di Paolo Repetto, 22 novembre 2025
Esattamente cinquant’anni fa, nel mese di dicembre, ai tempi del mio primo incarico presso l’Istituto d’Arte di Valenza, ho assistito a una singolare performance artistica messa in scena da un collega. Era un campano, insegnava una disciplina artistica, non ricordo se scultura o disegno, e portava barba e capelli alla bohemienne, un look all’epoca già demodé. Aveva costruito una grande croce in legno, che si caricò sulle spalle per trascinarla fino ad una collinetta di sabbia gelata sulla sponda del Po. Si denudò, rimase con uno straccio avvolto ai fianchi a mo’ di perizoma e si fece legare alla croce con corde che gli stringevano i polsi e i polpacci. Un paio di amici provvidero poi a issare la croce dentro un supporto già predisposto. Rimase appeso giusto il tempo per farsi fotografare per dritto e per traverso, poi si fece “depositare”.
Gli inverni allora erano ancora una cosa seria, non c’era il cambiamento climatico, si viaggiava per due o tre mesi sottozero: per cui quando scerse l’amico era blu come un puffo, con screziature nere sulle dita delle mani e dei piedi, e continuò poi a tremare per i tre o quattro giorni successivi.
Di quell’evento non è rimasta traccia nella storia dell’Arte, mentre forse qualche traccia è rimasta nei suoi bronchi, e non ho mai ben capito quale fosse il senso della “provocazione” artistica che aveva inscenato. Ho pensato volesse opporre alla gioia posticcia del Natale che era prossimo la mestizia della passione, o forse voleva denunciare la condizione dell’artista nella società moderna, la persecuzione nei suoi confronti. Non lo so, non gliel’ho mai chiesto, anche perché la mia valutazione critica era stata perentoria: una cagata, e scemo io che vi avevo preso parte.
Pochi giorni fa, dunque mezzo secolo dopo, un’opera di Maurizio Cattelan è stata battuta all’asta da Sotheby per dodici milioni e passa di dollari. Praticamente svenduta, perché si tratta di un water d’oro massiccio dal peso di cento chili, e il prezzo copre giusto il valore della materia prima impiegata. Il surplus conferito dall’aura artistica è pari a zero.
La cosa è stata commentata in vari modi, ma non ha suscitato un particolare scalpore. C’era già stata pochi mesi fa la banana dello stesso Cattelan venduta per sei milioni, e prima di quella un sacco d’altre “provocazioni” che si possono ammirare nei musei d’arte contemporanea di tutto il mondo. Alla lunga, provocare stanca.
Tra i commenti che ho letto c’è quello postato da Marco Belpoliti su DoppioZero, dove si dicono cose giustissime, ma che scade nel finale in un truismo (“lo si riconosca o no, credo che tra lui [Cattelan] e Klimt non ci sia confronto: vale di più il viennese”) giocato sul significato di “vale”, dal momento che un’opera di Klimt è stata battuta nella stessa asta per 236 milioni di dollari. Sembrerebbe dirci che il mercato è in fondo capace di riconoscere, di distinguere tra ciò che è un tentativo, nemmeno tanto originale, di denuncia e di presa in giro, e ciò che per via di una immaginazione visiva particolarmente ispirata si pone al di là delle regole di mercato e le fa saltare.

Vediamo di raccapezzarci. Per me bisogna risalire parecchio a monte. Il mercato dell’arte esiste da sempre, da quando nelle caverne i nostri progenitori paleolitici affidavano ai “pittori” migliori la decorazione delle caverne, in cambio di vitto e alloggio assicurati. Ha continuato ad esistere, e si è evoluto col mecenatismo religioso e con il collezionismo pubblico e privato, nel mondo classico e in quello moderno, conferendo al ruolo dell’artista una dignità superiore. E gli artisti migliori ne hanno approfittato per ritagliarsi ampi margini di libertà, anche quando lavoravano su commissione, e quelli capaci di sottrarsi ai canoni estetici vigenti nella loro epoca e a superarli hanno finito per incontrare maggior successo. Ma nell’età contemporanea si sono illusi, o sono stati illusi, di poter denunciare i meccanismi del mercato e l’ipocrisia di fondo ad esso sottesa rimanendoci comunque dentro, e il mercato li ha immediatamente “normalizzati”, fagocitando anche ogni loro azione provocatoria e rigettandola in forma di merce. Per questo ritengo sia opportuno parlare di storia dell’arte solo sino a tutto il XIX secolo o ai primi di quello successivo, e di storia del mercato dell’arte per quel che è venuto dopo.

Si può vedere la cosa anche da un’altra angolazione. In ulteriori commenti alla vicenda del water di Cattelan ho trovato citato più volte il nome di Slavoj Žižec, filosofo e sociologo sloveno, autore dieci anni fa di un libro, Il trash sublime, nel quale spiega con un’interessante analisi la differenza tra l’arte del passato e quella di oggi. Per l’arte tradizionale – dice – il problema era decorare un luogo per qualche motivo “sacro” o speciale, un tempio, una piazza, un palazzo, con oggetti all’altezza, che ne completassero ed esaltassero la sacralità, l’unicità, la bellezza. Col tempo però questi oggetti si sono per così dire autonomizzati, hanno acquisito un valore “artistico” in virtù delle proprie caratteristiche, cioè indipendentemente dallo spazio che potevano occupare. Ma contemporaneamente l’oggettificazione dell’opera, la possibilità di replicarla, di serializzarla e di trasformarla in merce ne ha annullate la portata e la valenza artistica.

Ora, cos’è che può sfuggire a questa mercificazione? Solo gli oggetti non “serializzabili”; ovvero gli scarti. Ma gli scarti sono fuori luogo per antonomasia, sono le cose prive di valore, non traducibili in denaro, che indicano una resistenza alla pervasività del consumo, alla logica del capitale e al circuito del mercato. E assumono valore “artistico” non per caratteristiche positive intrinseche, ma quando sono collocate nei luoghi sbagliati. Quando sono appunto fuori luogo. Questo non può che farci riandare all’orinatoio-fontana di Duchamp, e trova poi la sua massima espressione nelle Merde d’artista di Piero Manzoni: «Le feci di Manzoni, in quanto “esposte” nel chiuso di un barattolo di latta, divengono oggetto d’arte perché, scarto tra gli scarti, è sotto gli occhi di tutti e non nel privato del bagno di casa Manzoni».
È senz’altro una lettura interessante, ma mi convince sino a un certo punto. Senz’altro non è stato azzeccato l’oggetto simbolo: perché anche la merda si presta a una produzione seriale, e considerata nel contesto della produzione artistica contemporanea, Cattelan compreso, non appare così fuori luogo. Ne è anzi la più riuscita sublimazione simbolica.
A pensarci bene siamo comunque alla chiusura del cerchio. Le deiezioni di Manzoni, a sessantacinque anni dal loro inscatolamento, hanno finalmente trovato il luogo più congeniale in cui essere esposte, tornando là dove giustamente dovrebbero esse. Nel frattempo però gli “scarti tra gli scarti” sono stati anch’essi serializzati. Sono contenuti in novanta scatolette da trenta grammi ciascuna, e il valore loro attribuito è quello del pari peso in oro. Gettati nel water finirebbero per intasarlo, esposti in un museo irridono a tutto quel che è venuto prima e tolgono significato a quel che è venuto dopo, compresa la illuminante analisi di Žižec.
Rimango dunque fermo al giudizio mio di cinquant’anni fa. E mi sembra anzi più che mai in tema.



