Cerchi e linee della Storia

di Paolo Repetto, 1 marzo 2020

Nella pagella di Leonardo spicca il dieci in Storia. Compare improvviso in mezzo ad altre valutazioni più che dignitose, ma che parlano in fondo di un interesse puramente scolastico. È un Everest che svetta tra tanti settemila, coronato dagli ottomila di Francese, Geografia e Italiano. Un po’ staccato, là sullo sfondo, il K2 del nove di Musica. Questo panorama disegna un profilo inequivocabile, sia pure facendo la tara alle maniche più o meno larghe degli insegnanti: Leonardo è un umanista. Quel dieci ci sta tutto, perché Leo ha una vera passione per la storia. E questa passione ha una spiegazione scientifica: c’è un gene particolare che ricompare nella mia famiglia ad ogni generazione, o almeno nelle ultime tre. Una volta, quando la genetica nemmeno esisteva, lo chiamavano bernoccolo, quasi a significare un’escrescenza maligna, una superfetazione del cervello, o la conseguenza di una botta in testa. Invece è questione di DNA. Elisa, mia figlia, studia Storia all’università. Leonardo è mio nipote.

La cosa più probabile è che si tratti di un fattore epigenetico: vivere in mezzo a migliaia di volumi che parlano di storia, che se ti muovi un po’ più bruscamente ti cadono in testa (di lì il bernoccolo), e che solo a vederli tutti assieme o ti sconfortano o ti danno l’idea di un universo sconfinato da scoprire, forse un po’ condiziona. Come che sia, l’interesse per la storia è ormai di casa, e suscita reazioni diverse. Nel mio entourage c’è chi lo reputa un viatico certo al disadattamento, oltre che alla disoccupazione. Io la penso diversamente. Quanto alla prima conseguenza, ne vado fiero: il mondo è sempre stato sottratto alla noia e al conformismo proprio dai non adatti (e resta ancora da stabilire chi davvero non lo è). Sulla seconda ho qualche dubbio. Se la passione è sincera, uno sbocco lo trova. E se non lo trova, rimane almeno la passione.

L’amore per la storia è la manifestazione più alta e nobile della curiosità. Posso sembrare partigiano (e lo sono, eccome), perché anche l’inclinazione per le scienze ne è una manifestazione elevatissima; ha però un retroterra di finalità pratica, quindi non è amore “puro”. E qui si potrebbe discutere all’infinito (col risultato poi che ciascuno rimarrebbe della sua idea), ma non è questo che mi interessa. Piuttosto, devo chiarire un paio di cose. La prima è che quando parlo di storia mi riferisco anche a quella naturale, e ci faccio rientrare quindi tutta la vicenda evoluzionistica. La seconda è che l’amore per la storia non può essere a mio parere settoriale, non può privilegiare un solo ambito, un’unica epoca particolare, singole aree o vicende. Sono senz’altro comprensibili le preferenze individuali per specifici campi di ricerca, ma se queste preferenze si spingono fino all’esclusività non hanno più a che vedere col genuino sentimento amoroso, ne sono una distorsione: sconfinano nel feticismo.

Quando Elisa decise di lasciare la facoltà di Design, dopo un anno di frequenza e dopo aver completato tutti gli esami con ottimi risultati, motivò così la sua scelta: “Mi piaceva, ma avevo l’impressione che sarebbe stato così” e disegnò con le mani un angolo che si chiudeva verso l’esterno. E aggiunse: “Ci sono un sacco di cose che non conosco, sento di non poter continuare ad ignorarle, e ho bisogno di uno sguardo così”, disegnando un angolo che si apriva e si allargava verso l’esterno. L’angolo visuale della Storia. Questo era sentimento genuino. Cosa potevo opporre, sempre che avessi voluto opporre qualcosa?

Lo studio della storia non risolve naturalmente il problema della conoscenza. Piuttosto, lo crea. È l’attività più socratica che si possa immaginare. Ed è un’attività che coinvolge alla stessa stregua tutte le nostre facoltà, tutte quelle che determinano la nostra condizione eccezionale di umani. Siamo umani proprio perché ci interroghiamo sul chi siamo e da dove veniamo, cercando magari anche di intravvedere dove andremo. Le altre conoscenze sono più o meno immediatamente necessarie alla sopravvivenza: quella storica rispetto a quel fine immediato è superflua, ma è indispensabile all’“esistenza”. Perché esistere (ex-sistere) significa chiamarsi fuori dal ritmo ciclico naturale, e amare la storia significa saper cogliere la progressiva “linearità” di questo distacco. Che non vuol dire pensare la storia come “progresso”, come una linea retta protesa in una sola direzione, ma interrogarsi sulle ragioni, positive o no, del nostro allontanamento dalla naturalezza, ripercorrerne le tappe, magari cercando di recuperare la memoria di opzioni che sono state scartate e che avrebbero potuto rendere diverso il nostro presente.

Queste cose però altri hanno saputo spiegarle molto meglio di quanto possa farlo io. Rientrano nelle motivazioni più consapevoli, razionali, allo studio della storia. A me qui interessa invece capire cosa c’è a monte: cosa può indurre la passione per una ricerca così apparentemente fine a se stessa, prima ancora di avvertire che tanto fine a se stessa poi non è. E posso farlo solo partendo da ciò che ha motivato me.

A differenza di Elisa, ho scoperto che avrei vissuto di storia e per la storia molto precocemente. Oserei dire che l’ho sempre saputo, molto prima di incontrarla come disciplina scolastica. L’ho scoperto principalmente attraverso le immagini. Ero affascinato dalle rappresentazioni di castelli, di ruderi, di velieri, di cavalli e cavalieri, di antiche città o di borghi medioevali, dalle divise settecentesche e dalle scene di battaglia all’arma bianca, da tutto ciò insomma che mi riportasse indietro nel tempo. Ma anche dalle favole e dalle epopee cavalleresche che lo zio Micotto raccontava la sera, impreziosite da una maniacale precisione nei dettagli ambientali e nei riferimenti temporali. E penso sia proprio questa la chiave: la scoperta di possibili tempi diversi da abitare (gli spazi sarebbero venuti dopo), ciò che suppone il non sentirsi totalmente in sintonia con quello in cui si vive. Più sopra l’ho chiamato “disadattamento”: ora devo precisare che non è il risultato dell’amore per la storia, ma, al contrario, ne è la causa.

Sentirsi fuori sintonia rispetto al proprio tempo non comporta comunque un rifiuto specifico. La sensazione di estraneità di cui parlo riguarda in realtà ogni tempo, e paradossalmente nasce proprio dal desiderio di abitarli o averli abitati tutti. E questo è reso tanto più possibile, sia pure a livello di fantasia, quanto più di quei tempi si conosce.

Abitare un’altra epoca non significa infatti fare del turismo temporale, andare a vedere un po’ come vivevano. Implica una partecipazione: si vorrebbe poter interferire, modificare qualcosa, segnare in qualche modo col proprio passaggio quel tempo. Magari, che so, riparando un torto, difendendo una causa, dando una piccola spinta a qualche cambiamento positivo che potrebbe avviarsi.

Il mio approccio alla storia è stato fin da subito di questo tipo. Ad ogni nuova situazione o vicenda o personaggio di cui venivo a conoscenza, seguiva l’immediata immersione. Cercavo lo spiraglio attraverso il quale, forte del senno di poi, avrei potuto inserire un piccolo cuneo. Diventavo il difensore di ogni oppresso, aiutavo la fuga di ogni perseguitato.

È chiaro che si trattava di una motivazione estremamente ambiziosa. Non mi identificavo nel dio che la storia la crea, perché ho sempre saputo che la storia la creano gli uomini, ma senz’altro nel demiurgo che con un piccolo gesto la modifica, che fa manutenzione per assicurare ordine, armonia ed equità.

Quindi, paradossalmente, l’amore per la storia è stato per me prima di tutto segreta ambizione di modificarla, di averne un qualche controllo. E questa ambizione, manifestatasi dapprima come un ingenuo sogno infantile (ma anche adolescenziale), si è tradotta poi ad un certo punto in una possibilità concreta. È avvenuto quando mi son reso conto che la storia con la quale mi confrontavo non era in realtà la somma neutra e inconoscibile e immodificabile degli accadimenti, ma una Storia con la maiuscola, consistente in ciò che è (o è stato) raccontato e in ciò che viene ricordato. Ed ecco allora rivelarsi la possibilità di intervento: la Storia si può leggerla in modi diversi, interpretarla e magari anche raccontarla da differenti punti di vista, riscattando dall’oblio protagonisti da tempo dimenticati o volutamente cancellati, riportando a galla vicende rimosse, redistribuendo ragioni e torti.

Non si tratta più dunque di usurpare il ruolo di Dio per far procedere la storia in un certo modo, ma di assumere responsabilmente quello di uomini nel dare un senso a come è andata, e una dignità a tutti coloro che ne sono stati protagonisti. Che poi, all’atto pratico, non è cosa molto diversa.

Confesso che la pagella di Leo mi ha euforizzato. Non è freddamente asseverativa come quelle fitte di soli nove e dieci, e non è appiattita sulla mediocrità pigra del sei. Parla, racconta. E quando ho chiesto a mio nipote come mai gli piaccia tanto la storia, lui mi ha guardato con espressione stupita e mi ha dato l’unica risposta possibile: “E come fa a non piacerti?

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