di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022
Tag: estetica
Estetica per palati ordinari (introduzione al volume)
di Paolo Repetto, 30 aprile 2021, prefazione a Estetica per palati ordinari, vol. VII di Opera omnia ed altri scritti, 2022
Ho raccolto in questo volume diversi interventi che in qualche modo possano essere ricondotti alla formulazione di una estetica. Con due scopi: il primo, molto pratico, di avere disponibili in un unico contenitore cose disperse nella torrenziale produzione di un trentennio; il secondo, di provare a rintracciare in un pensiero da sempre espresso in maniera frammentaria e occasionale un minimo di continuità, ma anche, nel caso, di rilevare le discontinuità, i mutamenti dello sguardo. Di dargli insomma una parvenza un po’ più sistematica.
Il caos è rimasto, ma un paio di risultati li ho ottenuti. Intanto mi sono reso conto che l’argomento è stato tutt’altro che secondario nel mio percorso, perché veramente, in varia forma, l’ho affrontato un sacco di volte: e questo spiega la scelta di distribuire gli scritti in tre sezioni, che vanno a costituire tre libretti distinti. Poi ho potuto rilevare che col passare del tempo la tematica estetica ha teso a diventare tutt’una con quella etica.
I materiali raccolti sono per la maggior parte già comparsi in altre raccolte: li ho qui integrati pescando in ciò che ho salvato del mio epistolario, ragion per cui in molti casi gli interventi risentono di un tono decisamente colloquiale e del tipo di relazione che mi lega all’interlocutore.
“Giovane, prendi e leggi. Se potrai arrivare sino alla fine di quest’opera sarai capace di capirne una migliore. Io mi sono proposto più che d’istruirti di esercitarti e perciò m’importa poco che tu adotti le mie idee o che le rifiuti, purché esse abbiano ricevuto tutta la tua attenzione. Uno più esperto di me t’insegnerà a conoscere le forze della natura; a me basterà di averti fatto mettere alla prova le tue” (Diderot, Pensieri sull’interpretazione della natura, 1753)
Il catalogo è questo (appendice a Reazioni acide)
di Paolo Repetto, 30 aprile 2021, appendice a Reazioni acide (2016)
Eccolo. Non ho saputo resistere. Una bozza di catalogo alla fine l’ho redatta. Confesso che un po’ mi vergogno, perché a questo punto rischio di rientrarci di diritto: ma mi ha divertito riconoscere nelle diverse fenomenologie un sacco di conoscenti. Penso che tutti possano farlo, magari guardando anche a se stessi. Potrebbe riuscire salutare. E allora inserisco il catalogo a parte, come appendice. Chi ritiene sia un esercizio decisamente stupido può evitare di leggerlo.
Una cosa però vorrei chiarire. Si tratta di un divertissement alla francese, che significa parlare d’altro, uscire un po’ dal seminato, non di un divertimento all’italiana: non c’è niente di umoristico nell’ignoranza.
E adesso, via col catalogo.
- a) Si può partire dalle forme di ignoranza “storiche”, quelle proprie di ogni tempo e paese. La manifestazione più comune è quella che abbiamo già incontrata. Potremmo definirla ipocrita, perché si maschera di una disarmata umiltà (Sai, sono ignorante!) ma in realtà significa: La stai prendendo troppo alta, non è il caso e non mi interessa. É la determinazione a vivere la propria ignoranza come un alibi, invece che come stimolo ad una maggiore conoscenza (che già è assicurata dal solo mettersi in discussione), e gioca d’anticipo. In qualche caso diventa anche sarcastica: “Accidenti, che discorsoni!”, mi sono sentito dire a commento del fatto che parlando di un film western mi era scappato di tirare in ballo Kant. Sembra una stupidaggine, ma il tono la dice lunga.
- b) C’è l’ignoranza tignosa. Il tignoso non ha una vita e una via propria, campa degli errori altrui. Può apparire una forma anomala di ignoranza, perché per cogliere gli errori occorre conoscere la versione giusta: ma anche l’uso non corretto e non propositivo della cultura è ignoranza. Il tignoso gioca un’eterna partita a scacchi tutta in difesa, non azzarda una mossa ma aspetta di prenderti in castagna, approfittando del fatto che ogni tanto (o molto spesso) puoi contraddirti, o spiegarti male. Si può anche arrivare alla tignosaggine storica: Ma tu, nel 1970 hai detto che … dimenticando che probabilmente hai pensato qualcosa di diverso a trenta, a quaranta, a sessant’anni. La cosa potrebbe in fondo vellicare la nostra vanagloria: ma allora, se ricorda ancora cose che io ho dimenticato, significa che mi ascoltava. Forse, ma solo per riporre le nostre parole in un cassetto, aspettando il momento per sbattercele in faccia.
- c) C’è l’ignoranza invadente. Al polo opposto di quella ipocrita. È quella di chi sa già tutto, di qualsiasi cosa si parli. In versione soft può essere a volte persino divertente (ma alla lunga, meno). Ricordo un amico al quale bastava sentir citare il titolo di un film, un modello d’auto, una località sperduta, perché ti raccontasse la trama o ti fornisse una carta tecnica con recensione critica incorporata, senza mai averli visti. Alla fine inventavamo film o viaggi esotici solo per godere del suo enciclopedico sapere. La versione intermedia è costituita da quello che non interviene ma ammicca con sufficienza, a significare “ma si, cosa mi stai a raccontare, sono cose scontate e risapute”. E c’è infine la versione pesante, quello che non ti lascia nemmeno finire e parte in quarta a sciorinarti la sua versione, naturalmente più aggiornata della tua, e definitiva, magari intercalando ogni tanto con un: “Ma, attenzione …”, per ammonirti a non perdere una sillaba del verbo e a sforzarti di capire qualcosa che è un po’ al di sopra delle tue possibilità.
- d) C’è l’ignoranza ieratica. È tipica di coloro che hanno trovato “la verità”, e non sentono il bisogno di cercare oltre. Se ne fanno sacerdoti. A volte sono invadenti, ma in genere sono condiscendenti: guardano con commiserazione chi ancora si attarda lungo la via. Sono gli integralisti di qualsiasi causa, religione, ideologia, dieta alimentare. Con loro non c’è possibilità di comunicare, si ricevono solo rivelazioni.
E queste riassumono le manifestazioni più classiche. La fenomenologia dell’ignoranza si è però molto arricchita negli ultimi tempi, con nuovi ingressi o con l’esplosione di vecchie abitudini che una volta rimanevano al coperto.
- e) C’è ad esempio una ignoranza sospettosa. Quella di chi sospetta di tutto, tranne che della propria ignoranza, ed è quindi portato a leggere in qualunque cosa tu dica il tentativo di dargli in qualche modo una fregatura. È una tipologia da sempre diffusa, ma oggi conosce un fortissimo incremento, soprattutto tra le persone che arrivano a ricoprire ruoli per i quali non sarebbero assolutamente adatte. C’è un vero e proprio modello “manageriale” creato dalle nuove scuole di settore, che inculcano la convinzione che si viva in una gabbia e si debbano sbranare gli altri per non essere sbranati. Quindi, quanto più hai coscienza negativa della tua inade-guatezza, tanto più devi aggredire ogni interlocutore e creare astio e competizione tra gli altri.
- f) Rientrano nella casistica precedente, ma meritano una citazione a parte, i parenti poveri dei “maestri del sospetto”. I rappresentanti dell’ignoranza complottista. Sono coloro che scorgono ovunque indizi di un complotto a livello mondiale, ordito di volta in volta da lobbies plutocratiche, dai Savi di Sion, dagli extraterrestri infiltrati nelle banche, nei parlamenti, nei giornali o nelle scuole. Insomma, tutti quegli idioti che la cultura del web ha moltiplicato in maniera esponenziale, e proprio attraverso la rete hanno trovato ultimamente dei veicoli di aggregazione e di pseudopresenza politica. Un tempo erano remissivi, cullavano le loro fantasie nel privato o in piccole cerchie, leggevano Peter Kolosimo o Il mattino dei maghi e finiva lì (con qualche scantonamento nelle formazioni di estrema destra). Ora, trovata la via democratica del web, alzano la testa e si sfogano sparando insulti e scemenze sui social.
- g) C’è una un’altra particolare forma di ignoranza di matrice ideologica, parente della precedente, e apparentemente residuale, perché potrebbe essere definita “di sinistra”. È caratterizzata dal rifiuto di vedere la realtà delle cose, o di vederla sempre con gli occhiali dell’ideologia, e si è creata uno zoccolo duro nel secondo quarto del secolo scorso, dopo la rivoluzione russa e ai tempi di Stalin, con qualche strascico sino agli anni ottanta. A posteriori riesce difficile pensare come si siano potute avvallare tante porcate, ma in qualche misura è anche comprensibile, se non giustificabile. C’era almeno un’idea, per quanto confusa, alla quale tutto, compreso il buon senso e la verità, andava sacrificato.
L’ignoranza ideologica odierna invece giustificazioni non ne ha proprio, un po’ perché volendo le informazioni giuste si possono trovare, un po’ perché sembra una determinazione a non sapere per potersi attaccare a qualche slogan o bandiera e non prendersi la responsabilità di pensare. È particolarmente irritante perché appartiene soprattutto ai più giovani (negli anziani non dà più nemmeno scandalo, è solo patetica), usa un linguaggio obsoleto, ha adottato come forme di lotta l’irriverenza e lo sballo.
- h) C’è un’ignoranza semplicemente maleducata. L’ignorante maleducato tipo è quello che pone la domanda e non ascolta la risposta: i modelli di riferimento sono l’intervistatore televisivo o il partecipante ai dibattiti. È una tipologia oggi diffusissima, che presenta almeno tre varianti principali. Ci sono interlocutori che hanno un loro discorso da fare e considerano il tuo come un trattino o un segno di interpunzione, per cui riprendono imperterriti da dove si erano interrotti per respirare. Ci sono poi quelli che si guardano attorno, metaforicamente e non, per vedere se stanno al posto giusto, se sono “inquadrati”. Accade di norma in occasione di conferenze cui “segue dibattito”, di Eventi con la maiuscola che danno punteggio per la sola presenza, ma lo raddoppiano se è una presenza “attiva”. Infine ci sono quelli che, ad esempio nel mezzo di quella che dovrebbe essere una conversazione allargata, non solo mandano saluti e sorrisi alla platea, ma smanettano sullo smartphone, controllano il telefonino ed eventualmente messaggiano,
- i) Un’altra tipologia, anche questa decisamente nuova e in espansione esponenziale, soprattutto tra i più giovani, è quella dell’ignoranza tecnologica. Riguarda la capacità di usare strumentazioni sofisticatissime, con potenziali teoricamente illimitati, senza uno straccio di idea di cosa farne. Non mi riferisco solo ai ragazzi (ma anche agli altri) che rimangono incollati tutto il giorno al display o al monitor, ma anche a livelli professionali. Ho avuto recentemente esperienza con una troupe televisiva armata di uno strumentario che avrebbe fatto invidia a Cecil De Mille, e incapace totalmente di rendersi conto cosa valesse la pena inquadrare (ma erano convinti di saperlo benissimo, di sapere cosa voleva il pubblico, e in questo stava la loro arroganza). È un risultato del passaggio dall’usare lo strumento al mettersi al servizio dello strumento.
Non voglio però rubare tutto il divertimento. La mia ricreazione è terminata, e con essa il mio catalogo. Consideratelo un’opera aperta. Adesso sbizzarritevi un po’ anche voi.
Questione di gusti
di Paolo Repetto, 30 aprile 2021, introduzione a Estetica per palati ordinari, vol. VII di Opera omnia ed altri scritti, 2022
Il modo migliore per introdurre questo volume è chiarire il senso del titolo: ovvero, cosa intendo per estetica e, prima ancora, per “palati ordinari”. Quale ne è l’oggetto, e quale la destinazione.
Parto da quest’ultima perché il sostantivato Estetica, proposto con l’iniziale maiuscola, parrebbe rimandare immediatamente ad una particolare “dignità” degli argomenti trattati, mentre l’aggettivo che connota l’utenza, ma anche una veloce scorsa all’indice, sembrerebbero escluderla. Devo giustificarne allora l’uso, e credo sia possibile farlo solo precisando a chi ho scelto di rivolgermi. Non ho usato infatti “ordinari” per rispettare equilibri metrici o perché mi suonava bene. L’ho scelto a ragion veduta.
Ordinario è il contrario di raffinato, elegante, ma nell’accezione che ne dò io non è affatto sinonimo di volgare. Potrebbe semmai essere apparentato a rude, che a sua volta non è sinonimo di rozzo o triviale. E ancora, indica qualcosa che non è fuori del comune, eccezionale, extra-ordinario appunto, ma rientra tranquillamente nell’ordine, nella norma, se vogliamo anche nella banalità.
Il palato ordinario cui mi riferisco è quello educato a un regime alimentare di sopravvivenza, che non prevede raffinatezze o preziosità, ma è sufficiente a tenerti in piedi e può essere insaporito dalla fame e dalla fantasia. Questa è stata, letteralmente, la mia dieta nell’infanzia e nell’adolescenza, con una madre che ricombinando in mille modi quattro ingredienti essenziali, provenienti tutti dall’orto, dalla stalla o dal pollaio, è riuscita a sfamare e a soddisfare per anni un marito e tre figli con stomaci da lupo.
Ma è stata anche la mia dieta culturale: non potendo fare conto su una biblioteca domestica e nemmeno su una pubblica, o su parenti che fossero andati oltre la quinta elementare, ho imparato subito a integrare il rancio passato dalla scuola con quello che potevo raccattare da vecchie riviste, dai pochi libri strausati che approdavano a casa mia, dalle immagini che scorrevano sullo schermo del cinema parrocchiale (la televisione è arrivata molto dopo, almeno in casa mia).
Con questo non rivendico alcuna eccezionalità: non ho la sindrome del genio cui la vita ha negate le condizioni e le occasioni per esprimersi. La condizione di cui parlo era comune alla gran parte dei miei coetanei ancora negli anni cinquanta dello scorso secolo, fatta salva forse la passione per i libri. E di occasioni ne ho poi avute, sufficienti a farmi capire che non sprizzavo scintille di genialità, ma soprattutto che mi andava bene anche così. Parlo invece di una gavetta della quale vado fiero, e rispetto alla quale non ho recriminazioni o rimpianti: in realtà non potevo desiderare di meglio, anche se all’epoca non lo sapevo (ma nemmeno mi sembrava una gavetta). Ne sono uscito con un fisico a prova di montagne, di studenti e di macchine agricole, ma soprattutto non ho mai sofferto di inappetenza, di noia da sazietà, né fisica né culturale, e certe caratteristiche del gusto giocoforza acquisite non le ho più dismesse. Fuor di metafora, sono rimasto onnivoro, con qualche giustificata eccezione, in tutte le direzioni: e non nel senso che mi faccio piacere tutto, ma che tutto continua a incuriosirmi e a sorprendermi (non sempre in positivo, naturalmente).
Questo preludio potrebbe far supporre un’attitudine particolarmente rilassata e indulgente con gli interlocutori (in questo caso, con i lettori). Non è affatto così. In realtà, proprio perché conosco tanto i costi quanto le gioie di una cultura conquistata con i denti, sono molto esigente. Scrivere mi diverte, e vorrei che anche gli altri leggendomi potessero divertirsi; ma non lo considero un risultato sufficiente, non scrivo per strappare un sorriso o un complimento, scrivo per pensare, e come Diderot (fatte le debite proporzioni) ho anche l’ambizione di indurre qualcun altro a farlo. Questo dunque esigo: che mi si legga non per nutrirsi delle mie idee (ci mancherebbe altro), ma per trarre lo stimolo a produrne in proprio. E non avendo granché da offrire a palati già avvezzi alle raffinatezze, mi rivolgo a quelli ordinari, a chi riesce a trovare sapore e nutrimento anche in una cucina “povera”. I requisiti essenziali di un palato ordinario sono semplici e solidi: un sano appetito e un buon apparato digerente. Su questa base si può già costruire una convivialità genuina, divertita e reciprocamente appagante.
E veniamo finalmente all’oggetto. A ciò che viene offerto in questo volume. Il titolo è indubbiamente ambizioso. Pretendere di definire Estetica i frutti di una bulimia culturale tanto disordinata può sembrare eccessivo. Ma proprio perché educato a non andare troppo per il sottile lo trovo appropriato. E poi, è vero, sono ammassate qui dentro cose molto diverse tra loro, ma tutte in fondo attengono alla sfera del gusto. Volevo offrire un repertorio delle immagini che hanno impressionato la mia mente, così come in altri volumi ho raccolto le storie, le parole, le vicende di uomini e di popoli, i pensieri, ecc…, : e lasciare poi che fossero quelle a disporsi autonomamente lungo una linea di coerenza, o che fosse il lettore a rintracciarla. A rigor di termini è un’estetica monca, perché mancano quasi completamente i suoni, ed è un’assenza imperdonabile. Ma non avendo alcuna preparazione musicale di base mi riesce molto difficile raccontare, tradurre in parole quelle impressioni. Che ho accumulato, e sono state importanti, ma meriterebbero di essere trattate con un minimo di competenza. Così le tengo per me.
Per chiarire meglio le mie scelte di campo sono però obbligato a questo punto ad alzare un po’ il tiro: non ho la pretesa di impartire lezioni di filosofia, ma voglio evitare che il tono dell’aneddotica precedente faccia apparire del tutto arbitrario l’uso del termine estetica. Per questo, un accenno alle etimologie e ai significati diversi che a quel termine possono essere conferiti devo farlo.
Άἴσθησις in greco significa “sensazione”, e il verbo αἰσθάνομαι indica “percepire attraverso i sensi”. Col tempo l’Estetica è diventata una branca della filosofia, ma originariamente non era così: il termine stava semplicemente a designare quell’aspetto della conoscenza che passa attraverso i sensi. Verrebbe spontaneo dire che ogni tassello del nostro sapere arriva di lì, ma in proposito i greci (e tutto o quasi il mondo antico) la pensavano diversamente. Nell’ambito dell’idealismo platonico, ad esempio, questa conoscenza godeva di una considerazione scarsa, a tutto favore di quella che si riteneva discendere direttamente dal regno delle idee (ovvero da modelli conoscitivi che si supponevano presenti a priori nella nostra mente). Il rapporto che la conoscenza sensibile aveva con la produzione artistica, poi, non era del tutto chiaro. Per Aristotele, ad esempio, dalla contemplazione della natura e dal tentativo di imitarla che sta alla base dell’opera d’arte l’uomo trae sia sapere che piacere: questa attività consente inoltre alle idee, che scaturiscono esclusivamente dalla mente dell’artista, di manifestarsi tradotte in materia. Platone andava giù molto più duro nel rifiuto di ogni tipo di conoscenza di origine sensoriale: per lui l’arte è imitazione non della realtà, ma solo di quella copia confusa e sbiadita della realtà che i sensi consentono di cogliere. La esclude persino dal progetto educativo, perché a suo parere può corrompere gli animi, distoglierli dalla vera ricerca.
Tutto questo riguarda però un processo creativo che i greci chiamavano poiesis, all’interno del quale erano accolte tutte quelle forme espressive non direttamente dettate dalle nostre esigenze quotidiane, e concernenti le cosiddette arti visive (quali architettura, scultura, pittura), quelle letterarie e quelle dello spettacolo. Per questo la teoria greca dell’arte si chiama poetica, e non estetica. In sostanza, per i greci estetico è rimasto sempre un aggettivo neutro, indicante semplicemente una modalità di percezione, e non un parametro valutativo.
L’uso di estetico a designare sia il rapporto di creazione che quello di fruizione dell’opera d’arte è invece piuttosto recente, risale in pratica al Settecento (lo si può attribuire al filosofo tedesco Alexander GottliebBaumgarten, che nel 1750 pubblica un trattato intitolato appunto “Aesthetica”) . Questa nuova accezione è stata poi sviluppata in profondità da Denis Diderot nel TraitéduBeau. Il senso estetico (e quindi l’idea del bello) è per Diderot il frutto della relazione tra l’oggetto artistico e chi lo percepisce in base alla propria sensibilità individuale. “Estetico” è il “rapporto” soggetto-oggetto: non c’è uno schema codificato, un parametro unico per la bellezza. Questo rapporto può cambiare infatti nel tempo e nello spazio, ed è condizionato da innumerevoli fattori, ambientali, culturali, caratteriali dei singoli. Non siamo all’“è bello ciò che piace”, perché del motivo per cui una cosa piace si danno poi articolate spiegazioni, ma insomma: quel che importa però è che Diderot liquida l’idea di un “bello” che deve valere allo stesso modo per tutti perché rispondente ad una norma “esterna” universale.
Il tema è affrontato poi in maniera decisiva da Kant, espressamente nella “Critica del giudizio”, ma già prima nella “Critica della ragion pura”: e proprio qui si trova quel che a me interessa. Dicendo che noi percepiamo attraverso i sensi e filtriamo e assembliamo queste percezioni attraverso le “categorie”, ovvero attraverso una grammatica del gusto già iscritta nel nostro cervello, Kant da un lato si riallaccia a Platone e ad Aristotele, dall’altro anticipa tutte le più moderne teorie cognitive. Teorizza in fondo quel che oggi le neuroscienze asseverano, e cioè che noi possediamo delle facoltà innate di riconoscimento di determinate forme o colori o azioni, che ci portano ad apprezzare o meno particolari oggetti o particolari comportamenti. La “relatività” dei gusti ipotizzata da Diderot esiste anche per lui, ma solo sino ad un certo punto: oltre quello, intervengono criteri di valutazione sui quali ancora oggi si discute, ma solo per stabilire se siano frutto di una lenta evoluzione o di transizioni repentine determinate da mutazioni genetiche. Voglio dire che ad esempio noi riconosciamo in natura il ricorrere di forme, di colori, di combinazioni delle une o degli altri, che ci suggeriscono un certo ordine naturale, un equilibrio, un’armonia, e ne siamo in qualche modo tranquillizzati. Altre cose invece ci lasciano sgomenti, perché non riusciamo ad inquadrarle correttamente, e altre ancora addirittura ci ripugnano, perché avvertiamo delle evidenti distonie, che fanno scattare i nostri campanelli d’allarme. Con tutte le differenze che si possono trovare tra le varie culture, e che sono spiegabili con fattori ambientali e storici, è comunque evidente negli umani una identica disposizione “recettiva” di base.
Kant fa dunque riconfluire nell’estetica i due filoni di pensiero sull’arte e sul bello, fondendo assieme la semplice dottrina della sensibilità antica e il più complesso discorso settecentesco sul rapporto soggetto-oggetto e sulle nostre capacità di “comprensione” sensoriale e di catalogazione mentale. Di fatto, introducendo il concetto di giudizio riflettente getta le basi dell’estetica moderna.
Sarà poi Friedrich Schelling a superare le premesse kantiane, facendo dell’Estetica una vera e propria filosofia dell’arte. Ma qui mi fermo, un po’ perché la faccenda rischia di diventare noiosa, ma soprattutto perché sarebbe inutile, dal momento che quando parlo di Estetica io non restringo affatto l’applicazione del termine al campo di quella che a vario titolo viene considerata arte.
Quella di cui propongo qualche esempio in questo volume è infatti una estetica del quotidiano, che si fonda sulla convinzione che ogni cosa, ogni gesto, possono essere esteticamente valutati, e che il criterio primo di valutazione sia capire se chi crea o chi agisce lo fa nel modo migliore possibile. Il che ci conduce in sostanza dritti dritti all’Etica, ma non sacrifica a quest’ultima, in nome di valori più alti, dettati dalla nostra autonoma volontà razionale (l’imperativo categorico kantiano), la dimensione del piacere. Tradotto, significa che ciò che è eticamente buono non può riuscire che esteticamente bello, e viceversa (καλὸςκαὶἀγαθός era la definizione greca).
Il che è meno semplicistico e scontato di quanto possa apparire: o almeno, esige che si abbia chiaro cosa intendiamo per buono e per bello. Per me è buono ciò che giova agli altri, o quantomeno non arreca loro danno, e offre a me una gratificazione estetica. Rispetto ad un gesto, ad una azione, il criterio prescinde da quanto quest’ultima possa essere faticosa, pericolosa, o addirittura apparentemente inutile: rispetto ad un oggetto, o a una situazione, prescinde dalla sua immediata utilità. Il muratore che al termine della sua opera si sofferma a considerare criticamente l’appiombo o la compattezza di una parete, il contadino che si compiace del parallelismo perfetto dei solchi appena tracciati, l’insegnante che vede attorno a se volti attenti e curiosi in attesa che la spiegazione prosegua (so che sembrano immagini da libro Cuore, ma io sto parlando di una situazione ideale, quella cui si dovrebbe almeno tendere) traggono da una sensazione estetica, da una gratificazione sensoriale, una conferma etica: hanno fatto un buon lavoro, indipendentemente da quelli che potranno esserne col tempo gli esiti (che comunque, con questa premessa, hanno maggiori probabilità di riuscire positivi). Tutto qui, e non mi pare poco.
In sintesi:
a) Sto parlando di una Estetica del concreto, dell’essenziale. Amo il romanico, il barocco mi riesce indigesto. Nelle persone, come nelle cose, bado alla sostanza. Questo fa sì che sia anche molto diffidente nei confronti delle sperimentazioni, dell’innovazione, e segnatamente di quelle contemporanee, che il più delle volte si risolvono in pacchianate fini a se stesse o al mercato. So che l’evoluzione, dei costumi, delle tecniche, e di conseguenza anche del gusto, è nell’ordine delle cose e della natura umana in particolare, ma non credo che il nuovo rappresenti in automatico un valore positivo. Le novità, laddove finiscano per imporsi, vanno semmai valutate quando non sono più tali, quando (e se) diventano appunto prassi ordinarie.
b) Dire che bado alla sostanza implica che non riesco a tenere distinta l’opera dall’autore, al contrario di quanto il canone critico moderno imporrebbe. Sono consapevole del fatto che questo atteggiamento costituisce un limite, perché con tali premesse diventa poi difficile spiegare come possa piacermi Thomas Mann, ma io tendo a considerarlo invece uno scandaglio di profondità: consente in molti casi di scoprire quali deserti spirituali si stendono come nei western all’italiana dietro le facciate di cartapesta delle parole (vedi alla voce: Sartre): oppure, al contrario, aiuta a cogliere la bellezza non immediatamente evidente di un percorso genuino (questo mi pare fondamentale, ad esempio, nei confronti dell’arte contemporanea).
c) La mia è dunque anche un’estetica dell’esemplarità. Pretendo coerenza tra ciò che si predica e ciò che si fa. Posso apprezzare l’intelligenza di Rousseau e di Voltaire, posso in qualche caso condividerne le idee, ma è una condivisione “fredda”, che rimane molto in superfice, non accomunante. Il mio modello illuministico è invece Diderot, che opera concretamente, e si assume la responsabilità piena delle sue azioni, pagandone anche pesantemente il prezzo. Ogni sua parola mi riesce credibile perché so che ha il corrispettivo in un comportamento conseguente. Non mi accade lo stesso con i suoi due contemporanei. E non è questione di integralismo: condivido ad esempio quasi nulla dell’immagine che Cèline dà degli uomini e del mondo, ma gli riconosco la coerenza, e questo mi permette di confrontarmi antagonisticamente con lui: lo riconosco almeno come un interlocutore.
d) È pertanto un’estetica della responsabilità. Ritengo che chiunque agisce a qualsiasi livello, e tanto più se opera in un ambito “culturalmente” rilevante, nel senso che ha o presume una particolare visibilità e una ricaduta significativa sulla sensibilità collettiva, abbia la responsabilità di fronte a se stesso e agli altri di farlo al meglio. Nei confronti di se stesso perché le cose fatte bene, almeno in ragione delle singole possibilità, danno di per sé una gratificazione che giustifica e allevia ogni sforzo e ogni sacrificio (che nel momento in cui si entra in quest’ottica non sono nemmeno più tali). Di fronte agli altri perché trasmettono l’esemplarità di cui parlavo sopra, e in essa risiede il loro reale valore, indipendentemente persino dal risultato.
L’estetica dell’esemplarità non impone naturalmente di essere esemplari, o di proporsi come tali, in ogni attimo della propria vita. Non è l’imitazione di Cristo. Va intesa semmai come il risultato a posteriori di scelte comportamentali compiute di volta in volta “responsabilmente”. Consegue all’assunzione di responsabilità, non la detta. Voglio dire che queste scelte dovrebbe essere tali, perché “belle e buone” in sé, e darmi la stessa gratificazione, anche se vivessi su un’isola deserta.
e) È infine anche un’estetica universale. Credo in regole universali del gusto. Non pretendo che agli altri piaccia quel che piace a me, ma ritengo esista un minimo comun denominatore la cui soglia tutti, lo vogliano o meno, sono in grado di riconoscere. Se il mondo ci appare pieno di brutture non è perché ognuno ha ricevuto un imprinting morale ed estetico diverso e adotta differenti criteri, ma perché la gran parte degli umani non ne segue alcuno. Ovvero, non si assume alcuna responsabilità.
Forse ogni ragionamento sull’estetica dovrebbe partire da questo dato.

Fenomenologia dello spirito lermese (prefazione al volume)
di Paolo Repetto, 30 marzo 2021, prefazione a Fenomenologia dello spirito lermese, vol. VIII di Opera omnia ed altri scritti, 2021
I pezzi in “vario stile” raccolti nella Fenomenologia dello spirito lermese possono dare l’impressione di un raffazzonato coacervo, anziché della disposizione in un discorso coerente. Non posso negare che almeno tecnicamente le cose stiano davvero così. Dopo aver organizzato per temi tutti i precedenti volumi mi sono infatti ritrovato in questo ultimo a far coesistere interventi in apparenza molto diseguali, per ambiti, per toni e per consistenza.
Considerati a posteriori, però, questi materiali tanto disomogenei non sono, nel senso che rappresentano comunque tasselli di quella ininterrotta storia di me che ho cominciato a scrivere già sessant’anni fa, nei primi componimenti delle elementari. E anzi, ne restituiscono forse gli aspetti più immediati, quelli legati alla quotidianità del sentire, dell’agire e del confronto con gli altri, piuttosto che alla sporadicità di una riflessione più mirata. Ciò giustifica anche l’inserimento di stralci della mia corrispondenza, perché lo scambio epistolare è senz’altro una delle voci più attive in questa vicenda (spero) di crescita.
Nella prima parte del volume ho dunque raccolto considerazioni, aneddoti, ritratti di amici vivi o scomparsi, che prendono lo spunto da vicende e persone reali, anche se tendono sempre a trasfigurarsi, nella luce ovattata del ricordo, in immagini cinematografiche. È la vita che ho vissuto, mentre sino ad ora ho raccontato soprattutto come avrei voluto viverla.
In questo vissuto lo spazio indubbiamente maggiore lo ha occupato la scuola: le esperienze e le riflessioni maturate nell’appassionato rapporto con essa costituiscono l’oggetto della seconda parte.
Infine, ho inserito in appendice un omaggio (sotto le specie del catalogo di una mostra organizzata un quarto di secolo fa) a quello che ritengo, assieme al cinema, un caposaldo fondamentale della mia formazione: il fumetto western. Non aveva trovato spazio, per motivi tecnici, nel volume dedicato all’estetica, e mi è parso doveroso proporlo ora in questa raccolta, sia pure in una versione “povera”, non colorata, che sacrifica la gran parte del suo fascino e del suo significato. Era una questione di completezza e un obbligo di riconoscenza.
La gran parte dei materiali qui raccolti risale ad un’epoca della mia vita non solo lontana, ma anche molto diversa. È possibile che la differenza rispetto ai pezzi di recente composizione si noti. Spero almeno che nel frattempo non sia mutato troppo lo spirito che motivava la scrittura, e che l’assieme non faccia a pugni.
Se in un giorno di ordinaria epidemia Diderot e George Romero si incontrano in una villa abbandonata …
di Stefano Gandolfi, 22 novembre 2020
Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè.
Accidenti, Paolo. Che “sturm und drang” ho scatenato con una innocua passeggiata rigorosamente entro i confini del comune di Alessandria (vedi “Estetica delle macerie ed etica delle rovine“), studiata su carta escursionistica 1:25000 con accurata analisi dei limiti comunali per non rischiare multe da lock-down (guai ad entrare nei comuni di Pietramarazzi o Montecastello!), dopo aver escluso brutalmente tutti i territori a ovest-sud-est della città per tragica piattezza dei suddetti e aver trovato l’unica ancora di salvezza nei primi rilievi a nord, sopra Valle San Bartolomeo, gli arcinoti viottoli e sterrati nei pressi del maneggio e del ripetitore, battutissimi da pedoni, ciclisti e cavalieri, ancor di più in questi mesi nei quali il popolo italiano si è scoperto e inventato una vocazione allo sport outdoor! E dove si può provare l’ebbrezza di arrivare a ben 250 metri di altitudine sul livello del mare e di compiere, con opportune varianti, fino a 200-250 metri di dislivello. Perché come mi hai diagnosticato magistralmente, la mia indole di trekker d’alta quota mi porta in sofferenza dopo poche centinaia di metri piatti e orizzontali e il mio debito di ossigeno trova sollievo solo in quei minimi, insignificanti saliscendi che con molta e fervida fantasia mi trasportano sulle Alpi, sulle Ande, in Himalaya, beh, anche sul Tobbio, certamente!
Dunque, una semplice passeggiata, ma con sorpresa: i ruderi di Villa Garrone, ben nascosti nella fitta boscaglia che la circonda. Tu la hai già descritta con dovizia di particolari, quindi non mi dilungo su questi dettagli. Affascinante, misteriosa, inquietante quel tanto che basta da non desiderare più di tanto di essere lì di notte (ahh, mica per paura di presenze aliene e demoniache lovecraftiane, bensì molto più pragmaticamente per le possibili presenze umane che con ogni probabilità ne fanno sede periodica di raduni e consumo di sostanze terrene). Urbex: certo, anche passione e mania fotografica, da eterno ragazzino mai adulto quale sono mia nipote Fiorenza non ha faticato granché per contagiarmi con questa “insana” bizzarria, lei molto più avanti su questo terreno con incursioni in ville abbandonate, alberghi, terme, manicomi, edifici da archeologia industriale e tutto quanto è stato abbandonato dall’uomo. Quante ore a fantasticare con lei su una folle incursione a Prypiat, l’epicentro dell’esplosione di Chernobil (siamo poco normali? va bene, ce ne faremo una ragione!).
E poi comunque Poe, Lovecraft, Matheson, la cosiddetta letteratura di serie B sull’orrido, l’ultraterreno, sulle sudicie creature striscianti che riemergono dagli inferi, e anche G. Romero col primo mitico “Zombie” nel quale, con genio e intuizione a mio avviso insuperabile individuava in un ipermercato il fulcro dell’inizio della fine del genere umano, l’ultimo avamposto di una (inutile) resistenza con i segni già avanzati della rovina, del degrado, della marcescenza del contenuto consumistico ivi contenuto.
Sono partito col botto? Certo, anche perché nulla potrei aggiungere o discutere su quanto hai saggiamente esposto in merito alle macerie e alle rovine e quasi necessariamente (ma non forzatamente) devo iniziare da un punto di osservazione diverso, da buon fotografo devo fare un’inquadratura non banale e non scontata, e forse la chiave di lettura più utile al dibattito è quella relativa all’unico aspetto che forse non hai preso in considerazione, quello della natura.
La convivenza fra naturale e artificiale, il conflitto fra uomo e ambiente, lo scontro fra tecnologia e primordialità, l’inquinamento e la devastazione del pianeta in nome della scienza, del progresso e delle sorti magnifiche e progressive del genere umano, gli effetti collaterali terribili e forse irreversibili derivanti dai comportamenti dell’attuale dominatore del mondo (intendo l’uomo rispetto agli altri animali, non l’ex-presidente U.S.A.!), il negazionismo di Trump (eccolo) sui cambiamenti climatici, il menefreghismo della Cina e dell’India, l’ipocrisia di noi poveri e ininfluenti europei che taciamo sui 500.000 morti annui per cause da inquinamento e poi ci piangiamo addosso per i morti da COVID, legittimamente e inevitabilmente, beninteso: sono Medico, non eretico né negazionista, ho totale assoluta consapevolezza della attuale tragedia ed empatia umana per le vittime dirette e indirette, non voglio sottrarre nulla a tutto questo, semmai vorrei aggiungere anche altri problemi, altre cifre, altre criticità che spesso e deliberatamente vengono ignorate.
La natura, dunque. Certo. Ma anche l’uomo, perché no, solo declinato in qualche variante minoritaria, sconfitta, sparita dalla faccia della terra ma non per questo perdente. Sconfitta non dalle armi, ma dal raffreddore, dall’influenza, dalla sifilide a loro sconosciute e quindi senza alcuna difesa immunitaria, come successo agli Inca da parte dei civilizzatori cattolici spagnoli.
Cosa c’entra tutto questo con Villa Garrone? Ci arrivo subito.
Perù, tanti anni fa, ma potrebbe essere oggi. Cuzco, l’antica capitale incaica. Una strada, apparentemente secondaria, insignificante, un muro di un vecchio edificio, niente di rilevante, sembrerebbe. Poi te la fanno vedere. Una pietra con 12 angoli. Perfettamente incastrata, con perfetti angoli retti, e incernierata con altre 12 pietre, senza chiodi, viti, calce, cemento o quant’altro. 13 pietre squadrate a mano, con precisione millimetrica a sostenere da secoli il muro di una casa. Sopravvissuta a decine e decine di terremoti, mentre gli edifici costruiti dagli spagnoli e dai loro discendenti, regolarmente, ad ogni terremoto, crollavano.
Machu-Picchu, la capitale imperiale. Resti, certo, ma ancora perfettamente integri, solidi, neppure minimamente scalfiti dai terremoti. Archi e portali costruiti con una certa inclinazione e una certa angolatura che li mettevano al riparo dai sismi più apocalittici. Progettati dai loro ingegneri, apparentemente senza alcuna conoscenza scientifica, perlomeno quelle che intendiamo noi oggi.
Ti sembro forse in contraddizione con l’assioma (ovvio, viste le premesse che ho fatto) che la natura è dannatamente superiore all’uomo in ogni sua manifestazione? No, voglio solo dire che l’uomo ha saputo costruire meraviglie e con sistemi meravigliosi, che resistono nel tempo, non immortali ma sicuramente molto longeve. Ma gli uomini che hanno saputo fare questi prodigi, sono stati sconfitti, annientati, annichiliti da altri uomini che non sanno (quasi mai) costruire case antisismiche e che disprezzano completamente il rapporto con la natura.
E sono gli uomini che attualmente hanno il dominio sociale, economico, politico, militare sul mondo. E che abbandonano i loro manufatti alla rovina. A Machu-Picchu e a Cuzco non ho mai avuto un’estasi della rovina e del declino della civiltà umana, ma sempre e solo grande ammirazione per queste civiltà passate. A Villa Garrone tocco con mano il degrado, il declino, l’incuria della nostra civiltà. Non so che farci, sicuramente non sono oggettivo e parto prevenuto, ma questa civiltà della quale volenti o nolenti facciamo parte non mi sta simpatica; troppo arrogante, troppo presuntuosa, troppo convinta che l’armamentario scientifico, tecnologico che possiede e mette in campo sia superiore ad ogni legge della natura, che possa dominarla, modificarla a proprio piacimento senza preoccuparsi delle conseguenze e dei danni che invece provoca, senza peraltro nemmeno ottenere quei risultati millantati, visto che la durata media di tutte le moderne costruzioni umane è ridicolmente inferiore a quella delle costruzioni dei nostri antenati, a ogni latitudine e longitudine.
La povera Villa Garrone è probabilmente una vittima innocente di questi mie strali, ma come tanti altri edifici analoghi diventa per me simbolo di un modo di essere, di vivere, nel quale non si dà più valore a nulla, tutto diventa superfluo, obsoleto, sostituibile, perde valore con noncuranza e perde anche quel senso di legame emotivo, psicologico con gli affetti, con le persone, con le vite stesse che sono state vissute a contatto con questi manufatti.
Tutto può essere ricostruito con facilità senza minimamente preoccuparsi del significato economico, materiale ma anche e soprattutto psicologico del passato, recente o remoto che sia. Si distrugge tutto con voluttà, con violenza, per speculazione, per guadagno, per ingordigia, per costruire oleodotti, autostrade, ferrovie, aeroporti, centri commerciali (George Romero!!!!), tutte cose che a loro volta potranno tranquillamente essere demolite per qualcos’altro. Incessantemente. Si costruisce qualunque cosa e nulla di ciò che si costruisce ha alcun riferimento, contatto, compatibilità, plausibilità di avere un rapporto con l’ambiente in cui viene edificato: e questa estraneità, non appena viene a mancare uno qualunque dei motivi per cui ha senso che rimanga funzionante, fa sì che con grande velocità vada in rovina. Un impianto sciistico dove non nevica più, una miniera da cui non conviene più estrarre minerali o carbone, un albergo dove il turismo è scomparso, un ipermercato non più frequentato perché ne hanno costruito uno nuovo a mezzo chilometro di distanza, un grattacielo perché pericolante, una piscina, un palazzetto dello sport, un cinema, un teatro, un ospedale senza soldi per assumere e pagare i dipendenti, un ecomostro in riva al mare, e potrei continuare a lungo.
E la natura, o ciò che resta di essa, se lo riprende con altrettanta velocità. Lo ingloba, lo fagocita, lo assorbe completamente in spire di vegetazione, di boscaglia che si trasforma in foresta inestricabile. E si prende la sua rivincita. Una vittoria di Pirro, senza dubbio, ma come gli anglosassoni ci hanno insegnato, ci sono anche delle sconfitte gloriose, che danno senso all’inutilità (Mallory e la “conquista” dell’Everest…).
Provo simpatia per questa natura che, non appena l’uomo manda in malora qualcosa, se lo riprende. Ammiro la velocità e l’efficienza con cui lo fa, così come gli enzimi della digestione degradano il bolo alimentare. Rimango affascinato dalla trasformazione di una entità materiale in qualcosa di completamente diverso rispetto alla sua funzione originaria, al suo scopo, alla sua utilità.

Mentre mi aggiro circospetto e con cautela sui pavimenti e sulle macerie di Villa Garrone la mia fantasia vola a immaginare cosa sarà fra dieci, fra cinquanta, fra mille anni. Non provo malinconia, semmai una sorta di eccitazione all’idea della trasformazione, del divenire, del ritorno all’entropia dell’universo, allo sbriciolamento di ogni pezzo di pietra, di legno, di cemento, dei travi, degli infissi, dei vetri, dei cavi elettrici, e al pensiero di come tutto ciò rientrerà a far parte del ciclo degli elementi primordiali della natura, molecole, particelle organiche e inorganiche, atomi. E cosa, a loro volta, diventeranno e di quale organismo vivente faranno parte fra secoli e millenni.
Sono un rinnegato? Disprezzo il genere umano del quale faccio parte? Parteggio acriticamente per la natura vedendo in essa qualcosa di benigno mentre invece sa essere spietata e crudele come e più dell’uomo? No, certo. Però la durezza della natura non è voluta, non è sadica, non è criminale. È e basta, per motivi che a noi sono e devono essere sconosciuti o che forse non esistono nemmeno, è solo il corso delle cose. Distrugge e ricostruisce, con una logica e un’armonia inconcepibile. I più grandi capolavori della natura, i vulcani, le dorsali oceaniche, le montagne che tanto amiamo, sono espressione della mostruosa forza distruttrice e ricostruttiva, quando ammiriamo le forme aggraziate, poetiche, idilliache delle Dolomiti in realtà vediamo semplicemente l’erosione, la fatale inevitabile loro dissoluzione e scomparsa, ma ne rimaniamo affascinati e non proviamo certo angoscia né struggimento, perlomeno io! Quando ho visto da vicino l’Everest e gli altri ottomila himalayani ero ben consapevole di vedere il risultato di eventi geologici di tale potenza da non poter essere compresi dalla mente umana, seppure conosciuti e spiegati dalla scienza. Il ghiacciaio del Perito Moreno che si sgretolava, cadeva nel mare con blocchi delle dimensioni di grattacieli o di portaerei non mi ha intristito né reso malinconico, se non eventualmente per quanto ci sia di intervento umano nel determinare o accentuare il corso degli eventi, i cambiamenti climatici in primis. Ma questi fenomeni di per sé non mi creano angoscia. Panta rei.
No, non rinnego il genere umano e le sue opere, semmai questo tipo di umanità che ha preso il sopravvento, questo pensiero unico del profitto, del guadagno, il Dio crescita, il “potere distruttivo del capitalismo” (sic!), gli effetti collaterali ritenuti indispensabili per il benessere economico, salvo poi cercare maldestramente di correre ai ripari per i danni sulla salute, a curare il cancro, la leucemia, le patologie cardiovascolari, respiratorie e metaboliche da benessere, a giocare a guardie e ladri con la natura, a fare dei danni e poi “guardate come siamo bravi” a trovare dei rimedi che a loro volta, con un perfetto circolo vizioso, creano altri danni che richiedono ulteriori invenzioni per contrastarli; ma intanto l’economia gira, si creano i nuovi vaccini, si aspetterà la prossima epidemia per scoprire nuovamente che i comportamenti umani sono deleteri e dannosi (lasciamo stare le teorie complottiste: fin dal primo giorno dell’ epidemia continuo a sostenere che non è necessario pensare che qualcuno deliberatamente abbia creato tutto questo, è più che sufficiente la situazione ambientale, sociale di certe parti del mondo, l’antropizzazione, la promiscuità con altre specie animali in una elevatissima densità di popolazione, leggersi “Spillover” di d. Quammen che dovrebbe diventare libro di testo in tutte le scuole).
Potrei fare anch’io molte citazioni, mi limito a Tiziano Terzani e al suo struggimento per la devastante perdita di tutte le culture asiatiche spazzate via dal capitalismo e dal consumismo occidentale (aveva già capito tutto, la morte prematura perlomeno gli ha evitato l’amara consapevolezza di aver visto giusto). Questa Cina che coniuga il peggio del capitalismo ed il peggio del comunismo!, scartando come immondizia il suo immenso patrimonio culturale e quel poco che ci può essere di positivo nella civiltà occidentale, in termini di democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti umani (ma che pena: l’Unione Europea non riesce nemmeno a farli rispettare all’Ungheria e alla Polonia, poi ci si indignava perché un po’ di anni fa il sindaco di Milano di allora aveva rifiutato la cittadinanza onoraria al Dalai Lama perché non faceva piacere al governo cinese!).
Non ne faccio una questione politica, sarebbe riduttivo, tu sai come la penso in merito, che si tratti di una posizione assolutamente trasversale che ha a che fare solo con il buon senso e con la lungimiranza del giocatore di scacchi che riesce a vedere non solo la mossa successiva, ma anche la successione di eventi fino alla sesta, settima, ottava mossa…
Certo, Villa Garrone c’azzecca poco con tutto questo sproloquio, sono sicuro che sia stata costruita con tutta la perizia, la competenza, le conoscenze del caso, con l’aspettativa di poter durare il più a lungo possibile, che potesse essere vissuta e abitata dalle generazioni successive, e mi immagino il dolore degli ultimi abitanti nell’essere costretti ad abbandonarla perché magari ne è rimasto uno solo vecchio, acciaccato e magari senza più la possibilità economica di mantenerla. Forse qualche erede esisteva pure, ma non gli interessava più perché ormai viveva in un edificio moderno e confortevole. Chi lo sa. Ma non è questo il punto.
Certo, sono affascinato da queste visioni, inquietato, stupito, ma non intristito, non provo nessuna malinconia. Vedo il corso degli eventi, il fluire del tempo, provo sollievo, come quando sono in cima a una montagna, per la consapevolezza della relatività di tutto ciò che sta sotto, della piccolezza e della precarietà della condizione umana, ma in un modo positivo, perché mi aiuta a ridimensionare e a dare la giusta dimensione e importanza alla sofferenza, al dolore, all’angoscia che sempre di più permeano l’esistenza nei pochi decenni di vita che ci vengono concessi. Penso con serenità alla transitorietà della vita, non perché la disprezzo, tutt’altro: perché la amo immensamente e voglio viverla il più intensamente possibile, ma sempre con la consapevolezza che in qualsiasi momento, qualsiasi evento può annichilire tutto. Non disprezzo quanto vi è di positivo nella scienza, sono ben contento che qualcuno mi abbia tolto il tumore dandomi un bel po’ di anni di aspettativa di vita, ma sono sempre più convinto che mi ritroverò addosso qualche altra rogna, anche peggiore, come “regalino” ed effetto collaterale di questa tecnologia alla quale siamo indissolubilmente legati e costretti ad accettare per sopravvivere.

Tornare all’età della pietra? a vivere in caverne con candele di cera o con un fuoco da mantenere sempre acceso per tenere lontane le bestie feroci? Ovvio che no. Pensare a una via di mezzo? Semplicistico, ma forse inevitabile. Smettere di chiamare Greta Thunberg “gretina”? potrebbe essere un piccolo, insignificante primo passo per l’uomo… riuscire a conciliare la necessità di sviluppo, di crescita economica, di benessere, di garantire lavoro e reddito a tutti con l’esigenza di garantire anche la salute? Non essere costretti a dare con una mano (il benessere materiale) e togliere con l’altra (il benessere fisico e mentale)? Utopistico. Forse… ma se diventasse inevitabile? Comincio a rompermi le scatole di tutti quelli che di fronte ad un discorso del genere lo troncano subito (anzi lo stroncano) con la famosa domanda retorica: “meglio morire di fame o di cancro?”. Perché il cancro si può sconfiggere, dicono. Non sempre e comunque non a costo zero (ne so qualcosa). E allora anche la fame si potrebbe sconfiggere, forse a costi minori se lo si fa con lungimiranza.
In definitiva vado a vedere e fotografare questi edifici, queste rovine, queste macerie semplicemente perché mi affascinano e le ritengo un buon soggetto fotografico, con una loro dignità artistica ed emotiva. Gli altri mille motivi per cui lo faccio li hai descritti magistralmente tu, mi identifico sicuramente in molte delle tue analisi. Ho ancora la curiosità per lo strano, l’imprevedibile, il disordinato, l’anomalo… e questo mi conforta perché la neurobiologia dice che possederla significa ancora essere giovani da un punto di vista biologico! Guardo avanti, e le rovine e le macerie del passato per qualche strano motivo mi stimolano ad un’immagine ottimistica del futuro.
Amo sempre di più la natura con tutte le sue possenti, maestose manifestazioni. Vorrei fotografare le eruzioni vulcaniche, i tornado, le tempeste, non per il gusto del catastrofico né per sentirmi onnipotente e sfidare la sorte (non ne ho più l’età da tempo!), ma solo per il fascino che provo di fronte ad eventi inconsapevoli, casuali, non voluti né creati, senza nessuna volontà di violenza, di crudeltà, di sopraffazione, di istinto sadico ed omicida. Forse per contrapposizione al fatto che nelle azioni umane tutti questi elementi sono ben presenti se non predominanti.
E allora ben venga la boscaglia che fra alcuni decenni avrà completamente fagocitato Villa Garrone. Se ci saremo ancora ne andremo a cercare qualcun’altra. Ma tu, per favore, non puoi venirci e farti fotografare in tuta da ginnastica, mi togli tutto il pathos alla scenografia ed alle suggestioni del luogo! Impara da tua figlia Elisa, perfetta modella chiaro-scura che emergeva tenuamente nei pochi raggi di sole filtranti fra le rovine, nel suo perfetto out-fit all-black!
Il messaggio è stato inviato
Estetica delle macerie ed etica delle rovine
di Paolo Repetto, 4 novembre 2020
“Tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine”
Chateaubriand, Il genio del Cristianesimo
“La storia futura non produrrà più rovine”
Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo
Cammino con Stefano sulla cresta di una collina, nel cuneo di terra che separa ancora per un breve tratto Tanaro e Po, a nord-ovest di Alessandria. Davvero non te lo aspetti un posto così bello, a pochi chilometri da una città tanto piatta e grigia. Queste colline non hanno nulla di selvaggio, sono dolci e ordinate, completamente addomesticate dal lavoro umano lungo i secoli, e non susciteranno mai l’emozione del sublime: ma trasmettono l’idea di un rapporto armonioso con la terra. A me la natura piace anche così, mi piace vederci impressa l’impronta dell’uomo, quando è delicata, leggera.
Ma non sono qui per scoprire il paesaggio, negli ultimi tempi ho già imparato a conoscerlo bene. Cammino invece sulla scia della passione più recente di Stefano, quello per la fotografia di luoghi in rovina o abbandonati (che ha anche un nome, urbex, da urban exploration: inglese naturalmente). Mi incuriosisce. Sono quindi a rimorchio, è lui a guidare, perché ha in testa una meta. Conoscendolo, è probabile che questa meta sia a pochi passi da dove abbiamo lasciato l’auto, ma senz’altro ci arriveremo facendo il giro più lungo possibile e percorrendo l’itinerario più ondulato.
Infatti. Viaggiamo per tre o quattro chilometri su stradine o sentieri fangosi che corrono lungo i campi, fino ad arrivare ad una macchia di verde del tutto inselvatichito e apparentemente impenetrabile. Nel verde si apre però ad un certo punto un piccolo varco, impercettibile al passante distratto. Ci inoltriamo nel folto e all’improvviso, quasi magicamente, siamo di fronte all’edificio.

È una costruzione imponente, tre piani che vanno calcolati con le misure di un tempo, quindi alta ad occhio e croce almeno una dozzina di metri. Ma non è facile farsi un’idea globale delle dimensioni, perché l’edificio non è mai visibile da una sufficiente distanza. Dall’esterno della macchia risulta totalmente nascosto, malgrado l’altezza, dalle piante secolari che lo circondano. Quando si è dentro lo si può guardare solo dal basso. Non riesco a valutare lo stato del tetto, ma i muri perimetrali sono tutti ancora in piedi, e non si vedono crepe. Persino l’intonaco regge, tranne in qualche punto sulla facciata che guarda a settentrione e nel cornicione che aggetta. Tutto il resto, naturalmente, le cornici in muratura degli infissi e i fregi e gli infissi stessi, è in totale rovina. La costruzione è forse databile agli inizi del secolo scorso, magari anche alla fine di quello precedente: lo stile sta tra il Liberty e l’Art Dèco.
Entriamo con cautela, e all’interno lo stato di degrado è ancora più evidente. Calcinacci e vetri ovunque, l’intero soffitto di una sala crollato, tappezzerie a brandelli, vecchie stufe, sedie e tavoli disfatti. Rimane però ancora percettibile quella che doveva essere l’originaria ricchezza e bellezza degli ambienti: nei pavimenti alla genovese, nelle volte affrescate, nelle lunette che offrivano scorci montani o lacustri, in quel che rimane degli armadi a muro, ecc… Mi viene in mente per un attimo la Vill’Amarena di Gozzano:
Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!
Il riferimento non è del tutto appropriato, ma lascia intravvedere quella che ha potuto essere la fase iniziale dell’abbandono (in verità mi viene in mente perché è una delle poche poesie che ancora ricordo, e mi ci aggrappo prima che la memoria sia ridotta come questa casa).
Non ci avventuriamo ai piani superiori perché anche le scale sono fatiscenti, una grossa crepa taglia a metà il primo pianerottolo. Meno che mai osiamo scendere in un buio piano interrato, dove non arriva luce da nessuna apertura. In realtà non credo sia poi così pericoloso, ma l’impressione è che ci si debba muovere con tutta la delicatezza possibile, per non contribuire ad accelerare lo sfascio. È una casa che incute un certo rispetto.
Stefano comincia sparare fotografie, è affascinato dalla rovina, che i raggi filtranti attraverso quel che resta delle persiane ammantano davvero di una malinconica poeticità. Io, dopo il primo momento di sorpresa, e dopo aver appagato la curiosità iniziale, sento invece montare dentro un sentimento che conosco bene. A differenza di Stefano, che è un positivista professo ma sotto sotto subisce un po’ il fascino della decadenza, io di fronte a queste cose sto male. Non accetto alcun tipo di degrado che non sia quello iscritto nei cicli naturali, perché quello non è degrado, è trasformazione. Questo edificio è invece una testimonianza culturale, è cultura che va a pezzi, e allora sento l’urgenza di intervenire, di impedire alla rovina di avanzare. È una
vera e propria sindrome, che rasenta l’autismo: ovunque vada sono immediatamente colpito da quel che è fuori posto, che potrebbe essere migliorato, sistemato, recuperato (così come mi irrita profondamente, nelle persone, ogni comportamento caciarone e scomposto). Una volta a casa di un amico ho rimesso in piedi tutta una serie di anfore abbattute sparse per il giardino, per poi scoprire che erano state messe così ad arte (il senso devo ancora capirlo oggi). Dopo aver restaurato e ridipinto i settanta metri di staccionata che chiudono il giardino di mia figlia a Bournemouth, mi aggiravo per la città a verificare quante altre staccionate avrebbero avuto bisogno di un sano intervento (e sarei stato disposto ad operarlo gratis). Insomma, è una malattia, che però non si limita a un decorso passivo, ma a modo suo mi rende immediatamente operativo.
Anche in questo caso finisco subito a realizzare che si potrebbe intervenire qui, rinforzare là, recuperare materiali, ripristinare. Cerco di figurarmi come potrebbero essere i locali una volta restaurati, e come sarebbe possibile farlo con interventi minimi, puramente conservativi. Mentre Stefano continua a raccogliere immagini, ogni tanto coinvolgendomi anche, comincio a fare mentalmente i conti: un tot a metro per il tetto e per gli intonaci, un calcolo approssimativo per le decorazioni esterne e per gli infissi, una bella botta per il ripristino degli interni. Siamo, molto all’ingrosso, nell’ordine del milione di euro. E questo a condizione di mettere all’opera gente seria, ad esempio i muratori con i quali ho lavorato, fino a pochissimi anni fa, per recuperare la mia casa. Altrimenti la cifra raddoppierebbe, e il risultato sarebbe disastroso. Il tutto naturalmente evitando ogni intromissione delle varie sovrintendenze e degli svariati e altrettanto inutili altri organismi di controllo, oggi tranquillamente indifferenti davanti al fatto che un edifico del genere vada allo sfascio, ma che domani, casomai un folle decidesse di metterci mano, interverrebbero di corsa a imporgli i vincoli più stupidi e le direttive più insensate.
Lascio Stefano a finire il suo servizio e mi aggiro nei dintorni della casa: solo per scoprire che le sorprese non sono affatto finite. Come avrei dovuto immaginare, a pochi metri, ma assolutamente invisibile se non ci si avventura in un altro varco nella boscaglia, c’è un secondo edificio, molto più basso e meno elegante, alle spalle del quale è stato appoggiato in epoca relativamente recente un enorme porticato. Dal porticato si ha accesso diretto ad una cantina. Evidentemente era la residenza dei mezzadri, e deve essere stata abitata o utilizzata ancora per qualche tempo dopo l’abbandono della casa padronale: almeno sino a una quarantina d’anni fa, come testimoniano le botti in cemento e lo stato del tetto. Dalla piccola radura antistante la casa individuo poi quello che probabilmente era l’accesso principale alla villa: un vialone un tempo inghiaiato, fiancheggiato da platani enormi, che scende con dolce pendenza e perfettamente rettilineo per almeno duecento metri, sino ad immettersi nella strada comunale. Ho il sospetto che Stefano lo sapesse, e che saremmo potuti arrivare sin lì tranquillamente in macchina. Ma in fondo sono contento di essermi guadagnato almeno un po’ la gioia della scoperta. Che non cessa di rinnovarsi: dal lato opposto, dando le spalle alla casa, intravvedo un altro edificio ancora. Era la stalla-fienile. Dentro, in mezzo a cumuli di cianfrusaglie d’ogni tipo, ci sono ancora delle vecchie attrezzature per l’aratura con gli animali. Devo aggiornare i preventivi per il restauro, ma rispetto a quanto previsto per il corpo centrale qui sono bazzecole.

Ora la topografia del luogo si ricompone. Si accedeva alla villa dal basso, e la si scopriva mano a mano che si risaliva il viale, mentre i due edifici “di servizio” rimanevano nascosti sino all’ultimo. Il viale si interrompeva in uno slargo alla loro altezza, dal quale con due dolci rampe laterali si guadagnava il terrapieno su cui sorgeva la dimora padronale. L’effetto doveva essere di imponenza e di eleganza assieme.
Continuando a girovagare mi rendo conto che il parco alberato è molto più ampio di quanto immaginassi. In serata poi, tornato a casa, scopro sulla mappa satellitare di Google che in basso, proprio al confine del parco, c’è ancora un quarto edificio, del quale né io né Stefano ci siamo accorti. Tra l’altro, nella visione dal satellite l’assieme appare come un’isola verde in mezzo ai diversi toni del marrone dei campi che la circondano.
Bene, non ho dettagliato questa piccola esplorazione domestica per puro amore di racconto, ma perché mi ha spinto a riflettere molto e perché ancora oggi, il giorno dopo, non riesco a smettere di pensarci. E mi chiedo innanzitutto se, al di là della mia specifica sindrome da dio riordinatore, progetti di recupero come quello su cui fantasticavo ieri sarebbero poi davvero così insensati, anche prescindendo da tutti i fattori emotivi, valutandoli su un piano prettamente economico.
Dunque. Proviamo ad immaginare come potrebbero andare le cose in un paese normale. È difficile, perché intanto in un paese normale un edificio del genere non sarebbe in quelle condizioni, sarebbe già intervenuto qualcuno, qualche ente, qualche istituzione, per impedirne la rovina. Se da noi questo non avviene non è perché la cosa sia impossibile, ma perché siamo un popolo di idioti. E certamente, se ogni progetto lo parametriamo a quest’ultimo dato di fatto, allora possiamo abbandonare in partenza. Io sto ragionando per assurdo, ma in questo caso non è assurdo il ragionamento, quanto piuttosto il fatto che in questo paese non lo si possa nemmeno fare.
Allora, rimaniamo nella fanta-utopia (mi ci sono affezionato) del “paese normale”. Se fossi io il legislatore dopo un massimo di dieci anni di abbandono metterei i proprietari di fronte ad un aut aut: o lo tenete in piedi voi o lo cedete (per una cifra simbolica) alla comunità, che provvederà a farlo. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di espropriare: basterebbe tassare in maniera esponenzialmente salata gli edifici oltre un certo periodo di non utilizzo. Mi si obietterà che il problema sarebbe a questo punto che fare della miriade di edifici di cui lo stato si troverebbe ad essere proprietario, visto che non riesce nemmeno a manutenere le strutture pubbliche di sua pertinenza. È vero: ma io sto parlando di uno stato normale, il che esclude in partenza situazioni come quella italiana.
Comunque, continuando così non si va da nessuna parte. Devo confrontarmi con la realtà: proviamo a rimanere in Italia. Assumendo quello che ho calcolato per la “mia” villa come costo medio di ogni intervento (e credo di essermi tenuto largo, perché per almeno due terzi gli interventi potrebbero essere meno dispendiosi), per recuperare diecimila edifici o luoghi di un certo pregio sarebbero necessari dieci miliardi di euro. Può sembrare una bella cifra, un investimento colossale: e in effetti lo è, lo sarebbe in qualsiasi momento e lo è tanto più in questa nefasta congiuntura di pandemie e di crisi strutturali.
Ma guardiamo a ciò che abbiamo di fronte. Teoricamente l’Italia dovrebbe ricevere nei prossimi mesi un soccorso finanziario nell’ordine di oltre duecento miliardi (il famoso recovery fund). Il condizionale è d’obbligo, perché il soccorso è subordinato alla presentazione di un piano di investimenti credibile e concreto, cosa di cui si hanno mille ragioni per dubitare (detto tra noi, fossi l’Olanda o la Svezia o l’Austria non farei credito di un solo centesimo al nostro paese). Il rischio è che tutto ciò che saremo in grado di proporre si riduca a una serie di interventi di “tamponamento” a pioggia, vale a dire ad elargire soldi destinati a tacitare le proteste, legittime o meno, ma non certo a normalizzare il respiro della nostra economia. Al tempo stesso abbiamo milioni di persone inattive, in parte per una crisi che era già strisciante prima del Covid e che con la pandemia è esplosa, in parte perché l’idea di poter contare su un salario, che sia di cittadinanza o assuma la forma di qualsivoglia altra assistenza, dissuade molti dal cercarsi o dall’accettare un lavoro. E non mi si venga a dire che è un ragionamento “di destra”, perché è solo una fotografia realistica della situazione.
Il lavoro infatti, a volerlo vedere e organizzare seriamente dagli uni e a volerlo fare senza troppe scene dagli altri, ci sarebbe. Basti pensare a tutti gli interventi urgenti di risanamento ambientale, che quantomeno ci metterebbero in sicurezza rispetto agli eventi catastrofici che ad ogni stormir di pioggia devastano il nostro territorio. Sarebbe un investimento ripagato da un riscontro immediato, di tipo occupazionale e non solo, perché smuoverebbe la produzione e avrebbe una ricaduta contributiva sulle casse statali: ma la sua maggior resa verrebbe col tempo dai risparmi sullo stillicidio continuo di interventi d’emergenza. A questo naturalmente andrebbe data la priorità.
Anche quello che ipotizzo io è però un investimento che dà risposte concrete e immediate, oltre ad aprire a quelle a lungo termine. Attivando cantieri per diecimila interventi di recupero di questo tipo si creerebbero come minimo centomila posti di lavoro nel settore edilizio e si metterebbe in moto indirettamente un indotto che ne vale altrettanti. Una volta chiusi i cantieri, rimarrebbero attivi almeno ventimila posti per le attività di manutenzione e valorizzazione di quanto già recuperato, mentre potrebbero partire ulteriori progetti di risanamento “culturale”. Queste attività, se minimamente coordinate e inserite in circuito con altre forme di “offerta” (da quelle gastronomiche a quelle enologiche, dall’escursionismo alle più svariate pratiche di fitness, ci sta di tutto), una volta avviate potrebbero raggiungere facilmente l’autonomia finanziaria. A dispetto della nostra colpevole negligenza siamo ancora un paese ad altissima attrattiva turistica anche nel campo della cultura, e con uno sforzo intelligentemente mirato potremmo offrire quei percorsi alternativi ai grandi eventi, alle mostre-monstre, agli intruppamenti obbligati, che vengono invocati ogni volta che le nostre città d’arte arrivano al collasso, ma per i quali non è mai stato pensato alcun progetto serio.
Ora, mi si farà notare, tutta questa gente va comunque da subito pagata. Appunto. Ricordo che stiamo parlando di un settore nel quale da molto prima del covid una buona metà degli addetti stazionava in cassa integrazione, e la quota è aumentata con la pandemia; quindi si tratta in realtà di gente già pagata con soldi pubblici, e senza alcuna contropartita. Lo stesso vale naturalmente per i percettori del reddito di cittadinanza. Ci sono poi anche le spese per i materiali: ma teniamo presenti le sovvenzioni “di ristoro” che lo stato elargisce alle aziende messe in crisi dalla pandemia e dalle misure restrittive: con le stesse cifre si potrebbe acquisire già gran parte del fabbisogno. Anche in questo caso, sarebbero soldi destinati in parte a rientrare nelle casse dello stato e dell’ente previdenziale, sotto forma di imposte e di contributi. Rimane il tema scottante del tipo di occupazione offerta. Ma mi sembra sia giunta l’ora di mettere in chiaro come girano le cose. Non siamo in grado di creare “posti di lavoro” rispondenti a tutte le aspettative, siamo solo in grado di creare occasioni di lavoro, e dovremmo semmai poi assicurarci che questo si svolga in sicurezza, che sia adeguatamente retribuito, che crei a sua volta professionalità e conferisca quindi dignità. Non ha senso opporre che i nostri giovani, o anche i meno giovani, non sono “preparati” per questi tipi di attività. Nemmeno chi sbarca sulle nostre coste o arriva dall’est nel nostro paese è preparato, ma non tarda ad adeguarsi. Impareranno, e questo sarà per loro un valore aggiunto, oltre al fatto di guadagnarsi uno stipendio e poter fare progetti per il futuro. Se invece per quei duecentomila posti dovremo reclutare polacchi o senegalesi, ben venga allora anche l’immigrazione clandestina.
Sono scaduto nello sproloquio da allenatore da bar, di quelli che non saprebbero gonfiare un football ma disquisiscono dei moduli di gioco. Io però non voglio fare l’allenatore, altrimenti mi sarei dato alla politica. Voglio semplicemente dimostrare che una scelta del genere in Italia non si farà mai non perché impossibile, o insensata, ma perché ogni cosa, ogni idea, ogni progetto deve confrontarsi da noi con la vischiosità degli apparati, l’inossidabilità dei privilegi, le gelosie e le ripicche tra i vari enti, lo scaricabarile tra le diverse istituzioni, e non ultimo con una malintesa, ipocrita ed egoista concezione della libertà. Non ci vuole una gran fantasia ad immaginare il balletto dei bandi e degli appalti truccati e dei ricorsi, la sequela delle lungaggini e delle assurdità burocratiche, il gioco delle tangenti e degli interventi della magistratura, il veto a prescindere dei sindacati e degli ispettorati e delle associazioni di difesa dei chirotteri o delle piante spontanee, il traffico dei subappalti, tutta la polvere e la sporcizia insomma che un qualsiasi progetto qui da noi va a sollevare. Ma le cose sono complicate solo perché rese tali da una assoluta mancanza di senso dello stato, di onestà, di competenze, di buona volontà, ecc…: tutti vizi che non attengono al naturale ordine del mondo, ma solo a una particolare disposizione negativa che ci portiamo dietro. Non possiamo imputare il nostro perenne stato di emergenza al fato o ai complotti orditi alle nostre spalle dai poteri forti, ma solo alla nostra riluttanza ad assumerci, a qualsiasi livello, una qualsivoglia responsabilità, dalla nostra tendenza a sentirci sempre creditori nei confronti di tutti, della nostra meschina corsa a scovarci alibi per non fare nulla.
Con queste premesse è evidente che uno i progetti non dovrebbe nemmeno immaginarli. Forse farei meglio a restarmene nell’utopia del paese normale. O forse ci sono rimasto davvero, perché da ieri non faccio che parlare con gli amici di questa cosa, e oggi ne ho già sguinzagliati un paio in cerca di informazioni sulla proprietà. Avessi trent’anni di meno, e quattro soci armati di buona volontà, altro che recovery fund! Accoglierei in cima al viale la delegazione olandese, e si toglierebbero tanto di cappello.

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“Le allegorie sono nel regno del pensiero
quel che le rovine sono nel regno delle cose”
Walter Benjamin
Dopo la visita alla villa abbandonata, sopiti un po’ gli entusiasmi restaurativi, mi sono trovato a riflettere su un tema di ordine più generale, che meriterebbe dunque un approccio più serio e ponderato: infatti ho qualche esitazione a trattarlo in questo contesto. Ma non sapendo se e quando potrò tornarci su, colgo almeno l’occasione per anticiparlo.
Constatavo, anche in rapporto alla nuova passione di Stefano, che stiamo tornando ad una “estetica delle rovine”, ciò che ci rimanda a quanto accaduto nella sensibilità occidentale un paio di secoli fa, verso la fine del XVIII secolo. Erano stati infatti Winckelmann e poi Goethe ad elaborare questa particolare teoria del sentimento del bello, ispirati non a caso proprio dai loro soggiorni in Italia (e sempre non a caso Winckelmann in Italia era stato ammazzato). Il riferimento era naturalmente alle rovine dell’antichità (stava nascendo l’archeologia classica, erano state da poco riscoperte Pompei ed Ercolano), che si rivelavano essenziali per ri-educare il gusto moderno alla bellezza: da esse si poteva inferire la forma originaria e pura delle opere greche e romane, e ciò, al di là dell’appagamento “sensoriale”, emotivo, doveva indurre alla ricerca, all’imitazione e alla riproduzione di quella bellezza. Non solo di quella artistica: quel mondo poteva darci lezioni sul piano giuridico, legislativo, sociale. Il neoclassicismo non era un moto di reazione agli sconvolgimenti rivoluzionari. Era figlio legittimo dell’Illuminismo. (“Le idee che le rovine suscitano in me sono grandiose”, scriveva Diderot , uno dei Maestri del mio personalissimo pantheon: e, nel mio piccolo, sembrano sortire anche su di me lo stesso effetto).
Ma quel figlio non era l’unigenito. La stessa antichità che alimentava il sogno neoclassico poteva ispirare anche altre fantasie, meno serene; il passato nel quale i classicisti identificavano un modello riproponibile per il presente poteva apparire come un mondo splendido e maestoso, ma irrimediabilmente perduto (si pensi a Piranesi: nelle acqueforti sulle antichità romane esprime la nostalgia per un mondo ideale, per un’epoca incomparabile, ma ormai chiusa e irripetibile: di fronte ai resti colossali dei Fori imperiali non si abbandona a una pacata contemplazione, è scosso da una forte emozione) e suscitare nell’artista moderno un senso di impotenza e di frustrazione (mi viene in mente L’artista commosso dalla grandezza delle rovine antiche, di Füssli. In quella sanguigna c’è davvero tutto il conflitto degli opposti sentimenti, commozione per la grandezza delle opere classiche e frustrazione per l’insostenibilità del confronto).
Del resto, anche gli illuministi non si sottraevano alla riflessione malinconica. Lo stesso Diderot aggiungeva: “Percorriamo le devastazioni del tempo, e la nostra immaginazione disperde sulla terra gli edifici stessi che abitiamo. Sull’istante, la solitudine e il silenzio regnano intorno a noi. Restiamo soli di tutta una nazione che non c’è più: ecco l’abc della poetica delle rovine. […] Tutto passa, tutto perisce. Soltanto il mondo resiste. Soltanto il tempo continua a durare. Io cammino tra due eternità. Ovunque io guardi, gli oggetti che mi circondano mi annunciano la fine, e mi mettono in guardia rispetto a ciò che mi attende”. Si riferiva soprattutto agli aspetti naturali (la roccia che sprofonda nella terra o la valle che si frantuma), ma anche, naturalmente, ai ruderi dei sogni umani.

Col Romanticismo si afferma, soprattutto nei paesi nordeuropei, il gusto per le architetture gotiche: si recupera insomma il passato di casa, un passato che si presenta, rispetto a quello classico, più irregolare e informe, e produce una fascinazione d’altro tipo, nella quale diventa dominante la sensazione di angoscia. Le rovine non sono più un raccordo tra passato e futuro. Raccontano qualcosa che non tornerà, che sta lentamente svanendo anche dalla memoria, e costringono a meditare sulla fragilità umana. I segni del tempo, la vegetazione e i muschi che le ricoprono parlano di una natura che si prende la rivincita sulla civiltà e la cultura. Shelley scrive nell’Adonais:
Su, vai a Roma, — che è insieme il Paradiso, la tomba,
e la città e il deserto; e passa dove le rovine s’ergono
come montagne frantumate, e le gramigne
fiorenti e le piccole selve profumate
vestono l’ossa nude della Desolazione …
Magari oggi la sua esortazione sarebbe più tiepida, anche se le gramigne a Roma fioriscono ancora. Le uniche montagne accanto alle quali si passa sono quelle dei rifiuti, e le piccole selve che crescono sui marciapiedi sono tutt’altro che profumate.
Nella pittura di questo periodo è Friedrich a esprimere perfettamente, in dipinti come L’abbazia nel querceto, l’estetica del fascino malinconico e dolente delle rovine. Altro che ponte sul futuro! Il futuro è plumbeo come il cielo contro il quale le mura e gli alberi tutti spogli e rinsecchiti si stagliano. E la processione che appena si intravvede nella fascia più bassa è diretta a un cimitero. Nel suo caso è una forte connotazione religiosa, e per di più luterana, a indurlo a usare le rovine come simbolo e come monito. Ma quel tipo di fascino, secolarizzandosi, tenderà facilmente a scadere, alla lunga, nel gusto per il fatiscente e il macabro: quello che caratterizzerà il decadentismo (e il cui prototipo potrebbe essere La rovina della casa Usher, di Poe)
E si arriva all’oggi, passando per il Novecento. Il secolo scorso ha prodotto in realtà molte più macerie che rovine, e la sensibilità nei confronti di queste ultime è ancora una volta mutata. Ho sottomano Rovine e macerie. Il senso del tempo, un libretto esile e densissimo, nel quale Marc Augé scrive: “Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione, che rivela la follia della storia (le vie di Kabul o di Beirut), e il tempo puro, il tempo in rovina, le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto”. Credo voglia intendere che il cumularsi delle macerie prefigura un mondo senza rovine, nel quale il tempo sarà azzerato e che, per tale ragione, non avrà più storia. Per Augé il senso delle rovine non è storico né estetico, ma puramente temporale. La rovina è un frammento del passato ancora presente, e sottratto alla temporalità delle appartenenze, dell’uso, dei significati. Quindi “contemplare rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare esperienza del tempo, del tempo puro”.
Ma questo cosa significa? Significa che per Augé, illuministicamente, là dove c’è rovina c’è una possibilità, una indicazione di ripartenza: mentre là dove ci sono macerie il tempo viene non solo azzerato, ma abolito. Le rovine tendiamo a conservarle, le macerie possiamo solo rimuoverle, dobbiamo sbarazzarcene. Sottoscrivo in toto, anche dove dice: “Sulle macerie nate dagli scontri che inevitabilmente la storia futura susciterà, si apriranno nondimeno dei cantieri, e insieme ad essi, chissà, una possibilità di costruire qualche altra cosa, di ritrovare il senso del tempo”. A dispetto della mia disposizione congenitamente scettica, non mi sembra un ottimismo forzato e consolatorio: ricordo una immagine, credo sia della biblioteca di Sarajevo, incendiata e semidistrutta nel 1992 (con perdita dell’ottanta per cento del patrimonio librario), nella quale un ragazzo, in mezzo a tanta devastazione e desolazione, sfoglia un libro: e ho davanti quella odierna dell’edificio rimesso in piedi (e in funzione) seguendo esattamente le linee del vecchio progetto. Per quelle macerie, e attraverso quel ragazzo, la storia in qualche modo è ripartita.

A tornare ripetutamente, direi quasi ossessivamente, sul tema delle rovine, nella prima metà del ‘900, è stato Walter Benjamin. Benjamin scrive in un periodo che di macerie ne ha prodotte parecchie, tra le due guerre, ed è comprensibile che vi faccia costante riferimento. In un frammento che è diventato una delle pagine più citate (e abusate) della recente letteratura filosofica scrive (e così lo cito anch’io): “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta”.
Confesso che non mi ero mai soffermato a decrittare l’allegoria racchiusa in questa immagine, mi accontentavo dell’interpretazione più immediata e superficiale. La verità è che non riuscivo affatto a scorgerci tutto quello che Benjamin sembra vedere, e non mi rendevo conto che era lui quello da decrittare, e non Paul Klee. Anche perché il quadro era suo, l’aveva voluto fortissimamente e acquistato, l’ha portato con sé in tutte le sue peregrinazioni, sino all’ultimo, e aveva tutti i diritti di leggerlo come voleva. Forse la passeggiata di ieri mi ha chiarito le idee, e riesco anch’io a guardarlo con occhi nuovi.
La storia si allontana, sia pure camminando a ritroso, da ciò su cui fissa lo sguardo, dal passato. Questo passato può essere percepito come un ammasso di detriti, di macerie, e quindi come qualcosa da rimuovere, magari in maniera soft, diluendolo in tante diverse memorie, come sta accadendo oggi, oppure in modo violento e radicale, cancellandone ogni traccia (penso ad esempio ai roghi dei libri, da Qin Shi Huang a Hitler e all’ISIS, o ai calendari “rivoluzionari” che ripartono dall’anno zero). Per Benjamin invece l’angelo, ovvero il vero senso della storia, “vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto”. Qui il significato è ambiguo, e credo ciò dipenda dal fatto che una prima versione di questo brano era incentrata sulla vicenda personale di Benjamin, su un amore finito e rimpianto. Comunque, è verissimo. Per ciascuno di noi ad un certo punto della vita, quello in cui ci si volge indietro perché davanti rimane ben poco da vedere, le rovine della storia sono i fallimenti, le incertezze e le decisioni non prese, le cose non dette e non fatte, che avrebbero potuto cambiare il nostro destino, il nostro presente e il nostro futuro. Vorremmo poter tornare indietro e riscrivere tutto il libro. Ma il vento, che in questo caso è semplicemente l’inesorabile, naturale scorrere del tempo, volta le pagine che rimangono, e il cumulo che abbiamo alle spalle si innalza.
Se interpretata invece nel suo significato più esteso, quello poi scelto da Benjamin, l’immagine ci dice che in realtà l’unica via d’uscita, per non lasciarci trascinare dalla tempesta che chiamiamo “progresso”, è proprio quella di fermarci, tornare sui nostri passi e “risanare” il passato. Quando dice che la tempesta del progresso spira dal paradiso, Benjamin non intende che è suscitata da una volontà divina o da un fantomatico Spirito hegeliano: il paradiso di cui parla è quello terrestre – sta quindi alle spalle rispetto alla marcia del “progresso”, e non davanti –, e il vento soffia dalle porte che l’uomo ha lasciate aperte uscendone. Quel vento, quella tempesta nascono dalla colpa originaria, dalle scelte errate che l’umanità ha compiuto, che ha cumulato e sparso lungo il suo cammino (le rovine, le macerie) senza averle poi ricomposte. Gli occhi spalancati, la bocca aperta dell’angelo sembrano i tratti tipici di chi all’improvviso si è voltato indietro e si sta rendendo conto, pieno di sgomento, della catastrofe che sta lasciando alle sue spalle (e del fatto che la sua marcia lo allontana dal paradiso).
Quello che l’angelo vede non sono però macerie, ma rovine. Non è tentato di rimuoverle per correre incontro al futuro, ma di ricomporle, per costruire su di esse un futuro che dia senso anche al passato. Esattamente il contrario di quella idea di “progresso” che si fonda sul consumo rapido delle cose e delle idee, sulla rincorsa costante del “nuovo” e sulla forma più efficace di eliminazione delle scorie, che è quella di sotterrarle nell’oblio. L’angelo è fermo. Si è fermato per riflettere e per decidere, malgrado la tempesta lo spinga e non gli consenta di chiudere le ali. E già questo gesto di fermarsi è significativo: vuol dire che il “progresso” così irresistibile forse non è, irresistibile è solo la marcia del tempo, ma la direzione e il posso che vogliamo tenere possiamo ancora deciderli noi.
Per capire meglio la complessa interpretazione che Benjamin dà di questa allegoria riesce illuminante, a mio giudizio, un aspetto del suo carattere che di solito è considerato marginale, e che parrebbe avere poco a che vedere col tema delle rovine. Benjamin era un collezionista. Ma di quelli duri, per i quali la passione diventa quasi (o senza quasi) un’ossessione. Collezionava vecchi libri per bambini, quelli impreziositi dalle immagini di illustratori del calibro di Dulac e di Rackam, ma anche più antichi: e quanto il piacere del possesso fosse vera bibliomania lo dice il fatto che un elenco recentemente pubblicato di questi libri consta di trentasette pagine di titoli. Essendo io stesso un bibliomane patologico non posso che sentirlo vicino, e posso anche immaginare quanto debba essergli costato separarsene quando fu costretto all’esilio. La mania con-divisa mi aiuta però a comprendere anche qualcosa di più. I libri per l’infanzia, e le soprattutto immagini che li adornano, sono il primo (in qualche caso anche l’ultimo) tramite per accedere all’esperienza di una dimensione diversa, più “autentica” di quella reale, che si vive attraverso il gioco. Il bambino fa coi con i suoi giochi “un esercizio dell’inutile”. Parte dalla realtà e dalla concretezza di quei fogli di carta, delle parole e delle immagini che vi sono impresse, e ricombina il tutto a suo modo e a suo piacere, avventurandosi in mondi nuovi, nei quali non valgono regole e logiche e tempistiche prevedibili. (Benjamin era molto polemico con la pedagogia della sua epoca – e lo sarebbe anche con quella attuale – che voleva trasformare i libri per bambini in strumenti di indottrinamento etico e di irreggimentazione disciplinare. Non posso che essere d’accordo: se c’è qualcosa di insopportabile e di ipocrita sono i libri per l’infanzia “educativi” – non parliamo poi del tentativo di piegare all’istruzione i fumetti).
Ma giocare è in fondo anche quanto il collezionista fa con i suoi reperti: “toglie alle cose, mediante il possesso di esse, il loro carattere di merce …. e si trasferisce idealmente, non solo in mondo remoto nello spazio e nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono libere dalla schiavitù di essere utili.” Aggiungerei che redime il mondo dal disordine, disponendo gli oggetti della sua collezione in un ordine spaziale e mentale che conferisce loro un valore diverso da quello d’uso o da quello di scambio. Cancellandone idealmente il prezzo conferisce loro una dignità. Benjamin scrive anche: “Materia in rovina: è l’innalzamento della merce allo stato di allegoria.” Che è perfettamente applicabile tra l’altro al mio modo di collezionare libri, pescandoli là dove già sono rovina, sui banchi dell’usato a un tanto al chilo, e facendoli rifiorire a nuova vita in un orizzonte di senso assolutamente fuori mercato. Con questo il cerchio si chiude.
Adesso mi riconosco perfettamente in questa immagine. Mi sembra rappresenti e riassuma nella maniera più nitida il mio modo di concepire la storia e il nostro essere nella storia. Mi riusciva difficile conciliare le due pulsioni apparentemente contrastanti che mi agitano dentro, quella verso il passato e quella verso il futuro. Pensavo di essere sulla strada giusta, ma mi mancava il conforto di un segnavia riconoscibile. Ora so che quelle due pulsioni possono coincidere, anzi sono un unico moto.
In sostanza, io voglio un futuro che in qualche modo riscatti, dia un senso al passato. Sento una responsabilità, un debito, non solo nei confronti di coloro che verranno, ma anche di coloro che mi hanno preceduto. Per questo, malgrado gli acciacchi, e a dispetto del senso di frustrazione che troppo frequentemente mi tenta, continuo a stare per aria. Ho trovato una corrente ascensionale che mi consente di librarmi senza sbattere le ali (non ne avrei più la forza) e di guardare indietro: le rovine che vedo, quelle che reggono all’erosione del tempo, sono la testimonianza degli sforzi che miliardi di altri, centinaia di generazioni, hanno compiuto guardando a me. Non riuscirò a destare i morti, non ricomporrò i cocci di ciò che stato infranto, ma ricordarli, quello almeno lo posso e lo devo fare. E credo che sino a quando qualcuno lo farà rimarrà aperta la strada per sfuggire alla tempesta abrasiva del “progresso”.
Il mio non è allora un comportamento autistico, ma un impegno etico. In parte ereditato, da una cultura contadina che non buttava nemmeno le unghie del maiale, in parte coltivato, mano a mano che ho cominciato a leggere la storia, anziché come una squallida e assurda tabella di massacri, come un diario della resistenza dell’umanità alla tragica e assieme straordinaria condizione che la natura le ha regalato.
E l’estetica? Me la sono persa per strada? No, semplicemente per me etica ed estetica coincidono. Il comportamento etico non può essere dettato che dalla percezione e dal riconoscimento del bello, in questo caso delle sue vestigia. Una emozione estetica altro non è che il segnale, la luce che si accende su qualcosa che vale, che ha e che dà senso, e va quindi preservato, difeso. Ma anche rispetto a questo atteggiamento vanno fatte delle distinzioni.
Oggi le rovine non sono più consumate solo dal tempo e dall’incuria o dall’indifferenza degli uomini, ma al contrario, dal soffocamento del turismo globalizzato. In un brevissimo saggio scritto a inizio Novecento, che si intitola proprio “La rovina”, e che senz’altro era conosciuto da Benjamin, George Simmel equiparava la rovina alla moda, nel senso che entrambe sarebbero caratterizzate dalla distruzione di ogni contenuto precedente per accedere a una nuova unità. Non sto a raccontare come ci arriva (peraltro, con un percorso un po’ ostico ma illuminante), mi intriga solo l’accostamento, perché in effetti l’interesse per le rovine è stato sempre condizionato, dai giorni del Gran Tour ad oggi, dal fenomeno delle mode. Un tempo era riservato ai rampolli delle famiglie nobili del continente settentrionale e d’oltremanica, poi è entrato a far parte dei consumi di masse sempre più allargate, e motivate sempre più da una necessità di omologazione. Non è nemmeno il caso che stia a ripetere ciò che è sotto gli occhi di tutti e aggiunga la mia ad un coro di geremiadi che fanno ormai parte anch’esse del gioco. Le rovine, così come le bellezze naturali, sono ridotte a elemento scenografico del grande spettacolo non-stop al quale siamo persuasi più o meno velatamente o sfacciatamente ad assistere e/o a partecipare.
Ma qui, nel caso specifico dell’esperienza da cui ho tratto pretesto per queste righe, non di rovine si parla, ma di macerie, e del tipo di fascino, e conseguentemente di disposizione, che inducono. Questo è un fenomeno relativamente nuovo. È già stato fagocitato dalla moda, oggi si direbbe che è diventato virale, e quindi è destinato alla transitorietà: ma non lo liquiderei così frettolosamente. Presenta infatti delle caratteristiche emblematiche dell’ambiguità sottesa ad ogni nostra modalità e finalità di conoscenza. Intanto è una forma di esplorazione, mirata non tanto alla scoperta quanto alla riscoperta. In questo senso, la pulsione esplorativa sarebbe in linea con l’atteggiamento etico di cui parlavo sopra. Cercare qualcosa che si sottrarrebbe, in quanto scarto, alla logica dell’utilità e della mercificazione, e ripartire da quello per immaginare la possibilità di altri mondi. “La rovina innalza le cose allo stato di allegoria”. Ogni scoperta però reca con sé un germe infettivo: produce contaminazione, modifica o addirittura distrugge l’oggetto stesso che l’ha motivata. Gli antropologi ne sanno qualcosa.
Nel nostro caso, di fronte alle macerie della villa, due diversi atteggiamenti possono indurre a fermarle nell’immagine fotografica: quell’immagine può diventare un ulteriore momento dello spettacolo, oppure può documentare qualcosa che non funziona e a cui occorre ovviare. In entrambi i casi quelle macerie diventano funzionali ad altro rispetto a ciò che realmente rappresentano. Ma qui si pone il discrimine tra una scelta estetica, che è di per sé etica, perché orienta il nostro agire, ed una estetizzante, che banalizza nella “spettacolarizzazione” ciò che si è fotografato. L’una ci dice di una volontà di continuità nel tempo, di lettura e recupero del passato in funzione del futuro, l’altra di una plastificazione museale destinata solo al presente, e a un presente esteso, puramente orizzontale, privo di profondità.
Naturalmente queste generalizzazioni hanno senso solo all’interno di una trattazione teorica. La mia esperienza con Stefano, ad esempio, le contraddice. Le sue emozioni, il suo entusiasmo sono assolutamente genuini: e li manifesta attraverso un mezzo che ama altrettanto genuinamente, e col quale riesce a mediare e a ricondurre ad unità quelli che parrebbero interessi sparsi. È anche lui un collezionista di immagini, tratte non dai libri ma dalle tante realtà ambientali e culturali che ha incontrato (l’altra sua passione sono i viaggi). L’elemento unificante è dato dalla costante ricerca della bellezza, intesa come la risultante del lavoro del tempo sui volti, sulle montagne, sui suk arabi, sugli animali africani o sui templi tibetani: di una bellezza che va sottratta alla svendita e al consumo in confezioni cellofanate, con tanto di bollino di conformità, e partecipata invece come condivisione emozionale attiva.
Lo stesso vale per le macerie. Anche nei loro confronti lo sguardo fotografico può essere caldo e partecipe, se a orientarlo c’è dietro un’intenzionalità etica. E questa non è necessario indossarla o metterla nello zaino quando si esce di casa come per partire in missione. Se c’è, se ci è congenita o se l’abbiamo maturata e coltivata, al momento giusto vien fuori. E magari riesce anche a far sì che le macerie diventino rovine, “si presentino – come scrive Augé – a chi le percorre come un passato che egli avrebbe perduto di vista, dimenticato, e che tuttavia gli direbbe ancora qualcosa.
Un passato al quale egli sopravvive”.











