Ma allora esiste?

di Marcello Furiani, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996

  1. La poesia esiste tuttora, vitale e numerosa, e continua a servirsi dei poeti, purché essi siano disposti all’incredibile sforzo che costa assottigliarsi tanto da ottenere la necessaria trasparenza.
  2. La ferita è al centro della poesia.
    Come una ferita le parole si aprono sempre più mentre la parola si chiude in un proprio arcaismo intimo. Accostate per ferirsi e scoprirsi, le parole non sono i guitti adatti all’avanspettacolo di un teatrino dell’io, ma compiono ritualmente i gesti crudeli che la sperimentazione liturgica richiede: urtandosi nei piccoli chiostri dei suoi metri, finiscono per scorticarsi, per perdere la superficie.
    Metafore nel senso più primordiale del termine, il cuore, il sangue, le ciglia, la bocca sono propriamente parti per il tutto: non devono ricongiungersi o accordarsi: compiono la fatica poetica, al tempo stesso non venendo meno all’inevitabile funzione di risarcimento della piaga esistenziale, della mancanza di un senso, cui accenna Blumenberg.
  1. Un verso è il luogo destinato alla missione delle assonanze, allitterazioni, reiterazioni: in quello spazio ristretto e sconfinato esse devono dire, pronunciare i loro couplets, le piccole ariette imbarazzate e legnose, cariche di furia, di garbo o di scontrosa ritrosia: marionette tinte nelle vernici futuriste o dada, ormai un poco essiccate o fanèes, o annerite nel sangue di un espressionismo poco caritatevole. La concentrazione del fuoco sulla bambolesca disperazione di questi espedienti retorici non fa che suscitare quanto vi è di viscerale nei taciuti, negli omessi corporei ed erotici di una poesia che non può che essere antilirica e rabbiosamente antiatmosferica: come un negromante il poeta circuisce ed allude, e tanto più mentre ostenta di stendere i tappeti della reticenza e della preterizione sul buio ed il terribile dell’assenza e della mancanza cui non si rimedia. Il poeta richiama le parole a formare le loro figure, le loro costellazioni, di danza e di rito, ed esse si scontrano, ognuna portatrice d’intrasmissibili malanni, senza contagiarsi mai, scambiandosi testimoni come in una gara di spietate coreografie.
  2. La serietà invernale delle narrazioni contenute nei versi denuncia quanto gravosa sia l’ipoteca mitica che il poeta ha acceso sul suo patrimonio lessicale ed iconografico.
    Dalla secca stenografia accostativa all’immagine di maternità surrealista, dalla rima infrequente sotto forma di titubante assonanza ai richiami camuffati all’interno del verso, la devozione notturna della poesia non lascia dubbi: non si tratta di mises indossate ad un defilè di tendenza, ma della sostanza profonda di un’originaria matrice magica ad essere rivissuta e messa in gioco.
  1. Sentinella di frontiera, trasferitasi interamente in quelle laboriose solitudini, il poeta ascolta il misterioso telegrafo del celato ticchettargli gesti, ritmi, cadenze con le quali comporre gli incendi subitanei delle sue miniature. Nel territorio della poesia parole, oggetti, fatti non gettano ombra: nonostante l’apparente éclat delle figure, nessun alone circonda e soffonde le minime mònadi che di volta in volta vengono a costituirla.
  2. Antiepica nelle forme, la poesia è epica nella sostanza più intima e, personalmente, prova ne sia il chiamare in causa la figura femminile, rigorosamente invocata in quanto assente. Invece di compiere incantesimi, essa raggruma le magie della poesia e contemporaneamente ci conferma quanto sia sostanziale l’esperienza dell’altrove assoluto nel quale si svolge l’atto dello scrivere. La poesia non può essere detta e risuonare senza il “tu” di questo femminile, che garantisce i pur brevi ristori di una narrazione. Soltanto dalla lontananza da costei si possono indirizzare i versi, soltanto nella lontananza i versi possono conservare la caratteristica, così effimera, di appunti del viandante, come in un lehrreise che ritorna sullo stesso, malinconico ossessivo percorso.
  3. La poesia esiste tuttora, e le ferite della memoria, che ci fanno vivere, sono tenute aperte soprattutto grazie ai poeti.

22.
Cuore che imprimi prèmiti

e impunito mi tieni
versi esilio nel torace e torci
il verso, il gesto breve.

Sbianca le labbra lo sguardo
così aspro da dire
dove cade il respiro e raggela
la parola, il pallore sottile.

9. (winterreise)
D’un inverno dimora d’ombra

sta come un cortile nel gelo
l’asciutto andare se corto
se incerto nel sogno sfigura
d’un tempo il malo modo
la premura il nodo al cuore.

XXVI.
Il primo polso si placa
ma incompiuto nella corta
quiete dell’osso e intende
a lungo tra la scheggia del cuore
e la pioggia volgersi e sostare.

10.
Divide il respiro e svoglia

tardiva memoria che veglia
sul disgelo la gola taciuta
saliva in filo che impiglia
e non vede e non veduta.

18.
È un’ombra questo andare
senza impronta tra crudi
congedi simile alla morte
questo andare immaginando
tra un corto sguardo che perde
il cuore ma nella saliva
cerca un filo per tornare.

 

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