiche avevano respinto un francese elegante e sua moglie soltanto perché – secondo me – avevano un aspetto troppo borghese. Adesso era tutto il contrario; assumere un aspetto borghese era l’unica salvezza

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8. Dopo quella di Orwell ho letto innumerevoli altre testimonianze dirette sulla guerra di Spagna, e ho notato un effetto particolare: a differenza dei testimoni della Resistenza, che al di là dei ruoli, delle opinioni, delle singole vicissitudini, raccontano tutti una vicenda che nei grandi tratti è comune, i reduci dalla guerra civile spagnola narrano la stessa storia con sguardi talmente diversi da renderla quasi irriconoscibile. Ciò vale soprattutto per i testimoni stranieri, naturalmente per gli intellettuali, e segnatamente per coloro che hanno combattuto nello schieramento repubblicano[2]. E si spiega col fatto che ognuno di loro portava con sé in Spagna una sua individualissima e particolare motivazione.

In linea di massima la guerra civile spagnola offriva a tutti la possibilità, o se vogliamo, l’illusione, di sottrarsi all’inerzia: di tornare protagonisti attivi in una storia che sembrava invece scorrere sempre più per conto proprio, indifferente alle individualità, agli ideali, ai sogni dei singoli, e che non forniva più stimoli all’azione. Finalmente c’era un nemico ben identificabile contro il quale combattere, in uno scontro almeno sulla carta non totalmente impari, e comunque giustificato, al di là degli esiti possibili, dalla volontà di resistenza finalmente dimostrata da un popolo. “Non fu tanto l’adesione incondizionata ad una causa, quanto piuttosto un atto estremo d’individualismo, una ricerca di conferme, nell’azione, alle proprie concezioni sociali e artistiche.”

Con questi presupposti, la varietà delle percezioni individuali di quella esperienza è più che giustificata. Simone Weil, ad esempio. Ancora lei, e non c’era da dubitarne. È già a Madrid nell’agosto del 1936, a pochi giorni dallo scoppio dell’insurrezione falangista, tra i primi ad accorrere. A dispetto del suo pacifismo è convinta che quando non si può più fare nulla per evitare la guerra l’unica alternativa sia impegnarsi nella lotta. Entra anch’essa col visto da giornalista, ma si arruola immediatamente nelle formazioni anarchiche. Non può accettare di vivere la lotta nelle retrovie. Le mettono in mano un fucile, si rendono conto che potrebbe farsi solo del male e la destinano al servizio in cucina e alle mense. Riesce a farsi del male lo stesso, cacciando un piede in una pentola d’olio bollente. L’ustione è abbastanza seria, e si accompagna ai dubbi velocemente maturati sulla partecipazione alla guerra. Ai primi di settembre Simone viene riaccompagnata a Parigi dai genitori, che conoscendola bene l’avevano seguita in Spagna.

La parentesi spagnola si è rivelata per lei particolarmente deludente, tanto che non ne lascia alcun resoconto: ciò che sappiamo lo si può ricostruire solo attraverso la sua corrispondenza. Intuisce le stesse cose che Orwell vedrà pochi mesi dopo, ma che le inducono un giudizio e una reazione molto diversi. La spiegazione ufficiale che darà del suo disimpegno è che la guerra non era una rivolta dei contadini affamati contro il clero e i latifondisti, ma una questione politica internazionale dietro la quale agivano l’URSS, l’Italia e la Germania nazista. A farle considerare tutti sullo stesso piano sono anche le violenze commesse dai repubblicani, in particolare dagli anarchici, che le sembrano mossi solo da una volontà distruttiva di rivincita, e non da ideali rivoluzionari. Il risultato è che la sua temporanea infatuazione per il marxismo, già messa alla prova dal rapporto con Trotskij, è definitivamente accantonata.

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Altrettanto precoce di quella della Weil è l’adesione al fronte repubblicano da parte di Nicola Chiaromonte. Esule a Parigi, in rotta con Carlo Rosselli e con Giustizia e Libertà, cui aveva inizialmente collaborato, Chiaromonte è in cerca di un ideale chiaro per il quale combattere una buona volta, uscendo dalla palude delle rivalità, dei sospetti e dei distinguo tattici e ideologici che allignano tra i fuorusciti antifascisti. L’occasione gliela offre André Malraux, col quale nel frattempo ha stretto amicizia. Malraux ha messo assieme una squadriglia aerea, raccattando gli scarti dell’aviazione militare francese, e porta con sé in Spagna un gruppo di altri esuli italiani. Come per tutti coloro che vivono questa avventura, anche per Chiaramonte il primo momento è di grande entusiasmo. Lo vive come l’occasione per dare finalmente vita, di fronte all’esigenza dell’azione, ad un fronte unico internazionale contro il fascismo. Immediatamente dopo subentra però la delusione, e anche l’irritazione, sia per la confusione che inevitabilmente si accompagna allo spontaneismo, sia perché vengono subito alla luce le manovre politiche delle diverse forze che si muovono nel campo repubblicano. Non tarda ad essere nauseato dalla strumentalizzazione operata soprattutto dai comunisti staliniani, e a novembre è già di ritorno in Francia, rompendo anche con Malraux.

Malraux invece rimane, e ci mostra anche un’altra faccia di questo variegato schieramento. Lo fa attraverso un romanzo che avrà un grande successo, La speranza, nel quale sono riconoscibilissime le varie figure storiche, dall’autore stesso, sotto le spoglie di Magnin, a Chiaromonte, ma dal quale si ricava anche lo spirito col quale ha affrontato tutta la faccenda. Malraux è un avventuriero di stampo dannunziano, determinato ad essere sempre al centro della scena, si tratti dell’Estremo Oriente, della Spagna, della Resistenza e successivamente anche del governo della Francia. Sta attraversando in quel periodo una fase di avvicinamento al comunismo, proprio mentre molti altri intellettuali se ne stanno allontanando (e alcuni di essi, come Andrè Gide, lo fanno denunciando apertamente la realtà criminale dello stalinismo, guadagnandosi il disprezzo e gli anatemi dei compagni): non è affatto un ingenuo, ma pur non potendo evitare di rendersi conto di quanto sta accadendo si forza a pensare che per fare argine contro i fascismi sia necessario anche ricorrere ai metodi staliniani. Emozionalmente sta magari dalla parte degli anarchici, ma il buon senso pratico, del quale non manca, gli dice che è necessario fare ordine nelle file dei repubblicani e ricondurre i vari gruppi militanti sotto un unico comando. Peccato che si tratti di quello stalinista, e che l’eliminazione dei dissensi interni finisca per prevalere alla fine anche sulla necessità di resistere ai fascisti. Il risultato è che il fronte libertario si sfascia, così come la squadriglia aerea, e l’azione d’ordine si rivela inutile e addirittura controproducente.

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Di una pasta per molti versi simile a quella di Malraux potrebbe sembrare Arthur Koestler, ungherese di origine ma apolide praticamente da sempre. La sua vita è altrettanto avventurosa, ma non per una scelta estetizzante, quanto piuttosto per la condizione di nascita (tra le altre cose, era ebreo) e per un carattere già naturalmente molto forte e consolidato ulteriormente dalle traversie: così che completamente diversa risulta alla fine la sua esperienza. Dopo una giovinezza decisamente movimentata, nei primi anni Trenta Koestler è entrato nel partito comunista tedesco e si è spostato a Parigi in seguito all’avvento del nazismo. Di lì passa nel 1936 come giornalista in Spagna, ufficialmente per seguire gli sviluppi dell’insurrezione falangista come inviato di un’agenzia di stampa, in realtà come agente del Comintern. Finisce per tre volte oltre le linee dei falangisti, la seconda viene riconosciuto da un ex-collega tedesco e denunciato come comunista, ma la sfanga, la terza è catturato dagli uomini di Franco e viene condannato a morte. Per tre mesi attenderà notte dopo notte nel carcere di Siviglia il momento dell’esecuzione, e nel frattempo vedrà sparire ad uno ad uno i suoi compagni di detenzione. La scamperà solo per l’intervento della diplomazia britannica, che organizza uno scambio di prigionieri.

La drammatica esperienza ha comunque lasciato il segno. Esce dal braccio della morte con una consapevolezza politica estremamente lucida. Come scrive Tony Judt, “ciò probabilmente accadde perché era lontano da Parigi, dalla comunità feconda di intellettuali progressisti, isolato da un contesto in cui esistevano molte buone ragioni non tanto per fingere, ma per tacere riguardo ai propri dubbi”. Una volta tornato in Francia, dopo l’ennesimo tradimento rappresentato dal patto Molotov-Von Ribbentrop non solo abbandona il partito, ma ne denuncia i crimini, in un libro che diverrà un classico dell’antistalinismo, Buio a mezzogiorno.

Le sue vicende spagnole sono invece narrate in un’altra opera, Testamento spagnolo, che racconta nella prima parte la resistenza ormai agli sgoccioli delle città assediate, lo scoordinamento evidente nelle fila dei miliziani, le divisioni ideologiche che contrappongono le fazioni diverse, e nella seconda il tran tran di una detenzione che per essere effettuata nel carcere più moderno di Spagna, costruito pochi anni prima secondo un modello liberale, consente un trattamento quotidiano relativamente umano, contraddetto poi drammaticamente dalle angosce della notte.

Orwell scriverà che a quel tempo Koestler era ancora un membro del partito comunista, e la complessa politica della guerra civile rendeva impossibile per ogni comunista scrivere con sincerità della lotta interna al fronte governativo. Lui stesso rivela che “dopo il ritorno dalla Spagna un certo numero di persone mi ha detto con vari gradi di franchezza che non si deve dire la verità su ciò che sta accadendo in Spagna e sul ruolo svolto dal Partito Comunista, perché farlo sarebbe pregiudicare l’opinione pubblica contro il governo spagnolo e così aiutare Franco”. Non ha accettato il ricatto. Ciò è vero solo in parte, ma è comunque significativo della differenza di approccio al tema dell’antitotalitarismo che i due manterranno anche in seguito. Non è un caso, ad esempio, che una bozza di manifesto dei diritti universali dell’uomo redatta nel 1946 da Orwell sia stata rielaborata da Koestler e da Bertrand Russell in senso molto più libertario e molto meno egualitario, e alla fine sia stata sconfessata da Orwell stesso.

Una vicenda non meno avventurosa e controversa di quelle di Malraux e di Koestler vede protagonista Claude Simon. “La prima parte della mia vita è stata piuttosto movimentata: – scrive quest’ultimo nel discorso di ringraziamento per l’ attribuzione del Nobel per la letteratura – sono stato testimone di una rivoluzione, ho combattuto in condizioni particolarmente truculente, sono stato fatto prigioniero, ho conosciuto la fame, la fatica fisica fino allo sfinimento, sono evaso, mi sono gravemente ammalato e sono stato più di una volta vicino alla morte, violenta o naturale, mi sono trovato al fianco di persone di vario genere, preti e incendiari di chiese, tranquilli borghesi e anarchici, filosofi e analfabeti, ho condiviso il pane con mendicanti, infine ho viaggiato un po’ ovunque nel mondo… e tuttavia non ho ancora mai, a settantadue anni, trovato alcun senso in tutto ciò, se non che ‘se il mondo significa qualcosa, è che non significa niente’, tranne che esiste”.

La desolante conclusione di questo abstract autobiografico ci presenta un ulteriore aspetto di questa partecipazione, e lo fa dall’alto di una esperienza durata oltre due anni. La racconta attraverso un romanzo, Le palace (del 1962), scritto in forma sperimentale, secondo i dettami dell’Ecole du regard. L’autore vi appare nei panni dello “studente”, testimone silenzioso delle discussioni tra altri personaggi, tra i quali spiccano “l’americano” (Orwell) e “l’italiano” (un sicario). È un ritorno sul luogo degli avvenimenti vissuti venticinque anni prima, un margine di tempo sufficiente a incrinare le verità del mito e a mettere sotto indagine la Storia ufficiale (che cosa è accaduto veramente?, è la domanda che ricorre) fino a sancire il fallimento di tutte le utopie. Non è un punto di vista, ma la messa in discussione di ogni punto di vista. E non finisce qui.

Un altro quarto di secolo dopo Simon torna sull’argomento con un romanzo-saggio, Les georgiques, nel quale mette nel mirino proprio l’opera di Orwell. A quest’ultimo rinfaccia una doppia contraddizione: da un lato, di non essersi accontentato di riferire le proprie emozioni, e di aver tentato una spiegazione politica e razionale di avvenimenti che non erano in realtà razionalmente inquadrabili (almeno, a caldo); dall’altro di aver dato di questi avvenimenti una versione lacunosa e distorta. Non lo scrive in difesa dell’operato degli stalinisti – lui stesso era finito nelle liste di proscrizione – ma in nome di una particolare (e piuttosto confusa) idea del ruolo della letteratura. Nella sostanza non intacca affatto la credibilità di Orwell. Mette in luce al più la complessità e i pericoli di operazioni letterarie che ambiscano ad andare in direzione della conoscenza e della spiegazione del mondo. Come a dire: o si fa della letteratura o si fa del giornalismo, e gli ibridi rischiano di falsare il vero e di sporcare il bello.

Orwell dal canto suo aveva già preventivamente risposto a questa critica: «Il mio libro sulla guerra civile spagnola è senza dubbio un libro schiettamente politico, ma è per gran parte scritto con un certo distacco e un certo riguardo per la forma. In esso ho cercato con ogni mezzo di dire tutta la verità senza sopraffare i miei istinti letterari. Ma tra le altre cose esso contiene un lungo capitolo, pieno di citazioni giornalistiche e cose simili, teso a difendere i trotzkisti che furono accusati di ordire un complotto con Franco. Chiaramente un capitolo del genere, che dopo un anno o due perderebbe d’interesse per ogni comune lettore, era destinato a rovinare il libro. Un critico che stimo mi fece su questo una ramanzina. “Perché ci hai messo dentro tutta quella roba? Hai trasformato in giornalismo quello che avrebbe potuto essere un buon libro.” Quello che diceva era vero, ma non avrei potuto fare altrimenti. Mi accadde di venire a conoscenza … che degli innocenti erano stati ingiustamente accusati, per cui se non fossi stato indignato non avrei scritto il libro

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9. Penso che alla luce della sua particolare concezione della letteratura Simon abbia invece apprezzato la testimonianza letteraria fornita da un altro militante inglese, Laurie Lee. Nel 1935, a ventun anni, Lee aveva attraversato a piedi in otto mesi tutta la Spagna, per fermarsi poi a svernare in un paesino nei pressi di Malaga. Lì lo aveva raggiunto nell’estate successiva la guerra, ed era stato rimpatriato. Ma ormai la Spagna gli era entrata nel cuore, e l’inverno successivo, alla fine del ‘37, quando quasi tutti coloro di cui ho parlato sinora erano rientrati in patria, aveva rivalicato clandestinamente i Pirenei per andare ad arruolarsi tra i repubblicani.

Cosa ci aveva portati lì, insomma? Le mie ragioni sembravano abbastanza semplici, nonostante una certa confusione: ma erano così quelle della maggioranza degli altri: fallimenti, miseria, debiti, la legge, tradimenti di mogli o amanti, la maggior parte delle motivazioni che spingevano uno a partecipare a guerre straniere. Ma nel nostro caso, credo, condividevamo qualcos’altro, che ritenevamo unico allora: la possibilità di compiere un gesto grandioso e semplice di sacrificio e di fede personali che poteva non presentarsi mai più. Certamente era l’ultima volta nel secolo che una generazione aveva una simile opportunità, prima che si addensasse la nebbia del nazionalismo e degli stermini di massa. […] Per il momento non c’erano mezze verità o esitazioni, avevamo trovato una nuova libertà, quasi una nuova morale, e scoperto un nuovo Satana: il fascismo.”

La vicenda spagnola aveva toccato nel profondo gli animi della gioventù progressista inglese. Come testimonia Eric Hobsbawm, “Chiunque entrasse nelle stanze degli studenti socialisti e comunisti di Cambridge in quei giorni era quasi certo di trovare in esse la fotografia di John Cornford, intellettuale, poeta, leader del Partito Comunista studentesco, caduto in battaglia in Spagna nel giorno del suo ventunesimo compleanno nel dicembre 1936.”

Il racconto che della propria esperienza Lee fa in Un bel mattino d’estate e in Un momento di guerra sarebbe piaciuto a Simon, perché l’autore non tenta di darsi alcuna spiegazione di quanto gli accade, e gliene accadono davvero di ogni colore. Dopo il rientro in Spagna la metà del suo tempo la trascorre in carcere, sospettato a più riprese di essere una spia, un infiltrato, un anticomunista, e rischia costantemente di essere messo al muro. Per il resto, è sballottato lungo il fronte senza mai sapere quale sia la sua destinazione e il suo ruolo, sino a trovarsi in mezzo alla battaglia di Teruel, che vive solo come una serie di scaramucce per salvare la pelle e sganciarsi dal nemico. Credo anch’io che questo racconto sia, tra tutti quelli che ho letto, il più capace di darci una immagine della realtà di cui fu fatta quella guerra: freddo, fame e pidocchi, ma soprattutto un senso di sospetto continuo, di rivalità interne e di assoluta disorganizzazione.

Altri due connazionali di Orwell e di Lee, i poeti Wynstam Auden e Stephen Spender, interpretano ancora diversamente il loro impegno. Sono già famosi, legati a quel circolo sofisticato che i critici più severi, tra cui Orwell stesso, chiamano “la cricca di Bloomsbury”. Arrivano in Spagna poco più tardi di Orwell, ai primi del 1937, mossi da un entusiasmo piuttosto snobistico, dettato da una confusa e superficiale simpatia per il comunismo. A Auden in realtà è stato chiesto di recarsi in Spagna perché il suo nome e la sua partecipazione possono esercitare un certo richiamo propagandistico, e non ha molto chiaro che ruolo può svolgere. Ad un amico scrive: “Probabilmente sarò un maledetto cattivo soldato. Ma come posso parlare per loro senza diventarlo?” I due si arruolano per prestare servizio nella sanità, ma vengono immediatamente spostati alla propaganda. Come scriverà Spender: “Il compito di Auden era di guidare autoambulanze. Mi domando ancora come facesse, perché non sapeva guidare”. Il che la dice lunga sullo spirito col quale l’avventura era stata affrontata.

E infatti, la militanza di Auden dura sette settimane. Dopo aver visto il fronte aragonese, lo stesso sul quale combatte Orwell, scrive di aver scoperto che “una parte di me chiede di vivere disperatamente”, ma è l’altra, quella che scopre le atrocità commesse da ambo le parti e la lotta per la spartizione del potere interna allo schieramento antifascista, ad avere la meglio. Fiaccato anche da condizioni quotidiane di vita cui non è assolutamente abituato, se la fila. Di quella esperienza è rimasto nella sua opera solo un piccolo poema, Spagna, 1937, ispirato proprio dalla visita al fronte, scritto immediatamente dopo il rientro e divenuto subito famoso. Ma Auden lo toglierà pochi anni dopo dalla raccolta poetica nella quale era stato pubblicato, e non tornerà mai più sull’argomento.

Orwell giudicava Spagna 1937 una delle poche cose buone uscite dal conflitto. Ma ad Auden non faceva altre concessioni. Non aveva mai nascosto il suo disprezzo per i “poeti effeminati” (“Volete piantarla di mandarmi queste stronzate? Io non sono uno dei vostri finocchietti alla moda come Auden e Spender… Io so cosa sta succedendo, cioè che il fascismo viene imposto ai lavoratori spagnoli con il pretesto della resistenza al fascismo”, scriveva alla “Left Review”, in risposta a un questionario per intellettuali) ed era rimasto molto urtato da un verso del poema stesso, quello in cui si parla de “[…] La consapevole assunzione di colpa nell’omicidio inevitabile”, nel quale leggeva una legittimazione delle epurazioni “necessarie” operate dagli stalinisti. “Qualcuno nell’Europa dell’Est liquida un trotskista, qualcuno a Bloonsbury ne scrive la giustificazione”. Evidentemente leggeva giusto, se Auden si era poi affrettato a cambiare il verso.

Il giovane Orweell24Le motivazioni che avevano portato Auden e Spender in Spagna sono espresse invece molto chiaramente dal secondo nella sua autobiografia, Un mondo nel mondo: andare a combattere dalla parte comunista in Spagna sembrava il solo modo possibile di essere antifascisti. «Il comunismo “occidentale” – scrive – in quegli anni era una cosa molto diversa. Uscivamo dal disastro del 1929, il capitalismo sembrava un sistema finito, incapace di trovare soluzioni, pareva invece che in Urss avessero la risposta, e la risposta stava in un modello economico e sociale ideale applicabile anche qui […] Eravamo consapevoli dell’abisso ma non vedevamo nuovi valori che potessero sostituire quelli che ci avevano sorretto nel passato. Nel giro di poche settimane, la Spagna divenne un simbolo di speranza per tutti gli antifascisti. Offriva un 1848 al ventesimo secolo».

Spender racconta di essere stato comunista solo per poche settimane. Il suo comunismo, come quello di molti altri suoi amici che con lui andarono a combattere dalla parte comunista in Spagna – tra cui Julian Bell, il nipote di Virginia Woolf, che ci morì – esprimeva in definitiva, a suo parere, il solo modo possibile di essere antifascisti. E giustifica così quel futile entusiasmo: “Bisogna aver vissuto quegli anni per capire cosa significasse. Le cose che si dicevano su Mosca, sui processi staliniani, avrebbero potuto essere, dopo tutto, un grande macchinazione della propaganda di destra”.

Mi sembra peraltro interessante una lettera scritta da Orwell a Spender l’anno successivo il loro rientro in Inghilterra. Interessante perché testimonia della estrema schiettezza del primo, ma al tempo stesso della sua capacità di correggere i propri giudizi quando dal piano politico scende su quello umano, senza tuttavia rinnegare nessuna delle proprie convinzioni. «“Mi chiedi come mai ti abbia attaccato nonostante non ti avessi mai incontrato, e d’altro canto abbia cambiato idea dopo averti incontrato. Non so se si può dire che ti abbia attaccato, ma ho certamente fatto osservazioni offensive sui “chiacchieroni Bolscevichi come Auden e Spender” o qualcosa di simile. Ti ho usato come simbolo del parlatorio Bolshie perché a) il tuo verso, ciò che ho letto di esso, non vuol dire molto per me, b) ti ho preso per una specie di uomo alla moda, di successo, un Comunista o un simpatizzante Comunista, e sono stato piuttosto ostile al Partito Comunista dal 1935, e c) perché non avendoti incontrato ti consideravo un tipo e dunque un’astrazione. Anche se quando ti ho incontrato non è capitato che ti piacessi, avrei dovuto comunque cambiare atteggiamento, perché quando incontri una creatura di carne ti rendi immediatamente conto che è un essere umano e non una specie di caricatura che incarna alcune idee. Anche per questa ragione non frequento i circoli letterati, perché so per esperienza che una volta incontrato e parlato con qualcuno non sarò più in grado di mostrare alcuna brutalità intellettuale nei suoi confronti, anche quando mi sentirei in dovere di farlo, come quelli del Labour Party, che più vengono pigliati a bastonate dai duchi e più si perdono

Non tutti i letterati inglesi hanno però militato nelle file dei repubblicani. Occorre ricordarlo, e non solo per par condicio. Quando scoppia la guerra civile il poeta Roy Campbell si trova già da diversi anni in Spagna. È un personaggio complesso, originario del Sudafrica, dove ha imparato a parlare la lingua zulu e dove sarà sempre poco tollerato per le sue posizioni anti apartheid e per la denuncia delle nefandezze del colonialismo: si era trasferito molto presto in Inghilterra, suscitando entusiasmo per le sue doti poetiche ma attirandosi anche molte antipatie per le critiche sarcastiche rivolte ai circoli “progressisti”, soprattutto al gruppo di Bloomsbury, che non sopporta (definisce Auden e Spender “fanciulli effeminati che suonano il piffero e si scuotono, annoiati” e “intellettuali ma senza intelletto / gente senza un sesso i cui sessi si trovano a metà”; con Spender fa anche a cazzotti). Aveva poi lasciato l’isola per trasferirsi sul continente, come moltissimi altri inglesi, per ragioni economiche. Condivide comunque con Orwell molte idiosincrasie nei confronti dell’establishment culturale.

Il giovane Orweell25In un primo momento Campbell non prende posizione, ma si è da poco convertito al cattolicesimo e le sue simpatie non vanno certo agli anarchici e ai comunisti. Tanto più dopo che assiste all’incendio delle chiese di Toledo, ai roghi di libri e di immagini sacre e alle fucilazioni di frati e suore. A questo punto si arruola nelle truppe carliste (ufficialmente come corrispondente di guerra), e in queste continuo militare sino alla fine del conflitto. Come Auden, non racconta direttamente la sua esperienza, ma la traduce in una serie di poesie, alcune delle quali molto efficaci “I nostri fucili erano troppo caldi per tenerli / La notte era fatta di acciaio lacerante, / E lungo la strada le raffiche rotolarono / Dove come in preghiera i cecchini si inginocchiano.” Nel ‘39, al termine del conflitto, scrive il poema Fucile Fiorente, e questo gli vale la patente definitiva di filo-fascista. In effetti è un’ode a Franco, ma Campbell protesterà sempre di credere non solo nella famiglia e nella religione, ma soprattutto nella tolleranza.

La guerra diventa nella sua poesia lo scenario di una battaglia superiore, apocalittica, tra le forze del bene e quelle del male, tra lo spirito e la materia, tra dio e il nulla, e il poeta si fa testimone delle persecuzioni contro il cristianesimo, i suoi luoghi di culto, i suoi fedeli. “Più persone sono state imprigionate per la Libertà, umiliate e torturate per l’Uguaglianza e massacrate per la Fraternità in questo secolo, che per motivi meno ipocriti, durante il Medioevo.”

A differenza di Auden, che allo scoppio del secondo conflitto mondiale si rifugia in America e si trincera dietro un opportuno e apolitico pacifismo, Campbell si arruola, viene accolto tra i fucilieri reali a dispetto dell’età e di condizioni fisiche precarie e viene inviato nell’Africa orientale britannica, dove si rivela prezioso per le sue conoscenze linguistiche. Non fa tutto questo per riscattarsi, non rinnega nulla della sua esperienza precedente, anche se rispetto al regime di Franco ha cambiato idea (e infatti, ha lasciato la Spagna per trasferirsi in Portogallo, considerato meno fascista).

Mi sembra strano non aver trovato nei saggi e negli articoli di Orwell alcuna menzione di questo personaggio, che pure godeva nell’ambiente letterario di una certa notorietà. Immagino però che non avesse molto da dire in proposito: in fondo Campbell si era schierato e aveva coerentemente combattuto sino alla fine per la parte scelta. Politicamente era stato un avversario, ma non lo aveva combattuto standogli alle spalle, ed eticamente meritava rispetto. O almeno, il silenzio.

Insomma, mi rendo conto che Orwell a questo punto sembra essere diventato solo un pretesto per parlare d’altri. Ma non è così. Credo che il confronto tra le sue esperienze e quelle di chi ne ha vissute di analoghe, o meglio, tra i resoconti che di quelle esperienze sono state date, possa riuscire illuminante per comprendere gli aspetti più particolari della sua mentalità e della sua personalità. Ciò spiega anche perché dalla carrellata sui partecipanti alla guerra di Spagna abbia escluso gli italiani, con l’eccezione di Chiaromonte. Non perché le esperienze di questi ultimi risultino meno significative, ma perché in quel periodo gli italiani, proprio per la loro condizione di esuli che il fascismo lo conoscevano bene, e da anni, avevano una consapevolezza politica diversa. Erano in sostanza molto più “politicizzati” degli altri, e arrivavano da un dibattito ormai più che decennale. Per nessuno di loro la partecipazione fu un’avventura: era in gioco qualcosa di molto più ampio della semplice realizzazione individuale. Non è un caso che una presenza così massiccia non abbia poi prodotto opere particolarmente significative sul piano della memorialista personale, ma solo resoconti di interpretazione o di giustificazione politica.

Lo spirito di quella partecipazione, almeno quello di chi accorse a combattere nelle file repubblicane, era comunque perfettamente espresso nelle famose parole di Aldo Rosselli: “È con questa speranza segreta che siamo accorsi in Ispagna. Oggi qui, domani in Italia. Ogni sforzo sembra vano contro la massiccia armata dittatoriale. Ma noi non perdiamo la fede. Sappiamo che le dittature passano e che i popoli restano. L’esperienza in corso in Ispagna è di straordinario interesse per tutti. Qui, non dittatura, non economia da caserma, non rinnegamento dei valori culturali dell’Occidente, ma conciliazione delle più ardite riforme sociali con la libertà. Non un solo partito che, pretendendosi infallibile, sequestra la rivoluzione su un programma concreto e realista: anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani collaborano alla direzione della cosa pubblica, al fronte, nella vita sociale. Quale insegnamento per noi italiani!

Lo spirito non era poi in fondo così diverso da quello che animava Orwell. Molto diverso fu invece l’insegnamento che da quella vicenda gli arrivò.

Una bibliografia provvisoria

George Orwell, Un’autobiografia involontaria, Rizzoli, 2021

George Orwell, Nel ventre della balena, Rizzoli, 2013

George Orwell, Giorni in Birmania, Rizzoli, 2013

George Orwell, Senza un soldo a Parigi e a Londra, Mondadori, 1966

George Orwell, La strada di Wigan Pier, Mondadori, 1960

George Orwell, La fattoria degli animali, Rizzoli, 2013

George Orwell, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, 1948

George Orwell, 1984, Rizzoli, 2013

George Orwell, Romanzi e saggi, Mondadori, Meridiani, 2000

George Orwell, Una boccata d’aria, Mondadori, 1966

George Orwell, Fiorirà l’aspidistra, Mondadori, 1960, 2006

George Orwell, Diari di guerra, Mondadori, 2007

AA VV, Orwell e i maiali della libertà, Bevivino editore, 2004

Bernard Crick, George Orwell, Il Mulino, 1991

Christopher Hitchens, La vittoria di Orwell, Scheiwiller, 2008

Filippo La Porta, Maestri irregolari, Bollati Boringhieri, 2007

Ruyard Kipling, Kim, Adelphi, 2000

Ruyard Kipling, Racconti del mistero e dell’orrore, Bompiani, 1990

Ruyard Kipling, Tutte le opere, Mursia, 1964 (4 voll.)

Ruyard Kipling, Qualcosa di me, Einaudi, 1987

Jack London, Il popolo dell’abisso, Mondadori, 2018

George Gissing, Sulla riva dello Ionio. Cappelli, 1957

George Gissing, Il giornale intimo di Henry Ryecroft, Paoline, 1962

Simone Weil, La condizione operaia, Edizioni di Comunità, 1952

Simone Weil, La prima radice. Edizioni di Comunità, 1954

Simone Weil, Sulla guerra. Scritti 1933-1943, Pratiche, 1998

André Malraux, La speranza, Bompiani 1986

Nicola Chiaromonte, Il tempo della malafede e altri scritti, Edizioni dell’Asino, 2013

Nicola Chiaromonte, Scritti politici e civili, Bompiani, 1976

Arthur Koestler, Dialogo con la morte, Il Mulino, 1993

Claude Simon, Le Georgiche, Lavieri edizioni, 2012

Claude Simon, Le Palace, Éditions de Minuit, 1962

Laurie Lee, Un momento di guerra, L’Ippocampo, 2007

Laurie Lee, Un bel mattino d’estate, L’Ippocampo, 2008

Wystan Auden, Un altro tempo, Adelphi, 1997

Stephen Spender, Un mondo nel mondo, Barbès, 2009

Roy Campbell, Flowering Rifle, A poem from the battlefield of Spain, Longmans & Company, 1939

Utili e interessanti:

Aldo Garosci, Gli intellettuali e la guerra di Spagna, Einaudi,1959

Sara Polverini, Letteratura e memoria bellica nella Spagna del xx secolo, Firenze University Press, 2013

(Fine della prima parte)

[1] “A viva voce”, in Racconti del mistero e dell’orrore, Bompiani 1990

[2] La cifra più attendibile per la forza del corpo di volontari stranieri che combatterono per la Repubblica è di circa 35.000. Hugh Thomas, il principale storico della guerra, parla di 40.000.

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Premessa / promessa

di Paolo Repetto, 30 marzo 2021, prefazione a Resistenze e Riabilitazioni, vol. III di Opera omnia ed altri scritti, 2021

Nel realizzare questi volumi miscellanei mi sono reso conto di aver portato avanti per anni, senza avere in mente un preciso disegno (lo testimoniano gli spazi molto diseguali riservati ai diversi protagonisti), un progetto che ha una sua intima coerenza. Ho continuato a proporre delle mini-biografie di sconosciuti illustri, un po’ sulla scorta dei ritratti in miniatura di Lytton Strachey, e un po’ su quella dei propositi di Charles Peguy, oggi sconosciuto illustre pure lui, che scriveva: “Sui grandi padroni, sui capi, la storia ci informerà sempre, bene o male, più male che bene, è il suo mestiere […] Quello che vogliamo sapere, quello che non possiamo inventare, quello che vogliamo imparare non sono i personaggi principali, i grandi attori, le grandi parti, le parti di rilievo, […] ma chi erano e come vivevano quegli uomini che furono i nostri avi e che riconosciamo come nostri maestri”.

Appunto. Al contrario degli illustri sconosciuti, gli sconosciuti illustri sono coloro dei quali varrebbe la pena conservare memoria. In effetti il progetto si è delineato da solo: riguarda memorie da riscattare, e per queste non manca certo il materiale. Sono le vite di gente non comune, sia pure in un senso un po’ diverso da quello utilizzato da Hobsbawm. Oppure gli aspetti meno comuni, spesso sottaciuti, di vite per altri versi sin troppo raccontate.

Ma non solo quelle. Péguy parla di un intero popolo (nel suo caso, naturalmente, quello francese): “[…] come viveva, come lavorava questo popolo, che amava il lavoro, unanime, tutto il lavoro, un popolo che era laborioso e ancor più lavoratore, che si dilettava lavorando, che aveva un vero e proprio culto del lavoro: un culto, una religione del lavoro ben fatto”. Bene, in qualche modo, prima ancora di leggere Pèguy, questa cosa l’avevo già praticata (vedi in questo volume Mazze e silenzi) e addirittura teorizzata (vedi Storia della filosofia e filosofia della storia): “Ogni singola esistenza, svincolata dalla necessità o dalla casualità storica, è importante per sé, e ogni singola azione lascia comunque un segno, incide sulla vita dell’universo, di chi ci sta attorno e di chi verrà nel futuro. Le tracce del nostro passaggio non si esauriscono e non si perdono in ciò che viene narrato e ufficialmente documentato: esiste una sorta di memoria dell’acqua, per cui il piccolo cerchio creato dalla nostra immersione nell’esistere si espande, sia pure impercettibilmente. Dopo, la superfice non è più la stessa. La nostra esistenza imprime comunque un suo segno nelle cose e nelle persone. Un segno che ci può sembrare impercettibile, o irrilevante: ma non è così”.

Se nei precedenti volumi ho raccontato in genere di personaggi semisconosciuti che hanno comunque lasciato forti impronte, a volte anche fisiche, nella storia, in questo ho volutamente mescolato figure la cui caratura storica, almeno quella ufficiale, è assai diversa: proprio per sottolineare come sulla nostra vicenda personale, sul nostro modo di pensare e di vivere, e per contagio su quelle di chi ci sta attorno, agiscano con egual rilievo le influenze più disparate. E come a volte a darci l’impronta siano proprio quelle che arrivano sotterranee, che non passano per i ruoli codificati o per i luoghi deputati o per i maestri universalmente riconosciuti.

Siamo figli, come dicevo sopra, di una infinità di piccoli segni. E questi segni possiamo rintracciarli direttamente nella nostra memoria, o possono giungerci indirettamente da fonti documentarie “minori”. Una vecchia fotografia, una lettera, un oggetto particolare. E i ricordi e le immagini e gli insegnamenti che ne sortiscono possono evocare non solo vite, ma interi mondi che sono ormai scomparsi. Mi è sembrato quindi importante raccoglierli e fissarli. Perché, e insisto con Péguy: “Siamo gli ultimi. Quasi quelli che vengono dopo gli ultimi. Subito dopo di noi ha inizio un’altra epoca, un altro mondo, il mondo di chi non crede più a niente, di chi se ne vanta e se ne inorgoglisce”.

Pèguy dice che questa consapevolezza ci investe di una enorme responsabilità. Molto altro ancora andrebbe riscattato: la storia ad esempio di nazioni o di interi popoli che per pura ignoranza o per pervicace e invidiosa malafede sono stati ostracizzati, perseguitati e sterminati, e ancora lo sono, o continuano ad essere associati ad una immagine negativa. Oppure quella di idee (e non di “ideologie”) che hanno guidato la formazione politica di più generazioni, e che oggi vengono svendute sul banco della retorica o della banalizzazione. Ho provato a fare la mia parte con le “riabilitazioni” raccolte nel presente volume. Forse, anzi, senz’altro, non è abbastanza: ma penso mi si possa riconoscere almeno la buona volontà.

Desco, lesina e martello

Mio padre e i calzolai radicali

di Paolo Repetto, 2010

Un breve saggio di Eric Hobsbawm, contenuto in “Uncommon people” (il titolo della raccolta – volutamente antitetico a Very Important Person – è già un invito), parla dei “calzolai radicali”.

Hobsbawm analizza la composizione sociale dei gruppi radicali sette-ottocenteschi, guardando in particolare alle provenienze professionali, e constata che la categoria più sovente e più massicciamente rappresentata è quella dei calzolai. Porta esempi tratti dalla storia sociale di tutto l’occidente, e arriva infine alla logica domanda: come si spiega questa propensione al radicalismo in una specifica categoria artigiana?

La risposta è variamente articolata. Va innanzitutto preso in considerazione un dato relativo al livello di cultura. La professione di calzolaio era esercitata in condizioni che favorivano la riflessione e agevolavano l’acquisizione culturale, per diversi motivi: perché era autonoma, perché si svolgeva prevalentemente in solitudine, perché fino all’ottocento era spesso itinerante e consentiva di contattare e conoscere ambienti diversi, offrendo occasioni di discutere e di imparare.

Un altro fattore potrebbe essere legato alla dimensione fisica del lavoro. Il mestiere era spesso abbracciato più per l’assenza di possibili alternative che per libera scelta: erano numerosissimi i calzolai zoppi o storpi, inadatti quindi ad attività più pesanti, che presupponessero una integrità fisica. Era quindi un mestiere relativamente meno faticoso rispetto sia alle attività agricole che a quelle industriali, che concedeva pause e tempi dettati in autonomia e consentiva di intrattenere conversazioni durante il lavoro.

La stessa inabilità fisica costituiva poi lo stimolo alla ricerca di una compensazione sul piano culturale, come accade per tutti coloro che per motivi fisici o per retaggi storici sono svantaggiati. In tal senso i calzolai potrebbero essere apparentati agli ebrei, anche questi non a caso sempre in prima linea nei movimenti radicali.

Hobsbawm cita molti calzolai che si sono distinti sul piano culturale, dai religiosi eterodossi come Jacob Böhme e George Fox fino a diversi attivisti anarchici, e documenta un particolare rapporto tra i calzolai e i libri, spiegabile anch’esso in varie maniere: ad esempio, col fatto che era possibile a chi esercitava la professione da ambulante portarseli dietro di paese in paese, perché l’ingombro e il peso dei ferri del mestiere erano relativamente limitati.

Quella che ne esce è comunque l’immagine che del calzolaio dovevano avere nell’ottocento i suoi contemporanei: un personaggio un po’ bizzarro, pensatore e anticonformista, nei confronti delle cui “velleità” culturali si esercitava spesso l’ironia tanto delle classi colte che del popolino analfabeta, ma che godeva comunque, almeno presso quest’ultimo, di un certo credito intellettuale.

Hobsbawm sottolinea poi un’altra cosa. I calzolai radicali raramente risultano inquadrati in qualche formazione politica. Analizzando la composizione del partito comunista tedesco al termine della prima guerra mondiale non ne trova nemmeno uno, mentre sono largamente rappresentate altre categorie artigianali. Appaiono piuttosto legati agli ambienti anarchici o socialrivoluzionari, si improvvisano capipopolo nelle sommosse rurali, ma tendono a sparire quando le redini della dissidenza sociale passano alle organizzazioni sindacali e partitiche: sono insomma, proprio per la natura del loro lavoro, degli anarchici individualisti.

Storicamente – scrive Hobsbawm – essi appartengono all’epoca dell’officina e del laboratorio artigiano, geograficamente alla cittadina, al quartiere e, soprattutto, al villaggio piuttosto che a quella della fabbrica e della metropoli”. Dice anche che “[…] il calzolaio non è totalmente scomparso … esiste ancora in alcune località, non da ultimo per spronare i giovani a perseguire ideali di libertà, uguaglianza e fraternità”. Cosa che era vera all’epoca della stesura del saggio, mezzo secolo fa, ma non lo è più certamente oggi. Mentre è verissimo ciò che aggiunge in chiusura: “Che egli rimanga o meno o meno un fenomeno significativo nella vita politica della gente comune, le ha comunque reso un buon servizio”. Certamente.

Sono figlio di un calzolaio, zoppo e radicale.

Mio padre aveva perso la gamba destra a tredici anni, per un’infezione degenerata in cancrena. Aveva subìto in pochi mesi tre successive amputazioni, l’ultima delle quali gli aveva lasciato solo un moncherino all’attaccatura dell’anca e una vita senza orizzonti. Malgrado fosse arrivato a pesare trenta chili, e fosse considerato spacciato dagli stessi medici, si riprese. Era molto determinato. Si abituò a muoversi con le stampelle e poi anche senza, a balzelloni. A vent’anni superava salite con una pendenza al 12% su una bicicletta a scatto fisso, e giocava a pallapugno.

Appena aveva potuto mettersi in piedi era stato accolto come apprendista presso un artigiano locale: nella sua situazione, non poteva essere che un ciabattino. All’origine del mestiere non c’era dunque alcuna vocazione, semplicemente non c’era scelta: e infatti appena fu in grado di acquistare un pezzo di terra tornò alla sua vera passione, l’agricoltura, anche se fino a più di sessant’anni continuò a tenere bottega, lavorando al desco la sera. Tuttavia seppe interpretare bene questa necessità, divenne abile e veloce, e per un certo periodo arrivò ad avere lui stesso degli apprendisti e degli aiutanti.

Forse fu proprio il senso di costrizione a fare di lui un radicale sui generis, poco politico e molto filosofo: ma di fatto il mestiere ne fece un radicale. In questo senso, nella disgrazia fu fortunato (lui stesso lo affermava sovente). Svolse l’apprendistato presso una famiglia tutto sommato benestante, almeno per i parametri del tempo: il figlio dell’anziano ciabattino gestiva un negozio di alimentari e fungeva anche da edicolante e da postino, il vecchio e mio padre vivevano con la sua famiglia. Poteva quindi mangiare bene, era rispettato, leggeva i giornali: tutte cose, queste, che a casa non avrebbe senz’altro avuto. Mio nonno era un grande lavoratore, un uomo profondamente onesto, abile in tanti mestieri, ma del tutto analfabeta, ed era tornato da quattro anni di trincea quasi completamente sordo e come spezzato dentro. Gli piacevano il vino e il lavoro, era apprezzato, ma non aveva amici, non parlava quasi mai, nemmeno con mia nonna, non frequentava il bar ed era a disagio in mezzo alla gente. Mi ha sempre dato l’impressione di una grande solitudine, peraltro vissuta senza creare problemi agli altri. Ricordo di aver lavorato fianco a fianco con lui, in campagna, per giornate intere, senza scambiare una parola: ma ricordo anche che non ce n’era bisogno, in qualche strano modo eravamo in sintonia.

In un ambiente di questo genere probabilmente mio padre avrebbe resistito poco, perché il carattere era comunque quello; ma la disgrazia lo trascinò fuori e gli fece intravvedere altre prospettive. Da un lato c’era la necessità di riscattare una condizione individuale di inferiorità, tanto più sentita in una società e in un’epoca nella quale sembrava tutti dovessero andare di corsa, con i gerarchi in testa. Dall’altro premeva la voglia di uscire da una condizione sociale che sembrava condannare i figli dei contadini a ripetere la vita dei genitori e a trasmetterla a loro volta ai propri figli.

A vent’anni quindi mio padre si era messo in proprio. Non c’era bisogno di grossi capitali: un deschetto, quattro attrezzi, suola e pellami, un buco dove lavorare all’asciutto. Aveva scansato la guerra fuori d’Italia e aveva attraversato quasi indenne anche quella civile, continuando a lavorare. Proprio dall’alto della sua oggettiva situazione di svantaggio, che ribaltava subito dimostrando, pur senza alcuna esibizione, che si muoveva più veloce di te e reggeva pesi che tu ti sognavi, e per la peculiarità del suo lavoro, che lo metteva a quotidiano contatto con un sacco di gente, aveva imparato a trattare con tutti senza tante riverenze, tedeschi, camicie nere e partigiani compresi. Anche da vecchio aveva il coraggio un po’ incosciente di chi ha già pagato il biglietto in ingresso alla natura, e non intende farsi negare i suoi diritti. Durante questo periodo ne aveva comunque viste di tutti i colori, era stato un riferimento per i cittadini che si arrischiavano a salire da Genova alla ricerca di un po’ di farina, aveva passato qualche dritta e sistemato qualche scarpone ai ribelli. Aveva acquistato sicurezza e fiducia in se stesso, si era messo ulteriormente alla prova e ne era uscito vincente. Tanto da sentirsi pronto ad assumere la responsabilità di una famiglia.

Ho ricordi piuttosto vaghi di mio padre calzolaio puro. Risalgono alla prima metà degli anni cinquanta, ad un buco di bottega dove il sole non batteva mai direttamente, con una vetrinetta ricavata nel secondo battente di una porta stretta. Ricordo anche qualche lavorante, ma sono cose davvero nebulose, e per quello che mi sovviene non amavo molto quel posto. Nemmeno mio padre, del resto. Appena si presentò l’occasione acquistò un altro buco un po’ più grande, con una cucina, una saletta e un bagno ricavati nel retro. A quel punto però aveva già preso anche un vigneto e stava dedicandogli un tempo sempre maggiore. In negozio rimaneva durante il giorno mia madre, mio padre non faceva quasi più le scarpe da lavoro, da ciabattino era diventato “commerciante”, comprava qualche paio di pantofole o di stivali e li rivendeva. Eppure negli anni a cavallo dei sessanta quel negozio divenne una grande scuola di radicalismo.

Anche se il suo interesse principale era ormai il vigneto, la sera, nei giorni di pioggia e in inverno mio padre continuava a riparare scarpe, a volte a confezionare “brocchini” per i montanari che scendevano da Capanne. In quelle sere o in quei giorni in bottega non c’erano mai meno di quattro o cinque persone, alcuni anziani habitué e poi tutta la gioventù locale. Mio padre era un grande affabulatore, ha sempre affascinato la gente, i suoi clienti del vino, i miei amici, i vicini in campagna: ricordo un elettricista in pensione che ci rifece gratis tutto l’impianto elettrico in cantina, pur di godere della sua compagnia. Sapeva conferire alle cose un’epicità naturale. Nel suo linguaggio tutto si dilatava, l’erba medica alta tre metri, gli starnuti che staccavano pareti di roccia, le medaglie di guerra grandi come coperchi di stufa: ma tutto era ugualmente realistico e filtrato da una costante ironia (d’altra parte l’ironia è il principale ingrediente dell’epicità). I suoi giudizi, i modi di dire, i soprannomi che appioppava diventavano letteratura orale: ma senza che mai ci fosse il minimo sospetto di un atteggiamento da guru o da maestro. Gli era naturale, e il fatto che ricordassimo e citassimo certe sue battute lo irritava un po’. Stupidaggini, diceva.

Ma la sua popolarità non era legata solo all’arguzia e al gusto dell’esagerazione. Ho conosciuto maestri di questa disciplina, compreso il sommo Osvaldo, capaci di raccontare palle enormi senza infastidirti, anzi, lasciandoti secco per lo stile. La particolarità di mio padre è che non raccontava mai storie: quello che narrava era tutto vero, e di sé poi non millantava nulla, sulla sua vita era piuttosto riservato, anche quando lo incalzavamo con le domande. Disprezzava i contaballe e li cucinava alla sua maniera speciale: li assecondava fino a farli diventare patetici, li metteva alla berlina senza che neppure se ne accorgessero. In questo gioco era micidiale. Secondo la distinzione pirandelliana non era un comico, ma un umorista. Giocava sui paradossi del reale, li portava all’estremo, sino a sdrammatizzarli, senza però mai piegarli alla ricerca di una risata fine a se stessa. Con i paradossi diceva quello che pensava. Magari le faceva fare dei giri strani, perché non gli piaceva offendere, ma alla fine quella che tirava fuori era la verità. E la gente lo sapeva, e per questo un po’ lo temeva, o meglio temeva di non piacergli: ma lo amava.

Sopra ho accennato all’elettricista: c’erano medici valdostani, ingegneri di Genova o imprenditori lombardi, anziani villeggianti, contadini scorbutici, che facevano un giro dalle parti della vigna, o in cortile, quando pensavano di trovarlo. E i miei colleghi, e persino i miei allievi, andavano pazzi per lui. A volte lo osservavo, negli ultimissimi anni, quando si piazzava con la sedia a rotelle in cortile. Ogni passante si affacciava a salutarlo, magari entrava un minuto, e poi lo vedevi uscire ridendo. Venivano con l’intenzione di sentire una battuta, gli davano il là, ed erano subito accontentati. Altri invece, che magari attraversavano momenti di difficoltà, si mettevano a sedere mesti vicino a lui, e di lì a poco si rialzavano rasserenati.

Mi rendo conto che sembra che parli di Padre Pio, ma era davvero così. Avrebbe trasmesso ottimismo sul futuro ad un ergastolano. Con lui nessuno poteva trincerarsi dietro l’alibi di sfortune o disgrazie. Glielo smontava subito.

Ma il radicalismo? Arriva anche quello.

Ho conosciuto un vasto campionario di calzolai radicali. A Mornese c’era ad esempio Nanini, zoppo anche lui, già apprendista nella nostra bottega, poi segretario e unico iscritto al partito comunista in un paese che vantava la più alta percentuale di santi, di suore, di democristiani e di imboscati nel pubblico impiego di tutta l’Italia settentrionale. Mio padre gli voleva bene, ma lo considerava un illuso. Io ammiravo la sua ostinazione, anche se oggi mi rendo conto di quanto fosse patetica, e magari anche funzionale ad una finta immagine di democraticità, per un luogo dove di democratico e di trasparente c’era ben poco. A Montaldeo c’era invece Pinin, che i compaesani chiamavano “u prufessù”, con un po’ di sarcasmo e tuttavia con rispetto; leggeva molto e conservava i libri in bottega, dove teneva banco come mio padre, ma con toni decisamente più seri. Pinin era forse il più vicino al modello delineato da Hobsbawm: non so quali occasioni di resistenza o di militanza concreta abbia avuto, ma senz’altro non era un “allineato” come Nanini. Era comunista, ma nutriva un profondo disprezzo per gli attivisti e per gli arrivisti del partito.

Mio padre non somigliava né all’uno né all’altro, né ad alcuno di quelli che ho incontrato all’epoca e dopo. Aveva superato le distinzioni tra destra e sinistra cinquant’anni prima di Gaber e di Fini. Aveva conosciuto i fascisti prima della guerra e i comunisti della tarda primavera dopo (lui stesso era stato per un breve periodo iscritto al partito), e ne aveva una considerazione poco diversa: la differenza era che tra i fanatici della destra vedeva solo mascalzoni, tra quelli della sinistra anche qualche sprovveduto, del quale riconosceva e ammirava almeno l’onestà (mi ha raccontato cento volte del suo amico Poldo, sindaco comunista dei primi anni cinquanta, senza un soldo e con tre figli, che aveva sdegnosamente rifiutato una regalìa in parmigiano da parte di un commerciante: assicurava che se fosse capitato a lui avrebbe accettato il parmigiano, ma il gesto lo aveva evidentemente colpito).

Pesava gli uomini, non le idee. Voleva concretezza. Aveva visto (e sofferto) da bambino tanta di quella fame che non poteva non apprezzare quelli che si davano da fare per uscirne: ma sapeva distinguere tra i farabutti e la gente in gamba. Detestava chi si lamentava, chi elemosinava, chi viveva della sola rivendicazione di diritti. I diritti non si chiedono, si conquistano. Lui l’aveva fatto, era riuscito a farsi considerare normale partendo da una situazione di svantaggio. È comprensibile che fosse scarsamente tollerante con chi, fisicamente abile, osasse lamentarsi. Era per una cultura del dovere (da qualcuno avrò preso), ma pronto a difendere sino alla morte quanto riteneva di essersi guadagnato.

Questo semplice ma concreto insegnamento passava senza alcun bisogno di comizi e di prediche nelle animate e spassosissime conversazioni serali: era un lento e continuo lavorio di erosione dell’autoritarismo familiare, dell’arroganza degli arricchiti, della presunzione degli acculturati, dei pregiudizi sociali o familiari. Qualsiasi imperatore sarebbe uscito nudo da quella bottega. Mio padre era impagabile nel cogliere un vezzo, nell’imitare un tono di voce o un modo di parlare, ed era impietoso nel lasciar cadere queste cose in mezzo al discorso, senza per questo dare l’impressione di rifare il verso a qualcuno. Gli era sufficiente una battuta per sgonfiare qualsiasi eccesso di autoconsiderazione.

Ricordo un nostro vicino, uno di quei personaggi pignoli, lamentosi e al tempo stesso pieni di sé (una volte mi disse: ricordati che quello che ti dico io è vangelo), padre-padrone di un ragazzo decisamente intelligente ma succube, destinato nei suoi disegni, come ultimogenito maschio, a rimanere in famiglia per badare alla vecchiaia degli anziani e condurre il vigneto degli avi, un pezzo di terra precariamente appeso ad una collina dirupata. Il vicino venne un giorno a concionare in bottega, dove erano riuniti una decina di coetanei di suo figlio, dispensando le verità della sua lunga esperienza e suffragandole con l’autorevolezza di chi avrebbe lasciato in eredità al figlio il suo bravo pezzo di terra, per il quale si attendeva riconoscenza eterna. “Non lo lascio al vento – disse ai ragazzi accovacciati lungo gli scaffali delle pareti o appollaiati sulle due panche – avrà la Campanera”. Al che mio padre, che ne aveva le scatole piene, chiosò: “Si, e se vorrà liberarsene dovrà tirare uno schiaffo a qualcuno e farsela mangiare in tribunale, perché non ci sarà altro modo.” Non ho più rivisto il vicino in bottega, e la Campanera dopo qualche anno è scesa nel ritale sottostante.

Il messaggio passava. I giovani si sentivano autorizzati a sottrarsi alla servitù della gleba che in qualche forma ancora sopravviveva nel secondo dopoguerra nelle nostre campagne, alla riverenza dovuta ai quei due o tre grossi possidenti terrieri dei quali i loro genitori erano fittavoli, alle ipocrisie dettate dalla chiesa o alla paura costante del pettegolezzo. Chi parlava loro, e chi soprattutto li ascoltava e li trattava come pari, era un uomo dal linguaggio immaginifico e dai formidabili bicipiti, che voleva offrire ai figli quella possibilità di scelta che a lui era stata negata, e intanto la faceva scorgere anche agli altri. E voleva che fosse davvero un’occasione, non un riscatto per interposta persona: da lui non mi è mai venuta alcuna pressione, negli studi o nella vita. Ha sempre rispettato sino in fondo le mie scelte, anche quando dentro sé non le condivideva. Una volta mi disse, dopo aver parlato con alcuni dei miei allievi: “Solo adesso capisco perché tu abbia voluto insegnare, e sono contento che lo abbia fatto.” Ma a mio zio, che gli chiedeva perché mi avesse lasciato scegliere il liceo invece che studi tecnici o economici, aveva risposto: “Perché in quelli non c’è futuro: al massimo potrebbe diventare un industriale o un presidente della repubblica”.

D’altro canto, lui stesso era un insegnante nato, di quelli veri e rarissimi che ti rimangono nel cuore. Lo era nel metodo e nella sostanza. Nella bottega vigeva una sorta di codice non scritto, sul quale vigilava mia madre, per cui non ho mai sentito pronunciare una bestemmia o una volgarità, o diffondere una maldicenza: ma c’era poi una incredibile libertà di affrontare qualsiasi tema, dalla politica alla sessualità, purché in tono scherzoso e senza isterismi. Con questo stile ogni battaglia per le libertà civili, dal divorzio al diritto di famiglia, a casa del ciabattino era già stata vinta: questo lo sapevano tutti, e anche i più incarogniti quando varcavano quella soglia si adeguavano alle regole.

Io me ne stavo in genere a studiare in cucina, e tuttavia non perdevo una battuta, perché la porta era sempre socchiusa: oppure mi rannicchiavo in un angolo della bottega col libro aperto, fingendo di leggere, e anche quel poco su cui ogni tanto riuscivo a concentrarmi lo assorbivo già filtrato da quella scuola di pensiero. In un pomeriggio prenatalizio di neve, quando ancora ero alle elementari, mio cugino mi chiese cosa stessi leggendo: “È Storia – risposi, tutto orgoglioso – Dice che nella primavera del duecentottanta avanti cristo i Galli invasero l’Italia”. “Hanno avuto fortuna – commentò mio padre – Fossero arrivati in questo periodo finivano tutti in pentola”. Se ho amato tanto la storia, dopo, credo di doverlo anche a lui.

Era un radicale? Dipende da quel che si chiede ad un radicale. Certo non avrebbe mai fatto lo sciopero della fame, e neppure avrebbe praticato una resistenza non violenta: erano comportamenti in netto contrasto col suo modo di pensare, soprattutto il primo. Forse gli calzerebbe meglio il termine “illuminista”. Aveva il culto della razionalità, dileggiava ogni forma di superstizione, da quelle popolari a quella ufficiale, religiosa. Il suo resoconto di una visita fatta ad un praticone dal quale lo aveva trascinato mia zia era un pezzo da antologia dello humor. Eppure ha convissuto per più di mezzo secolo con una moglie intelligente e per certi versi più colta di lui, ma tendenzialmente bigotta, tollerandone le convinzioni e le manie religiose. Naturalmente non le faceva mancare la sua salacia sulle ipocrisie di certi comportamenti, sulle guerre a coltello all’interno delle confraternite, sui misteri della fede e sulla furbizie di coloro che ci speculano sopra: ma il dibattito era condotto, almeno da lui, sempre in forma ironica e corretta, e questo lo faceva già in partenza uscire vincitore.

Certo, non era tenero nemmeno con le ideologie. Quando a vent’anni cercai di dare vita, assieme a qualche contadino di sinistra, ad una cooperativa per le vendite e per gli acquisti, mi mise in guardia contro l’inaffidabilità della solidarietà tra poveri, ed ebbe puntualmente ragione. Ma fu intanto il più attivo a promuovere la battaglia sui prezzi dell’uva. Quello che non gli piaceva erano le iniziative ideologizzate, intraprese sotto una bandiera. Il giorno in cui un vicino di campagna finì all’ospedale per un infortunio mi disse semplicemente: “Domani si va da Gillo”, e organizzò in un’ora le squadre per zappare la vigna del poveraccio. Mi resi conto allora di quanto contasse non lo spirito di solidarietà contadina, ma la sua autorevolezza: nessuno si tirò indietro, perché sapevano che il giorno successivo sarebbe stato il primo ad arrivare e che su una gamba sola avrebbe zappato più terra di chiunque altro su due.

Non accettava poi l’idealizzazione del passato. Una volta gli rinfacciai che tutto sommato all’epoca della sua giovinezza si viveva meglio, c’era più fame ma c’era anche più serenità, più moralità. Mi guardò un attimo e disse: “ Credi? Se vuoi ti faccio un quadro della vita di questo paese cinquant’anni fa, famiglia per famiglia, cominciando da sotto il castello, risalendo lungo il paese e spingendomi fino ai cascinali.” Quando arrivò alla terza famiglia avevo già capito tutto, e gli chiesi scusa.

Era un cosmopolita. Non teneva libri in bottega, non ne possedeva e non aveva tempo per leggerli, ma si soffermava appena possibile sulle pagine degli esteri dei giornali (quelle di politica interna lo disgustavano). Amava la geografia mondiale, conosceva tutti i paesi del mondo, i popoli e le città principali. La preferiva alla storia “perché – mi diceva – quella dipende da chi la racconta, mentre la geografia parla di realtà concrete”. A pensarci bene, questa preferenza, assieme a quella per la storia naturale, è tipica del pensiero anarchico (Kropotkhin, ad esempio, o Eliseo Rèclus), mentre la storia politica e quella economica sono privilegiate da quello socialista, dagli eredi di Hegel. Mio padre comunque non si sarebbe mai staccato dalla sua terra. L’unica volta che riuscii a portarlo a Sondrio, da mio fratello, mentre percorrevamo la tangenziale di Milano mi disse: “Sto vedendo la fine del mondo”.

Allo stesso modo era affascinato dalla scienza, esultava per ogni ricaduta tecnologica positiva per l’umanità, anche se poi, per quanto lo riguardava, non intendeva avvalersene. Non volle mai, ad esempio, farsi fare un moderno arto artificiale, e continuò a costruirsi da solo le stampelle con legno di castagno. Senza aver mai sentito parlare di Jonas aveva maturato per conto proprio un’etica della responsabilità, molto pragmatica ma non per questo meno cogente. E non aveva atteso il WWF per prendere coscienza del problema ecologico e affrontarlo, alla sua maniera e nel piccolo della sua terra: le centinaia di piante messe a dimora ed innestate rimangono a testimoniarlo.

Aveva un particolare rapporto con il denaro. Non gli importava accumularlo, era riuscito a tirare avanti con tre figli e a mandarli a scuola vivendo giorno per giorno come i passeri, e non aveva bisogno d’altro. L’unica volta che aveva messo da parte qualcosa si era preso una fregatura dalla banca, e l’aveva accettata con filosofia, come una lezione. “Non penserai che stiano lì per far la guardia ai nostri soldi”, mi aveva spiegato. Ragionava invece in termini di “credito morale”. Regalava volentieri bottiglie di vino e frutta, perché era orgoglioso della sua produzione e perché, sosteneva, quello che regali ti ritorna moltiplicato. Non era una concezione evangelica, per lui, ma una strategia pubblicitaria: anche se sospetto che in realtà giocasse soprattutto il piacere di dimostrare che poteva permetterselo. È pur vero, tuttavia, che le riparazioni gratis ai miei amici più indigenti, o i cestini di pesche e le due bottiglie per Natale agli anziani, non erano in funzione né dell’immagine né di un ritorno di vendite.

Non aveva infine il minimo pregiudizio razziale, anzi, pensava che mescolare sangue diverso avrebbe migliorato la specie. Era uno spasso sentirlo decantare negli anni sessanta ai suoi giovani devoti ascoltatori le virtù delle donne meridionali, e descrivere il tipo di famiglia che sarebbe uscito dagli incroci. Ed era altrettanto spassoso vederlo conversare, in un dialetto animato che non teneva conto di alcuna barriera linguistica, e quindi le superava tutte di slancio, con i ragazzi e le ragazze di varie etnie e colori che cominciarono a frequentare casa nostra appena io e mio fratello ci aprimmo al mondo. Era felicissimo di quelle tavolate variopinte, e più felici ancora erano quelli che quasi increduli le frequentavano. Un po’ meno mia madre, che doveva preparare pranzi e cene per tutti (ma anche lei sotto sotto ci godeva, perché era una cuoca eccezionale, e la sua fama si è diffusa nel mondo).

Mi fermo qui, perché mi accorgo di aver dato la stura a un panegirico che rischia di diventare, oltre che noioso, poco credibile. Mio padre non era certo privo di difetti: era ipercinetico, vedeva possibilità e necessità di interventi migliorativi dovunque, e poi era testardo come un mulo. Quando si cacciava in testa un’idea doveva portarla in fondo a tutti i costi: ma se ne assumeva in prima persona i rischi e le responsabilità, salvo naturalmente coinvolgerti in un sottile ricatto che iniziava invariabilmente con: “Non ho bisogno, mi arrangio da solo.”

Quello che ti fregava era il sapere che lo avrebbe fatto davvero anche da solo.

C’entra qualcosa tutto questo con il lavoro di Hobsbawm? Ripeto, dipende da cosa intendiamo per calzolai radicali. Io i sintomi li ho riconosciuti tutti, e credo che rapportati ad un’epoca e ad una situazione diversa parlino comunque di un radicalismo, magari scettico e disincantato rispetto a qualsiasi ipotesi di riscossa collettiva, ma concretamente applicato nei rapporti quotidiani, sociali e familiari. Mio padre era certamente un calzolaio, anche se fisicamente, a parte la gamba, corrispondeva poco all’icona un po’ sfigata del sovversivo da bottega. Ed era talmente radicale da non poter aspettare la società giusta ventura: non gli importava nulla del socialismo scientifico o di attese messianiche, voleva vivere bene subito, e aveva capito che questo tipo di vita te lo guadagni giorno per giorno, non ti è assicurato da nessuna forma di governo, da nessun modello sociale, da nessuna chiesa o da nessun partito. Te lo devi creare, e poi lo devi difendere. Per farlo devi dare spazio anche ai sogni degli altri o alle loro manie, purché non siano oggettivamente dannosi; tener conto che esistono purtroppo gli zotici, i prepotenti, i boriosi, e che non sono pochi; ma sapere che non ce n’è uno che non possa essere seppellito dal tempo e da una risata intelligente.

Il suo era un radicalismo un po’ aristocratico, se posso usare il termine nella sua accezione più pura: quello di chi, a dispetto delle apparenze, se lo può permettere, e ne ha una tale coscienza da non pretendere che gli altri lo condividano. Per questo mio padre non riponeva un’eccessiva fiducia nella democrazia, nella quale c’è sempre un rischio più che concreto di essere governati da bande di ruffiani o da maggioranze di cretini (la prima e la seconda repubblica in una sola immagine); ma sapeva per esperienza che non esistono alternative, se non quella di essere oppressi da un cretino solo, e ha continuato a votare ad ogni consultazione, per più di mezzo secolo, senza tapparsi il naso, senza fissarsi su un simbolo, cercando semplicemente di nobilitare il gesto a dispetto della miseria dei suoi esiti.

Credo proprio che se Hobsbawm lo avesse conosciuto lo avrebbe citato tra i protagonisti esemplari del suo saggio. Anzi, a pensarci bene, lo ha fatto comunque: e gliene sono grato.

 

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