Pubblicare?

di Paolo Repetto, 29 ottobre 2025

Un anatema ebraico, pochissimo conosciuto, recita: “Possa il mio nemico pubblicare un libro”. Non è un augurio, anche se lo sembra, né una professione di tolleranza: è una maledizione. Ora, io non so quanto questo detto sia antico o solo vecchio, e ignorando la lingua ebraica non posso che affidarmi alla fedeltà della traduzione nella quale lo conosco: ma so che poter determinare l’epoca in cui è stato coniato sarebbe tutt’altro che indifferente. Nel caso fosse molto antico infatti quel “pubblicare” andrebbe inteso come “scrivere”, piuttosto che diffondere tramite amanuensi in più copie, e per un popolo che è stato definito “il popolo del libro” mi pare un po’ fuori luogo. Anche se è poi vero che il sospetto nei confronti della scrittura era presente pure nella cultura greca (vedi Platone), e che per gli ebrei poteva essere tanto più giustificato, almeno nei confronti della scrittura “profana”, dall’esistenza di un testo sacro dettato da Dio stesso, da considerarsi quindi rispondente a ogni domanda, esauriente ogni dubbio, definitivo (salvo poi darne infinite interpretazioni).

Propendo dunque piuttosto per la seconda ipotesi, che quantomeno rende il concetto più funzionale a ciò di cui intendo parlare. Il problema a mio giudizio non sta infatti nello scrivere, ma proprio nel “pubblicare” (operazione che assume ben altro significato dopo l’introduzione della stampa), ovvero nel divulgare quanto si è scritto. Sono due cose diverse, mi pare ovvio, perché la seconda presuppone la prima – per ora, in attesa degli sviluppi dell’AI – mentre non vale il contrario: e tuttavia quasi sempre nel linguaggio corrente i due verbi vengono usati come sinonimi, mentre tali non sono. La differenza sta innanzi tutto nell’intenzione che muove alla scrittura, e poi nei contenuti e nella destinazione, che comportano scelte particolari nei modi e nei mezzi in cui sarà diffusa.

Voglio dire che, certo, chi scrive lo fa di norma per relazionarsi col presente e per lasciare traccia nel futuro, ma la scrittura può essere utilizzata anche in forma privata, per memorizzare, per chiarirsi le idee e metterle in ordine, per tenere un diario, per accompagnare un gesto o un regalo, oppure per fare arrivare la propria voce ad amici o confidenti, quando magari si diano poche possibilità di frequentazione. Ad esempio: l’uso che ne faccio io in questo momento, sfruttando una tecnologia che mi permette di dialogare facilmente con uno sparuto gruppo di persone che condivide i miei interessi, ovvero le mie domande e i miei dubbi, rappresenta il limite estremo dell’utilizzo “privato”.

Se si va oltre si accede invece ad un’altra dimensione, quella appunto del “pubblicare”, che come il termine suggerisce significa rendere intenzionalmente pubblico il proprio pensiero. E qui entrano in gioco finalità e ambizioni diverse. Io vorrei occuparmi nello specifico del caso di cui l’intenzione è di orientare o influenzare il pensiero altrui, offrendo al maggior numero possibile di sconosciuti delle “risposte”, delle interpretazioni del mondo e della storia che non possono essere controbattute direttamente, come avverrebbe in un colloquio. Nel formato stampa queste risposte assumono un’autorevolezza che è suggerita già visivamente dall’ordine, dalla nitidezza, dall’irreggimentazione delle righe e dei periodi sulla superficie della pagina. Insomma, la parola stampata incute rispetto, e questo consente di esercitare in qualche modo un potere. E anche se i mass media e le nuove tecnologie e modalità comunicative stanno rendendo obsoleta la stampa, credo che per il momento, e almeno per la mia generazione e per quella immediatamente successiva, l’autorevolezza del pensiero sia ancora legata alla divulgazione cartacea.

Naturalmente ci sono anche, e oserei dire soprattutto, altre finalità: quella pura e semplice di ottenere una qualche visibilità, ad esempio, o di trovare un modo per sbarcare il lunario: oppure, un po’ più ambiziosamente, di combinare il tutto e di proporre, alla maniera di Balzac, sia pure attraverso la finzione, un ampio quadro della reale condizione umana. Sarà il tempo poi a decidere della rilevanza e della sopravvivenza di qualsiasi testo, a farne o no “un classico”, o almeno un riferimento che vada oltre il presente.

Ma mi sto perdendo nelle ovvietà. Ciò che intendevo dire è che attualmente tanto la narrativa, più o meno “impegnata”, quanto la saggistica, rientrano allo stesso modo nei circuiti di un “mercato culturale” che ha acquisito una enorme rilevanza sia finanziaria che politica, e rispondono alle sue leggi, in primis a quelle della “spettacolarizzazione” (un mercato culturale in realtà è sempre esistito, ma senz’altro non aveva come caratteristica dominante quella della spettacolarità). Basti pensare ai tour promozionali cui senza alcun ritegno gli autori si sottopongono, compresi gli scienziati e i filosofi, andando a far marchette nei programmi televisivi, intervenendo ai festival o agli altri innumerevoli “eventi” imbanditi per platee di consumatori totalmente passivi e acriticamente fidelizzati, creando quelli che oggi si chiamano podcast, ecc….

Io ritengo esista però anche una terra di nessuno, quella che ospita i libri scritti non per fornire risposte preconfezionate, ma per suscitare domande, alle quali poi il lettore cercherà di rispondere con un percorso tutto suo. Questi sono per me i soli libri meritevoli di essere “pubblicati”, e non è qui il caso di dettagliare i criteri sui quali baso la distinzione. Emergeranno da soli nel prosieguo del discorso.

Vorrei però fosse chiaro che non auspico alcun tipo di censura preventiva o di esclusione o di protezionismo. Quello culturale è l’unico ambito nel quale sposo il libero mercato. D’altro canto ritengo che leggere e scrivere siano, almeno in linea di principio, le attività meno pericolose per sé e nocive per gli altri, e tra le più piacevoli, che un essere umano può svolgere. L’importante per il “consumatore” è avere sempre ben presente che di un “mercato” appunto si tratta, nel quale i banchi e gli scaffali traboccano di prodotti tra i quali può scegliere. Per come la vedo io, però, per poterlo fare è necessario auto-educarsi a un “consumo culturale” consapevole, e farlo per prove ed errori, prendendo le distanze da tutte le azioni “promozionali” di incentivazione alla lettura. Chi deve essere spinto o incentivato, per non dire precettato, a farsi un’idea, non sarà mai capace di scelte proprie.

Esistono dunque i normali prodotti da supermercato, quelli perennemente in offerta, di per sé abbastanza innocui, perché in fondo nessuno ci obbliga ad acquistarli e a leggerli. Ce ne sono invece altri che sempre all’interno di questo mercato si arrogano un ruolo di orientamento del gusto, si propongono come “bio”, garanti della nostra salute spirituale, e ci gratificano vellicando la nostra ambizione a sentirci al passo coi tempi, o anche un pochino avanti: questi, a dispetto della loro più o meno esplicita ambizione a diffondere sempre nuove e definitive “verità”, andrebbero comunque almeno conosciuti, se non altro per prenderne consapevolmente le distanze. E infine ne esistono altri ancora, che negli scaffali vengono confusi con tutto il resto, ma che bisogna imparare a riconoscere come genuini alimenti per la nostra crescita.

In questa ultima tipologia rientrano senz’altro le opere di George Steiner. Steiner è, assieme a Isaiah Berlin, l’ultimo dei veri “maestri” del ‘900. Uno che scrive: “Quello che mi sentirei di sostenere con fervore è questo: la fede (qualsiasi fede, n,d,r), o l’assenza di essa è, o dovrebbe essere, la parte costitutiva più privata, più gelosamente custodita di un essere umano […]. Pubblicizzare svilisce e falsifica irrimediabilmente il proprio credo”.

Proprio da un suo libro, significativamente titolato I libri che non ho scritto (come gli invidio questo titolo, lo avevo in mente da decenni!), arrivano l’anatema di cui sopra e lo stimolo che mi spinge ora a parlarne.

Nel compendio di uno dei saggi mai scritti, ma fatti assaporare al lettore almeno in forma di spuntino, Steiner sintetizza l’opera e il pensiero di Joseph Needham, eccentrico erudito novecentesco, grande sinologo, che mezzo secolo fa viaggiava ancora sulla cresta dell’onda. Io stesso ho sempre riservato all’unico volume che possiedo del suo Scienza e civiltà in Cina (edizione inglese 1954, italiana Einaudi 1981; primo di tre tomi, s’intitola Linee introduttive e costava un patrimonio) una collocazione di prestigio nella mia biblioteca, sezione storia della scienza. Di Needham però, della sua vita, del suo impegno politico, conoscevo quasi nulla.

Steiner invece lo conobbe personalmente, ebbe diverse occasioni di confronto, e pur riconoscendone la sterminata cultura e tributandogli tutti i dovuti meriti non ne traccia un ritratto positivo. A motivare questo giudizio (che a suo tempo ha indotto Steiner a non redigere una biografia dello scienziato britannico per la quale aveva ricevuto dalla sua università un incarico) sono le posizioni pregiudiziali a partire dalle quali Needham affronta qualsiasi argomento. Il suo approccio è infatti sempre rigidamente vincolato all’ortodossia marxista, una ortodossia peraltro non fedele direttamente a Marx, ma alla lettura che di Marx era stata data, e imposta, dal leninismo. Steiner non mette in discussione le competenze scientifiche di Needham, che era in primo luogo un biologo, né la sua capacità di lavorare su un piano multidisciplinare: ma è il dogmatismo di fondo a respingerlo. Non può fare a meno di mettere in rilievo come tanto le competenze scientifiche quanto quelle umanistiche vengano sempre piegate non ad aprire nuove possibilità interpretative dei fatti, ma ad avvalorare una ipotesi iniziale precostituita. E sottolinea come le incursioni in ambiti specialistici sostanzialmente estranei ai suoi abbiano indotto Needham a prendere per oro colato ogni minimo e discutibilissimo indizio, biologico, antropologico, linguistico, architettonico, che sembrasse portare mattoni alla sua ricostruzione della Storia. Ricostruzione che seguiva le linee di un progetto dettato dal clima ideologico postbellico, dal compiersi della decolonizzazione, dagli entusiasmi del terzomondismo.

In pratica Steiner avverte, dietro il meritevole intento di Needham di portare l’occidente a conoscere e apprezzare l’origine extraeuropea di buona parte dei saperi scientifici e delle tecnologie che ne sono discese, il caparbio proposito di forzare l’entità del debito scientifico occidentale nei confronti di un’area che ai suoi tempi era ancora percepita come sottosviluppata, e sullo sfondo quello di capovolgere (non di equilibrare) le posizioni nel rapporto tra le diverse civiltà. La stessa operazione che trent’anni dopo avrebbe ripetuto Martin Bernal con Atena nera, per provare come la cultura greca classica sia assolutamente debitrice di quella africana e mediorientale (cosa di cui peraltro erano ben consapevoli già Pitagora, Erodoto e Platone).

Insomma, il problema di Needham non sta nell’attribuzione di questi contatti e rapporti e finanche di talune priorità, ma nel darne una interpretazione che nemmeno troppo larvatamente colpevolizza l’occidente: nel voler cioè convintamente affermare che in fondo l’occidente non può vantarsi di aver inventato nulla, e che si è limitato a depredare i patrimoni culturali di altre civiltà (come se il valore intrinseco di una conoscenza fosse nella priorità, e non negli sviluppi e nelle applicazioni che ne discendono). E peggio ancora, nel farlo producendo prove documentarie, linguistiche e archeologiche molto abborracciate e in parecchi casi del tutto irrilevanti, quando addirittura non false.

Ora, tutto ciò, per senza nulla togliere al fascino che i lavori di Needham e di Bernal senz’altro emanano, e al rilievo delle ipotesi interpretative che hanno introdotto, dovrebbe però guidare a una giustificata prudenza nell’accettarne il messaggio di fondo. L’assunzione di un altro punto di vista, o del punto di vista altrui, può scuotere e incrinare una lettura della storia consolidatasi sulla narrazione auto-apologetica dei vincitori, ma non necessariamente ne produce una nuova più veritiera. Semmai dovrebbe indurne una più interlocutoria, più possibilista, e non altrettanto assiomatica.

Questo mi porta a una considerazione solo apparentemente marginale, che concerne la differenza tra gli autori “enciclopedici” del Sette/Ottocento e i “tuttologi” imperanti ai giorni nostri. Enciclopedici, per intenderci, erano gli eruditi eclettici come Diderot, Goethe o Alexander von Humbolt, che ambivano a raccogliere in grandi sintesi lo stato delle conoscenze alla loro epoca. Erano curiosi di tutto, e questo li induceva a non dare nulla per scontato, a considerare i saperi di cui erano depositari come punti di partenza. A dispetto dell’ampiezza e della poliedricità delle loro opere, lo scopo che ad esse attribuivano era di indicare possibili percorsi per la ricerca futura, e anche quando fornivano spiegazioni lo facevano nella consapevolezza di produrre delle congetture. Chi avesse la pazienza di leggere oggi il Cosmos di Humboldt, che nel titolo sembra adombrare un’ambizione sterminata, si accorgerebbe che ogni affermazione viene sempre presentata come provvisoria, e che la frase più ricorrente è “Chissà cosa ci riserverà nel futuro la ricerca in questo campo”. E lo stesso scienziato-esploratore non si limitava ad auspicare, ma incoraggiava i giovani naturalisti a ripercorrere i suoi passi, per verificare e al limite contraddire le sue scoperte e le sue intuizioni, e a tale scopo donava loro anche le sue strumentazioni. Ma non è tutto: si accollò personalmente la pubblicazione dell’opera, e dati i costi enormi finì praticamente sul lastrico.

Tra gli enciclopedici e i tuttologi si collocano proprio Needham e Bernal, che esplorano ambiti nuovi, che producono nuove conoscenze relative ai rapporti e agli interscambi tra le civiltà extraeuropee e la nostra, ma non si limitano ad avanzare delle ipotesi, affermano delle tesi. Sono ancora enciclopedici nel senso che sostanziano le loro opere con l’apporto di saperi diversi, anche se padroneggiati con eccessiva disinvoltura, e spesso con molta approssimazione. Sono già tuttologi perché presumono di dare un significato diverso alla storia, affermandone categoricamente non possibilità interpretative inedite ma linee di sviluppo certe e inconfutabili. Non sono tali però a pieno titolo, almeno nel senso che do io al termine, perché ancora non si avvalgono delle più recenti tecnologie e modalità che portano dalla “pubblicazione” alla “pubblicizzazione” di massa. E alla spettacolarizzazione.

Con ciò vengo finalmente al dunque, prendendo tre nomi a caso (in realtà non proprio a caso) tra i più conosciuti oggi dal grande pubblico italiano: Pier Giorgio Odifreddi, Luciano Canfora e Alessandro Barbero. Già il fatto che possa citarli come largamente conosciuti, come “popolari”, la dice lunga: segna la differenza rispetto agli enciclopedici genuini alla Humboldt, conosciuti soltanto da chi li leggeva (ma questo valeva ancora per Needham e Bernal).

Nessuno può negare le competenze matematiche di Odifreddi, meno che mai chi come me nelle scienze matematiche è un asino; ma quando mi ritrovo in mano testi suoi che sconfinano nell’etica o nella politica mi si rizzano i capelli, perché sono trattazioni che non si propongono all’insegna dell’“io la vedo così”, ma a quella del “è così, e ve lo dimostro”. Odifreddi ha nel mirino soprattutto il cristianesimo, e prima ancora l’intera tradizione biblica, che a suo parere ha impresso alla civiltà occidentale, in tutte le sue componenti, il marchio di una distruttiva pulsione al dominio e alla negazione di ogni alterità: ma spinge costantemente la sua critica sino al limite dell’invettiva, e spesso anche oltre, facendo un solo fascio di tradizioni, istituzioni politiche e giuridiche, indirizzi economici, ecc … Col risultato di scorgervi dietro, a tirare le fila, sempre la lunga mano e il modus operandi del capitalismo, nelle sue svariate versioni pre-moderne e poi coloniali, imperialistiche, liberistiche, liberalistiche e pseudo-democratiche. Quello che denuncia, senza arretrare neppure di fronte ad evidenti anacronistiche forzature, è in fondo un progetto di dominio pluto-giudaico che ha informato tutta la storia occidentale, e che sembra ormai ossessionare più le varie sinistre sedicenti rivoluzionarie che le vecchie destre reazionarie.

Discorso appena leggermente diverso si può fare per Canfora e per Barbero, che quanto meno rimangono nell’ambito della loro disciplina: ma la specializzazione disciplinare si è spinta oggi talmente oltre che è difficile concepire una competenza storica estesa dai Neanderthal alla guerra fredda o ai conflitti attualmente in corso.

L’impressione che ho ricavato dalle sempre più frequenti apparizioni di costoro nei salotti televisivi o come conduttori di programmi disegnati a loro immagine, impressione che si riverbera retrospettivamente su tutta la loro opera, è che la storia venga trattata non come terreno di costante esplorazione, ma come pezza d’appoggio per avvallare dogmatiche certezze. Che riguardano, come per Needham e per Bernal, e per Odifreddi, la nefandezza della cultura e della civiltà occidentale e la denuncia di come è andata sviluppandosi. È evidente che qui non siamo a livello dei vari Galimberti o dei nipotini post-moderni di Foucault e di Vattimo: l’operazione che i nostri conducono è assai più sottile e sofisticata, ma il punto d’arrivo è lo stesso.

Si vedano ad esempio il saggio di Barbero sull’impero ottomano e le conferenze che ne ha tratto. È uno stillicidio di confronti che oppongono la tolleranza, la giustizia, l’uguaglianza, la meritocrazia praticate dalla cultura ottomana all’intolleranza, alle diseguaglianze, alla farraginosità giuridica e ai privilegi correnti nella coeva cultura occidentale. Ora, sarà anche vero che ebrei e cristiani erano molto più tollerati nelle terre del Sultano di quanto lo fossero nell’Europa rinascimentale, e che a Costantinopoli non esisteva una aristocrazia del privilegio ereditario, e che le classe dirigente era reclutata senza badare al censo; ma tanto per cominciare il tutto era arbitrariamente gestito da un despota assoluto, che in alcuni casi poteva essere illuminato e in molti altri no, e il cui potere non conosceva limiti o contrappesi, né religiosi, né politici, né giuridici. C’è poi il fatto che le relazioni dei viaggiatori che per cinque secoli hanno attraversato quelle terre (non moltissimi, perché viaggiare lì era estremamente difficile e pericoloso) concordano tutte nella descrizione di un clima di povertà, di sopruso e di violenza, narrano di massacri continui e spoliazioni, nei confronti ad esempio dei Curdi, degli Yazidi, dei Mandei, dei Copti, o delle popolazioni balcaniche o di quelle elleniche. Checché ne dicessero gli ambasciatori veneziani, che vivevano peraltro nel perimetro della corte, ai quali Barbero attinge tutte le testimonianze, la tolleranza era molto più proclamata che praticata. Vigeva invece senz’altro l’uguaglianza, ma nel senso che la violenza arbitraria davvero non faceva sconti a nessuno.

Per capirci meglio. Richiesto nel corso di una intervista che circola sul web di spiegare cosa significa essere di sinistra, Barbero ha risposto che per lui significa vedere una bandiera rossa o una falce e martello e non averne paura, anzi, provare piacere. “Io se vedo un corteo in piazza con le bandiere rosse che protesta mi piace, e quando vedo che la polizia li picchia non mi piace, mentre a tanti borghesi la cosa fa paura o da fastidio, e pensano che la polizia faccia bene a picchiarli. Basta questo, di base, per essere di sinistra”. Il che, pur essendo una semplificazione provocatoriamente voluta, spiega comunque tante cose. Spero almeno non gli dia gioia anche veder bruciare i cassonetti, simbolo del consumismo borghese, o le bandiere, con l’eccezione naturalmente di quella rossa (o di quelle che vanno al momento per la maggiore): oppure le occupazioni delle università e dei licei, dove si fa resistenza antifascista impedendo a chi non è schierato “dalla parte giusta” di prendere la parola. Stiamo parlando di docenti universitari. Se questo è per loro lo stare a sinistra, stiamo freschi. E soprattutto, io dove sono stato fino ad oggi?

Lo stesso vale per il modo in cui Canfora parla della democrazia occidentale, sottintendendo che le sue storture erano già presenti sin dall’origine e si sono semmai amplificate nella versione moderna, contrariamente a quanto la storia ufficiale vorrebbe raccontarci. Tanto da fargli preferire un sistema come quello spartano, non a caso vagamente “comunista” e livellatore (salvo reggersi, né più né meno come quella da lui definita la pseudo-democrazia ateniese, sulla schiavitù), e da indurlo a mostrare un’evidente simpatia per l’odierno modello putiniano, nonché naturalmente un sincero rimpianto per quello staliniano: “Uno statista può essere valutato per quello che ha fatto per il suo Paese. L’opera di Stalin è stata positiva, anche se aspra, per la Russia al contrario di quella di Gorbaciov”.

Siamo insomma di fronte ad un “odio di sé occidentale” che non trova corrispettivo in altre culture. Tutte le altre civiltà hanno mantenuto bene o male nel corso del tempo un’alta considerazione di sé (gran parte dei popoli si attribuiscono in esclusiva lo status di “uomini”, già a partire dai termini con cui si autodenominano, o considerano la loro terra come il centro del mondo): e attribuiscono le cause della loro decadenza, dei loro ritardi (ammesso che li considerino tali), del loro eventuale asservimento, alla protervia dei competitori, a sfortunate congiunture climatiche o al volere di divinità irritate. La negatività occidentale affonda invece le sue radici in un’attitudine autocritica nata già agli albori della modernità (ma volendo se ne potrebbero trovare tracce anche prima: basti pensare a Erodoto, o alla Germania di Tacito): solo che nel XVI secolo con Montaigne questa attitudine si esprimeva in un equilibrato ripensamento delle modalità di confronto con “gli altri”, e successivamente con Montesquieu nella critica delle istituzioni domestiche, tutte cose che rimanevano nell’ambito di ciò che va perfezionato, rivisto, recuperato. È in fondo questo che ha fatto la differenza, permettendo all’Occidente di spezzare i vincoli della tradizione immobilista, di innovare o cancellare istituzioni sclerotizzate, di sperimentare modelli produttivi e rapporti sociali di convivenza del tutto inediti. Con quali risultati non sta a me qui discutere (in realtà su questo sito se ne è già discusso ampiamente): le scorie dell’idea di “progresso” che sino a ieri l’Occidente ha abbracciato sono tante e tali da non consentirmi di esprimere giudizi e proporre scale dei valori. Oltretutto, se mi guardo un po’ attorno e vedo solo opposti fanatismi e l’idiozia al potere quasi ovunque, qualche dubbio sulle nostre scelte non può non sorgermi. Di certo so però che in pochissime altre culture una discussione come questa sarebbe consentita, e vorrei tenermi stretta questa possibilità.

Già in epoca romantica, però, nel mito esotico del buon selvaggio, il saldo del confronto con altri possibili modelli di civiltà diventava negativo, e nel secolo scorso questo confronto si è tradotto in un vero e proprio rifiuto della civiltà e della cultura occidentali, a partire dai suoi presupposti. Un rifiuto tutto “di sinistra”, perché non fa appello alla tradizione, non chiede un ritorno nostalgico ad altri tempi, ma fa tabula rasa del sistema valoriale sul quale l’occidente si è fondato sin dai primordi della storia. Col risultato di approdare a quello che Nietzsche chiamava nichilismo.

Tanto Odifreddi quanto Canfora e Barbero, che a questo rifiuto si associano, non possono però essere propriamente definiti dei nichilisti: portano avanti convintamente le loro teorie sulla deriva occidentale, che fanno risalire di volta in volta a Euclide, a Pericle o a una non meglio definita “borghesia”. Di certo non vanno annoverati tra gli orfani dell’occidente, e non sono tra quelli che ne vaticinano o ne piangono il tramonto: semmai anzi lo auspicano. Ne vogliono disvelare il “marcio”, e pensano che il frutto sia da buttare e che l’albero non sia da potare, ma da capitozzare radicalmente.

Sta di fatto che interpretano il loro radicalismo anti-occidentale come una missione, e questo li spinge ad essere costantemente presenti, sui teleschermi, sui monitor o in libreria. Ho contato in una bibliografia di Canfora, aggiornata al 2024, centotredici volumi pubblicati, una volta e mezza quelli di Simenon su Maigret. In quella di Odifreddi siamo a soli trentasette, su temi che spaziano da Le menzogne di Ulisse a Caro papa ti scrivo, sino a La democrazia non esiste, ma accanto a un profluvio di audiovisivi e di interviste, più di quattrocento partecipazioni a programmi radio e trecento a trasmissioni televisive. Barbero si attesta per ora a quarantotto volumi (ma è giovane e può dare ancora molto), che a questo punto si può dire abbiano un ruolo secondario rispetto all’intensissima attività da star mediatica. Vorranno dire qualcosa questa grafomania e questo delirio di onnipresenza? Questa fame insaziabile di pubblicazioni e di comparsate? Che ci sia dietro la maledizione talmudica?

Cosa c’è dietro non lo so. Sospetto che ad un certo punto le lusinghe del mercato e della popolarità spettacolare mandino in tilt anche menti di indubbio livello, accendendo ambizioni egoistiche che scadono nella piaggeria (si può essere ruffiani in due modi: salendo sulla carrozza dei potenti o assecondando le rabbie più fumose degli “insorgenti”. Non mi risulta che alcuna lezione universitaria o conferenza dei tre sia mai stata contestata o impedita) Ma credo soprattutto che questo “odio di sé” (rivolto però a un “sé” rappresentato da tutti gli altri condomini che abitano la casa occidentale) nasca da una duplice presunzione: quella di aver individuato cosa c’è di marcio in Occidente (a seconda dei casi: un pensiero tutto fondato sulla “ragione calcolante”, una finzione democratica messa in piedi dalle classi dominanti, una narrazione della storia asservita agli interessi imperialistici): e quella di averlo fatto chiamandosi fuori dalla parte guasta del frutto.

Continuo a chiedermi comunque cosa può indurre persone tanto intelligenti a costringersi in una visione e in un uso del loro sapere così preconcetti. Ammettiamo che possano agire la temperie culturale del momento, le esperienze politiche, le ambizioni di cui sopra, tutto ciò che si vuole: ma il conoscere non dovrebbe indurre semmai a staccarsi progressivamente da ogni certezza, a ingolosirsi di ciò che di nuovo può arrivare, a non chiudersi a riccio dietro le interpretazioni dogmatiche. Come si conciliano le due cose?

Azzardo la spiegazione che mi pare più plausibile. Credo che tutto questo nasca dalla paura. Intendo la paura del vuoto che ci si spalanca davanti se appena apriamo gli occhi e usciamo dal recinto di significati che ci siamo costruiti attorno. La paura di affrontare l’assurdità della condizione umana come raccontata ad esempio da Camus, e prima ancora da Leopardi, e su su fino a Lucrezio, di guardarla negli occhi. Non sono molti quelli che reagiscono a questa consapevolezza rassegnandosi non passivamente all’assenza di uno scopo ultimo, e creandosene uno più modestamente temporaneo attraverso l’autodeterminazione etica. Nei più la paura del vuoto e dell’insignificanza induce l’urgenza di “esserci”, o almeno di apparire, e la necessità di aggrapparsi ad una bandiera (possibilmente a quelle prêt-à-porter, e non a quelle che vengono bruciate). Se poi la bandiera la si sventola o la si “indossa” in testa al gruppo, è più facile finire sui teleschermi e reclutare seguaci.

Infatti. Le arringhe dei guru dell’anti-occidentalismo sono subdolamente conformiste e confortanti, perché scodellano ad un pubblico pigro, smarrito e rancoroso verità “certe”, tra l’altro spacciandole come coraggiose “rivelazioni” che smontano le false pseudo-verità precedenti; in realtà non fanno altro che intrupparsi nella corrente revisionistica alla moda. Sembrano chiudere un lungo discorso di ricerca e di smascheramento, ma la loro ricerca era mirata solo a convalidare una visione ideologica pre-costituita.

Alla fine, ad essere verificato mi pare solo l’anatema col quale ho esordito. Continuando a “pubblicare” libri su libri, a ritmi industriali, e a “pubblicizzarli” spudoratamente abbassandosi a tutte le più perverse dinamiche del mercato, gli impavidi dissacratori della menzognera narrazione occidentale finiscono per rivelarsi i peggiori nemici di sé stessi.

P.S.

1. Needham e Bernal non costituiscono casi eccezionali di acquiescenza al dogmatismo marxista. Nella cultura anglosassone, e segnatamente in Inghilterra, furono molti, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, gli intellettuali che fecero propria questa posizione. Si va dagli scienziati, come J. B. S. Haldane, agli storici, come Christopher Hill o Eric Hobsbawm. Ma all’epoca incombeva sull’Europa la minaccia nazi-fascista, e non tutti avevano la tempra di un George Orwell. Per combattere avevano bisogno di indossare una metaforica divisa.

2. É proprio vero che le immagini a volte sono molto più eloquenti di qualsiasi trattazione scritta. Godetevi le icone dei tre moschettieri dell’anti-occidentalismo. Il quarto non è nemmeno uno scudiero, forse un valletto, ma non può essere considerato solo un intruso. In effetti è la testimonianza vivente che qualcosa nella cultura occidentale è andato storto.

3. Qualcuno tra i miei quattro corrispondenti penserà che queste elucubrazioni siano fini a stesse, frutto di una senile involuzione, e che in definitiva non portino a nulla. Su quest’ultima eventualità sono perfettamente d’accordo, ma credo che ogni tanto vadano comunque fatte le pulizie di primavera. Il cervello sarà di lì a poco nuovamente ingombro e disordinato, ma per qualche tempo almeno le idee potranno circolare un po’ più liberamente. In caso contrario, ci ritroveremo di qui a poco ad ammantarci noi stessi di bandiere, o a bruciarle, a recitare slogan, a rovesciare cassonetti. Ad essere cioè incapaci di relazionarci agli altri e alla storia in maniera civile e consapevole. In parole povere, a odiarci.

Il surreale inferno di Leon Spilliaert

di Fabrizio Rinaldi, 29 gennaio 2023 – dall’Album “Il surreale inferno di Leon Spilliaert

Il surreale inferno di Leon Spilliaert copertinaSono in libreria, in cerca di regali per Natale, quando l’occhio viene attratto da una raffinatissima copertina della Biblioteca Adelphi, nella quale la linea nera scontorna un paesaggio solitario, reso con colori tenui e linee quasi geometriche.

Leon Spilliaert 06Il libro è Dall’inferno, di Giorgio Manganelli, e si rivelerà anche interessante. Ma a catturarmi è stata la copertina e non è certo la prima volta. Ormai le librerie sono diventate delle gallerie d’arte. Le copertine – oserei dire soprattutto quelle dei piccoli editori – sono davvero belle e accattivanti (non sempre si può dire altrettanto dei contenuti) e offrono occasioni di inediti incontri con il mondo delle immagini, mentre i grafici hanno affinato la conoscenza delle diverse capacità attrattive dei colori e dei font. Non sono cose banali: ricordo con un fastidio anche tattile la moda in voga negli anni Novanta, che imponeva titoli dai caratteri enormi, colori fosforescenti e, in particolare, i caratteri in rilievo. Facendo scorrere le dita su certi Oscar Mondadori avevi già la certezza che il contenuto poteva essere evitato.

Leon Spilliaert 03Tornando al libro di Manganelli, nel risvolto leggo che il quadro riprodotto in copertina è di Leon Spilliaert (1881-1946), un pittore belga che raffigurava per lo più paesaggi di campagna e spiagge del mare del Nord, creando atmosfere piuttosto cupe.

Spilliaert non arrivava da studi accademici, era praticamente un autodidatta, ciò che non gli impedì di trovare una sua personalissima forma stilistica. Continuò tuttavia a covare per tutta la vita l’insoddisfazione per non vedersi valorizzato dalla critica dell’epoca.

In effetti visse ai margini della cultura belga, conducendo nella nativa Ostenda un’esistenza abitudinaria e isolata, assieme alla moglie e ad una figlia. Nella scarsa considerazione che gli fu riservata in vita come pittore c’entra senz’altro il fatto che la sua attività ufficiale e prevalente, quella che dava da vivere a lui e alla sua famiglia, era di illustrare di romanzi per adulti, peraltro in un’epoca nella quale l’illustrazione faceva tutt’uno con il testo. E questa pratica la si riconosce pienamente anche nelle scelte stilistiche e cromatiche della sua pittura. Era poi tormentato da diversi problemi fisici che gli producevano una costante irrequietezza e una insonnia cronica, sedate con lunghe e solitarie camminate notturne fino all’alba, lungo la spiaggia del suo paese. Traeva ispirazione da ciò che vedeva non allo spuntare del sole, ma negli attimi appena antecedenti, quelli in cui il cielo comincia a mutare colore, passando dalle sfumature più scure alle tonalità meno cupe: e questo spiega le tele intrise di solitudine e le atmosfere surreali, oniriche e misteriose.

Vi compaiono in genere figure umane che camminano su spiagge deserte, lungo sentieri che si perdono in lontananza: o in altri casi vagano nella notte, fra edifici scuri appena abbozzati dalla luce dei lampioni, unico appiglio cui aggrapparsi per uscire dall’incubo.

Come si può immaginare, Spilliaert amava sia la letteratura onirica di Edgar Allan Poe (di cui aveva illustrato alcuni testi) che la filosofia eversiva di Friedrich Nietzsche. E nei suoi dipinti sono rintracciabili riferimenti ai paesaggi romantici di Caspar David Friedrich e a quelli inquietanti di Edvard Munch e di Vilhelm Hammershøi, mentre l’uso marcato di giochi prospettici anticipa i lavori di Giorgio De Chirico.

Leon Spilliaert 02L’impiego di pochi colori e la predominanza del nero accentuano la tensione introspettiva; al tempo stesso l’uso di tinte terrose e marine, dalle quali emerge uno sprazzo di luce gialla o bianca, crea l’impressione che l’osservatore emerga dalle tenebre. Un lampo di speranza che squarcia l’atmosfera tetra. Le sue insicurezze e i suoi dubbi tornano poi nei giochi di specchi che caratterizzano gli autoritratti.

A dispetto di tutto e di tutti Spilliaert ha creduto fino in fondo nella propria poetica ed è considerato oggi uno dei massimi esponenti dell’Espressionismo belga.

Leon Spilliaert 04

L’immagine della copertina, come dicevo, mi ha molto colpito. Ma evidentemente sono un po’ strano, perché – a differenza dei molti che sono andato a consultare – non trovo i suoi dipinti così inquietanti, tetri e intrisi di solitudine. Li considero invece piacevoli e rilassanti, quasi rassicuranti, come mi accade per molte opere di Mark Rothko. La semplicità con cui suddivide gli spazi, i colori tenui, mai urlati, hanno un ché di pacato e meditativo.

Ci vedo comunque una speranza, una luce che s’intravvede nelle tribolazioni quotidiane. Dunque, sono proprio strano …

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Collezione di licheni bottone

Passeggiate nei boschi narrativi

Il viaggio e l’escursione nella letteratura e nella saggistica per ragazzi (di tutte le età …)

di Fabrizio Rinaldi e Paolo Repetto, 30 maggio 1997

Passeggiate nei boschi narrativi copertinaGli itinerari suggeriti in questa rassegna sono frutto di scelte molto personali, in qualche modo arbitrarie, ma anche di un preciso intento: quello di proporre solo cose che in tempi diversi hanno alimentato e soddisfatto le nostre curiosità e la nostra passione. Sono indicazioni di lettura sul tema del viaggio, e segnatamente sul “camminare” e sullo stretto legame che in­tercorre tra il camminante e l’ambiente che lo circonda. Sono rivolti tanto ai fanciulli di ogni età, quelli anagrafici e quelli che hanno comunque conservati intatti il piacere di viaggiare con la fan­tasia – quando non possono fare altrimenti -, la curiosità genuina per gli altri e per l’altrove e soprattutto la capacità di sognare e di stupirsi in proprio.
A questi Peter Pan (che sono – siamo – molti più di quanto non si creda) le prime rotte per l’isola che non c’è sono state tracciate da Verne e da Salgari, da Tommy River e da Corto Maltese: e queste rimangono ancora oggi rotte piacevolissime da percorrersi. Noi vorremmo suggerirne anche qualche altra, non meno affascinante. Solo per indicare la direzione, s’intende: tolte le an­core, ciascuno è poi capitano di se stesso.

Simbolo mostra Ragazzo che cammina

Alla scoperta del mondo


Incanto di montagne maestose, di gole profonde come abissi, di picchi alti come campanili. Marco Polo, attonito, si imprime nel cuore quelle immagini e tanti anni dopo le ricorda lucidamente: “Vi dirò come sono queste montagne. Sono molto elevate sì che uno deve camminare da mattina a sera se vuol giungere al sommo. Ma, una volta arrivati, si trovano vasti pianori, dove abbondano erbe e le piante, dove le acque sorgive, copiose e purissime, si rovesciano come fiumi giù per dirupi”.

L’Autore ripercorre la storia delle esplorazioni con la competenza che gli è propria e che è frutto non solo di lungo studio e di profondo amore, ma anche di una concreta esperienza.
Dalla collaborazione dello studioso con l’esploratore è nata così un’opera ricchissima e complessa, che non si esaurisce in una esplorazione freddamente storica, ma di­viene un racconto reso vivo e vibrante dall’elemento geografico sempre presente, da brani di diario, da aneddoti che meglio servono a inquadrare figure e avvenimenti, e da un continuo fervore di partecipazione umana alla grande avventura, mai esaurita e conclusa.
Largo spazio è stato dato in queste pagine agli esploratori italiani, che hanno lasciato orme gloriose sulla via di tutti i continenti, senza tuttavia sminuire il valore e l’importanza delle imprese compiute dai grandi esploratori stranieri.
Silvio Zavatti, Alla scoperta del mondo – Storia delle esplorazioni, Mursia 1972

Il libro delle esplorazioniHumboldt sperimentò ampiamente sul suo corpo le difficoltà opposte dal fiume a tutti gli intrusi. La piaga delle zanzare, dei tafani, dei “piumes” e di altri insetti succhia­tori di sangue era intollerabile perfino agli indiani; gli esploratori soffrivano per gli incessanti rovesci di pioggia e la fame li tormentava – il loro nutrimento consisteva in banane, manioca, acqua e talvolta un po’ di riso. […]
Nonostante tutto, Humboldt potè scrivere: “Sono penetrato nell’interno fino alle sor­genti dell’Orinoco … Di oltre cinquanta luoghi ho determinato la latitudine e la lon­gitudine, ho osservato molte comparse e scomparse di pianeti e farò un’esatta carta di questo immenso paese, abitato da più di duecento popolazioni indiane, la maggior parte delle quali non ha veduto ancor mai un uomo bianco; esse parlano lingue di­verse e posseggono culture diverse”.

Questo libro non è un’apologia di eroi.
Avrebbe potuto esserlo facilmente, perché ben di rado una così piccola schiera di uomini ha tanto contribuito alla trasformazione del mondo quanto i navigatori, i con­quistatori e gli esploratori europei dell’epoca delle scoperte. Furono così arditi – o temerari – da spingersi sino ai confini del mondo ed oltre.
Questo libro tenta di descrivere gli avvenimenti come realmente si svolsero, con i loro moventi e atti grandiosi, vili o fortuiti, con la temerarietà, energia, mancanza di scrupoli, abilità e dedizione che resero possibile il successo, allargarono il mondo co­nosciuto e lo trasformarono.
Joachim G. Leithäusen, Il libro delle esplorazioni, Ed. Massimo 1963

L africa Esploratori nel continente neroSono andato con Sekeletu a vedere le cascate che qui chia­mano “Chongué” o “Mosi-oa-Tunya”. Aventi minuti di na­vigazione da Calai si scorgono grandi colonne di vapore. Il panorama è stupendo. Mi sono fatto lasciare in un’isola situata quasi in mezzo al gorgo d’acqua e da lì ho goduto dello spettacolo: il fiume, largo un chilometro, diventa im­provvisamente un’unica massa impetuosa che precipita lungo un abisso stretto appena venti metri. È il passaggio più avvincente che abbia mai contemplato in Africa. Ho dato a queste cascate il nome Vittoria. Dopo aver piantato nell’isola un centinaio di noccioli di pesca e di albicocca e una quarantina di chicchi di caffè, per dar vita a un giar­dino che un indigeno mi ha promesso di cingere con una siepe e di curare, ho inciso su un albero le mie iniziali e, sotto, la data: 1885.
DAVID LIVINGSTONE

All’inizio dell’Ottocento il cuore dell’Africa era ancora una “terra incognita”. Burton, Speke, Baker, Stanley, Livingstone, Brazzà, Miani, Kingsley: con le loro spedizioni, in pochi decenni, sono state scoperte le sorgenti del Nilo, esplorati i bacini del Congo e dello Zambesi, conquistati i Monti della Luna.
L’avventura dei grandi esploratori ha rivelato all’Europa le straordinarie ricchezze del continente nero, alimentando le sue mire imperialistiche. Quando inizia il nuovo secolo, tutta l’Africa è ormai sottomessa alla dominazione coloniale.
Anne Hugon, L’Africa – esploratori nel continente nero, Electa/Gallimard 1994

EsploratoriMarciamo sotto la pioggia, lungo il golfo, che forse ci offrirà qualche sorpresa. Esso, col prolungasi dentro terra, diventa sempre più enigmatico. È quasi impossibile vedere il chiaro specchio delle acque traverso le alte canne palustri delle rive. La speranza di saper qualche cosa sorge e svanisce ad ogni curva di questa landa di sabbia.

La seconda metà dell’Ottocento segna il culmine della penetrazione coloniale in Africa caratterizzata dalle grandi esplorazioni nell’interno della cosiddetta Africa nera. Il capitano Vittorio Bottego, partendo dalla Somalia, compie una serie di esplorazioni lungo il corso del Giuba, attraverso il deserto dell’Ogaden e, infine, alla ricerca delle misteriose sorgenti del fiume Omo nei territori del Kenia, del Sudan e dell’Etiopia. Di questa impresa viene tenuto un diario da parte di due membri della spedizione che riescono miracolosa­mente a trovare la via del ritorno mentre Bottego perisce.
Attraverso territori sconosciuti, che le carte geografiche di allora indicavano unica­mente con una vasta macchia bianca, Bottego, i suoi compagni e la sua carovana pro­cedono in mezzo a mille pericoli e insidie, aggrediti da tribù selvagge, tormentati dalla fame, stremati dalla sete, decimati dalle malattie, ma procedono fino alla meta.
 L. Vannutelli – C. Citerni, Esploratori. Alla ricerca delle sorgenti del fiume Omo, Tasco 1987

I devastatoriSono passati circa duecento anni da quando Carlo Linneo, do­cente all’Università svedese di Uppsala, ebbe a notare con disap­punto che, sebbene gli atti di eroismo compiuti dagli studiosi di botanica non fossero di alcun modo inferiori a quelli che avevano reso grandi “re, eroi e imperatori”, ad essi veniva negato un uguale riconoscimento di valore i immortalità. Sembra anche che aggiungesse, con la cupa seriosità tipica della sua razza: “Quale lavoro è più arduo, quale scienza più faticosa della botanica?”.

L’autore è riuscito a stipare in questo libro più di tre millenni di storia delle più avventurose spedizioni alla ricerca di piante e fiori sconosciuti. “Cacciatori di piante” disposti a tutto pur di raggiungere lo scopo di clas­sificare, identificare esseri vegetali.
 Tyler Whittle, I cacciatori di piante, Rizzoli 1980

 

I racconti del grande nordL’uomo che volge le spalle alle comodità di una civiltà più an­tica per affrontare la selvaggia giovinezza, la primordiale sem­plicità del Nord, potrebbe valutare la sua riuscita in ragione in­versa alla quantità ed alla qualità delle sue abitudini incurabil­mente consolidate. Scoprirà presto, se è la persona giusta, che le abitudini materiali sono le meno importanti. Il rinunciare a un menù raffinato per del cibo grossolano, a delle scarpe di cuoio rigido per dei mocassini morbidi e informi, ad un letto di piume per un giaciglio nella neve, è dopo tutto cosa abbastanza agevole. Ma avrà il suo da fare ad imparare in maniera adeguata a foggiare il proprio atteggiamento mentale verso tutte le cose, e in particolare verso gli altri uomini.

Fra l’estate del 1897 e l’autunno del ‘98 il ventiduenne Jack London visse la più grande avventura della sua vita, intraprendendo un lungo viaggio nel Grande Nord, al confine tra Canada e Alaska, raggiungendo le migliaia di disperati di ogni età e con­dizione partiti per la corsa all’oro nello Yukon. A quell’esperienza straordinaria sono ispirati questi racconti. Queste storie di sogni impossibili, di indiani, ragazzi, cerca­tori d’oro, uomini soli con se stessi nel momento della prova suprema, oltre la quale nulla può esistere, sono tra le più belle che London abbia mai scritto.
 Jack London, I racconti del Grande Nord e della corsa all’oro, Newton 1992

Derzu UzalaDersu camminava in silenzio e guardava tutto con indiffe­renza. Io mi entusiasmavo del paesaggio, lui invece esami­nava un ramo rotto all’altezza della mano di un uomo, e da come era stato piegato, capiva la direzione tenuta dall’uomo. Dalla rottura più o meno recente egli risaliva a quando il fatto era accaduto, indovinava il tipo di scarpe ecc. Ogni volta che io non capivo qualcosa o manifestavo qualche dubbio, mi diceva:
– Hm! Tu essere bambino. Così camminare, scuotere testa. Occhi avere, non vedere, non capire. Tu essere uomo che vivere in città. Non occorre cercare cervo; volere mangiare, comprare. Solo, tu non potere vivere su monti, morire pre­sto.

Dersu Uzala è un diario di viaggio scritto dal capitano Arsen’ev, esploratore e geo­grafo, durante una serie di viaggi nelle lontane e allora (siamo agli inizi del 1900) poco conosciute terre della Siberia.
Nella prima di queste spedizioni conosce e fa amicizia con uno strano personaggio, Dersu Uzala, un uomo senza casa, senza famiglia, che vive tutto l’anno nella tajga.
Si stabilisce subito una affettuosa amicizia fra Dersu e il capitano; quest’ultimo pro­pone al cacciatore di accompagnarlo lungo il viaggio. Dersu accetta, non finendo mai di stupire Arsen’ev per la sua abilità e soprattutto per la sua umanità, facendogli da maestro e da guida.
Fa da sfondo alle varie avventure la natura, selvaggia e pericolosa, ma tuttavia ricca di fascino, di bellezza, ed insieme il fascino dell’uomo che lotta con essa.
Vladimir K. Arsen’ev, Dersu Uzala – Il piccolo uomo delle grandi pianure, Mursia 1984

In cerca di guaiAvrebbe fatto un viaggio! Per me, che non mi ero mai al­lontanato da casa, la parola “viaggio” era quanto di più allettante si potesse immaginare. Presto si sarebbe tro­vato a centinaia di miglia da me, in mezzo a praterie e deserti sconfinati, e sulle montagne del Far West! Avrebbe visto i bisonti e gli indiani, e i cani della prate­ria, e le antilopi, e chissà quante avventure gli sarebbero capitate: lo avrebbero impiccato, magari, o scotennato, si sarebbe divertito un mondo e ce lo avrebbe scritto e sa­rebbe diventato un eroe.

Nel 1861 Mark Twain parte per il Far West al seguito del fratello Orion, nominato Segretario del Territorio del Ne­vada. Dopo ventun giorni di diligenza, in mezzo a pae­saggi stupefacenti popolati di pistoleri, mormoni, pony express, indiani ante-beatificazione e resti di carovane, diventa milionario per una settimana e approda infine, per fame, a quelle corrispon­denze per i giornali che gli daranno la celebrità. Questa è, in grezza telegrafia da terre di frontiere, la materia di In cerca di guai. Come sempre candido e scaltro, trasci­nante umorista e infiammato fustigatore, Mark Twain irride ogni cosa, dal governo centrale ai coyote, e ci offre una sequenza di settantanove capitoli che sono ciascuno un piccolo romanzo, con la prodigalità di un giocatore di roulette che per la prima volta è uscito dalla bisca senza farsi ripulire. Ogni capitolo è una chiacchierata in­torno al fuoco – e la somma di queste chiacchiere è un’epopea. Twain ride per so­pravvivere, e far sopravvivere, in mezzo agli orrori e allo splendore del West. E alla fine ci consegna uno di quei rari libri che divertono in qualsiasi punto li si apra – e dove ancora circola, pungente, il profumo selvatico dell’America.
Mark Twain, In cerca di guai, Adelphi 1993

LatinoamericaEra un mattino di ottobre. Ero andato a Córdoba approfit­tando delle vacanze del 17. Sotto il pergolato della casa di Al­berto Granado bevevamo mate zuccherato commentando tutte le ultime traversie della “porca vita”, e intanto ci dedicavamo alla manutenzione della Poderosa II. […]   Sui sentieri dell’immaginazione arrivammo a remoti paesi, na­vigando per mari tropicali e visitammo tutta l’Asia. E all’improvviso, materializzata dai nostri sogni, sorse la do­manda: e se ce andassimo in Nordamerica?
“In Nordamerica? E come?”
“Con la Poderosa, che diamine!”
Così venne deciso il viaggio, che in ogni momento si sarebbe attenuto alla linea generale su cui era stato progettato: l’improvvisazione. […] Ogni altro problema che non riguardasse la nostra impresa ci sfuggiva in quel momento, vedevamo solo la polvere della strada e noi sulla moto a divorare chilometri nella fuga verso Nord.

La vita di Ernesto Che Guevara e la sua esperienza politico-rivoluzionaria sono note a tutti. Meno nota, forse, è la sua giovinezza, di cui, qui, presentiamo un fondamentale capitolo.
Il diario del Che è il resoconto dettagliato di migliaia di chilometri, dall’Argentina al Venezuela, del viaggio in moto compiuto con il suo amico e compagno di studi Al­berto Granado. Avventure e emozioni inframmezzate da infinite riflessioni sui mille aspetti dell’America, la miseria degli indios, l’emozione di vedere l’oceano … e dai suoi ventitré anni, con la voglia di organizzare uno scherzo, innamorarsi e corteggiare le ragazze, mentre la moto perde pezzi per strada, provocando cadute tragicomiche.
Il diario di Alberto Granado – una collezione di aneddoti e situazioni divertenti de­scritti con la felicità di chi fa un viaggio sognato sin dalla più giovane età – è una te­stimonianza ulteriore sull’amico Ernesto: generoso, intelligente, corsaro, poco lo­quace, tormentato dall’asma eppure sempre entusiasta, in cerca dell’avventura e in­fiammato da quel desiderio di vivere e di conoscere che lo accompagnerà per tutta la sua breve esistenza.
Ernesto Che Guevara – Alberto Granado, Latinoamericana, Feltrinelli 1993

L anello di acque lucentiCapii quella volta che Mij significava per me assai più della maggior parte degli esseri umani di mia conoscenza, che avrei sofferto per la perdita della sua presenza fisica molto di più che per la loro, e non me ne vergognavo affatto.
Stanco di dare la caccia ai pescecani al largo delle isole Ebridi, Maxwell riceve una insolita offerta: una vecchia casa disabitata, un tempo a guardia di un faro, nelle West Highlands: Camu­sfeàrna, la Baia degli ontani. Il suo desiderio di un rapporto di­retto con la natura, non stravolto dalla “civiltà” urbana si realiz­zerà pienamente in questo angolo della Scozia. In questo mondo di scogli e di mare, persone, cose e animali parlano con lui – e col lettore di queste pagine percorse da una profonda sensibilità e da una sottile ironia – il linguaggio del rispetto reciproco, ignorando le sopraffazioni meschine di cui vive la società d’oggi.
Durante un viaggio in Iraq, presso i semisconosciuti arabi delle paludi, Maxwell ac­quista un irresistibile cucciolo di lontra – di una specie, fra l’altro, ancora ignota alla scienza. Da allora la sua esistenza muterà completamente per modellarsi su quella della sua lontra, e delle altre che la seguiranno. E questi animali giocherelloni e im­prevedibili, affettuosi e selvaggi sono i veri protagonisti del libro.
Gavin Maxwell, L’anello di acque lucenti, Rizzoli 1980

Uomini boschi e api2In uno slargo di bosco si sedette sotto un grosso abete bianco, riaccese la sua pipa e serenamente aspettò che ritornassero giù i cacciatori dalla montagna perché gli raccontassero. Nel frattempo ascoltava il bosco.

È il mondo di Rigoni Stern, i suoi inverni, con i segni rossi sulla neve del lepre ferito, le sue primavere, con le coturnici che cantano, e i prati che si riempiono del giallo del tarassaco e di sciami di api e la sua gente.
Mario Rigoni Stern, Uomini, boschi e api, Einaudi 1980

Il bosco degli urogalli

Era una sera di maggio del 1945, come questa. I due alberi c’erano ancora, e c’era la strada dove aveva tanto giocato, c’erano la corte con il cancello e i gradini di pietra; c’era an­cora il colore verde che aveva dato al cancello prima di partire […], sulla porta c’era anche la sedia dove il nonno fumava la pipa guardando i rondoni e la maniglia d’ottone che la madre lucidava con farina gialla e aceto.
Sentì chiamare, gridare, piangere tanta gente attorno a lui. Nella camera c’erano sempre i tre letti di ferro dove aveva dormito con i fratelli. Il suo posto vicino al muro, le lenzuola con su ricamate le iniziali della nonna, i cuscini di piuma con le fodere rosse. Non dormì, ascoltò la casa tutta la notte finché le rondini incomincia­rono a cantare sotto il portico. In tanti anni non le aveva mai sentite.
Partiva al mattino e ritornava alla sera, girava tutto il giorno per i boschi come avesse da cercare qualcosa, così per tanti giorni. Finché una sera il vecchio zio curvo e bianco lo invitò a vangare l’orto. Quando ebbero finito disse il vecchio: – Domani dobbiamo zappare le patate.

 Il bosco degli urogalli raccoglie storie di cacciatori, di animali selvatici, di cani, di montagne, in cui si respira un senso di spazi aperti, di paesaggi impervi, e soprattutto una calda presenza umana. Rigoni sa rendere la limpida immediatezza delle cose e delle giornate, e insieme ad essa un accento di virile fiducia nella vita. Queste pagine confermano “il dono della semplicità e di poesia che gli è proprio – ha scritto Geno Pampaloni -. Ritroviamo l’accento del sergente Rigoni là dove si narrano storie di caccia, il silenzio del bosco, i villaggi chiusi nell’inverno e il grato fuoco delle cucine e la limpida solitudine delle albe per i sentieri di montagna: quel paesaggio fraterno e familiare e forte come una presenza morale, la cui immagine antica e gentile egli ri­trovava tra i contadini di Russia, nelle povere isbe coperte di neve”.
Mario Rigoni Stern, Il bosco degli urogalli, Einaudi 1981

Storie naturaliIl cacciatore d’immagini
Salta dal letto di buon mattino, e parte soltanto se il suo spirito è chiaro, il suo cuore puro, il suo corpo leggero come un vestito d’estate. Non porta con sé alcuna provvista. Berrà l’aria fresca per la via, e respirerà gli odori salubri. Lascia a casa le armi e s’accontenta di aprire gli occhi. Gli occhi servono da reti, dove le immagini s’imprigionano da sé.
Coglie l’immagine dei grani ondeggianti, delle erbe mediche appetitose e dei prati orlati di ruscelli. Coglie al passaggio il volo d’un’allodola o d’un cardellino.


L’anitra immobile nello stagno, il salto di un pesce a pancia in su, una tacchina tronfia delle sue piume, cigni e farfalle, lucer­tole e lepri: questi e altri animali sono le “prede” di un singolare cacciatore d’immagini: lo scrittore francese Jules Renard.
Appassionato osservatore della natura quotidiana, in queste sue “Storie naturali” Re­nard raduna in uno zoo colorato e domestico gli animali incontrati durante le sue pas­seggiate tra cascine e aie, viottoli e stagni. Ne nasce un “album” unico: “le sue imma­gini – come osserva Italo Calvino nella sua presentazione – sono fantasiose ma sempre con un tono secco ed esatto: non c’è mai zucchero; alle volte un po’ d’amaro”.
Jules Renard, Storie naturali, Einaudi 1977

Mitologia degli alberiNell’antichità solo gli alberi degni di nota e indicati da un segno sovrannaturale diventavano oggetto di un culto, ma non per questo tutti gli altri non possedevano ognuno un’anima corrispondente alla sua particolare specie. A volte si trattava di un essere semidivino di cui la specie portava il nome e che si presumeva averle dato vita; il più delle volte era una ninfa che aveva subito una metamorfosi.

Di questi tempi si parla con insistenza sempre crescente della distruzione dei boschi e delle foreste del pianeta e dei suoi ef­fetti a lungo termine sull’insieme degli esseri viventi. Ma troppo spesso si dimentica che con gli alberi scompare anche un prezioso patrimonio dell’umanità. Perché è esistita un’epoca in cui le piante venivano considerate la manifesta­zione più immediata e concreta della divinità. Alle piante gli uomini si rivolgevano per chiedere protezione e conforto. Intorno ad esse fiorivano miti straordinari che toccavano i cuori e rasserenavano gli animi. E a ciascuna specie, a ogni albero veni­vano attribuite caratteristiche particolari, perché in ciascuno di essi il mistero della natura e quello del divino trovavano un diverso equilibrio.
Jacques Brosse ha ricostruito questo mondo perduto, raccogliendo racconti e tradi­zioni dall’immenso serbatoio delle mitologie egizia, semitica, cretese, indiana, greca, latina, germanica, celtica. Quella così compilata è dunque in primo luogo una piccola ma esauriente enciclopedia dei miti legati alle diverse specie: quercia, pino, frassino, betulla, noce, cipresso, fico, ulivo, melo, vite …
Jacques Brosse, Mitologia degli alberi, Rizzoli 1991

La mia famiglia e altri animaliA poco a poco la magia dell’isola ci avvolse gentile e persistente come un polline. Ogni giorno portava con sé una tale tranquil­lità, una tale durata fuori del tempo da far desiderare che non finisse mai. Ma poi la pelle scura della notte si sbucciava ed ecco un nuovo giorno davanti a noi, lustro e colorato come una decalcomania, e con lo stesso tocco di realtà.

“Questa è la storia dei cinque anni che ho trascorso da ragazzo, con la mia famiglia, nell’isola greca di Corfù. In origine doveva essere un resoconto blandamente nostalgico della storia naturale dell’isola, ma ho commesso il grave errore di infilare la mia fa­miglia nel primo capitolo del libro. Non appena si sono trovati sulla pagina non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno, e hanno persino invi­tato i vari amici a dividere i capitoli con loro”: così Gerald Durrell presenta questo li­bro, uno dei più universalmente amati che siano apparsi in Inghilterra negli ultimi trent’anni. Ma il lettore avrà il piacere di scoprirvi anche qualcos’altro: la storia di un Paradiso Terrestre, e di un ragazzo che vi scorrazza instancabilmente, curioso di sco­prire la vita (che per lui, futuro illustre zoologo, è soprattutto la natura e gli animali), passando anche attraverso avventure, tensioni, turbamenti, tutti però stemperati in una atmosfera di tale felicità che il lettore ne viene fin dalle prime pagine contagiato.
Gerard Durrell, La mia famiglia e altri animali, Adelphi 1991

Il leopardo delle neviDopo un attimo, sollevando lo sguardo, mi pose a sua volte un interrogativo non fa­cile. Mi disse che capiva come mai GS, essendo un biologo, avesse deciso di percor­rere centinaia di chilometri in alta montagna per raccogliere sull’altipiano del Tibet informazioni scientifiche. Ma perché mai ci andavo anch’io? Che cosa speravo di trovare? […]
Come avrei potuto dirgli che speravo di penetrare i segreti della montagna sulle tracce di qualcosa che tuttora ignoravo e che, come lo yeti, continuava a non essere visto proprio perché era l’oggetto di una ricerca?

Il leopardo delle nevi, il più bello e il più raro dei felini, vive sull’Himalaya ad al­tezze inaccessibili, non scende mai a valle e la sua stessa esistenza è avvolta in un alone di leggenda. È nella speranza di vederlo che Matthiessen ha compiuto due spe­dizioni scientifiche nella zona. Egli, colpito da questa figura apparentemente più sim­bolica che reale, si è addentrato nei misteri della spiritualità tibetana.
Peter Mathiessen, Il leopardo delle nevi, Frassinelli 1993

 

Il pollice del pandaMa la storia della vita, per come la interpreto io, è costituita da una serie di dati stabili, punteggiati a intervalli da grandi eventi che avven­gono con una grande rapidità e servono a realizzare il successivo pe­riodo di stabilità.

La natura fa salti, eccome. Il più brillante dei paleontologi ci prende per mano lungo i sentieri e le svolte dell’evoluzione. Si parla dell’intelligenza dei dinosauri, dell’uomo fossile, di Topolino …
Stephen Jay Gould, Il pollice del panda – Riflessioni sulla storia naturale, Ed. Riuniti 1993

 

Viaggio a ritrosoÈ quindi ora, al ritorno, che comincerà la loro vera escursione, poiché la fantasia sarà, d’ora in poi, la loro guida ed essi viaggeranno nei loro ricordi.

Nel 1859 Jules Verne ha trentuno anni e sogna di viaggiare. Gli viene offerta l’occasione di visitare, insieme ad un amico, l’Inghilterra e la Scozia. Partiti da Nantes per sbarcare a Liverpool, sono costretti a pas­sare per Bordeaux, da cui il viaggio “a ritroso”.
Jules Verne, Viaggio (a ritroso) in Inghilterra e Scozia, Biblioteca del Vascello 1990

CamminareLe armi con cui abbiamo conseguito le vittorie più gloriose, quelle che dovrebbero venir trasmesse in eredità di padre in fi­glio, non sono la spada e la lancia, ma l’accetta, la falce, la vanga e la zappa, arrugginite dal sangue di infinite praterie, e annerite dalla polvere di infiniti campi che solo con la dura lotta poterono coltivare.

Camminare è il testo di una conferenza tenuta da Henry David Thoreau per la prima volta al Concord Lyceum il 23 aprile 1851; ben presto diventa il suo testo più noto e preferito e lo legge più volte, negli anni successivi, ampliandolo progressi­vamente. In esso, centrale è il simbolismo legato all’escursione come modello di vita: il quotidiano vagabondare nella natura costituisce una sorta di strategia di sopravvivenza sia reale che simbolica e l’anelito al movimento è nella sua essenza desiderio di liberazione dall’ansia e dal malessere avvertiti nel mondo.
Thoreau si fa così portavoce di un paradosso: il successo, l’assillante corsa al potere e alle prosperità materiali possono essere l’amara ricompensa di una sconfitta, mentre la vita in solitudine e in oscurità può offrire doni preziosi e insospettati.
Henry David Thoreau, Camminare, Mondadori 1991

Walden o Vita nei boschiMi ero ritirato qui, nel grande oceano della solitudine nel quale si vuotano i fiumi della società, ed ero tanto tanto lontano che, per la maggior parte – per ciò che riguardava le mie necessità – solo il sentimento più fine si depositava intorno a me.

Testimonianza di una scelta di vita compiuta al di fuori di ogni schema, Walden è l’affascinante resoconto, redatto in uno stile che sta tra il saggio e il diario, dei due anni di soggiorno solitario che Thoreau trascorse in una foresta del New England.  Da quest’opera – la più famosa fra quelle composte dallo scrittore americano – continuano ancor oggi a tratte ispirazione i pacifisti di ogni tendenza, i cultori d’ogni sorta di anticonformismo, gli alfieri dell’ecologia, della resistenza passiva, della disobbedienza civile, della non violenza.
Henry David Thoreau, Walden o Vita nei boschi, BIT 1995

Il monte analogoNella tradizione fiabesca la Montagna è il legame fra la Terra e il Cielo. La sua cima unica tocca il mondo dell’eternità e la sua base si ramifica in molteplici contrafforti nel mondo dei mortali. È la via per la quale l’uomo può elevarsi alla divinità e la divinità rivelarsi all’uomo.

Un gruppo di singolari ed esperti alpinisti, certi dell’esistenza, in qualche parte del globo, di una montagna la cui vetta è più alta di tutte le vette, decide un giorno di partire da Parigi per tentare di scoprirla e di darne la scalata. Dopo una navigazione “non eucli­dea”, a bordo di un’imbarcazione chiamata l’Impossibile, gli esploratori approdano nell’isola-continente del Monte Analogo, dove trovano una popolazione, dagli usi apparentemente stravaganti, che discende da uomini di tutti i tempi e che, come loro, vive ormai, soltanto, nella speranza di scalare la vetta. Un breve soggiorno nel villag­gio di Porto-delle-Scimmie, e il gruppo dei nostri alpinisti intraprende l’ascensione, arrivando in vista del campo base. A questo punto il racconto si interrompe: siamo soltanto all’inizio di un viaggio – che forse è sempre, continuamente, all’inizio – quando la morte coglie René Daumal, l’autore di questa storia, impedendogli di de­scrivere il seguito della scalata del monte simbolico che unisce la Terra e il Cielo.
René Daumal, Il Monte Analogo, Adelphi 1977

 

La terra di porporaTalvolta, seduto sulla cima del grande, solitario colle che dà nome alla città, fissavo per ore l’ampio paesaggio dell’entroterra, come se potessi distinguere, senza mai stancar­mene, tutto quanto si stendeva davanti ai miei occhi: le pianure, i fiumi, i boschi, le colline, le capanne dove mi ero fermato, e più di un amabile volto umano. Anche i visi che mi avevano mal­trattato o guardato con occhio malevolo mi apparivano ora sotto un aspetto bonario. Ma soprattutto pensavo al mio caro fiume, l’indimenticabile Yí, alla bianca casa ombrosa al margine della piccola città […].

La misteriosa pampa argentina è la terra di porpora: gli anni sono quelli della metà del secolo scorso all’incirca. La guerra ci­vile fermata: la vivono uomini indolenti e selvaggi. Fra essi si muove, pellegrino a cavallo, un bel giovane inglese, Richard Lamb.
L’autore è un inglese che viaggiò per le solitarie praterie della Plata, della Banda Orientale e della Patagonia: era un naturalista, e i suoi viaggi ebbero pretesti scienti­fici.
William Henry Hudson, La terra di porpora, Rizzoli 1975

Unmondo lontanoIo, bambino di appena sei anni ma già capace di andar di galoppo e senza cadere su un cavallo non sellato, invito il lettore, anche lui in groppa a un cavallo – sia pure immagi­nario – ad allontanarsi con me dalla casa per raggiungere, a una lega circa di distanza, qualche posto che sovrasti un poco la pianura circostante. Là giunti, seduti sui nostri ca­valli, potremo dominare un orizzonte più vasto di quello che contemplerebbe anche l’uomo più alto standocene semplice­mente in piedi […].

Un mondo lontano dipinge l’infanzia e l’adolescenza di Hud­son nella pampa argentina, luogo di appassionati e gioiosi incontri con innumerevoli esseri viventi – uccelli, serpenti, piante, fiori – con i quali il protagonista dialoga, felice di sco­prire ogni volta una nuova manifestazione di vita. Avventurieri, mendicanti, guerrieri, allevatori di cavalli, donne pallide e misteriose, gente perduta, adulti e coetanei ap­paiono e scompaiono dopo avere ogni volta manifestato al giovane protagonista un qualche aspetto della vita: l’amore, l’amicizia, la gelosia, l’odio, il sopruso, la delu­sione, il dolore, la morte.
William H. Hudson, Un mondo lontano, Adelphi 1993

La vita delle termitiIn una parola, la natura si è mostrata con lei – quasi come coll’uomo – ingiusta, malevola, ironica, fantastica, illogica o perfida. Ma come l’uomo e – almeno fino ad oggi – qualche volta meglio di lui essa a saputo trar partito dall’unico van­taggio che una matrigna obliosa, curiosa o semplicemente indifferente a voluto lasciarle: una piccola forza che non si vede, che, in lei, chiamiamo istinto e, in noi, chi sa perché, intelligenza.

Nel 1901 Maesterlinck scrive La vita delle api. La vita delle termiti è del 1926. Nei venticinque anni che corrono tra le due opere l’atteggiamento nei confronti della vita del poeta belga è profondamente mutato: “questo libro” scrive l’autore “ potrà essere accostato a La vita delle api: ma il colore e l’ambiente non sono gli stessi. È, in un certo senso, il giorno e la notte, l’alba e il cre­puscolo, il cielo e l’inferno. Da un lato … tutto è luce, primavera, estate, sole, pro­fumi, spazio, ali, azzurro, rugiada e felicità senza uguale tra le allegrezze della terra: dall’altro, tutto è tenebre, oppressione sotterranea, asprezza, avarizia sordida e gros­solana, atmosfera di carcere, di ergastolo, di sepolcro …”.
Maurice Maeterlinck, La vita delle termiti, Rizzoli 1980

I fiumi scendono a orienteL’acqua sommergeva il ponte delle nostre zattere, ed era bellis­simo essere di nuovo liberi, fendere le acque in tumulto, udire i tonfi delle nostre prue contro i grandi fogli si schiuma, e sentirci tutti, io, Jorge e i quattro indios, bagnati da capo a piedi.

A est delle Ande peruviane giace il Gran Pajonal, una sconfinata landa soffocata dalla giungla e solcata da una rete fittissima di fiumi. Leonard Clark è convinto che lì si nascondano le leggenda­rie Sette Città, di quel mitico El Dorado che sin dal XVI secolo gli esploratori cercarono invano.
Con un solo compagno, Clark si addentra nell’inferno verde e, dopo incredibili avventure, arriva finalmente alle città sepolte nella giungla, i cui avanzi testimoniano drammaticamente la dominazione spagnola.
Leonard Clark, I fiumi scendevano a Oriente, Vallardi 1985

I devastatoriNon conviene sapere la storia del detestabile verme per fargli guerra vantaggiosamente e sbarazzare il giardino da questa genìa?”
Tutti furono del parere giudizioso dello zio. Invece di schiac­ciare scioccamente la bestia, era molto meglio esaminarla, an­zitutto per sapere come è fatta, come vive e come s’introduce nel legno. Così si potrebbero, più tardi o arrestare i suoi guasti. Un nemico di cui si conoscono i mezzi d’azione è semivinto. Paolo prese dunque il bruco e lo mise nel cavo della sua mano.

C’è in questi dialoghi dello zio Paolo con i nipoti la semplice grazia degli antichi sillabari naturalistici, come pochi hanno sa­puto scrivere. C’è grazia e c’è fantasia: il libro comincia con una notte di vento, un lillà spezzato e delle lacrime, e di qui passa la descrizione della metamorfosi degli in­setti, compie un continuo cammino a ritroso: dal segno, dalla traccia lasciata dall’insetto che i bambini trovano nel giardino, all’insetto che i bambini trovano nel giardino, all’insetto stesso, che viene cercato, scovato, cacciato e infine descritto, con una narrazione sempre chiara e limpida, con i suoi momenti di invenzione, come quando l’autore per spiegare la moltiplicazione degli afidi, e la progressione alge­brica, narra la storia del dervis e del chicco di grano, e come nell’episodio del mag­giolino, che da occasione per i giochi dei ragazzi nel racconto dello zio Paolo assurge alle dimensioni mitiche di un calamitoso flagello.
J. Henri Fabre, I devastatori, Rizzoli 1984

 

PrateriaE ho anche iniziato a considerare le praterie, poco distanti dalla città in cui sono nato, la mia terra natale, e ho co­minciato ad amarle non perché attirano l’attenzione come i monti o la costa, ma perché la respingono sfidando la ca­pacità di mantenerla sveglia. […]
Qui sembra che l’aria non sia ancora mai stata usata.

Questo libro afferma con forza che oggi, nell’era in cui la televisione trasmette in diretta dagli angoli più remoti del mondo per spettatori che non abbandonano mai la poltrona, è ancora possibile viaggiare. Non solo, è possibile viag­giare con la curiosità dei grandi esploratori, con la loro in­genuità, con la stessa sete di scoperte, e quella speciale scrupolosità nello sguardo.
In Prateria l’autore concentra la sua attenzione su una pic­cola contea del Kansas, la Chase County, lavorando in profondità, quasi come un ar­cheologo, sulle infinite stratificazioni naturali e storiche che sfuggono all’occhio del turista frettoloso. La scelta del Kansas non è casuale: è un luogo apparentemente de­solato e monotono che “sfida la capacità di mantenere sveglia l’attenzione”, ideale per studiare “la terra e ciò che la plasma”. L’intento è scoprire il carattere originario di questa terra, iniziando col descrivere l’erba bluestem (alta più di tre metri), par­lando poi dell’importanza degli incendi per la rigenerazione della terra, e raccontando le alluvioni, il vento, la furia dei tornado, e rileggendo i racconti dei primi coloni, se­guendo le tracce degli indiani Kaw, facendo parlare allevatori e agricoltori, e colti­vando il sogno di un grande parco nazionale della prateria. Canto d’amore per la na­tura che, non solo in America, rischia di scomparire, Prateria è una grande “carta to­pografica di parole”, lo scenario di un’avventura che l’uomo può ancora vivere.
William Least Heat-Moon, Prateria, Einaudi 1994

L arte di andare a passeggioPer assolvere il compito di una passeggiata all’aperto non è necessario andare da soli, ma è ben possibile camminare ac­canto ad un compagno a noi concorde, insieme presi in un tranquillo colloquiare su temi generali della realtà umana, della letteratura, o su alcuni aspetti naturali che ci si offrano durante il percorso, senza che tutto ciò attenui in alcun modo gli effetti della natura sul nostro animo. Ma si deve pur dire che sarà bene, di tanto in tanto, passeggiare da solo, per colui il quale non desideri unicamente registrare impressioni esteriori, ma molto più percepisca l’incoercibile impulso di abbando­narsi al proprio genio e vivere solo con se stesso.
Il campo risveglia alla vista l’idea di una sollecita creatività umana e della conse­guente speranza di un futuro più o meno prossimo. Alla vista di un prato si ottiene, attraverso quella sua calma uniformità, il senso di una tranquilla imperturbabile e ferma contentezza. Un bosco sembra accoglierci nelle sue sacre ombre, perché noi vi si possa soggiornare lontano dai turbamenti dell’animo e della natura.

La passeggiata è attività che avvia il corpo ad un silenzioso collaborare con l’anima in quel momento seria e meditabonda. Il corpo, in attività ma senza disturbare, crea lo spazio, tutto mentale, per il dispiegarsi della catena del pensiero.
L’arte di andare a passeggio è un’istruzione gioiosa, con divagazioni e colti riferi­menti, su come ben condursi e proficuamente nella passeggiata, fragile esercizio etico-estetico.
Karl Gottlob Schelle, L’arte di andare a passeggio, Sellerio 1993

La salitaInizio d’estate, primissime ore del mattino: nel profondo delle Alpi, al punto di congiunzione fra due valli, su sedie verdi di metallo, davanti a un caffè ancora addormentato, sono sedute due figure che l’abbigliamento e l’attrezzatura rendono facil­mente riconoscibili come alpinisti (spessi abiti di lana e cap­pelli di feltro, sacchi da montagna, uno dei quali con la fune arrotolata sopra, lunghe piccozze e pesanti scarpe chiodate: la vicenda si svolge in uno dei primi decenni del secolo).

La prosa scarna ma pregnante di Hohl trasforma la descrizione di un’ascensione in montagna in una parabola sulla vita, con un susseguirsi di interrogativi e riflessioni fulminanti come afori­smi.
Protagonisti sono due giovani alpinisti e il ghiacciaio: uno scenario grandioso dalla cui descrizione minuziosa e al contempo lirica traspare l’immenso amore che Hohl stesso provò per la montagna.
In La salita quasi tutto appare estremo, non ultimo il rigore stilistico, perché la scrit­tura, diceva l’autore deve essere “più leggera di un pezzo di carta”.
Ludwig Hohl, La salita, Marcos y Marcos 1991

L uomo che piantava alberiQuando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole.

Durante una delle sue passeggiate in Provenza, Jean Giono ha incontrato una personalità indimenticabile: un pastore solitario e tranquillo, di po­che parole, con le pecore e il cane. Quest’uomo stava compiendo una grande azione, un’impresa che avrebbe cambiato la faccia della sua terra e la vita delle generazioni future.
Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi, Salani Ed. 1996

Le prolisse passeggiate mi ispirano mille pensieri fruttuosi, men­tre rinchiuso in casa avvizzirei e inaridirei miseramente. L’andare a spasso non è per me solo salutare, ma anche profitte­vole, non è solo bello ma anche utile. Una passeggiata mi stimola professionalmente, ma al contempo mi procura anche uno svago personale; mi consola, allieta e ristora, mi dà godimento, ma ha anche il vantaggio di spronarmi a nuove creazioni, perché mi of­fre numerose occasioni concrete, più o meno significative, che, tornato a casa, posso elaborare con impegno. Ogni passeggiata è piena di incontri, di cose che meritano d’esser viste, sentite. Di figure, di poesie viventi, di oggetti attraenti, di bellezze naturali brulica letteralmente, per solito, ogni piacevole passeggiata, sia pur breve. La cono­scenza della natura e del paese si schiude piena di deliziose lusinghe ai sensi e agli sguardi dell’attento passeggiatore, che beninteso deve andare in giro ad occhi non già abbassati, ma al contrario ben aperti e limpidi, se desidera che sorga in lui il bel sentimento, l’idea alta e nobile del passeggiatore.

La passeggiataLa passeggiata è uno dei testi più perfetti di Walser, il grande scrittore svizzero che ormai viene posto fra i massimi autori di lingua tedesca del nostro secolo. Ma La passeggiata ha anche un significato peculiare in rapporto a tutta l’opera di Walser: è in certo modo la metafora della sua scrittura nomade, perpetuamente dissociata e ab­bandonata agli incontri più incongrui, casuali, e sorprendenti, come lo è appunto ogni accanito passeggiatore – e tale Walser era -, che abbraccia amorosamente ogni parti­colare del circostante e insieme lo osserva da una invalicabile distanza, quella del so­litario, estraneo a ogni rapporto funzionale col mondo.
Robert Walser, La passeggiata, Adelphi 1993

Breviario per nomadiIl seguire un percorso dal principio alla fine dà una spe­ciale soddisfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come struttura narrativa) […]. La necessità di comprendere in un’immagine la dimensione del tempo in­sieme dal principio alla fine dà una speciale soddisfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come struttura narrativa) […]. La necessità di comprendere in un’immagine la dimensione del tempo insieme a quella dello spazio è all’origine della cartografia. Tempo come storia del passato […] tempo al futuro: come presenza di ostacoli che s’incrotreranno nel viaggio, e qui il tempo atmosferico si salda al tempo cronologico […]. La cartografia insomma, anche se statica, presuppone una idea narrativa, è concepita in funzione di un itinerario, è Odissea.
ITALO CALVINO

Soprattutto, non perdete la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, rag­giungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri mi­gliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata … ma stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati … Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene.
SØREN KIERKEEGAARD

Sono come un animale selvatico: mi faccio le mie piste […] non come l’antilope o la zebra né come il bufalo o altri animali da branco: di quelli che si soccorrono, af­frontano in massa le difficoltà per sopravvivere a ciò cui singolarmente soccombe­rebbero, e che tuttavia diventano singole prede e muoiono soli, ciascuno a suo tempo. Io faccio la mia pista privata […]. Forse dovrei dire che anch’io sopravvivo qui, ma conto su me sola; anche nei giorni in cui mi sembra che la terra sia piena di serpenti.
WILMA STOKENSTRÖM

Questa raccolta di citazioni, massime, aforismi e proverbi è dedicata al viaggio, al nomadismo, al territorio da percorrere, fuori e dentro di sé.
Vanni Beltrami, Breviario per nomadi, Biblioteca del Vascello 1995

Viaggiare HesseNoi, vassalli della voglia di viaggiare, passiamo la vita a inse­guire la nostra madre terra in tutte le sue forme ed espressioni, vorremmo perfino fare tutt’uno con essa, pronti alla dedizione assoluta, lo sogniamo, lo desideriamo con tutte le nostre forze. E questa nostra passione, questa nostra caccia alla terra non è in sé, forse, meglio di una qualsiasi altra passionaccia, sia quella del giocatore o dello speculatore, del Don Giovanni e dell’arrivista. Quando la terra ci chiama, quando noialtri eterni camminatori senza sosta prendiamo commiato da casa, non stiamo abbandonando alcunché, non stiamo fuggendo, stiamo semplicemente per tuffarci nel fuoco dell’esperienza. Siamo curiosi del Sud-america, di una qualsiasi baietta ancora inesplorata dei Mari del Sud, dei Poli della terra, vogliamo comprendere il moto dei venti, delle correnti, dei lampi, delle slavine – ma ancor più curiosi siamo della morte, l’ultima e forse più intensa esperienza del nostro esserci. Perché di tutte le esperienze possibili, sono fondamentali, secondo noi, quelle per cui siamo pronti anche a dare la vita.

Per amore o per sfida, per necessità o per fuga, tutti i personaggi di Hermann Hesse, prima o poi, si misurano con il viaggio. Questa raccolta offre un compendio esau­riente e ben organizzato con i migliori scritti di viaggio del giovane Hesse.
Hermann Hesse, Viaggiare, Marcos y Marcos 1994

VagabondaggioSe esistessero molti uomini nei quali fosse così radicato come lo è in me il disprezzo per i confini nazionali, allora non ci sarebbero più guerre né blocchi. Niente è più odioso dei confini, niente è più stupido. Essi sono come cannoni, come generali: sino a quando ragione, senso di umiltà e pace dominano, non se ne ha sentore e di loro si ride, – ma non appena guerra e follia divampano essi divengono importanti e sacri.

Nel mondo poetico e narrativo dell’autore ricorre con frequenza la figura del vagabondo, del cercatore irrequieto, sospinto senza tregua tra boschi e villaggi, sempre a un valico o a una frontiera. In questa condizione di libertà assoluta, di totale disponibilità, il viandante si fa protagonista di un’esperienza superiore, quasi sacrale. In senso e la poesia del vagabondaggio sono chiaramente metaforici: ogni uomo che voglia incamminarsi alla ricerca dell’essenza mistica e spirituale della vita, è da quel momento viandante, uomo solo.
Hermann Hesse, Vagabondaggio, Newton 1992

 

Viaggio nelle CévennesIl sole era già calato dietro a una nebbia dall’aspetto ventoso e […] il nostro sentiero era immerso nel grigio e nel freddo. Un’infinità di stradine secondarie portava qua e là tra i campi. Era un labirinto senza capo né coda. Potevo vedere sopra di me la mia destinazione, ovvero la cima che la dominava; ma qualsiasi di esse scegliessi, le strade finivano sempre per allontanarsene e scendere a serpentina verso la valle o salire verso nord lungo il margine delle colline.

Stevenson racconta in questo libro il viaggio che lo portò ad attra­versare, in compagnia di un asino, le Cévennes, nel sud della Fran­cia. Un viaggio davvero avventuroso, fatto a piedi, con bivacchi sotto le stelle e in­contri insoliti, in un paesaggio dagli ampi spazi e dai grandi silenzi.
Robert Louis Stevenson, Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino, Ibis 1993

Impressioni di viaggioVoglio andarmene sui monti
dove stanne le capanne quiete
dove il cuore si dilata libero
e l’aria soffia libera.

Voglio andarmene sui monti
dove sono gli abeti alti e scuri,
dove i ruscelli mormorano, gli uccelli cantano,
e le nuvole galoppano orgogliose.

Addio, saloni lucidi,
lucidi gentiluomini, signore levigate,
voglio andarmene sui monti
e da lassù ridere su di voi.

I resoconti di viaggio sono da secoli un genere letterario molto comune, quello di Heine fu uno dei meglio riusciti.
Heinrich Heine, Impressioni di viaggio, Istituto Geografico De Agostini 1983

In patagoniaNessun suono tranne quello del vento, che sibilava fra i cespugli spinosi e l’erba morta, nessun altro segno di vita all’infuori di un falco e di uno scarafaggio immobile su una pietra bianca.
Il deserto della Patagonia non è un deserto di sabbia o di ghiaia, ma una distesa di bassi rovi dalle foglie grigie, che quando sono schiacciate emanano un odore amaro. Diversamente dai deserti dell’Arabia non ha prodotto nessun drammatico eccesso dello spirito, ma ha certamente un posto nella storia dell’esperienza umana. Darwin trovò le sue qualità negative irresistibili. Ricapitolando Il viaggio della Beagle tentò, senza riuscirvi, di spiegare perché, più di tutte le meraviglie da lui viste, questo “arido deserto” aveva tanto colpito la sua mente.

Dopo l’ultima guerra, alcuni ragazzi inglesi, fra cui l’autore di questo libro, chini sulle carte geografiche, cercavano l’unico luogo giusto per sfuggire alla prossima di­struzione nucleare. Scelsero la Patagonia. E proprio in Patagonia si sarebbe spinto Bruce Chatwin per trovare l’incanto di viaggiare. All’interno di una natura povera, disabituata all’uomo, incontrerà un arcipelago di vite e di casi molto più sorprendente di quel che ogni esotismo permetta di pensare. Questa terra eccentrica per eccellenza è un perfetto ricettacolo per l’allucinazione, la solitudine e l’esilio.
La Patagonia di Chatwin diventa, per chiunque si appassioni a questo libro, un luogo che mancava alla propria geografia personale e di cui avvertiva segretamente il biso­gno.
Bruce Chatwin, In Patagonia, Adelphi 1982

Ritorno in patagoniaLa Patagonia è la cura per i mali dell’umanità.

Melville usò l’aggettivo “patagonico” per indicare qualcosa di to­talmente esotico, mostruoso e pericolosamente attraente. Un’attrazione che agì anche sul giovane Bruce Chatwin. Fin dall’età di tre anni la Patagonia gli apparve come la Terra delle meraviglie. Poi dall’esperienza nacque In Patagonia, il più bel libro di viaggi dei nostri tempi. Qualche tempo dopo, un altro scrittore di viaggi, Paul Theroux, pubblicava un altro affascinante libro su quella terra, The Old Patagoniam Express. Infine, nel 1985, i due scrittori com­posero, in una sorta di contrappunto a due voci, questo libretto, dove entrambi tornano sulle tracce della loro passione.
Bruce Chatwin – Paul Theroux, Ritorno in Patagonia, Adelphi 1991

Le vie dei cantiDopo la marcia forzata, i portatori rifiutano di camminare e aspettano di essere raggiunti dalle loro anime.
Gli aborigeni non credono all’esistenza del paese finché non lo vedono e lo cantano.
Quasi tutti noi, che eroi non siamo, nella vita perdiamo il nostro tempo, agiamo a sproposito e alla fine siamo vittime dei nostri vari disordini emotivi. L’Eroe no. L’Eroe – e per questo lo proclamiamo tale – affronta ogni cimento quando gli si pre­senta, e accumula punti su punti.

Per gli aborigeni australiani, la loro terra era tutta segnata da un intrecciarsi di Vie dei Canti, un labirinto di percorsi visibili soltanto ai loro occhi. Dietro questo fenomeno, che apparve subito enigmatico agli antropologi occidentali, si cela una vera metafi­sica del nomadismo. Questo libro potrebbe essere descritto anch’esso come una Via del Canti: romanzo e percorso di idee, una musica di idee che muove tutta da un in­terrogativo: perché l’uomo, fin dalle origini, ha sentito un impulso irresistibile a spo­starsi, a migrare?
Bruce Chatwin, Le Vie del Canti, Adelphi 1988

 

E venne chiamata due cuoriMi spiegarono come misurassero le distanze intonando canzoni dai ritmi ben precisi. Alcune erano composte da oltre cento versi, e ogni parola e ogni pausa doveva essere ripetuta fedelmente, né erano permessi vuoti di memoria o improvvisazioni dato che ogni canzone costituiva una vera e propria asta di misurazione.

… e vene chiamata Due Cuori è il racconto romanzato della straor­dinaria avventura umana e spirituale di una donna, Marlo Morgan, che per motivi di lavoro si trova a vivere in Australia e accetta un invito di una tribù di aborigeni. Con sua grande sorpresa, Marlo viene portata nel cuore di una foresta, e inizia da qui il vagabondaggio che durerà per quattro mesi percorrendo a piedi nudi l’Outback australiano.
Marlo Morgan, … e venne chiamata Due Cuori, Rizzoli 1994

Sabbie arabeMe ne andai a zonzo fino a un lontano costone, contento di star solo per un po’, e mi sedetti a guardare le ombre uniformi che screziavano la pianura color terra d’ombra su cui nient’altro si muoveva. Tutto era immobile, con quel silenzio che noi abbiamo cacciato dal nostro mondo.

Wilfred Thesiger, che possiamo considerare in un certo senso l’ultimo dei grandi esploratori britannici di stampo romantico, ci restituisce con questo “diario di viaggi” un affresco vivo e affascinante dei deserti meridionali della penisola arabica.
Dopo aver condiviso per diversi anni, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la dura vita delle popo­lazioni beduine che vivono ai margini di queste immense distese desolate di sabbia, l’autore racconta un’esperienza probabilmente unica, intessuta di particolari quotidiani.
L’andamento narrativo è quello del resoconto di stampo antropologico, che ci porta con immediatezza nell’atmosfera implacabile e silenziosa del deserto, a contatto con le genti fiere e generose che faticosamente trascorrono la propria esistenza in un ha­bitat tanto inospitale.
Wilfred Thesiger, Sabbie arabe – Viaggio nell’Arabia deserta, Mondadori 1991

 

Il viaggiatore delle duneNel mezzo della giornata, la fornace arde; il cielo, da tanto è luminoso, si scolora; il caldo torrido si abbatte dal sole a picco in nastri brucianti; sale dalla sabbia incandescente e dalle pietre surriscaldate. Allora è impossibile posare il piede sulla nuda terra; il suolo può raggiungere gli 80°C.
Tappe. Bivacchi di una sera in luoghi senza nome, che non ri­vedremo più. Partenze, eterne partenze senza arrivo che sono l’immagine pregnante del nostro viaggio interiore per non straziarci l’anima.

Questo libro, risultato di lunghi anni di esplorazione, è un inno al deserto del Sahara, alla sua grandezza opprimente, alla sua selvaggia e pericolosa bellezza, ma è anche un resoconto affa­scinante della fauna, della flora, della storia e della preistoria di questa regione, non­ché una descrizione della vita quotidiana dell’uomo del deserto, con una tale dovizia di dettagli che questo libro potrebbe essere utilizzato come un vero e proprio manuale di sopravvivenza.
Theodore Monod, Il viaggiatore delle dune, Tasco 1990

Arabia felix“Poiché Sua Maestà, malgrado le pesanti preoccupazioni di governo in questi tempi così calamitosi, cerca incessantemente di promuovere la diffusione delle conoscenze e delle scienze e di accrescere l’onore del suo popolo con imprese utili e lodevoli …”
Malgrado questi tempi calamitosi … Forse è proprio in tempi calamitosi che si sogna di partire per l’Arabia Felice.

La meta della spedizione scientifica danese è lo Yemen, terra sconosciuta detta anche “Arabia Felice”. Gli scienziati partono, per scoprire e conoscere, ma in realtà proiet­tano sogni – di sapere, di gloria, di ricchezza – troveranno sofferenze, fatiche, gioie, conquiste, fallimenti, e la morte. Solo uno farà ritorno, partito convinto di non essere all’altezza del suo compito, ma aperto alle esperienze, capace perfino di rinunciare alla propria identità per fare sua la lezione del deserto: “non avere niente, non essere niente”.
Thorkild Hansen, Arabia Felix, Iperborea 1993

Viaggiatore solitarioDopo tutto ‘sto casino, e via dicendo, arrivai al punto che avevo bisogno di un po’ di solitudine proprio per fermare il meccani­smo di “pensare” e di “godere” che chiamano “vita”, avevo bi­sogno di stendermi sull’erba e guardare le nuvole –
È scritto anche nell’antica scrittura: – “La saggezza può essere raggiunta soltanto nella solitudine.”

Viaggiatore solitario è una raccolta di scritti collegati da uno stesso filo conduttore: il viaggiare. I viaggi coprono gli Stati Uniti dal sud alla costa orientale, fino a quella occidentale e al lontano nord-ovest, il Messico, il Marocco, Parigi, Londra, l’oceano At­lantico e quello Pacifico percorsi in nave e vi sono incluse altre città e persone interessanti.
Lo scopo e l’intenzione è semplicemente la poesia o, le descrizioni naturali.
Jack Kerouac, Viaggiatore solitario, Sugarco 1987

Sentieri nel ghiaccioBreve sosta in un boschetto. Vedo la valle, prendo la scorciatoia per prati fradici, sguazzanti; la strada qui fa come un grande otto. Che razza di tempesta di neve; ora tutto torna a placarsi, a poco a poco mi asciugo. […] Dagli abeti piovono ancora gocce sul terreno coperto di aghi. Le mie cosce fumano come se fossi un cavallo. Paesaggio ondulato, molto bosco, e tutto mi è così sconosciuto. Quando ci si avvicina, i paesi fanno finta di essere morti.

Questo libro è la storia di un viaggio in certo modo straordinario: il viaggio a piedi intrapreso nell’inverno 1974 da Werner Herzog, per recarsi da Monaco a Parigi, dove lo aspettava un’amica ma­lata, Lotte Eisner, storica e studiosa del cinema tedesco. Strade, bo­schi, paesi squassati da temporali e bufere di neve, villaggi deserti e campi disabitati: questo il paesaggio che percorriamo insieme a un uomo che compie il più anacronistico dei gesti.
Werner Herzog, Sentieri nel ghiaccio, Guanda 1994

La via per l'OxianaSotto la bufera bianca è avvenuta una straordinaria transizione. Nell’arco di cinque minuti siamo usciti da un mondo di pietra, di fango, di sabbia e di perenne siccità, che ci aveva accompagnato da Damasco in poi, per penetrare in un mondo di legna, di foglie e di linfa, dove le montagne erano ricoperte di arbusti, che diventavano al­beri, e questi, cessata la neve, si raggruppavano in una lucida foresta di tronchi nudi le cui volte frondose velavano il cielo.

Secondo Bruce Chatwin questo libro è il capolavoro dei libri che trattano di viaggio. L’Oxiana è una regione fra l’Afghanistan e l’Iran dove si può procedere sulle orme di Marco Polo.
Robert Byron, La via per l’Oxiana, Adelphi 1993

Verso SantiagoNon è dimostrabile, eppure io ci credo: nel mondo ci sono luoghi in cui un arrivo o una partenza vengono misteriosamente moltipli­cati dai sentimenti di quanti nello stesso luogo sono arrivati o da lì ripartiti. […] Ormai i viaggi non durano anni, sappiamo dove andare e anche le probabilità di tornare sono molto più alte.

Un viaggio spagnolo nello spazio e nel tempo, lungo percorsi inu­suali, attraverso le vie di pellegrinaggio, il labirinto dei ricordi, le suggestioni del paesaggio, l’intreccio di colori, di parole, di leg­gende, l’ispirazione del momento. Da Don Chisciotte a Zurbaràn, da Velàzquez a Garcia Lorca, da una sperduta abbazia cistercense alla solennità del Prado: Cees Nooteboom ci guida alla scoperta di personaggi e luo­ghi di una Spagna profonda e misteriosa, invitandoci ad abbandonare le vesti del turi­sta per diventare veri viaggiatori.
Cees Nooteboom, Verso Santiago – Itinerari spagnoli, Feltrinelli 1996

 

In transiberianaLa steppa ha grandi ondulazioni, come delle lunghissime dune biondastre, separate da grandi distanze l’una dall’altra. Non è priva di colore. Alcuni tratti sono dello stesso bianco-biondo spento dei capelli dei bambini russi. Ma numerose sono le tinte – sempre spente – che serpeg­giano per la distesa come correnti marine. Anche l’aria ha un colore spento.

Un libro e un viaggio su rotaie lunghe trentamila chilo­metri. Dopo i primi tremilacinquecento chilometri da Roma a Mosca, i novemila in Transiberiana, da Mosca a Pechino. E poi, sempre in treno, da Pechino a Shangai. Poi c’è il ritorno, con un unico biglietto ferroviario, dalla foce del fiume Azzurro sino alla Yogoslavia passando, a differenza della andata, attraverso la Mongolia e il Gobi. Al rientro in Italia non si è più gli stessi, anche se si torna a sedersi sulla stessa poltrona. Tra la persona di prima e quella del ritorno c’è di mezzo una buona metà del mondo e straordinari incontri umani. Non è poco.
Allora è giocoforza raccontare.
Angelo Maria Pellegrino, In Transiberiana, Stampa Alternativa 1992

 

Inter rail manFarsi coinvolgere, comunicare sono essenziali per arricchirsi mediante i viaggi. Si potrebbe andare ovunque senza urtare contro qualcosa di nuovo, se si rimane legati al proprio mondo. Oggi è data molta importanza a dove si va, ma forse importa soprattutto come e perché lo si fa.

L’inter rail – un mese di treno a basso costo in giro per l’Europa, il Marocco, la Turchia per chi ha meno di 26 anni – è, per chi lo vuole, disorganizzazione, in una società sempre più inquadrata ed asettica.
L’inter rail è, per chi sa giocarsela bene, libertà in una società che organizza e limita anche l’avventura, la sorpresa, la gioia, il sogno. Abbiamo provato con l’inter rail a disorganizzarci, a riprenderci spazi di li­bertà. Qui lo raccontiamo con le istruzioni per l’uso.
Luca Conti, Inter rail man – Manuale per chi viaggia in treno, Stampa Alterna­tiva 1992

Il libro del ventoIl silenzio ci mette a disagio.
Il silenzio radio viene chiamato “aria morta”, qualcosa da evitare ad ogni costo. Così lo tamponiamo con parole o musica, spesso parole e musica, e troviamo sollievo nello schiamazzo, per quanto possa essere privo di significato. Abbiamo perduto la pausa ricca di significato. Il silenzio durante l’audizione viene invariabilmente distrutto dall’applauso di qualche idiota che pensa che il concerto sia finito.

La prima definitiva storia del vento: come porta la vita nel mondo distribuendo energia e calore, influenzando i fenomeni meteorologici, favorendo la riproduzione delle piante e la migrazione di molte specie di animali, modificando il paesaggio, agendo sul comportamento dell’uomo.
Lyall Watson, Il libro del vento, Frassinelli 1985

Strade bluCosa fa un viaggiatore di notte in una città sconosciuta quando vuole scambiar due parole? Negli Stati Uniti non c’è quasi altra scelta che ficcarsi in un bar. […]
In una angolo c’era una stecca da biliardo spezzata; la piccola stanza laterale era illuminata soltanto dal tremolio di una luce al neon che reclamizzava una birra, quel tipo di luce vacillante che farebbe impazzire chiunque.

Un tempo, sulle vecchie cartine d’America, le strade principali erano segnate in rosso e quelle secondarie in blu. È sulle strade blu che si svolge di tre mesi di un solitario mezzo pellirossa, che, re­stando privo del suo lavoro e della sua donna, va a ricercare un poco di interesse alla vita in un itinerario circolare che lo porta e riporta nell’America settentrionale. E ri­trova, ricostruisce, riscopre l’America periferica, decentrata, provinciale come un al­tro, diverso continente.
William Least Heat-Moon, Strade blu, Einaudi 1995

 

Sulla strada[…] perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e del subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno “Oooooh!”.

Intere generazioni hanno preso a modello i protagonisti di que­sto libro che in trent’anni è diventano un libro di culto. In fuga dalla mediocrità del mondo, in auto, in camper traballanti.
La fuga attraverso gli Stati Uniti e il Messico su malconce auto, traballanti camper, o autobus affollati di umanità americana ed europea. Il ro­manzo dell’amicizia e delle difficoltà, dell’amore, del malessere e della rivolta. Il “manifesto” della beat generation preso a modello da sempre nuove generazioni di giovani.
Jack Kerouac, Sulla strada, Leonando Ed. 1989

Terra e acquaSono qui raccolte alcune fra le migliori pagine di Vittorio G. Rossi: vorremmo dire le più limpide, atte a delineare la sua schietta e spontanea vena di narratore: scritti d’avventura, di viaggi, di “conoscenze”, tutte profondamente umane e sentite.
I giovani potranno invidiare le innumerevoli esperienze dell’autore, che ha fatto “quasi tutti i mestieri rischiosi difficili: il palombaro, il minatore, il navigante, il pescatore di balene, di merluzzi, l’uomo di bordo delle navi-faro”, ma sapranno sco­prire il messaggio racchiuso nelle sue opere: “presi l’uomo come protagonista e feci del viaggio un racconto, come av­ventura umana. Insieme come l’uomo, ho preso come protago­niste le grandi forze della natura, sopra tutto il mare …”. V’è quindi in queste pagine narrative anche una profonda attenzione agli ideali, ai dolori e alle miserie degli uomini. Pur senza perdere nulla della sua vivacità, della sua arguta visione delle cose, del suo stile tutto particolare, Vittorio G. Rossi ci induce a medi­tare su ciò che rappresenta l’uomo nel mondo, su noi stessi, sul senso della vita.
Vittorio G. Rossi, Terra e acqua, Mursia 1966

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