Alla ricerca di un impero

dicembre 2025

di Paolo Repetto, 8 dicembre 2025

Per valutare la qualità della vita in un luogo, sia esso una nazione o una singola città, si sommano e si incrociano diversi criteri, che vanno dal tasso di istruzione a quelli di occupazione o di criminalità, dal reddito pro-capite all’aspettativa di vita, dalla qualità dell’aria e dell’acqua all’efficienza dei trasporti: ma alla fine le graduatorie che ne risultano vedono nelle primissime posizioni sempre gli stessi nomi. Ora, è evidente che queste valutazioni possono essere considerate “oggettive” solo fino ad un certo punto, perché il peso e la rilevanza dei vari parametri dipendono da chi le graduatorie le stila, e qui entrano in gioco un sacco di interessi, (dagli operatori turistici alle compagnie di bandiera, agli enti promozionali, persino alle pressioni politiche, ecc…); ma soprattutto perché sono espresse a partire da un particolare punto di vista (nella fattispecie, quello del modello culturale “occidentale”).

Al netto di tutte le obiezioni “politicamente corrette”, dobbiamo comunque ammettere che offrono un quadro abbastanza realistico della situazione, senz’altro più attendibile di quello che possiamo trarne soggettivamente da visite in genere frettolose (e compiute magari in condizioni non ideali di salute o di compagnia, o disturbate da inconvenienti di varia natura). Anche se poi il quadro di cui conserviamo il ricordo, e che trasmettiamo ad altri nel racconto delle nostre esperienze, è proprio quest’ultimo.

Verrebbe però da chiedersi a chi e a cosa servano queste graduatorie. Io credo rispondano alla sempre crescente necessità del mondo moderno di sterilizzare, amalgamare e ricondurre tutto entro tassonomie matematiche (per ogni singolo fattore di valutazione è assegnato un punteggio, e il risultato è una sommatoria), oggi si direbbe algoritmiche, tali da consentire la pianificazione e il controllo di ogni attività: e naturalmente, per ricaduta, a influenzare ad esempio le nostre scelte di viaggio. Ma non possiamo negare che siano anche specchi nei quali si riflette in definitiva la natura umana più profonda: perché seppure di norma pensiamo di essere attratti da ciò che trasmette emozioni forti, dal “sublime” romantico per intenderci, in realtà quel sublime lo apprezziamo solo come gli spettatori di lucreziana memoria che dalla riva assistono a un naufragio. Non è più tempo di avventurieri, ma di turisti. Per questo finiamo poi per preferire in genere mete “sicure”, che garantiscano un certo livello di ordine, di tranquillità e di razionalità; per questo difficilmente prendiamo in considerazione Haiti o Mogadiscio, che di emozioni ne riservano a bizzeffe; e per questo, tra l’altro, ci indispettiamo e recriminiamo quando ai primi posti nelle graduatorie di merito non troviamo menzionata alcuna città italiana.

Al di là di tutto ciò, comunque, ciascuno di noi, in base al suo carattere e alle sue esperienze, elabora più o meno consapevolmente un suo sistema di valutazione, i cui criteri potranno mutare col trascorrere dell’età e con l’accumulo delle occasioni di incontro e di confronto, oltre che degli acciacchi, ma che sostanzialmente lo accompagnerà per tutta la vita.

Io, ad esempio, sono sempre stato propenso almeno in teoria alle esperienze più tranquille: anche se di fatto più per sbadataggine e superficialità che per averle veramente cercate, ho poi finito per viverne sin troppe del primo tipo. E ho adottato per le mie valutazioni della qualità della vita e dei livelli di civiltà (si, sono politicamente molto scorretto) alcuni peculiarissimi criteri, meno freddi di quelli numerici e in qualche caso altrettanto o più significativi. Sono criteri diciamo così “turistici”, desunti in genere da soggiorni brevi, ma che un’idea di massima la possono dare.

Vediamoli. Se c’è qualcosa che parrebbe non offrire elementi per una gerarchizzazione, questa sono gli aeroporti e in genere tutti i non-luoghi, dagli autogrill ai grandi magazzini. In linea di massima differiscono solo per le dimensioni, e anche se oltre un certo livello la “quantità” diventa necessariamente “qualità” la funzione di transito veloce cui assolvono (a meno di rimanerci intrappolati come Tom Hanks in The Terminal) li rende in qualche modo ai nostri occhi identici. Ma se con gli occhi non seguiamo soltanto le indicazioni per l’uscita o quelle per l’imbarco le cose non stanno proprio così.

Gli aeroporti, ad esempio, sono il tramite per eccellenza e il simbolo stesso della globalizzazione seriale. Eppure anche già al loro interno qualche sfumatura di differenza la si può cogliere, a partire dalla maggiore o minore pulizia delle toilettes, e prima ancora, dalla facilità di reperirle. Quello delle toilettes è un mio chiodo fisso. Il grado di civiltà di un paese lo puoi già intendere alzando gli occhi in qualsiasi via o piazza, ma persino in prossimità di spiagge o scogliere deserte, come accade nel Devon, o nei villaggi più sperduti: se scorgi subito l’indicazione con l’omino e la damina stilizzati il livello è molto alto.

A Vienna poi, perché lì sono sbarcato più recentemente e proprio lì voglio portarvi, nella segnaletica compare anche un terzo pittogramma, quello che indica il terzo sesso (lo riferisco per informazione, non perché abbia a mio giudizio una particolare rilevanza: in realtà non ho capito bene a che serva, le sezioni interne essendo sempre due).

Per raggiungere le toilettes, o subito dopo, ci sono le scale mobili. Un altro modo per percepire al volo la qualità della vita di un luogo è scendere o salire le scale mobili. Capisco che un integralista dell’efficienza fisica possa disdegnarle, ma uno psicologo sociale in pectore come me, soprattutto se parecchio avanti con gli anni, non può farsi di questi problemi: e poi ormai sono molti gli snodi in cui le scale normali nemmeno esistono.

Comunque: arrivando da una giornata trascorsa a Milano, dove avevo rischiato più di una volta di essere travolto da gente che le saliva o scendeva di corsa, neanche avesse la polizia alle calcagna, e sembrava non aver ancora introiettata l’idea che sono quelle a doversi muovere, ho trovato all’aeroporto austriaco (così come poi ovunque nella città) una grande compostezza; nessuno che smaniasse per farsi largo o ti guardasse storto se ingombravi col bagaglio o non ti tenevi rigorosamente appiccicato alla fiancata scorrevole destra. Ne ho immediatamente ricavato l’impressione di una vita meno frenetica, più rilassata e ordinata. Mi sono anche dato una spiegazione del fatto che le scale siano quasi verticali, cosa che in un primo momento mi aveva lasciato perplesso: con quella inclinazione a salirle di corsa ti becchi un infarto, se le scendi a precipizio rischi seriamente di volare di sotto (l’altra spiegazione, più banale, sarebbe che stratificate ad imbuto fino a trenta o cinquanta metri sottoterra occupano molto meno spazio). Mi hanno ricordato l’equivalente inglese delle nostre strade statali e provinciali: piste a doppio scorrimento ma a carreggiata unica, larghe giusto poco più di un’auto e chiuse lateralmente non da cunette ma da muretti a secco, senza alcuna indicazione di limiti di velocità: quelli li impone il buon senso – che sembra funzionare, e si capisce il perché.

Dall’aeroporto le prime scale danno accesso direttamente alle linee ferroviarie, scendendo ancora conducono a quelle della metropolitana. E qui, per le une e per le altre, nuova sorpresa. Non ci sono i tornelli, si accede liberamente a qualsiasi linea. Posso tranquillamente riporre il biglietto acquistato on line. Tutto procede sulla fiducia. La sensazione immediata è che tutti abbiano in tasca, come me, il loro documento di viaggio. Penso comunque che poi, una volta sul treno, ci sarà un controllo. Macché. Non ne ho visto uno in quattro giorni, trascorsi in buona parte a saltare da un vagone all’altro. Anche qui, mi è tornata in mente la scena di quella volta che a Torino, salito su un tram, sono andato immediatamente a obliterare il biglietto. Il click dell’obliteratrice ha richiamato l’attenzione sorpresa e infastidita di tutti gli altri passeggeri: mi guardavano in tralice come fossi un marziano, non con derisione, ma con una malcelata ostilità. Stavo infrangendo una norma consuetudinaria.

Mi chiedo come sia possibile che quella società si regga sulla fiducia, come ci si sia arrivati e se per l’avvenire questo rapporto potrà continuare. Gli austriaci non sono nemmeno luterani o calvinisti, sono cattolici come noi, non si può far risalire alla matrice religiosa il senso del dovere civico: forse li hanno educati a bastonate, o forse semplicemente hanno introiettato un forte senso di responsabilità nei confronti della cosa pubblica perché almeno in passato sono stati bene amministrati. Non credo comunque si tratti di indole, la causa è senz’altro esterna, è culturale, è storica. Probabilmente è la somma di tanti fattori tutti molti lontani dalla mentalità vigente dalle nostre parti, e va al di là della nostra capacità di comprensione.

Intanto, percorrendo sulla linea di superficie il tratto che separa lo scalo aeroportuale da Vienna, sono già immerso nell’Art Nouveau. La rete ferroviaria viennese, oltre ad assicurare un servizio puntuale al secondo, una estrema pulizia e una informazione precisa sulle fermate, costituisce di per sé un’opera architettonica di grande pregio. L’ha curata in ogni dettaglio un architetto “secessionista”, Otto Wagner, che per un ventennio fu sovrintendente alle costruzioni ferroviarie, uniformando nello stile e nei colori stazioni, ponti, ringhiere, tutto ciò insomma che offre un impatto visivo immediato. Può piacere o meno, ma è indubbiamente simbolo della volontà di armonizzare arte e vita quotidiana, di far entrare la prima come elemento costante nella seconda, educando un gusto alla bellezza che deve poi esprimersi in ogni aspetto della quotidianità. Gli integralisti della concezione dell’arte come provocazione non saranno d’accordo, ma per me è una forma alta e dignitosa di resistenza alla pervasione del grigiore e del piattume indotti dalla modernità, senza peraltro sacrificare nulla dell’efficienza.

La ferrovia offre un’anteprima, volutamente pensata e proposta con estrema discrezione, di quel che troverai a breve in città. Non vuole provocare uno shock, ma consentire un pre-riscaldamento delicato, una prima dolce assuefazione al bello diffuso.

Quando accedo alle linee metropolitane ho dunque già inforcato senza accorgermene occhiali diversi. Mi si è abbassata la pressione da viaggio, non stringo più spasmodicamente il manico retrattile del trolley. Appena riemerso dal sottosuolo, poi, con una semplice occhiata buttata in giro durante i quattro passi che mi separavano dall’albergo (perché la copertura offerta dalla rete sotterranea è davvero capillare, non c’è una meta in città che disti più di centocinquanta metri da una stazione), sono confermato nella percezione di un’atmosfera piacevolmente rilassata, desumibile già dalla camminata dei passanti, e ho un primo contatto con spazi verdi diffusi, con strade molto ampie, percorse da un traffico estremamente scorrevole e disciplinato. Tutte cose che concorrono alla sensazione di una estrema “respirabilità”, favorita anche dall’altezza uniforme di costruzioni che si succedono compatte e che non superano mai il quarto o il quinto piano.

Quest’ultima caratteristica soddisfa un’altra mia sindrome particolare: ho bisogno di vedere il cielo senza tenere troppo il naso per aria. Se poi quei palazzi sono anche belli, se mostrano una coerenza architettonica senza stranezze eccessive, se testimoniano una concezione urbanistica che ha resistito alle sirene della iper modernità, si compie la quadratura del cerchio.

Non è la prima volta che visito Vienna, ma l’ultima risale a oltre trent’anni fa, e allora per vari motivi non avevo avuto modo di riflettere su queste cose. C’ero arrivato in macchina, e nei giorni successivi me l’ero percorsa tutta a piedi (all’epoca avevo un’autonomia di quaranta-cinquanta chilometri al giorno, e soprattutto avevo una concezione piuttosto penitenziale del turismo), per cui non avevo mai usato la metropolitana. Le volte precedenti guidavo gite scolastiche, per le quali facevo valere i miei convincimenti odeporici e non avevo nemmeno il tempo di guardarmi attorno o per aria.

Una volta completata la sistemazione logistica mi muovo per un primo approccio esplorativo. So di avere il cielo aperto sopra di me, respiro tranquillo e mi dedico a ciò che mi circonda. Non posso non apprezzare l’eleganza raffinata, mai cafona, dei negozi, la perfetta manutenzione di bellissimi palazzi risalenti a un secolo e mezzo fa, la pulizia di strade e marciapiedi, che non si capisce da chi e quando venga effettuata, la cura delle diffuse aree verdi. Come mi disse una volta Franco Vallosio, reduce da un lungo viaggio in Svizzera: “Vai a sapere quanto sfruttamento c’è dietro tanta pulizia e tanto ordine: ma almeno là l’ordine c’è, mentre da noi c’è solo lo sfruttamento”.

Solo dopo un po’ comincio ad avere la percezione di un’assenza, e mi accorgo che nel panorama manca una componente ormai diffusa in tutte le altre grandi città, da Londra a Parigi e a Milano (ma anche in quelle piccole). Non ci sono in giro homeless. Non ne incontrerò nemmeno nelle escursioni serali. Visti i precedenti (mi riferisco a quanto accadde più di ottant’anni fa) verrebbe da pensar male: ma l’atmosfera non è affatto quella. Non credo li abbiano fatti sparire, penso semplicemente che ci siano luoghi che la notte li ospitano, ma anche di giorno. Questi luoghi esistono anche da noi, e in gran parte d’Europa, ma semplicemente qui funzionano, e chi ne ha bisogno viene convinto con una certa fermezza ad utilizzarli. Può sembrare una concezione che sacrifica al decoro urbano la libertà individuale, da noi senz’altro verrebbe considerata tale, ma in realtà è solo lo smascheramento di un libertarismo peloso, quello per il quale ciascuno può fare ciò che gli pare, dalle nostre parti molto praticato.

Potrei andare avanti per pagine ad elencare i fattori che concorrono alle mie valutazioni, ma credo che quanto ho scritto finora basti a rendere l’idea. In pratica il criterio è molto banale: quando si parla di qualità della vita i numeri non bastano, anche se non guastano: ti dicono quali possibilità sono offerte, non necessariamente quanto e come e con quali esiti vengono colte. Questo è poi affar tuo scoprirlo. E in tal senso nella qualità della vita faccio rientrare anche un altro fattore, difficilmente computabile: la consapevolezza del sostrato storico sul quale si cammina.

Nei pochi giorni che avevo a disposizione ho fatto il pieno di Secessione e di Klimt e di Schiele, ma soprattutto sono riuscito a intravvedere i fantasmi dell’epoca d’oro della città, di quella fetta iniziale del Novecento nella quale Vienna esprimeva, prima come capitale di un impero fondato sulla giustapposizione tra culture diverse, e non sullo scontro, e poi come sopravvissuta nostalgica di tanta grandezza, il meglio della cultura europea: molto più di Parigi, a mio giudizio, perché nella capitale francese erano soprattutto gli stranieri, esuli volontari (come gli anglosassoni) o meno (come italiani, tedeschi o spagnoli), ad esprimerla.

Come per tutti gli altri aspetti, a Vienna anche la vita culturale risulta più discreta. Quando si parla di cultura pre e post primo conflitto mondiale la gran parte delle figure (e dei movimenti) di riferimento nella letteratura (da Karl Kraus, a Schnitzler, a Zweig, a Musil) nella filosofia (da Carnap a Wittgenstein e a Freud), nella musica (da Mahler, a Schönberg, a Berg, a Webern), nelle scienze (da Mach a von Mises, a Gödel), oltre a quelle naturalmente che ho già citate per l’arte, arrivano da lì: ma non sono mai state strombazzate quanto ad esempio il futurismo italiano o il surrealismo francese (provate a chiedere in giro chi conosce la Secessione Viennese, l’Art Nouveau, lo Jugendstil o l’opera architettonica e urbanistica di Otto Wagner) e anche all’epoca non si sono mai esibite in manifesti o manifestazioni spettacolari, ma nella realizzazione di opere. Ancora oggi rimangono essenzialmente patrimonio locale, anche se non mancano di concedersi ogni tanto in prestito allo spaccio dilagante di mostre e convegni e ricorrenze anniversarie.

Qui credo comunque di aver perfettamente capito a cosa si riferiva Benjamin quando parlava di “aura”. Se entri al museo del Belvedere dopo aver attraversato mezza città ti trovi in assoluta continuità con quanto hai visto o percepito sino a quel momento, scendi solo più in profondità. Fuori da quel contesto, dell’opera di Klimt o di Schiele puoi solo ammirare la bellezza esteriore, se ti piace il genere, puoi contemplarla stupito o perplesso, ma non puoi assolutamente comprenderla. E lo stesso vale per i romanzi di Musil e i memoires di Zweig, o per la musica di Mahler e di Berg. Persino la logica di Gödel ha la sua naturale dimora e intelligibilità in quel luogo e in quel tempo.

Più in generale, stante che il contesto storico cui faccio riferimento non va oltre gli anni Trenta del secolo scorso, anche la storia dell’Impero asburgico si distingue per l’essersi mossa quasi in sordina, senza eccessi e senza infamie particolari. In fondo è l’unica istituzione politica dell’Europa occidentale, a parte la Svizzera, a non essersi ritagliata appendici coloniali fuori del continente. Certo, l’Africa e l’Asia degli Asburgo erano nei Balcani, ma il sistema amministrativo consentiva a ben nove diversi popoli soggetti larghe autonomie, e il controllo veniva esercitato con mano leggera. Teniamo presente che nell’ultimo secolo di esistenza l’amministrazione imperiale è stata osteggiata all’interno non da rivendicazioni sociali (non erano tali neppure quelle del 1848) , ma da un montante spirito nazionalistico, quasi sempre alimentato da interessi politici ed economici esterni. In questo senso il modello imperiale asburgico può essere considerato l’ultimo tentativo di tenere assieme almeno una parte di quell’Europa che avrebbe finito nel giro di un trentennio e di due spaventosi conflitti successivi per suicidarsi. Ora, visti i recenti fallimenti degli sforzi per avviare una nuova riunificazione, varrebbe forse la pena di andarsi a rivedere come funzionavano al suo interno le cose, almeno per trarne una qualche ispirazione. Da quello che è il ricordo lasciato in Italia, nelle regioni rimaste sotto il suo diretto dominio fino al 1866, e per quello che è accaduto nei Balcani dopo la disgregazione, direi che ci sarebbe molto da imparare.

Non deve sorprendere allora che prima di rientrare abbia dedicato mezza giornata alla ricerca di una grande carta geopolitica, possibilmente d’epoca, dell’impero austro-ungarico, da affiancare nel mio studio a quella dell’Europa antecedente il 1848. Non l’ho trovata, e quando ho chiesto a un negoziante antiquario particolarmente fornito se dipendesse dal fatto che agli austriaci non interessa il loro passato, mi sono sentito rispondere che, al contrario, come quel tipo di carte gli arrivano spariscono in un baleno. Anche questo significa qualcosa, e non può essere tabellizzato in alcuna graduatoria.

Tirando tutte le somme (in senso figurato, s’intende: ma in fondo anche quelle concrete, delle spese sostenute) si è trattato di una esperienza decisamente positiva. Mi rimane il rimpianto per la carta: nello studio avrebbe ben figurato, e avendola costantemente sotto gli occhi avrei potuto ogni tanto staccare e volare con la mente oltre le Alpi. In Italia mi sarà difficilissimo, se non impossibile, rintracciarne una. Dovrò limitarmi a vedere ogni possibile film ambientato a Vienna, come già faccio per quelli girati in Islanda (ma di questa una bella carta d’antan la possiedo), e gioire ogni volta che mi sembrerà di riconoscere un luogo che ho frequentato, e di poter entrare di soppiatto nell’azione. È l’unico modo, alla mia età, per illudersi di viaggiare ancora da protagonisti.

Isole e isolamenti

ottobre 2025

di Paolo Repetto, 5 dicembre 2025

Una breve escursione sull’isola dell’Asinara mi ha lasciato parecchi interrogativi e un’impressione tutt’altro che positiva.

I dubbi non riguardano la bellezza dell’isola, che persiste a dispetto di tutti gli sforzi fatti degli umani a partire almeno da seimila anni fa per rovinarla. La natura sa opporre resistenza, riadattandosi ogni volta alle diverse condizioni create dal suo peggior nemico. Certo, però, dal paleolitico ad oggi il paesaggio è cambiato molto: le specie animali introdotte dall’uomo e lo sfruttamento insensato del legname hanno diradato sin quasi alla scomparsa la vegetazione. Dove c’erano vaste aree boschive, testimoniate dai fossili, sopravvive solo la bassa macchia mediterranea: il resto sono nude superfici di roccia, che presentano anche strane e intriganti conformazioni. Non c’è una sorgente, un solo rivolo d’acqua. Sembra che un tempo ce ne fossero, ma ne sono rimaste solo le tracce. Per ovviare a questa assenza sono stati fatti prima tentativi con pozzi, rivelatisi infruttuosi, e poi sono stati creati in più punti piccoli invasi artificiali, dove viene raccolta e potabilizzata l’acqua piovana.

Tutto sommato comunque l’isola è quasi autosufficiente, e anche il paesaggio conserva un suo fascino. Ad inquietare semmai sono le tracce del passaggio dell’uomo sparse ovunque: che non hanno la dignità dei ruderi, non raccontano la storia, ma esprimono invece una desolazione da abbandono e un senso (molto ben motivato) di inutilità.

Eppure l’Asinara ne avrebbe di storia da raccontare. È stata colonizzata in tempi storici dai Romani, poi dai Vandali e successivamente dai bizantini. Quindi sono arrivate le prime incursioni arabe. Nel Basso Medioevo è passata sotto il dominio dei genovesi, a loro volta sconfitti poi dagli Aragonesi, anche se nel Cinquecento sembra aver ospitato per un breve periodo il covo dei saraceni del corsaro Barbarossa. È rimasta comunque almeno ufficialmente per tre secoli sotto la sovranità spagnola, inglobata nel regno di Sardegna. Quando ai primi del XVIII secolo il regno è entrato a far parte dei domini di casa Savoia l’Asinara ne ha seguite le sorti. Nel frattempo si erano susseguiti vari tentativi di ricolonizzazione, giustificati dall’importanza strategica che l’isoletta era andata acquisendo: tentativi effettuati allontanando gli abitanti originari, o quantomeno gli ultimi in ordine di tempo che vi si erano stanziati, e chiamando di volta in volta nuovi coloni dalla Liguria, dalla Toscana e dalla Sardegna stessa. In ognuno di questi frangenti il processo di sfruttamento e di desertificazione del territorio si era naturalmente intensificato.

Un po’ di respiro arriva nel 1885, quando il governo del neonato stato italiano decide di allontanare tutti gli abitanti, di interdire a chiunque l’accesso e di destinare l’isola a colonia penale agricola per detenuti in regime di semi-libertà, nonché a sede di un lazzaretto dove fare rispettare la quarantena ai natanti di passaggio sulla rotta per le coste francesi. Durante la Prima guerra mondiale nel lazzaretto vengono deportati quasi venticinquemila prigionieri di guerra, soprattutto austro-ungarici: buona parte di loro non ne uscirà viva. Vent’anni dopo, ai tempi della guerra d’Etiopia, ne seguiranno la sorte molti prigionieri etiopi, tra i quali una figlia dello stesso Negus. Finché durante il secondo conflitto le strutture vengono nuovamente adibite a tubercolosario.

Una svolta ulteriore si ha all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso. L’Asinara torna ad essere un penitenziario, questa volta di massima sicurezza, e ospita in poco più di trent’anni di funzionamento personaggi a loro modo “illustri”, tra i quali alcuni brigatisti rossi e pericolosi capi della mafia e della camorra (Cutolo, Riina, ecc…). La struttura acquista la fama di Alcatraz italiana, perché in tutta la sua storia un solo detenuto è riuscito ad evaderne e per le condizioni davvero dure della detenzione. Finché negli ultimi anni del secolo il carcere viene definitivamente chiuso e si decide di destinare l’isola a parco naturale, per preservarla da una ulteriore cementificazione e più in generale dalla distruzione ambientale.

Ora, ho voluto inserire questi brevissimi cenni storici, ripetendo quasi testualmente quanto mi è stato spiegato dalla guida che ci accompagnava, per un motivo preciso (so che queste notizie avreste potuto ricavarle benissimo, e molto più dettagliate, da una rapida ricerca su internet: ma dubito molto che lo avreste fatto). Mi serviva per rendere l’idea di quello che ho visto nell’arco di una sola giornata, per sostanziare l’impressione di una stratificazione storica che si è intensificata e cumulata soprattutto nell’ultimo secolo e mezzo, lasciando come dicevo sopra, ai margini del suo cammino non delle vestigia, che hanno una loro dignità, ma delle rovine.

Ho visto strutture utilizzate per pochissimi anni e poi abbandonate, o addirittura mai completate, perché nel frattempo la destinazione da dare all’isola era mutata. Ho visto edifici che dovevano sembrare fatiscenti già al momento in cui erano portati a termine, che trasudavano precarietà e umidità e trasandatezza da ogni apertura o dagli sbrecchi negli intonaci. Ho visto scelte logistiche assurde, con la dispersione in angoli remoti dell’isola delle diverse sezioni, ciò che non poteva non creare problemi di personale e di servizi essenziali. Insomma, altro che Alcatraz. Uno spreco totale di risorse, non certo di intelligenza, in nome di una sicurezza, prima sanitaria e poi carceraria, che in verità non c’è mai stata.

Per come l’isola e le sue strutture detentive mi si sono presentate, non mi capacito che ci siano stati così pochi tentativi di evasione, e che uno solo sia andato a termine. Il due bracci di mare che separano la punta estrema dell’Asinara dall’isoletta piana e poi dalla terraferma sarda possono essere tranquillamente superati da qualsiasi buon nuotatore. Forse il vivere in mezzo a tanta desolazione fiacca anche la volontà di venirne fuori.

Capisco invece benissimo perché un quarto dei militari prigionieri mandati lì a marcire, tutti ragazzi poco più che ventenni, ci abbia lasciato le penne. A ricordarli c’è un ossario fatto costruire un secolo fa dal governo austriaco, nel quale teschi, tibie, femori, clavicole, vertebre e tutto il resto sono esposti a vista, ammassati dietro delle grate. È un’immagine straziante: non hai di fronte delle lapidi tutto sommato anonime, anche perché recherebbero incisi nomi stranieri, ma ciò che rimane dei corpi di migliaia di ragazzi mandati a morire in maniera insensata.

L’ultimo capitolo della storia dell’Asinara, quello che ufficialmente avrebbe dovuto riabilitarla facendone un’oasi faunistica, non è in realtà meno sciagurato. A quanto pare l’idea che in un parco naturale protetto e totalmente isolato dalle acque la fauna non avrebbe trovato ostacoli naturali alla sua moltiplicazione non ha sfiorato le menti dei pianificatori: e così ci si trova oggi nella necessità di trasferire annualmente dall’isola migliaia di esemplari di capre, di asini, di cinghiali e persino di cavalli, pena la prospettiva di trovarla ridotta nel volgere di un decennio a uno scoglio roccioso privo di vegetazione. In compenso sono state create nuove strutture, destinate ad accogliere gli uffici del parco e ad ospitare turisti che non si capisce bene perché dovrebbero fermarsi più di un giorno, perché nell’arco di una giornata l’isola la visiti tutta, anche in bicicletta, o congressi e manifestazioni assolutamente inutili e a carico totale dell’amministrazione. Io, ad esempio, sono capitato proprio in mezzo ad un convegno “anniversario”, celebrativo dei due o tre mesi nei quali Falcone e Borsellino avevano lì soggiornato, nei primi anni Novanta, per garantirsi un po’ di sicurezza; e ho potuto constatare come per i numerosi magistrati convenuti si trattasse solo di una gita turistica.

Oddio, sull’isola c’è anche un Centro di recupero degli animali marini, che fa assistenza veterinaria di pronto intervento per le tartarughe marine. Istituto meritevolissimo, per carità, che ma in un paese in cui per stilare il referto di una biopsia occorre un anno suona un po’ stridente.

Le perplessità di cui parlavo all’inizio nascono dunque dalla constatazione di un triplice fallimento. Amministrativo, perché hai l’immagine tangibile di una serie di scelte contraddittorie e raffazzonate, come un po’ tutto quello che accade nel nostro paese, e sulle quali hanno probabilmente influito anche interessi esterni. Umanitario, perché se decidi di togliere dalla circolazione qualcuno, ma rimanendo nell’ottica di una sua rieducazione e di un suo recupero, non lo segreghi in luogo non raggiungibile e comunque poco adatto a coltivare pensieri edificanti, in strutture non molto diverse da quelle dello Spielberg di Pellico. E infine naturalistico, perché desertificando l’isola non fai altro che cancellarne la storia culturale, senza peraltro rimetterne in ordine quella naturale.

Eppure, a dispetto di tutto, a quanto pare un suo fascino l’Asinara lo conserva, se è vero che attira oltre centomila visitatori l’anno e dà lavoro ad un sacco di imprese turistiche che offrono escursioni, immersioni subacquee e pescaturismo. Per molti aspetti è un fascino creato artificialmente, per esempio spacciando gli asinelli bianchi per una specie a parte, quando altro non sono che individui albini che incontrano maggiori difficoltà di sopravvivenza, destinati quindi a soccombere alla proliferazione dei loro conspecifici più attrezzati. Oppure pigiando sul tasto del “turismo sostenibile” e del rapporto con una natura incontaminata, per il quale c’è oggi una grande sensibilità epidermica ma ben poca consapevolezza: o ancora, su quello della storia penitenziaria, che a quanto pare nell’immaginario attrae morbosamente, ma in loco è testimoniata poco più che da macerie.

Questo non significa che non valga la pena visitarla: l’isola in fondo è bella, è senz’altro “diversa”, almeno all’impatto visivo. Ma occorre farlo tenendo presente che è una sorta di piccola Disneyland naturalistica, frutto tutt’altro che incontaminato di scelte legate piuttosto all’insipienza e all’ improvvisazione che a un qualsivoglia progetto sensato. E avendo il pudore di ricordare che prima di noi l’hanno “visitata”, vi hanno soggiornato e vi sono sepolti decine di migliaia di poveri disgraziati che avrebbero preferito non vederla mai.

Questo mi è rimasto nel cuore, e per quanto mi riguarda è questo l’unico tipo di turismo davvero sostenibile.

Passati prossimi e futuri imminenti

di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022

Torna indietro

Il messaggio è stato inviato

Attenzione
Attenzione
Attenzione
Attenzione

Attenzione!

Coincidenze

di Stefano Gandolfi, 5 ottobre 2022

Che “il mondo sia piccolo” è una delle più banali e scontate frasi fatte, tanto banale che nessuno vorrebbe mai usarla se non in caso di estrema necessità…come quando viaggi per un po’ di tempo e scopri che ovunque tu vada, e soprattutto qualunque tentativo tu faccia di scegliere una meta poco banale, poco appetibile per l’orda di “italiani erranti” in Lacoste e Timberland, non solo ti ritrovi fianco a fianco, in coda al check-in, in sala d’attesa, sull’aereo, sul traghetto, sul pulmino scassato nel posto più improbabile del mondo, un connazionale agguerritissimo pronto a spiegarti tutto, ma proprio tutto su ciò che stai per visitare, mangiare, comprare, fotografare, ma, spesso e volentieri, il connazionale è anche un concittadino, e, se le circostanze sono favorevoli (?), magari lo conosci pure.. e non è detto che ti stia particolarmente simpatico, forse anche ricambiato, e comunque sia ti ritrovi al primo scambio di convenevoli ri-immerso in una realtà che faticosamente pensavi di riuscire ad abbandonare per qualche giorno, una realtà da cui non cerchi di fuggire, beninteso, perché senno tu stesso saresti una patetica controfigura di Puerto Escondido, ma semplicemente desideri abbandonare per un po’ di tempo per far emergere energie vitali, positive, per cambiare prospettiva e punto di vista sulle cose, per il solo piacere di sintonizzarti su quanto ti circonda e con la curiosità di confrontarti con qualche cosa di diverso, e magari, perché no, anche con un discreto desiderio di mettere in discussione abitudini e consuetudini della vita quotidiana, metterti alla prova per vedere quanto sei in grado, anche solo per gioco e per poco tempo, di modificare il tuo comportamento.

C’è sicuramente un velato atteggiamento aristocratico e presuntuoso nel desiderio di non imbatterti in un tuo connazionale o concittadino in un viaggio importante, ma non tanto per l’orgoglio “ferito” di non essere l’unico “dei paesi tuoi” ad avere scelto quella meta e con quelle determinate modalità, perché oggi è ridicolo pensare che chiunque non possa, se vuole, raggiungere qualsiasi posto in qualsiasi momento: l’era degli esploratori è finita da un pezzo e, tutt’al più, solo la personale motivazione può spingere il viaggiatore verso mete relativamente meno battute..

No, non è questione di orgoglio e presunzione aristocratica, e non è nemmeno una questione legata agli italiani: probabilmente se fossi inglese, americano, giapponese, penserei la stessa identica cosa dei connazionali; la questione è un’altra.

Probabilmente il fatto di incontrare all’estero un connazionale, un compaesano, uno che parla la sua stessa lingua, per molte persone costituisce uno stimolo irrefrenabile a fare ciò che in patria non farebbe mai, ovvero attaccare bottone con uno sconosciuto, quasi come se fosse Stanley che incontra Livingstone, sicuramente con il sollievo di trovare un volto amico in una terra sconosciuta…e fin qui non ci sarebbe ancora (quasi) niente di male, perché, ripeto, qui non si parla di snobismo; il fatto è: di che cosa ti parla il tuo connazionale? Del suo approccio psicologico al viaggio? Delle emozioni che gli hanno fatto vibrare i neuroni di fronte ad un tramonto nella savana? Dello smarrimento provocato dall’immensità del vuoto pieno di vento della steppa patagonica?

No, il tuo connazionale ti esibisce trionfante davanti al muso il suo nuovo telefonino quadri-band col quale è riuscito a telefonare agli amici del bar (in Italia) e in anteprima assoluta, perlomeno per quanto riguarda l’altopiano tibetano, ti mette al corrente del nuovo centravanti acquistato dall’Inter e dell’aerodinamica del prototipo di Ferrari per la prossima stagione di Formula 1; se sei fortunato ti comunica anche il colore della nuova capigliatura di Valentino Rossi. Poi ti chiede se a Lhasa c’è un buon ristorantino dove mangiare gli spaghetti all’amatriciana, perché è da ben quattro giorni che mangia da far schifo, nient’altro che cucina tibetana (e già perché in Tibet capita di mangiare cucina tibetana!), alla fine, un po’ deluso perché non te ne frega niente né del campionato di calcio né del Motomondiale, si allontana sbiascicando qualcosa del genere: “che strani individui che si incontrano in giro per il mondo, non vedo l’ora di tornare dagli amici del Bar Sport!”

Il tuo connazionale all’estero (e, ripeto, non vorrei essere troppo severo verso gli italiani, probabilmente direi le stese cose di chiunque) è pervaso costantemente da una spasmodica necessità di riprodurre in ogni dettaglio, nei limiti del possibile ma spesso ben oltre questi limiti, tutti gli aspetti della sua quotidianità: il caffè ristretto alla mattina, la pausa-pranzo a mezzogiorno con abbiocchino e relativa pennica, la doccia prima di cena col rituale cambio d’abito che fa tanto chic a prescindere da dove ti trovi, la ricerca della Gazzetta dello Sport, anche se vecchia di giorni, non appena entra in un centro abitato.

Sembra quasi che il viaggio esalti, paradossalmente, ancora di più la ricerca del quotidiano, del familiare, del rassicurante e che ogni minimo cambiamento, ogni dettaglio diverso, ogni alimento e sapore differente dai nostri costituisca un fastidio, un peso che non si va ricercando, quasi un impiccio, un fardello da pagare e non un arricchimento, una scoperta…

Per taluni addirittura costituisce un ostacolo insormontabile che preclude totalmente il viaggio stesso: “io non posso partire perché sto male se non mangio la pastasciutta tutti i giorni a pranzo, se non bevo il caffè all’italiana, se non dormo nel mio letto, se non posso leggere la Gazzetta dello Sport, se non posso vedere il campionato di calcio (o, a scelta, il Motomondiale o il Festival di Sanremo o le ultime puntate di qualche serie televisiva).

Quello che decide di non partire tutto sommato dimostra ancora buon senso e fa un’efficace autoanalisi dei propri limiti e del proprio carattere, ma quello che parte??

Coincidenze 02

Primi anni novanta, vacanze di Natale, Wurzburg, Germania appena riunificata, al termine della Romantichestrasse, la bellissima strada “romantica” di Baviera e Franconia che attraversa alcuni dei meglio conservati paesi medievali tedeschi nel paesaggio fatato invernale, percorsa in auto con gli abituali compagni di viaggio dell’epoca, i due amici Antonio e Katia.

Grande freddo, poca neve, l’inverno nordico che cala come una mannaia alle tre di pomeriggio e ti fa assimilare subito la consuetudine locale di fiondarti in un pub, all’uscita dal lavoro e prima del rientro a casa: appena dentro ti immergi in una sorta di sauna, caldissima, quasi soffocante, trovi a stento un tavolino, ti spogli di tutti gli abiti indispensabili per girare a piedi per ore a otto-dieci gradi sotto zero, quindi via il piumino, il pile o il maglione di lana, ti rimbocchi le maniche della camicia, sudi, ti senti tutti gli sguardi addosso, poi cominci a rilassarti, ti guardi attorno e vedi che ognuno fa gli affari suoi, tutti bevono enormi boccali di birra, tamponano i succhi gastrici con spuntini locali a base di wurstel, salsicce, omelettes di varia fattura, ogni tanto sostituiscono la birra con un bicchiere di vino, poi riempiono di nuovo il boccale … passano mezz’ora, un’ora così, uomini e donne, poi escono nel buio da notte fonda della giornata cortissima e si dirigono a casa, attrezzati a sostenere l’urto del clima gelido di gennaio.

A quel punto o ordini un succo di frutta e due noccioline … oppure ti adegui alle usanze locali, vagamente preoccupato per il carico calorico di questa merenda alla quale seguirà dopo alcune ore la cena, che oltretutto sarà il pasto principale della giornata.

Dopo una sosta in albergo, di nuovo per strada, a cercare un ristorante; nessuno in giro, i locali sono tutti a casa o al pub, turisti ben pochi, praticamente solo noi, o forse no.

Nel buio della notte invernale di Wurzburg incontriamo dei ragazzi di Modena:

– Sapete dove possiamo trovare un ristorante italiano?
– Veramente no, noi stiamo cercando un ristorante locale…
– Siete pazzi? All’estero si mangia così male!
– Forse, ma è anche vero che in un ristorante locale sanno cucinare bene i loro cibi, mentre se vi ostinate a chiedere lasagne o pizza, è molto probabile che non li sappiano preparare bene.
– Siete pazzi! Buona serata!
– Bè … buona serata a voi!

Finalmente troviamo un ristorante che ci suscita simpatia, entriamo, cominciamo a scrutare il menù, escludiamo le cose italiane, Augusta, Antonio e Katia si impegnano nella lettura per ordinare qualche buon piatto di carne e patate, io sono più fatalista e dopo pochi secondi decido di mangiare una misteriosa “chef salade”: la mia ordinazione sembra scatenare un grande entusiasmo nei camerieri, esce anche il cuoco dalla cucina per vedere in faccia colui che mangerà la sua specialità, sembra quasi commosso, forse non gliela ordina mai nessuno: fatto sta che mi arriva un monumentale piatto con tutto ciò che, alla rinfusa, rientra nella categoria “frutta e verdura di stagione” con aggiunta di fette di formaggio e di diversi tipi di affettati locali; superata la leggera inquietudine di accostare al palato simultaneamente prosciutto, fette d’arancio, emmental, kiwi, pomodori e quant’altro, il piatto è buono (qualcuno potrebbe contestarmi il fatto che comunque per me qualunque piatto sarebbe buono), gli ingredienti sono freschi e gustosi, la birra è fredda al punto giusto, tutto è OK, anche gli altri tre piatti sembrano soddisfacenti.

Coincidenze 03

Appena ci apprestiamo a mangiare, entrano nel locale i ragazzi di Modena, non hanno trovato un ristorante italiano (o forse non ne hanno trovato uno di loro gradimento?), sono un po’ abbacchiati:

– Cosa mangiate?
– Io una chef salade, gli altri qualcosa di tipico …
– Siete pazzi!
– Non ci sembrano male …
– Siete pazzi, speriamo che facciano qualcosa di buono.

Si siedono rassegnati, quando noi siamo alla fine della cena li vediamo già alzarsi per uscire, ci passano accanto e ci salutano:

– Avevamo ragione noi, all’estero non sanno cucinare, le lasagne facevano veramente schifo!!

Per loro fortuna, dopo pochi giorni sarebbero tornati in Italia.

Per nostra fortuna, non li abbiamo più incontrati.

Torna indietro

Il messaggio è stato inviato

Attenzione
Attenzione
Attenzione
Attenzione

Attenzione!

Il decretinatore

di Nico Parodi e Paolo Repetto, 13 novembre 2020

Non ce lo siamo inventato noi (magari così fosse! Faremmo più soldi di Zuckerberg). No, esiste davvero, e non è un elaboratore di piccoli quotidiani decreti ministeriali sulle misure di contenimento della pandemia (anche se, un qualche sospetto che qualcosa del genere esista … ), ma un oggetto molto meno sofisticato, la cui storia è ormai più che millenaria e la cui efficacia parrebbe testimoniata da una miriade di ex-voto: uno strumento che ridona la salute mentale.

Nella chiesa di Saint-Menoux, un villaggio del Bourbonnais, a metà strada tra Lione e Bourges (Francia profonda, tipo “cher pays de mon enfance”), un sarcofago in pietra conserva i resti di un eremita del VII secolo, di nome Menulfo (Menoux in francese) e di probabili origini irlandesi. Di ritorno da un pellegrinaggio a Roma, Menulfo decise di trascorrere in quei luoghi tranquilli e ameni gli ultimi anni della sua esistenza di anacoreta, e di beneficare gli abitanti con i suoi miracoli. È naturale quindi che questi ultimi, riconoscenti, gli abbiano dedicata una postuma devozione. Uno in particolare, lo scemo del villaggio, non rassegnandosi alla sua scomparsa e desiderando condividere ancora la presenza del sant’uomo, arrivò a praticare nella lastra laterale del sarcofago (pare con la complicità del curato locale, e ci azzardiamo a non dubitarne, per motivi che ci paiono ovvii) un foro, largo abbastanza da poterci infilare la testa. Col tempo, a furia di sniffare santità, sembra che il poveretto abbia riacquistato tutte le sue facoltà mentali (il che sarebbe confermato non fosse altro dalla pubblicità che fece alla cosa e dai riscontri, anche in termini economici, oltre che devozionali, conseguiti). Risultato : il villaggio, che prima si chiamava Mailly-sur-Rose, cambia nome, il luogo diventa meta di pellegrinaggi, al punto che vi sorge anche una abbazia di benedettini per onorare il culto e per accogliere le frotte di visitatori, e pare anche che goda di una speciale protezione divina, perché l’attuale chiesa, vecchia di novecento e passa anni, ha attraversato indenne (al contrario del convento benedettino) tutte le guerre di religione e le vicende belliche o rivoluzionarie che hanno insanguinato la Francia nel frattempo. Il sarcofago è ancora là, dietro l’altare (in realtà non è l’originale, ma una copia più tarda, comunque egualmente efficace) e la fama di san Menulfo come rigeneratore di cervelli si è consolidata. I francesi l’hanno battezzato la (o le) débredinoire, da bredin, che nell’idioma bourbonnais locale significa povero scemo (Abbiamo scelto di tradurlo con decretinatore con un po’ di malizia. Una delle ipotesi sull’origine del termine cretino lo fa discendere da chrétien).

Secondo la leggenda, e ancora oggi secondo la vulgata turistica, è sufficiente inserire la testa nel foro per ottenere immediati benefici. Nelle manchette pubblicitarie più recenti si sottolineano gli effetti ad ampio raggio della terapia (la cura ad esempio di emicranie e leggere depressioni), il che ipotizza una utenza molto più vasta. Probabilmente si è preso in considerazione il fatto che i cretini, se non sottoposti a trattamento sanitario obbligatorio, sono piuttosto restii a sapere o ad ammettere di esserlo, e questo spiega perché per accedere alla chiesa non ci sia una fila lunga come il cammino di Santiago, o perlomeno come quelle per il tampone rivela-covid. Nelle istruzioni per l’uso, poi, è inserita una controindicazione: non bisogna toccare con la testa i bordi del foro nel sarcofago, pena ottenere l’effetto inverso e rincretinire totalmente. Qualche dubbio sul fatto che ciò possa avvenire, ovvero di come si possa diventare più cretini di quando si decide di provare la terapia, rimane.

Il che ci porta ad alcune considerazioni:

a) la prima, per una associazione di immagini piuttosto che di idee, rimanda proprio al Covid. Se ricordate, nella primavera scorsa, all’inizio di questa disgraziata vicenda, si è scatenato un training autogeno collettivo a base di “andrà tutto bene” e di “ne usciremo migliori”. Il training parrebbe non avere funzionato, ad occhio e croce la situazione d’emergenza sembra avere piuttosto portato a galla tutti i nostri lati peggiori, e all’epidemia di covid se ne è aggiunta una di stupidità. Colpisce soprattutto il fatto che in molti casi persino le persone toccate direttamente dal contagio nella sua espressione più violenta non ne abbiano poi tratto alcun insegnamento, e nessunissimo miglioramento cerebrale. Trump è rimasto per qualche giorno sotto il casco dell’ossigeno, come avesse la testa infilata nel sarcofago di san Menulfo, ma non ne è uscito per nulla migliorato, al contrario. Forse toccava i bordi dello scafandro, in effetti ha un bel testone, o forse ci sono situazioni cui nemmeno la scienza medica o i santi taumaturghi sono in grado di recare soccorso.

b) Un’altra, meno naive e più cerebrale (quindi ve la risparmiamo, accenniamo soltanto) riguarda la rete immensa, fittissima e onnipervasiva che la Chiesa ha saputo costruire in duemila anni di storia, a base di apparizioni, reliquie, statue o quadri piangenti o sanguinanti, nicchie devozionali esclusive, mete di pellegrinaggio, acque o pratiche di risanamento fisico e/o spirituale, ecc. Abbiamo scritto “ha” ma avremmo dovuto scrivere “aveva”, perché nell’ultimo secolo sono comparsi concorrenti sempre più scafati e meglio attrezzati nella gestione dei nuovi strumenti di convincimento, e la chiesa ha visto restringersi come panni bagnati i propri spazi di controllo (anche se non li ha persi del tutto, e il culto di Padre Pio docet). A Saint-Menoux i pellegrini vanno ancora, ma coi bus turistici, e il foro nel sarcofago lo guardano con la stesso spirito col quale gli studenti (e i loro insegnanti) guardano le punte di pietra del museo preistorico o i gessi delle gipsoteche. Pochissimi però infilano dentro la testa: c’è il rischio di essere filmati e di finire immediatamente sui social, in pasto ai nuovi cretini certificati, quelli contenti e orgogliosi di esserlo, che dai miracoli sono esclusi per statuto.

c) L’ultima considerazione è una bazzecola di carattere letterario; concerne l’assenza di un qualsiasi accenno, nella formidabile “Trilogia del cretino” di Fruttero e Lucentini, a questo millenario spiraglio di speranza per una moltitudine di potenziali utenti. Ci è parso strano che spiriti arguti come i loro non ne avessero notizia. Ma poi abbiamo capito: la trilogia è una sorta di trittico alla Jeronimus Bosch, con visioni infernali in tutte e tre le tavole, e vuole offrire un quadro veridico della situazione italiana. Hanno già dovuto operare delle scelte difficili in un materiale strabordante di imbecillità esemplari. Non c’era spazio per l’importazione dall’estero. Per questo al decretinatore ne abbiamo dedicato uno noi.

Abbiamo infatti pensato che se appena appena un po’ funzionasse, sia pure solo per l’effetto placebo, a fronte del contagio esponenziale che sta moltiplicando negazionisti, complottisti, billionairisti, terrapiattisti, no-vax e compagnia sbraitante, con i soldi del MES si potrebbe cominciare a prenotarne una bella partita, possibilmente in pietra e con salma annessa, da mettere a disposizione di tutti, ma con priorità per le categorie più a rischio, a partire naturalmente dai parlamentari. Se invece il MES non lo vogliamo, si potrebbero organizzare treni come per Lourdes. E diverrebbe allora palese l’urgenza, per smaltire l’enorme traffico, di portare a termine l’alta velocità.

Torna indietro

Il messaggio è stato inviato

Attenzione
Attenzione
Attenzione
Attenzione

Attenzione!