Pubblicare?

di Paolo Repetto, 29 ottobre 2025

Un anatema ebraico, pochissimo conosciuto, recita: “Possa il mio nemico pubblicare un libro”. Non è un augurio, anche se lo sembra, né una professione di tolleranza: è una maledizione. Ora, io non so quanto questo detto sia antico o solo vecchio, e ignorando la lingua ebraica non posso che affidarmi alla fedeltà della traduzione nella quale lo conosco: ma so che poter determinare l’epoca in cui è stato coniato sarebbe tutt’altro che indifferente. Nel caso fosse molto antico infatti quel “pubblicare” andrebbe inteso come “scrivere”, piuttosto che diffondere tramite amanuensi in più copie, e per un popolo che è stato definito “il popolo del libro” mi pare un po’ fuori luogo. Anche se è poi vero che il sospetto nei confronti della scrittura era presente pure nella cultura greca (vedi Platone), e che per gli ebrei poteva essere tanto più giustificato, almeno nei confronti della scrittura “profana”, dall’esistenza di un testo sacro dettato da Dio stesso, da considerarsi quindi rispondente a ogni domanda, esauriente ogni dubbio, definitivo (salvo poi darne infinite interpretazioni).

Propendo dunque piuttosto per la seconda ipotesi, che quantomeno rende il concetto più funzionale a ciò di cui intendo parlare. Il problema a mio giudizio non sta infatti nello scrivere, ma proprio nel “pubblicare” (operazione che assume ben altro significato dopo l’introduzione della stampa), ovvero nel divulgare quanto si è scritto. Sono due cose diverse, mi pare ovvio, perché la seconda presuppone la prima – per ora, in attesa degli sviluppi dell’AI – mentre non vale il contrario: e tuttavia quasi sempre nel linguaggio corrente i due verbi vengono usati come sinonimi, mentre tali non sono. La differenza sta innanzi tutto nell’intenzione che muove alla scrittura, e poi nei contenuti e nella destinazione, che comportano scelte particolari nei modi e nei mezzi in cui sarà diffusa.

Voglio dire che, certo, chi scrive lo fa di norma per relazionarsi col presente e per lasciare traccia nel futuro, ma la scrittura può essere utilizzata anche in forma privata, per memorizzare, per chiarirsi le idee e metterle in ordine, per tenere un diario, per accompagnare un gesto o un regalo, oppure per fare arrivare la propria voce ad amici o confidenti, quando magari si diano poche possibilità di frequentazione. Ad esempio: l’uso che ne faccio io in questo momento, sfruttando una tecnologia che mi permette di dialogare facilmente con uno sparuto gruppo di persone che condivide i miei interessi, ovvero le mie domande e i miei dubbi, rappresenta il limite estremo dell’utilizzo “privato”.

Se si va oltre si accede invece ad un’altra dimensione, quella appunto del “pubblicare”, che come il termine suggerisce significa rendere intenzionalmente pubblico il proprio pensiero. E qui entrano in gioco finalità e ambizioni diverse. Io vorrei occuparmi nello specifico del caso di cui l’intenzione è di orientare o influenzare il pensiero altrui, offrendo al maggior numero possibile di sconosciuti delle “risposte”, delle interpretazioni del mondo e della storia che non possono essere controbattute direttamente, come avverrebbe in un colloquio. Nel formato stampa queste risposte assumono un’autorevolezza che è suggerita già visivamente dall’ordine, dalla nitidezza, dall’irreggimentazione delle righe e dei periodi sulla superficie della pagina. Insomma, la parola stampata incute rispetto, e questo consente di esercitare in qualche modo un potere. E anche se i mass media e le nuove tecnologie e modalità comunicative stanno rendendo obsoleta la stampa, credo che per il momento, e almeno per la mia generazione e per quella immediatamente successiva, l’autorevolezza del pensiero sia ancora legata alla divulgazione cartacea.

Naturalmente ci sono anche, e oserei dire soprattutto, altre finalità: quella pura e semplice di ottenere una qualche visibilità, ad esempio, o di trovare un modo per sbarcare il lunario: oppure, un po’ più ambiziosamente, di combinare il tutto e di proporre, alla maniera di Balzac, sia pure attraverso la finzione, un ampio quadro della reale condizione umana. Sarà il tempo poi a decidere della rilevanza e della sopravvivenza di qualsiasi testo, a farne o no “un classico”, o almeno un riferimento che vada oltre il presente.

Ma mi sto perdendo nelle ovvietà. Ciò che intendevo dire è che attualmente tanto la narrativa, più o meno “impegnata”, quanto la saggistica, rientrano allo stesso modo nei circuiti di un “mercato culturale” che ha acquisito una enorme rilevanza sia finanziaria che politica, e rispondono alle sue leggi, in primis a quelle della “spettacolarizzazione” (un mercato culturale in realtà è sempre esistito, ma senz’altro non aveva come caratteristica dominante quella della spettacolarità). Basti pensare ai tour promozionali cui senza alcun ritegno gli autori si sottopongono, compresi gli scienziati e i filosofi, andando a far marchette nei programmi televisivi, intervenendo ai festival o agli altri innumerevoli “eventi” imbanditi per platee di consumatori totalmente passivi e acriticamente fidelizzati, creando quelli che oggi si chiamano podcast, ecc….

Io ritengo esista però anche una terra di nessuno, quella che ospita i libri scritti non per fornire risposte preconfezionate, ma per suscitare domande, alle quali poi il lettore cercherà di rispondere con un percorso tutto suo. Questi sono per me i soli libri meritevoli di essere “pubblicati”, e non è qui il caso di dettagliare i criteri sui quali baso la distinzione. Emergeranno da soli nel prosieguo del discorso.

Vorrei però fosse chiaro che non auspico alcun tipo di censura preventiva o di esclusione o di protezionismo. Quello culturale è l’unico ambito nel quale sposo il libero mercato. D’altro canto ritengo che leggere e scrivere siano, almeno in linea di principio, le attività meno pericolose per sé e nocive per gli altri, e tra le più piacevoli, che un essere umano può svolgere. L’importante per il “consumatore” è avere sempre ben presente che di un “mercato” appunto si tratta, nel quale i banchi e gli scaffali traboccano di prodotti tra i quali può scegliere. Per come la vedo io, però, per poterlo fare è necessario auto-educarsi a un “consumo culturale” consapevole, e farlo per prove ed errori, prendendo le distanze da tutte le azioni “promozionali” di incentivazione alla lettura. Chi deve essere spinto o incentivato, per non dire precettato, a farsi un’idea, non sarà mai capace di scelte proprie.

Esistono dunque i normali prodotti da supermercato, quelli perennemente in offerta, di per sé abbastanza innocui, perché in fondo nessuno ci obbliga ad acquistarli e a leggerli. Ce ne sono invece altri che sempre all’interno di questo mercato si arrogano un ruolo di orientamento del gusto, si propongono come “bio”, garanti della nostra salute spirituale, e ci gratificano vellicando la nostra ambizione a sentirci al passo coi tempi, o anche un pochino avanti: questi, a dispetto della loro più o meno esplicita ambizione a diffondere sempre nuove e definitive “verità”, andrebbero comunque almeno conosciuti, se non altro per prenderne consapevolmente le distanze. E infine ne esistono altri ancora, che negli scaffali vengono confusi con tutto il resto, ma che bisogna imparare a riconoscere come genuini alimenti per la nostra crescita.

In questa ultima tipologia rientrano senz’altro le opere di George Steiner. Steiner è, assieme a Isaiah Berlin, l’ultimo dei veri “maestri” del ‘900. Uno che scrive: “Quello che mi sentirei di sostenere con fervore è questo: la fede (qualsiasi fede, n,d,r), o l’assenza di essa è, o dovrebbe essere, la parte costitutiva più privata, più gelosamente custodita di un essere umano […]. Pubblicizzare svilisce e falsifica irrimediabilmente il proprio credo”.

Proprio da un suo libro, significativamente titolato I libri che non ho scritto (come gli invidio questo titolo, lo avevo in mente da decenni!), arrivano l’anatema di cui sopra e lo stimolo che mi spinge ora a parlarne.

Nel compendio di uno dei saggi mai scritti, ma fatti assaporare al lettore almeno in forma di spuntino, Steiner sintetizza l’opera e il pensiero di Joseph Needham, eccentrico erudito novecentesco, grande sinologo, che mezzo secolo fa viaggiava ancora sulla cresta dell’onda. Io stesso ho sempre riservato all’unico volume che possiedo del suo Scienza e civiltà in Cina (edizione inglese 1954, italiana Einaudi 1981; primo di tre tomi, s’intitola Linee introduttive e costava un patrimonio) una collocazione di prestigio nella mia biblioteca, sezione storia della scienza. Di Needham però, della sua vita, del suo impegno politico, conoscevo quasi nulla.

Steiner invece lo conobbe personalmente, ebbe diverse occasioni di confronto, e pur riconoscendone la sterminata cultura e tributandogli tutti i dovuti meriti non ne traccia un ritratto positivo. A motivare questo giudizio (che a suo tempo ha indotto Steiner a non redigere una biografia dello scienziato britannico per la quale aveva ricevuto dalla sua università un incarico) sono le posizioni pregiudiziali a partire dalle quali Needham affronta qualsiasi argomento. Il suo approccio è infatti sempre rigidamente vincolato all’ortodossia marxista, una ortodossia peraltro non fedele direttamente a Marx, ma alla lettura che di Marx era stata data, e imposta, dal leninismo. Steiner non mette in discussione le competenze scientifiche di Needham, che era in primo luogo un biologo, né la sua capacità di lavorare su un piano multidisciplinare: ma è il dogmatismo di fondo a respingerlo. Non può fare a meno di mettere in rilievo come tanto le competenze scientifiche quanto quelle umanistiche vengano sempre piegate non ad aprire nuove possibilità interpretative dei fatti, ma ad avvalorare una ipotesi iniziale precostituita. E sottolinea come le incursioni in ambiti specialistici sostanzialmente estranei ai suoi abbiano indotto Needham a prendere per oro colato ogni minimo e discutibilissimo indizio, biologico, antropologico, linguistico, architettonico, che sembrasse portare mattoni alla sua ricostruzione della Storia. Ricostruzione che seguiva le linee di un progetto dettato dal clima ideologico postbellico, dal compiersi della decolonizzazione, dagli entusiasmi del terzomondismo.

In pratica Steiner avverte, dietro il meritevole intento di Needham di portare l’occidente a conoscere e apprezzare l’origine extraeuropea di buona parte dei saperi scientifici e delle tecnologie che ne sono discese, il caparbio proposito di forzare l’entità del debito scientifico occidentale nei confronti di un’area che ai suoi tempi era ancora percepita come sottosviluppata, e sullo sfondo quello di capovolgere (non di equilibrare) le posizioni nel rapporto tra le diverse civiltà. La stessa operazione che trent’anni dopo avrebbe ripetuto Martin Bernal con Atena nera, per provare come la cultura greca classica sia assolutamente debitrice di quella africana e mediorientale (cosa di cui peraltro erano ben consapevoli già Pitagora, Erodoto e Platone).

Insomma, il problema di Needham non sta nell’attribuzione di questi contatti e rapporti e finanche di talune priorità, ma nel darne una interpretazione che nemmeno troppo larvatamente colpevolizza l’occidente: nel voler cioè convintamente affermare che in fondo l’occidente non può vantarsi di aver inventato nulla, e che si è limitato a depredare i patrimoni culturali di altre civiltà (come se il valore intrinseco di una conoscenza fosse nella priorità, e non negli sviluppi e nelle applicazioni che ne discendono). E peggio ancora, nel farlo producendo prove documentarie, linguistiche e archeologiche molto abborracciate e in parecchi casi del tutto irrilevanti, quando addirittura non false.

Ora, tutto ciò, per senza nulla togliere al fascino che i lavori di Needham e di Bernal senz’altro emanano, e al rilievo delle ipotesi interpretative che hanno introdotto, dovrebbe però guidare a una giustificata prudenza nell’accettarne il messaggio di fondo. L’assunzione di un altro punto di vista, o del punto di vista altrui, può scuotere e incrinare una lettura della storia consolidatasi sulla narrazione auto-apologetica dei vincitori, ma non necessariamente ne produce una nuova più veritiera. Semmai dovrebbe indurne una più interlocutoria, più possibilista, e non altrettanto assiomatica.

Questo mi porta a una considerazione solo apparentemente marginale, che concerne la differenza tra gli autori “enciclopedici” del Sette/Ottocento e i “tuttologi” imperanti ai giorni nostri. Enciclopedici, per intenderci, erano gli eruditi eclettici come Diderot, Goethe o Alexander von Humbolt, che ambivano a raccogliere in grandi sintesi lo stato delle conoscenze alla loro epoca. Erano curiosi di tutto, e questo li induceva a non dare nulla per scontato, a considerare i saperi di cui erano depositari come punti di partenza. A dispetto dell’ampiezza e della poliedricità delle loro opere, lo scopo che ad esse attribuivano era di indicare possibili percorsi per la ricerca futura, e anche quando fornivano spiegazioni lo facevano nella consapevolezza di produrre delle congetture. Chi avesse la pazienza di leggere oggi il Cosmos di Humboldt, che nel titolo sembra adombrare un’ambizione sterminata, si accorgerebbe che ogni affermazione viene sempre presentata come provvisoria, e che la frase più ricorrente è “Chissà cosa ci riserverà nel futuro la ricerca in questo campo”. E lo stesso scienziato-esploratore non si limitava ad auspicare, ma incoraggiava i giovani naturalisti a ripercorrere i suoi passi, per verificare e al limite contraddire le sue scoperte e le sue intuizioni, e a tale scopo donava loro anche le sue strumentazioni. Ma non è tutto: si accollò personalmente la pubblicazione dell’opera, e dati i costi enormi finì praticamente sul lastrico.

Tra gli enciclopedici e i tuttologi si collocano proprio Needham e Bernal, che esplorano ambiti nuovi, che producono nuove conoscenze relative ai rapporti e agli interscambi tra le civiltà extraeuropee e la nostra, ma non si limitano ad avanzare delle ipotesi, affermano delle tesi. Sono ancora enciclopedici nel senso che sostanziano le loro opere con l’apporto di saperi diversi, anche se padroneggiati con eccessiva disinvoltura, e spesso con molta approssimazione. Sono già tuttologi perché presumono di dare un significato diverso alla storia, affermandone categoricamente non possibilità interpretative inedite ma linee di sviluppo certe e inconfutabili. Non sono tali però a pieno titolo, almeno nel senso che do io al termine, perché ancora non si avvalgono delle più recenti tecnologie e modalità che portano dalla “pubblicazione” alla “pubblicizzazione” di massa. E alla spettacolarizzazione.

Con ciò vengo finalmente al dunque, prendendo tre nomi a caso (in realtà non proprio a caso) tra i più conosciuti oggi dal grande pubblico italiano: Pier Giorgio Odifreddi, Luciano Canfora e Alessandro Barbero. Già il fatto che possa citarli come largamente conosciuti, come “popolari”, la dice lunga: segna la differenza rispetto agli enciclopedici genuini alla Humboldt, conosciuti soltanto da chi li leggeva (ma questo valeva ancora per Needham e Bernal).

Nessuno può negare le competenze matematiche di Odifreddi, meno che mai chi come me nelle scienze matematiche è un asino; ma quando mi ritrovo in mano testi suoi che sconfinano nell’etica o nella politica mi si rizzano i capelli, perché sono trattazioni che non si propongono all’insegna dell’“io la vedo così”, ma a quella del “è così, e ve lo dimostro”. Odifreddi ha nel mirino soprattutto il cristianesimo, e prima ancora l’intera tradizione biblica, che a suo parere ha impresso alla civiltà occidentale, in tutte le sue componenti, il marchio di una distruttiva pulsione al dominio e alla negazione di ogni alterità: ma spinge costantemente la sua critica sino al limite dell’invettiva, e spesso anche oltre, facendo un solo fascio di tradizioni, istituzioni politiche e giuridiche, indirizzi economici, ecc … Col risultato di scorgervi dietro, a tirare le fila, sempre la lunga mano e il modus operandi del capitalismo, nelle sue svariate versioni pre-moderne e poi coloniali, imperialistiche, liberistiche, liberalistiche e pseudo-democratiche. Quello che denuncia, senza arretrare neppure di fronte ad evidenti anacronistiche forzature, è in fondo un progetto di dominio pluto-giudaico che ha informato tutta la storia occidentale, e che sembra ormai ossessionare più le varie sinistre sedicenti rivoluzionarie che le vecchie destre reazionarie.

Discorso appena leggermente diverso si può fare per Canfora e per Barbero, che quanto meno rimangono nell’ambito della loro disciplina: ma la specializzazione disciplinare si è spinta oggi talmente oltre che è difficile concepire una competenza storica estesa dai Neanderthal alla guerra fredda o ai conflitti attualmente in corso.

L’impressione che ho ricavato dalle sempre più frequenti apparizioni di costoro nei salotti televisivi o come conduttori di programmi disegnati a loro immagine, impressione che si riverbera retrospettivamente su tutta la loro opera, è che la storia venga trattata non come terreno di costante esplorazione, ma come pezza d’appoggio per avvallare dogmatiche certezze. Che riguardano, come per Needham e per Bernal, e per Odifreddi, la nefandezza della cultura e della civiltà occidentale e la denuncia di come è andata sviluppandosi. È evidente che qui non siamo a livello dei vari Galimberti o dei nipotini post-moderni di Foucault e di Vattimo: l’operazione che i nostri conducono è assai più sottile e sofisticata, ma il punto d’arrivo è lo stesso.

Si vedano ad esempio il saggio di Barbero sull’impero ottomano e le conferenze che ne ha tratto. È uno stillicidio di confronti che oppongono la tolleranza, la giustizia, l’uguaglianza, la meritocrazia praticate dalla cultura ottomana all’intolleranza, alle diseguaglianze, alla farraginosità giuridica e ai privilegi correnti nella coeva cultura occidentale. Ora, sarà anche vero che ebrei e cristiani erano molto più tollerati nelle terre del Sultano di quanto lo fossero nell’Europa rinascimentale, e che a Costantinopoli non esisteva una aristocrazia del privilegio ereditario, e che le classe dirigente era reclutata senza badare al censo; ma tanto per cominciare il tutto era arbitrariamente gestito da un despota assoluto, che in alcuni casi poteva essere illuminato e in molti altri no, e il cui potere non conosceva limiti o contrappesi, né religiosi, né politici, né giuridici. C’è poi il fatto che le relazioni dei viaggiatori che per cinque secoli hanno attraversato quelle terre (non moltissimi, perché viaggiare lì era estremamente difficile e pericoloso) concordano tutte nella descrizione di un clima di povertà, di sopruso e di violenza, narrano di massacri continui e spoliazioni, nei confronti ad esempio dei Curdi, degli Yazidi, dei Mandei, dei Copti, o delle popolazioni balcaniche o di quelle elleniche. Checché ne dicessero gli ambasciatori veneziani, che vivevano peraltro nel perimetro della corte, ai quali Barbero attinge tutte le testimonianze, la tolleranza era molto più proclamata che praticata. Vigeva invece senz’altro l’uguaglianza, ma nel senso che la violenza arbitraria davvero non faceva sconti a nessuno.

Per capirci meglio. Richiesto nel corso di una intervista che circola sul web di spiegare cosa significa essere di sinistra, Barbero ha risposto che per lui significa vedere una bandiera rossa o una falce e martello e non averne paura, anzi, provare piacere. “Io se vedo un corteo in piazza con le bandiere rosse che protesta mi piace, e quando vedo che la polizia li picchia non mi piace, mentre a tanti borghesi la cosa fa paura o da fastidio, e pensano che la polizia faccia bene a picchiarli. Basta questo, di base, per essere di sinistra”. Il che, pur essendo una semplificazione provocatoriamente voluta, spiega comunque tante cose. Spero almeno non gli dia gioia anche veder bruciare i cassonetti, simbolo del consumismo borghese, o le bandiere, con l’eccezione naturalmente di quella rossa (o di quelle che vanno al momento per la maggiore): oppure le occupazioni delle università e dei licei, dove si fa resistenza antifascista impedendo a chi non è schierato “dalla parte giusta” di prendere la parola. Stiamo parlando di docenti universitari. Se questo è per loro lo stare a sinistra, stiamo freschi. E soprattutto, io dove sono stato fino ad oggi?

Lo stesso vale per il modo in cui Canfora parla della democrazia occidentale, sottintendendo che le sue storture erano già presenti sin dall’origine e si sono semmai amplificate nella versione moderna, contrariamente a quanto la storia ufficiale vorrebbe raccontarci. Tanto da fargli preferire un sistema come quello spartano, non a caso vagamente “comunista” e livellatore (salvo reggersi, né più né meno come quella da lui definita la pseudo-democrazia ateniese, sulla schiavitù), e da indurlo a mostrare un’evidente simpatia per l’odierno modello putiniano, nonché naturalmente un sincero rimpianto per quello staliniano: “Uno statista può essere valutato per quello che ha fatto per il suo Paese. L’opera di Stalin è stata positiva, anche se aspra, per la Russia al contrario di quella di Gorbaciov”.

Siamo insomma di fronte ad un “odio di sé occidentale” che non trova corrispettivo in altre culture. Tutte le altre civiltà hanno mantenuto bene o male nel corso del tempo un’alta considerazione di sé (gran parte dei popoli si attribuiscono in esclusiva lo status di “uomini”, già a partire dai termini con cui si autodenominano, o considerano la loro terra come il centro del mondo): e attribuiscono le cause della loro decadenza, dei loro ritardi (ammesso che li considerino tali), del loro eventuale asservimento, alla protervia dei competitori, a sfortunate congiunture climatiche o al volere di divinità irritate. La negatività occidentale affonda invece le sue radici in un’attitudine autocritica nata già agli albori della modernità (ma volendo se ne potrebbero trovare tracce anche prima: basti pensare a Erodoto, o alla Germania di Tacito): solo che nel XVI secolo con Montaigne questa attitudine si esprimeva in un equilibrato ripensamento delle modalità di confronto con “gli altri”, e successivamente con Montesquieu nella critica delle istituzioni domestiche, tutte cose che rimanevano nell’ambito di ciò che va perfezionato, rivisto, recuperato. È in fondo questo che ha fatto la differenza, permettendo all’Occidente di spezzare i vincoli della tradizione immobilista, di innovare o cancellare istituzioni sclerotizzate, di sperimentare modelli produttivi e rapporti sociali di convivenza del tutto inediti. Con quali risultati non sta a me qui discutere (in realtà su questo sito se ne è già discusso ampiamente): le scorie dell’idea di “progresso” che sino a ieri l’Occidente ha abbracciato sono tante e tali da non consentirmi di esprimere giudizi e proporre scale dei valori. Oltretutto, se mi guardo un po’ attorno e vedo solo opposti fanatismi e l’idiozia al potere quasi ovunque, qualche dubbio sulle nostre scelte non può non sorgermi. Di certo so però che in pochissime altre culture una discussione come questa sarebbe consentita, e vorrei tenermi stretta questa possibilità.

Già in epoca romantica, però, nel mito esotico del buon selvaggio, il saldo del confronto con altri possibili modelli di civiltà diventava negativo, e nel secolo scorso questo confronto si è tradotto in un vero e proprio rifiuto della civiltà e della cultura occidentali, a partire dai suoi presupposti. Un rifiuto tutto “di sinistra”, perché non fa appello alla tradizione, non chiede un ritorno nostalgico ad altri tempi, ma fa tabula rasa del sistema valoriale sul quale l’occidente si è fondato sin dai primordi della storia. Col risultato di approdare a quello che Nietzsche chiamava nichilismo.

Tanto Odifreddi quanto Canfora e Barbero, che a questo rifiuto si associano, non possono però essere propriamente definiti dei nichilisti: portano avanti convintamente le loro teorie sulla deriva occidentale, che fanno risalire di volta in volta a Euclide, a Pericle o a una non meglio definita “borghesia”. Di certo non vanno annoverati tra gli orfani dell’occidente, e non sono tra quelli che ne vaticinano o ne piangono il tramonto: semmai anzi lo auspicano. Ne vogliono disvelare il “marcio”, e pensano che il frutto sia da buttare e che l’albero non sia da potare, ma da capitozzare radicalmente.

Sta di fatto che interpretano il loro radicalismo anti-occidentale come una missione, e questo li spinge ad essere costantemente presenti, sui teleschermi, sui monitor o in libreria. Ho contato in una bibliografia di Canfora, aggiornata al 2024, centotredici volumi pubblicati, una volta e mezza quelli di Simenon su Maigret. In quella di Odifreddi siamo a soli trentasette, su temi che spaziano da Le menzogne di Ulisse a Caro papa ti scrivo, sino a La democrazia non esiste, ma accanto a un profluvio di audiovisivi e di interviste, più di quattrocento partecipazioni a programmi radio e trecento a trasmissioni televisive. Barbero si attesta per ora a quarantotto volumi (ma è giovane e può dare ancora molto), che a questo punto si può dire abbiano un ruolo secondario rispetto all’intensissima attività da star mediatica. Vorranno dire qualcosa questa grafomania e questo delirio di onnipresenza? Questa fame insaziabile di pubblicazioni e di comparsate? Che ci sia dietro la maledizione talmudica?

Cosa c’è dietro non lo so. Sospetto che ad un certo punto le lusinghe del mercato e della popolarità spettacolare mandino in tilt anche menti di indubbio livello, accendendo ambizioni egoistiche che scadono nella piaggeria (si può essere ruffiani in due modi: salendo sulla carrozza dei potenti o assecondando le rabbie più fumose degli “insorgenti”. Non mi risulta che alcuna lezione universitaria o conferenza dei tre sia mai stata contestata o impedita) Ma credo soprattutto che questo “odio di sé” (rivolto però a un “sé” rappresentato da tutti gli altri condomini che abitano la casa occidentale) nasca da una duplice presunzione: quella di aver individuato cosa c’è di marcio in Occidente (a seconda dei casi: un pensiero tutto fondato sulla “ragione calcolante”, una finzione democratica messa in piedi dalle classi dominanti, una narrazione della storia asservita agli interessi imperialistici): e quella di averlo fatto chiamandosi fuori dalla parte guasta del frutto.

Continuo a chiedermi comunque cosa può indurre persone tanto intelligenti a costringersi in una visione e in un uso del loro sapere così preconcetti. Ammettiamo che possano agire la temperie culturale del momento, le esperienze politiche, le ambizioni di cui sopra, tutto ciò che si vuole: ma il conoscere non dovrebbe indurre semmai a staccarsi progressivamente da ogni certezza, a ingolosirsi di ciò che di nuovo può arrivare, a non chiudersi a riccio dietro le interpretazioni dogmatiche. Come si conciliano le due cose?

Azzardo la spiegazione che mi pare più plausibile. Credo che tutto questo nasca dalla paura. Intendo la paura del vuoto che ci si spalanca davanti se appena apriamo gli occhi e usciamo dal recinto di significati che ci siamo costruiti attorno. La paura di affrontare l’assurdità della condizione umana come raccontata ad esempio da Camus, e prima ancora da Leopardi, e su su fino a Lucrezio, di guardarla negli occhi. Non sono molti quelli che reagiscono a questa consapevolezza rassegnandosi non passivamente all’assenza di uno scopo ultimo, e creandosene uno più modestamente temporaneo attraverso l’autodeterminazione etica. Nei più la paura del vuoto e dell’insignificanza induce l’urgenza di “esserci”, o almeno di apparire, e la necessità di aggrapparsi ad una bandiera (possibilmente a quelle prêt-à-porter, e non a quelle che vengono bruciate). Se poi la bandiera la si sventola o la si “indossa” in testa al gruppo, è più facile finire sui teleschermi e reclutare seguaci.

Infatti. Le arringhe dei guru dell’anti-occidentalismo sono subdolamente conformiste e confortanti, perché scodellano ad un pubblico pigro, smarrito e rancoroso verità “certe”, tra l’altro spacciandole come coraggiose “rivelazioni” che smontano le false pseudo-verità precedenti; in realtà non fanno altro che intrupparsi nella corrente revisionistica alla moda. Sembrano chiudere un lungo discorso di ricerca e di smascheramento, ma la loro ricerca era mirata solo a convalidare una visione ideologica pre-costituita.

Alla fine, ad essere verificato mi pare solo l’anatema col quale ho esordito. Continuando a “pubblicare” libri su libri, a ritmi industriali, e a “pubblicizzarli” spudoratamente abbassandosi a tutte le più perverse dinamiche del mercato, gli impavidi dissacratori della menzognera narrazione occidentale finiscono per rivelarsi i peggiori nemici di sé stessi.

P.S.

1. Needham e Bernal non costituiscono casi eccezionali di acquiescenza al dogmatismo marxista. Nella cultura anglosassone, e segnatamente in Inghilterra, furono molti, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, gli intellettuali che fecero propria questa posizione. Si va dagli scienziati, come J. B. S. Haldane, agli storici, come Christopher Hill o Eric Hobsbawm. Ma all’epoca incombeva sull’Europa la minaccia nazi-fascista, e non tutti avevano la tempra di un George Orwell. Per combattere avevano bisogno di indossare una metaforica divisa.

2. É proprio vero che le immagini a volte sono molto più eloquenti di qualsiasi trattazione scritta. Godetevi le icone dei tre moschettieri dell’anti-occidentalismo. Il quarto non è nemmeno uno scudiero, forse un valletto, ma non può essere considerato solo un intruso. In effetti è la testimonianza vivente che qualcosa nella cultura occidentale è andato storto.

3. Qualcuno tra i miei quattro corrispondenti penserà che queste elucubrazioni siano fini a stesse, frutto di una senile involuzione, e che in definitiva non portino a nulla. Su quest’ultima eventualità sono perfettamente d’accordo, ma credo che ogni tanto vadano comunque fatte le pulizie di primavera. Il cervello sarà di lì a poco nuovamente ingombro e disordinato, ma per qualche tempo almeno le idee potranno circolare un po’ più liberamente. In caso contrario, ci ritroveremo di qui a poco ad ammantarci noi stessi di bandiere, o a bruciarle, a recitare slogan, a rovesciare cassonetti. Ad essere cioè incapaci di relazionarci agli altri e alla storia in maniera civile e consapevole. In parole povere, a odiarci.

Ceci n’est pas un essai!

par le non auteur Giuseppe Rinaldi, non date 28 settembre 2025

 1. Appena finite[1] le vacanze estive, capita che uno si senta in dovere di fare il punto su come ha trascorso il tempo, sulle eventuali esperienze e su ciò che ha imparato o disimparato. A questo scopo sono impaziente di raccontare ai miei dieci lettori il mio incontro, del tutto casuale, con alcuni esponenti di un nuovo movimento politico culturale che si chiama NNCBV. Ho scritto “alcuni” per ossequio abitudinario alla grammatica convenzionale, ma avrei dovuto scrivere “alcun*”, poiché si tratta di un movimento a composizione prevalentemente non binaria[2] e fluida. Il che è senz’altro un segno dei tempi attuali. La loro è certo una sigla un po’ pesantina, peraltro anche poco pronunciabile. Si tratta ovviamente di un acronimo e, come mi è stato spiegato, sta per «Noi non ce la beviamo!». Si tratta di un motto di sfida contro il tecno-sistema, sempre più onnipervasivo e invadente, che vorrebbe proditoriamente imporre un ordine unico e arbitrario a tutta la realtà.

2. Si tratta di un movimento nato e sviluppatosi proprio nel nostro Paese, soprattutto negli ambiti metropolitani, seppure esplicitamente ricalcato sul modello della woke culture nordamericana. Quella che, ahimè, ha dato una mano indiretta a far vincere le elezioni a Trump. Ma il pericolo rappresentato da Trump, come vedremo, non è certo la preoccupazione principale di costoro. Il movimento sta già cominciando ad avere un certo seguito anche all’estero. Per ora si sta diffondendo principalmente nei Paesi limitrofi della UE ma, si sa, le cose sul Web viaggiano velocemente.

I miei dieci lettori potrebbero eccepire, a questo punto, di non averne mai sentito parlare. Anch’io non ne avevo mai sentito parlare, fino al giorno prima. In effetti, si tratta di un movimento piuttosto riservato, che evita accuratamente le comparsate pubbliche nelle piazze, tipo pride e similari. Questo perché i loro leader tendono ad avere un atteggiamento un tantino underground e, anche se non l’ammetterebbero mai, piuttosto elitario. Sono organizzati soprattutto sul Web, dove cercano di costituire, quasi esclusivamente tramite i social media, delle micro reti di solidarietà e di intervento rapido. Agiscono dunque assai riservatamente e, per accorgersi della loro presenza, bisogna aspettare di essere oggetti, ahimè, della loro attenzione o dei loro interventi provocatori, che sono sempre repentini e furtivi ma tali che lasciano il segno. Oppure bisogna che gli algoritmi dei social facciano qualche deraglio e vi consegnino, magari per errore, qualche spezzone delle loro conversazioni, dei loro documenti o dei loro filmati.

3. L’acronimo che hanno scelto, «Noi non ce la beviamo!», non si riferisce a bevande varie, come Estaté, birra, aranciate o limonate, bensì sta a indicare una posizione risoluta, una contrapposizione senza quartiere, contro certi orientamenti di costume e culturali che oggi vanno per la maggiore e che, in forma tacita, nella odierna società di massa, sono ormai più o meno condivisi da tutti. Il loro campo d’intervento si colloca principalmente a livello linguistico, niente di meno che contro la testualità dominante. Questa viene messa sotto accusa in quanto pura espressione arbitraria di un potere occulto che pervade ormai tutte le società post – industriali. L’obiettivo preciso del movimento è, infatti, quello di colpire la diffusa e onnipervasiva catalogazione dei generi testuali (come, ad esempio, saggio, articolo, lettera, romanzo, sonetto, monografia, tesi, poesia, ma anche generi minori, come la barzelletta, il proverbio, l’aforisma e, certamente, anche il necrologio – genere peraltro assai sottovalutato).

4. Non dovrebbe proprio stupire questa specifica attenzione per le questioni attinenti il linguaggio e la testualità. Sono ormai decenni che, soprattutto nell’ambito della filosofia continentale e in particolare del post-strutturalismo, è stata riservata una notevole attenzione proprio al linguaggio e ai suoi rapporti con le strutture di potere del tecno-sistema. Sul piano teorico queste tematiche sono state sviluppate soprattutto da Michel Foucault[3], il cui pensiero ha avuto ampia diffusione sulle due sponde dell’Atlantico. Sul piano pratico, sono ormai più di tre decenni che gli States (e di riverso anche l’Europa) sono percorsi in lungo e in largo dalle parole d’ordine del politically correct e, successivamente, del decisamente più avanzato crazily correct che, del precedente, è una versione potenziata, come si esprime Luca Ricolfi[4]. Anche se il crazily non sarebbe condiviso dai protagonisti stessi. È risaputo che la correctness ha progressivamente investito tutti i settori o quasi del linguaggio comune. L’uso di determinate qualificazioni o aggettivi, la denominazione di certe categorie di persone o di certe professioni, l’uso dei pronomi personali, o quant’altro. La persuasione di fondo è che attraverso il linguaggio, in modo silente e impercettibile, siano trasmessi e imposti certi rapporti di potere, e che ciò sia determinato principalmente: a) dalle strutture socio tecniche impersonali; b) dai gestori occulti della globalizzazione; c) dal capitalismo finanziario e d) dal potere maschile patriarcale. Forse è questo spiccato anti patriarcalismo che spiega il relativamente alto tasso di partecipazione dei fluidi a questo movimento.

5. Sembrava a un certo punto che la correctness avesse esaurito quasi ogni possibile obiettivo nel campo del linguaggio, avesse cioè raggiunto una specie di copertura totale. Sembrava cioè ormai essersi volta verso l’esaurimento. Pressoché tutto era stato smascherato, tutto era stato attaccato e demolito. O, per lo meno, tutti erano stati messi sul chi vive intorno alle insidie del linguaggio, come del resto recita anche il noto slogan “Stay Woke”. Ebbene, ci eravamo del tutto sbagliati. Sembrava, appunto. Non avevamo capito che il lavoro più importante restava ancora tutto da fare. Dobbiamo proprio al gruppo NNCBV (“Noi non ce la beviamo!”) di avere individuato un nuovo e forse risolutivo campo d’intervento. Come già anticipato, si tratta nientemeno che del campo della testualità.

Immagino che i miei dieci lettori stiano strabuzzando gli occhi. Cosa c’è che non va nella testualità? La testualità è dappertutto. Come faremmo se non ci fosse? È appena il caso di ricordare che, anche per diversi illustri filosofi, la testualità è stata riconosciuta come fondamentale. Un vero e proprio a priori. Ad esempio, per Jacques Derrida[5] «Non c’è nulla all’infuori del testo»[6]. In altri termini, il testo per Derrida è l’elemento ontologico che costituisce la realtà intera. In altri termini, noi stessi siamo testo. Se proprio tutto è testo, allora, dal punto di vista di NNCBV, il nemico sarebbe veramente dappertutto. Avercela con la testualità in fondo è come avercela col mondo intero. Se poi proprio noi siamo testo, a rigor di logica dovremmo avercela anche con noi stessi, ovvero con la nostra profonda natura testuale.

6. Posso confermare che il Movimento NNCBV si rende ben conto della portata radicale e globale delle proprie posizioni. Tuttavia gli esponenti del movimento non sembrano particolarmente attratti dall’aspetto metafisico della questione. Essi adottano, infatti, una teoria materialista dei fenomeni linguistici. Confessano candidamente di avere avuto trascorsi marxisti e di mantenere tuttora una forte ispirazione marxista. Ho sentito più d’uno di loro dichiarare fieramente: «Io sono marxista!». Questo nonostante abbiano “superato”, o del tutto ignorato, alcuni elementi fondamentali del marxismo, come, ad esempio, la classica suddivisione tra struttura e sovrastruttura.

Così sostengono che la testualità è oggi la minaccia per eccellenza, in quanto si trova effettivamente “alla radice” delle disuguaglianze (che loro chiamano “differenze”) che caratterizzano e governano la società post-industriale. La quale società si riduce poi a un mostruoso tecno-sistema. In particolare, secondo loro, sarebbe la vigente configurazione classificatoria della testualità a costituire una trama oppressiva che è utilizzata per giustificare e mantenere gli attuali rapporti di potere. Di qui, lo slogan «Noi non ce la beviamo!». Se è vero che – proprio come sostiene Derrida – non c’è nulla al di fuori del testo, allora è possibile che il nuovo movimento, sporgendosi anche ben oltre Marx, abbia finalmente individuato l’obiettivo risolutivo, che permetterà di intaccare gli attuali rapporti di potere a tutti i livelli. Un movimento totale dunque.

«Vasto programma!» verrebbe da dire a quelli come noi, proni invece da tempo a qualsiasi conformismo testuale e ormai abituati a rinunciare a ogni opposizione. Alle mie modeste e imbarazzate obiezioni sulla fattibilità di un simile totale intervento trasformativo, mi è stato risposto che si tratta di procedere per tappe e di confidare sul fatto che, se si dispone di una strategia corretta, e avendo tempo e energie da investire, allora «una tappa tira l’altra».

7. La prima tappa sarà dunque proprio quella di liberare il testo dalle gabbie della testualità. Si tratta di identificare quelle che sono comunemente considerate come le strutture oggettive della testualità e di mostrare come queste siano soltanto dei dispositivi autoritari al servizio del tecno-sistema imperante. È questa un’azione sistematica di smascheramento, che mette chiaramente in connessione le teorie NNCBV con le famose filosofie del sospetto. Il Movimento crede fermamente nel potere dello smascheramento. Poiché il potere della testualità si basa meramente sulla illusione – qui c’è senz’altro un richiamo a Jean Baudrillard[7] e al segno come merce – il suo smascheramento coinciderà con la sua immediata evaporazione. In realtà, il precursore vero di questa prospettiva – come sanno anche i liceali – è stato Ludwig Feuerbach[8]. Se si pensa poi ad alcune avanguardie artistiche del primo Novecento, si potrebbe anche ritenere che non ci sia granché di nuovo ma, in effetti, vedremo che non è proprio così.

8. La seconda tappa, decisamente più radicale, consisterà nel liberare il testo dalle costrizioni grammaticali, soprattutto dalle strutture sintattiche e ortografiche, da sempre percepite, più o meno da tutti, come un vincolo, una limitazione, e poi tipicamente tecnocratiche, patriarcali e maschiliste. Tutto ciò, oltretutto, darà modo di moltiplicare le capacità espressive e creative di ciascuno di noi. Quelle capacità che abbiamo dovuto progressivamente reprimere nel corso della nostra formazione personale, sui banchi di scuola e attraverso i media. Ciò avrà anche, cosa di non minor importanza, l’effetto di imbrogliare sistematicamente le AI che lavorano soprattutto con modelli linguistici LLM, a previsione probabilistica.

9. La terza fase, la fase finale, sarà la liberazione del testo da ogni tipo di rigidità, in modo da assicurare la più completa fluidità testuale e fluidità comunicativa. Ma perché mai proprio la fluidità dovrebbe diventare l’obiettivo finale? Occorre ricordare che la fluidità – solo ora stiamo cominciando a capirlo pienamente – è una delle fondamentali implicazioni delle numerose filosofie della differenza che hanno caratterizzato per lo meno gli ultimi due secoli. Qui, a sentir queste parole, confesso di avere accusato qualche defaillance, poiché mi sono ricordato, con un profondo gulp, dei miei ripetuti, ma vani, tentativi di leggere Deleuze[9]. Non sono mai riuscito ad andare oltre le venti pagine. Limiti miei.

10. Mi spiegano così che è ormai diventato sempre più chiaro che ci sono differenze buone e differenze cattive. Le differenze dicotomiche non sono vere differenze. Sono imposte dal sistema, fanno parte di un ordine estraneo che è sovrapposto alla realtà, la quale invece è, di per sé, continua e non facit saltus. Si tratta allora di andare oltre la dicotomia, per considerare spettri sempre più ampi di gradazioni di differenze, e ciò – se perseguito rigorosamente – alla fine non potrà che portare alla fluidità totale. Il discreto, in altri termini, si trasformerà in continuo. Ogni elemento del testo (le lettere, le maiuscole, gli spazi, le interpunzioni) sarà, così, libero di fluire a caso, senza alcuna preventiva prevedibilità. Ciò permetterà di produrre sequenze sempre nuove di elementi, massimamente eterogenei ma continui, che interagiranno gli uni con gli altri, mossi soprattutto non dal caso bensì dal desiderio. A questo punto, le differenze fluide si manifesteranno principalmente in base al ritmo, all’accentazione e alla musicalità. Solo la fluidità assoluta permetterà di sfuggire, una volta per tutte, all’ordine deterministico imposto dal sistema, dalla ragione strumentale, dai vincoli della tecnica e del potere maschile. E qui, la maggior parte del lavoro sarà stato fatto.

Va oltretutto ricordato – per chi se ne fosse scordato – che, intanto, è già in avanzata realizzazione un progetto del tutto analogo nel campo della sessualità, che è un altro baluardo del tecno-potere. Al mondo binary della forzatura, degli incasellamenti contro natura, si sta opponendo il nuovo mondo delle infinite gradazioni, rispondente al diritto di ciascuno di modulare all’infinito – e “infinito” è davvero termine impegnativo – senza pregiudizi, la propria identità sessuale. Certo, occorrerà un’infinità di diversi pronomi personali, e un controllo sulla corretta applicazione degli stessi, ma la cosa non è giudicata impossibile.

11. Si tratta di teorie indubbiamente ardimentose, e tuttavia decisamente affascinanti. L’esposizione fattane dai loro militanti è decisamente sciolta e senz’altro fluida. Si tratterebbe, insomma, di smuovere finalmente tutto ciò che era stato immobilizzato dalla logica deterministica del sistema governato dalla ragione strumentale dicotomica. Quella stessa ragione in ultima analisi generatrice del tecno-sistema. Non nascondo che si tratti di concezioni alquanto complesse, che richiedono una notevole capacità di comprensione profonda e di meditazione.

Tuttavia gli esponenti del Movimento, al di là delle loro propensioni underground, ritengono che il nucleo del loro messaggio sia veramente a disposizione di tutti. Si tratta di mettere da parte il pregiudizio intellettualistico, che è sempre dicotomico e sempre in agguato, e di lasciarsi guidare soprattutto dal desiderio. Concetto peraltro già citato. Mentre l’intelletto è una pura sovrastruttura, il desiderio costituisce la struttura profonda e basilare, rizomatica, di ogni soggetto. Quelli del movimento parlano, infatti, proprio di un soggetto desiderante. Il soggetto desiderante è ovunque ormai pesantemente inibito dai processi dicotomici. Si tratta di risvegliarlo, di richiamarlo alla luce. Per fare ciò bisogna procedere dall’interno, lasciare che il desiderio si manifesti. Bisogna sapersi ascoltare. La cosa importante è che ciascuno si liberi delle sovrastrutture dicotomiche normative e impari a seguire il proprio desiderio. Si tratta di mettere da parte ogni intellettualismo e di procedere seguendo la propria intuizione.

12. Di fronte a questo profluvio di teoria, in attesa di approfondire il quadro complessivo, ho pensato bene, nel mio piccolo, di concentrarmi sulla prima tappa prevista dal Movimento. Intorno alla quale cercherò di dire qualcosa di più preciso. Cosa significa liberare il testo dalle gabbie della testualità? Vediamo intanto come vien da loro descritta l’attuale situazione di oppressione. Oggi, principalmente in Occidente, la testualità è imprigionata in una logica di potere che la costringe in una serie di categorie dicotomiche del tutto artificiali. Si tratta dell’articolazione cognitiva del potere classificatorio, ben nota fin dagli studi di Durkheim e Mauss[10]. Classificazioni che riducono i gradi di libertà di chi scrive, costringendo anche chi legge ad avere a che fare per lo più con merce preconfezionata e del tutto prevedibile. Tanto che perfino i modelli LLM riescono a produrre testi perfettamente canonici. Merce imposta, sempre accompagnata da qualche tetra categorizzazione testuale.

13. Ma vediamo in pratica. L’oppressione comincia fin dalla prima infanzia. Ai bambini piccoli vien detto «Scrivi i pensierini», escludendo già, con ciò, che si possano scrivere dei versi liberi, o ci si possa mettere a cantare, o si possa più semplicemente picchiare sul banco con la matita, come farebbe ogni piccolo della specie umana, se fosse spinto soltanto dal puro desiderio. Ogni “pensierino”, poi, è fin dall’inizio strutturalmente determinato, deve cominciare con la lettera maiuscola e finire con un punto a capo. Vien detto loro poi di fare il riassunto dei pensierini. Il riassunto dovrebbe individuare un contenuto prefissato che addirittura si troverebbe già nel testo da riassumere. Ma in ogni testo, come vedremo, c’è sempre un’infinità di contenuti. A rigor di logica, se si riflette bene, anche solo seguendo Derrida, il riassunto è impossibile. Non c’è fuori testo. Anche la composizione del famoso tema prevede un sacco di limitazioni e poi, soprattutto, implica l’imposizione esterna di un enunciato. Il tema poi, notoriamente, risale alla Ratio Studiorum gesuitica, autentico supplizio della mente e del corpo. Qualunque tema, poi, presuppone un destinatario che è, in realtà, un’ipertrofica struttura giudicante cui ci si abitua a sottoporsi. La scuola, da questo punto di vista, svolge la funzione della principale agenzia di controllo e imposizione. Qualcuno la chiama dispositivo della testualità dominante.

14. Crescendo, le limitazioni testuali si moltiplicano, con una sempre maggiore imposizione di regole sempre più assurde e arbitrarie. Così si viene progressivamente costretti nelle stretture dei generi testuali più ufficiali: diario, lettera, telegramma (ora per fortuna un poco in disuso), articolo di giornale, relazione, tesina, saggio breve, SMS, saggio bibliografico, saggio critico, articolo di storia, articolo di attualità, tesi di laurea triennale, tesi di laurea quinquennale, catalogo delle navi, manuale della lavatrice, racconto, sonetto, romanzo. Chi più ne ha, più ne metta. E questa è solo una parte minima delle possibili articolazioni dei generi testuali. Ma questo bestiario dei generi testuali è costituito da un cumulo di prescrizioni arbitrarie.

L’articolo di giornale per esser tale deve avere un certo numero di battute, ma nessuno sa dire davvero quante. Il saggio breve, che si usava all’esame di Stato, doveva avere caratteristiche così vincolanti che erano lesive della libertà di chiunque. Si dovevano mette anche le note a piè di pagina. Meno male che ci ha pensato la ministra Fedeli a sopprimere un tale abominio nel 2019. La tesi di laurea triennale, poi, secondo Vera Gheno[11], potrebbe avere come minimo 15 pagine e come massimo 70. Chi lo ha detto? E se mi volessi laureare con una tesina di 14 pagine? O di 71? Ci sono dei saggi in Montaigne[12] – che pure di saggi se ne intendeva – che sono lunghi una pagina e mezza. Se andate poi a consultare i numerosi manuali di scrittura, che continuano a essere pubblicati a un ritmo incalzante, troverete una miriade di prescrizioni, peraltro spesso in disaccordo tra loro, che costituiscono altrettante intimidazioni nei confronti di chi si appresti anche solo a compilare una lista della spesa, la qual lista poi è forse il più negletto dei generi testuali, seppure tra i più indispensabili. Chiunque legga anche uno solo di questi manuali non può che sentirsi intimidito. Convinzione del movimento NNCBV è che questo sconcio debba finire. Si tratta allora di condurre un attacco al cuore dei generi testuali.

15. Sì, va bene, ma come si fa? Noi, che abbiamo avuto i nostri peccati di gioventù, di primo acchito saremmo tentati, sull’onda di un’antica simpatia per Feyerabend[13], di dire che «Anything goes!», qualsiasi cosa va bene. Sarebbe sufficiente una negazione estemporanea delle regole, ogniqualvolta si venga in contatto con esse. Solo alla fine di ciascuna intensa giornata di disseminazione della contestazione, il militante dedito alla causa NNCBV, potrebbe fare il bilancio del caos testuale che è riuscito a seminare. Si potrebbero fare anche delle gare. Pur accettando pienamente la prospettiva feyerabendiana, il Movimento crede tuttavia particolarmente in paio di specifiche strategie che andrò a illustrare.

16. Uno dei metodi proposti dal movimento NNCBV è il détournement, ossia la diversione. Non si tratta certo di una novità, poiché notoriamente è il recupero di un vecchio metodo lettrista e situazionista. La novità è che ora sarà applicato sistematicamente proprio ai generi testuali. Sono certo che i miei dieci lettori avranno piacere di avere qualche esempio. Potete finalmente mettere in versi, con pieno valore legale, il verbale della riunione di condominio. Potete conferire un risvolto poetico anche ai latrati rivolti alla luna, del vostro cane, dopo una accurata registrazione, masterizzazione e relativa diffusione su Facebook. Potete ordinare una pubblicità alla radio locale che usi lo stesso idioma delle lettere circolari dell’Agenzia delle entrate. Oppure un verbale della Polizia potrebbe cantare in musica: «Lei andava a cento all’ora per trovar la bimba sua!». Si potrà – finalmente – avere un trattato sul modello standard della fisica delle particelle scritto interamente in versi dialettali, e per giunta, finalmente, senza formule matematiche. Il principio generale del détournement è il seguente: poiché tutto è sempre collocato in un contesto (e ogni contesto è sempre vincolante e normativo, cioè autoritario), allora la mutazione inattesa del contesto, il cambiamento repentino del gioco linguistico, come direbbe Lyotard[14], rende palese la dipendenza dal contesto e, nello stesso tempo, produce espressioni del tutto nuove, nello spirito della fluidità creativa.

17. Ma non basta. Poiché abbiamo citato Derrida, tra i metodi di NNCBV non poteva mancare anche la decostruzione. Per definizione, secondo i decostruzionisti, un testo qualsiasi (si ricordi che, per Derrida, tutto è testo!) non dice mai quel che apparentemente sembra voler dire. Dice sempre altro. Un testo in sé non è mai quel che sembra, è sempre qualcos’altro. Dietro al testo, sempre il sospetto ci cova. Attraverso la déconstruction si tratta di spremere il testo e fargli tirar fuori quello che proditoriamente nasconde. Trasferito questo concetto nel campo dei generi testuali, avremo dei risultati sorprendenti. Un genere testuale non è mai quello che si presenta come tale. Un saggio bibliografico potrebbe essere in realtà – à la Bourdieu – un episodio dello scontro di potere tra fazioni accademiche. Un vocabolario della pronuncia, come il DOP, sarà decostruito e interpretato come un dispositivo (Gestell) heideggeriano. Un apparato cioè che è espressione della tecnica e che consegue dal nascondimento dell’essere. Coloro che sono costretti all’uso del DOP scontano, per intanto, di non essere di madre lingua tedesca – cosa gravissima – e, poi, non possono che palesare così la loro condizione di deiezione e il loro oblio dell’essere. La famosa lista della spesa va interpretata, in realtà, come una denuncia dell’impoverimento del ceto medio, oppure della pericolosa tendenza verso l’obesità di una fascia sempre più ampia della popolazione. Un saggio, qualunque sia il suo contenuto, non può che essere una potente espressione della vana gloria, inevitabile da parte dell’autore: poiché scrivere un vero saggio è impossibile, chi dichiara di averne scritto uno, per di più nell’incipit, non può che essere in perfetta malafede. L’autore, autoproclamatosi tale, poi non sa, non solo che il saggio è impossibile, ma non sa neppure che ormai, da decenni, è stata dichiarata anche la mort de l’auteur[15]. Ma la casistica è infinita, poiché ovunque ci sia genere testuale, lì non può esserci che decostruzione. Per questo non si può mai fare un riassunto: i significati del testo sono in realtà infiniti. Non c’è fuori testo.

18. Un bambino sfortunato crede di star facendo un tema in classe, in realtà la sua è la denuncia di una violenza subita in famiglia. Senza decostruzione, la sua denuncia non sarebbe neanche recepita. La sequenza degli SMS sul telefonino è in realtà qualcosa di ben diverso da quel che comunemente si pensa. Si tratta, infatti, di un vero e proprio testo narrativo, di grande spessore e complessità, da fare invidia a cose come I fratelli Karamazov – si sa che la prosaica vita vera, con i suoi dettagli minimalisti ma autentici, è in grado di fare impallidire la migliore fiction. Gli scontrini del supermercato, opportunamente raccolti e trattati, costituiscono dei realistici saggi di scienza economica. In ogni caso, è la univocità della forma testuale che deve essere messa in gioco. Deve essere smascherata nella sua impossibilità. Attraverso il détournement e la deconstruction si tratta allora di rompere i confini presuntuosamente certi della testualità, mostrare coram populo le strutture di potere ovunque nascoste del pensiero unico. Solo lo smascheramento può dissolvere l’illusione costantemente messa e mantenuta in scena dal tecno-sistema.

19. Ecco che, allora, nessuno degli ingenui beoti che usano allegramente e spensieratamente le consuete classificazioni dei generi testuali, quelli dei vari manuali su “come si scrive”, può più sentirsi veramente al sicuro. Non appena si pubblica qualcosa, ci si espone continuamente agli attacchi di guerriglia linguistica dei NNCBV. Mi permetto di ricordare che uno dei primi a parlare di agonismo linguistico è stato proprio Lyotard. Ci si espone anche perché, in effetti, un qualsiasi tentativo di definizione dei generi testuali – agli occhi del Movimento – non può che rivelare l’impossibilità oggettiva di portare a termine la consegna. Questo per il motivo banale, appena visto, che ogni testo non è mai quello che dice di essere. E gli esponenti del Movimento NNCBV si impegnano a farlo notare con i loro interventi estemporanei, a sorpresa, talvolta anche necessariamente cattivi. Ma un po’ di guerriglia violenta è indispensabile, se vuoi davvero cambiare la situazione e salvare la libertà di espressione di tutti noi.

20. In queste operazioni di guerriglia linguistica, i NNCBV fanno grande uso di un espediente che ha una lunga storia filosofica alle spalle: l’ironia. Non certo quella di Socrate, che non credeva neanche alla scrittura, bensì preferibilmente quella di Rorty[16]. L’ironia rortiana non è quella dell’ingenuo che cerca la verità, come Socrate, bensì quella di chi ha capito com’è fatto davvero il mondo. Di chi si è finalmente pacificato col problema della verità, ammettendo che esistono mille verità, che ciascuno ha la sua verità, per cui possiamo benissimo stare in un mondo di tante verità che si equivalgono, oppure anche del tutto senza verità. Questo però è possibile purché ci mostriamo sempre bene educati e tolleranti. E pratichiamo la solidarietà. Non dovrebbe sfuggire al lettore la stretta parentela con l’ironismo rortiano del rifiuto delle dicotomie e delle classificazioni da parte del Movimento. Nonché la parentela stretta tra le mille verità e le infinite differenze fluide che costituiscono il mondo. Del resto, saper stare agevolmente senza punti fermi è la vera profonda caratteristica del postmoderno.

21. Credi di avere scritto un articolo di giornale? Sei un illuso, perché hai sbarellato sulla lunghezza, manca la descrizione completa di un fatto e c’è in mezzo una figura retorica inappropriata, inaccettabile in un articolo del genere. Il titolo poi non va bene. E poi il giornale su cui scrivi non è veramente un giornale. Come fai a sapere che un giornale è proprio un giornale? Insomma, scrivere un articolo di giornale vero è impossibile. Credi di avere scritto un racconto? Ma cosa è davvero un racconto, che requisito deve avere per esser tale secondo le regole? Nessun racconto sarà mai davvero esaustivo dei precetti testuali. Credi di avere scritto un saggio? Povero illuso. Il tuo saggio ha in realtà la stessa struttura sequenziale (cioè, tanti orrendi capoversi numerati!) della lista della spesa. Credi di star facendo della satira? Niente di più sbagliato, la tua non è satira, hai solo prodotto una elementare serissima descrizione di persone e comportamenti che hai appena incontrato nel piatto mondo ordinario. Hai tenuto una relazione? Ma come facciamo a sapere che si trattava proprio di una relazione, quando hai speso metà del tempo a divagare sul significato di un solo concetto? Perché ci sia una relazione, ci dovrebbe essere un contenuto, ma si dimostra facilmente che, essendo i contenuti infiniti, non ci può essere alcun contenuto prevalente. Dunque o hai relazionato su tutto, cosa impossibile, oppure su niente, cosa del tutto inutile. E poi, qual è il pubblico minimo perché si possa dire di avere “tenuto una relazione”? Su quest’ultimo punto ci viene in mente il famoso argomento del sorite, ben noto ai liceali di un tempo.

Insomma, di fronte alle solerti, puntuali, acute e ironiche (seppur non sempre bene educate, solidali e tolleranti) contestazioni di NNCBV, qualunque definizione darai del tuo testo sarà considerata pretestuosa, imperfetta, inattendibile e, dunque, prova ultimativa che i generi testuali sono soltanto imposizioni arbitrare del potere e del patriarcato. Se tu dovessi perseverare nelle tue ingenue convinzioni, saresti additato al pubblico ludibrio come servo del potere. Servo così stupido da essere perfino inconsapevole. Così la derisione collettiva (altrimenti detta gogna testuale) incombe sugli ingenui praticanti delle dicotomie testuali e delle loro varie pretese impossibili classificazioni autoritarie. Colpiscine uno, per educarne cento!

22. Ai miei dieci lettori verrà tuttavia da domandarsi: «Che fine farà allora il contenuto testuale?». È abbastanza chiaro che le provocazioni del Movimento mettono in primo piano l’elemento formale ed evitano di concentrarsi sul contenuto del testo. É questa una questione davvero non secondaria. Secondo NNCBV, prima di pensare al contenuto eventuale, si tratta di vedere sempre se la forma è autentica. Ma poiché nessuna forma può essere davvero autentica, per definizione, allora a considerare il contenuto non si arriverà mai. E questa è senz’altro una conseguenza consapevolmente voluta dal Movimento. Liberare il testo dalla sua forma significa anche liberarsi dalla schiavitù del contenuto. Diciamolo pure: «Il contenuto è una roba da vecchi!». Una roba da Boomer. In effetti, il contenuto non è certo la principale preoccupazione del Movimento. Il Movimento, a quanto ci è parso di capire, è di fatto del tutto indifferente rispetto ai contenuti. Liberati finalmente dalla forma, i contenuti divenuti privi di forma saranno abbandonati al loro destino. Al loro posto, si lascerà spazio a una benevola e gratuita ironia rortiana nei confronti di qualsiasi contenuto. Del resto, la fluidità espressiva, mossa dal desiderio, produrrà contenuti fluidi sempre nuovi e sarà così del tutto inutile soffermarsi su qualsiasi contenuto particolare. I contenuti di ieri, oggi sono già scaduti, da dimenticare o da buttare.

23. Dopo queste lunghe argomentazioni e spiegazioni, son rimasto quasi senza parole. Di stucco. E ho fatto un altro paio di gulp. Devo dire che, per quanto provocatoriamente radicale, il Movimento sembra possedere una base teorica alquanto lucida e consapevole, ben più di altri movimenti similari. Una base teorica difficilmente attaccabile. Impossibile da attaccare. Anche perché attaccare le loro teorie significherebbe attaccare, più o meno, tutta la filosofia continentale degli ultimi secoli. Naturalmente, poi, è innegabile che la loro pratica sia un’immediata conseguenza della teoria. Qui, veramente, la filosofia si capovolge e diventa pratica per trasformare finalmente il mondo.

24. Tuttavia devo ancora riferire di un piccolo dettaglio di costume che forse getta qualche ombra sulla lucidità della teoria e, soprattutto, sulla pratica del movimento NNCBV. Visto che la realtà, come dice Derrida, è interamente testuale, “Non c’è fuori testo”, ne consegue che l’impegno dei militanti fluidi è piuttosto pesante e questo fatto – si ammetterà – genera un certo stress psicologico. Oltretutto, la loro negazione pratica dei generi testuali crea un serio disturbo alla loro stessa vita sociale – che, al di fuori del gruppo di riferimento, è praticamente inesistente.

Allora, forse proprio per questo stress, accade che, a ogni fine stagione, quando altrove sarebbe il momento dei saldi, i militanti del gruppo celebrino, ahimè, la loro settimana del testo. Si tratta di una specie di rito carnevalesco che ricorda ai militanti, in forma decisamente orgiastica, l’altro lato del mondo, l’altra faccia della luna. Nientemeno che la testualità proibita. Questo forse per mantenere una qualche consapevolezza di quanto viene combattuto e represso tutti gli altri giorni. Freud avrebbe forse parlato di un ritorno del represso. L’antropologia culturale, su questo costume, avrebbe notevoli materiali su cui indagare.

25. Si tratta di un rituale da loro chiamato festa della testualità totemica, dove i militanti – in collegamento webcam – indossano ciascuno la maschera di uno dei generi testuali tanto esecrati, tanto considerati come impossibili. E così mascherati, si danno a produrre, tra lazzi e schiamazzi, coriandoli e trombette, in forma esagerata e compulsiva, barzellette, temi in classe, articoli di giornale, poesie, saggi e saggi brevi, tesi triennali, iscrizioni sepolcrali, necrologi e quant’altro. Fanno anche i riassunti! Insomma, una specie di ebbro mondo alla rovescia, dove Penelope disfa la tela che ha appena tessuto, dove potrete vedere (se sarete stati fortunati ad avere l’accesso, attraverso Facebook e i social media) i duri militanti, ora mascherati come satiri, diventare i più ortodossi cultori delle distinzioni tra i generi testuali. Li vedrete cioè intenti a tracciare e mantenere enfaticamente le prima tanto odiate distinzioni dicotomiche. Ma questo accade solo per pochi giorni. Tornando alla normalità della vita reale, il mondo illusorio “totemico” appena creato si dissolve e quegli stessi video e materiali prodotti saranno accuratamente riposti e conservati per il carnevale della stagione successiva. Quindi – un avviso ai miei dieci lettori – dovete stare bene attenti. Se su qualche social vi imbatterete in qualche esponente NNCBV, dovrete per prima cosa cercare di capire se si tratta del normale periodo di attività oppure di quello dei saldi di fine stagione. Personalmente, mi hanno fatto venire in mente gli australiani descritti da Durkheim[17], i quali per tutto l’anno si proibiscono di mangiare l’animale totemico, ma poi, nel giorno della festa, ne fanno una scorpacciata.

26. Comunque – nessuno è perfetto – lunga vita a Noi non ce la beviamo! Si tratta senz’altro di un Movimento nostrano che non ha nulla da invidiare alla cancel culture, a Me Too, a BLM, a Stay Woke o al più noto onnicomprensivo politically correct, o anche magari crazily correct. Resta un piccolo problema, ma solo per me, umile cronista di un incontro casuale durante una vacanza estiva. Dopo le sollecitazioni del Movimento, non oso proprio più asserire cosa sia questa cosa che ho appena scritto per i miei dieci lettori. E quindi mi trovo in estrema difficoltà, anche soltanto a trovare un titolo. Satira? Barzelletta? Manuale della lavatrice? Cronaca filosofica? Diario di viaggio? Articolo di giornale? Batracomiomachia? Trattato di morale? Non-fiction? Paradosso? Racconto di fantascienza? Flusso di coscienza? Saggio à la Montaigne? Saggio di linguistica? Racconto breve? Sogno di una notte di mezza estate? Così, spinto dal dubbio, mi è venuto in mente che, per schivare le giuste rampogne del Movimento NNCBV, non mi restava che nascondermi dietro a una nota tattica surrealista[18]. Tanto per riuscire a essere politically correct almeno una volta.


Note

[1] Se “questo non è un saggio”, ne deriva che anche l’autore non è un autore. La cosa non è del tutto impossibile. Abbiamo ben presente la sofisticata problematica relativa alla morte dell’autore (a partire da Roland Barthes, 1984,“La mort de l’auteur”, LesÉditionsduSeuil, Paris.  Tr. it.: “La morte dell’autore”, in Barthes, Roland   (a cura di), Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino, 1988). Infatti, il non autore di questo non saggio non ci ha messo proprio niente di suo. Si è limitato a guardarsi intorno, a osservare qualche personaggio ridicolo dei nostri tempi e a rubacchiare qualche spunto, qua e là, nella letteratura che va per la maggiore e che sta friggendo le menti delle vecchie e nuove generazioni. Nella stesura di questo non saggio il non autore non si è servito di alcuno strumento di AI, ovvero di intelligenza artificiale. Anche perché, qualora lo avesse fatto, si sarebbe trattato piuttosto di IA, ovvero di Ignoranza Artificiale.
Pubblicato su Finestre rotte il 31 agosto 2025.

[2] Non binary è un neologismo che si sta diffondendo sempre più, e sta a contraddistinguere coloro che rifiutano di stare nella strettoia delle dicotomie e delle classificazioni.

[3] Michel Foucault (1926-1984). Qualificato come filosofo e (ahimè) sociologo francese.

[4] Cfr.: 2024 Ricolfi, Luca, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, Milano.

[5] Jacques Derrida (1930-2004), filosofo francese post strutturalista, inventore del decostruzionismo.

[6] La frase che molti citano suona come “Non c’è fuori-testo” e si trova alla pag. 219 in: 1967, Derrida, Jacques, De la grammatologie, LesÉditions de Minuit, Paris.  Tr. it.: Della grammatologia, Jaca Book, Milano, 1998.

[7] Ci si riferisce a Jean Baudrillard (1929-2007), sociologo, filosofo, politologo e saggista francese.

[8] Ludwig Feuerbach (1804-1872), filosofo della sinistra hegeliana.

[9] Mi riferisco al filosofo francese post – strutturalista Gilles Deleuze (1925-1995).

[10] Mi riferisco ovviamente al noto saggio: 1903 Durkheim, Émile&Mauss, Marcel, “De quelquesformesprimitives de classification”, in L’annéesociologique, n. 6, 1903.  Tr. it.: “Alcune forme primitive di classificazione”, in Durkheim, Émile&Mauss, Marcel   (a cura di), Sociologia e antropologia, Melita, La Spezia, 1981.

[11] Nota esperta di linguistica, peraltro aperta a molte innovazioni, come la “schwa”. Dice la Gheno: «In alcuni atenei [la lunghezza ndr] è di 20 pagine, con una tolleranza di più o meno 5 pagine; ma di solito, se non è diversamente specificato, la lunghezza attesa è compresa tra le 35 e le 70 pagine». Cfr.: 2019, Gheno, Vera, La tesi di laurea, Zanichelli, Bologna (pag. 8). Questo mio non saggio ammonta in tutto a circa 39 000 battute. A 2000 battute per pagina, potrei già prendere, da qualche parte, una non laurea triennale!

[12] Michel de Montaigne (1533-1592). Celebre autore dei Saggi. Cfr.: 1986 De Montaigne, Michel, Saggi (a cura di Virginio Enrico), Mondadori, Milano. [1580-1588]. C’è una traduzione nuova da Bompiani.

[13] Mi riferisco a Paul Feyerabend (1919-1994), noto epistemologo che ha sostenuto l’anarchismo metodologico. La sua posizione è davvero sottile, poiché l’anarchismo metodologico rende del tutto superflua l’epistemologia stessa.

[14] Francois Lyotard (1924-1998) filosofo francese post-strutturalista, considerato come il principale esponente del postmodernismo filosofico.

[15] Vedi nota n. 1.

[16] Il riferimento va a Richard Rorty (19341-2007), filosofo neo pragmatista americano, assai vicino al postmodernismo.

[17] Mi riferisco a: 1942 Durkheim, Émile, Lesformesélémentaires de la vie religieuse. Le systémetotémique en Australie, Alcan, Paris.  Tr. it.: Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Newton Compton, Roma, 1973.

[18] Mi riferisco a René Magritte (1898-1967) e alla lettura anti fondazionale e relativista che Michel Foucault ha fatto della di lui opera titolata “Ceci n’est pas une pipe”.

Il fenomeno vago della postverità

di Giuseppe Rinaldi, 20 giugno 2025

Negli interventi postati su questo sito compare sempre più spesso il richiamo alla “verità”. Non è un caso. È un’insistenza voluta. Questo non perché si stia abbracciando un qualche credo fondamentalista, o si vogliano rincorrere le “offerte culturali” del mese, che traboccano non di sconti ma di concetti dati per scontati, primo tra tutti, guarda caso, quello di post-verità. La nostra è semmai è una controfferta: vorremmo difendere l’idea che una convivenza civile non possa prescindere da una quota sia pur minima di verità condivisa, intesa quest’ultima non come scolpita su marmo in lettere maiuscole – “LA VERITÀ” sulle origini e sui destini del mondo – ma come lo sforzo di comprendere e descrivere nella maniera più oggettiva possibile l’andamento delle cose nel mondo. Se rifiutiamo che i nostri rapporti con ciò e con chi ci circonda debbano e possano essere improntati a questa idea, allora apriamo la porta appunto alla post-verità: cioè al nuovo fondamentalismo relativista.

Ci sembra dunque più che opportuno riproporre il saggio scritto da Beppe Rinaldi sette anni orsono sul fenomeno della post-verità e pubblicato sul sito “Finestre rotte” il 5 aprile 2018. In tempi di intelligenza artificiale e di rincitrullimento di quella naturale sette anni equivalgono a secoli, ma nel saggio c’era già tutto il necessario per capire quella che oggi appare una inarrestabile deriva. E soprattutto c’era – e c’è ancora, e vale anzi più che mai –, proprio per la profondità e la lucidità e l’accuratezza che sempre distinguono le riflessioni di Rinaldi, l’esempio concreto di come a tale deriva si possa malgrado tutto opporre una dignitosa resistenza. Senza sventolare o bruciare bandiere, senza scandire slogan insulsi, senza inscenare pietose pantomime per le strade o nelle aule parlamentari: semplicemente perseverando nella volontà di conoscere, e quindi di pensare con la propria testa, e insistendo a credere nella possibilità di condividere e di confrontare delle idee, anziché delle ideologie (o peggio, delle imposture o delle stronzate).

Leggetevi allora queste pagine con la calma e l’attenzione che meritano: magari non accederete all’empireo della Verità, ma ne uscirete senz’altro vaccinati contro la post-verità.

Paolo Repetto

***

1. Da qualche tempo[1] le fake-news sono all’ordine del giorno. La loro diffusione sta preoccupando alquanto il mondo della informazione e quello della politica, i governi e perfino le grandi multinazionali dei social media. C’è solo da essere soddisfatti poiché, finalmente, il grande pubblico sembra abbia compreso che le fake sono una cosa seria e che possono rappresentare un enorme pericolo. Si sta diffondendo, a quanto pare, la consapevolezza che, in una società minimamente civile, non possiamo fare a meno della verità. Una modica quantità di verità sembra sempre più costituire un bene primario cui non possiamo rinunciare. Non resta che sperare che non sia già stato ampiamente superato il punto di non ritorno. In realtà, il caso delle fake-news è solo uno degli aspetti – forse quello più appariscente ma non certo il più importante – di un fenomeno assai più generale e cioè della diffusione della menzogna, e di una serie di suoi nuovi derivati, nelle interazioni sociali, nello spazio pubblico della comunicazione e, soprattutto, nell’ambito della politica nazionale e internazionale. Si tratta di un fenomeno che ha cominciato a essere segnalato intorno agli anni Novanta del secolo scorso e che è cresciuto progressivamente fino ai nostri giorni.

2. In campo culturale, e particolarmente in campo filosofico, l’allarme circa la diffusione di prodotti menzogneri è vecchio ormai di almeno due o tre decenni. Tra l’inizio degli anni Novanta e il nuovo secolo avevano cominciato a comparire varie reazioni critiche nei confronti della diffusione di certi prodotti subculturali, strettamente legati all’affermazione presso il grande pubblico del postmodernismo.[2] Nel 1997 Sokal e Bricmont pubblicarono un loro famoso saggio contro le imposture intellettuali[3](fashionable nonsense)in cui furono messe alla berlina le disinvolture argomentative di alcuni famosi intellettuali postmoderni per lo più francesi (Lacan, Kristeva, Irigaray, Latour, Baudrillard, Deleuze, Guattari, Virilio) e in cui si faceva un resoconto dettagliato della cosiddetta burla di Sokal che aveva contribuito a smascherare un certo ambiente postmoderno nordamericano.

Sokal e Bricmont erano entrambi professori di fisica, rispettivamente a New York e a Lovanio. Ecco il resoconto della burla, attraverso la penna dei diretti protagonisti: «[…] uno di noi, Sokal, decise di tentare un esperimento non ortodosso […]: sottopose a una rivista culturale americana alla moda, Social Text, una parodia del genere di articoli che abbiamo visto proliferare negli ultimi anni, per vedere se l’avrebbero pubblicata. L’articolo, intitolato «Trasgredire le frontiere, verso un’ermeneutica trasformativa della gravità quantistica», è pieno di assurdità e di palesi non sequitur. Inoltre propone una forma estrema di relativismo cognitivo: dopo aver messo in ridicolo il “dogma” superato secondo cui “esista un mondo esterno, le cui proprietà sono indipendenti da ogni essere umano in quanto individuo, e in definitiva dall’umanità intera”, afferma categoricamente che “la ‘realtà’ fisica, non meno che la ‘realtà’ sociale, è in fin dei conti una costruzione sociale e linguistica”. Attraverso una serie di salti logici sbalorditivi, arriva alla conclusione che “il π di Euclide e la G di Newton, un tempo considerati costanti ed universali, vengono ora percepiti nella loro ineluttabile storicità […]”. Il resto dell’ articolo è dello stesso tono. Ciò nonostante l’articolo fu pubblicato in un numero speciale di Social Text […]. La beffa fu immediatamente svelata dallo stesso Sokal, suscitando un diluvio di reazioni […]».[4] Tutto ciò avveniva nel 1996. Possiamo considerare da parte nostra che, in generale, stupidaggini alla moda ci siano sempre state ma è abbastanza significativo il fatto che il loro primo massiccio sdoganamento e il loro primo debutto nei circoli della cultura alta sia avvenuto proprio all’interno del mondo stesso degli intellettuali, il quale deve, evidentemente, aver subito qualche trasformazione profonda.

3. L’allarme circa la diffusione di contenuti menzogneri non ha riguardato solo il campo della produzione intellettuale. Nel 2005 il filosofo nordamericano Harry Frankfurt pubblicò un libretto intitolato Bullshit, ovverossia, tradotto in italiano, Stronzate.[5] Così esordiva l’Autore: «Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio contributo. Tendiamo però a dare per scontata questa situazione. […] non abbiamo una chiara consapevolezza di cosa sono le stronzate, del perché ce ne siano così tante in giro, o di quale funzione svolgano. […] In altre parole, non abbiamo una teoria».[6]Il contenuto del libretto era già comparso come articolo nel 1986, tuttavia il successo di pubblico si ebbe nel 2005, quando l’articolo fu pubblicato nella veste di libro, in un contesto dove ormai l’attenzione al problema era piuttosto alta. Con il suo intervento Frankfurt intendeva richiamare l’attenzione su un certo nuovo tipo di contenuti fasulli, poco seri, decisamente fastidiosi e invadenti, che avevano preso a diffondersi sempre più nell’ambito comunicativo e che minacciavano di sommergere qualsiasi altra espressione. Va detto che il libretto di Frankfurt era più che altro un pamphlet dal tono ironico e dissacrante e quindi non presentava, in effetti, alcuna teoria approfondita sul fenomeno in oggetto. Esso ebbe tuttavia il merito colpire nel segno.

Secondo Frankfurt, cercando di ricavare una definizione sintetica dalla sua trattazione,[7] il bullshit sarebbe all’incirca un prodotto linguistico grezzo e sommario che fornisce una rappresentazione non adeguata, insignificante o futile della realtà. Il carattere distintivo del bullshit sarebbe costituito proprio dalla sua totale mancanza di aderenza nei confronti della realtà. All’alba del nuovo secolo, Frankfurt suonava dunque un campanello di allarme, evidenziando un fenomeno di degrado del discorso pubblico che tutti avevano ormai sotto il naso. In effetti, già allora era ben presente la sensazione di essere sommersi da una marea di insulsaggini incontrollate e incontrollabili. Quella di Frankfurt poteva sembrare una boutade, invece gli sviluppi successivi avrebbero finito per superare ogni pessimistica immaginazione.

4. Più o meno nello stesso periodo, cominciava a emergere la sensazione che si stesse diffondendo, presso il vasto pubblico, un atteggiamento di sempre maggior tolleranza verso la menzogna. Il grido di allarme in proposito fu lanciato da Ralph Keyes, nel suo volume Post-Truth Era. Dishonesty and Deception in Contemporary Life, uscito nel 2004. Lo studio di Keyes ha segnato, a quanto pare,la prima comparsa del termine post-truth nella titolazione di un libro. Keyes si occupava del fenomeno – com’era allora percepito – della sempre maggior diffusione della menzogna nella vita quotidiana e nella sfera pubblica. L’Autore contrapponeva la situazione tradizionale, nella quale verità e menzogna erano chiaramente contrapposte e in cui la menzogna era per lo più esecrata e andava incontro alla pubblica disapprovazione, a una nuova situazione in cui tra verità e menzogna erano collocate infinite sfumature, in cui la menzogna stava diventando un comportamento sempre più diffuso e sempre meno censurato dalla disapprovazione sociale. Si era dunque di fronte, secondo l’Autore, a un netto cambiamento di segno che coinvolgeva in profondità le relazioni interpersonali e la comunicazione sociale. L’epoca della postverità (post-truth era) sarebbe dunque – secondo l’Autore – una nuova epoca in cui le relazioni interpersonali sarebbero state sempre più caratterizzate dallo sdoganamento della menzogna, accompagnato strettamente dalla diffusione della disonestà. Anche Keyes non produceva alcuna elaborata teoria in merito, tuttavia nel suo libro, dallo stile peraltro piuttosto giornalistico, l’Autore snocciolava una casistica impressionante di fatti e fatterelli che testimoniavano di una sempre maggior indifferenza nei confronti della verità ormai diffusa in tutti i settori della società contemporanea.

5. Il termine post-truth ha poi avuto sempre più diffusione, segno evidente della sua capacità di individuare e contraddistinguere un nuovo fenomeno. Prova ne è che l’Oxford English Dictionary ha deciso di eleggere post-truth come “parola dell’anno” del 2016. Consultando qualche autorevole dizionario possiamo vedere meglio il significato attuale del termine, per come si sta consolidando. Il Collins, alla voce post-truth, recita: «Di, o relativo a, una cultura in cui il ricorso alle emozioni tende a prevalere a discapito dei fatti e delle argomentazioni logiche». Secondo gli Oxford Dictionaries: «Denotante, o relativo a, circostanze in cui i fatti oggettivi, nella configurazione della pubblica opinione, sono meno influenti degli appelli alle emozioni e alle credenze personali». Il Cambridge Dictionary riporta: «Relativo a una situazione in cui le persone sono più propense ad accettare una argomentazione basata sulle proprie emozioni o credenze piuttosto che una basata sui fatti». Tutte le definizioni, come si può ben vedere, segnalano una sorta di antitesi tra un approccio emotivo del tutto soggettivistico e il riconoscimento oggettivo dei fatti. Pongono cioè una contrapposizione tra un atteggiamento di realismo e la mancanza di realismo o l’irrealismo.

Su Wikipedia[8] si può trovare un tentativo di sintesi che costituisce quasi una definizione organica: «Il termine post-verità, […] indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o a una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza. Nella post-verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi concreta della effettiva veridicità dei fatti raccontati: in una discussione caratterizzata da “post-verità”, i fatti oggettivi – chiaramente accertati – sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli ad emozioni e convinzioni personali».[9] La definizione pare del tutto pertinente, anche se, a nostro giudizio, avrebbe bisogno di un’estensione di campo, in aderenza a un fatto ora più che mai evidente: la postverità non concerne solo le discussioni, com’è suggerito, ma coinvolge ormai ogni tipo di comunicazione che sia scambiata nel mondo sociale, e quindi, indirettamente, le stesse relazioni sociali che ne derivano.

6. Il prefisso post davanti a truth ha, più o meno, il significato di un oltre.[10] Si noti che il termine post-truth è considerato nel mondo anglosassone come un aggettivo. La traduzione in italiano con “postverità” lo trasforma in un sostantivo, rendendolo così un concetto astratto. A nostro giudizio poteva andar meglio una traduzione con il costrutto oltre – vero, che può essere usato sia come aggettivo sia come sostantivo, e che porta con sé una vaga assonanza nicciana che non guasta. Pur non intendendo produrre alcuna innovazione terminologica, proverò in questo scritto a usare ogni tanto questo termine, cercando così di esplorare la possibilità di un suo uso efficace.

Sul piano del contenuto, il concetto sta a sottolineare una sorta di oltre passa mento della istanza della verità nella sfera delle comunicazioni e delle relazioni sociali, fino al punto dal determinarne la sua totale perdita di importanza. Nel mondo della postverità, o dell’oltre-vero, la verità sembra essere diventata, insomma, una cosa superflua, una cosa che non è alla nostra portata o una questione che non ci riguarda più. Il termine oltre-vero non si riferisce dunque a particolari contenuti falsi (per i quali esistono già altri termini, come i già citati fake-news o bullshit) ma a una particolare modalità di considerare le questioni di verità che pare si stia instaurando presso il vasto pubblico. Il che può configurarsi come un atteggiamento pratico, soprattutto da parte del grande pubblico oppure come una disposizione teorica, soprattutto da parte degli intellettuali, degli opinion leader e simili.

7. La sensazione dunque è che con l’oltre-vero non ci troviamo più di fronte alla nozione tradizionale della menzogna[11] bensì di fronte a qualcosa di costitutivamente diverso. Secondo Frankfurt – è questa una delle sue argomentazioni più costanti – le stronzate (bullshit)non sarebbero propriamente menzogne. La menzogna classica implica per lo più che chi la proferisce abbia la nozione di quale sia la verità e implica un’esplicita intenzione di occultare la verità. Afferma infatti a un certo punto Frankfurt: «È impossibile che una persona menta se non crede di conoscere la verità. Ebbene, produrre stronzate non richiede questa convinzione».[12] La stronzata, come definita da Frankfurt, è invece semplicemente indifferente alla verità e proprio in ciò sta la sua principale inadeguatezza nei confronti della realtà. In ciò sta anche la spiegazione della sua estrema diffusione, della relativa tolleranza con cui è accolta e, in fin dei conti, del suo grande successo. Frankfurt ci ha fornito qui la chiave per una conclusione di qualche rilievo: in una post-truth era che sia giunta a piena maturazione non ci sarebbero più menzogne, ci sarebbero solo stronzate. Nella postverità non c’è più tendenzialmente il caso classico di chi, conoscendo la verità, la neghi consapevolmente per scopi disonesti. Nella post truth era nessuno più pretende di conoscere la verità, semplicemente non c’è più alcun commitment per la verità. Forse proprio per questo i mentitori – anche quelli classici – sono sempre più frequentemente assimilati a simpatici intrattenitori, cioè a bullshit artist.[13]

8. L’atteggiamento di crescente irrilevanza verso la verità non poteva non influenzare il mondo dell’informazione. Parallelamente alle imposture intellettuali e al bullshit, sono salite all’attenzione del pubblico le fake-news, di cui abbiamo già accennato. La definizione di fake-news è decisamente più circoscritta e meno controversa. Recita Wikipedia:[14] «Il termine inglese fake-news (in italiano notizie false) indica notizie redatte con informazioni inventate, ingannevoli o distorte, rese pubbliche con il deliberato intento di disinformare o diffondere bufale attraverso i mezzi di informazione. Tradizionalmente a veicolare le fake news sono i grandi media, ovvero le televisioni e le più importanti testate giornalistiche. Tuttavia con l’avvento di Internet, soprattutto per mezzo dei media sociali, aumentando in generale la diffusione delle notizie, è aumentata proporzionalmente per logica conseguenza anche la diffusione di notizie false».

Se le fake sembra abbiano avuto la loro lontana origine nel campo della più classica produzione di menzogne, è chiaro che il passaggio delle fake-news dagli ambiti più tradizionali dei grandi media a quelli della rete sta creando le condizioni per una sovrapposizione sempre più ampia tra le fake e il bullshit, fino a una sorta di vera e propria transizione dalla menzogna classica verso il bullshit. Anche i mezzi di informazione – indipendentemente da casi di ricorso a menzogne classiche – sembrano sempre meno sensibili alla verità e sempre più propensi a diffondere contenuti dal basso valore veritativo che siano però dotati di una forte attrattiva per il pubblico. Strettamente connesso alle fake-news è il mondo delle bufale, delle dicerie, dei rumor che spesso costituiscono il contenuto delle fake stesse. Anche in questo caso si tratta di fenomeni che pur essendo sempre esistiti, hanno assunto una loro visibilità ed efficacia in conseguenza dello sviluppo della rete. In Susstein 2009 si trova uno studio sui loro meccanismi di diffusione. Su argomenti analoghi e sulla psicosociologia delle credenze si può consultare Bronner 2003.

9. Infine, la diffusione dell’indifferenza nei confronti della verità non poteva che coinvolgere in maniera rilevante anche e soprattutto il mondo della politica. Almeno dal 2010 è in uso, nei paesi anglosassoni, il termine post-truth politics. Anche in questo caso la traduzione comporta qualche difficoltà. Alla lettera potrebbe andare bene politica post veritiera, oppure, se vogliamo, possiamo usare la nostra locuzione politica oltre-vera. Sulla scorta di Ferraris 2017, che usa postverità come sostantivo e postruista come aggettivo, potrebbe andar bene politica postruista.

Citiamo da Wikipedia anglofona: «La post-truth politics (denominata anche post-factual politicse post-reality politics) è una cultura politica in cui il dibattito è largamente caratterizzato da appelli alle emozioni del tutto disconnessi dai dettagli effettivi delle varie politiche, e dalla continua ripetizione delle parole d’ordine, le cui confutazioni fattuali sono del tutto ignorate. La post-truth politics è differente dalla tradizionale contestazione e falsificazione della verità in quanto consiste nel trattare la verità come una cosa di secondaria importanza. Sebbene questo fenomeno sia stato descritto come un problema nuovo, c’è la possibilità che esso faccia parte da tempo della vita politica, ma che sia stato poco visibile prima dell’avvento di internet e dei suoi relativi cambiamenti sociali».

La politica postruista (o oltre-vera) è dunque una politica che, seguendo l’andazzo generale, è diventata indifferente alle questioni di verità, non tiene conto dei fatti, non tiene conto della realtà delle cose. Una politica, insomma, che fa a meno della verità. La politica postruista costituisce così la curvatura che la politica assume quando questa sia collocata entro il quadro della postverità, sia sul piano pratico sia su quello teorico. Poiché la politica postruista è una politica che si sviluppa sul terreno della postverità, essa tende a fare liberamente largo uso di imposture, fake e bullshit. Come casi esemplari di politica postruista sono state spesso citate la campagna per la brexit e quella per la prima elezione di Trump alla Casa Bianca nel 2016. La campagna condotta, con successo, da Trump nel 2024 non fa che confermare l’esemplarità del caso.

10. Come si vede dalla rassegna che abbiamo presentato, siamo in presenza, a quanto pare, di fenomeni nuovi, per molti versi inaspettati, che stanno assumendo un peso di rilievo nella vita delle nostre società. Si tratta di fenomeni di non facile definizione e che sembrano tuttavia avere per lo meno qualche somiglianza di famiglia.[15]Oltretutto, la terminologia relativa a questo campo è ancora in fase di formazione, vi si possono trovare usi e definizioni alquanto sovrapponibili ma anche alquanto diversificati. Quel che è certo comunque è che tutte queste novità linguistiche e concettuali segnalano, direttamente o indirettamente, la consistenza e la pervasività del fenomeno che stiamo cercando di circoscrivere e rappresentare.

Volendo utilizzare una metafora intuitiva, tanto per stipulare con il lettore una convenzione provvisoria, propongo di immaginare un gigantesco iceberg che galleggia in mare: le imposture intellettuali (fashionable nonsense), le fake-news e la politica postruista sarebbero l’equivalente della punta dell’iceberg. Sarebbero cioè la parte più visibile che corrisponde a ciò che il vasto pubblico ha cominciato appena a scorgere. Il bullshit, data la genericità della sua definizione, costituirebbe l’iceberg nella sua totalità, che notoriamente è molto più grande della parte emersa e, proprio per questo, molto più pericoloso. La postverità, o il mondo dell’oltre-vero, sarebbe il mare dove galleggia tranquillamente il bullshit, sia per la parte emersa che per quella sommersa. Secondo questa immagine, le imposture intellettuali, le fake-news e la politica postruista si potrebbero considerare come tipi specifici di bullshit, cioè per così dire specie di stronzate specializzate, avendo tutte in comune la caratteristica minimale di non prendere sul serio la verità e la realtà.[16] Va da sé che, in questo quadro, viene a essere sempre più trascurabile la menzogna classica, la quale – pur non essendo certamente sparita – sembra divenuta meno importante, perché nel mare dell’oltre-vero – come s’è detto – nessuno più pretende di sapere una qualche verità e di volerla intenzionalmente celare.

Dopo avere delineato sommariamente, in termini descrittivi, i fenomeni che ci interessano e le relative nomenclature, cercheremo, in quel che segue, di esplorare alcuni aspetti dell’inquietante paesaggio glaciale di fronte al quale ci troviamo e con il quale ci dovremo sempre più confrontare nel prossimo futuro.

11. Se la posterità (o l’oltre-vero) è il mare che tiene a galla il bullshite tutto il resto, è il caso allora di comprendere meglio di che cosa si tratti. La postverità, in estrema sintesi, può essere ricondotta al consolidamento e alla diffusione presso il vasto pubblico di una convinzione, di ordine pratico e teorico, secondo cui in molte situazioni la verità è trascurabile. Questa convinzione implica che ci possono essere tante verità, che possiamo fare a meno di una nozione condivisa di verità e che, quindi, non abbiamo più alcun interesse a fare sforzi e a impiegare risorse per accertare la verità e per dire la verità. In altre parole, ormai ci sono soltanto dei punti di vista, collocati tutti sullo stesso piano, che ciascuno accoglie o rifiuta in base a disposizioni e scelte del tutto personali, o anche in base al momento. Il tutto però – si badi bene – è supportato da un’ulteriore sottile connotazione di ordine morale, secondo la quale è inevitabile, o addirittura giusto, che sia così e secondo la quale, così facendo, possiamo cavarcela tranquillamente o, addirittura, vivere decisamente meglio di prima. Meglio di quando ci trovavamo sotto l’assillo della verità. Insomma, la condizione della postverità può essere vissuta come un fatto positivo o addirittura come una liberazione. Si badi bene che chi pratica e condivide l’oltre-vero non necessariamente deve esserne compiutamente consapevole. Basta fare quello che fanno tutti, quel che è considerato del tutto normale. Provando ad addentrarci ulteriormente nei meandri della postverità, per comodità di analisi, distingueremo ora un ambito pratico e un ambito teorico, anche se nella realtà i due aspetti sono strettamente intrecciati e correlati.

11.1. Per quel che concerne l’ambito pratico, sembra dunque assodato che in molte situazioni, la verità non sia più considerata come un imperativo capace di qualificare il nostro comportamento e di dirigere le nostre scelte. Si tratta di un mero fatto, sotto gli occhi di tutti. Affermava Keyes già nel 2004: «Anche se ci sono sempre stati dei mentitori, le menzogne di solito sono state dette con esitazione, un pizzico di ansietà, un po’ di colpa, una qualche vergogna, almeno qualche imbarazzo. Ora, intelligenti come siamo, abbiamo tirato fuori degli stratagemmi per manomettere la verità tanto che possiamo dissimulare senza sentirci in colpa. Questo lo chiamo post-vero. Noi viviamo in una era post-vera (post-truth era). La postverità esiste in una zona grigia dell’etica. Ci permette di dissimulare senza che ci dobbiamo considerare disonesti. Quando il nostro comportamento confligge con i nostri valori, la cosa più facile che possiamo fare è di rivedere i nostri valori. Pochi di noi sono disposti a pensare di se stessi di essere immorali e tanto meno attribuire ad altri qualcosa di simile, così ricorriamo ad approcci alternativi alla moralità. Si pensi a questi approcci come a una sorta di alt ethics [etica alternativa]. Questo termine si riferisce a sistemi etici nei quali dissimulare è considerato positivo, non necessariamente sbagliato, a volte non effettivamente “disonesto” nel senso negativo della parola. Anche se noi raccontiamo più menzogne che mai, nessuno vuole essere considerato un mentitore».[17]

Insomma, è come se noi, in pratica, tenessimo costantemente spalancata una zona grigia entro la quale la definizione di vero e falso è tenuta continuamente in sospensione, tanto che la questione della verità non ha più alcuna rilevanza agli effetti delle nostre scelte e dei nostri comportamenti. Siamo sempre più ambigui e ci aspettiamo continuamente di trovarci di fronte all’ambiguità. L’indifferenza verso la verità, nel suo lato pratico, pare così avere perso il carattere minaccioso della figura del mentitore, di colui che conoscendo una verità la celava per ingannare. Pare anzi assumere una connotazione positiva, poiché pare capace di oliare adeguatamente la macchina delle relazioni sociali. Non badare troppo alla verità risparmia un sacco di fastidi e permette di essere sempre perfettamente adeguati.

11.2. Si noti che un atteggiamento oltre-vero nell’ambito pratico è possibile solo in un contesto nel quale sia indebolita la nozione stessa della autenticità individuale. Il problema di fronte a cui si trovano costantemente gli individui oltre-veri non è più quello di presentarsi agli altri nella propria autenticità quanto quello di apparire in modo adeguato alla situazione in cui si trovano. Nello sforzo di essere aderenti a ciascuna situazione, i singoli individui sono sempre più disincentivati allo sforzo di definire una propria autenticità personale stabile e permanente. Ciò ingenera identità fluttuanti che curano soltanto la rappresentazione contestuale da mettere in scena. Insomma, sempre meno autentici e sempre più teatranti. Solo in una simile prospettiva la menzogna può essere derubricata a peccato veniale o anche considerata come una sottile arte di buona condotta, come nel caso del già citato bullshit artist. Con la postverità cade l’interesse per una definizione stabile del self e quindi un interesse per l’autenticità della rappresentazione di sé presso gli altri. Poiché si deve mettere in scena una rappresentazione adeguata e poiché il contesto muta velocemente, allora il bullshit può rappresentare uno strumento di lavoro del tutto ammissibile, anzi una materia prima indispensabile – nello spirito rortyano di essere ironici, tolleranti e socievoli.[18]

11.3. La diffusione dell’indifferenza nei confronti della verità oltre al suo lato pratico ha naturalmente anche il suo lato teorico. La perdita di importanza della verità in campo pratico è del tutto parallela con la convinzione che la verità non esista, e viceversa. Non ci stiamo occupando qui della questione filosofica della negazione della verità, vecchia quanto la filosofia occidentale.[19] Ci occupiamo piuttosto di un fatto conclamato ed esplicito, cioè della convinzione oggi diffusa ovunque – dagli intellettuali ai politici, fino alle casalinghe – secondo cui in fin dei conti non c’è alcuna questione di verità di cui valga la pena di occuparsi.

11.4. Questa idea strampalata,[20] per quanto se ne sa, ha presumibilmente avuto origine nell’ambito dei movimenti radicali degli anni Sessanta. Fu proprio in quell’ambito che cominciarono a diffondersi, a livello di massa, sull’onda della popolarità delle filosofie del sospetto,[21] due orientamenti strettamente imparentati con l’oltre-vero, e cioè il relativismo[22]e, soprattutto, il politically correct.[23] Si trattava, in origine, dell’applicazione di un egualitarismo radicale al linguaggio, alle relazioni sociali e ai fenomeni culturali. Siccome la verità era generalmente considerata come un’imposizione del potere (come ad es. in Michel Foucault) allora non restava che considerare come altamente sospetta e pericolosa qualunque pretesa veritativa e riconoscere radicalmente la pluralità dei punti di vista. Ciò trovava ampie applicazioni soprattutto nel campo del discorso, ma anche nei campi relativi ai rapporti tra i sessi o alle questioni etniche. Ben presto però tutte le nozioni cardine elaborate dalla modernità, come la razionalità, la logica, le grammatiche e le enciclopedie, la scienza, la tecnologia, gli apparati giuridici e istituzionali, furono sottoposte a una critica erosiva, spesso vandalica, che mirava a smascherare il potere ovunque nascosto, a imporre la neutralità terminologica e a riconoscere la molteplicità dei punti di vista.

11.5. Proprio a partire dal relativismo e dal politically correct, nel volgere di pochi anni, ha preso forma e si è diffusa presso il vasto pubblico, anche e soprattutto come una moda, la filosofia postmoderna che ha costituito una specie di pastiche sincretico – di carattere cinico, anarcoide e antimoderno – di tutte le filosofie che nell’ambito dei movimenti si erano connotate contro. Il postmoderno si è scagliato contro tutti i sistemi consolidati di verità e ha proclamato la fine delle grandi narrazioni. Al posto del pensiero forte (quello che pretenderebbe di veicolare una qualche verità) è stato esaltato il pensiero debole ed è stato dato l’addio alla verità.[24]

Sui rapporti tra il postmoderno e la postverità (o oltre-vero) è stato scritto alquanto e ci sarebbe molto da dire.[25] Abbiamo già citato le imposture intellettuali e la burla di Sokal che era diretta proprio contro la filosofia postmoderna. Per brevità, mi limiterò a un breve montaggio di alcuni passi di Maurizio Ferraris, che è intervenuto ancora recentemente sulla questione nel suo libretto intitolato Postverità e altri enigmi.[26] L’Autore sottolinea il peso che ha avuto il postmodernismo nello screditamento della verità anche e soprattutto a livello del grande pubblico. Si domanda Ferraris: «Da dove viene la postverità? Una volta tanto, dalla filosofia. […] La postverità è un frutto, magari degenere, del postmoderno».[27] E continua: «[…] quella che si chiama «postverità» non è che la popolarizzazione del principio capitale del postmoderno (ossia la versione più radicale dell’ermeneutica), quello appunto secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni»».[28] E ancora: «[…] la postverità è l’inflazione, la diffusione e la liberalizzazione del postmoderno fuori dalle aule universitarie e dalle biblioteche, e che ha come esito l’assolutismo della ragione del più forte».[29] Più precisamente: «L’ultima fase [del postmoderno ndr] […] corrisponde alla popolarizzazione delle idee postmoderne, che escono dalle accademie e, con l’aiuto decisivo dei media, si trasformano dapprima nel populismo (in cui esiste ancora un rapporto verticale tra governanti e governati garantito dalla televisione) e poi nella postverità (in cui il rapporto diviene orizzontale, visto che governanti e governati si servono dei medesimi social media)».[30] E ancora, tanto per finire: «[…] la continuità fra postmoderno, populismo e postverità è diretta».[31]

11.6. Se questa piccola ricostruzione ha qualche fondamento, allora l’antipatia per la verità, che sta con ogni evidenza alle origini della post-truth era, è dunque storicamente connessa, in forma ovviamente del tutto scorretta, all’antipatia per il potere, per tutte le limitazioni e per i vincoli di ogni sorta. Essa corrisponde a un momento intenso di autoesaltazione dei soggetti i quali pare abbiano preso a considerare se stessi come il centro del mondo. In filosofia – come bene ha spiegato Ferraris – questo atteggiamento è tipicamente costituito e supportato dalle filosofie trascendentali, attraverso l’idea cioè che il soggetto strutturi il mondo attraverso gli schemi della sua mente.[32] Più ampiamente, a livello culturale, questo atteggiamento è stato tipico di tutti i romanticismi. In proposito, così ha sintetizzato Isaiah Berlin: «I fondamenti essenziali del Romanticismo sono i seguenti: la volontà, il fatto che non esiste una struttura delle cose, che ci è possibile plasmare le cose a nostro piacimento – esse pervengono all’essere soltanto per effetto della nostra attività plasmatrice –, e di conseguenza l’opposizione a qualunque concezione che cerchi di rappresentare la realtà come dotata di una forma suscettibile di essere studiata, descritta, appresa, comunicata ad altri, e sotto ogni altro aspetto trattata in un modo scientifico».[33] Insomma, secondo Berlin, anche quando i romantici sembrano profondamente immersi in quel che fanno, essi sono pervicacemente fuori dal mondo, assolutamente indisponibili a venire a patti con la realtà. Si noti che il romanticismo è stato forse la prima forma culturale prodotta da intellettuali a essere ampiamente popolarizzata e ad avere guadagnato una specie di vita autonoma. Molto prima del postmoderno.

12. Perché proprio ora? Si tratta di fenomeni decisamente nuovi oppure si tratta solo di nuove modalità di presentazione di fenomeni vecchi come il mondo? Secondo diversi studiosi, la caduta dell’autorità veritativa cui stiamo assistendo sarebbe stata resa possibile, ingigantita e moltiplicata, da una nuova base materiale (per dirla con Marx) prima sconosciuta, costituita dalle nuove tecnologie dell’informazione. In altri termini, lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione costituirebbe una condizione sufficiente, seppure non necessaria, dell’oltre-vero. In effetti, a guardare bene, le tappe temporali dell’allarme circa la diffusione della famiglia delle nuove menzogne sono all’incirca le stesse che hanno segnato la diffusione delle nuove tecnologie.

Le nuove tecnologie, seguendo Ferraris,[34] hanno agito, a quanto pare, attraverso una duplice modalità. In primo luogo, la rivoluzione delle nuove tecnologie ha messo a disposizione di ogni singolo individuo la possibilità di memorizzare, elaborare e diffondere una quantità enorme d’informazione. Ancora nel caso dei primi media, l’informazione era distribuita a senso unico da centri e agenzie specializzate verso il pubblico. Oggi ogni singolo è diventato un’agenzia di produzione e diffusione. In secondo luogo, nello stesso tempo, è aumentato decisamente il ruolo della informazione nella costituzione intrinseca del mondo sociale.[35] In particolare si è reso sempre più tangibile il ruolo delle iscrizioni e dei documenti nella vita quotidiana e nella strutturazione stessa delle istituzioni. Ferraris, per concettualizzare queste trasformazioni, ha parlato di una rivoluzione documediale.

Secondo Ferraris: «[…] la rivoluzione documediale è l’unione tra la forza di costruzione immanente alla documentalità e la forza di diffusione e mobilitazione che si attua nel momento in cui ogni ricettore di informazioni può essere un produttore, o almeno un trasmettitore, di informazioni e di idee».[36] La documedialità ormai diffusa sta così permettendo una strutturazione completamente nuova dello spazio comunicativo, rendendo così possibile – sebbene non sia una conseguenza necessaria – anche il mondo della postverità. Così ha sintetizzato Ferraris con una formula davvero icastica: «L’ideologia che anima la postverità è l’atomismo di milioni di persone convinte di aver ragione non insieme (come credevano, sbagliando, le chiese ideologiche del secolo scorso) ma da sole».[37]

Le nuove tecnologie sembra dunque abbiano così reso possibile – magari anche solo come effetto secondario – una indifferenza di massa nei confronti della verità e della realtà.

13. Il carattere peculiare della nuova situazione è chela verità, da fatto pubblico e sempre soggetto a qualche tipo di controllo autoritativo – qual era stata finora prevalentemente – tende sempre più a diventare un fatto privato che tuttavia è costantemente ed egotisticamente sbandierato in pubblico da chiunque. Ciascuno è diventato imprenditore della propria verità. Questa nuova situazione contrasta profondamente con un’imposizione che si è sempre accompagnata alla nozione tradizionale della verità e cioè con l’obbligo morale di dire la verità o, per lo meno, di tener conto della verità. I greci avevano elaborato in proposito il concetto della parresia,[38] su cui ha riflettuto l’ultimo Foucault. Socrate non può evitare di dire la verità ai suoi concittadini. Oggi Socrate avrebbe il suo blog e, a parte i suoi follower, sarebbe perfettamente ignorato da tutti. Al posto della parresia pubblica, divenuta impossibile, abbiamo oggi l’impulso a pubblicare i nostri preziosi punti di vista, anche se già svalutati in partenza dalla loro convivenza con i punti di vista di milioni di altri soggetti.

Volendo usare una semplificazione, è come se l’indebolimento e la crisi delle grandi narrazioni collettive – fenomeno che è stato ampiamente sottolineato proprio dal postmodernismo – avesse lasciato il posto a una moltitudine di micro narrazioni private riguardanti i campi più disparati e che ciascuno ora è in grado, per quel che può, di costruire, di mantenere e diffondere a suo uso e consumo. Ognuno prende per veri i propri deliri e li mette in rete, alla ricerca di qualcun altro disposto a condividerli, con la probabilità, sorprendentemente alta, di trovare un gran numero di follower. Analizzare e smentire ciascuno di questi infiniti deliri sarebbe ormai un compito improbo per qualsiasi autorità che abbia in mentre di provvedere a qualche tipo di controllo e certificazione. Il volume enorme di pretese verità e narrazioni che si rendono ogni giorno disponibili non fa altro che produrre una sorte di meccanismo di inflazione. Troppe verità in giro non possono che andare soggette a una svalutazione. Così la zona grigia tra il vero e il falso si è dilatata mostruosamente, come aveva già suggerito Keyes.

14. Questa trasformazione non resta confinata ai singoli individui. La postverità tende sempre più a caratterizzare lo spazio comunicativo e il fatto più rilevante è che si appresta inavvertitamente a prendere il posto dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica in Occidente – secondo il classico studio di Habermas[39]– è nata con la libertà di pensiero e con la diffusione dei primi mezzi di comunicazione, come le gazzette e i servizi postali, e dei primi luoghi di incontro, come caffè e teatri.[40] I singoli soggetti s’informavano, s’incontravano, discutevano e alla fine opinavano, esprimevano cioè un’opinione più o meno meditata intorno a importanti questioni pubbliche. L’opinione pubblica (che pure non sempre aveva ragione) contribuiva comunque – nel sistema democratico – all’elaborazione di credenze condivise, all’identificazione del bene comune e alla formazione della volontà generale. Sappiamo bene che la nozione dell’opinione pubblica habermasiana è stata sottoposta a molte critiche. Spesso ne sono stati identificati i limiti. Lo stesso Habermas aveva parlato, quando ancora il fenomeno era poco avvertito, di una crisi della opinione pubblica. Molti studi relativi alle trasformazioni delle democrazie contemporanee si sono focalizzati sulle trasformazioni o sui limiti della opinione pubblica. Tuttavia resta pur sempre il fatto che una opinione pubblica matura costituisce uno dei pilastri essenziali delle democrazie.

Accade così che, al posto della vecchia opinione pubblica, plurale e variegata, fatta di molteplici incontri faccia a faccia che avvenivano ancora in spazi fisici e grazie a oggetti fisici, oggi si va sostituendo il mare della nostra metafora, ossia un unico spazio virtuale indifferenziato, di dimensioni globali, dove ogni individuo – divenuto centro di elaborazione e diffusione di informazione – rovescia i suoi contenuti e valuta i contenuti altrui con risposte che si mantengono – come si è detto – per lo più a livello espressivo ed emotivo, e che non hanno mai alcuna validazione, alcun confronto effettivo con la realtà. Uno spazio in continua ebollizione, dove tuttavia non si giunge mai ad alcuna conclusione, alcun accordo, dove anzi si scatenano sovrapposizioni continue, dove c’è continua concorrenza o dove ci si ignora bellamente. Si tratta di uno spazio in cui gli universali della comunicazione[41] sono costantemente violati o stravolti. Si tratta tuttavia di uno spazio che è in grado di condizionare in modo imprevedibile le risposte, le scelte e i comportamenti di un pubblico enorme. In questa alterazione radicale delle caratteristiche della tradizionale opinione pubblica sta proprio la radice dei fenomeni più eclatanti della postverità e cioè della invasione delle imposture intellettuali, delle fake-news e della politica postruista.

15. Il mondo della postverità – è il caso di ricordarlo esplicitamente –è decisamente antitetico ai fondamenti del processo politico democratico. La nozione roussoviana della democrazia implicava che i cittadini dovessero stabilire un’agenda comune, dovessero entrare in un confronto razionale tra loro e che, alla fine, dovessero giungere a deliberare intorno al bene comune. E che la deliberazione della maggioranza dovesse essere accettata dalle minoranze, poiché tutti sarebbero stati tenuti a sottomettersi alla regola della maggioranza. Per fare questo occorreva comunque che si condividessero gli universali della comunicazione, ad esempio l’esigenza di argomentare, di fornire delle prove, di non fraintendere, di non screditare l’interlocutore. Nella post-truth era non c’è più nulla di tutto questo. Nessuno è più tenuto ad argomentare, ad ascoltare, a confutare o a consentire, non ci sono più universali comuni che sottintendano alla comunicazione. Non si cerca più una verità comune perché si è già convinti che una verità comune non c’è, e che non è neppure così importante che ce ne sia una. I criteri di scelta di ciascuno sono imperscrutabili e comunque del tutto fluidi. Gelosamente privati. O al più condivisi momentaneamente in ambiti ristretti. I gruppi dei follower si fanno e si disfanno con grande rapidità, non discutono esaurientemente di nulla, non deliberano su nulla, al più usano una logica binaria del tipo likedislike. L’unica cosa implicita che è sempre presente è la richiesta a tutto il mondo del riconoscimento del proprio punto di vista, del proprio ego. Questa nuova situazione non può che spingere i sistemi democratici verso il populismo.[42]

16. Abbiamo rilevato come le nuove tecnologie dell’informazione abbiano costituito per lo meno la condizione sufficiente – seppure non necessaria – per lo sviluppo del mondo dell’oltre–vero. Tuttavia è assai problematico individuare quale sia esattamente la connessione tra i due fenomeni e su questo punto anche tra gli studiosi sussistono molte divergenze. Per capire meglio la questione dobbiamo approfondire la questione del rapporto tra tecnologia e cultura.

16.1. Sugli effetti culturali delle tecnologie, il riferimento più tradizionale va a McLuhan e alla scuola di Toronto. Secondo questo orientamento, le tecnologie della comunicazione sono delle vere e proprie estensioni del self e gli esseri umani tendono a costruire il proprio self in funzione delle tecnologie comunicative di cui dispongono, nella loro società e nella loro epoca storica. Gli studiosi della scuola di Toronto hanno distinto all’incirca tre fasi fondamentali nel rapporto tra l’uomo e la tecnologia. La prima fase sarebbe quella dell’oralità primaria. È questa la condizione delle società che non conoscono la scrittura e che devono organizzare tutto il loro patrimonio culturale intorno all’oralità. Esempio tipico di questa condizione è la cultura omerica, cui corrispondeva un ben preciso tipo di organizzazione del self. A questa prima fase segue la seconda, che corrisponde all’introduzione della scrittura e – dopo molti secoli – all’introduzione della stampa a caratteri mobili. Secondo McLuhan la modernità sarebbe stata possibile solo grazie all’invenzione della stampa, a partire dalla quale si sono sviluppati la Riforma e il pensiero scientifico moderno. Questa seconda fase, assai lunga e variamente definita, sarebbe culminata con lo sviluppo dell’individualità moderna, cioè con il self del cosiddetto uomo gutemberghiano. Si tratta di un self articolato e complesso che è strutturato in forma argomentativa, dotato di un ordine rigoroso, esattamente come un libro stampato.

Solo nella seconda metà del Novecento alcune invenzioni (il telefono, la radio, la televisione) avrebbero spodestato il libro stampato e avrebbero reso possibile la formazione del self per altre vie, recuperando gli aspetti visivi e auditivi della comunicazione. Si sarebbe così giunti alla cosiddetta terza fase, che comporterebbe un indebolimento del carattere gutemberghiano del self e a una sorta di recupero di funzionalità tipiche dell’antica oralità prescritturale. Questa fase è stata definita come oralità secondaria o oralità di ritorno. McLuhan ha caratterizzato questa come la fase del villaggio globale, reso appunto possibile dai media, il cui prototipi erano la radio e la televisione. Nell’ambito della scuola di Toronto naturalmente gli ultimi sviluppi legati alla rete e ai social media sono stati considerati come una conferma della interpretazione di McLuhan.

16.2. Non mancano ai giorni nostri studi specifici sugli effetti a vasto raggio delle nuove tecnologie sul self e sulla cultura. In molti casi i risultati sono effettivamente allarmanti. Un caso è quello di Nicholas Carr che ha pubblicato nel 2010 uno studio dal titolo Internet ci rende stupidi?[43]L’Autore ha ripreso le tesi di McLuhan e le ha messe a confronto con i più recenti risultati delle neuroscienze. Ebbene, le tesi dello studioso canadese sono uscite decisamente corroborate e meglio chiarite nei dettagli applicativi. Nello studio di Carr si mostra, con dovizia di basi empiriche, come il nostro cervello sia eminentemente plastico e come le nuove tecnologie siano in grado di cambiare profondamente – in termini fisici – le nostre stesse connessioni e strutture cerebrali e il nostro apparato cognitivo. In particolare, poi, gli studi di Dehaene[44] sulla lettura – ripresi da Carr – hanno mostrato in maniera inequivocabile come gli alfabetizzati abbiano dovuto costruire, nel loro sviluppo, delle particolari strutture cerebrali per essere messi in grado di leggere correntemente. Ha affermato Carr: «La Rete può a buon diritto essere considerata la più potente tecnologia di alterazione della mente mai diventata di uso comune, con la sola eccezione dell’alfabeto e dei sistemi numerici; perlomeno, è la più potente arrivata dopo il libro».[45] L’autore ha lanciato di conseguenza un allarme rispetto alla dipendenza che s’instaura nei confronti delle nuove tecnologie e rispetto all’obsolescenza degli strumenti della cultura – come il libro – cui è stato legato lo sviluppo degli ultimi secoli. Tutto ciò costituirebbe una minaccia molto seria per il pensiero articolato e complesso.

16.3. Non tutti gli studiosi concordano con le teorie della scuola di Toronto. In effetti, se non ci si vuol impegnare con una teoria complessa come quella di McLuhan, per tutta la famiglia di fenomeni connessi all’oltre-vero è disponibile una spiegazione più elementare, la quale insiste sulla sproporzione che è venuta a determinarsi tra la potenza estrema dello strumento reso disponibile dal progresso tecnologico e i limiti (l’animalità, la stupidità o l’imbecillità) dell’utilizzatore medio. Un po’ come nel caso della bomba atomica.

Ferraris, ad esempio, non concorda con le tesi della scuola di Toronto. Secondo Ferraris non sussisterebbe il fenomeno del ritorno a una qualche sorta di oralità secondaria e la nostra civiltà continua a essere, a pieno titolo, una civiltà della scrittura. Pochi anni fa l’Autore aveva scritto un libro per mostrare che il telefonino – data la sua capacità di fondere insieme testo, suono e immagini – costituisce uno sviluppo della fase gutemberghiana, una sua compiuta realizzazione e non certo la sua crisi.[46] Ferraris quindi è stato indotto ad attribuire l’avvento della postverità soprattutto al cattivo influsso di una cattiva filosofia e cioè – come abbiamo già visto – alla filosofia postmoderna. L’avvento della post-truth era sarebbe stato determinato da una scelta colpevole, sia da parte di certi intellettuali sia da parte del grande pubblico che si è lasciato abbindolare. Il tutto non può che tradursi in una condanna morale. Un giudizio assai tranchant nei confronti della tendenza diffusa a sottovalutare le questioni di verità è stato in effetti dato da Ferraris, tra il serio e il faceto, in termini di accusa di imbecillità. Dice Ferraris: «Definisco […] categorialmente o transcategorialmente, l’imbecillità come cecità, indifferenza o ostilità ai valori cognitivi, che dunque come tale è una colpa».[47] Sembra tuttavia che l’indignazione morale non possa esser sufficiente a contrastare quello che pare stia diventando un vero e proprio fenomeno di massa. Anche se Ferraris pare sostenere che l’imbecillità umana sia una costante e che, talvolta, possa giocare anche un ruolo positivo nello sviluppo dello spirito umano.

Anche Umberto Eco aveva sostenuto qualcosa di simile. È il caso di ricordare la sua famosa affermazione: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli […] Prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».[48]Secondo Eco, dunque, la stessa potenza delle nuove tecnologie stava rendendo possibile la riproduzione e diffusione ovunque della spazzatura subculturale. Alle origini del fenomeno ci sarebbe sempre il contrasto tra la potenza dello strumento e la costitutiva stupidità umana che sarebbe da considerarsi, sul piano storico, più o meno come un elemento invariante.

16.4. Altri studiosi hanno segnalato, in forme diverse, sempre a partire dagli anni Novanta, la realtà di un progressivo degrado culturale a livello di massa, che costituirebbe una netta inversione di tendenza rispetto al periodo precedente. Il linguista Tullio De Mauro ha spesso richiamato l’attenzione sull’analfabetismo funzionale di una parte rilevantissima della popolazione italiana, a cui l’istruzione di massa, promossa in tutta la seconda metà del Novecento, pare non abbia posto gran che rimedio.[49] Le statistiche in questo senso sono, in effetti, sempre più preoccupanti e, in termini funzionali, non si nota alcun miglioramento.

Va segnalato anche – quasi profetico nel nostro contesto – il grido di allarme di Sartori nel suo famoso libretto Homo Videns che è del 1997.[50] Sartori fin da allora si era particolarmente interessato al destino dell’homo politicus, che egli vedeva lentamente trasformarsi in homo videns, una specie di bambino mai cresciuto che non è più in grado di ragionare. Seguendo in un certo qual modo McLuhan, Sartori ha messo l’accento sulla differenza fondamentale tra vedere e pensare e sul «[…] prevalere del visibile sull’intelligibile che porta a un vedere senza capire».[51] Afferma Sartori: “[…] tutto il sapere dell’homo sapiens si sviluppa nella sfera di un mundus intelligibilis (di concetti, di concepimenti mentali) che non è in alcun modo il mundus sensibilis, il mondo percepito dai nostri sensi. E il punto è questo: che la televisione inverte il progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia nell’ictu oculi, in un ritorno al puro e semplice vedere. La televisione produce immagini e cancella i concetti: ma così atrofizza la nostra capacità astraente e con essa tutta la nostra capacità di capire. […] L’idea, scriveva Kant è «un concetto necessario della ragione al quale non può essere dato nei sensi nessun oggetto adeguato”».[52]

Va segnalato che il sottotitolo del libro di Sartori era Televisione e post-pensiero. Il post-pensiero cui accenna Sartori sembra del tutto analogo alla post-verità di cui abbiamo lungamente discusso. Così si esprime, infatti, Sartori, riferendosi al nuovo tipo umano derivante dalla prevalenza dell’immagine sul pensiero: «Il loro non è un genuino anti-pensiero, un attacco dimostrato o dimostrabile al pensare logico-razionale; è più semplicemente una perdita di pensiero, una banale caduta nella incapacità di articolare idee chiare e distinte».[53]Anche in questo caso possiamo parlare di una sopravvenuta irrilevanza del pensiero logico – razionale in una situazione in cui le immagini paiono esaurire il nostro rapporto con la realtà. Sartori si mostrava ben consapevole del fatto che la politica democratica era strettamente legata al pensiero argomentativo e che la progressiva prevalenza di media non-argomentativi avrebbero determinato un grave pericolo per la democrazia.

Anche il linguista Raffaele Simone in diversi suoi scritti ha ripreso, in un certo senso, alcuni aspetti delle tesi di McLuhan. Egli tuttavia – più che sviluppare un’articolata teoria dell’oralità secondaria – si è limitato a costatare, attraverso osservazioni empiriche del fenomeno linguistico, che i nuovi media e la rete inibiscono certi modelli culturali dove la testualità è ricca a favore di certi altri ove la testualità è più superficiale ed elementare. Il che rappresenta un ovvio indebolimento dell’uomo gutemberghiano. Si è limitato inoltre a far notare che sussiste il rischio di un grave impoverimento del pensiero. Non a caso il sottotitolo del suo libro del 2000 suona: «Forme di sapere che stiamo perdendo». Darò qualche spazio, nel prossimo paragrafo, alle tesi di Simone, non perché le ritenga del tutto risolutive, ma poiché mi paiono descrivere in maniera appropriata alcuni dati di fatto difficilmente confutabili e oltremodo preoccupanti cui ci troviamo di fronte.

17. Nel suo studio intitolato La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo[54]Simone ha condotto, dal punto di vista del linguista, un’interessante analisi sul fenomeno del cambiamento del self in relazione alle mutazioni dello spazio comunicativo. Poiché il self è in gran parte un costrutto linguistico, è del tutto lecito pensare che il tipo di linguaggio che usiamo e in cui siamo costantemente immersi contribuisca alla strutturazione dello stesso self.

17.1. Come premessa, è di grande interesse una sua nota metodologica relativa alla possibilità di individuare e circoscrivere dei fenomeni che sono per loro natura sfuggenti e che hanno attinenza con le lente trasformazioni culturali e sociali. L’Autore li ha chiamati fenomeni vaghi. Afferma Simone in proposito: «[…] il mondo del simbolico è ricco di quelli che […] ho suggerito di chiamare “fenomeni vaghi” […]. Si tratta di fenomeni di cui tutti avvertiamo la presenza, che ci colpiscono a volte con un’evidenza quasi insopportabile, contro i quali possiamo reagire perfino con fastidio, perché ci irritano o semplicemente ci disorientano – ma che non si lasciano ridurre a cifre, tabelle e trend, non affiorano sotto forma di dati palpabili e obiettivi. Spesso non si lasciano neanche indicare con un nome preciso – anzi, quando li trattiamo in questo modo, si limitano a sparire silenziosamente».[55] È evidente che molti dei fenomeni che abbiamo descritto a proposito della postverità sembrano possedere proprio le caratteristiche dei fenomeni vaghi.

17.2. Simone, nel suo studio, ha cercato dunque di individuare e circoscrivere un fenomeno vago come il cambiamento che sta avvenendo nella struttura del self delle giovani generazioni. Basandosi su osservazioni empiriche sul mondo giovanile e sul confronto tra le generazioni, ha introdotto un’interessante distinzione tra culture proposizionali e culture non proposizionali. Egli osserva che: «[…] negli ultimi decenni del secolo XX, le generazioni giovani hanno adottato usanze comunicative totalmente diverse da quelle dei loro genitori (e più ancora dei loro nonni)».[56] Per comprendere adeguatamente queste trasformazioni: «Distinguerò […] due modelli di uso del linguaggio: uno che chiamerò proposizionale, l’altro che chiamerò non-proposizionale.[…] La pratica proposizionale è tipica di chi ritiene che l’esperienza, se è rilevante, debba essere espressa in parole – anzi, più propriamente, in parole organizzate in proposizioni – e che queste proposizioni siano tanto più significative quanto più sono interrelate tra di loro, formano cioè testi in senso stretto, tenuti insieme da tutte le restrizioni proprie di questo tipo di struttura».[57] Simone sta parlando qui di scrittura. È il caso di ricordare che per definizione: «Nella teoria della letteratura, un testo è qualsiasi oggetto che può essere «letto»».[58] Questo significa che il carattere testuale dell’uso proposizionale non può che derivare dalla familiarità con il testo scritto. L’uso proposizionale del linguaggio è dunque tipicamente gutemberghiano. Afferma Simone che: «[…] l’atteggiamento proposizionale rispetta massime tacite come «sii analitico, sii referenziale, sii strutturato, sii gerarchico». Questi requisiti sono strettamente collegati tra loro, anzi possono essere visti come facce della stessa realtà».[59] Queste massime sono chiamate dall’Autore Massime della Lucidità. Si evoca qui il criterio cartesiano del chiaro e distinto.

17.3. All’inverso, secondo Simone, le caratteristiche dell’atteggiamento non – proposizionale sarebbero le seguenti:«[…] a) è generico, perché non scompone il contenuto del pensiero in elementi distinti, ma si limita ad evocarlo globalmente, lasciandolo inanalizzato e indistinto; b) è vago dal punto di vista referenziale, in quanto non designa individui, ma solo categorie generali indifferenziate; c) per conseguenza non dà nomi alle cose, ma allude, usando “parole generali”, entro le quali si può includere quello che si vuole, così facendo conto su una conoscenza globale condivisa, nella quale i singoli oggetti non hanno nome, e quindi non è necessario nemmeno indicarli specificatamente; d) rifiuta la struttura, sia quella gerarchica dei componenti, sia quella sintattica e testuale, oppure usa strutture estremamente semplici; non usa gerarchia alcuna tra le informazioni che presenta, lasciando all’interlocutore il compito di crearsene una».[60] La conseguenza è che: «Questo orientamento si ispira quindi a una sorta di generale Massima di Fusione. Per effetto di questa, tutto si presenta in una massa indistinta, tutto è in tutto, e analizzare, gerarchizzare e strutturare è inutile o illecito. L’analisi sciupa la percezione e la ricchezza dell’esperienza. […] È costante l’allusione ai rischi del classificare, del distinguere, del separare – proprio le operazioni che […] stanno alla base dell’atteggiamento proposizionale».[61] La Massima di Fusione insomma è quella che governa le conversazioni quotidiane in ambiti familiari, o al più quella che sta alla base di certe esperienze e filosofie di orientamento irrazionalistico, come ad esempio il romanticismo o la gnosi. Per certi aspetti può richiamare il globalismo della visione del mondo infantile.

Dunque le culture non proposizionali non è che mettano da parte il linguaggio scritto, non è che tornino alla oralità primaria. Semplicemente non usano le migliori potenzialità del testo scritto e si limitano a usare la scrittura in termini riduttivi accanto e insieme ad altri elementi mediali. Insomma, quello che Sartori chiamava pensiero è qui ridotto alle sue forme più elementari.

17.4. Questa differenza nell’uso linguistico, secondo Simone, struttura diversamente il self, genera diversi orientamenti culturali e ha un valore decisamente generale: «Non c’è dubbio che quella che chiamiamo globalmente civiltà occidentale (termine generico, che include non solo determinazioni politiche come il concetto di democrazia, di persona, di libertà personale, ma anche determinazioni discorsive come quelle di ragione, di discorso, di analisi, di scienza, di spirito critico, e così via) sia di tipo proposizionale».[62] Come si può ben comprendere, quelle citate da Simone sono le caratteristiche della civiltà occidentale che sono culminate nella classica visione della modernità. È abbastanza ovvio concludere che l’indifferenza alla verità, di cui ci siamo a lungo occupati in questo stesso articolo, possa trovarsi agevolmente dalla parte della cultura della Grande Fusione piuttosto che dalla parte della cultura della Lucidità. Si noti che le caratteristiche della cultura proposizionale, che sono anche quelle della modernità, sono quelle stesse caratteristiche delle grandi narrazioni (tra cui la scienza) di cui il postmoderno ha dichiarato l’oltrepassamento. Quasi tutte le definizioni della postverità insistono – come s’è ben visto – sulla dominante emotiva che tende a sostituire l’attenzione per la verità e per la realtà. Anche nel caso del populismo – espressione politica per eccellenza dell’oltre-vero – sembra essere presente una dominante decisamente emotiva, oltre a una chiara tendenza a non fare i conti con la realtà. Anche il bullshit artist è un intrattenitore di successo proprio grazie ai meccanismi non proposizionali della Grande Fusione.

Trattandosi di fenomeni vaghi, nell’ accezione di Simone, occorre ovviamente guardarsi dall’istituzione di relazioni causali univoche e dirette tra le nuove tecnologie e le diverse manifestazioni della postverità. Le nuove tecnologie con ogni probabilità rappresentano soltanto la condizione sufficiente che ha reso possibile la diffusione della cultura della Grande Fusione e della postverità. Le nuove tecnologie, di per sé, possono ugualmente alimentare entrambi gli usi del linguaggio, entrambe le culture, sia quella della Lucidità sia quella della Grande Fusione. Perché allora a livello di massa pare stia di gran lunga prevalendo la Fusione sulla Lucidità?

Le ragioni generali di questo trend non sono difficili da spiegare. La testualità articolata e complessa (e tutte le sue implicazioni, tra cui il pensiero argomentativo e la razionalità) non è spontanea, deve essere conseguita attraverso una disciplina. È un greve fardello che si sovrappone – per dirla con Recalcati – all’anarchia del desiderio. Abbiamo visto che secondo Dehaene per accedere alla lettura occorre costruire e mantenere dei veri e propri circuiti cerebrali che hanno anche dei risvolti fisici. In termini foucaultiani, la testualità poi è sempre stata considerata come espressione del potere. Rappresenta una sottomissione. La Grande Fusione da questo punto di vista rappresenta invece la liberazione dal fardello del testo. Lo svincolamento dal potere nascosto associato alla scrittura e alle grandi narrazioni. I postmoderni, in molte delle loro manifestazioni, hanno solo e sempre predicato la Grande Fusione contro la Lucidità.

Le nuove tecnologie non sono dunque soltanto veicolo di modernità, permettono anche di sfuggire facilmente al fardello della modernità e permettono indubbiamente di liberare il desiderio. Insomma, invece di alfabetizzarsi e disciplinare il self, invece di strutturare il self come un testo organico e rigoroso, invece di diventare compiutamente uomini del libro,si può passare il tempo a contemplare suoni e immagini. Si può diventare molto social. Si può aspirare a diventare bullshitter professionali. Mentre l’interazione con il libro lascia le sue tracce e ci cambia profondamente, l’interazione con le nuove tecnologie più che altro non fa che rispecchiare quel che già siamo. Secondo la legge di Dember, ciascuno di noi tende a scegliere gli stimoli che hanno il nostro stesso livello di complessità interna.[63] Parafrasando Ferraris, se siamo imbecilli, useremo le tecnologie da imbecilli. Ha senz’altro ragione Ferraris quando ci ricorda che il telefonino è una macchina per scrivere[64] e quindi rappresenta uno sviluppo nobile della scrittura e della stampa a caratteri mobili. Tuttavia, di fatto, è prevalentemente utilizzato per produrre e scambiare il bullshit che ci invade da ogni parte. La tecnologia è accondiscendente ai nostri peggiori difetti, ci permette anche questo suo uso degradato, ma se così facciamo, in effetti, è solo colpa nostra.

17.5. Cerchiamo, avviandoci a concludere, di riprendere le fila del nostro discorso. Abbiamo preso il via da una serie disparata di fenomeni connessi alla svalutazione della verità che si sono progressivamente imposti alla nostra attenzione, che all’incirca sono emersi tutti nello stesso periodo e che possiedono indubbiamente una certa somiglianza di famiglia. Di qui la nostra metafora dell’iceberg. Secondariamente abbiamo osservato come tutti questi fenomeni siano connessi alle nuove tecnologie, se non altro in termini di condizioni sufficienti. Senza le nuove tecnologie questi fenomeni non sarebbero diventati così tangibili e preoccupanti. In terzo luogo ci siamo domandati se i nostri fenomeni, nella loro relazione con le nuove tecnologie, non costituissero altrettante facce diverse di uno stesso fenomeno unitario ben definibile e spiegabile. Siamo andati in altre parole in cerca di una teoria.

Abbiamo qui incontrato una gamma di spiegazioni non del tutto univoche. La teoria più semplice consiste nell’invocare una sproporzione tra la potenza degli strumenti oggi resi disponibili e l’insipienza umana. Nel caso della postverità ci troveremmo così semplicemente di fronte all’espressione dell’imbecillità umana elevata alla nona potenza. Il pericolo in questo caso è che la maggioranza così caratterizzata finisca per prendere il potere (se non lo ha già fatto). La teoria più complessa postula invece che le nuove tecnologie stiano per così dire agendo dall’interno, stiano producendo cioè una serie di trasformazioni profonde a livello culturale e soprattutto a livello del self. In tal caso, sarebbero queste trasformazioni profonde a rendere possibili i fenomeni ben visibili di cui ci siamo occupati, dalla politica postruista alle fake news, fino ai populismi. Di queste trasformazioni profonde avremmo poca consapevolezza poiché – con il linguaggio di Simone – esse costituirebbero dei fenomeni vaghi, molto evidenti nelle loro manifestazioni particolari ma costitutivamente alquanto sfuggenti. Il pericolo qui è quello di una minaccia che si accumula dentro di noi, di una lenta trasformazione dei nostri simili, fino a renderli irriconoscibili, più o meno come nel film L’invasione degli ultracorpi.

Possiamo in estrema sintesi scegliere tra due macro alternative: a) quel che succede oggi alla verità è soprattutto frutto della costitutiva imbecillità umana oggi esaltata dalla potenza delle nuove tecnologie, oppure b) quel che sta succedendo oggi alla verità è frutto di una mutazione antropologica, effetto delle nuove tecnologie stesse, che ci sta cambiando profondamente in peggio, a nostra insaputa, anzi, con il nostro concorso. Dalla padella nella brace. Può darsi che l’avvento della documedialità – siamo appena all’inizio -possa costituire la base materiale per una nuova maturazione individuale, la possibilità davvero per tutti di un salto nella terra della testualità più ricca, e quindi la possibilità effettiva di realizzazione di una vera modernità, per la quale però – come s’è visto – occorrerebbe rimettere al centro la verità. Le potenzialità forse ci sarebbero. Oppure può darsi – come sembra piuttosto stia accadendo, quale che ne sia la spiegazione – che il mare dell’oltre-vero finisca per seppellire definitivamente la verità e la modernità, annegandoci nel bullshit e consegnandoci a un nuovo medioevo populista.

Bibliografia

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Dove sei? Ontologia del telefonino, Il Sole 24 ORE, Milano. [2005]

2016Ferraris, Maurizio
L’imbecillità è una cosa seria, Il Mulino, Bologna.

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2000Simone, Raffaele
La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, Bari.

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2009Susstein, Cass
On Rumors: How Falsehoods Spread, Why We Believe Them, What Can Be Done, Allen Lane.Tr. it.: Voci, gossip e false dicerie. Come si diffondono, perché ci crediamo come possiamo difenderci, Feltrinelli, Milano, 2010.

1983Vattimo, Gianni&Rovatti, Pier Aldo (a cura di)
Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano.

2009Vattimo, Gianni
Addio alla verità, Meltemi, Roma.


Note

[1] Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nell’aprile del 2018. Poiché l’argomento non ha cessato di essere di estrema attualità, ho avuto l’occasione di apportarvi diversi aggiornamenti. La versione che qui presento è un ulteriore aggiornamento realizzato nel giugno 2025, in seguito all’interesse a ripubblicarlo manifestato dagli amici del blog Viandanti delle nebbie. Preciso di non avere usato, nella redazione del testo, alcuno strumento di intelligenza artificiale.

[2] Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo cominciarono a comparire diversi contributi critici contro il relativismo e contro il postmodernismo che era stato la prospettiva filosofica imperante nei due decenni precedenti. Si vedano, ad esempio, Jervis 2005, Boghossian 2006 e Marconi 2007.

[3] Cfr. Sokal & Bricmont 1997. Nella versione francese compare la dizione impostures intellectuelles, mentre nella versione in inglese nel titolo compare la dizione fashionable nonsense, traducibile con stupidaggini alla moda o sciocchezze di moda.

[4] Cfr. Sokal & Bricmont 1997: 15-16.

[5] Il termine bullshit – altresì rendibile con svariati sinonimi, come balle, fesserie, cazzate, puttanate – viene comunemente tradotto in italiano con stronzate. Il libretto è stato pubblicato in italiano col titolo di Stronzate. Un saggio filosofico. Cfr. Frankfurt 2005.

[6] Cfr. Frankfurt 2005: 11.

[7] Cfr. il mio articolo Finestre rotte: “Stronzate”, un concetto sempre più attuale pubblicato sul blog Finestrerotte il 2/7/2015.

[8]Si noti che la stessa Wikipedia, per certi aspetti, potrebbe essere un prodotto della postverità. La qualità delle definizioni di Wikipedia è assai variegata e un attento controllo è sempre necessario.

[9] Si veda Wikipedia in italiano, alla voce rispettiva. Wikipedia in inglese fornisce la stessa definizione.

[10] Così spiegano gli Oxford Dictionaries: «The compound word post-truth exemplifies an expansion in the meaning of the prefix post- that has become increasingly prominent in recent years. Rather than simply referring to the time after a specified situation or event – as in post-war or post-match – the prefixin post-truth has a meaning more like ‘belonging to a time in which the specified concept has become unimportant or irrelevant’». Cfr. https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016.

[11] Sulla nozione logica e filosofica di menzogna, vedi D’Agostini 2012.

[12] H. G. Frankfurt (2005: 53).

[13] Cfr. Frankfurt 2005: 51. Bullshit artist potrebbe essere reso con il nostro termine contaballe.Una sorta di contaballe specialista e professionale.

[14] La citazione contiene un mio piccolo aggiustamento, visto il carattere cooperativo di Wikipedia.

[15] La nozione di somiglianza di famiglia risale al filosofo Ludwig Wittgenstein.

[16] So bene che non tutti gli studiosi concorderebbero con queste mie semplificazioni. Solo per brevità seguo la definizione di Frankfurt, per il quale bullshit è una categoria generale. Secondo Ferraris, ad esempio, il bullshit costituirebbe una categoria più specifica, assieme a numerose altre. Si veda Ferraris 2017, prima dissertazione.

[17] Cfr. Keyes 2005: Post-Truthfulness. La traduzione è nostra.

[18] L’allusione ovviamente va al filosofo nord americano Richard Rorty, neopragmatista e postmoderno.

[19] Si veda D’Agostini 2002.

[20] Per una confutazione della tesi VNE secondo cuila verità non esiste si veda D’Agostini 2002.

[21] Paul Ricoeur ha definito come filosofie del sospetto le filosofie di Marx, Nietzsche e Freud. Si tratta di filosofie che condividono l’ipotesi che oltre alle apparenze esista un’altra verità più autentica. Questo modo di pensare ormai popolarizzato ha favorito, nell’era della rete, la proliferazione delle cosiddette verità alternative che spesso non sono altro che bullshit.

[22] So bene che esistono diversi tipi di relativismo. Qui non posso che semplificare per brevità.

[23] È curioso che il politically correct abbia conosciuto una ampia diffusione all’inizio degli anni Novanta.

[24] Cfr. Vattimo & Rovatti 1983 e Vattimo 2009.

[25] Per chi fosse interessato, segnalo il mio articolo Il tramonto annunciato dei profeti del nulla pubblicato sul blog Finestrerotte in data 18/3/2015. Cfr. Finestre rotte: Il tramonto annunciato dei profeti del nulla.

[26] Cfr. Ferraris 2017.

[27] Cfr. Ferraris 2017: 19.

[28] Cfr. Ferraris 2017: 21.

[29] Cfr. Ferraris 2017: 11.

[30] Cfr. Ferraris 2017: 27.

[31] Cfr. Ferraris 2017: 48.

[32] Cfr. Ferraris 2004 e Ferraris 2012.

[33] Cfr. Berlin 1965: 195.

[34] Cfr. la seconda dissertazione in Ferraris 2017.

[35] Su questo punto si veda Searle 1995.

[36] Cfr. Ferraris 2017: 69.

[37] Cfr. Ferraris 2017: 113.

[38]Cfr. Foucault 1983.

[39]Cfr. Habermas 1990 [1962].

[40] Si veda Habermas 1990[1962].

[41] Sugli universali della comunicazione si veda sempre il contributo di Habermas.

[42] Segnalo in proposito il mio saggio: I soggetti del populismo, pubblicato sul mio blog Finestrerotte il 23/3/2017. Cfr. Finestre rotte: I soggetti del populismo .

[43] Cfr. Carr 2010. Lo studio originale è del 2010 ed è stato pubblicato in Italia l’anno successivo.

[44] Cfr. Dehaene 2007.

[45] Cfr. Carr 2010: 144.

[46] Cfr. Ferraris 2007 [2005].

[47] Cfr. Ferraris 2016.

[48] Cfr. http://www.huffingtonpost.it/2015/06/11/umberto-eco-internet-parola-agli-imbecilli_n_7559082.html

[49] Si veda ad esempio De Mauro 2010.

[50] Cfr. Sartori 1997.

[51] Cfr. Sartori 1997: XI.

[52] Cfr. Sartori 1997: 22.

[53] Cfr. Sartori 1997: 111.

[54] Cfr. Simone 2000.

[55] Cfr. Simone 2000: 125.

[56] Cfr. Simone 2000: 127.

[57] Cfr. Simone 2000: 128-129.

[58] La definizione proviene da Wikipedia (in inglese).

[59] Cfr. Simone 2000: 129-130.

[60] Cfr. Simone 2000: 129-130.

[61] Cfr. Simone 2000: 130-133.

[62] Cfr. Simone 2000: 135.

[63]Cfr. Dember & Earl 1957.

[64] Cfr. Ferraris 2007 [2005].

Lingue, sudore e metrica

di Carlo Prosperi, 2 marzo 2024

(Pubblichiamo un contributo inviatoci recentemente da Carlo Prosperi. Non avrebbe bisogno di alcuna presentazione, più chiari di così è impossibile, ma consideriamo parte integrante del testo anche le parole che lo accompagnavano, e pertanto le premettiamo.)

Caro Paolo,
in attesa di mandarti alcune mie considerazioni sull’A. I. e sugli ultimi sviluppi della tecnologia macchinistica e robotistica, ti invio – se pensi che possa interessare – l’introduzione da me scritta all’ultima antologia (uscita tre o quattro anni or sono) dei vincitori del Concorso Guido Gozzano di Terzo. Ho provveduto a qualche ritocco e, comunque, se vuoi, puoi tranquillamente pubblicarla. Puoi considerarla una prefazione, poeticamente orientata, a quanto mi riprometto di scrivere sull’infatuazione forsennata per la tecnica (e la tecnologia): un’ulteriore tappa della folle corsa di un’umanità di piromani che gioca con una rivoluzione sociale, culturale e filosofica di cui s’ignorano i confini. O, se preferisci, un viaggio a fari spenti nella notte per vedere se sia poi davvero così difficile morire, come nella nota canzone di Lucio Battisti. La macchina, che – a dire di Spengler – ha preso il posto di Dio detronizzato e morto, prima o poi si sbarazzerà dell’uomo, il quale già vive con il timore di stare qui per caso, senza uno straccio di ragione, in balìa di un Lord of game imperscrutabile, “che gioca a dadi o a nascondino”. Pensa alle masse analfabete in fatto di informatica e di elettronica (nel numero mi ci metto anch’io, per primo) alla mercè dei pochi sapientes tecnocrati … Ti dicono che, con lo sviluppo dei robot, aumenterà il tempo libero, ma anche questa prospettiva mi spaventa: ti immagini le masse spaesate dal tempo libero che cercano sfogo nei vizi, rimbecillendo, o, peggio ancora, nelle contese sportive o politiche, negli scontri tra opposte fazioni, come accadeva nella Roma del primo secolo a. C., quando le bande fanatiche di Clodio e Milone si massacravano in una sorta di guerra civile? Ma non voglio, per ora, anticipare i tempi. E mi fermo qui. Augurandoti una rapida ripresa. Un abbraccio, Carlo.

Lingua, sudore e metrica 06

Lo stato dell’arte

Presero alcuni a invilupparsi dentro
ragnatele di versi senza capo
né coda, coltivando un metro sciapo,
persuasi della perdita del centro.

Altri, scioccati dalla malattia
dell’anima, smarrirono ogni fede
nella parola e piede dopo piede
sconfinarono, ahimè, nell’afasia.

Non più che balbettìi e borborigmi
udivi uscire dalle loro labbra:
qualche sillaba storta, qualche scabra
reliquia degli antichi paradigmi.

Altri ancora lucravano sul corpo
dell’arte vilipesa ed il cadavere
straziato e pesto dalle loro clave
defraudavano d’ogni regia porpora.

Per altri infine era ludibrio e gioco
l’arte dei versi: non più soglia mistica,
ma frigido esercizio di enigmistica,
cervellotico show e fatuo fuoco.

Aura non v’era più, non più profumo
d’ambrosia auliva dalle dirute are:
lassù un miraggio di stella polare
sprofondava in un vortice di fumo.

Ma rima dopo rima, Pollicino
testardo, senza indulgere ai sinistri
presagi o al suono futile dei sistri,
proseguìi tutto solo il mio cammino.

Sapevo che ad attendermi là fuori
del bosco c’era la mia casa, il noce
che l’adombrava: udivo già la voce
querula di mia madre nei canori
versi dei merli, nei loquaci ingorghi
dei ruscelli. Le tracce erano vaghe:
segni sui tronchi di vetuste piaghe,
frusci di vento, fremiti di sorghi.

Ma la mia fede era inconcussa: l’eco
che mi vibrava dentro nei precordi
(o forse la risacca dei ricordi?)
mi era di guida nell’intrico cieco.

Cantavo dunque contro le paure,
fedele alla mia Musa, ai miei princìpi,
senza nutrirmi di vivande insipide
e senza abbeverarmi ad acque impure.

Sarà per questo che per qualche grazia
del cielo avverto prossima la meta
dove sgorga la polla che disseta
e nevica la manna che mi sazia.

Lingua, sudore e metrica 02

Era il 2011: due lustri or sono. Tiravo allora le somme degli ultimi decenni di poesia, anche nel tentativo di dar conto della mia personale poetica. Ebbene, nel frattempo mi sembra che le cose siano in parte cambiate e che vadano tuttora cambiando, e proprio nel senso da me allora auspicato. I giovani poeti, per quanto almeno mi è dato giudicare dalla mia specola di presidente del Premio Guido Gozzano di Terzo, sia pure a fatica, si vanno via via affrancando da certi vieti condizionamenti del passato che rischiavano di portarli ad incagliarsi tra le secche dell’afonia, se non dell’afasia, o a perdersi nei più insulsi e insensati blateramenti in nome o con la scusa dei più arditi e talora ignobili sperimentalismi. Ah, le seduzioni della modernità e dei cattivi maestri che hanno invitato a fare tabula rasa della tradizione ed insegnato a «ribellarsi alle regole, dando prevalenza al gesto, alla libertà sconfinata dell’io dell’artista-demiurgo capace, con il proprio comportamento creativo, di rovesciare ogni precetto»! La poesia, come in generale l’arte, è «una meravigliosa costrizione con regole stabili, come le migliori partite di scacchi che si svolgono per forza sulla scacchiera e non fuori da essa, pur con mosse geniali» (Alzek Misheff). Diceva giustamente Auguste Rodin: «L’arte viva è un proseguimento di quella del passato». Non nel senso della ripetizione, ma della continuità. La tradizione non è un fossile, ma un modello dinamico. Un punto di riferimento per chi voglia andare oltre.

Lingua, sudore e metrica 03

Si è parlato per molto, troppo tempo di crisi dell’io, della sua irrimediabile dissoluzione. Tutto è cominciato con la fine dell’antropocentrismo e la scoperta delle screpolature nel cielo di carta sopra di noi. Nessuno può più mettere in discussione la rivoluzione copernicana, che ha fatto della Terra un atomo insignificante nell’economia dell’universo. E, venuta meno la centralità della Terra, anche le sorti dell’uomo hanno subito un’analoga destituzione. «Ormai – dice il pirandelliano Mattia Pascal – noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre». Lo svilimento dell’uomo è quindi proseguito con la scoperta che anche l’io, lungi dall’essere un’unità più o meno armonica ovvero “un continente”, è in realtà “un arcipelago”, di labile e precaria consistenza. La stessa esistenza individuale si è rivelata «un relitto alla deriva nel mare della storia e nel flusso della corrente psichica» (Claudio Magris). Stando così le cose, c’è chi ha avvertito l’esigenza di abolire o di superare i tradizionali confini dell’io umanistico per approdare al nuovo modello antropologico dell’“oltre-uomo” e chi per contro ha preteso di accelerare e di incentivare la disgregazione dell’io, senza risparmiarne le espressioni culturali, a cominciare dal linguaggio. Di qui le elucubrazioni, spesso sofistiche e fumose, di maîtres à penser come Guattari, Deleuze, Foucault, Lacan, Derrida: tutti impegnati in un’opera tanto forsennata quanto gratuita di decostruzione e di disgregazione. In nome del caos. Puro masochismo a volte, a volte manifestazione di squisito e compiaciuto narcisismo. In ogni caso, forme luciferine d’intelligenza.

Lingua, sudore e metrica 04

Non si vuole con ciò negare o mettere in dubbio che ci sia molto di vero in tutto questo. Ma che senso ha indulgere in tal modo – in un accesso di cupio dissolvi – a Thanatos, assecondare il principio di morte e di distruzione, di suo già così attivo e pervasivo? E perché complicarsi oltre modo la vita? Ecco, in quegli anni è mancata una reazione positiva: pochi hanno davvero sentito l’esigenza di opporsi a tale deriva, di contrastare tanta disgregazione, di imporre cioè un ordine e un controllo, questi sì umani, ai disiecta fragmenta che ne conseguivano. È mancato chi difendesse le ragioni di Eros. E dell’uomo. Perché non si deve dimenticare che, con tutti i suoi limiti, l’uomo resta pur sempre misura di tutte le cose. Senza l’uomo non ci sarebbe né etica né estetica. L’umanesimo può – deve! – essere pertanto recuperato in forme nuove, che potremmo dire leopardiane, perché proprio ne La ginestra trovano la loro enunciazione più alta e limpida. La dignità dell’uomo non consiste nel suo sentirsi “signore e fine” del Tutto, bensì, al contrario, nella consapevolezza della sua miseria, nel «poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degl’infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e si trova quasi smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose». È prerogativa dell’uomo quella di essere «autocoscienza del cosmo» e la sua stessa infelicità è indizio della sua «capacità d’infinito». «Tutto [infatti] è o può essere contento di se stesso eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell’altre cose». C’è, insomma, nell’uomo – che è pascalianamente «una canna», ma «una canna pensante» – un’esigenza di senso che non sempre trova corrispondenza nella realtà. Che tocca a lui soddisfare. Senza pretese di sostituirsi a Dio, ma ordinando il mondo, foss’anche solo il suo piccolo mondo, orientando per quanto possibile la propria vita secondo la propria volontà o cercando comunque in essa e nella realtà che lo circonda una qualche coerenza, le tracce di un disegno, le spie magari di un’oltranza, di una possibile armonia. Oltre il caso e il caos, così da sentirsi «una docile fibra dell’universo».

Lingua, sudore e metrica 05

Questo è compito dell’uomo faber e di quel faber sui generis che è il poeta. Ma per fare questo bisogna essere dei costruttori, non dei distruttori. E visto che la poesia è fondamentalmente una lotta con l’angelo, non è detto che l’esito ne sia sempre positivo. In tal caso, però, il poeta potrà esprimere il proprio disagio o l’angoscia che nasce dai suoi sforzi frustrati. Dovrà comunque essere compos sui e sapere organizzare i molteplici e dissonanti nuclei psichici che, almeno provvisoriamente, compongono la sua unità individuale. Perché la poesia sarà anche un sogno, ma è sempre «un sogno fatto in presenza della ragione». Voglio dire con questo che la poesia è essenzialmente forma, struttura, metrica. E mi sembra che in questi ultimi anni, sia pure con soluzioni e con spiriti diversi, si vada in questa direzione. Rinunciando alla pretesa della novità ad ogni costo, alle provocazioni per partito preso, alle manie incendiarie ispirate dalla sindrome di Erostrato. Nel solco di una tradizione finalmente non più intesa come un ingombro, ma come un faro che agevola il cammino. «Dove il passato non getta più la sua luce dinanzi a sé – diceva Alexis de Tocqueville – lo spirito dell’uomo vagola nelle tenebre».

​Pendoli e pendagli

di Carlo Prosperi, 21 gennaio 2021

Credo sia ormai il caso di presentare “ufficialmente” Carlo Prosperi, anche se non dubito che i frequentatori del sito abbiano già imparato a conoscerlo. Sarò breve: se tirassi giù una sbrodolata mi toglierebbe immediatamente l’amicizia, alla quale tengo invece moltissimo. Mi limiterò a un paio di ricordi da ex compagno di scuola, che a mio giudizio inquadrano l’essenziale. Quando è arrivato nella nostra classe – credo in prima Liceo – Carlo sapeva già, a differenza di tutti noi, cosa davvero lo interessava e cosa avrebbe voluto fare da grande. Scelse di frequentare praticamente part-time, e di dedicare più proficuamente il suo tempo alla sua vera passione, la lettura. Alla fine delle secondarie aveva letto più di tutti noi messi assieme, e di matematica e fisica sapeva comunque quanto me (vale a dire ben poco) che in cinque anni non avevo perso un giorno. Una volta all’Università, libero da orari e scadenze e impegni di frequenza, ha bruciato le tappe ed è stato il primo a laurearsi. Di lì è iniziata la sua missione di insegnante e, ciò che maggiormente qui importa, una attività di studioso tutta fuori dagli schemi correnti. Nel senso che è uno serio, che non compare in tivù e poco anche fuori, professionale nel metodo e negli approfondimenti (è la cosa che più gli invidio) e onnivoro negli interessi culturali. Può scrivere d’arte, di letteratura, di storia o di filosofia con la stessa ferratissima competenza, e insieme con la stessa modestia. “Il faut cultiver notre jardin” potrebbe essere il suo motto (anche se ama poco Voltaire). Ma per crescere fiori bisogna anche avere il pollice verde. E Carlo lo ha senz’altro.

Paolo Repetto

Caro Paolo,

ho letto con sommo interesse il tuo saggio sul complottismo e ancora una volta mi devo dichiarare d’accordo, almeno in gran parte, con te. Il complottismo, inteso nel suo senso deteriore, non è molto dissimile dall’allucinazione ossessiva. E bene ha fatto Eco a irriderne e a smontarne, nel Pendolo di Foucault, gli aspetti mistificatori. Che accomunano ed hanno accomunato tanto la destra quanto la sinistra: se, per ragioni politico-propagandistiche, Mussolini evocava complotti massonici e demo-plutocratici, da Togliatti ed epigoni abbiamo appreso di una perenne “Reazione in agguato”. Nel Mulino del Po Bacchelli citava i “segreti” di cui si nutriva “la bislacca visione” del Cavallotti: «dopo quel di Novara, il “segreto” d’Aspromonte, e poi di Mentana…». Una trama di congiure antidemocratiche, quasi una “strategia della tensione” ante litteram.

Oggi, con la globalizzazione imperante, la Spectre ha assunto aspetti e dimensioni ancor più inquietanti. Certo i “poteri forti” esistono, ma spesso sono tra loro in conflitto. O in concorrenza. Per spartirsi le aree d’influenza. O i mercati (è il caso delle multinazionali). Come è sempre accaduto. Da sempre esistono gli arcana imperii. E quanti registi hanno costruito la loro fortuna sui complotti della CIA, dell’FBI, dei Servizi Segreti. Ma vogliamo chiamare complotto anche l’espansionismo cinese, che, con la “Diplomazia dei Vaccini”, va accelerando la sua penetrazione socio-economica nel mondo, a cominciare dall’Oriente, in un confronto muscolare a tutti i livelli con le economie occidentali? La “Diplomazia dei Vaccini”, da agosto in qua, si è estesa ad aree politicamente ed economicamente cruciali del Medio Oriente: dal Bahrain all’Egitto, dalla Giordania agli Emirati Arabi, dall’Arabia Saudita a diversi Paesi dell’America Latina. Ai vaccini si sono aggiunti accordi economici: con la Turchia, con Israele, col Pakistan. Al Marocco è stato concesso un brevetto per la produzione di un vaccino cinese per tutta l’Africa: continente in cui la penetrazione cinese è già molto estesa. Complotto? Ma tutto avviene alla luce del sole, tutto è di dominio pubblico, anche se i nostri mass-media ne parlano poco e senza dare a tutto ciò il rilievo che meriterebbe. Lo stesso poi si potrebbe dire degli USA e della disciolta URSS.

Il vero complottismo – come tu ben spieghi – si ammanta di mistero (arcano resta il “disegno perversamente intelligente” con cui si ripromette di asservire l’umanità) e sfugge ai giochi o agli intrighi diplomatici, ma le élites che promuovono la congiura si conoscono tra loro (tutte d’accordo? possibile?) e le conosciamo. Sappiamo nomi e cognomi dei componenti della Trilateral Commission o del Bilderberg. Ricordo che Gianni Collu a siffatta mia obiezione rispondeva che queste organizzazioni non sono il vertice di nulla, bensì soltanto la cinghia di trasmissione di un Potere Occulto, giacché i veri processi decisionali avrebbero luogo ancora più in alto. Un paradosso capzioso: se il Demiurgo non è Dio e se Dio sta sopra o dietro di lui, perché dietro o sopra Dio non potrebbe esserci, che so? un Super-Dio, un Ur-Dio? E via retrocedendo all’infinito: un altro esempio di “cattiva infinità”.

Come vedi, il discorso è complesso. E a complicarlo concorrono poi le “Società Segrete”, le Mafie, le P2 o P3, le infinite sette che nella storia hanno contribuito ad alimentare il mito e il gusto dei complotti. Non tutti a fin di male: stando a Luigi Natoli, i Beati Paoli, ad esempio, si proponevano di vendicare le ingiustizie a danno dei più deboli; altre associazioni si ripromettevano di liberare i popoli dall’oppressione o di instaurare l’uguaglianza tra gli uomini. Ma siamo pur sempre mille miglia lontano dal “complotto mondiale” dei tempi nostri. E fin qui hai perfettamente ragione. Come hai ragione a dire, a commento del pensiero foucaultiano, che tu in parte condividi, a distinguere la realtà (“ciò che accade”) dalle fantasie (“ciò che vien fatto accadere”). Ma dimentichi di aggiungere che Foucault, nel denunciare l’onnipervasività del potere o, se vuoi, quella “microfisica del potere” capace di penetrare in ogni atto, situazione, gesto, ometteva di menzionare il suo potere, quello da lui espresso come cattedratico, come intellettuale à la page, come scrittore di successo (già nel 1971, George Steiner vedeva in lui “il mandarino del momento”). Un successo, il suo, dovuto all’ambiguità o alla contraddittorietà dei suoi stessi enunciati, come ha evidenziato nel 1977 Jean Baudrillard nel suo saggio Dimenticare Foucault. Pensa ad asserzioni come quelle che seguono: “noi ignoriamo ancora che cos’è il potere, questa cosa enigmatica, a volte visibile e invisibile, presente e assente, investita in ogni parte”; il potere è “una modalità di azione sulle azioni degli altri», lo si coglie cioè solo quale mero effetto, senza poter risalire univocamente a una sola causa cosciente; «il potere è ovunque, essendo immanente alla struttura sociale”. Puro fumo, per di più oppiaceo.

Jean-Marc Mandosio, nel pamphlet “Longevità di un’impostura: Michel Foucault”, uscito in Francia nel 2010, ha giustamente rilevato come, con la sua prosa intessuta “di asserzioni contraddittorie e di ingiunzioni equivoche” e di termini-feticcio come “dispositivi”, “norme”, “biopolitica”, “trama reticolare”, “Biopotere», Foucault abbia dato “forma filosofico-letteraria ai luoghi comuni di un’epoca”. E parla di acrobazie teoricistiche, di terminologie passe-partout e di esibizioni erudite (come se avesse tutto letto e rovistato in tutti gli archivi), senza le quali l’idea ontologico-teologica di rivoluzione permanente e ubiqua non sarebbe stata così esportabile nelle università di mezzo mondo. Così Foucault ha messo in discussione i «dispositivi» della legittimazione sociale e intellettuale. Ma se il potere è dovunque, se l’uomo è sempre, inevitabilmente, parte delle leggi che lo governano, e queste leggi o sono storico-sociali o sono naturali, dove sta il problema? Tutti i sistemi politici sarebbero sostanzialmente equivalenti o almeno equiparabili. Se non esiste più l’individuo, ma la trama delle sue relazioni, ovvero ciò che è dato dalla continua, mutante struttura occulta che lo sottende, egli cessa, per così dire, di essere il soggetto di se stesso. Si scopre che ciò che lo rende effettivo è un insieme di strutture che può pensare e descrivere, ma di cui non è il protagonista determinante. In altri termini, è un ente in balìa della sua trasversale esperienza. Di conseguenza, la volontà umana autocosciente giunge alla sua completa dissoluzione: l’individuo è soltanto un residuo e con esso, naturalmente, anche la sua specifica libertà. Alla luce di quanto detto, “ciò che accade” è anche “ciò ch’è fatto accadere”. Io, quindi, t’inviterei a non credere alla veridicità di Foucault: “ciò che accade”, ammesso che sia corretto usare tale verbo, non “accade” come dice lui.

Non solo. Foucault ha alimentato, fra l’altro, le rivendicazioni del femminismo. Le donne, che si sono sentite senza potere o vittime del potere patriarcale o maschilista, oggi quel potere lo reclamano. Ma partono da un assunto che contrasta con le premesse stesse del potere ubiquo. Personalmente – tanto per discendere dall’iperuranio a più prosaica e quotidiana realtà – ricordo che in casa mia (e di tanti altri che conosco) nominalmente comandava mio padre (il capofamiglia), ma nella pratica il potere “sotterraneo” di mia madre era non di rado vincente. Alla lunga era <più decisivo e dirimente. Oggi le femministe vogliono spogliare i maschi e i padri del loro ruolo sociale, della loro identità tradizionale, della loro auctoritas. Con esiti che ritengo nefasti. Anche per loro stesse. Ma qui, per dare una spiegazione esauriente, dovrei troppo dilungarmi; per cui tralascio il discorso.

Di ben altro spessore è il pensiero di Carl Schmitt, che pure, per altri versi, è dinamite (per dirla col Cucco). Alcuni concetti (la distinzione “amico-nemico”, lo “stato di eccezione”, il decisionismo) ormai entrati nel repertorio comune degli studiosi di politica sono a parer mio fondamentali e non mi stupisce che siano fatti propri da studiosi di destra e di sinistra. D’altronde lo stesso vale per Foucault: se è vero che la sinistra sedicente sovversiva parla oggi la sua lingua, esiste nondimeno un “foucaultismo di destra”. Io, peraltro, condivido anche idee più ardite, quali: “L’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto”; o “La prassi si giustifica attraverso sé medesima” (Carl Schmitt, Le categorie del “politico”). Sono cioè convinto che, seppure lo ius presuma di ammantarsi di un abito scientifico e di essere asettico, oggettivo e imparziale, i rapporti di forza restino decisivi. Se non nel dettato giuridico, nella sua reale applicazione. La forza è alla base del diritto. In altre parole: esiste un ordinamento giuridico solo fintanto che è fatto valere con la forza, quindi solo finché è efficace. È bensì vero che per Kelsen la forza non è lo strumento del diritto, e che il diritto è un insieme di norme che regolano l’uso della forza. Ma lo scopo di qualsiasi ordinamento non è organizzare la forza, sì organizzare la società mediante la forza (di cui, non a caso, lo Stato sovrano si arroga il monopolio). Kelsen scambia la forza/strumento con la forza/fine dell’ordinamento. Del resto, anche il carisma è forza e forza è pure quella dei “persuasori occulti”. E poi basta riandare a Machiavelli: la forza può essere anche quella delle leggi, perché “sono dua generazione di combattere, l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie; ma perché el primo molte volte non basta, bisogna ricorrere al secondo: pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo”. La golpe e il lione, come sappiamo. Il politico ha la natura del centauro.

Il resto del tuo discorso mi persuade ed è svolto con affabilità da scrittore di vaglia, mescolando ironica sprezzatura a perspicacia argomentativa. Insomma, il saggio è avvincente e si legge di un fiato. Oltre tutto risulta ben impaginato e composto, con ottime illustrazioni. Dove le scovi?

Ho letto anche la risposta dell’amico Nico: nella sostanza siamo più vicini di quanto non sembra, quantunque lui si ammanti di un habitus più scientifico (e talora scientista) del mio. È un vero “mastino della ragione”, e tuttavia, a proposito dell’amore, qualcosa concede – bontà sua – anche alla poesia. Che sia meglio della chimica?

Scusami la forma, forse non sempre scorrevole, ma scrivo currenti calamo, cioè alla tastiera del computer, senza troppo badare alla concinnitas e al nitor dello stile.

Un abbraccio, Carlo.

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Piovono sauri!

di Paolo Repetto, 11 gennaio 2021

Di complotti e di complottismo si è parlato anche recentemente su questo sito, forse persino troppo. Verrebbe davvero voglia di seguire il consiglio del tizio che ha scritto: “Implicando che siano così pericolose da meritarsi una censura, i censori danno una patina di serietà a idee che sono, diciamocelo, veramente, veramente idiote”. Il che è più che giusto, non fosse che queste idee sono cerini accesi buttati su chiazze sempre più larghe di idiozia stagnante. Se vogliamo dunque dare al sito una minima ragione d’esistere, questa ha da essere nella lotta contro la stupidità, nel buttare a nostra volta acqua su queste chiazze. Fino ad ora lo abbiamo fatto però in maniera episodica, cercando di capire se un atteggiamento così idiota avesse una qualche matrice biologica, o limitandoci a liquidarlo con sufficienza, come uno dei tanti segnali della degenerazione cerebrale in atto. Siamo probabilmente fuorviati da quella ambigua formula che si chiama “libertà di pensiero”, della quale in genere sottolineiamo il primo termine a completo discapito del secondo, e alla quale guarda caso si richiamano soprattutto i sostenitori delle teorie complottiste. “Penso che la gente debba avere il diritto di credere, di leggere e di avere accesso a tutte le informazioni, per formarsi una propria opinione su cosa pensare. Se qualcosa non ha senso, e se qualcosa non accade, verrà mostrato come insensato sotto le luci dell’arena pubblica”, dice uno dei più famosi tra costoro, giocando furbescamente sulla indeterminatezza del concetto di “informazione”.

Io penso invece sia opportuno, a questo punto, proporre uno schema di lettura di questo tipo di “informazione” il più chiaro possibile, per non continuare poi a tornare sull’argomento, e per non assecondare un gioco che vorremmo interrompere. Sono consapevole del rischio che corro, perché è materia viscida, che ti si attacca da tutte le parti, ed ha un effetto tossico. Ma penso non si possano maneggiare queste cose senza sporcarsi le mani, e che queste ultime vadano lavate solo dopo averci provato. L’intento è di offrire un piccolo manuale di sopravvivenza per cervelli passabilmente sani, che aiuti a tagliare corto di fronte alle palesi professioni di idiozia delle quali siamo quotidianamente spettatori e ad applicare nei loro confronti una inflessibile tolleranza zero. Essere amanti del dialogo è in teoria una cosa molto bella, ma dialogare con degli imbecilli è solo una inutile e pericolosa perdita di tempo. Provo dunque a chiudere il cerchio ponendomi quattro o cinque semplici domande e cercando, per quanto possibile, di dare altrettanto semplici risposte.

Per chiarezza, preciso che userò i termini “complottista” o “cospirazionista” per indicare i fautori delle teorie del complotto, e “cospiratore”, “congiurato” o “complottante” per i presunti partecipanti al complotto.

Intanto: di cosa stiamo parlando?

Prima di affrontare l’argomento in maniera, se mi si passa il termine, “sistematica”, vorrei dire qualcosa sulla reale portata e sulla qualità del problema, che temo ancora ci sfuggano. Il modo migliore per farlo è chiamare al banco, come persona informata dei fatti, quello che è stato definito “il più influente degli autori cospirazionisti” Si tratta di David Vaughan Icke, personaggio a dir poco bizzarro, e decisamente inquietante. Icke è il testimone perfetto, perché è riuscito a operare la sintesi di tutte le teorie complottiste (cosa tutt’altro che facile), e ad ottenere un risultato molto superiore alla semplice somma degli addendi. Mi è persino difficile tentare di riassumere le sue teorie, che sono state sviluppate (e aggiornate e corrette costantemente) in almeno una quindicina di libri, oltre la metà dei quali tradotti anche in Italia, a partire dal più famoso, “E la verità vi renderà liberi”. Non perché siano complesse, ma perché sono talmente demenziali da provocarmi un rigetto mentale e fisico. Ci provo comunque.

Facciamo parlare prima di tutto lui, attraverso la quarta di copertina del suo capolavoro: “L’autore espone la storia reale che sta dietro gli eventi globali che modellano il futuro dell’esistenza umana e del mondo che noi lasceremo ai nostri figli. Coraggiosamente, solleva il velo su una sorprendente rete di manipolazioni interconnesse che rivelano come le poche e stesse persone, società segrete e organizzazioni controllano la direzione quotidiana delle nostre vite. Questi poteri occulti progettano le guerre, le rivoluzioni violente, gli attentati terroristici e gli assassinii politici. Essi controllano il mercato mondiale delle droghe pesanti e la macchina dell’indottrinamento dei media. Ogni evento globale negativo può attribuirsi alla stessa Élite Globale. Alcuni dei nomi delle persone in essa coinvolte sono veramente molto conosciuti. Mai prima d’ora questa rete, i suoi aderenti e i suoi metodi, sono stati svelati in un modo così dettagliato e devastante”.

Sul devastante sono d’accordo, se si riferisce all’effetto prodotto su cervelli già in rottamazione. Secondo Icke l’universo è solo un ologramma cosmico, una immensa simulazione, una matrice quantica (cfr. Matrix) controllata da un gruppo segreto di “rettiliani”, riuniti nella Fratellanza di Babilonia, o del Serpente. I rettiliani sono esseri alti due metri e tredici (sic), provenienti da un altro sistema stellare, Alpha Draconis: le loro fattezze sono quelle di enormi lucertoloni, ma sulla terra assumono sembiante umano (cfr. L’invasione degli ultracorpi): o meglio, ci appaiono umani perché sono in grado di alterare le nostre percezioni. Sono rettiliani i personaggi più influenti della politica e dell’economia mondiale, nonché tutta una serie di vip dello spettacolo e della cultura. Tra loro, oltre ai reali d’Inghilterra, ci sono George Bush, Bill Clinton, Obama e naturalmente i Rothschild e i Rockefeller, e c’è persino Bob Hope (ora, posso capire Bush, qualche sospetto che non fosse del tutto umano lo avevo anch’io, ma Bob Hope mi sfugge. Quando Icks lo ha inserito nella lista andava per i cento anni. Forse i suoi film lo avevano annoiato da piccolo). Non sono aggiornato sugli ultimissimi sviluppi, ma immagino siano entrati nel novero anche l’altra Clinton, la Merkel, George Soros, Bill Gates, Madonna e Lady Gaga. In realtà non tutti i coinvolti nella cospirazione sono propriamente rettiliani: c’è una vasta area di fiancheggiatori, umani plagiati o schiavizzati dai dominatori.

I rettiliani si nutrono di sangue (preferibilmente fresco, quello dei bambini) e si dedicano a violenze carnali e a varie forme di abuso sui minorenni, compreso il prelievo di organi. Il loro scopo è naturalmente quello di dominare il mondo, esercitando il controllo attraverso le pratiche più disparate, che vanno dai riti satanici all’ingegneria sociale, dalle biotecnologie al controllo del clima. La faccenda ha avuto inizio almeno tre secoli fa, a partire dagli Illuminati di Baviera (ma volendo si trovano indizi molto più remoti). Tutte le rivoluzioni, da quella francese a quella russa e oltre, tutte le guerre, comprese la prima e la seconda mondiale, l’Olocausto, gli attentati, gli attacchi terroristici dell’11 settembre, fino agli tsunami e alla pandemia di COVID, sono eventi causati dal governo segreto. Naturalmente dietro ci sono gli ebrei, secondo i dettami dei Protocolli dei Savi di Sion: questo a dispetto di tutte le smentite di Icke, che ci tiene a precisare di non avercela con gli ebrei come popolo o razza, ma di considerare gli ebrei membri della classe dirigente non ebrei, ma lucertole.

Potrei continuare, ma mi sembra più che sufficiente. Giuro che non ho inventato nulla: si possono trovare notizie su Icke in qualsiasi motore di ricerca. D’altra parte, se lo avessi inventato, non mi sarei spinto così in là: non ho una fantasia così turbata, l’avrei senz’altro creato un po’ più sobrio. Tuttavia, non possiamo chiudere la faccenda con un sorrisetto, e limitarci a pensare che questi sono i frutti dell’apertura dei manicomi. Siamo di fronte ad un tizio che ha scritto decine di libri (e li ha anche venduti), che ha a disposizione diversi canali comunicativi, che è invitato in mezzo mondo a tener conferenze, persino in qualche università. Non so quanto Icke sia un mentecatto autentico e quanto ci marci, visto che la cosa rende benissimo: sta di fatto che milioni di altri mentecatti (questi sì, accertati) lo seguono e che decine di altri milioni, pur considerandolo un po’ strambo, ritengono che in fondo il succo delle sue rivelazioni risponda a verità.

La dimensione vera del problema è questa, ed è inutile obiettare che si tratta di una fenomenologia estrema: è invece un possibile, forse probabile, punto di approdo della deriva generale in corso. D’altro canto, non è casuale che nell’elenco dei rettiliani non compaia il nome di Donald Trump. Certo, capisco che sarebbe difficile associarlo ad un qualsivoglia “progetto intelligente”, e lui stesso d’altronde in più di un’occasione ha strizzato l’occhio ai complottisti, sia pure per mero opportunismo elettorale, perché dubito creda in qualcos’altro che in se stesso: ma il fatto davvero rilevante e allarmante è che una metà degli americani si identifica in lui, e lo vede come un baluardo contro il complotto. Parlo di centinaia di milioni di persone, e penso che la situazione non sia molto diversa in altre parti del mondo. Credo che Icke andrebbe preso, oltre che a calci, anche un po’ più sul serio.

Ho voluto chiarire questo punto perché davanti all’assurdo la tentazione di lasciar perdere è forte, ed in effetti mi sembra essere l’unica cosa che stiamo facendo. Ma l’assurdo non lo si combatte così: per quanto possibile è necessario conoscerlo, capire quali logiche non euclidee lo governano: non per vincerlo, ma almeno per difenderci.

Per questo, proseguo con le domande.

Esistono i complotti?

Certo che esistono. Parafrasando Anders, si potrebbe dire che “la storia è una tabella dei complotti”. Non si parla d’altro: da Catilina a Bruto, dagli Illuminati di Baviera fino alle congiure contro Hitler, ecc. Un libro attualmente in circolazione, Le cento grandi congiure, elenca appunto solo le più famose (e reali), magari facendo anche un po’ di confusione tra complotti veri e propri e omicidi premeditati in cerchie familiari.

Il “genere” letterario in realtà lo aveva inaugurato cinque secoli fa Machiavelli, inserendo nel terzo libro dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio una sezione intitolata appunto “Delle congiure”, che è stata in seguito spesso estrapolata e letta come un trattatello a parte. Machiavelli non usa mai, né qui né in altri riferimenti al tema, che si trovano copiosi nelle sue opere, il termine “complotto” (è stato introdotto solo un paio di secoli dopo); ma chiarisce subito cosa debba intendersi propriamente per congiura, rifacendosi alla etimologia latina (cum-iurare): è un atto collettivo, basato in genere, come dice il nome stesso, su un giuramento, da non confondersi con l’azione individuale o col tirannicidio classico (“Uno non si può dire che sia congiura, ma è una ferma disposizione nata in uno uomo di ammazzare il principe”). Il suo mini-trattato consente comunque di cogliere le differenze rispetto all’idea di complotto di cui qui mi occupo, differenze che spiegano il perché le origini di quest’ultima debbano essere fatte risalire a tempi a noi più vicini.

Quando discute sugli aspetti tecnici, sulle condizioni necessarie per portare a buon fine una congiura, Machiavelli si sofferma soprattutto sulle difficoltà e sui rischi. Il rischio è legato alla possibilità di tradimento, tanto maggiore quanto più è estesa la rete dei partecipanti al complotto, ma anche all’evenienza che il segreto venga infranto per semplice imprudenza (“De’ fidati se ne potrebbe trovare uno o due; ma come tu ti distendi in molti, è impossibile gli truovi”) o per l’incapacità degli uomini di stare zitti. Quindi, la cosa migliore sarebbe che il progetto eversivo fosse conosciuto solo da pochissimi fidati, per non dare il tempo di essere denunciati e per non lasciare tracce compromettenti delle proprie intenzioni. Regole sacrosante, che comunque secondo Machiavelli non garantiscono la riuscita, tanti sono gli altri fattori imponderabili. “Per esperienza si vede molte essere state le congiure e poche avere avuto buono fine.

Ma come si è passati da una tipologia di congiura che possiamo definire “storica” all’idea di un complotto “sovrastorico”, di portata mondiale? Non è un caso che il termine complotto compaia solo nel XVIII secolo, e in Francia. Senza voler essere troppo sottili, sia che lo si voglia derivato dal latino complicare (avvolgere assieme), o dal francese comble (mucchio di persone), suggerisce non tanto il coinvolgimento spontaneo della congiura, sancito da giuramento e sentito dall’interno, ma piuttosto l’immagine percepita dall’esterno di una ammucchiata tenuta assieme da un progetto, in questo caso eversivo.

In effetti il tentativo di ampliare i perimetri delle congiure prende avvio nel Settecento, con gli Illuminati di Baviera e con Babeuf, per diventare poi norma nel XIX, con le varie carbonerie, le società mazziniane e altre conventicole più o meno segrete. Naturalmente i rischi paventati da Machiavelli si rivelano reali, perché nessuna di queste congiure ha esito positivo. A dispetto di ciò, contestualmente ai complotti crescono anche i complottisti. Un capostipite può essere indicato nell’abate Augustin Barruel , che scrisse i Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme, una sorta di Bibbia nel settore, che fa nascere la Rivoluzione Francese da una cospirazione massonica e illuministica, la quale a sua volta avrebbe dato origine al giacobinismo. Tra gli scopi, oltre a quelli di abbattere la monarchia e di soffocare il cristianesimo, Barruel identifica l’obiettivo più ampio nel sovvertimento dell’intero ordine sociale (la “cospirazione anarchica”). Con Barruel viaggiamo ancora nel campo dei complotti reali, che l’abate documenta con dovizie di prove e collegamenti: ma al tempo stesso comincia a delinearsi il quadro di un sovra-complotto che sta alle spalle ed è il mandante di tutti gli altri. Stiamo entrando nel complottismo moderno.

Un secolo dopo la transizione è praticamente conclusa. Agli inizi del Novecento l’esoterista Rudolf Steiner denuncia l’esistenza di un complotto per controllare la politica mondiale e ne identifica i tratti e i protagonisti principali. Ad operare sono confraternite occulte, di matrice anglo-americana, che vogliono imporre una sorta di imperialismo economico planetario, attraverso il quale arrivare poi al predominio culturale e spirituale sull’umanità. È un vero regno del male, che per attuare le proprie strategie ricorre anche a pratiche esoteriche e stregonesche, ed è in grado di scatenare eventi come la prima guerra mondiale e la rivoluzione russa. Come si vede, Icke non inventa nulla, introduce solo i lucertoloni. Il dato più significativo è però che dalla constatazione di complotti volti alla conquista del potere si è passati alla supposizione di un complotto per la sua conservazione e il suo consolidamento. Vedremo dopo come mai ciò avviene.

Quindi, mentre quando parlava di congiure Machiavelli si riferiva a piani che avevano obiettivi immediati e ristretti e che dovevano essere elaborati nella massima segretezza, queste due condizioni sono disattese dal “complottismo” attuale. Questo perché:

  1. non esistono “i complotti”, ma “un unico complotto”, gigantesco e globale, che ha per scopo non il rovesciamento o la conquista del potere (a complottare sono quelli che il potere già lo detengono) ma l’asservimento totale dell’umanità.
  2. Non c’è nulla di meno segreto e invisibile di questo complotto, visto che tutti ne parlano. Per Icke ad esempio esiste una matrioska di organizzazioni segrete, ma al tempo stesso sono conosciuti a tutti i loro componenti, il loro modus operandi, i loro scopi. Io stesso mi sono sentito rispondere da un conoscente, cui avevo chiesto dove avesse trovato le prove del complotto pandemico: “Basta cercare su Internet!”
  3. C’è poi il fatto che Machiavelli, avendo in mente soprattutto le vicende fiorentine, non pensava che dalle congiure potesse nascere un nuovo ordine politico, ma piuttosto una sempre maggiore disgregazione sociale e una costante instabilità. Mentre i complottisti ritengono che l’operazione di dominio e asservimento sia finalizzata a creare un nuovo modello sociale (anche se è piuttosto difficile capire quale)
  4. Coloro stessi che sono coinvolti nella grande congiura sembrano fare nulla per dissimulare le loro intenzioni. Ci troveremmo quindi di fronte ad una operazione di altro tipo, che per le sue stesse dimensioni non può fare conto sulla segretezza, ma sulla digeribilità, o quantomeno sulla ineluttabilità, del disegno che si prefigge. Manca l’elemento della sorpresa, sostituito invece da quello dell’assuefazione.

Il complottismo oggi in voga ha dunque ben poco a che vedere con i complotti tradizionali, anche se la sua narrazione si serve ancora di formule archetipiche, di modelli radicatisi nella cultura popolare attraverso la tradizione mitologica e quella religiosa. Ciò che denuncia è qualcosa di assolutamente inedito. È un disegno incredibilmente articolato e pervasivo, mirante ad assicurare il controllo totale ad una ristretta élite. E la novità della denuncia non è solo nel ricorso a scenari resi immaginabili solo dalla fantascienza, ma nella velocità e nell’ampiezza del contagio su scala planetaria, e nella assoluta impossibilità di contrastarne la diffusione attraverso il richiamo alla razionalità. Il “fatalismo” rassegnato col quale veniva accettato un tempo qualsiasi accadimento, fosse di carattere naturale o di origine umana (e la ribellione contro il quale è in sostanza il motore della nostra storia), non ha lasciato il posto come auspicavano gli illuministi ad una coscienza razionale, e quindi alla rivendicazione di diritti e di spiegazioni sensate, ma ad una indiscriminata ricerca di colpevoli. Di fronte a più possibilità di spiegazione, il complottista moderno sceglierà sempre e comunque, indipendentemente dalla verosimiglianza e dalla verificabilità, quella che gli consenta di identificare un responsabile.

Ricapitolando. I complotti esistono, sono sempre esistiti ed esisteranno in futuro. Ma quello di cui i complottisti oggi parlano è in realtà un’altra cosa, frutto di una psicosi collettiva, che porta a legare assieme avvenimenti, pratiche e situazioni che non hanno tra loro alcun legame: oppure ad attribuire a una precisa volontà e a un “disegno perversamente intelligente” ciò che accade spesso al di fuori di qualsiasi intenzionalità o piano preordinato.

Cerco di andare un po’ più nel dettaglio.

Chi guida il “grande complotto mondiale”?

Nei complotti tradizionali il responsabile veniva immancabilmente scoperto: in caso di riuscita, subito dopo il passaggio all’azione, in caso di fallimento, poco prima. Erano più persone, in genere non molte, che avevano agito, o cercavano di agire, con un piano comune e con uno scopo ben preciso (di solito, rovesciare un potere esistente e sostituirsi ad esso).

La caratteristica del “grande complotto mondiale” è invece una sorta di “spersonalizzazione” dei suoi autori, a dispetto del fatto che si faccia largo uso di nomi e cognomi. Intanto, perché coinvolge un numero enorme di congiurati, che partecipano a titolo diverso, senza neppure conoscersi tra loro, uniti sostanzialmente solo dallo stesso fine: ragion per cui è difficile distinguere gli uni dagli altri (tanto più poi se le loro immagini fisiche sono solo travestimenti dei rettiliani).

In secondo luogo perché il sospetto si allarga a intere classi politiche, categorie economiche, etnie, ecc. Investe cioè quelle che sono genericamente indicate come le élites. Nella fantasia complottista i banchieri, gli ebrei, le burocrazie delle istituzioni sovranazionali, come quelle europee, recitano la parte che un tempo era riservata ai Templari, agli Assassini o ai rosacrociani, con la differenza che quelli erano gruppi misteriosi ma circoscritti, mentre quello delle élites è un contenitore aperto, nel quale si può ficcare di volta in volta chiunque sia sospetto di esercitare un qualche potere.

In terzo luogo perché nelle teorie complottiste vengono ricondotti a responsabilità personali, o di gruppo, anche degli eventi di natura oggettiva. La responsabilità può essere attribuita direttamente, come nel caso di crisi economiche o vicende belliche, o ricadere per vie indirette, come in occasione di disastri naturali. Ad esempio, di fronte ad un terremoto, il meno prevedibile dei fenomeni, può riguardare le mancate allerte, o l’assenza di politiche preventive (edilizia antisismica), o i ritardi nei soccorsi: tutte cose di per sé reali, legate a inadeguatezza degli apparati, a corruzione dei sistemi di controllo, al menefreghismo istituzionale, quindi a responsabilità effettive e specifiche: che qui vengono però lette nel quadro di un superiore disegno di destabilizzazione sociale. Allo stesso modo l’inquinamento, sia quello atmosferico che quello di superfice, non viene spiegato dai complottisti con l’incapacità politica prestare attenzione al problema, di coglierne la gravità e, meno che mai, di risolverlo, ma come il prodotto di una precisa volontà di crearlo. Il risultato per il pianeta è lo stesso, ma la possibilità di affrontarlo seriamente cambia parecchio.

In questo modo infatti le responsabilità di qualsiasi catastrofe, anche laddove ce ne siano, vengono de-personalizzate, allontanate fino a farle svanire in una nebbia diffusa, e attribuite a forze e ad attori non definiti ma accreditati comunque di un enorme potere.

Nella versione moderna, quindi, a complottare è l’“establishment”, quello che nella immagine tradizionale doveva invece difendersi dai complotti. L’inversione dei ruoli avviene perché stavolta l’attacco non è portato all’Ordine storico, quello che appunto ha espresso le élites di potere, ma ad un supposto Ordine naturale, che comprende tutto ciò che attiene alla dimensione dei valori: la natura, la tradizione, la patria, la biologia, la morale comunitaria, la religione ecc.

Come agisce?

Le strategie attribuite ai complottanti coprono tutto l’intero spettro delle stupidaggini possibili, e non è il caso di spenderci troppo tempo. Mi limito quindi ad accennare alle più diffuse.

Da sempre la forma più subdola e più vile di attacco è considerata il veneficio. Nella letteratura sulle congiure gli avvelenamenti occupano un posto di primo piano: e d’altro canto, ne sono caduti realmente vittime re e imperatori (da Claudio a Commodo, ad Alboino, ecc.), una lunga serie di papi (l’ultimo sarebbe Giovanni Paolo I), traditori e trafficanti (da Pisciotta a Sindona), e persino artisti come Mozart. E questi sono solo pochi esempi di una consuetudine cospiratoria diffusissima.

Quelli che mandano in fibrillazione i complottisti sono però gli avvelenamenti collettivi, e nella fattispecie le congiure batteriologiche. Anche qui c’è solo da scegliere, perché è un plot classico, che si presenta magari meno frequentemente nella realtà ma nell’immaginario disturbato incontra invece un grande successo. A fare da protagoniste sono due tipi di minaccia: quella relativa all’avvelenamento vero e proprio, che di norma avviene attraverso le acque (le campagne francesi insorsero nel 1789 anche per la convinzione che gli aristocratici e i cittadini tramassero per avvelenare i contadini; ma anche oggi una buona percentuale degli americani crede che il governo aggiunga fluoruro all’acqua potabile per scopi “sinistri”), e quella di una offensiva batteriologica (imputata agli ebrei ai tempi della Peste Nera e poi ribadita a più riprese; attribuita agli “untori” nel seicento, ai cinesi oggi, ecc…)

Per i complottisti odierni però l’obiettivo non sarebbe, come imputato agli ebrei nel Trecento, la strage per vendetta, e la motivazione la pura malignità. Quando non si arriva a negarne l’esistenza (vedi, di seguito, Agamben & co), le pandemie sono considerate un’arma creata in laboratorio per medicalizzare l’umanità e renderla sempre più dipendente dal sistema. Questo valeva ieri per l’AIDS e vale tanto più oggi per il Covid. I vaccini e in genere tutti farmaci di contrasto sarebbero in questo progetto uno strumento di ricatto per ottenere il consenso ad una limitazione progressiva delle libertà fondamentali. Secondo una versione meno sofisticata del complotto, a gestire il tutto sarebbe invece l’industria farmaceutica, che dalle situazioni pandemiche ricava utili immensi e trae un enorme potere di condizionamento. Secondo poi quella più fantasiosa, si arriva anche oltre: i vaccini, e quindi tutta la faccenda che ad essi ha portato non sono che il tramite per l’inoculazione di microchips che garantiranno (a chi? ma a Bill Gates, naturalmente) il totale controllo sugli umani.

Non fossero sufficienti le pandemie, il complotto si sta portando avanti nel lavoro attraverso le “scie chimiche”, quelle irrorate nei cieli per contaminare la popolazione e favorire una manipolazione biologica. Per intanto, la manipolazione viaggia già a gonfie vele per altro tramite, attraverso l’immissione nella dieta alimentare di organismi geneticamente modificati. Insomma, da qualsiasi parte ci si giri, i lupi cattivi ci braccano.

Com’è allora che solo pochi (!) se ne rendono conto? Perché l’avvelenamento riguarda, prima ancora che i corpi, i cervelli. Passa attraverso le false credenze, che non sono solo le informazioni manipolate, la disinformazione sistematica (gli esempi più clamorosi della quale riguarderebbero l’attacco organizzato dall’interno alle Torri Gemelle, lo sbarco simulato sulla luna, il silenzio delle autorità sui contatti con gli Ufo, ecc…), ma le attese create da un battage quotidiano che induce la coazione al consumo, l’idolatria del denaro, la sudditanza al Capitale, l’etica unica della produttività.

L’aspetto più paradossale di questa fiera della stupidità è che testimonia di un disagio reale, e non solo di quello mentale (che pure esiste, eccome!): ma tale disagio, anziché essere affrontato con l’impegno a informarsi veramente, ad andare alle cause reali, a responsabilizzarsi singolarmente di fronte a ciò che si avverte o si scopre, viene affrontato scegliendo la via più semplice, quella che scarica nell’immediato e sul vicino ciò che ha cause remote. O peggio, si arriva a rifiutare, in nome di una demenziale coerenza con lo stereotipo complottista adottato, l’esistenza degli unici complotti genocidi storicamente comprovati. Col risultato che nel caso più documentato che esista, quello del progetto di sterminio degli ebrei, gli stessi creatori di congiure sono tra i primi negazionisti.

E a cosa mira?

Ma come mai l’establishment, che è sempre stato dalla parte opposta della barricata, si prende oggi la briga di sovvertire l’ordine esistente? Le motivazioni che gli sono imputate dai complottisti possono essere riassunte in tre livelli di obiettivo, da leggersi in ordine crescente di complessità: per soddisfare una sete insensata di ricchezza, per assicurarsi un dominio totale e definitivo sulle risorse del mondo, per attuare una trasformazione anche biologica del genere umano, al fine di renderlo completamente soggetto. Sembra di rivedere i tre livelli di consapevolezza degli scopi nei quali erano organizzati i Fidadelfi di Filippo Buonarroti.

Evidenziare l’obiettivo di primo livello non è difficile: è immediatamente visibile per chiunque, complottista o no. L’allargarsi della forbice della ricchezza è un dato oggettivo, perfettamente coerente con la logica del sistema capitalistico: e su questa c’è poco da indagare, la conosciamo sin troppo bene, e andrebbe semmai combattuta sulla base di questa evidenza. Il complottismo la legge invece piuttosto come una manifestazione di egoismi individuali sfrenati, e ciò da un lato consente di dare un nome e un volto ai congiurati, ma dall’altro riduce tutto il problema a uno scontro tra chi ha e chi no, per cui i volti e i nomi diventano intercambiabili, perdono senso e servono solo a catalizzare un risentimento astioso e semplificatorio, a offrire un bersaglio di facciata immediato. Suppone, tra l’altro, che all’interno delle élites non vi siano rivalità o tradimenti, che qualora ci siano si tratti solo di recite ad uso delle masse, e che tutti agiscano in realtà di concerto per lo scopo comune, che a questo punto non può essere che l’impoverimento progressivo della grande maggioranza degli umani.

Questa semplificazione legittima l’idea che il problema sia costituito dalla malvagità di poche persone accomunate da un patto infame, anziché da un modello produttivo e da uno stile di vita che ci coinvolgono tutti come protagonisti, e non semplicemente come vittime. E offre a ciascuno un alibi per non assumersi responsabilità rispetto all’esistente e per non sentirsi tenuto a vere scelte alternative rispetto al futuro.

Il “disvelamento” del primo obiettivo è quello che consente al complottismo un reclutamento di massa: l’idea che è sottesa alla denuncia, quella di una redistribuzione della ricchezza, sorride a tutti, almeno fino a quando i termini di confronto sono solo coloro che possiedono di più. Ma chi ha sviluppato una qualche “coscienza” politica, gli attivisti o i semplici simpatizzanti di movimenti di dissidenza (disobbedienti, eco-integralisti, animalisti, naturisti, ecc…) lo considera solo un primo passo per accedere al secondo livello di consapevolezza, quello relativo al piano sciagurato di sfruttamento e “snaturamento” del globo. Anche in questo caso le evidenze a supporto di un presunto progetto “globale” non mancano, è sufficiente volerle interpretare come tali. Deforestazione, inquinamento, cementificazione, pervicace insistenza sulle energie non rinnovabili, sono tutti attacchi alla natura che possono essere ascritti ad un difetto intrinseco al sistema, ad una tecnologia che si è autonomizzata, ad un modello produttivo che si è avvitato su se stesso in una costante coazione alla crescita: ma questo tipo di consapevolezza mette ancora una volta di fronte alla necessità di operare scelte individuali e collettive drastiche. Se invece leggiamo tutti questi fenomeni come facenti parte di un piano diabolico, ecco che portando allo scoperto i suoi esecutori si ha in tasca una soluzione che ci assolve da ogni responsabilità.

Chi svelerà il complotto?

Lo sguardo d’assieme sul terzo livello appartiene invece necessariamente a coloro che dispongono di conoscenze superiori. Che possono essere di due tipi. Da un lato stanno i profeti come Icke, che sostiene di aver ricevuto attraverso una medium la rivelazione di essere un guaritore mandato a sanare la Terra abusata dallo sfruttamento (da notare che Icke per un certo periodo è stato il portavoce ufficiale del partito britannico dei Verdi), che tutto il mondo è controllato da un governo segreto, finanziato naturalmente dai Rothschild e dai Rockefeller, e che l’attività dei cospiratori è volta a manipolare geneticamente e psicologicamente l’umanità. Negli anni più recenti, incoraggiati dal suo successo e dalla capacità pervasiva dei nuovissimi media, i suoi cloni si sono naturalmente moltiplicati, introducendo nel complotto ogni possibile variante esoterica, dal Sacro Graal all’Albero della Vita. E hanno anche iniziato a farsi concorrenza, accusandosi reciprocamente di essere dei falsi messia al servizio del complotto, per cui la cosa sta scadendo persino sotto il livello della farsa. Esemplare è il percorso di Michael Tsarion: nei suoi scritti, tra Olarchia versus Gerarchia e l’origine del nome Davide – che fa derivare da DiViDers, Coloro che separano – inserisce Il Dominio degli Psicopatici (un caso di resipiscienza?). Oggi è tacciato di essere uno dei fondatori del Nuovo Ordine Mondiale.

Dall’altro lato (ed è qui che volevo arrivare) troviamo uno stuolo di fiancheggiatori del fenomeno, che magari hanno qualche dubbio sui rettiliani, ma senz’altro non sono meno convinti della cospirazione globale. Sono gli esponenti del complottismo “colto”, reclutati in quella fascia dell’intellighentjia che persegue come propria missione (e in genere come lasciapassare per una maggiore visibilità) il rifiuto radicale della “modernità”, con tutti i suoi portati, dalla tecnologia alla democrazia rappresentativa. Naturalmente, trattandosi di intellettuali, denunciano il complotto prendendo le distanze dagli aspetti più grotteschi del complottismo, fingendo di prenderle anche dalle tentazioni antisemite, gettando lì il seme del dubbio e ritraendosi davanti alle sue conseguenze. Lo stile è questo: “Il Grande Complotto, si può esserne (quasi) certi, non esiste; non c’è alcuna Tavola (né rotonda, né di altre forme geometriche) attorno alla quale seggano Superiori Sconosciuti. Ma disegni e programmi formulati per seguire interessi particolari di lobbies e di corporations da personaggi e da gruppi che contano al di fuori e al di sopra della legalità interna e internazionale: questi sì, ce ne sono parecchi; per quanto si cerchi in tutti i modi al livello di mass media di non farne trapelare esistenza ed attività”. Nel caso specifico a scrivere è Franco Cardini, ma il modello è diffuso. Se scrivo: “[…] non esiste, si può esserne (quasi) certi […]” è come dicessi: “non ci metterei la mano sul fuoco”. E se aggiungo poi “disegni e programmi per seguire interessi particolari”, sull’esistenza dei quali nessuno certamente ha dubbi, tramati però da «[…] personaggi e gruppi che contano al di fuori e al di sopra, ecc… e dei quali “non trapela l’esistenza”», chi “vuol capire” non ha bisogno d’altro.

Oppure si può essere ancora più espliciti (sempre Cardini, parlando del governo degli Stati Uniti): “Di quale potere sovrano esso è rappresentante, di quale sovrana volontà esso è l’esecutore, al di là delle forme giuridiche preposte a legittimarlo? È sua la detenzione del potere imperiale? Oppure dietro ad esso come dietro ad altre forze, attualmente in presenza nel mondo, si cela un impero invisibile che in realtà è irresponsabile – nel senso etimologico del termine: che cioè non è responsabile, non deve rispondere delle sue azioni perché nessuno è in grado di chiamarlo a risponderne – dinanzi ai suoi sudditi, che neppure sanno (o, almeno, non con chiarezza) di esser tali?”. Non parla di rettiliani, ma dei loro avatar terrestri si.

Il dubbio sull’esistenza del grande complotto scompare del tutto quando, come fa ad esempio Giorgio Agamben, si riesce ad andare oltre la cortina di fumo della informazione asservita al potere e si leggono correttamente le trame. Intanto: “Chi ha familiarità con le ricerche degli storici, sa bene come le vicende che essi ricostruiscono e raccontano sono necessariamente il frutto di piani e azioni molto spesso concertati da individui, gruppi e fazioni che perseguono con ogni mezzo i loro scopi”. E direi che fin qui ci arriva anche chi ha una familiarità con gli studi storici inferiore alla sua. Ma è dopo che la cosa si fa interessante: «Per quel che riguarda la pandemia, non è certo giunta inaspettata. l’Organizzazione Mondiale della Sanità già nel 2005, in occasione dell’influenza aviaria, aveva suggerito uno scenario come quello presente, proponendolo ai governi come un modo di assicurarsi l’incondizionato sostegno dei cittadini. Bill Gates, che è il principale finanziatore di quell’organizzazione, ha fatto in più occasioni conoscere le sue idee sui rischi di una pandemia, che, nelle sue previsioni, avrebbe provocato milioni di morti e contro la quale occorreva prepararsi. Così nel 2019, il centro americano Johns-Hopkins, in una ricerca finanziata dalla Bill and Melinda Gates Foundation, ha organizzato un esercizio di simulazione della pandemia di coronavirus, chiamata “Evento 201”, riunendo esperti ed epidemiologi, per preparare una risposta coordinata in caso di comparsa di un nuovo virus». Chiunque direbbe: Caspita! Ci avevano avvertiti. Agamben invece vede più lontano: lo scenario suggerito era un’occasione offerta (da Bill Gates, guarda caso) ai governi per assicurarsi il sostegno incondizionato, la rinuncia ad ogni libertà, da parte dei cittadini. Il complottismo colto non è necessariamente anche intelligente, e non soprattutto non spreca il suo tempo a leggere un libro come Spillover, nel quale un giornalista non filosofo spiega per filo e per segno la terribile ma chiarissima meccanica delle moderne pandemie.

Al contrario, quella svelata dal complottismo colto è una consapevole strategia, l’uso strumentale della sicurezza sanitaria per imporre (in maniera soft) una illegale e disumana limitazione delle libertà personali e corporali. Si spiega allora perché le pandemie vengano “inventate”, o addirittura create ad hoc. Quando la posta in gioco è il controllo “totale”, ogni mezzo è buono.

I Maestri del sospetto

A monte e a supporto di queste rivelazioni c’è tutto un filone di pensiero, anzi, i filoni sono più di uno, riconducibili comunque essenzialmente a due nomi: Michel Foucault e Carl Schmitt. Quelli che Agamben tiene a far sapere di aver letto. Il primo per il concetto di “biopolitica”, il secondo per quello dello “stato di eccezione”. I due stanno apparentemente agli antipodi: in realtà sono complementari, l’uno è lo specchio rovesciato dell’altro. Provo a sintetizzare i concetti principali di cui sono portatori.

Per Foucault è avvenuto nel XIX secolo un cambiamento fondamentale nella fenomenologia e nell’esercizio del potere. In precedenza il potere “sovrano”, da chiunque fosse esercitato, si fondava sulla facoltà di dare la morte. A partire dalla nascita del capitalismo il suo ruolo si è invece rapidamente trasformato, e oggi si fonda sulla capacità di garantire la vita, ovvero la salute dei corpi: non certo per ragioni “umanitarie”, semplicemente perché quei corpi sono funzionali alla produttività e lo sono soltanto se sani e docili. Per poter esercitare questa funzione il potere è quindi intervenuto in maniera sempre più invasiva nel privato dei corpi, imponendo obblighi (ad esempio le vaccinazioni, a partire da quella contro il vaiolo) e divieti (ad esempio, quello del fumo). Nel contempo:

  • ha creato organismi di inquadramento (esercito e scuole) e strutture di contenimento (ospedali, manicomi, luoghi di detenzione, campi di concentramento);
  • ha istituito forme di protezione: sistemi di previdenza, assicurazioni, pensioni. Il moderno welfare nascerebbe al solo scopo di creare sempre maggiore dipendenza;
  • ha favorito il sotterraneo filtrare di una visione diversa del corpo, attraverso l’igienismo, la cura di sé, i modelli proposti da mode, media e pubblicità. Ciò che induce anche una disposizione sempre più forte verso l’eugenetica;
  • ha creato nuove scienze come la sociologia e la psicologia, funzionali a definire la norma, e strumenti come la demografia e la statistica, per individuare i parametri ottimali;
  • ha sostituito l’imposizione delle leggi con l’adeguamento più o meno forzato alle norme, definendo un concetto di normalità, e di conseguenza di patologia e devianza;
  • ha infine spostato l’accento sul concetto di popolazione come corpo compatto governato da leggi precise. Questo significa che anche il “potere di morte”, (che non è affatto scomparso, anche se appare meno arbitrario), viene esercitato non più in nome e in difesa di un sovrano che è tale per diritto di sangue, ma in nome di un “corpo compatto” collettivo, che è la nazione. Nelle guerre moderne si è mandati a morire per garantire la vita.

In sostanza, per Foucault la società contemporanea è guidata da un governo che è “razionale”, nel senso che promette il massimo benessere per tutti (tanto da includere il diritto alla felicità nelle costituzioni. Beninteso, per tutti coloro che rientrano nei parametri della norma), ma è anche più dispotico del vecchio dispotismo assoluto, perché maschera il suo potere dietro la razionalità: vuole obbedienza, ma un’obbedienza convinta della bontà di quanto è richiesto. Opporre resistenza a un potere di questo tipo è quasi impossibile: si sottrae allo scontro e agisce in maniera avvolgente. Se segui le sue indicazioni, puoi godere delle sue garanzie. In caso contrario, sei fuori.

Quanto a Schmitt, ha provveduto ad anticipare la visione paventata da Foucault, proponendola però in una accezione positiva, inquadrata negli schemi del diritto. Ha cioè definito l’armamentario giuridico che avrebbe dovuto supportare la trasformazione politica e sociale. Definendo lo Stato come “un’istanza assoluta secolarizzata”, Schmitt teorizzava il modello politico verso il quale l’occidente si stava avviando nella prima metà del secolo scorso (ovvero quello fascista e nazista). A distanza di un secolo dalla formulazione schmittiana, e a seguito della sconfitta dei totalitarismi di varia matrice ad est e ad ovest, nonché della rapida obsolescenza dello Stato-nazione, questo modello sta prendendo oggi le sembianze di un sovra-stato, di un governo unico mondiale, nel quale, a livello globale, sotto le etichette di liberaldemocrazia o di socialdemocrazia si realizzano l’uguaglianza formale e l’uniformità sostanziale. Questa uniformità si ottiene attraverso l’esclusione o l’annientamento di qualsiasi elemento estraneo. Se ai tempi di Schmitt questi elementi erano identificabili su base etnica, politica o razziale, e venivano fisicamente liquidati senza tante storie, oggi i criteri di identificazione e le modalità della eliminazione sono cambiati, si basano sulla definizione di “normalità” e di attività/passività e sulle forme automatiche di inclusione/esclusione che ne conseguono. Ma lo schema rimane lo stesso.

L’aspetto più interessante della formulazione di Schmitt è che molto realisticamente fa rilevare come la normalità, nei rapporti politici e sociali, non sia l’ordine, ma l’assenza di ordine. Ovvero, se la politica è il tentativo di conciliare l’ideale e il reale, questo tentativo non riesce mai compiutamente. Qualcosa interviene sempre a rompere gli equilibri, si danno continue contingenze che frantumano l’ordine e di fronte ad esse quest’ultimo si rivela impotente. Si crea cioè quello che Schmitt definisce lo “stato di eccezione”. È necessario allora che intervenga qualcosa (Schmitt lo chiama: “un ponte”) in grado di unire idealità e realtà. Il ponte è un’azione che risolve la crisi e ricrea l’ordine, non attraverso una composizione razionale, ma sortendo dal nulla: questa azione è la decisione, e la decisione comporta l’esistenza di un forte potere decisionale. A sua volta però la decisione non contiene al suo interno un saldo fondamento, un’idea stabile: per cui la situazione di crisi è destinata a ripetersi. Lo stato di eccezione diventa quindi la normalità.

L’odierno ritorno di fiamma per Schmitt è pieno di ambiguità. Sembra che riferirsi a lui sia ormai d’obbligo, tanto a destra come a sinistra. Ma l’impressione è che venga praticato più che altro per saccheggiarne immagini-concetto dal forte impatto semantico. E quella dello “stato d’eccezione” è senz’altro la più abusata, perché si presta perfettamente a definire una politica che gioca sulle costanti emergenze. In pratica, poi, si fa di Schmitt l’uso che Foscolo faceva del Machiavelli: “quel grande,/ che temprando lo scettro a’ regnatori,/gli allor ne sfronda, ed alle genti svela/di che lacrime grondi e di che sangue”. Sarebbe colui che ha meglio messo in chiaro, senza i bavagli del moralmente corretto, quali siano i reali meccanismi e i prevedibili esiti dell’azione politica del potere nel mondo contemporaneo. Che lo abbia fatta per dare loro legittimità sembra aver perso ogni importanza.

De rebus iuxta mea principia (ovvero: Come la penso io)

Allora. Dovrebbe esserci materia sufficiente per tirare un po’ di fila. Che non significa in realtà dare risposte, ma cercare almeno di mettere a fuoco quello che c’è davvero dietro le domande.

Premetto con molta presunzione che al quadro disegnato da Foucault ero arrivato anch’io, già diversi anni fa, molto prima di conoscere “La volontà di sapere” o “Sorvegliare e punire”. Non si tratta di millantare precocità o acutezze particolari, penso che lo stesso percorso abbiano fatto molti altri prima di me, era sufficiente aver letto Orwell e Huxley e persino Bradbury, e magari anche qualcosa della scuola di Francoforte. Voglio semplicemente dire che tale processo è abbastanza visibile, se appena si ha la volontà di analizzare la storia, anziché di rimuoverla.

Mentre scrivevo queste pagine ho fatto scorrere mentalmente il film della domesticazione dell’umanità. Proiettato ad una velocità accelerata permette di vedere comparire prima e serrarsi poi l’enorme rete di contenimento che la storia le ha steso sopra. E di scorgere sullo sfondo, dietro guerre e imperi e rivoluzioni che durano lo spazio di pochi fotogrammi, un percorso sempre più riconoscibile. Questo percorso racconta la dissoluzione degli antichi legami con la terra, a partire dai naturalisti ionici, ma prima ancora, dagli estensori della versione originale della Bibbia: lo scioglimento progressivo dei vincoli con i gruppi primitivi di appartenenza, la tribù, il clan, testimoniato già dai tragici greci; e il processo di atomizzazione sociale innescato moltissimi anni fa con la famiglia mononucleare, proseguito con la disgregazione della comunità agli inizi dell’età moderna, portato avanti in quella contemporanea sino alla banalizzazione degli ultimi valori superstiti (le “amicizie” sui social, ad esempio, le famiglie falsamente allargate, ecc…).

Tutte queste cose mi hanno affollato il cervello, ma in una sequenza abbastanza chiara e facilmente interpretabile. Mi sono reso conto che la frase di Matteo: “Chiunque ha lasciato case o fratelli o sorelle o padre o madre o moglie o figli o campi per il mio nome, riceverà il centuplo ed erediterà la vita eterna” (19, 29) non era destinata ai discepoli, o a coloro che avrebbero scelto di sacrificare tutto alla loro realizzazione spirituale. È il messaggio che ha continuato ad essere ripetuto nel mondo occidentale, e trasmesso poi da questo anche agli altri mondi, per secoli, variamente declinato e travestito, ma sempre quello: la salvezza, il senso, li trovate altrove: possono essere di volta in volta la patria, il progresso, la scienza, il partito, la rivoluzione. Lasciate ogni cosa e affidatevi a me. Abbracciate un Ordine che supplirà a tutto ciò che avete lasciato alle spalle, per darvi le cure materiali (salute, sopravvivenza economica) o morali (sicurezza, appartenenze, amicizie, sentimenti) di cui avete bisogno. Tutto in offerta speciale.

C’è differenza tra questa immagine e quella dipinta da Foucault (e condivisa da Cardini e da Agamben)? Quanto al soggetto, a quel che si vede, direi proprio di no. Ciò che sta accadendo, che è accaduto, è esattamente quanto raccontato anche da loro. Salvo il fatto che io parlo di cose che “accadono”, loro di cose che “vengono fatte accadere”. La differenza è in quel che non si vede. E che vorrei spiegare meglio.

  • Come premettevo, il percorso di “domesticazione” totalizzante dell’umanità sul quale i complottisti pretendono di aver alzato il velo, smascherando chissà quali trame, è in realtà manifesto da quel dì, e non erano necessarie le rivelazioni dei medium o dei Maestri per prenderne coscienza. La novità sta piuttosto nell’idea che sia stato consapevolmente guidato da un gruppo ristretto di potere: nella convinzione cioè che un processo storico di tale portata possa essere in qualche modo tenuto sotto controllo dalla volontà umana. È la secolarizzazione di quello che un tempo era considerato un attributo della volontà divina.
    Eppure, di questo percorso sono state date, prima ancora che diventasse una corsa all’accelerazione perenne, e che intraprendesse una direzione senza ritorno, delle letture estremamente lucide (da Vico, per citarne uno), senza tirare in ballo alcun complotto o alcun disegno. Il problema è che tali letture rimandavano a scelte, se così possiamo definire quelle che in realtà sono state le condizioni e le conseguenze della speciazione umane, talmente remote da non poter più essere rimesse in discussione (sempre che ciò fosse originariamente possibile, ripeto. È stata una scelta il passaggio all’agricoltura e alla stanzialità?): e quindi ponevano il problema di governare quello che Schmitt definisce un costante “stato di emergenza”.
    Lo stato di emergenza non è proprio della modernità, è proprio della nostra specie, è già testimoniato dall’accensione del primo fuoco e dalla scheggiatura della prima pietra, e risulta oggi solo più visibile perché di una emergenza esponenzialmente accelerata si tratta. Non siamo usciti dall’Eden tre o quattro secoli fa, ma quando siamo scesi dagli alberi. Ci siamo difesi dalla natura con la tecnica, ad un certo punto abbiamo trasformato un’arma di difesa in un’arma d’attacco, oggi non siamo più in grado di tenerla sotto controllo, quella che era una protesi si è autonomizzata, può addirittura fare a meno del supporto e si autoalimenta. Questa la storia. Il fatto poi che qualcuno riesca ad inserirsi in questo processo, a lucrarci sopra, non significa che lo stia governando, che ne detti i ritmi e la direzione. Al più cavalca le onde, non le suscita. In questo film siamo tutti attori, e si può esserne protagonisti in maniere diverse, o magari recitare solo da comparse: ma nessuno ha in mano la regia.
    Ipotizzare una rete occulta per spiegare quello che sta succedendo, scovare dei responsabili per qualcosa che nasce dalla nostra natura di organismi inadatti, e che le è intrinseco, vuol dire avere la memoria corta, e non porta ad alcuna comprensione, meno che mai a una qualsivoglia soluzione.
  • Questo significa che possiamo fare nulla per evitarci il destino di futuri lemming? No, significa che possiamo farci poco, ma anche che quel poco dovremmo farlo nella maniera più intelligente possibile: non raccontandoci favole con orchi e streghe cattive, ma sfruttando in positivo il dono prometeico della tecnica, che purtroppo ha anche un risvolto pericolosamente tossico. Anche la radice di manioca è tossica, eppure sbucciata e cotta costituisce la maggior risorsa alimentare per gran parte delle popolazioni del terzo mondo. La natura ci ha dato quella risorsa, ma non lo stomaco adatto a digerirla. La cultura la rende assimilabile. Che si fa? Si rinuncia? Per nutrirci poi di cosa?
    Fuor di metafora, il dibattito sul complottismo non fa che riportare in primo piano l’annoso problema della “razionalizzazione” del mondo e della nostra sopravvivenza in un ambiente che a quanto pare non ci contemplava (siamo “la specie inaspettata”). Torna il tema della “separazione”, che ricorre in tutte le mitologie ed è ripreso anche della filosofia (a partire almeno da Platone). In questo racconto in origine c’è l’Eden, c’è un ordine naturale che la comparsa della nostra specie viene a sconvolgere. C’è l’armonico equilibrio della natura, e ci siamo noi che lo violiamo introducendo la conflittuale disarmonia della storia.
    Ora, si tratta di stabilire se da quel paradiso siamo usciti o ne siamo stati cacciati (e prima ancora, che tipo di paradiso fosse quello: a quanto sembra, per i nostri progenitori più lontani non era esattamente un luogo di delizie: ma forse quelli di cui abbiamo traccia ne erano già fuori). Nel primo caso, la nostra cultura è il frutto di un naturale adattamento di sopravvivenza: nel secondo, è la mela avvelenata che una volontà maligna ci ha fatto assaggiare. Nel primo caso, dobbiamo prendere atto del presente (e quindi anche dei suoi guasti) per garantirci un futuro: nel secondo dobbiamo tornare al passato per rimediare all’errore commesso. Non fosse che la volontà maligna è ancora lì, vigile, e complotta per non consentirci di sanare la frattura.
    Quanto infatti allo “stato di eccezione” di cui parla Schmitt, ciò che i complottisti “colti” imputano ai poteri forti è di avere appreso sin troppo bene la lezione schmittiana e di averne fatto uno strumento per poter tenere più agevolmente sotto costante ricatto l’umanità intera. E il caso della pandemia ne sarebbe solo l’esempio ultimo e più eclatante. Ora, io credo che ciò che non viene inteso sia che noi viviamo realmente in un costante stato di eccezione, che la velocità e l’entità stessa delle trasformazioni in atto lo impone, e ne fa davvero la normalità. Che è quindi un difetto di sistema, non uno stratagemma di guida.

  • Tutto questo per dire che dietro il complottismo c’è il rifiuto della storia (salvo poi inventarne una tagliata su misura – l’invenzione della tradizione – per poter recriminare sulla sua scomparsa). E non parlo di una storia “necessaria”, di hegeliana memoria, di uno Spirito assoluto che si manifesta contestualmente alla propria realizzazione: parlo di quella storia il cui senso ci sfugge, perché forse non ne ha, che procede incurante delle grandezze e delle miserie umane e macina tutte assieme speranze e illusioni, che di tutte queste cose si nutre e ne fa la somma algebrica, ma poi la compara a quanto la natura (e di questa natura fa parte anche quella “umana”, in qualsiasi modo la si voglia intendere) e il caso ci concedono.
    Ho infatti sempre pensato che in tutti i possibili disegni intervenga pesantemente lo zampino del caso. In controtendenza rispetto alle mode attuali, sono rimasto un estimatore di Guicciardini: “Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infirmitá, di caso, di violenzia ed in modi infiniti, è sottoposta la vita dell’uomo; quante cose bisogna concorrino nello anno a volere che la ricolta sia buona; non è cosa di che io mi maravigli piú, che vedere uno uomo vecchio, uno anno fertile”. (Ricordi, 161)
    Il che non significa che siamo totalmente nelle mani di un Fato, comunque lo voglia intendere, o appunto del caso, ma che è già molto difficile tenere le fila di una singola esistenza o di un progetto apparentemente semplice come la coltivazione di un campo: figuriamoci quelle del mondo intero. Soprattutto considerando che in un’ottica naturalistica noi siamo degli intrusi: un prodotto venuto male.
    Nel pensiero dei complottisti vedo invece una grave presunzione antropocentrica, come se gli uomini potessero dirigere anche tutto ciò che è loro esterno, tutto ciò che attiene alla natura. Io sono solidale con Leopardi e Camus. La natura non ci ama, non perché sia matrigna, ma perché se anche pensasse, se anche avesse un disegno, noi saremmo solo una impercettibile macchiolina sul margine del foglio.
  • Dubito inoltre, e continuo a farlo a dispetto della bioingegneria e delle possibilità che sembra aprire, che sia controllabile anche la natura interna dell’uomo, la cosiddetta “natura umana”. La riflessione post-moderna si avvoltola nel paradosso per cui da un lato rivendica una libertà individuale illimitata e dall’altro considera poi invece gli uomini come se rispondessero ad un modello unico. Le differenze tra le varie confessioni del post-modernismo si basano solo sul considerare la “natura umana” positiva o negativa, più plastica o meno, ma pur sempre supponendo che esista e che sia la stessa per tutti. Cosa che non è, o almeno è vera solo in parte, perché il processo culturale ha scombinato i meccanismi evolutivi. Tutti gli animali possono essere più o meno intelligenti: solo gli umani possono essere stupidi.
    In tal senso, il ritornello populista (ma lo sento ripetere in continuazione anche da Cacciari) per cui “la gente non è stupida” è una solenne stupidaggine. Ed è anche contradditorio: postula che sia in atto una manipolazione delle coscienze a livello globale, operata da un gruppo ristretto di furbi a spese di una massa di allocchi, ma dice che gli allocchi non sono tali, perché capiscono benissimo che li stanno fregando. Ora, io credo invece che oggi più che mai sia verificata la legge enunciata da Carlo Maria Cipolla, per cui sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione (si pensi alle decine e decine di milioni di americani – metà della popolazione – che hanno votato Trump e che domani sarebbero pronti probabilmente a votare Icke). Ma se è giusto il parametro identificativo annesso, per cui Una persona stupida è quella che causa un danno a un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita, non è nemmeno necessario spostarsi oltreoceano. È sufficiente uscire di casa e vedere come sono ridotti muri e marciapiedi delle nostre città.
    Cipolla aveva già preventivamente e indirettamente risposto ad Agamben: la vera lobby, più potente delle maggiori organizzazioni criminali o dei più influenti gruppi finanziari o cartelli industriali, che agisce senza alcuna organizzazione ma è sempre straordinariamente coordinata ed efficace, è quella degli idioti: e lo fa senza bisogno di celarsi dietro il segreto, alla luce del sole. La “gente” è stupida. Che poi lo sia perché con l’accelerazione impressa dalla modernità ha perso il contatto, non tiene il passo ed è indotta quindi a comportamenti apparentemente difensivi di rifiuto, di sospetto ecc.. è un altro discorso. Il dato di fatto è che dietro il rifiuto e il sospetto, quando si manifestano nei termini di un complottismo generalizzato, c’è ignoranza, c’è pigrizia mentale, c’è presunzione, e troppo spesso c’è anche un’arrogante malafede.
  • Tutti i complottisti, e tutto il sottobosco post-modernista, populista e new age nel quale fioriscono, sembrano vagheggiare il ritorno ad un mitico “mondo di prima” (anche se non si capisce bene a “prima quando”, quanto indietro occorrerebbe tornare). Avendo avuto la ventura di conoscere, almeno per un certo periodo della mia esistenza, quel mondo (a differenza di coloro che lo rimpiangono), so quanto la coercizione morale fosse presente anche in quel tipo di società, e come una “norma” fosse già in essa ben presente. Sono anche cosciente delle differenze, di quanto la presenza del potere fosse meno pervasiva e condizionante: ma ciò non toglie che il condizionamento, attraverso altre forme, fosse pesante. È possibile che io sia inconsciamente condizionato molto più di mio nonno: di certo però, fossi nato anch’io nel 1890, difficilmente avrei scritto queste cose. Ho potuto fare scelte che a lui non sarebbero state consentite, ma che soprattutto non sarebbe nemmeno arrivato ad affrontare, o a concepire.
    Qualcosa da eccepire ho anche sulla profezia di Foucault, secondo la quale le categorie escluse dalla “normalità” sono destinate ad una brutta fine. Vedi gli omosessuali, i “disturbati”, ecc. Per affermarlo si basa sul fatto che sono stati pensati nel corso degli ultimi tre secoli luoghi di concentramento e di esclusione per tali categorie, ma soprattutto che sono state formulate teorie razziste (il razzismo biologico), che offrono uno strumento alla biopolitica. Certamente, il razzismo non solo esclude di fatto una parte della popolazione, ma crea per estensione un timore di contagio, la paura che la parte “legittima” possa essere infettata dalla non-normalità. E di qui all’eugenetica il passo è breve.
    Sul fatto però che il razzismo biologico sia una “creazione” rientrante nel grande complotto della modernità, ho molti dubbi. Riesco a spiegarlo benissimo come un espediente per giustificare la schiavitù, da un lato, e come una reazione molto “naturale” al fatto che in un mondo globalizzato le varie etnie si incontrano e si mescolano sempre più, dall’altro. E anche altri aspetti di questa deriva sembrano essere smentiti: non mi pare ad esempio che il processo di esclusione si sia intensificato nei confronti dell’omosessualità. Direi piuttosto il contrario. A meno che nel suo riconoscimento sociale non si voglia vedere un’altra astuzia della congiura della ragione, mirante a risolvere il problema della sovrappopolazione.
  • Il problema è proprio questo: siamo davvero troppi, in rapporto al pianeta che ci ospita. C’è un dato (peraltro controverso) proposto dal biologo Edward O. Wilson, per cui la massa degli umani sarebbe un decimo di quella delle formiche: mentre il peso, inteso come sfruttamento delle risorse, che esercitano sulla terra è comunque migliaia di volte superiore. Ciò accade perché siamo padroni della tecnica, ma la tecnica è a sua volta ciò che ci definisce come umani. E che oggi, dopo averci consentito di crescere e moltiplicarci, rende una gran parte di noi obsoleti. Quindi siamo in esubero, sia come prodotti naturali che come prodotti culturali.
    Possiamo anche credere di essere chiamati a scegliere una via d’uscita, se vogliamo pensare che ancora esista: ma di fatto la scelta è già imposta. E non dai poteri forti, ma dalla natura stessa. Piuttosto, questa scelta può essere fatta in maniera ordinata, anche se non indolore, con le mascherine e i sedativi che il sistema sarà in grado di procurare ed imporre, oppure lasciando libero campo ai virus e alle pandemie, che arrivano da soli, non hanno bisogno di essere creati e diffusi artificialmente. E laddove non bastasse, potranno supplire i conflitti, quelli politici e quelli sociali, che si profilano già minacciosi (guerre per l’acqua, migrazioni, ecc…)

Certo, di fronte a tutto questo l’idea di un grande complotto appare comunque consolatoria. Se tutto accade perché qualcuno trama, è sufficiente smascherarne e impedirne le trame perché il problema sia risolto. Ma se a tramare sono tutti, per non raccontarsi la verità, allora nemmeno vale la pena risolverlo.

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La costruzione che distrugge per poter dare forma al mondo

ovvero la forma di un pensiero critico

di Marcello Furiani, 30 aprile 2018

La costruzione che distruggeA parzialissima risposta – peraltro non richiesta – del saggio (o analisi, dissertazione, relazione, studio …) La discesa dal Monte Analogo di Paolo Repetto, vorrei portare alcune riflessioni di tipo metodologico su un tema – il pensiero critico – che a mio avviso soccorre l’intelletto nel comprendere e valutare ciò che si legge. Se – come sosteneva Adorno scrivendo del fenomeno nazista – agire e pensare criticamente significa pensare contro regole che si sono stabilizzate in secoli di tradizione filosofica e scientifica, ne consegue che un linguaggio che si è strutturato su un pensiero e all’interno di una cultura che ha generato nel suo stesso cuore l’orrore, difficilmente potrà darne criticamente conto e ragione. E qui anticipo la mia tesi: spetta a un linguaggio altro, quello poetico e artistico, la possibilità di arrivare a quella forma di testimonianza che è sottratta ad altri linguaggi. Pensiero debole? Tutt’altro: pensiero forte, fortissimo; e vediamo perché.

Ma procediamo con ordine.

Non intendo ricercare una sua definizione esaustiva o dilungarmi sui modelli applicativi che negli ultimi decenni si è cercato di costruire per educare a uno spirito critico (di sfuggita sottolineo soltanto quanto sia limitante racchiudere il pensiero critico entro i confini di un modello, vincolarlo a un preciso algoritmo). E nemmeno ripercorrere il metodo socratico descritto da Platone, che può considerarsi l’origine del pensiero critico comunemente inteso.

Innanzitutto una notazione di carattere etimologico: l’origine di quella che è considerata la più alta e qualificante attività umana è curiosa. Infatti, il termine pensiero deriva dal latino pensum che, nel suo senso proprio, indicava la quantità di lana pesata attribuita alle filatrici di epoca romana e, solo nel suo senso più esteso, significava una generica questione su cui meditare o riflettere. È interessante notare come la concezione latino-occidentale del pensiero abbia un’origine fondamentalmente pratica e manuale, mentre la vicina civiltà greca aveva sviluppato e radicato – già a partire dai poemi di Omero – il concetto ben più strutturato di noûs (intelletto, mente, ragione) più legato alla percezione puramente intellettuale e immediata della realtà da parte del soggetto pensante.

Il pensum era quindi la materia prima, più grezza, designante metaforicamente un elemento o un tema che doveva essere secondariamente trattato, elaborato, conferendogli così una nuova forma. Possiamo in ciò rilevare la peculiarità attribuita al pensiero come qualcosa di straordinariamente semplice che concepisce e confeziona oggetti complessi: l’attività del pensiero si esplica nel comporre oggetti, ovvero pensare significa pensare oggetti composti e compositi. Da questo punto di vista, l’attività del pensiero è ciò che si situa a monte degli oggetti pensati, pur essendo composto della loro stessa sostanza.

Esistono, come sapete, molte critiche: critica letteraria, critica d’arte, critica filosofica e via dicendo. E poi ci sono le sub-critiche: critica filologica, critica formale, critica stilistica, critica sociologica ecc.

Io vorrei soffermarmi su come si forma oggi un pensiero critico, su ciò che struttura oggi un pensiero critico, partendo dal luogo specifico della filosofia.

Michel Foucault in un saggio del 1963 su Bataille[1] – quindi ormai più di cinquant’anni fa – affermava che la filosofia non è altro ormai che la forma sovrana e primaria del nudo linguaggio filosofico: si tratta quindi secondo Foucault di un’attività divenuta ormai autoreferenziale, una sorta di vagabondaggio all’interno del linguaggio stesso che può pervenire fino al vuoto, in assenza di un oggetto concreto su cui possa fare presa e attrito. Sembra così che negli ultimi decenni del secolo scorso la filosofia abbia affrontato – come ha scritto Jean-Luc Nancy[2] – la questione radicale del senso, appunto, negandolo, fino a quasi negare se stessa, scavando in profondità la propria fine, decostruendo il suo proprio senso.

Emerge dunque la necessità per la filosofia di dislocarsi, fino al punto sul quale essa possa trovare, o meglio fare, ancora problema, travasarsi nel luogo di una qualche sua trasformazione, il luogo in cui essa possa convertirsi in critica: potremmo dire mettersi in esilio rispetto alla sua stessa tradizione e alle sue pratiche abituali. Non si tratta – come proverò a illustrare – di approntare una sorta di kit di strumenti, di corredo, di equipaggiamento in dotazione per affrontare questo o quell’oggetto, e cioè gli arnesi della critica letteraria, della critica d’arte e via dicendo perfezionati con gli utensili delle critiche secondarie o sub-critiche. Ma si tratta di un mutamento strutturale che trasforma la filosofia stessa.

Eppure la filosofia nella sua storia ha avuto un grande attrito sul mondo, tanto grande da animare in sé un’immane volontà di potenza: Robert Musil ha scritto, ha potuto scrivere che “i filosofi sono dei violenti che non dispongono di un esercito e perciò si impadroniscono del mondo rinchiudendolo in un sistema[3]. In altre parole, potremmo dire, come nella metafisica, la filosofia ha negato la verità del mondo in cui viviamo, il mondo delle apparenze, rinviando la verità, come dice Nietzsche, “a un mondo sopra il mondo[4], perché questo è infatti il significato letterale della parola metafisica: al di là della fisica.

Platone ha per primo affermato che la filosofia è un’arte mortale, non solo perché deve vincere negli uomini il timore della morte, ma perché mette a morte il mondo della realtà sensibile, delle apparenze, sacrificandolo all’idea. È questo il grande tema che percorre tutto il Fedone, in cui si dichiara esplicitamente che la filosofia è l’arte del morire, del mettere a morte cioè il corpo, che è terroso, opaco e ci impedisce di conoscere, di assumere una conoscenza vera, ci trascina nel limo, nel disordine delle sensazioni.

Anche Hegel, più di duemila anni dopo Platone, ha ribadito – a partire dalla Fenomenologia dello spirito – l’irrilevanza del mondo delle apparenze, vale a dire del questo e qui sensibile, in quanto inattingibile al linguaggio che appartiene a ciò che è universale. In altre parole, il linguaggio può parlare solo dell’universale e quindi ciò che non è universale non concerne il sapere e viene espulso dal campo del sapere.

Ma non cogliere la singolarità della cosa significa anche la negazione della singolarità del soggetto che si misura con la cosa, del soggetto che esprime istanze – continua Hegel – che sono solo un “incomposto fermentare[5]: una materia informe, che fermenta, si agita, ribolle, quelle che sono le passioni, i sentimenti di un soggetto.

La filosofia, prima della crisi degli ultimi decenni del secolo scorso, ha preteso dunque di ordinare il mondo, le cose, gli uomini e nella sua iattanza non ha certo conosciuto la critica. Quando la filosofia ha pronunciato questa parola – la parola critica – è perché con essa, come ha fatto Kant, ha aperto un tribunale della ragione, che deve decretare ciò che è conoscibile ed è lecito conoscere. Ciò che per essa è inconoscibile – vale a dire extra-moenia, fuori dalle mura – affonda letteralmente, scrive Kant, “in un vasto oceano tempestoso dove regnano nebbie grosse e ghiacci prossimi a liquefarsi[6].

Platone, come abbiamo visto, affida alla filosofia il compito di imparare a morire. Franz Rosenzweig apre proprio il suo grande libro intitolato La stella della redenzione su questo tema: di fatto dunque con un atto di accusa di fronte all’estremismo della volontà di potenza della filosofia, che si spinge, come abbiamo visto fino al tentativo di vincere la morte esorcizzandola nel pensiero. La conoscenza per il filosofo prende il suo inizio in Platone come in Hegel proprio dalla morte, in cui si approda alla conoscenza del tutto che sembra essere il fine della filosofia: il totem del totum[7], parafrasando Adorno. Dunque, prosegue Rosenzweig, in essa domina l’aspirazione o l’illusione di rigettare la paura che attanaglia ciò che è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente: la terra partorisce i morenti, la filosofia nega la paura della morte, il luogo della caducità e così nega anche la terra, non soltanto il corpo che viene ripudiato e trascurato in favore dello spirito, ma la terra stessa in cui si muove il soggetto appunto dotato di corpo e di spirito.

Nel Fedone Socrate va lieto verso la morte che lo libera dalla prigione del corpo e della sua terrosa opacità che ostacola la conoscenza: è la morte del filosofo. Sembra però che questa morte non riguardi però il soggetto Socrate, e nemmeno Critone il suo amico o gli altri amici che assistono a questa morte, ma si riferisca a tutti quelli che sono fatti di terra, di quella terra che partorisce i morenti, di quella terra negata.

Viene alla mente il grande racconto di Tolstòj La morte di Ivan Il’ič: anche Ivan ha studiato filosofia e di fronte alla morte ne contesta le conclusioni. Ivan sa che Caio è un uomo e che gli uomini sono mortali e che Caio è mortale: questo sillogismo gli sembrava ora giusto per Caio, ma non per lui. Perché Caio è un uomo in genere, non è questo uomo, non è più un Io, è un neutro. Ma lui, Ivan, è diverso, con le sue relazioni, i suoi amori, i rimorsi, i ricordi, le colpe e le omissioni. “Era stato forse per Caio quell’odore di palla di cuoio a spicchi che Vanja tanto amava? […] era stato forse Caio a sentire il fruscio della veste di seta della madre?[8]

All’Io che vuole vivere la filosofia prospetta la morte, la spersonalizzazione della morte. La filosofia esalta questa morte, prosegue ancora Rosenzweig, questa morte neutralizzata come la propria prediletta, come la nobile occasione per sottrarsi alle angustie della vita. La filosofia propone questa morte, perché la filosofia è innamorata, scrive Rosenzweig, dell’“illud[9], cioè di questo neutro in cui naufraga il soggetto, in cui affonda l’io.

Anche dopo la caduta dei fondamenti, anche dopo l’erosione della metafisica annunciata da Nietzsche con l’esaltazione del mondo delle apparenze, della magnifica iridescenza “del ventre del serpente della vita[10], la filosofia ha mantenuto la sua volontà di potenza.

E con questa entra nel XX secolo.

Si pensi che Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus chiude in poche decine di pagine tutte le proposizioni che corrispondono a tutti gli “stati di fatto” di cui si può parlare. Sul resto, su ciò che eccede la sequenza di proposizioni contenute in queste decine di pagine si deve tacere. “Il mio lavoro” scrive Wittgenstein “consiste in due parti: di quello che ho scritto e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante[11]. Questa seconda parte deve di fatto rimanere muta: Wittgenstein ha inteso tracciare un limite al pensiero, o meglio un limite all’espressione dei pensieri: la critica era per lui esattamente questo limite, questo nec ulterius, questo non oltre. Ha tracciato un limite al linguaggio e “tutto ciò che è oltre questo limite” ha scritto “sarà semplicemente non-senso[12].

Questo ci porta direttamente nel XXI secolo alla filosofia analitica anglosassone. È una filosofia che – come afferma Susan Neiman[13] – impone di dimenticare le questioni relative alla vita e alla morte, al bene e al male: vale a dire le questioni da cui è nata la domanda filosofica. Sembra che il fine della ricerca sia la legittimazione linguistica di ogni affermazione interna alla disciplina filosofica stessa. È curioso, ma assistiamo oggi all’incrocio tra questa filosofia e l’eredità dell’esoterica ontologia heideggeriana. Entro i limiti stabiliti dal linguaggio, per una schiera di nuovi filosofi l’affermazione dell’essere della cosa è un’affermazione aproblematica, non lascia alcun cono d’ombra: si passa a una cosalità immediata, diretta.

E quindi, nella dissoluzione dell’estremismo dell’ermeneutica, c’è questo assolutismo ontologico che in realtà si riduce, come avrebbe detto Adorno, al “miseramente ontico[14], all’affermazione pura e semplice di ciò che esiste. E cosa rimane delle questioni relative alla vita e alla morte, al tempo, alla gioia e al dolore, cosa persiste dell’inquietudine che spinge a pensare, come dice Bataille, che “ciò che è significa ben più di ciò che è[15], cioè che se esiste un impensabile e un irrappresentabile è proprio questo che dobbiamo cercare di pensare e di rappresentare? Questa inquietudine, che ha abbandonato la filosofia tradizionale, ha costruito una diversa modalità di scrittura filosofica: quella del saggio critico, che è stata teorizzata da Gyȍrgy Lukàcs, poi da Walter Beniamin, da Adorno e poi ancora, più vicini a noi, da Elias Canetti, da Maurice Blanchot, insieme a Freud e i grandi scrittori della modernità come Musil, Proust, Thomas Mann e altri.

La filosofia saggistica – o più propriamente il pensiero saggistico – non ha più la pretesa di ormeggiare alla banchina di una verità assoluta. È qui lo scatto: non esiste più la totalità, non esiste più la volontà di potenza di chiudere in un sistema una visione esaustiva del mondo che intende discernere il vero dal non senso. Il pensiero saggistico si muove, come l’arte, nel dominio dell’incerto. Ha detto Leibniz: “Credevo di essere arrivato in porto, e sono stato rigettato in mare aperto”.

Ne LArte del romanzo di Kundera si dice che parallelamente, mentre Cartesio stabiliva le regole del ben pensare, Cervantes con il suo Don Chisciotte decretava il sapere dell’incertezza, direi una legittimità dell’incerto[16]. Fenomeno, qualche secolo dopo, espresso compiutamente in quel grande romanzo che è L’uomo senza qualità di Musil, in cui l’uomo è un insieme di qualità senza un centro che le unifichi, nella scomparsa di quella totalità umana e poetica che non ci compete più, né più ci appartiene.

In qualche modo, il pensiero critico cerca di saldare, di riunire questi due saperi: quello della sistematizzazione razionale e quello dell’incerto, del dubbio, dell’inquietudine. Il pensiero saggistico-critico cerca costantemente di trovare la verità nell’arte – come nelle apparenze del mondo (critica quindi non solo letteraria, artistica, ma anche delle formazioni e delle realtà del mondo) – quindi proprio là dove questa sembra negarsi, cerca la verità nella negazione e della negazione, cerca comunque una verità possibile, anche se relativa, insorgendo contro una filosofia immanente delle cose, adagiata su di esse, fondamentalmente priva di responsabilità.

Ecco, questo è secondo me il grande tema: la responsabilità del pensiero in rapporto al mondo; quando noi parliamo, scriviamo, esprimiamo un pensiero assumiamo una responsabilità immensa, perché non c’è più nulla che la garantisca come nella metafisica. Ora ogni espressione deve assumersi la responsabilità di ciò che esprime, ognuno che traccia un segno su un foglio, su una tela e via dicendo deve assumersi la responsabilità di ciò che proietta nel mondo.

La dimensione della responsabilità emerge in termini ineludibili nel momento in cui si recide un rapporto di corrispondenza tra la realtà e la sua rappresentazione, tra l’immagine il “correlato oggettivo[17] direbbe Eliot, si rompe cioè una sorta di patto mimetico: io dipingo questo fiore e questo fiore corrisponde a qualcosa. Ma Mallarmé dice che la parola fiore non ha alcun odore e che quel fiore non è più un fiore[18]. In questa frattura, già intravista da Saussurre, che affermava che tra significato e significante non c’è alcun rapporto necessario[19] – e che Steiner definisce la vera rivoluzione che caratterizza la modernità[20] – è l’autore a definire il senso della sua opera e se ne assume la responsabilità. Nelle arti questa responsabilità diventa politica: quando Mallarmé dice “dare una parola più pura al linguaggio della tribù[21] intende rompere con i linguaggi standardizzati e con quelle degenerazioni che Flaubert – definendole le “legioni dei diavoli[22] – considerava il male assoluto, cioè la frase fatta, il luogo comune, la chiacchiera.

Oggi assistiamo a una deriva culturale negli ultimi decenni che ha fatto crescere esponenzialmente la semplificazione come dinamica del pensiero, una semplificazione che mortifica e avvilisce ogni possibilità di chiarire un argomento, di acquisire elementi di conoscenza, di costruirsi una competenza, di comprendere diversi punti di vista, tanto meno di problematizzare, finendo per esaltare un’assenza di pensiero o un non-pensiero unico corrotto e involgarito, un’omologazione incolta e illetterata che costituisce un brusio di fondo che fabbrica una nuova legione diabolica e una nuova standardizzazione del linguaggio in cui il senso si inabissa, si estingue la capacità di dirimere, cioè di fare critica. Tutto rischia di scorrerci addosso senza lasciare traccia, senza piantare semi, dove nulla diventa una qualità dell’esperienza, nulla entra nella costruzione della propria identità, nulla ci ferisce o ci salva. E mi riferisco qui non solo alle cosiddetta cultura di massa, ma anche e soprattutto a quella nuova tendenza di far filosofia, la popsophia, la filosofia alla Peppa Pig, tanto per capirci, frequentata da intellettuali griffati[23] che pensano di fare veramente filosofia sovrapponendo il vocabolario di Heidegger a Beautiful, l’analitica esistenziale a Un posto al sole e il decostruzionismo ai Teletubbies, senza alcuna coscienza critica. Ma elevare il discorso da bar a riflessione, però, non è una conquista del pensiero: è una triviale ricerca di consenso, un’adesione acritica all’esistente, travestita da politicamente scorretto, così tanto di moda oggi nella mistificazione di chi pensa che impiantare le parole in luogo delle cose significhi trasformarne la natura[24]. “Logica ed etica sono sostanzialmente la stessa cosa” – diceva Otto Weininger – “un dovere verso se stessi[25].

A proposito della lettura, per esempio, Geoge Steiner ha scritto: “Leggere bene significa correre grossi rischi. Significa rendere vulnerabile la nostra identità, il nostro autocontrollo […] chi ha letto le Metamorfosi di Kafka e riesce a guardarsi allo specchio senza indietreggiare è forse capace, tecnicamente, di leggere i caratteri stampati, ma è analfabeta nell’unico senso che conti realmente[26].

Inoltre osserviamo i danni enormi che la desertificazione della conoscenza storica del pensiero ha provocato, tra cui averci inchiodato a un eterno presente, direi addebitando il tempo di un eterno presente. Ma a questo proposito dice Eliot nei Quattro quartetti: “se tutto il tempo è eternamente presente, tutto il tempo è irredimibile[27], cioè tutto si scioglie, si polverizza, si liquefa, nuota in una palude, negando il fondamento di ogni critica, ossia la considerazione della temporalità, delle parentele temporali, delle stratificazioni storiche.

La rinuncia alla verità, dopo la fine della metafisica, si è declinata spesso come rinuncia al senso che è stato delegato ad altri saperi, quelli legati alla tecnica e alla sua potenza, rispetto alla quale la filosofia come professione sembra mostrare un’assoluta sudditanza. Il saggio non-accademico si muove altrimenti, si disloca altrove rispetto alle filosofie del limite e della rinuncia, si esilia da esse, propone un pensiero che si costruisce intorno agli oggetti senza la pretesa di esaurirli. Incorpora nel suo movimento le tensioni e le contraddizioni che attraversano il reale e che emergono come tali nel suo corpo in opere che appaiono, come dice Adorno, “corrugate o addirittura dilaniate[28].

Se la dialettica era destinata a risolvere la contraddizione, Benjamin propone una dialettica sospesa, arrestata, in cui gli estremi emergono e aprono una tensione critica che non può e non deve avere soluzione, anzi significano proprio nella loro inesausta tensione. Benjamin afferma che in questa immagine dialettica si realizza “l’ora della conoscibilità[29] – come è emersa anche in Proust – segnando ancora una volta la complicità di questa filosofia critica con le forme e i saperi artistici che Platone aveva voluto espellere dalla Repubblica. Il saggio si pone così come una scrittura e una modalità di conoscenza critica proprio in quanto ha appreso a ibridare immagine e concetto per recuperare al pensiero filosofico quella compatibilità e quella contiguità con l’esperienza umana che la filosofia sembrava aver perduto.

Si tratta di continuare a confrontarsi con la pluralità conflittuale del mondo, quella complessità che si afferma, secondo Nietzsche, nelle forme antinomiche e contraddittorie del tragico. Si tratta di trasformare l’infinito e indifferente scorrere di interpretazioni nuovamente in conflitto delle interpretazioni, per cogliere il senso di un mondo lacerato e il senso delle opere che questa lacerazione provano a raccontarla.

È necessario che il pensiero pensi anche contro se stesso. Altrimenti la filosofia, come ha detto Adorno, si illude di conoscere ciò che pensa semplicemente assimilandolo a sé, ma così essa conosce propriamente se stessa e solo se stessa e non il mondo.

L’arte di per sé procede criticamente, traducendo quella che convenzionalmente viene definita ispirazione dell’artista, la visione della madeleine proustiana, all’interno di regole linguistiche e sintattiche, operando una violenza su se stessa. E il critico, a sua volta, opera una violenza per ritrovare la madeleine, per rinvenire quell’ispirazione che l’artista ha dovuto nascondere dentro le procedure sintattiche. Ed è un processo polemico: da polemos, la guerra che Eraclito diceva essere il padre del mondo[30].

Certo, molte sono le cose inesprimibili, molte sono le cose prive di espressione: è l’Ausdrucklose, il privo d’espressione di Benjamin. L’Ausdrucklose indica il passaggio dall’idea del bello a quella del vero, il punto di sospensione dell’opera, il luogo in cui il contenuto si trova in uno stato di sospesa incertezza, presente immobile rispetto al tempo fluido della narrazione e, tuttavia, oscillante tra il mito che si disegna come passato e la redenzione che si dispiega come futuro. È l’apparizione dentro l’opera dell’origine, di ciò che storicizza il suo tempo, il quale – proprio perché si dà come un continuum – si rivela in realtà immobile: il divenire precipita nel suo telos e si annulla. Arrestarlo nell’Ausdrucklose è il compito della critica[31].

Il pensiero si legittima soltanto in quanto si assume la responsabilità di cercare di esprimere l’inesprimibile, anche per approssimazione, anche se è necessario procedere alla frantumazione di “una totalità falsa e aberrante[32], dice ancora Benjamin. È quella che Kafka chiama, in un’espressione paradossale ma illuminante, “la costruzione che distrugge per poter dare forma al mondo[33]. Viene a mancare la certezza propria della metafisica, ma anche la certezza perentoriamente pretesa dei nuovi realisti. Io credo che solo dall’incontro tra filosofia e poesia possa nascere una modalità di indagine su ciò che non ha espressione e questo colloquio deve potersi attuare nelle zone d’ombra, dove non è una logica dialettica che potrà far parlare l’opera d’arte. Se è vero che esiste un dissidio tra filosofia e poesia, in quanto quest’ultima non è vincolata alla verità, oggi una filosofia che si identifichi con la scienza è inimmaginabile, a meno di non costringere la filosofia in un’angusta analisi logico-linguistica, invece di volgerla a interrogare le opere d’arte intorno all’inespresso e all’inesprimibile, mettendo a frutto la capacità della filosofia, in quanto estetica, di accogliere e svolgere il senso non-discorsivo presente nelle creazioni artistiche, la cui verità è irriducibile sia alla composizione meramente formale sia al messaggio rinvenuto nell’opera.

Un romanziere, Imre Kertész, presentando un suo libro di scritti critici ha affermato: “Non considero saggi nel senso tradizionale del termine gli scritti che seguono. Parlerei piuttosto di approssimazioni, anche se naturalmente questo genere letterario non esiste. Da una parte vorrei sottolineare il fatto che nessuno di questi lavori esaurisce il proprio oggetto, ma riesce al massimo ad approssimarsi ad esso, dall’altro vorrei evidenziare che essi affrontano – sebbene da un altro punto di vista – lo stesso argomento delle mie opere narrative: l’inavvicinabile”[34].

Un solo passo verso l’inavvicinabile, nel senso racchiuso nelle increspature di un’opera – sia questa un libro, un quadro, un film, un’architettura o nelle pieghe delle realtà – vale la sfida che il pensiero critico lancia nei confronti del pensiero della certezza: la verità non è netta, ma ha, come ha scritto Hermann Melville, “confini sfrangiati[35].

Muoversi su questi confini è compito del pensiero critico.

 

Tre post scriptum

  1. Su Maffesoli: vorrei cavarmela con una battuta: è un sociologo, debole in filosofia.
  1. Su Alessandro Baricco: è autoreferenziale fino all’acidità da reflusso gastroesofageo, post italocalvinista di riporto, ben attento a non deplorare mai nulla, a rassicurare sui conflitti e sulle contraddizioni della postmodernità. Il suo è un composto di cibo masticato, impastato e imbevuto di quella saliva che tutto concilia, scolora le oscurità, annulla virtù e talento, contrabbanda la rapidità con l’efficienza, la banalità per complessità e rende tutto commestibile in questo luna park del consumo. Bolo per analfabeti di ritorno, altro che l’ascia di Kafka.
  1. Sul postmoderno e, tra le righe, ancora su Maffesoli: Nell’esperienza greca il mito è vissuto come un tentativo di colmare il dolore della distanza dall’origine, ma anche come la consapevolezza che non c’è mai un vero ritorno all’origine. Nella modernità i miti sono diventati domestici, sono tutt’al più cani da compagnia, più spesso false idee comodamente acquattate nella pigrizia del nostro pensiero. Basta pensare al ruolo che nella città greca aveva il teatro, la tragedia. La città teatro contro la città ipermercato. C’è una connessione tra spazio simbolico e rappresentanza del conflitto, da una parte, e forma dell’agire politico, dall’altra. Nel mondo greco prendere posizione, decidere è tragico, perché non c’è soluzione conciliativa, non c’è mediazione razionale. Il conflitto, che non è sanabile, quindi tragico, è solo rappresentabile.

Ogni conflitto nella modernità è, invece, risolubile attraverso la risarcibilità, poiché tutto è ridotto a misura del denaro, slegato per definizione a qualsiasi concetto di valore, nel politeismo dei valori che è indifferenza a ogni valore, che è un infischiarsene degli dei. E della tragedia non conserva nemmeno la memoria. Il conflitto irriducibile può essere rappresentato, trasformato nella rappresentazione e nello spazio simbolico del racconto; il conflitto moderno è, invece, irrappresentabile, perché è del tutto contingente, cioè, filosoficamente, non necessario, non essenziale.

La modernità ha preteso di realizzare il mito, di far coincidere inizio e fine, uomo e Dio. E l’Altro è dissolto, svanito; ma senza vera alterità non c’è vero conflitto e senza conflitto vero non c’è trasformazione della realtà e creazione dello spazio simbolico. La rappresentazione tragica, invece, esprime il senso della irriducibilità dell’altro a se stessi e la creazione di uno spazio per contenerlo.

Si diceva: condizione postmoderna. Vorrei far notare come da allora ci sia stato un profluvio di questo prefisso post tutte le volte che “il presente rivolge lo sguardo su se stesso per cercare di auto comprendersi[36], di darsi un’identità. La prosa sociologica, antropologica, politica, psicoanalitica, letteraria, filosofica è un’alluvione di post: post-industriale, post-democrazia, post-fordismo, post-umano, post-edipico, post-comunismo, post-fascismo, post-ideologico, post-strutturalismo ecc., per finire, appunto, a post-moderno.

Noi siamo quelli che vengono dopo, siamo i postumi. Postŭmus, nell’antica Roma, era il figlio che nasceva dopo la morte del padre.

Il fatto che ogni epoca interpreti se stessa nell’orizzonte del dopo è ovvio, ma oggi il nostro dopo non è “un dopo storico- relativo, ma un dopo assoluto[37]. Un dopo, appunto, che ha i tratti inquietanti e perturbanti del postumo; viviamo un’esistenza postuma, come se ci stessimo aggirando tra rovine in un dialogo tra morti.

Vediamo ora che cosa vuol dire essere postumi in questa percezione del dopo che ho appena descritto. Venire dopo la morte del padre non significa semplicemente o soltanto “essere senza padre, ma essere generato da un padre morto[38], significa essere la traccia della sua assenza. Un presente postumo non contempla più un legame dialettico col passato, né come suo superamento, né come sua conferma, né come suo rinnovamento, né come sua rifioritura in altra forma. Viene meno ogni figura di eredità, quindi di donazione. Il presente si specchia nella sua impotenza, nella malinconia dolente della percezione del venir meno di chi lo ha generato.

E allora comprendiamo che della democrazia, dell’umano, del fascismo, del comunismo, della modernità ecc. resta soltanto quel post, cioè rimane un guscio vuoto, una svuotata e stremata definizione di sé e del proprio tempo sulla base di un’impotenza a essere umani, comunisti, fascisti, padri ecc.

Ci si definisce facendo appello a una possibilità storica estinta e si assume questa impossibilità come proprio stesso essere.  È la figura della possibilità, è il possibile che si è corroso, che è tramontato, non la sua realizzazione.

Nel suo saggio L’esausto su Samuel Beckett Gilles Deleuze, rimarcando la differenza tra “stanco” ed “esausto” scrive: “Lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto esaurisce tutto il possibile. Lo stanco non può più realizzare, ma l’esausto non può più possibilizzare[39].

Ecco, siamo trasmigrati da un paradigma dell’essere, dove lo scopo era la realizzazione dell’umano, a un paradigma del divenire prosciugato di senso, dove ci si muove velocemente ma senza uno scopo, dove mezzi e fini si confondono deponendo ogni preoccupazione etica, dove la realtà visibile è quella virtuale nella scomparsa del confine tra fantastico e reale e nell’insistente cura dell’immagine che mortifica ogni contenuto. E dentro questo scenario si muovono corpi inabili a trasformarsi in nulla, tantomeno in simboli, corpi che parlano un linguaggio incenerito e sembra non percepiscano più nemmeno il proprio sentire, corpi senza memoria (perché l’oblio è la condizione necessaria affinché il desiderio, unico motore della società dei consumi, possa rinnovarsi senza intoppi né ritardi), puri consumatori di merci, sedotti e arresi all’inganno della facilità che conduce al balbettìo e all’idiozia.

[1] Cfr. Michel Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, 2004.

[2] Cfr. Jean-Luc Nancy, Decostruzione del cristianesimo, Volume 1, Cronopio, 2007.

[3] Robert Musil, L’uomo senza qualità, pag. 243

[4] Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1970, p. 34.

[5] Georg W. Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, 1960, vol. I, pag. 8.

[6] Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, 2007, p. 199.

[7] Cfr. Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, 2004, pag. 339.

[8] Lev Tolstòj, La morte di Ivan Il’ič, Mondadori, pag.

[9] Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, 1985, pag. 3.

[10] Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi (1887-1888), Adelphi, 1979, pag. 11.

[11] Ludwig Wittgenstein, Lettere a Ludwig von Ficker, Armando, 1974, pag. 72.

[12] Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, 1974, in Prefazione.

[13] Cfr. Susan Neiman, In cielo come in terra. Storia filosofica del male, Laterza, 2013.

[14] Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pag. 11.

[15] Georges Bataille, L’abate C., ES, 2008, pag. 102.

[16] Cfr. Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, 1988.

[17] Cfr. Thomas Stearns Eliot, Amleto e i suoi problemi in Il bosco sacro, Bompiani, 1995.

[18] Cfr. Stèphane Mallarmé, Erodiade, ES, 1997.

[19] Cfr. Ferdinand de Saussurre, Corso di linguistica generale, Laterza, 1978.

[20] Cfr. George Steiner, Vere presenze, Garzanti 1992, pag. 95.

[21] Stèphane Mallarmé, La tomba di Edgar Poe, v. 6, in Sonetti, SE, 2002.

[22] Cfr. Gustave Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni, Adelphi, 1980.

[23] Mi riferisco ai più feroci fautori della popsophia, come Simone Regazzoni, Salvatore Patriarca, Leonardo Arena, Marcello Ghilardi, autori di opere che consegnano il discorso filosofico alle perversioni di un mercato editoriale dove il profitto a qualunque costo ha spesso il sopravvento sull’eleganza e la ricercatezza della qualità.

[24] Cfr. a questo proposito un illuminante articolo di Nicla Vassallo, Sopravvivere al pop pensiero, Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2008.

[25] Otto Weininger, Sesso e carattere, Feltrinelli, 1978, pag. 25.

[26] George Steiner, Linguaggio e silenzio, Garzanti, 2001, pag. 142.

[27] Thomas Stearns Eliot, Quattro quartetti, Burt Norton I, Garzanti, 1979, vv. 4-6.

[28] Theodor W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica, Torino, Einaudi, 2001, pag.275.

[29] Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, Einaudi 2010, pp. 1237-1238.

[30] Cfr. Eraclito, in G. Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano, 1980, fr. 14

[31] Il discorso benjaminiano sul carattere critico dell’Ausdrucklose arriva a definirsi compiutamente attraverso l’esplicito riferimento a Hölderlin, a partire dal saggio Le due poesie di Hölderlin, raccolti in Metafisica della gioventù, Einaudi, 1982.

[32] Walter Benjamin, Le affinità elettive di Goethe, in Angelus Novus, Einaudi, 1981, pp. 221-222.

[33] Franz Kafka, Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi, Feltinelli, 1984, p. 83.

[34] Imre Kertész, Il secolo infelice, Bompiani, 2012, p.

[35] Cfr. Herman Melville, Billy Budd, Feltrinelli, 2014.

[36] Rocco Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica, Feltrinelli 2012, pag. 39.

[37]Ivi, pag. 40.

[38] Ivi, pag. 42.

[39] Gilles Deleuze, L’esausto, Cronopio, 2005, pag. 9.

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Breve excursus dell’esoterismo europeo

di Fabrizio Rinaldi, 30 giugno 1991

Viaggiare verso il mistero non significa conoscerlo,
ma custodirlo come mistero, assumerlo come tale.

Pietro Chiodi

Introduzione

A dispetto del continuo progresso nelle conoscenze scientifiche e dell’opinione razionalizzatrice della scuola e della cultura di massa la nostra società continua a registrare un persistente, anzi crescente interesse per l’occulto.

In questo mondo di oscuri riti ed enigmatici personaggi l’uomo comune cerca una risposta ai quesiti esistenziali che lo affliggono.

Dato che la scienza ufficiale, la filosofia e la religione non offrono risposte immediate, concrete e soddisfacenti a queste domande, l’essere umano cade spesso nelle trappole di fantomatiche sette che con l’inganno abbindolano i loro adepti facendo credere loro di godere della possibilità di accedere a poteri o a saperi misteriosi e riservati a pochi eletti.

Solamente in Italia esistono più di seicento sette ufficialmente dichiarate che praticano i più svariati culti esoterici, con gli scopi e le origini più disparati.

È indubbiamente difficile individuare tra queste quelle che possono essere classificate come associazioni religiose o sapienzali e non società a fine di lucro, ma certamente ne esistono alcune che si prefiggono il solo scopo di aiutare l’uomo nell’affrontare serenamente la vita avvalendosi delle proprie facoltà, anche se spesso vengono potenziate da antichi riti, magari celebrati in lingua sconosciuta.

Servendomi dell’aiuto di conoscitori della materia e dalla lettura di libri sull’argomento (uno di quelli che più mi hanno stimolato all’approfondimento è senza dubbio Il pendolo di Foucault di Umberto Eco), ho cercato, basandomi soprattutto sulle origini delle sette, di individuare i più importanti ordini occulti che hanno caratterizzato la storia di questo millennio e finalizzati al proseguimento di una qualche forma di conoscenza, e non a spillare denaro agli sciocchi.

I Templari

Gli odierni Templari vantano una presunta discendenza dall’ordine religioso­militare del Tempio di Gerusalemme, comunemente denominato Templari.

Erano appunto dei monaci con spada al fianco, una novità assoluta nell’organizzazione della Chiesa.

L’Ordine venne fondato da un nobile cavaliere chiamato Hugo de Payer e da altri otto compagni nel 1118 con l’approvazione del re di Gerusalemme Baldovino II, che assegnò loro anche una parte del suo castello, costruito secondo la leggenda sulle rovine del tempio di Salomone.

La loro regola si basava essenzialmente sulla povertà, castità e obbedienza. Non possedevano nulla tranne il loro mantello bianco, con sopra ricamata una croce rossa a braccia uguali, e la loro spada; anche il cavallo doveva essere diviso con un compagno, questo è testimoniato anche dal loro primo sigillo sul quale erano impressi due Templari in sella ad un solo cavallo, segno di povertà e fratellanza.

Oltre alla regola suddetta c’era quella di difendere con la spada coloro che si accingevano a visitare i Luoghi Santi della Palestina.

Essi non dovevano obbedienza a nessuno tranne al papa in persona, e divennero pertanto in Terra Santa una specie di stato autonomo senza territorio.

L’ordine ebbe uno sviluppo sorprendente; solo alla metà del 1100 erano più di millecinquecento, con immensi possedimenti e un patrimonio in oro e pietre preziose superiore a cinquemila miliardi di lire attuali.

Questa enorme ricchezza era spiegata dalle donazioni di coloro che entravano a far parte dell’Ordine e di coloro che, in cambio di protezione, offrivano ai Cavalieri del Tempio ingenti somme. Questi non potevano in nessun modo utilizzare tale tesoro, ma praticavano il prestito; divennero così abilissimi banchieri prestando somme enormi ai sovrani dell’Europa con tassi d’interesse modesti.

Non si occupavano soltanto di denaro ma, grazie ai continui contatti con la cultura giudaica e islamica, i Templari diffusero in tutta l’Europa nuove idee filosofiche e nuove scienze: tra queste anche quelle occulte derivanti dalle dottrine degli Esseni, dei Terapeuti e degli Gnostici, le cui origini si perdono nel tempo. L’Ordine del Tempio però procurava grossi problemi a quasi tutti i sovrani europei proprio per la sua influenza economica e politica, che rendeva l’Europa quasi dipendente dai Templari.

In particolare questa situazione non piaceva a Filippo IV il Bello, di Francia, anche per il fatto che i Templari avevano finito per divenire proprietari di una vasta zona meridionale della Francia (la Linguadoca), creando uno stato templare in pratica indipendente.

Ciò spronò il sovrano a trovare il modo per liberarsi di loro e ad impossessarsi delle immense ricchezze dell’Ordine.

Egli però non aveva nessuna autorità sui Templari, e quindi dovette assicurarsi la collaborazione del pontefice, al quale l’Ordine doveva obbedienza, anche se questa era diventata in realtà solo teorica, dato che anche il Vaticano aveva debiti con i Cavalieri del Tempio.

Fu così che papa Clemente V, in combutta con Filippo IV, scomunicò l’Ordine per eresia.

All’alba di venerdì 13 ottobre 1307 quasi tutti i Templari in Francia vennero arrestati e i loro beni confiscati; ma i grandi tesori che anche il re aveva visto tempo prima non vennero mai trovati, e la sorte del favoloso “tesoro dei Templari” rimane ancora oggi un mistero.

È da ricordare che tutti i Cavalieri che vennero catturati si arresero passivamente; inoltre esistono prove certe della fuga di un gruppo di Templari incaricati di far sparire il tesoro del Tempio e tutti i documenti segreti.

Molti membri dell’Ordine arrestati furono processati, molti vennero sottoposti a torture e alcuni di loro cedettero confessando tutto ciò di cui la Santa Inquisizione li aveva accusati (insultare il nome di Cristo, ripudiare la croce, adorare un diavolo chiamato Baphomet considerandolo immagine del vero Dio, praticare l’omosessualità), ma altri resistettero e furono coerenti nelle loro idee anche sotto la tortura, come il Gran Maestro dell’Ordine Jacques de Molay al quale questo coraggio non impedì di essere condannato al rogo.

Tutto questo non significa che i Templari fossero scomparsi completamente perché negli altri stati riuscirono a sopravvivere trasformandosi in una società occulta, costretta alla latitanza in quanto accusata di eresia.

L’ultimo atto storico documentato della storia dell’Ordine è il supplizio dell’ultimo Gran Maestro nel marzo del 1314.

Jacques de Molay maledisse i suoi persecutori e promise al popolo che entro l’anno sarebbero morti. Un mese dopo papa Clemente V morì, sembra per un attacco di dissenteria. A novembre morì anche Filippo IV cadendo da cavallo.

La maledizione non finì lì, era destinata a gettare un’ombra tenebrosa sull’intera stirpe reale francese: nel 1789, quando la testa di Luigi XVI cadde sotto la lama della ghigliottina, uno sconosciuto balzò sul palco, immerse la mano nel sangue del re, lo spruzzò sulla folla circostante e gridò: “Jacques de Molay, sei vendicato!”.

Alcuni Templari riuscirono a sfuggire agli artigli dell’Inquisizione e si rifugiarono in Scozia dove il potere secolare del papato era molto minore.

Dal Trecento in poi nacquero numerosi ordini che si proclamavano discendenti dei Templari, ma nessuno riuscì a produrre prove convincenti della propria autenticità.

I Rosacroce

Su cosa siano i Rosacroce esistono due correnti di pensiero: una fondamentalista e l’altra storiografica.

La prima corrente raccoglie coloro che accettano l’esistenza di una Confraternita fondata nel 1408 da Cristian Rosenckreutz, un cavaliere che aveva compiuto lunghi viaggi in Arabia, Turchia e Egitto, acquisendo conoscenze occulte nell’ambito dell’alchimia.

Tornato in Europa egli si ritirò a vita eremitica, trasmettendo la sua dottrina segreta a soli tre discepoli, i quali perpetuarono il suo insegnamento per non più di otto adepti.

Questi ultimi all’inizio del Seicento decisero che era arrivato il momento per diffondere il pensiero del fondatore.

Infatti vennero pubblicati tra il 1614 e il 1623 una serie di “Manifesti” che sarebbero diventati la base ideologica della setta, di questi ricordiamo: Fama Fraternitatis, ConfessioFraternitatis e Nozze Chimiche con Cristian Rosenckreutz.

Nel primo manifesto è narrata la vita del fondatore della setta, del suo pensiero e degli obiettivi che si prefisse l’Ordine rosacrociano. Nel ConfessioFraternitatis viene ripreso il messaggio della Fama con maggior forza descrivendo nei minimi particolari la vita di Rosenckreutz e promettendo la riforma del mondo con il rovesciamento della tirannia papale.

L’insegnamento della Confraternita si rifaceva al pensiero gnostico, il quale concepiva l’universo come un insieme di spirito e materia, e sosteneva l’ipotesi dell’esistenza di un essere divino supremo, eterno e inconoscibile.

Secondo l’opinione rosacrociana lo spirito umano è un frammento di questo “Superiore Sconosciuto” che si è distaccato diventando prigioniero della materia. Il mondo materiale non è opera del Dio supremo ma di una divinità minore.

I fini che si prefiggono i Rosacroce sono quelli di guarire i malati e di diffondere e acquisire nuove conoscenze.

Dalla metà del Seicento la Confraternita è ritornata a tramare e a diffondersi segretamente. Da allora si sono diffuse numerose sette che si ispiravano al pensiero di Rosenckreutz.

L’altra corrente sull’Ordine è quella storiografica, che respinge la tesi fondamentalista perché ritiene non esistente alcuna prova sulla effettiva presenza della Confraternita del Quattrocento fondata da Rosenckreutz, né tanto meno sulla derivazione esoterica dei Rosacroce; anzi, lo scrittore Valentin Andreae riconobbe nel 1618 che si era trattato di uno scherzo, di una burla agli intellettuali della sua epoca nel tentativo di creare un nuovo mito letterario.

Che il fondatore sia o non sia veramente vissuto non sembra essere un problema, dato che il successo che la Confraternita ha avuto, al punto da divenire un simbolo attorno al quale nascono varie correnti di pensiero che si rifanno agli ideali rosacrociani. Il movimento infatti s’innesta e spesso si confonde con associazioni affini di carattere politico-culturale, in un intreccio di non facile comprensione. Spesso coloro che si identificano come appartenenti alla Confraternita dei Rosacroce erano accusati di praticare la stregoneria o la magia nera, o di diffondere l’eresia; di conseguenza spesso si rifugiavano in stati dove la Chiesa era meno influente. Nacquero così in Inghilterra e in Olanda dei gruppi di stampo rosacrociano, come la Gran Loggia di Londra e la Libera Muratoria.

Lo scopo che ha avuto la Confraternita nella storia prescindendo dalla sua reale esistenza, è senza dubbio quello di aver costituito l’elemento catalizzante delle speranze e dei sogni di molti intellettuali del Seicento, che cercarono in essa l’ideale di fratellanza e di razionalità che poi sarebbero stati caratteri centrali dell’illuminismo.

Probabilmente la setta rispondeva ad una esigenza nuova, creata dalla nascita di stati organizzati che stavano dividendo quei popoli che durante il Medioevo avevano fatto parte dell’ecumene cristiano. Non a caso che a diverse riprese, con l’umanesimo prima e con l’illuminismo poi, sia partito dal mondo della cultura l’appello al cosmopolitismo e al superamento delle divisioni nazionali: tutto questo è nato proprio con la formazione degli stati nazionali e con il nuovo regime di guerra e di sospetto costante tra i popoli che essi comportavano.

I Rosacroce in fondo chiedevano proprio, come gli umanisti e come gli illuministi, che la cultura servisse prima di tutto a colmare i fossati che si stavano aprendo tra i popoli.

La Massoneria

Le origini più probabili risalgono alle corporazioni medioevali dei costruttori di cattedrali, alle associazioni artigiane che conservavano gelosamente i segreti del mestiere impegnando gli adepti, con riti e giuramenti solenni, alla loro scrupolosa osservanza e all’aiuto reciproco.

Fra le più antiche e meglio organizzate associazioni c’era la corporazione dei muratori che godeva di grande fama in tutta l’Europa del Medioevo. Essa sopravvisse attraverso i secoli, soprattutto in Inghilterra, dove entrarono a farne parte nobili e intellettuali attratti dai principi di fratellanza.

Vi aderirono anche nuclei esoterici, formati da alchimisti e appartenenti ai Rosacroce, i quali potevano trovare nella fratellanza una copertura e un comodo mezzo per fare riunioni e diffondere all’interno della Libera Muratoria (nome originale della Massoneria) la loro dottrina.

Col tempo queste corporazioni per il mantenimento dell’insegnamento dei maestri artigiani si trasformarono in organizzazioni esoteriche.

Nel 1717 in Inghilterra quattro di queste sette si fusero insieme dando vita alla Gran Loggia di Londra, abbandonarono definitivamente ogni carattere di associazioni di mestiere e divennero una società segreta.

Nella Massoneria, fin dalle origini, esistevano due correnti di idee: quella razionalista, ispirata ad un cristianesimo aperto e al deismo newtoniano, e quello spiritualista, la quale avrebbe trasformato le logge in circoli esoterici e alchemici.

Agli inizi del Settecento la Libera Muratoria si sviluppò in tutta l’Europa e grazie alla colonizzazione degli altri continenti si diffuse anche in India, in Africa e in America, dove ne fecero parte personaggi come George Washington e Benjamin Franklin.

Ma nel diffondersi abbandonò la razionale struttura inglese, trasformandosi in Massoneria scozzese, che si vantava della propria antichità e del possesso di verità spirituali e esoteriche appartenenti ai Templari.

Nacquero così diversi gruppi fondati da personaggi altrettanto misteriosi, che presero il nome delle loro presunte origini, ad esempio Massoneria Templare e Illuminati di Avignone.

Il Settecento fu il secolo in cui si sviluppò maggiormente la Massoneria, perché in questa si identificavano gli ideali razionali e progressisti dell’illuminismo. Molti personaggi famosi furono affascinati dalla cultura massonica. Basti ricordare nella letteratura Goethe nell’opera I dolori del giovane Werther, e nella musica Mozart nel Flauto magico e nella Musica funebre massonica.

In Italia e in genere nei paesi cattolici, la Massoneria dovette affrontare dure accuse, seguite da scomuniche della Chiesa che però non impedirono la sua diffusione, cui aderirono molti intellettuali come Goldoni e Alfieri nel Settecento, Verga e Carducci nell’Ottocento.

Dato il suo ampio proselito in tutta l’Europa, la Massoneria divenne un veicolo per l’espansione delle idee illuministe, tra cui l’atteggiamento anticlericale, che la portò ad essere accusata ingiustamente di aver fatto scoppiare la Rivoluzione Francese.

In Italia durante il Risorgimento molti appartenenti alla Carboneria e alle altre società segrete che si impegnavano nella lotta per l’indipendenza e la libertà, erano affiliati anche alla Libera Muratoria. Negli anni prossimi all’unità molti politici appartenenti al movimento democratico italiano appartenevano alla Massoneria, come Crispi e Garibaldi.

Con l’atteggiamento più tollerante attuato dalla Chiesa in questo secolo si andò attenuando il carattere battagliero massonico, sostituito da una reciproca comprensione e avvicinamento fra il mondo massone e quello cattolico. D’altra parte a partire della seconda metà dell’Ottocento le ideologie si sono divise adeguandosi alle necessità dei luoghi in cui erano esercitate.

Oggi la Massoneria mantiene le antiche divisioni in sette, fra le quali ricordiamo la Massoneria del Rito Scozzese Antico e Accettato.

Il numero degli aderenti alla Massoneria è stimato intorno a cinque milioni di adepti.

Il Priorato di Sion

L’argomento che sto per affrontare risulterà estremamente complesso nell’esposizione in quanto nel ricercare notizie le difficoltà incontrate sono state molte.

Ciò che manca sono precisamente gli “indizi” più concreti, quali ad esempio l’ufficialità dell’organizzazione, la localizzazione della stessa e i mezzi di contatto tra l’eventuale “partecipante” e la società stessa.

Più volte questi elementi vengono affermati e smentiti, quasi a testimoniare ulteriormente quanta poca chiarezza si abbia nei confronti del Priorato.

La sua esistenza è un fatto storicamente dato per accertato da studiosi che la identificano come società segreta tuttora praticante e con origini risalenti ai Templari; questi si sarebbero separati dal Priorato nel 1188.

Il presunto compito di questa setta è quello di preservare per il futuro la stirpe di Gesù. Infatti attraverso particolari studi si è giunti a fare un’ipotesi sconcertante e rivoluzionaria (se effettivamente provata) secondo cui il Salvatore non morì sulla croce (al suo posto ci andò Simone di Cirene), fuggì con Maddalena nel sud della Francia, con lei si sposò ed ebbe dei figli, i quali fondarono la stirpe di Gesù. In seguito questa si fuse con la famiglia dei Merovingi, ancora oggi protetta dal Priorato, che non appena se ne dia occasione proclamerà la propria sovranità.

Purtroppo il Priorato venne spesso associato con i famosi Protocolli di Sion, comparsi all’inizio di questo secolo e nei quali si sosteneva l’ipotesi che gli Ebrei tramassero un complotto mondiale per il dominio dell’intero mondo. I Protocolli successivamente si mostrarono invece un falso perverso e insidioso; nonostante ciò sono ancora oggi in circolazione come strumento di propaganda antisemita.

I Protocolli presentano un programma di dominazione totale basato sull’anarchia e sull’uso della Massoneria, per infiltrarsi ed assumere il controllo delle istituzioni sociali, politiche ed economiche.

Per il carattere sconcertante, ma allo stesso tempo spaventoso, vennero utilizzati dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, e poi anche dopo, per avere un motivo in più nello sterminio degli Ebrei.

Il Priorato è ufficialmente registrato in un giornale francese nel quale è pubblicato anche il carattere fondamentale degli adepti: “Il Priorato di Sion ha come scopi la perpetuazione dell’ordine tradizionalista della cavalleria, il suo insegnamento iniziatico e la mutua assistenza morale e materiale tra i suoi membri, in ogni circostanza”.

Una delle cose più sconcertanti di ciò che circonda il Priorato è la possibile appartenenza ad esso come Gran Maestri di personaggi che con l’esoterismo apparentemente non hanno avuto a che fare, come Leonardo da Vinci, Valentin Andreae, Robert Boyle, Isaac Newton, Victor Hugo e Claude Debussy. Però figurano anche uomini ignoti ai più, che magari hanno avuto una vita tutt’altro che adeguate al ruolo di Gran Maestro. Sembra che esista un solo filo conduttore tra tutti, da ricercare nel fatto che erano legati per parentela di sangue o per associazioni personali alla famiglia dei Merovingi.

Inoltre tutti avevano avuto rapporti con vari ordini o società segrete, nutrivano simpatia per il pensiero esoterico e in quasi tutti i casi c’erano stati stretti contatti fra ogni Gran Maestro, il suo predecessore e il suo successore.

La figura del Gran Maestro è quella di un re-sacerdote che “regna ma non governa”.

Nel corso della storia, la Chiesa ha sempre tentato di offuscare le prove sull’esistenza della stirpe di Gesù (successivamente ricondotta al Santo Graal), che sono invece presenti ad esempio in alcuni brani dei Vangeli e in altri documenti da sempre volutamente dimenticati.

Se veramente oggi esistesse un discendente diretto o indiretto di Gesù e se questo potesse essere provato, tramite ad esempio i misteriosi documenti scomparsi durante la disfatta dei Templari, questi soppianterebbero il potere del papa e diverrebbe egli il nuovo sovrano assoluto della cristianità. Forse non solo di questa.

Infatti, se Gesù venisse riconosciuto come un profeta mortale (pari a Maometto e a Buddha), un re-sacerdote, legittimo sovrano della stirpe di David, verrebbe riconosciuto come re anche dai Mussulmani e dagli Ebrei, riconciliando così queste tre principali religioni, guide dell’intera storia umana: cristianesimo, giudaismo e islamismo.

Il Priorato ha da sempre operato per creare un Sacro Romano Impero innovato, una sorta di Stati Uniti d’Europa alla pari delle grandi potenze come gli USA e l’URSS, fondati però su basi spirituali e non su teorie ideologiche.

Questa federazione di stati sarebbero governati da un membro della famiglia dei Merovingi. Questi non occuperebbe soltanto il trono del potere politico, ma anche quello di San Pietro.

Il compito di amministrare la potestà sarebbe affidato al Priorato di Sion assumendo la funzione di un Parlamento Europeo.

Questo fine che si prefigge la setta sembra essere una possibile soluzione al generale malcontento che attualmente regna nella nostra società, da ricercarsi in una disillusione, sull’insoddisfazione verso il sistema che regola il nostro vivere quotidiano, ma soprattutto nella mancanza di qualcosa in cui credere sinceramente.

La riunificazione degli stati appartenenti all’Europa sembra vicina; resta da attuare un rinnovamento religioso verso il quale indirizzare i nostri ideali morali.

Rimane soltanto un dubbio: l’unità politica e religiosa è opera, anche solo indiretta, del Priorato di Sion oppure è una naturale esigenza che l’uomo ha?

Gesù non è stato crocifisso, ed è per questo che i Templari rinnegano il crocifisso. La leggenda di Giuseppe d’Arimatea copre una verità più profonda: Gesù, non il Graal, sbarca in Francia presso i cabalisti in Provenza. Gesù è la metafora del Re del Mondo, del fondatore reale dei Rosacroce. E con chi si è sposato a Cana? Ma perché erano le nozze di Gesù, nozze di cui non si poteva parlare perché erano con una peccatrice pubblica, Maria Maddalena. Ecco perché da allora tutti gli illuminati da Simon Mago a Postel, vanno a cercare il principio dell’eterno femminino in un bordello. Pertanto Gesù è il fondatore della stirpe reale di Francia.
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Bompiani 1988

Bibliografia

Alexandrian, Sarane – Storia della filosofia occulta – Mondadori 1984

Arnold, Paul – Storia dei Rosacroce – Bompiani 1990

Baigent, Michael &Leigh, Richard &Lincoln, Henry – Il Santo Graal ­ Mondadori 1982

Bordonove, Georges – I Templari – Sugarco 1989

Eco, Umberto – Il Pendolo di Foucault – Bompiani 1989

Francovic, Carlo – voce Massoneria – Enciclopedia Europea Garzanti – vol. 7 Milano 1980

Introvigne, Massimo – Le sette cristiane – Mondadori 1989

Nardini, Bruno – Misteri e dottrine segrete – Convivio 1988

Palmi, Enrico &Bonvicini, Eugenio – Templari e Rosacroce – Atanòr 1988

Trocchi, Cecilia – Magia ed esoterismo in Italia – Mondadori 1990

Post scriptum

Queste pagine le scrissi trent’anni fa, ma paiono calzare benissimo anche in questo momento in cui sembra prevalere il desiderio di trovare trame oscure a cui attribuire ogni colpa possibile.