Ernesto De Martino, il nichilismo e noi

con postfazione 2025

di Giuseppe Rinaldi, 12 novembre 2025

Il breve saggio di Beppe Rinaldi che proponiamo non avrebbe bisogno, come del resto gli altri qui comparsi in precedenza, di alcuna presentazione: è già tutto lì. Ma io, che sono incorreggibile, ne approfitto una volta di più per ribadire il concetto che sta alla base dell’esistenza di questo sito: e cioè che l’informazione, la cultura, ogni forma di conoscenza, così come ogni altro mezzo di sopravvivenza, bisogna guadagnarseli. Nella fattispecie, leggendo il testo con la dovuta attenzione, e là dove rispetto a qualche nome, a qualche opera o a qualche movimento non si abbiano i necessari riferimenti, andando a recuperarli. Magari facendo anche un po’ di fatica (la fatica non è una maledizione divina, ma il modo naturale per tutte le specie animali di stare al mondo): che è anche quanto Rinaldi sostiene quale antidoto al nichilismo.

Con questo credo di rispondere a qualche nostro lettore (avete letto bene, qualcuno c’è) che lamenta una marcata discrepanza tra gli argomenti trattati nel sito, nonché nel modo di trattarli. Ora, il concetto è che, si parli di fumetti, di cinema, di scampagnate, di viaggi o di libri di viaggio, oppure si affrontino tematiche più complesse, inerenti la filosofia, la sociologia, la scienza e i suoi derivati tecnologici, a tenere assieme il tutto, e anzi, a spiegare come il tutto si tenga assieme, c’è sempre la volontà di rendere partecipe chi ci segue: intendendo la partecipazione nella valenza più letterale, attiva. Non siamo al ristorante, ma ad una cena tra amici, una volta si sarebbe detto ad un “convivio”, e tutti devono fare del loro meglio: che si traduce nel cercare di farsi capire il più possibile da parte di chi scrive, e nello sforzarsi di capire il più possibile da parte di chi legge. E magari di scrivere a sua volta, se qualcosa non lo convince.

Qui non si dispensa cultura, non si offrono frutti maturi, e neppure si ha la pretesa di insegnare a coltivare l’intelletto: saremmo già felici se riuscissimo a trasmettere lo stimolo a farlo. (P. R.)

1. In un volume[1] collettaneo di Ernesto de Martino, intitolato Furore, simbolo, valore, si trova un breve articolo intitolato Furore in Svezia, che contribuisce al titolo stesso della raccolta. Il furore cui si fa riferimento è un episodio accaduto nel 1956, durante il capodanno, nel centro di Stoccolma: cinquemila adolescenti abbigliati con giubbe di cuoio si erano scatenati e avevano tenuto la strada, molestando i passanti, rovesciando automobili, frantumando le vetrine ed erigendo barricate. Si ebbero scontri violenti con la polizia, si contarono numerosi feriti e molti arresti. Fenomeni analoghi, seppure di minore intensità, si erano ripetuti in quel periodo, nel fine settimana, nel centro di Stoccolma e in altre città svedesi. Il lettore odierno non fa alcuna fatica ad andare con la memoria a episodi analoghi, anche ben più gravi, accaduti nei tempi successivi, fino ad oggi, sia nel nostro paese sia altrove. Si tratta di episodi violenti che si caratterizzano per la loro apparente assoluta mancanza di senso.

2. Già de Martino osservava: «Si tratta di pure e semplici esplosioni di aggressività senza premeditazione e senza organizzazione, senza capo e senza scopo. Gli episodi di violenza non insorgono per qualche cosa e contro qualcuno: inesplicabilmente, come per un richiamo misterioso, gruppi di adolescenti e di giovani, dai quindici ai vent’anni, senza conoscersi tra loro e nulla avendo in comune tranne l’età, formano banda temporanea ed entrano in furore distruttivo. […] Questi ribelli senza causa non si propongono rapina o vendetta nel senso comune di queste parole: sono mossi da un impulso di annientamento delle persone e delle cose, vogliono ridurre in cenere il mondo, far sfoggio della loro potenza di eversione. Nessun legame interpersonale nasce da tali tempestosi assembramenti, da queste orge di furore: le bande temporanee si sciolgono così come si sono formate, senza lasciare traccia di rapporti oltre la scarica distruttiva»[2].

3. Naturalmente già all’epoca in cui scriveva De Martino erano stati avanzati vari tentativi di spiegazione di questi fenomeni. Egli sottolineava tuttavia la non esaustività delle spiegazioni economiche (i giovani in questione non condividevano la stessa condizione sociale, non si trovavano cioè in situazioni sociali ed economiche particolarmente critiche), come pure delle spiegazioni incentrate sull’eccesso di benessere svedese, oppure sulla solitudine delle alte latitudini dovuta ai ritmi naturali della giornata (freddo, mancanza di luce) e invocava l’esigenza di ricorrere al contributo dell’etnologia e della storia delle religioni per comprendere meglio il fenomeno: «Dal punto di vista dell’etnologia e della storia delle religioni il capodanno di Stoccolma e altri episodi affini perdono il loro carattere più preoccupante di assoluta eccezionalità e si manifestano come un pericolo che tutte le epoche e tutte le civiltà hanno dovuto fronteggiare, con maggiore o minore successo. Questo pericolo è l’angoscioso essere afferrati dalla nostalgia del non-umano, è l’impulso a lasciar spegnere il lume della coscienza vigilante e ad annientare quanto, nell’uomo e intorno all’uomo, testimonia a favore dell’umanità e della storia. […] L’etnologia e la storia delle religioni confermano largamente la tesi secondo cui una delle funzioni fondamentali della civiltà consiste nel controllo e nella risoluzione di ciò che Freud chiamò “istinto di morte”, cioè l’abdicazione della persona come centro di decisione e di scelta secondo valori, la tendenza a cancellare dall’esistenza quanto esiste, la cieca tentazione della eversione e del caos, la nostalgia del nulla»[3].

4. Insomma, de Martino ipotizzava una specie di patologia, propria dell’animale culturale, che consiste giusto nel disancoramento dalla propria cultura (che de Martino considerava un artefatto storico) o, se si preferisce, nel disancoramento dal proprio Mondo, e nella conseguente messa in opera di comportamenti distruttivi nei suoi stessi confronti. In seguito al venir meno del legame con la cultura, che dà forma alla storicità delle varie comunità e che dunque così contribuisce a definire i comportamenti e le identità dei singoli, si spalancherebbe l’abisso primordiale dell’assoluto negativo.

Questa condizione, si badi bene, non ha nulla a che fare con l’istinto meccanico dell’animale, regolato e selezionato per secoli dall’evoluzione, che non ha nulla di distruttivo, ma è una situazione potenziale specifica degli umani, nel cui orizzonte culturale può prendere forma qualunque aberrazione distruttiva, contro qualsiasi cosa abbia un significato culturale compiuto, in termini di limitazione, di coerenza, di convenzione, di durata. Ciò può implicare la distruzione di qualsiasi cosa sia comunemente considerata come dotata di valore. Invece di realizzare se stessi in termini costruttivi, attraverso le diverse forme valoriali che la cultura mette a disposizione, si cerca di costruire e mantenere una propria momentanea identità attraverso la distruzione, più o meno sistematica, del prodotto culturale storico che una società è riuscita a mettere insieme.

Non si tratta dunque di una manifestazione culturale nuova, una qualche forma di cultura critica radicale o alternativa, il tentativo di criticare un qualche valore che istituisce un particolare mondo dell’esserci, ma di un gesto distruttivo nei confronti di quello che c’è, di ciò che è condiviso dalla gran parte dei membri di una società. Si tratta di un gesto semplicemente regressivo che evoca modalità infantili e/o primitive di rapporto con l’oggetto e con gli altri.

5. Questa possibilità, insita nell’animale culturale, si scontrava con l’ottimismo storicistico, professato dallo stesso De Martino, secondo il quale, la storia sarebbe il campo della realizzazione costruttiva, o dell’ethos del trascendimento – come egli si esprimeva attraverso il suo linguaggio fenomenologico esistenzialistico. Il furore è dunque un comportamento del tutto possibile per l’animale uomo, un comportamento attraverso il quale l’uomo non riconosce più il proprio stesso patrimonio culturale e lo vandalizza e devasta. Un comportamento determinato da una sorta di affermazione di sé attraverso la produzione del caos, attraverso lo scoperchiamento del nulla, il bisogno di mostrare il nulla che abita sotto la sovrastruttura culturale, di vanificare come illegittimo qualsiasi ordine di valore instaurato. Insomma, la disgregazione al posto della realizzazione costruttiva.

6. De Martino osservava, nel suo articolo, che nelle società arcaiche e nelle civiltà del mondo antico l’abisso primordiale che inevitabilmente si rivela quando viene meno l’identificazione basilare con la propria cultura era ben noto. Esso era considerato come qualcosa di molto pericoloso, tanto che veniva circoscritto e ritualizzato. Egli fa l’esempio del capodanno babilonese, oppure dei Saturnali romani, oppure ancora delle tradizioni carnevalesche.

Così racconta de Martino: «Nel capodanno babilonese il rito disfaceva il tempo trascorso nell’anno spirante, cancellava per così dire la storia che si era accumulata, ed esprimeva un regresso all’epoca mitica delle origini, quando il caos dominava e il cosmo non era ancora stato fondato. In rapporto a questo schema tecnico il rito comportava aspetti di distruzione e di annientamento dell’ordine sociale vigente, come l’umiliazione e l’abbassamento della stessa potenza regale, la simbolica trasformazione degli schiavi in padroni, la violenta eliminazione dei mali fisici e morali contratti nel corso dell’anno spirante, e infine la instaurazione dell’indistinzione originaria del caos. Ma il rito includeva anche l’opposto momento della reintegrazione dell’ordine, e del ripristino dei valori sociali e morali: veniva infatti rappresentata la lotta dell’eroe Marduk contro il mostro marino Tiamat, con la vittoria finale dell’eroe e la fondazione primordiale del cosmo. In tal modo lo schema mitico – rituale del capodanno babilonese consentiva all’impulso di morte di manifestarsi attraverso eversioni e inversioni annientatrici dell’ordine vigente: ma gli impulsi distruttivi non erano fatti valere sul piano realistico, ma su quello simbolico del rito, e soprattutto la vicenda riceveva il suo senso dalla ripetizione del dramma della creazione e della reintegrazione di un ordine nuovo senza macchia, uscito per la prima volta dal caos»[4].

Carattere comune di questi espedienti di manipolazione del nulla e di reintegrazione del significato, di questi artefatti culturali di morte e rinascita, sono la durata circoscritta nel tempo, la cancellazione temporanea dei ruoli e delle barriere sociali, lo scatenamento emozionale, il sacrificio o la distruzione di qualche entità simbolica, la narrazione di miti legati alla questione dell’ordine e del disordine, la reintegrazione dell’ordine. Insomma, si tratta di un modo per evocare l’abisso senza farsene travolgere, un modo per circoscriverlo e per produrre una reintegrazione culturale.

7. In mancanza di una capacità diffusa di reintegrazione, può sopravvenire il fascino del nulla, il nichilismo. Così De Martino aveva interpretato la crisi culturale del periodo del secondo dopoguerra. «È da tempo che una cupa invidia del nulla, una sinistra tentazione da crepuscolo degli dèi dilaga nel mondo moderno come una forza che non trova adeguati modelli di risoluzione culturale, e che non si disciplina in un alveo di deflusso e di arginamento socialmente accettabile e moralmente conciliabile con la coscienza dei valori umani faticosamente conquistata nel corso della millenaria storia di Occidente»[5].

8. De Martino dunque ci avverte che le culture, tutte le culture, anche le più complesse, sono estremamente fragili, che la connessione che si stabilisce tra i corpi biologici e il patrimonio culturale che vien costantemente elaborato e accumulato è estremamente labile, che la cultura, la quale ha il compito di dirigere attraverso i propri valori il comportamento umano, è in fondo un costrutto artificiale, un prodotto non necessario della storia, che avrebbe potuto essere completamente diverso da quello che ci ritroviamo. Si tratta di una forma di rappresentazione o, se si preferisce, addirittura di una illusione, come direbbero volentieri diversi filosofi continentali. Ammesso che così sia, si tratta tuttavia di un’illusione necessaria, poiché quello che siamo in quanto umani è esattamente il costrutto culturale che siamo in grado di produrre e di mantenere, senza farci troppo ammaliare dal fascino dell’abisso.

Postfazione 2025

1. Lo scritto antropologico di Ernesto De Martino, che ho testé presentato e analizzato, ha ben poco a che fare con la tradizione continentale che si è occupata del nichilismo in quanto categoria filosofica. Mi riferisco alla tradizione che ha tra i suoi esponenti principali Nietzsche ed Heidegger, seguiti da una schiera di epigoni. Dato che De Martino, nel suo saggio sul nichilismo, ha preso le mosse dalle manifestazioni del disagio giovanile degli anni Cinquanta, ho pensato di metterlo a confronto con Umberto Galimberti, un rispettabile seguace di Nietzsche e Heidegger, che ha trattato anch’egli della tematica del rapporto tra il nichilismo e i giovani. Credo che il raffronto possa risultare piuttosto utile, anche al fine di chiarire alcuni concetti fondamentali riguardanti il ruolo delle marche emotive e del simbolismo nella costruzione della coscienza collettiva e dell’ordine morale della società. Ciò mi permetterà, indirettamente, di distinguere tra quel che è la teoria sociale, invero oggi piuttosto misconosciuta, e quel che sono certe favole filosofiche che sono invece piuttosto di moda.

2. De L’ospite inquietante[6] – che porta come sottotitolo Il nichilismo e i giovani – di Galimberti mi sono occupato fin dal 2007, quando il volume è uscito. Questo perché lo scritto possiede almeno due livelli di lettura. Il primo è quello dell’instant book sui problemi della condizione giovanile, dove si compiono diverse analisi e considerazioni a partire dai fatti di cronaca e dalla ricognizione di vari elementi empirici relativi al disagio e alla violenza giovanile[7]. A quell’epoca era questo il livello che mi aveva soprattutto interessato, poiché ero allora impegnato in una ricerca sociologica sui giovani. Il secondo livello di lettura, quello più sottile e forse più sfuggente, riguarda invece proprio la questione filosofica del nichilismo. Nell’impianto del saggio di Galimberti, il concetto teorico filosofico del nichilismo – com’è stato elaborato da Nietzsche e Heidegger – viene ampiamente utilizzato in termini esplicativi per dar ragione del disagio giovanile e per proporre addirittura una soluzione che dovrebbe condurre oltre il nichilismo. Qui, indubbiamente, la filosofia si fa antropologia, sociologia, psicologia e soprattutto tecnica terapeutica per curare i mali del mondo. Più volte, nel suo scritto, Galimberti manifesta una certa sufficienza nei confronti delle scienze umane che – in quanto scienze – sarebbero incapaci di fare effettivamente fronte ai problemi dei quali si occupano. Più efficace sarebbe, appunto, la filosofia, almeno quella che intende Galimberti. Questo secondo piano di lettura è quello di cui mi occuperò in questa sede.

3. Non mi occuperò quindi della questione effettiva del disagio giovanile e/o della violenza insita in taluni comportamenti giovanili, argomenti di cui comunque è pervaso il libro di Galimberti, a proposito dei quali va comunque riconosciuto che egli è in grado di fare una miriade di osservazioni senz’altro intelligenti e interessanti. Mi occuperò piuttosto della teoria filosofica sottostante e quindi, indirettamente, dell’annosa questione dell’uso possibile delle teorie filosofiche a fini terapeutici. Vedremo purtroppo come la terapia proposta da Galimberti finisca per costituire essa stessa una delle cause, forse la più importante, della malattia che egli intende curare.

4. Dati i miei scopi, del saggio di Galimberti esaminerò qui soprattutto l’introduzione e le conclusioni. Fin dalle prime battute, Galimberti propone la sua versione del nichilismo: «[…] i giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive ed orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui»[8].

Galimberti dice con chiarezza che il disagio di cui parla è di natura culturale: «E questo perché se l’uomo, come dice Goethe, è un essere volto alla costruzione di senso (Sinngebung), nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde il disagio non è più psicologico, ma culturale. E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un’implosione culturale di cui i giovani, parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato, sono le prime vittime»[9].

5. Insomma, abbiamo ormai una catastrofe culturale alle spalle e la condizione odierna dei giovani sarebbe soltanto una conseguente manifestazione di quanto è già accaduto. Se questo fosse vero, ogni questione di rimedi sarebbe fuor discussione: «Se il disagio giovanile non ha origine psicologica ma culturale, inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura, sia nella versione religiosa perché Dio è davvero morto, sia nella versione illuminista perché non sembra che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini, se non in quella formula ridotta della “ragione strumentale” che garantisce il progresso tecnico, ma non un ampliamento dell’orizzonte di senso per la latitanza del pensiero e l’aridità del sentimento. Le pagine di questo libro non indicano un rimedio di facile ed immediata attuazione. E già questa ammissione di impotenza la dice lunga sulla natura del disagio che, lo ripeto, non è esistenziale ma culturale»[10].

Mi permetto di osservare en passant che le teorie che individuano nella storia un qualche peccato originale funzionano tutte più o meno così. Si tratta anzitutto di individuare dove e quando è avvenuto il fattaccio che a tutt’oggi ci condiziona da vicino e ci impedisce di essere quel che vorremmo o dovremmo essere. Dopo avere fatto con sicurezza la diagnosi, si tratterebbe allora di cercare un rimedio, a proposito del quale, tuttavia, si può essere anche piuttosto vaghi e possibilisti. Ci si può anche limitare a evocare vaghe speranze. Ad aspettare qualche forma di salvazione. O a concludere che non c’è più niente da fare.

6. Nel caso di Galimberti e del nichilismo, la diagnosi è piuttosto precisa: in estrema sintesi è tutta colpa della ricerca esasperata di un senso, la quale ricerca è in corso non da ieri, ma fin dagli inizi della tradizione giudaico cristiana. Più o meno, si tratterebbe di un problema che sussiste fin dagli albori della civiltà, o fin dalla creazione biblica, per quelli che la considerano seriamente.

Nonostante il fatto che la questione, messa così, assuma decisamente una prospettiva epocale cosmico storica, Galimberti, con un guizzo creativo, prospetta comunque il suo rimedio: «E se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per dirla in greco, del proprio “daimon” che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco “eudaimonia”? In questo caso il nichilismo, pur nella desertificazione di senso che porta con sé, può segnalare che a giustificare l’esistenza non è tanto il reperimento di un senso vagheggiato più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre effettive capacità, quanto l’arte del vivere (téchne tou biou) come dicevano i Greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità (gnothi seauton, conosci te stesso) e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà métron). Questo spostamento dalla cultura cristiana a quella greca potrebbe indurre nei giovani quella gioiosa curiosità di scoprire se stessi e trovar senso in questa scoperta che, adeguatamente sostenuta e coltivata, può approdare a quell’espansione della vita a cui per natura tende la giovinezza e la sua potenza creativ[11].

7. Galimberti avanza dunque l’ipotesi (invero piuttosto azzardata) che la ricerca del senso (che secondo lui è caratteristica specifica non degli umani in generale bensì della tradizione culturale giudaico cristiana) potrebbe essere la causa principale stessa del disagio nichilistico, non solo dei giovani attuali, a questo punto, ma dell’intero Occidente. Stiamo male proprio perché siamo costantemente alla ricerca del senso. Il nichilismo che ci attanaglia sarebbe solo la conseguenza estrema della nostra malata ricerca del senso. L’interpretazione di Galimberti qui segue ovviamente Nietzsche più o meno alla lettera.

In alternativa alla prosaica ricerca del senso, destinata a non avere alcuna soddisfazione, destinata anzi a generare proprio il nichilismo, Galimberti propone un ritorno ai Greci. La cosa suona, a prima vista, davvero un poco bizzarra, poiché, per la maggior parte delle persone appena un po’ acculturate, la tradizione giudaico cristiana, è nota proprio per avere incorporato la cultura greca. Dunque la perniciosa “ricerca esasperata di senso” si sarebbe manifestata fin da subito anche e soprattutto presso i Greci. Del resto, la filosofia occidentale, nella comune accezione, si è sempre occupata della ricerca del senso. Fin dai filosofi presocratici.

8. Ma allora, cosa vuol dire Galimberti? Di quali Greci sta parlando? Galimberti è piuttosto ambiguo, poiché parla di un non ben precisato daimon che i giovani dovrebbero imparare a scoprire dentro di sé e a coltivare. Cosa è l’arte del vivere di cui parla? Come dobbiamo intendere lo gnothi seauton? Apparentemente, il discorso di Galimberti sembrerebbe essere di tipo socratico, ma allora non avrebbe senso contrapporlo così decisamente alla cultura giudaico cristiana. In realtà Galimberti ha in mente una ben precisa interpretazione anti cristiana (e antisocratica) della cultura dei Greci, cioè quell’interpretazione alquanto discutibile che ha origine nella romantica Nascita della tragedia di Nietzsche e che poi si è sviluppata, attraverso la filosofia continentale successiva, in Heidegger e nei suoi epigoni[12]. Il recupero del daimon interiore, la pratica dell’arte di vivere, la condanna della ricerca del senso, fanno più che altro riferimento a Dioniso, che per Nietzsche era l’antagonista per eccellenza di Socrate. Il lato alternativo alla cultura greca ufficiale.

9. Solo sotto la luce nera di Dioniso si comprendono, nel fraseggio di Galimberti, “la gioiosa curiosità di scoprire se stessi”, l’ “espansione della vita” e la “potenza creativa” della giovinezza. L’unico elemento, tra quelli citati, che sarebbe estraneo al dionisiaco è il katà métron, che è senz’altro una concessione al socratismo. Qualsiasi misura, infatti, implica, di già, la definizione di un qualche senso. Forse si tratta di un’allusione a quello che, secondo Nietzsche, sarebbe stato il breve momento miracoloso della sintesi tragica tra apollineo e dionisiaco. Galimberti recupererà, nel seguito delle sue argomentazioni, proprio i tratti salienti di una analoga sintesi, o avvento di una condizione di equilibrio instabile, che egli ritrova nelle nozioni da lui proposte del nomadismo e dell’etica del viandante. Cioè, di un pensiero e di un’etica capaci di operare senza alcun punto fisso di riferimento.

Noi nel nostro piccolo avevamo sempre pensato, invece, che coloro che son colpiti dal nichilismo avessero per lo meno bisogno, per uscirne, di qualche punto fisso di riferimento. O al più rimpiangessero di non averne uno. Come ognun vede, quella di Galimberti costituisce un’indicazione piuttosto paradossale, e cioè di procedere a un alleggerimento della cultura, proprio in un’epoca nella quale avremmo decisamente bisogno di più cultura. Un invito a lasciar andare via anche quel poco di senso che c’è rimasto, convinti che l’epoca del senso sia ormai irrimediabilmente finita e, soprattutto, convinti che nel flusso del pensiero e dell’etica nomade staremo tutti senz’altro meglio.

10. Si tratta dunque, secondo Galimberti, di sostituire, alla ricerca considerata ormai vana e superata del senso della vita, una nuova nozione – che a noi parrebbe invero più romantica che greca – della vita come arte totale. Non tuttavia di un’arte meccanica si tratta, e neanche intellettuale, bensì di un’arte intesa come espressione di sé, ove soltanto si potrebbe realizzare il miracoloso equilibrio nomade tra daimon e métron. C’è un punto che a mio modesto avviso va precisato. Tutti coloro che fanno proposte simili, che credono fortemente nella vita come espressione, tendono a dare per scontato di aver dentro una incomparabile ricchezza nascosta, che stia lì, solo ad aspettare di venir fuori. Si tratta solo di togliere via gli impedimenti. In una versione democratica di queste teorie, tutti sarebbero egualmente ricchi di queste mirabili risorse interiori, dunque ci sarebbe abbondanza di speranza per tutti.

Per cui siamo spinti a concludere che la proposta terapeutico – culturale di Galimberti, proprio per i suoi presupposti, non può che risultare del tutto inconsistente. A chi manifesta o denuncia, più o meno consapevolmente, di avere il vuoto dentro, Galimberti sembra prescrivere qualcosa come: «Esprimi quello che hai dentro». O, peggio: «Diventa quello che sei». Quello che hai dentro, oppure quello che sei allo stato originario – a meno che tu non pensi di essere un Dio – altro non è se non il coacervo magmatico delle emozioni, l’istinto di branco dell’animale, il complesso disparato di tutti gli impulsi grezzi, come questi sono prima che siano resi consapevoli ed educati in un contesto culturale qualsiasi. Il risultato di simili prescrizioni, un effetto perverso vero e proprio, non può essere allora altro che proprio il furore di cui parlava De Martino. La terapia culturale proposta da Galimberti potrebbe alimentare e aggravare la malattia culturale stessa che invece egli intenderebbe curare.

11. La strada proposta da Ernesto De Martino è decisamente un’altra. Il nichilismo, lo sprofondamento nel nulla, è un pericolo esistenziale cui è continuamente esposto l’animale culturale umano. Questo accade perché sotto la coperta della cultura – la sola che ci rende quel che siamo – c’è solo la nostra natura animale, positiva e pregevole fin che si vuole, ma pur sempre animale. Quando, per qualche motivo estrinseco, si affloscia l’orizzonte di senso che ci viene dalla cultura – allora perdiamo la storicità, perdiamo cioè il fine, perdiamo il senso dei valori, il senso del nostro impegno nella società e il senso della nostra prassi nella storia. Perdiamo la nostra stessa individualità. Non sappiamo più donde veniamo, chi siamo, dove andiamo. È questo un rischio costante cui l’animale uomo è da sempre sottoposto, poiché esso è – appunto – l’animale culturale per eccellenza. Occorre allora esser consapevoli di questa specifica condizione umana e procedere, di conseguenza, a un’opera costante di reintegrazione, cioè a una opera di manutenzione dei rapporti che intercorrono tra la nostra parte culturale e sociale (quella che è stata definita come l’altro generalizzato[13]) e la nostra parte animale (la natura di cui facciamo indissolubilmente parte).

12. Questa manutenzione dei rapporti tra natura e cultura, dice De Martino, non può limitarsi a essere di tipo meramente individuale, perché andando a scavare nella carne della nostra natura individuale, troveremo sempre e soltanto lo stesso nulla che vi trovano tutti. O, se vogliamo, potremmo trovare quelle poche cose elementari che l’evoluzione ha fatto per noi[14]. La manutenzione del rapporto natura/ cultura non è dunque un fatto privato e personale, deve invece passare necessariamente attraverso i rituali collettivi della cultura stessa. La reintegrazione non può che avvenire attraverso la dimensione simbolica, che è sempre culturale e collettiva, anche quando viene interiorizzata dai singoli. Anche quando ce ne dimentichiamo.

13. L’emersione del vuoto nelle nostre vite, cosa che talvolta ineluttabilmente avviene, non è dovuta all’ospite inquietante di Galimberti, nato dalla tracotanza assiologica giudaico cristiana risalente a svariati secoli or sono. È dovuta alla nostra fortuita e sopravvenuta incapacità nell’uso dei rituali collettivi di reintegrazione a livello simbolico[15]. De Martino, riferendosi alle società semplici, parla in tali casi di cerimonie tribali, parla del carnevale o dei Saturnali. Trasferendo tuttavia l’equivalente di questi rituali nella nostra società occidentale, complessa e tecnologica, i problemi si complicano. Perché cose come il rischio della presenza e la perdita della storicità assumono aspetti del tutto nuovi e imprevisti. E di enorme portata. E così, oggi, l’esigenza dei rituali di reintegrazione si presenta in forma allargata e totalmente nuova. Rispetto alle società primitive, i problemi che abbiamo oggi hanno a che fare in gran parte con l’affievolimento (o la complicazione) dei rituali collettivi in presenza, quelli che chiamiamo face to face. Sono questi i rituali della vita quotidiana di cui ha ampiamente trattato l’interazionismo simbolico. E questi hanno a che fare, anche e soprattutto, con varie forme di sconnessione, nella nostra esperienza, tra le marche simboliche e le marche emotive. È bene ricordare che le marche emotive sono proprio quelle che – dentro di noi – regolano il rapporto tra natura (il corpo) e cultura (il simbolismo collettivo).

14. È da notare che la sconnessione tra l’emotivo e il simbolico si presta a essere molto più frequente in una società complessa piuttosto che in una società semplice. Nelle società semplici difficilmente si sfugge alla mobilitazione delle emozioni intorno al patrimonio simbolico riconosciuto immediatamente da tutti a livello locale. Nelle società complesse, invece, il simbolismo acquista un volume e una autonomia enormi e così può accadere che la dimensione emozionale, collettiva e individuale, venga facilmente sconnessa, oppure possa anche trovare una moltitudine di connessioni improprie.

Basti ricordare come l’isolamento forzato del covid abbia fatto scoprire, a una moltitudine di studenti, solitamente distratti da mille cose, l’essenzialità del rapporto in presenza con gli insegnanti e con la propria classe. Basti ricordare che, di fronte alla crescita degli episodi di violenza tra i giovani, da più parti si richiede l’adozione di una sorta di educazione affettiva, obbligatoria e gestita dalla scuola pubblica. Oppure si ricordi la devastazione operata dagli smartphone, nell’ambito dei rapporti face to face, nei confronti di intere nuove generazioni, come è stato comprovato dagli ormai celebri lavori di Twenge e Haidt. Oppure, ancora, si pensi ai danni colossali per la democrazia causati dal progressivo affievolimento dei rituali formali e informali della partecipazione politica. Ma va notata anche la comparsa di nuovi rituali collettivi decisamente perniciosi – che si servono magari anche delle nuove tecnologie – come quelli del razzismo o del populismo, o di movimenti demenziali come QAnon.

15. Si tratta allora di prendere consapevolezza, di comprendere fino in fondo, anche nel dettaglio delle micro interazioni, come avvenga effettivamente la sempre avventurosa e mai garantita costruzione dei legami sociali e culturali, quei legami che – soltanto loro – sono in grado di tenere a bada il nichilismo, cioè il vuoto di senso. Come avvenga la costituzione stessa della società come entità morale (il termine è di Durkheim). E quali siano invece le forze disgregatrici cui le società vecchie e nuove, sono sottoposte. Le risposte dell’antropologia culturale, della psicologia sociale, della sociologia e della linguistica sono ormai abbastanza chiare e convergenti. Sulla linea di De Martino, disponiamo oggi di una tradizione teorica che comprende figure decisive come Durkheim, Mauss, GH Mead, Merton, Geertz, Goffman, Douglas, Collins, solo per citarne alcune. Abbiamo dunque ormai un’ampia disponibilità di elementi di teoria sociale con cui possiamo effettivamente affrontare i problemi della costruzione del senso, della solidarietà sociale e delle identità collettive. Evitando accuratamente i danni dei deragliamenti nichilisti alla Galimberti. Qui, per esser questa una postfazione, non mi posso dilungare oltre. Se ci sarà qualche interesse, avrò modo eventualmente di tornare su queste tematiche.

OPERE CITATE

1962 De Martino, Ernesto, Furore, simbolo, valore, Feltrinelli, Milano.

2007 Galimberti, Umberto, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano.


[1] Il suggerimento di procedere alla pubblicazione di questo saggio è nato nell’ambito di una discussione, presso Città Futura, ove era emersa l’esigenza di meglio comprendere i fenomeni, sempre più dilaganti e preoccupanti, del disagio individuale, della aggressività e della violenza. Spero che, con tutti i suoi limiti, esso possa fornire un qualche utile contributo. Questo saggio è stato da me originariamente pubblicato sul sito Finestre rotte il 14/10/2012, con il titolo de L’illusione necessaria. Ha poi subito alcuni rimaneggiamenti, fino alla versione che qui presento, con una nuova titolazione, meno metaforica e più aderente al contenuto. Alla nuova versione mi è sembrato utile aggiungere una postfazione, relativamente ampia, che ha come principale oggetto il confronto tra la nozione del nichilismo demartiniano con quella, opposta, del nichilismo filosofico, come trattato nell’ambito della tradizione nicciano – heideggeriana. In questo confronto mi sono servito del saggio L’ospite inquietante di Umberto Galimberti. In calce, ho inserito qualche breve considerazione sui rituali collettivi di reintegrazione come sono oggi concepiti e concepibili nell’ambito delle scienze umane. Nella scrittura non ho utilizzato strumenti di AI.

[2] De Martino, 1962: 225-226.

[3] De Martino, 1962: 227.

[4] De Martino, 1962: 228.

[5] De Martino, 1962: 231.

[6] Cfr. Galimberti 2007.

[7] All’epoca, l’opinione pubblica era stata scossa dai famosi lanci di sassi dal cavalcavia, azione altrettanto priva di senso delle devastazioni di Stoccolma di cui parla De Martino.

[8] Cfr. Galimberti 2007: 11.

[9] Cfr. Galimberti 2007: 12.

[10] Cfr. Galimberti 2007: 13.

[11] Cfr. Galimberti 2007: 14. Le traslitterazioni dal greco sono di Galimberti stesso.

[12] Che questo sia esattamente ciò che ha in mente Galimberti è piuttosto inequivocabile. Soltanto per brevità evito di esaminare, per filo e per segno, tutto il testo, del quale peraltro ho prodotto una ampia schedatura. A testimoniare dell’ispirazione nicciana in questo testo sta il fatto – dettaglio curioso ma significativo – che il penultimo capitolo sia dedicato alle emozioni e alla musica.

[13] Si tratta di un concetto elaborato nell’ambito dell’interazionismo simbolico.

[14] L’uomo, proprio perché è destinato evolutivamente ad avere necessariamente una cultura, è solo debolmente determinato e vincolato dal patrimonio istintivo genetico.

[15] Durkheim, nel suo noto saggio sul Suicidio, ha introdotto la nozione di anomia, che non cessa di essere discussa e utilizzata, seppure con modifiche e aggiornamenti.

Il mastino della ragione

di Nicola Parodi, 11 gennaio 2021

Queste sintetiche note di Nico Parodi rientrano nel dibattito che si è aperto sul sito (era ora!) sulle modalità umane di conoscenza e sulle risposte etiche e pratiche che ne conseguono. Erano state concepite dall’estensore come una risposta privata su alcuni punti sollevati da Carlo Prosperi nel suo ultimo intervento (“L’incostanza della ragione”), ma riteniamo sia giusto pubblicarle come una sorta di lettera aperta, uno stimolo rivolto a tutti ad approfondire ulteriormente le tematiche sin qui affrontate.

Caro Carlo,

posso essere considerato un partigiano della razionalità, ma non la idolatro. L’idolatria, di qualunque cosa, può essere considerata già di per sé una manifestazione di irrazionalità.

Condivido dunque molte tue considerazioni, ma resto molto vigile quando si parla di razionalità. So che la partigianeria può essere intellettualmente pericolosa, e tuttavia corro coscientemente questo rischio, perché mi sento in dovere di difendere il valore della razionalità come strumento di conoscenza, soprattutto di fronte a quello che ultimamente è sotto gli occhi di tutti. Creazionisti, no vax, complottisti e quant’altro non sono un complemento folkloristico. Servendosi dei nuovi strumenti di diffusione di massa, che permettono la diffusione di “memi” eludendo la loro selezione (che invece gli strumenti precedenti di diffusione della cultura in qualche modo operavano. Attualmente certe sciocchezze si propagano con una velocità che nemmeno le peggiori malattie infettive riescono a raggiungere, letteralmente alla velocità della luce) mettono a rischio la conservazione di un livello di conoscenze adeguato, quello che permette alla società complessa da cui dipendiamo di sopravvivere. Non sono il solo a temere il diffondersi dell’irrazionalità, Steven Pinker ha addirittura scritto un libro dal titolo “Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo”.

Una risposta esauriente alle tue considerazioni su quanto ho scritto a commento della tua lettera a Paolo rischierebbe di essere troppo lunga ed illeggibile: sarò pertanto schematico, sperando di riuscire ad essere sufficientemente chiaro per stimolare una riflessione sui vari punti. Altre argomentazioni mi riprometto di esportele in piacevoli chiacchierate, come quelle di una volta.

Premetto intanto che non sono tra coloro che sostengono che la ragione è in grado di dare una risposta certa a tutto. Del resto, l’ho già chiaramente sostenuto «Non siamo in grado di conoscere con sufficiente dettaglio i meccanismi sociali per progettare riforme con la certezza che i risultati corrispondano alle aspettative. Nemmeno la scienza è in grado di dare risposte certe a problemi di tale complessità: ci ha provato sinora solo la fantascienza, con Asimov, inventando la “psicostoria”».

Dunque:

  • Non può essere considerato irrazionalista chi è disposto a confrontare con gli altri le sue idee.
  • Il confronto tra idee che siano frutto di impegno serio può mettere in rilievo differenze di interpretazione della realtà, che dipendono dalle “lenti” con cui si guarda il mondo. La realtà è poliedrica (vedi “Alle radice dell’umano”), e i modi per interpretarla e raccontarla sono molti. Si può ad esempio parlare di amore da poeti, da psicologi, da credenti o in moltissimi altri modi; ma se ne può anche parlare con l’ottica di un biochimico, definendo l’amore come “un effetto dell’ormone ossitocina”. È certo che, chiamiamolo amore o “ossitocina”, senza i comportamenti che ne sono il prodotto non potremmo esistere; e comunque, di solito, è più utile parlarne usando la terminologia “amorosa” piuttosto che quella biochimica.

Chiarito questo, passo a sintetizzare rapidamente le mie idee sui modi e sugli scopi della conoscenza:

  • La vita, come ci spiega Schrodinger[1], si può considerare un insieme ordinato di materia in grado di mantenere il proprio ordine a spese dell’ambiente esterno, di accrescersi e replicarsi.
  • La membrana cellulare separa l’interno di una cellula, un frammento di materia vivente, dal mondo esterno, determinandone l’individualità (un arcaico sé?). La membrana permette però anche la comunicazione tra l’ambiente esterno e l’interno della cellula, producendo, tra l’altro, le condizioni che possono determinare i movimenti cellulari in relazione alle esigenze vitali.
  • Gli organismi pluricellulari hanno sviluppato, nel tempo, un sistema nervoso, che raccogliendo ed elaborando le informazioni provenienti dall’interno e dall’esterno dell’organismo produce le reazioni appropriate (compresi i movimenti) per la sopravvivenza e la riproduzione dell’organismo stesso. In questo quadro il nostro cervello ha assunto le caratteristiche che gli permettono di contribuire al meglio alla sopravvivenza e alla riproduzione degli individui della nostra specie.
  • La funzione del nostro cervello (o mente, se si preferisce) è raccogliere informazioni sull’ambiente esterno, formare delle “immagini mentali” e, in relazione ad altre informazioni provenienti dall’interno dell’organismo, produrre le “azioni” migliori per permettere la sopravvivenza e lo svolgimento della funzione di replicatore del fenotipo “homo sapiens sapiens”.

  • Il nostro cervello naturalmente non è perfetto: deve gestire le informazioni e produrre il risultato in fretta, e quindi si serve di scorciatoie cognitive che approssimano i risultati. La realtà non sempre è semplice, più spesso è complicata o complessa. Anche con i moderni computer occorre ricorrere ad algoritmi di approssimazione per trovare soluzione a certi problemi.
  • Per interpretare il mondo esterno ed estrarne conoscenze che ci servono per scegliere poi i comportamenti e le conseguenti azioni, siamo portati ad attribuire delle “intenzioni” ad altri esseri viventi, ma spesso anche a quelli inanimati. Da questo nascono anche quelle credenze che non si possono definire razionali. I problemi che creano difficoltà di comprensione derivano spesso dalla nostra incapacità di accettare di essere semplicemente degli aggregati di materia ordinata: vogliamo quindi trovare spiegazioni più gratificanti, che ci pongono su una sorta di piedistallo rispetto agli altri viventi.
  • Comprendere anziché condannare. Comprendere, ovvero conoscere, è l’essenza dell’illuminismo. Sapere aude! Se invece a “comprendere” diamo un contenuto empatico, occorre guardarsi dagli errori di valutazione che il giudizio influenzato dalle emozioni fa compiere. Le emozioni svolgono un ruolo importante nel creare comportamenti che uniscono una comunità, ma a volte non vanno d’accordo con la razionalità.
  • Nelle scienze la realtà, l’esperienza, “le prove”, servono a dimostrare la bontà di una speculazione teorica; confermano, non negano.
  • Il vivente deve agire: ma da solo? In un gruppo l’individuo comprende le intenzionalità dei conspecifici e coordina il suo agire con gli altri nell’interesse di tutti. Oltre al classico esempio dei lupi che cacciano in branco, tantissimi altri animali hanno comportamenti collaborativi.

E l’uomo?

  • Il nostro cervello evoluto è in grado di comprendere (sia pure con molte carenze) le regole che fanno funzionare la natura. In conseguenza delle “immagini mentali” che ci siamo formati compiamo delle scelte e agiamo (nella società e nella vita personale). Gli errori possono essere frutto di scarsa conoscenza o di scelte dettate dall’egoismo: in quest’ultimo caso, attribuire errori alla “razionalità” è solo confondere l’uso di ragionamenti ex post, per giustificare le scelte, con deduzioni frutto di razionalità.
  • Gli uomini che agiscono collettivamente modificano non solo la storia ma l’ambiente. Il terremoto è un accadimento, reclutare un esercito e occupare una città è un’azione volontaria organizzata, e se disordinata non funziona. L’inazione è sconfitta. Da non credente riconosco che la chiesa ha fatto bene a inserire tra i peccati anche quelli di “omissione”.
  • Non è la ragione a creare ideologie, sono quegli uomini che si comportano da teologi di teorie scientifiche, sociali o economiche, limitandosi a farsi esegeti di libri sacri che secondo loro contengono la verità, e contraddicendo in questo modo i principi dell’illuminismo.
  • È la ragione o piuttosto la sua assenza a creare l’inebetimento?
  • La nostra non è certo una società modello. Permette la sopravvivenza agevole a qualche miliardo di persone perché è tecnologicamente in grado di sfruttare enormi quantità di energia, ma questo non significa che corrisponda al modello di organizzazione sociale sufficientemente egualitaria e collaborativa a cui si è evolutivamente adattato l’uomo. Alcuni studiosi utilizzano, per esaminare la storia, il modello del macroparassitismo o cleptoparassitismo intraspecifico applicato alle società umane. Potrebbe essere una cifra interpretativa interessante.
  • Quindi, anche se il pessimismo può sembrare il nostro naturale approdo (un po’ per l’età, un po’ per i tempi che ci troviamo malauguratamente a vivere) non possiamo rinunciare alla battaglia per la difesa della cultura: quella cultura che ci consente di incontrarci, sia pure sulle pagine di questo sito, e di confrontarci civilmente, è in pericolo: e non possiamo lasciarla spazzare via dallo straripamento del magma di sciocchezze i nuovi mezzi di comunicazione stanno vomitando.

Auguri di buon anno, con la speranza di poterci presto incontrare, chiacchierando tranquillamente seduti su una panchina o, come non facevamo un tempo, seduti al bar a prenderci un caffè.

[1] «Qual è l’aspetto caratteristico della vita? Quando è che noi diciamo che un pezzo di materia è vivente? quando esso va “facendo qualcosa”, si muove, scambia materiali con l’ambiente e così via, e ciò per un periodo di tempo molto più lungo di quanto ci aspetteremmo in circostanze analoghe da un pezzo di materia inanimata. […]
Quando un sistema che non è vivente è isolato o posto in un ambiente uniforme, tutti i movimenti generalmente si estinguono molto rapidamente, in conseguenza delle varie specie di attrito; differenze di potenziale elettrico o chimico si uguagliano, sostanze che tendono a formare un composto chimico lo formano, la temperatura si uguaglia ovunque per conduzione.
Con ciò, l’intero sistema si trasforma in un morto, inerte blocco di materia. Si raggiunge uno stato permanente, in cui non avviene più nessun fenomeno osservabile. Il fisico chiama questo stato lo stato di equilibrio termodinamico o stato di “entropia massima.
È proprio in questo suo evitare il rapido decadimento in uno stato inerte di equilibrioche ‘un organismo appare così misterioso, tanto che, fin dagli inizi del pensiero umano, si sono invocate alcune speciali forze non fisiche o soprannaturali (vis viva, entelechìa), quali forze agenti nell’organismo, e in taluni ambienti ancora si sostiene la loro esistenza.
Come fa un organismo vivente a evitare questo decadimento? La risposta ovvia è: mangiando, bevendo, respirando e (nel caso delle piante) assimilando. Il termine tecnico è: metabolismo.
Ciò di cui si nutre un organismo è l’entropia negativa. Meno paradossalmente si può dire che l’essenziale nel metabolismo è che l’organismo riesca a liberarsi di tutta l’entropia che non può non produrre nel corso della vita.
[…] Secondo i risultati esposti nelle pagine precedenti, gli eventi spazio-temporali che si verificano nel corpo di un essere vivente e corrispondono all’attività della sua mente e alle sue azioni, siano consce o no, sono (considerando pure la loro struttura complessa e l’accettata statistica della fisica chimica) se non strettamente deterministici, almeno statistico-deterministici.»
Erwin Schrodinger, Che cos’e la vita?, Adelphi 1995

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L’incostanza della ragione

di Carlo Prosperi, 28 dicembre 2020

​Caro Nico,
ho letto e riletto con piacere le tue considerazioni e le tue osservazioni (“Endogenesi delle cause o eterogenesi dei fini”) sulla mia lettera a Paolo, anche perché vedo che, da buon positivista, dimostri una dimestichezza con le scienze che io non ho e non ho mai avuto. Ma il tuo discorso, nei punti in cui sembra discostarsi e discordare dal mio, nasce da fraintendimenti. Io infatti non sono un irrazionalista né danno in toto l’Illuminismo. Ci mancherebbe. Degli illuministi, di certuni almeno, non apprezzo l’idolatria della ragione, quella che supera il dualismo cartesiano di res cogitans e di res extensa in maniera semplicistica, tutto riducendo a mero materialismo meccanicistico e scomunicando o – quel ch’è peggio – irridendo quanto ad esso non è riconducibile. Diciamo D’Olbach ed Helvetius, per semplificare. Ma altri ve ne sono più subdoli e sfuggenti… Non credere che ciò contrasti con la mia affermazione intesa a includere l’uomo nella Natura: la Natura, a parer mio, non è solo materia, ma anche energia, creatività, pensiero. Leopardi arriva a dire che la materia pensa: che vi è in essa un principio che la trascende. Forse quella che noi chiamiamo anima, mente, psyche. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano. Da approfondire, dunque.

Io sono eminentemente un pascaliano. Pascal, criticando Cartesio, distingueva un esprit de géométrie e un esprit de finesse, fino a concludere che vi sono delle ragioni che la ragione non conosce: quelle del cuore, come avrebbero poi detto i romantici. Le scienze sperimentali hanno per lui dei limiti intrinseci: l’esperienza, la quale inevitabilmente limita i poteri della ragione che non sono mai assoluti, e l’indimostrabilità dei principi primi della scienza, che, pur stando alla base di ogni ragionamento, sfuggono al ragionamento stesso (è infatti impossibile la regressione all’infinito dei concetti). Pascal oppone alla ragione deduttiva quella che chiama “comprensione istintiva”, ovvero quel tipo di comprensione che coglie gli aspetti più problematici della condizione umana. L’esprit de géométrie ha per oggetto gli enti astratti e gli oggetti esteriori, l’esprit de finesse ha per oggetto l’uomo e, tramite l’intuito, visualizza subito l’oggetto indagato senza dover passare dal ragionamento. Nel cosmo l’uomo occupa una posizione mediana tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, scaturito dallo studio scientifico della realtà naturale. Modellando il ragionamento su un principio matematico (per cui aggiungendo ad una grandezza delle grandezze di un ordine d’infinito inferiore essa non si accresce in misura sostanziale), Pascal nota che l’uomo vive sempre a metà strada tra il mondo fisico e le sue aspirazioni spirituali e che ha riempito con i suoi divertissements l’abisso generato dall’assenza di Dio nella sua vita; la conseguenza è quella dell’angoscia, in quanto la ragione si rivela insufficiente a penetrare il mistero della grazia divina. Detto in soldoni, è da qui che parte la filosofia di Pascal, il quale – non dimentichiamolo – era pure un grande matematico. E qui, per ora, mi fermo.

Del resto, i frutti migliori dell’illuminismo si vedono in Kant, che dimostra di essere pienamente cosciente dei limiti della ragione e per questo non la idolatra. Il mio razionalismo, come il suo, si oppone sia all’iper-razionalismo sia all’irrazionalismo. Ambedue appiattiscono la realtà, negandone la complessità, lo spessore dialettico. In fondo, dimentichiamo che ad ispirare Cartesio era un Angelo, a guidare Socrate un Daimon. Troppo spesso si dimentica il potere creativo, visionario e “immaginario” del nostro cervello, che molti geni, tra gli scienziati e gli inventori del passato, hanno utilizzato in modo proficuo per giungere a formulare le loro conclusioni. Ricordo di aver letto, tempo fa, un articolo di tale Andrea Doria che, a sostegno di ciò portava diversi esempi: tra cui quello del chimico Friedrich August Kékulé von Stradonitz che si era invano affannato a decifrare la struttura della molecola di benzolo; quello, però, che non gli consentì la riflessione cosciente fu un sogno a permettergli di conseguirlo: una notte, addormentatosi di fronte al fuoco, vide in sogno un serpente che si mordeva la coda, ovvero l’archetipica figura dell’Uroboros. Guarda caso, la molecola di benzolo ha una struttura ad anello. Singolare, poi, anche il caso di Niels Bohr, il quale giunse a formulare il suo famoso modello atomico come un sistema planetario in piccolo traendo ispirazione da un sogno: sognò infatti di essere seduto su un sole ardente intorno a cui ruotavano a velocità folle dei pianeti del pari incandescenti.

Non sono un irrazionalista nemmeno quando parlo dell’insonnia della ragione. L’insonnia in fondo è una malattia o è, comunque, indizio di malessere. Fa perdere lucidità. Induce stati ossessivi. L’insonnia della ragione è un’aberrazione, del tutto simile a quella – apparentemente opposta – dei massacri perpetrati da sedicenti cristiani. La troppa luce acceca, al punto che illustri illuministi hanno demonizzato il Medioevo come “secoli bui”. Ecco, la demonizzazione non mi appartiene: tanto che anche nei pensatori più lontani dalla mia visione del mondo, anche tra gli illuministi, anche in Marx, so (e amo) ricercare barlumi di verità, pagliuzze d’oro tra le tante scorie. Né presumo di essere infallibile. O di sapere tutto. Al contrario, so bene di sapere ben poco, quasi nulla. Cerco solo di orientarmi, di non perdere la bussola: una volta si diceva la trebisonda. E questo m’induce alla cautela, a comprendere più che a condannare. Quantunque, alla fine, una scelta bisogna pur farla.

Tu spieghi quella che io, usando un’espressione vichiana, chiamo “eterogenesi dei fini”, con l’incapacità dell’uomo di comprendere: io parlerei piuttosto di impossibilità. Non è umanamente possibile prevedere tutte le conseguenze delle nostre azioni, soprattutto se è vero che il minimo battito d’ali di una farfalla ai tropici sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Per questo a Diego Fusaro obietto che, a parer mio, la filosofia marxiana non è impunemente praticabile o applicabile alla realtà – che non è geometrizzabile o scientificamente-tecnicamente governabile sulla base di piani e di pianificazioni –. Finora almeno non sembra. Pensare che con l’avvento del comunismo cominci la “storia” vuol dire che finiranno le contraddizioni, e quindi la dialettica storica. O le contraddizioni rinasceranno in forma nuova? E con il comunismo si aprirà una nuova fase della vita, forse post-umana? In ogni caso la “mobilitazione totale” in vista della rivoluzione non è né indolore né scontata. Né, appunto per l’eterogenesi dei fini, è detto che raggiunga davvero i suoi scopi o sogni virtuosi … Marx affida invece alla praxis della soggettività organizzata e cosciente il riscatto, ma non considera che l’umano sapere non è in grado di valutare le infinite interferenze e le infinite conseguenze dell’agire umano: per cui questo non può essere né univoco né lineare né in toto prevedibile e scontato. Di qui la fatale eterogenesi dei fini. Lo stesso Gestell (per Heidegger, l’attuale sistema tecnocratico) è sì stato posto e prodotto dall’agire umano, ma con esiti, a sua insaputa, perversi. Fatto è che Fusaro, al pari di Marx e dei marxisti à la Lukács, tende a reagire al pessimismo dell’intelligenza con l’ottimismo della volontà astratta, in maniera appunto velleitaria…

Ha osservato Corrado Ocone: «Il fatto che gli accadimenti e le opere, così come le azioni, siano sempre individue, non significa che in esse, in sede di comprensione, non sia possibile rinvenire un ordine. Solo che quest’ordine, pur essendo opera in ultima istanza delle azioni degli individui empirici, trascende ogni loro intenzionalità, non corrisponde a ciò che gli individui o anche gruppi più o meno ampi di loro, si erano proposti con le loro azioni. È in questo solo e preciso senso, e solo in questo, che Croce può affermare, in senso metaforico, che gli accadimenti o la Storia sono come Dio. Essi, per così dire, se ne vanno per i fatti loro: la libertà è veramente, da questa prospettiva, non degli uomini ma dello Spirito». Analogamente Einstein diceva: «Dio non gioca a dadi». È come se ci fossero due piani: uno empirico, pragmatico (per cui vale l’asserzione di von Mises: «solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona, solo l’individuo agisce») e uno storico-spirituale (in cui si ordinano, in un «ordine spontaneo», le conseguenze delle azioni individuali. «Gli accadimenti non sono governabili ex ante dagli individui empirici, ma sono da loro riducibili a senso ex post».

Questo per quanto concerne l’eterogenesi dei fini. Ma torniamo ora al Gestell, frutto della “ragione strumentale”. Si dice che la post-modernità abbia segnato la fine delle ideologie. È un cliché retorico: in realtà, l’epoca che si suppone depurata da tutte le viete ideologie novecentesche si sta potentemente delineando come l’epoca forse più ideologica della storia, pervasa da un’ideologia neutra, quasi impalpabile, la quale tuttavia sta penetrando in profondità nel tessuto sociale e culturale dell’umanità, generando un uomo ormai soggiacente al volere e alla meccanica della sua stessa creatura: la Tecnica. È stato giustamente scritto, al riguardo, da Davide Parascandolo che «la soggezione di fronte allo strapotere di questo moderno Leviatano è la cifra di un uomo irriconoscibile, che ha rinunciato a se stesso e che appare profondamente assorbito da dinamiche dominate da meccanismi autoregolativi e autoperpetuantesi. La post-modernità si presenta come l’epoca dell’automatizzazione dell’uomo, della sua alienazione completa, dell’abdicazione totale del suo pensiero e del suo pensare. Le conseguenze pratiche di questo mutamento, che è al tempo stesso filosofico ed antropologico, sono di notevole portata e investono evidentemente tutte le principali dimensioni che caratterizzano il vivere umano, sia esso inteso nel più ampio spettro delle relazioni sociali e comunitarie come in quello più ristretto e privato dell’ambito prettamente individuale. Lo scivolamento di status ontologico dell’uomo da creatore a suddito della propria creatura produce ripercussioni rilevanti sulla vita associata delle società contemporanee, determinando un asservimento totale della vita umana a logiche economicistiche pervase da una sorta di tecnicismo razionalistico di per sé sussistente che si sgancia dalla realtà delle cose per assurgere a unica e assiomatica verità, la quale pretende di non conformarsi più al divenire, ma, al contrario, di imbrigliare quest’ultimo entro le sue ferree ed asettiche costruzioni iper-razionalistiche».

Di qui l’asservimento della politica all’economia o, meglio, al suo epifenomeno finanziario. Con la “delocalizzazione” della sovranità dai parlamenti a clubs ristretti, a élites impenetrabili che operano secondo logiche autoreferenziali. Emblematica e, per così dire, plastica espressione di tale processo di tecnicizzazione della politica è, a parer mio, l’attuale costruzione europea, che si regge su irrazionali criteri economicistici e contabili, assurti tuttavia ad intoccabili ed irriformabili Moloch ideologici. Essa appare – per tornare al testo di Parascandolo – come «l’inveramento storico di quel dogma dell’irreversibilità che rischia di far pericolosamente regredire l’umanità verso un unico modello: quello dell’homo reiterans». È, questo, lo svuotamento di ogni progetto umanistico, «cui fa da contraltare una drammatica automatizzazione dell’umano che è l’anticamera di quella logica dell’irreversibilità che sembra costituire l’unico possibile orizzonte imposto da una sorta di finalismo storico dal quale non poter in alcun modo sfuggire e che, in ultima istanza, rappresenta l’irreversibilità stessa dell’accettazione dell’attuale strutturazione del mondo, espressione di quella religione globalista e iperliberista che ne connota in profondità l’essenza».

Mi viene in mente Il Mondo nuovo di Aldous Huxley, ambientato in una Londra del futuro dove controllo delle nascite e controllo sociale attraverso le droghe di Stato e i piaceri diventano esempio di un nuovo tipo di dittatura. Mentre per Orwell la dittatura è promossa da un Grande Fratello che fa della cultura una prigione, per Huxley l’intrattenimento è meglio della forza e la cultura diventa una farsa. Nella nostra società non c’è nessun carceriere che ci sorveglia, ma le prigioni sono dentro le nostre teste. Il nostro non è un mondo di schiavi terrorizzati dalle punizioni di un regime totalitario, ma una società di ebeti rimbambiti da piaceri cafoneschi. Siamo cioè di fronte a un mondo apparentemente libero, in realtà controllato dalla sua stessa “libertà”. «Controllare la gente non con le punizioni, ma con i piaceri»: è così che si arriva al nuovo assetto dei sistemi totalitari. Nella “democrazia” immaginata da Huxley il popolo non è imprigionato, ma distratto continuamente da cose superficiali. La vita culturale trasformata in un eterno circo di divertimenti e un intero popolo ridotto a spettatore. Nel “mondo nuovo” non esistono censure, ma la gente è talmente subissata dalle informazioni che, incapace di rielaborare una simile mole di notizie, finisce col diventare passiva, con il disinteressarsi a tutto e a non ribellarsi più a niente. Difendersi è impossibile: si finirebbe come in un romanzo di Dick: pazzi e isolati detentori di una verità che nessuno, per comodità, accetterà mai. «Questi milioni di individui abnormemente normali, che vivono senza gioia in una società a cui, se fossero pienamente uomini, non dovrebbero adattarsi, ancora accarezzano l’illusione dell’individualità, ma di fatto sono stati in larga misura disindividualizzati. Il loro conformismo dà luogo a qualcosa che somiglia all’uniformità. E uniformità e salute mentale sono incompatibili». Per Huxley siamo solo una «calca di pecore umane che vivono soggiogate dalle cieche leggi delle abitudini».

A questo ci ha portato un certo modo – non proprio ragionevole – di intendere la ragione. E credo che anche tu ne converrai. E se anche non fosse, non ritengo che ciò possa in qualche modo precludere la prosecuzione del nostro dialogo. Almeno lo spero, in nome della nostra antica amicizia.

Affettuosi saluti e auguri di buon anno, Carlo.

 

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Endogenesi delle cause o eterogenesi dei fini

di Nicola Parodi, 21 dicembre 2020

Ho letto le riflessioni di Carlo Prosperi esposte ne “La luce fredda dell’Utopia”. Condivido in gran parte le sue osservazioni, in particolare quando parla delle “aberrazioni della cancel culture, quella che, per political correctness, pretende di correggere la storia”. Per una sorta di reazione istintiva mi sento tuttavia in dovere di difendere il valore della razionalità come strumento di conoscenza. Carlo sostiene che quelle aberrazioni sono i frutti perversi dell’Aufklärung. E aggiunge: “È ben vero che il sonno della ragione produce mostri, ma non meno mostruosi sono i parti dell’insonnia della ragione”. Qui non riesco a seguirlo, e mi sembra strano che ci arrivi per un percorso che in realtà almeno fino ad un certo punto è esattamente il mio, quando ad esempio afferma: “La razionalità non può sostituirsi a ciò che è frutto, in gran parte inconscio, di millenni di tentativi, per prove ed errori; non può impunemente sovvertire la tradizione (che non è un fossile) e pretendere di fare tabula rasa dell’esistente nella presunzione di costruire un mondo perfetto”. Sono d’accordo su tutto, tranne che sul soggetto iniziale della frase, o meglio, sull’uso che Carlo fa dei termini “ragione” e “razionalità”: quindi, mentre faccio mio il drastico giudizio sul sorgere di una nuova religione laica, che come le altre religioni ha la pretesa di definire ciò che è bene e ciò che è male, vorrei chiarire che le aberrazioni cui giungono gli adepti di questa neo-religione non sono il frutto di una fredda analisi razionale, il più scientifica possibile, ma sono generati e guidati dalle emozioni e dai sentimenti,  e soprattutto sono condizionati dalle mode culturali.

Vorrei partire da alcune idee proposte da Richard Dawkins[1] (*). Prendendo spunto dalla convinzione di Lorenz che un modello di comportamento può essere trattato come un organo anatomico, Dawkins propone la teoria del fenotipo esteso. Con il termine fenotipo si intende la forma che assume un organismo sviluppato; in questa accezione il concetto di fenotipo viene esteso, oltre che alla forma dell’organismo, anche ai prodotti delle sue azioni nell’ambiente esterno (azioni che sono indotte dai geni).

Faccio un esempio. La trappola a forma di buca conica scavata dal formicaleone[2] è l’espressione di un comportamento determinato geneticamente, così come lo sono tutte le varie tipologie delle ragnatele. Tutto questo lo diamo ormai per scontato, perché quando esaminiamo il comportamento degli insetti sociali siamo psicologicamente disponibili a riconoscere che è determinato geneticamente. Allo stesso modo, con un minimo sforzo intellettuale in più realizziamo che anche le dighe costruite non da un singolo castoro, ma da un gruppo, rispondono ad analoghi criteri e quindi rientrano nella definizione di fenotipo esteso (*).

Continuando a salire di livello nella scala della complessità animale, riusciamo ancora ad accettare, sia pure con un po’ di difficoltà, che persino la “cultura” e l’organizzazione sociale dei primati possa rientrare nella definizione di “fenotipo esteso”. Ma quando facciamo un passo ulteriore, saliamo di un altro gradino, ecco che nasce il problema. L’idea di considerare la cultura umana e le sue realizzazioni tecnologiche ed artistiche come fenomeni rientranti nel concetto di “fenotipo esteso” urta la sensibilità di quanti ritengono l’uomo qualcosa di speciale. Diciamo che di primo acchito la reazione è comprensibile: in fondo sembra esserci una bella differenza tra chi è riuscito ad andare sulla luna e chi continua a salire e scendere dagli alberi. Eppure, se accettiamo come valida la definizione di cultura data da Luigi Luca Cavalli Sforza, per il quale “la cultura va intesa come insieme di conoscenze che acquisiamo e comportamenti che sviluppiamo durante la nostra vita; questi due elementi (conoscenze e comportamenti) creano la cultura sulla base dell’azione congiunta della nostra eredità biologica, cioè il programma genetico di istruzioni del DNA che dirige il nostro sviluppo, e dei numerosissimi contatti individuali e sociali di qualunque natura vissuti da qualunque gruppo sociale”, dovrebbe essere più facile accettare le realizzazioni della società umane come espressioni del “fenotipo esteso”[3].

Anche se Cavalli Sforza non è affatto entusiasta della cosa, ultimamente in assonanza al termine “gene” è stato coniato (*) il termine “meme”, che sta ad indicare un’unità di trasmissione culturale o un’unità di imitazione. Nelle società umane la diffusione dei memi è molto rapida, in virtù delle molteplici modalità di trasmissione che abbiamo escogitato, e con l’avvento di internet si rischia addirittura che la loro trasmissione, pressoché immediata, sfugga a quella sorta di selezione naturale che ne misura la capacità di funzionare positivamente per la sopravvivenza della società in cui si diffondono. Vale a dire che tendono a circolare liberamente, fuori controllo, sia gli input positivi che le stupidaggini e le bufale: il che comporta una gran confusione, e il rischio (molto concreto, per quanto è dato vedere oggi) che le false informazioni, in genere più facilmente “digeribili” da spiriti pigri, finiscano per prevalere e mettere a repentaglio tutto ciò di buono che sino ad oggi si è costruito.

Vedo di spiegarmi meglio. Il fatto che le culture evolvano comporta l’esistenza un qualche meccanismo di selezione darwiniana. Questo permette la sopravvivenza delle culture (e quindi delle società che quella determinate culture esprimono) che meglio rispondono alle esigenze di riproduzione degli individui che ne fanno parte, in determinati luoghi e periodi; inoltre ci costringe a prendere atto che il “valore” che attribuiamo al modello culturale a cui apparteniamo è, nelle migliori delle ipotesi, valido per un più o meno breve lasso di tempo.  Ora, ogni cervello animale tratta le informazioni servendosi di moduli mentali che sono frutto di un’evoluzione durata centinaia di milioni di anni: ha insomma un programma di risposte già pronte, adattabili alle singole situazioni, e in questo modo risolve i problemi che l’individuo si trova ad affrontare, aumentando le sue probabilità di sopravvivere e riprodursi. In questa operazione la rapidità nella risposta agli stimoli esterni è un requisito essenziale, anche se va a scapito della precisione. I moduli mentali che utilizziamo noi umani sono dunque quelli che si sono dimostrati più efficaci alla luce dei meccanismi evolutivi, anche se, in base al principio di precauzione, a volte ci facevano fuggire di fronte a un pericolo non concreto.

Il discrimine sta qui. Per una serie di processi che non possono essere approfonditi in questa sede i membri della specie Homo sapiens sapiens hanno finito per ritrovarsi dotati, oltre che di moduli cognitivi automatici, anche di un processo cognitivo più lento ma più riflessivo[4]. Ovvero, noi non reagiamo in base al puro istinto, ma a seguito di una ponderata riflessione. Questa modalità di trattare le informazioni implica naturalmente la possibilità di errori di sistema, e anche il nostro modello riflessivo può essere soggetto a condizionamenti emozionali e culturali. Quindi la cautela è d’obbligo. Se è vero che, come abbiamo visto sostenere da Cavalli Sforza, gli aspetti più importanti del nostro sviluppo risultano da una complicata interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura, per capire qualcosa di come ci comportiamo e come funzionano le società di cui facciamo parte è indispensabile una analisi razionale di questi aspetti. L’eterogenesi dei fini di cui parla Carlo è solo frutto, a mio parere, di una nostra insufficiente capacità di condurre a fondo questa analisi.

Proviamo a trasporre tutto questo sul piano dell’agire sociale e politico. Giustamente diffidiamo delle pretese di chi vuol costruire un mondo migliore sulla base di convinzioni religiose o ideologiche, al fondo delle quali c’è la certezza dell’esistenza di un vero e di un giusto assoluti. Non siamo in grado di conoscere con sufficiente dettaglio i meccanismi sociali per progettare riforme con la certezza che i risultati corrispondano alle aspettative. Nemmeno la scienza è in grado di dare risposte certe a problemi di tale complessità: ci ha provato sinora solo la fantascienza, con Asimov, inventando la “psicostoria”.

È pur vero però che se in un gruppo di cacciatori-raccoglitori non è necessario intervenire per modificare ciò che regola i rapporti fra gli individui,  stante la sostanziale “immobilità” sociale, in una società complessa, le cui principali regole non sono ormai più quelle selezionate dall’evoluzione e codificate geneticamente, ma quelle di origine culturale definite storicamente, di fronte a modifiche dell’equilibrio sociale,  per degrado intrinseco o al presentarsi di condizioni socio/economiche nuove,  si rendono indispensabili interventi che modifichino l’organizzazione tradizionale. E dovendo agire è necessario farlo con la maggiore razionalità possibile, che consiste anche nel cercare di modificare il minimo indispensabile. Soprattutto, nessuna riforma può funzionare se le regole nuove contrastano con i dettami morali codificati geneticamente.

Insomma, voglio dire che se alcuni grandi riformatori del passato sono riusciti (magari solo parzialmente) nel loro intento, sono sicuramente molti di più i tentativi di riforma che non hanno funzionato. E i fallimenti sono venuti di norma da una voluta o colpevole ignoranza degli effetti di quella complessa interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura di cui parla Cavalli Sforza.  Ovvero dal fatto che quei progetti non erano sufficientemente razionali. Sarebbe semmai poi da aprire un dibattito su ciò che intendiamo per “razionale”, perché troppo spesso trovo l’aggettivo è usato nella sola valenza di “efficace, efficiente, capace di produrre risultati”, ma il suo significato non può certo esaurirsi in questo. Se così fosse, Himmler avrebbe realizzato una delle operazioni più razionali della storia. Per quanto mi riguarda, è razionale ciò che “funziona” tanto nella prospettiva individuale che in quella della specie (e non sempre le due cose coincidono: posso fare un sacco di soldi e moltiplicare le mie possibilità di sopravvivere e riprodurmi producendo scorie inquinanti, ma per la specie sono solo un danno): ciò quindi che riesce a mantenere un equilibrio tra le mie pulsioni egoistiche istintuali e la mia disposizione altruistica acquisita. Sono d’accordo con Carlo quando rievoca i Terrori generati dall’idolatria della Ragione, dai sogni degli utopisti, dalla forzatura radicale di Marx, ma mi sembra dimentichi quali altri terrori sono stati ingenerati da chi ad esempio si è fatto “interprete” monopolistico e ufficiale dell’insegnamento cristiano. Ora, la lettera del Vangelo detta ben altro che le stragi degli eretici o degli infedeli, allo stesso modo in cui la Ragione non prevede i campi di sterminio e la ghigliottina. La Ragione è uno strumento, come lo è la Religione: e come ogni strumento può capitare nelle mani sbagliate, ed essere usato malamente.  Ma questo può valere anche per una padella, o una forchetta: significa che dovremmo mangiare cibi crudi, e con le mani?

Per il resto, sono d’accordo (almeno in parte) sulla lettura in negativo delle rivoluzioni. Diciamo che sono piuttosto un tiepido riformista, anche se può sembrare una brutta cosa, perché “Occorre fare le riforme” è purtroppo lo slogan di moda fra la classe dirigente attuale. Non sono pregiudizialmente contrario alle riforme se e quando necessarie, ma mi  piace  ricordare quanto sostiene Montesquieu nelle Considerazioni sulle cause della grandezza e decadenza dei Romani:   “Quando il governo ha una forma stabilita da tempo e le cose sono disposte in un certo modo, è quasi sempre prudente lasciarle come sono, perché le ragioni, spesso complicate e ignote, per cui una tale situazione si è mantenuta, fanno si che essa duri ancora; ma quando si cambia il sistema totale, si può rimediare soltanto agli inconvenienti che si presentano nella teoria, tralasciandone altri che solo la pratica può far scoprire”.

NOTE

[1] (*) Richard Dawkins, Il fenotipo esteso, Zanichelli 1986 – Il gene egoista, Mondadori 2017

[2]Per il formicaleone scavare trappole è ovviamente un adattamento per catturare le prede. I formicaleoni sono insetti, larve neuroptere, con l’aspetto e il comportamento di mostri spaziali. Sono predatori pazienti che scavano nella sabbia soffice trappole con le quali catturano formiche e altri insetti terricoli. La trappola ha una forma quasi perfettamente conica, con le pareti talmente inclinate che la preda non può arrampicarsi per uscire, una volta caduta dentro. Tutto quello che fa il formicaleone è di stare sul fondo della trappola, dove con le sue mandibole stritola, come in un film dell’orrore, qualsiasi cosa gli capiti a tiro” da Richard Dawkins, Il fenotipo esteso

[3] Cavalli Sforza aggiunge anche “Purtroppo nella maggior parte dei quotidiani e dei settimanali le pagine dedicate alla cultura limitano il loro interesse quasi esclusivamente a film, romanzi e in genere agli spettacoli. Intendiamoci, sono anche loro importanti, in quanto contribuiscono in modo non indifferente ai piaceri della vita, ma vi sono molti aspetti del nostro sviluppo che sono ancora più importanti e che risultano da una complicata interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura, intesa nel senso più vasto su cui quest’opera è basata” (Luigi Luca Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice ed. 2010)

[4] Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori 2020

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Attenzione
Attenzione
Attenzione
Attenzione

Attenzione!

Altruista sarà lei!

di Nicola Parodi e Paolo Repetto, 10 dicembre 2020

Per l’evoluzione non è importante essere intelligenti,
ma agire in modo intelligente[1].

In un precedente intervento (“La morale e le favole”) Nico Parodi ha elencato una serie di “postulati” (che non sono verità rivelate, ma “strumenti affidabili di lavoro”), da usarsi come base di partenza per approfondire la riflessione sul “come siamo arrivati qui”. Sottolineo il “come”, in quanto il “perché” ci porterebbe subito su un piano delicato, nel quale gli strumenti indicati da Nico tendono a trasformarsi in armi ideologiche a molteplice taglio. D’altro canto, crediamo entrambi fermamente che il nostro problema (“nostro” è riferito a coloro che le domande fondamentali se le pongono, e aspirano ad una conoscenza che non sia solo di superficie) stia proprio nella inveterata confusione tra i due avverbi, quella a cui aveva cercato di ovviare già un paio di secoli fa il buon Kant: possiamo legittimamente sforzarci di capire “come” funzionano sia la nostra mente che il mondo in essa riflesso, ma se ci chiediamo il “perché” sconfiniamo nella metafisica. La confusione purtroppo permane, e non perché il monito di Kant non fosse chiaro, ma per la nostra ostinazione a cercare un senso e uno scopo là dove non esistono (e se esistessero sarebbero comunque al di fuori della nostra portata). Il senso, lo scopo, siamo chiamati a conferirlo noi, e possiamo farlo solo partendo da una conoscenza la più ampia e approfondita possibile dell’ambiente naturale in cui viviamo, dei fenomeni che lo hanno trasformato e che continuano a farlo, dei processi evolutivi che ci hanno condotti a diventare, da animali inconsapevoli, esseri che si pongono le domande.

Il compito di rispondere a queste ultime è demandato alla “scienza”, che è appunto l’attività conoscitiva indirizzata a decifrare il “come”. Ciò non toglie che tutte le possibili direzioni di ricerca siano comunque connesse a un retropensiero metafisico, ovvero che ad ogni nostra indagine sia sottesa la domanda sulla motivazione, prima ancora che quella sulla causa. Ma nel caso della scienza possiamo far conto su un buon margine di obiettività: la scienza indaga su fatti (situazioni compiute) o su eventi (situazioni in essere), non su delitti. E in natura non si trovano motivazioni, ma risposte adattive a stimoli o a trasformazioni (per quella organica) e relazioni di causa ed effetto (per quella inorganica). Dovremmo imparare ad accontentarci di conoscere e chiarire queste, e fermarci sull’orlo di quella presunzione che secondo i nostri progenitori (che sul “come” erano – giustamente – ancora parecchio confusi, ma sugli azzardi del “perché” avevano già le idee molto chiare) è costata a Lucifero e compagni la caduta.

 

Le considerazioni proposte nell’intervento precedente da Nico e in questo nostro sono frutto del dialogo serrato e stimolante che abbiamo avviato negli ultimi mesi, riprendendo una consuetudine risalente addirittura a cinquantacinque anni fa, quando sedevamo nello stesso banco al liceo. Le strade diverse che abbiamo poi percorso, le scelte di studio e quelle lavorative, i modi e i luoghi dell’impegno politico e sociale, ci hanno tenuti lontani per un sacco di tempo, ma ci hanno condotto alle stesse convinzioni, a maturare un identico sguardo sulla vita in generale e sugli uomini in particolare. Ho voluto sottolinearlo perché la cosa mi sembra emblematica: se hai introiettato la lezione kantiana puoi prendere i sentieri che vuoi, viaggiare a piedi, a vela o a motore, ma alla fine approdi comunque alla stessa spiaggia. Ed è confortante trovarti in buona compagnia. Ti ridà la carica per proseguire con nuova convinzione nel viaggio. (P. R)

È trascorso un bel po’ di tempo da quando stavamo nello stesso banco. Di quel periodo non è possibile, per noi che si arrivava da paesi ancora totalmente immersi nella cultura contadina, non ricordare la scoperta dell’esistenza di mondi culturali diversi e sorprendenti. Con la curiosità e la voglia di apprendere il nuovo propria degli adolescenti (di quel tempo?, ci si confrontava su tutto, senza timore di affrontare argomenti che andavano ben oltre le nostre competenze. Ora, avendo introiettato come dice Paolo la lezione kantiana, dopo oltre mezzo secolo di studi e letture che hanno almeno parzialmente colmato le lacune, torniamo ugualmente motivati, più carichi d’anni ma anche più ricchi di esperienze, a rivivere quel confronto. Le considerazioni che proponiamo ne sono il primo frutto. (N.P.)

Riprendiamo dunque il discorso là dove Nico lo aveva interrotto la volta scorsa (e quindi, quanto segue va letto avendo presenti i “postulati” che aveva individuati in “La morale e le favole”). Lo facciamo proponendo un’ulteriore considerazione, che non era stata anticipata perché proietta quelle precedenti in uno scenario nuovo, andando a verificarle nella realtà storica (per essere più precisi, nella preistoria). I “postulati” riguardavano l’idea di morale e il suo riflesso sulla cooperazione (ma anche sulla competizione) in seno ad un gruppo. Vediamo se e come trovano conferma nei fatti.

Da un certo periodo in poi (diciamo tra i quindici e i cinquemila anni fa) al nomadismo legato all’economia di caccia e raccolta si è progressivamente sostituita una stanzialità connessa alle prime forme di domesticazione delle piante. La transizione non è stata incruenta, e ha lasciato traccia nelle narrazioni mitologiche di tutti i popoli, a partire da quella biblica del conflitto tra Caino coltivatore stanziale e Abele cacciatore-allevatore nomade. Ora, la domanda che ci poniamo è se il passaggio all’agricoltura abbia migliorato le condizioni di vita e di salute dei nostri antenati[2], o se invece non le abbia addirittura peggiorate (come appunto sosterrebbe la Bibbia), incidendo in negativo anche sulla libertà e sull’equità. La risposta oggi più accreditata (dalla paleontologia, oltre che dalle Scritture) è la seconda, anche se il tema è ancora parecchio controverso, soprattutto perché il dibattito è troppo spesso falsato da coloriture ideologiche. I dati dei quali siamo in possesso ci dicono che il passaggio da una dieta mista, carnivora e vegetariana, ad una basata essenzialmente sui cereali provocò un forte abbassamento degli standard alimentari, con una serie di conseguenze negative evidenziate dagli studi antropologici: riduzione dell’aspettativa di vita, significativa diminuzione dell’altezza media, carenze vitaminiche, e quindi maggiore mortalità infantile, diffusione delle malattie infettive e delle patologie degenerative delle ossa. Insomma, un quadro tutt’altro che confortante, che spiega come mai per diversi millenni, malgrado la produzione agricola fosse in grado di supportare una densità maggiore di popolazione e di creare riserve per i periodi di carestia, il tasso di crescita della popolazione mondiale sia pressoché rimasto stabile. Diciamo che si può affermare senza troppe esitazioni che gli agricoltori avevano condizioni di vita peggiori dei cacciatori raccoglitori.

A noi qui comunque interessa vedere che conseguenze ebbe il passaggio all’agricoltura sulla “morale sociale”. Va chiarito che questo ha a che vedere molto marginalmente con la discussione tuttora vivace su un aumento o meno della conflittualità tra gruppi e dell’attitudine interspecifica alla violenza. Ci sembra scontato che una maggiore densità demografica crei più occasioni di conflitto, mentre i recenti ritrovamenti di fosse comuni che risalgono a trentamila anni fa e che contengono i resti di individui barbaramente trucidati stanno a testimoniare come anche quella dei cacciatori-raccoglitori fosse una cultura tutt’altro che pacifica. Per “morale sociale” intendiamo dunque quella che ispirava e regolava i rapporti all’interno dei singoli gruppi, fermo restando poi che poteva essere eventualmente estesa ad altri gruppi, attraverso vincoli matrimoniali o convenienze collaborative.

La cosiddetta “rivoluzione neolitica” è avvenuta gradualmente, in tempi diversi e con processi autonomi nelle diverse aree, innescati in genere dall’esaurimento delle risorse di caccia conseguente un eccessivo sfruttamento, il restringimento del raggio d’azione di ciascun gruppo o un significativo cambiamento del clima. Questa rivoluzione ha comunque stravolto le modalità di acquisizione del cibo e ha modificando in modo pesante i valori su cui si basava la collaborazione (come vedremo nei punti successivi). In sostanza, gli “strumenti morali” prodotti nel corso dell’evoluzione non erano più rispondenti ai modelli di distribuzione e di cooperazione che si accompagnavano all’avvento delle società agricole. Condizioni di vita come quelle determinate dal passaggio all’agricoltura mettevano a dura prova l’istinto collaborativo, anche se questo non è mai venuto meno del tutto, in quanto la cooperazione rimaneva comunque necessaria per difendersi dalle scorrerie dei nomadi o dall’espansionismo di gruppi rivali (ma anche, al contrario, per guadagnare nuovo spazio alla coltivazione), e per la conservazione e la trasmissione di particolari contenuti culturali. In sintesi: per centinaia di migliaia di anni sono stati selettivamente premiati dei comportamenti collaborativi (quelli di cui si parlava in “La morale e le favole”) che poi, al mutare del regime economico, non avevano più una ragione evolutiva di essere.

Il cambiamento cui ci riferiamo è comunque avvenuto da troppo poco tempo per lasciare tracce genetiche estese e profonde nell’umanità. La mutazione “culturale” originata dalla trasformazione dell’economia (con la divisione specialistica del lavoro, la nascita di reti commerciali e di convenzioni sui valori di scambio, lo sviluppo della proprietà privata) ha generato nel corso degli ultimi dieci millenni modelli sociali (gli insediamenti ad alta densità di popolazione, la struttura gerarchica, la creazione di élites) e istituzionali (amministrazione centralizzata, organizzazioni politiche) totalmente sconosciuti in precedenza alla specie. Ma al contrario di quelli culturali, che hanno viaggiato al ritmo di una accelerazione costante (e hanno conosciuto una vera impennata negli ultimi due secoli), i meccanismi evolutivi procedono silenziosamente e lentamente: potrebbero essere attualmente al lavoro per modificare la nostra predisposizione alla collaborazione, ma – a meno di interventi di ingegneria genetica, sui cui esiti nutriamo più timori che dubbi – avranno necessità di altre centinaia di generazioni per ridisegnare significativamente il nostro corredo cromosomico. Il che significa che stiamo per entrare, o meglio, siamo appena entrati in una fase di anatra zoppa, per dirla all’americana, con la natura e la cultura che spingono in direzioni opposte.

Il fatto è che l’incongruenza fra i nuovi modi di produzione e i vecchi meccanismi morali selezionati evolutivamente, oltre che creare attriti fra gli individui, può innescare un meccanismo che inverte il processo di “autodomesticazione”[3]. Non stiamo mettendo in dubbio il successo dell’agricoltura nell’aver permesso, nel tempo, una maggiore disponibilità di cibo (e cibo = energia: diventare consumatori primari consente di saltare un passaggio nella catena alimentare, un buon vantaggio, considerando che ogni passaggio nella catena comporta una perdita dell’energia del 90%), ciò che ha consentito l’aumento della popolazione e un avanzamento culturale altrimenti impensabile: ma intendiamo dire che il nuovo modo di produzione ha messo in discussione gli strumenti morali che regolavano i rapporti tra gli individui, e che il risultato di questa sfasatura è stato in molte parti del mondo la trasformazione di modelli basati sulla cooperazione altruistica e sulla sostanziale uguaglianza fra gli appartenenti al gruppo in un modello di società, quella che oggi conosciamo, nella quale l’equità nella distribuzione delle risorse lascia molto a desiderare (l’un per cento della popolazione mondiale detiene e sfrutta oltre il cinquanta per cento delle risorse). Questo induce un’altra serie di considerazioni:

  • Intanto ci permette di valutare l’efficienza o meno di organizzazioni socioculturali che contrastano con le radici biologiche dei nostri comportamenti morali. La crescita demografica umana era indubbiamente iniziata (sia pure con una progressione lentissima) già prima della comparsa dell’agricoltura, favorita dalla conquista di sempre nuove aree di sfruttamento a spese di altre specie o di rami collaterali dell’ominazione. Le regole morali avevano quindi dovuto essere integrate culturalmente, per rispondere prima appunto all’aumento della popolazione e alla conseguente organizzazione tribale e poi al mutamento del modo di produrre cibo e alla specializzazione delle attività. Nel corso di questo processo di “culturizzazione” della morale il senso dell’equità, che attraverso l’evoluzione selettiva si era connaturato tanto da manifestarsi spontaneamente nell’infanzia, è stato messo a dura prova dagli squilibri nella distribuzione dei beni e dalla difficoltà nell’isolare i profittatori. In sostanza, in una organizzazione che favoriva il cumulo delle ricchezze (terre, immobili, averi) e una polarizzazione verticale del potere, i prepotenti, anziché essere isolati e puniti, hanno trovato col tempo il modo di giustificare le loro angherie, e il meccanismo di premio/punizione in molte comunità ha cambiato di segno, ad esempio punendo chi non accettava l’imposizione.

 

  • Ciò non significa affermare che “prima” i rapporti all’interno dei gruppi fossero idilliaci. Semplicemente, si davano meno occasioni di competere e più motivazioni a cooperare. La “morale sociale” nasceva da queste condizioni, dalla selezione adattiva degli individui con maggiore attitudine alla collaborazione e alla reciprocità. Venute meno queste condizioni, le carte si sono sparigliate. In qualsiasi società si scontreranno sempre l’interesse del singolo individuo e l’interesse del gruppo. Le differenze individuali esistono; preso atto che ci sono individui più intraprendenti ed attivi o abili in certe attività e che queste sono qualità utili, non funziona correttamente un meccanismo sociale che non ne riconosca l’utilità per il gruppo. Ma la cultura di società complesse è frutto appunto della storia di quel gruppo e di tutti (o quasi) i suoi componenti; senza questi contributi nessuno, per quanto intraprendente ed abile, riuscirebbe in qualunque impresa che vada oltre una difficilissima sopravvivenza.
    L’oggettività del fatto che la cultura – e la sua conservazione – sono prodotto della società e non dei singoli, rende fragili le basi del presunto “diritto naturale” sul quale si basa il capitalismo. Detto molto schematicamente, questo diritto si fonda sulla convinzione che la ricchezza prodotta sia merito pressoché esclusivo delle capacità imprenditoriali soggettive (gli altri fornirebbero solo forza lavoro), il che legittimerebbe l’imprenditore a trattenere tutta la ricchezza prodotta. La maggior parte delle società moderne assegna la funzione premiale quasi esclusivamente all’arricchimento, dando scarsa o nessuna importanza ad altri possibili meccanismi; è senza dubbio più facile far agire gli uomini utilizzandone i vizi (interessi egoistici individuali, espressioni del conflitto fra interesse a riprodursi come singolo fenotipo e necessità di collaborare[4]) piuttosto che far leva sulle spinte alla collaborazione che si sono evolute nel tempo. Per questo è necessaria una discussione più che approfondita per capire fino a che punto un tale riconoscimento in positivo dell’individualità può essere accettato senza mettere in crisi gli “strumenti” morali collaborativi indispensabili al benessere del gruppo, dal quale dipende quello del singolo. Studiosi di neuroscienze e di scienze cognitive, con estrema cautela, iniziano ad interrogarsi/ci sul libero arbitrio e su quello che ne consegue, ad esempio in termini di giustizia e funzione della pena[5].

 

  • Quindi: la morale che utilizziamo si è storicamente strutturata in modo piramidale, con le parti più vecchie che sono sostanzialmente integrate nel patrimonio genetico. E allora non è sensato imporre norme che entrino in contrasto con le strutture morali più antiche. Nico ricorda che quando iniziò l’epidemia di AIDS c’era chi si poneva il problema della ricaduta che la paura del contagio avrebbe avuto sui rapporti sociali. I “progressisti” più radicali parlavano di istituire l’obbligo per tutti i genitori di mandare i figli a scuola in ogni caso, in nome di una morale “superiore”, per evitare discriminazioni nei confronti dei bimbi contagiati o figli di contagiati. Dal suo punto di vista la proposta era insensata, perché contrastava con l’istinto di protezione dei genitori, e nel caso fosse stata approvata era destinata a creare reazioni fero oci, oltre che la fuga da certe scuole. Riteneva anche che avrebbe indotto la maggioranza dei cittadini a punire politicamente qualsiasi schieramento la sostenesse.
    Un atteggiamento del genere è stato adottato, all’inizio dell’epidemia da coronavirus, dai “moralisti laici”, che censuravano ogni gesto che potesse sembrare discriminatorio nei confronti dei cinesi. Certo, la discriminazione spaventa per principio, ma in quel frangente chi se la sarebbe sentita di criticare una mamma con un bambino che incrociando un italiano di origine cinese, magari mai stato in Cina in vita sua, si fosse spostata istintivamente sull’altro marciapiede? Non si vuol dire che un gesto simile fosse razionale e corretto: stiamo solo prendendo atto che in quel frangente, e considerando anche il tipo di informazione confusa che arrivava (non che ora sia più chiara, ma abbiamo forse un po’ imparato a difenderci da soli: e infatti cambiamo marciapiede comunque, senza più fare discriminazioni su base etnica), era la risposta naturale, basata su una “morale sociale” ancestrale, ad un rischio per la sopravvivenza.

  • Uno dei prodotti culturali di maggior successo sono le credenze religiose e i culti comparsi nella preistoria e nelle successive epoche storiche, in risposta a esigenze e situazioni diverse. Secondo alcuni studiosi le religioni “moralizzatrici” sono nate quando le società avevano già raggiunto una popolazione ragguardevole: non hanno quindi contribuito alla nascita di società più numerose, ma sono piuttosto un portato di queste ultime. Questo significa che i caposaldi attorno ai quali si è poi articolato il nostro “sentimento morale” cooperativo risalgono a periodi precedenti quelli della comparsa delle religioni strutturate: e che queste ultime hanno semmai “consacrato” delle attitudini che erano già presenti negli umani pre-storici e che erano frutto dell’evoluzione naturale selettiva. In tal senso la predicazione cristiana dell’amore universale e il tabù induista dell’uccisione delle vacche sacre istituzionalizzano dei principi rispondenti, sia pure in maniera diversa, alle stesse finalità di sopravvivenza del gruppo. Non intendiamo comunque qui dare giudizi sull’utilità dimostrata in passato dalla religione, e consideriamo per quel che ci riguarda la tendenza religiosa un “effetto collaterale” dello sviluppo del cervello: ma vorremmo soffermarci a considerare se le religioni abbiano o meno ancora una funzione, in società che hanno raggiunto il livello culturale e tecnologico della nostra.
    Non c’è bisogno di essere degli appassionati di storia per richiamare alla memoria le guerre fatte o giustificate in nome della religione. Ne abbiamo purtroppo ancora testimonianza quotidianamente. In particolare, sono state molto attive in questo senso le tre religioni monoteiste, che con i loro libri sacri e le loro verità rivelate non accettano “l’empio orgoglio di Homo sapiens di decidere da sé nella vita collettiva e individuale”. È quindi indubitabile che le religioni hanno sempre pesantemente ostacolato la libertà di pensiero. Considerandole ora alla luce della funzionalità evolutiva, le religioni fondate sull’esistenza di una verità rivelata non funzionano più, sono diventate un ostacolo all’espandersi delle conoscenze, delle libere scelte e della convivenza cooperatrice. E quando affermano di non voler imporre nulla ai non credenti, lo dicono solo perché non sono più in grado di farlo.
    Ora, noi siamo però rimasti ancorati ad un concetto di difesa della libertà religiosa che ha avuto un senso fino a che la religione è stata in grado di imporre le sue verità. In quelle condizioni affermare che ciascuno aveva diritto di praticare la sua di religione, ovvero di credere a quello che riteneva giusto, era funzionale al libero pensiero e all’affermarsi della razionalità. Oggi, al contrario, permettere la divulgazione di credenze irrazionali mette a rischio la sopravvivenza dei principi su cui la libertà di pensiero si basa, i soli in grado di garantire la convivenza.
    E qui nasce un problema. Come la mettiamo allora con le religioni storiche? Mettere in discussione la libertà religiosa sembra infatti rappresentare una contraddizione, una violazione di quelle stesse libertà che si vuole continuare a garantire. Quindi di norma riteniamo che ogni professione religiosa vada rispettata, fatta salva naturalmente la clausola della reciprocità. Quando invece parliamo di fenomeni come quelli rappresentati dagli antievoluzionisti, dai no-vax, dai terrapiattisti, dai banditori di teorie le più strampalate, ma più in generale dalle varie “religioni laiche” che prosperano nel vuoto lasciato da quelle tradizionali, non abbiamo problemi a liquidare queste cose come idiozie, e come idioti pericolosi che andrebbero fermati i loro sostenitori: e un tale atteggiamento non lo consideriamo affatto liberticida. Questo perché in noi quello che abbiamo definito un “effetto collaterale” continua ad esercitare la sua influenza, e siamo almeno emozionalmente più vicini a chi cerca soluzioni del tipo religioso tradizionale.
    Per superare quella che può apparire una contraddizione è necessario dunque distinguere. In realtà le due cose, le religioni tradizionali e le nuove “religioni laiche” che si stanno affermando, pur nascendo da uno stesso bisogno di spiegazioni “metafisiche”, non sono affatto equiparabili: perché le prime, al netto delle strumentalizzazioni politiche ed economiche di cui sono state oggetto e malgrado il distacco dai fondamenti morali originari, rappresentano, o almeno hanno rappresentato, un rafforzamento dell’etica sociale, mentre le seconde preludono (ma potremmo ormai dire, conseguono) a un cambiamento sostanziale dei valori morali di fondo, ovvero al rigetto di quelli creati dall’evoluzione. Le prime in sostanza facevano leva sull’altruismo come cemento del gruppo (ciò che vale anche per le loro versioni secolarizzate, marxismo compreso), le altre favoriscono l’atomizzazione sociale e vellicano gli egoismi individuali. E quindi, mentre per le une, almeno in linea teorica, potrebbe anche essere ipotizzabile un ritorno alla valenza sociale originaria, proprio in ragione della loro decrescente rilevanza economica e politica (con l’eccezione dell’Islam, che costituisce un capitolo a parte), per le altre il discorso del ripristino di una “morale sociale” è chiuso in partenza.

 

  • Ma allora, alla luce di quanto abbiamo visto sin qui, del conflitto millenario tra una morale indotta dal meccanismo evolutivo e una di matrice essenzialmente culturale (cosa intendiamo in questo contesto per “cultura” dovrebbe ormai essere chiaro), in che direzione evolverà l’attuale modello “ibrido”? Senza voler giocare agli indovini, si possono almeno ipotizzare degli scenari. Il dato dal quale non possiamo prescindere è che non sono affatto venute meno le pressioni ambientali che avevano indotto lo sviluppo di una morale cooperativa. Dopo una breve stagione nella quale una parte almeno dell’umanità si era illusa di tenerle sotto controllo, o semplicemente se ne era dimenticata in nome delle “magnifiche sorti e progressive”, e aveva inaugurato una presunta “liberalizzazione” morale, quelle pressioni si ripresentano oggi nel formato globale: polluzione demografica, degrado ambientale, sconvolgimenti climatici, esaurimento delle risorse a causa di uno sfruttamento scriteriato, sono problemi che toccano ora direttamente e contemporaneamente più di sette miliardi di umani, e ai quali non si può ovviare come un tempo semplicemente spostandosi altrove. Il conto che la natura ci sta presentando è salato. A fronte di questo, le ipotesi prospettabili si riducono in linea di massima a tre.
    La prima, la più probabile perché in continuità diretta con ciò che già abbiamo sotto gli occhi, è che si continui a non prendere atto dell’evidenza, e l’umanità prosegua allegramente verso il baratro, applaudendo e ridendo come gli spettatori del teatro in fiamme raccontati da Kierkegaard. In tal caso gli scenari futuri non sarebbero molto diversi né da quelli mostrati in un sacco di libri (da L’ultima spiaggia a La strada) e di film (dalla saga di Max Mad a Equilibrium) del filone post-apocalittico, né da quelli immaginati quattrocento anni fa come originari da Hobbes, con un ritorno alla situazione dell’homo homini lupus, all’egoismo individuale di sopravvivenza precedente la nascita della morale.
    La seconda possibilità è che l’egoismo “culturale”, quello legato non alla sopravvivenza ma alla sopraffazione, abbia antenne talmente sensibili da cercare di ovviare all’imminente catastrofe con un riordino sociale forzato, dai costi umani altissimi, che implicherebbe la perpetuazione di un assetto fortemente gerarchico e cristallizzato. Parliamo di quella che oggi viene da molti preconizzata come una “dittatura tecnologica”, riconducibile al modello dell’alveare, che ha svariate possibili declinazioni, dall’eco-dittatura al modello cinese, e che in fondo ha costituito una costante nell’immaginario utopico. In tal senso avremmo il trionfo della componente culturale su quella evolutiva. Per l’umanità si tratterebbe non solo di una “fine della storia”, ma anche della fine del processo evolutivo, della sua storia naturale.
    Rimane la terza, senz’altro la più improbabile, che trova però un minimo di conforto in un dato biologico: il nostro cervello è plastico, e pertanto quegli stessi agenti che avevano spinto originariamente l’evoluzione di una moralità sociale, l’addestramento, la trasmissione di cultura, le pressioni esercitate attraverso i sensi di colpa, il desiderio di mantenere la reputazione sociale ecc., possono ancora essere determinanti, sia pure nelle mutate condizioni ambientali. D’altro canto, fino all’età di sei o sette anni il senso di equità sembra essere indipendente dalla cultura in cui si cresce, mentre gli effetti di quest’ultima iniziano a farsi sentire in età successiva. Si tratta quindi di dare un adeguato terreno “culturale” di applicazione a quel senso dell’equità che a questo punto possiamo considerare innato, di rafforzarlo attraverso le modificazioni che i fattori culturali cui accennavamo sopra sono in grado di produrre in un cervello ancora in crescita. Ciò significa che le scelte future in materia di moralità sociale si giocheranno sugli stimoli che le generazioni dei nostri nipoti riceveranno in questa fascia d’età. E le scuole di formazione religiosa, le società marziali e istituzioni similari hanno dimostrato quanto funzioni “addestrare” gli individui prima della maturità (ferma restando la differenza tra un semplice travaso di credenze e nozioni e l’educazione ad un atteggiamento cooperativo).
    Stiamo parlando in questo caso di una rivoluzione radicale, che riguarda tanto i modi quanto i contenuti della conoscenza. Ovvero dell’altra faccia dell’utopia, la rivoluzione “dal basso”, che parte dall’individuo stesso: quella che ancora con Kant era immaginata come una “uscita dalla minorità”, e che oggi assume piuttosto l’aspetto di un “rientro nella moralità”.
    Probabilmente siamo ormai fuori tempo massimo per sperare in una svolta del genere, perché la natura non aspetta i nostri comodi e perché i segnali che quotidianamente arrivano, politici e comportamentali di massa, parrebbero andare in un’altra direzione. Varrebbe comunque la pena provarci. Il cervello poi, in modo automatico, farà le sue scelte morali, perché non dobbiamo dimenticare che le stesse spinte “culturali” possono funzionare anche in direzione contraria. In aree geografico-sociali in cui esistono particolari subculture questi meccanismi culturali per la formazione di moralità hanno spesso prodotto risultati opposti.
    Dobbiamo allora anche chiederci se nelle società moderne funzionano ancora quei meccanismi di premio/punizione indispensabili alla conservazione del gruppo. E constatare che alcune scelte fatte in nome del progresso, e funzionali alla salvaguardia del diritto individuale, vanno in controtendenza. Le leggi sulla privacy, ad esempio (in linea di principio giuste e per alcuni aspetti encomiabili), contrastano con la funzione di guardiano della moralità sociale esercitata dal “pettegolezzo” e, se esasperate, producono danni. Anche alcune idee laiche, frutto dei lumi della ragione, rischiano di essere utilizzate per rafforzare il conformismo sociale con lo stesso meccanismo del dogmatismo di tipo religioso (il famigerato “politicamente corretto”).
    La stessa accresciuta stanzialità ha bloccato uno dei meccanismi con cui un gruppo poteva escludere gli individui che non rispettavano le regole. Nelle società pre-agricole se il gruppo si spostava chi era tendenzialmente non cooperativo non aveva altra possibilità che restare isolato, correndo i rischi conseguenti, o seguire gli altri adeguandosi alle loro norme di convivenza. L’aumento della concentrazione degli abitanti nelle grandi città, e ancor più la facilità degli spostamenti, hanno portato all’isolamento generalizzato degli individui, alla rarefazione dei rapporti sociali e quindi al mancato funzionamento del controllo sociale. Le norme indotte dalla crescente complessità della società più che rispondere al “senso di equità” servono a codificare diritti “difensivi”, di salvaguardia individuale, legati sia al modo di produzione che ai mutati rapporti fra persone. L’esplosione demografica eccede la capacità di gestione dei rapporti interpersonali costruita dall’evoluzione.

 

  • Anche altri meccanismi vitali, che agiscono sia negli unicellulari che negli organismi via via più complessi, in una società “progredita” come la nostra rischiano di produrre risultati che ostano al replicarsi della vita. Ci riferiamo alla “omeòstasi”, alla indispensabile capacità dei viventi di mantenere, generalmente attraverso meccanismi di retroazione, nello stato migliore i parametri vitali dell’organismo; caratteristica che, come sostiene Damasio, produce anche una “omeòstasi” sociale e culturale[6]. Gli esseri umani hanno tradotto le spinte vitali dell’omeòstasi in “ricerca della felicità”, e hanno addirittura inserito questa finalità nelle dichiarazioni di diritti universali e nelle costituzioni. Ma la ricerca della felicità, che serve a gratificare il “fenotipo”, confligge con la sua funzione biologica di quest’ultimo quale replicatore di geni, oltre che con gli interessi della società. Chi come noi vive nella parte del mondo economicamente più florida conosce svariati esempi di individui dalle elevate capacità culturali e morali che, per soddisfare le proprie aspirazioni, non si riproducono. In un mondo in cui Homo sapiens sapiens è rappresentato da un numero di individui superiore, a dir poco, di quattro o cinque volte a quello ottimale, questo potrebbe sembrare un fatto positivo: ma quale sarà l’effetto nel lungo periodo sulla conservazione e sul progresso della società? Quel che sembra certo è che il meccanismo della selezione si è inceppato, e che noi non siamo in grado di prevedere se ciò produrrà effetti positivi o negativi. Ma certamente i segnali non sono confortanti.
    La storia e la cronaca di questi giorni raccontano che non appena si manifesta una qualche emergenza spuntano i profittatori che cercano di lucrare sulle necessità altrui (il caso mascherine è solo l’ultimo, per il momento). C’è chi spiega il fenomeno, quando addirittura non lo giustifica gesuiticamente, con le leggi della domanda e offerta: ma questa interpretazione della correttezza dei comportamenti su base “mercantile” confligge con le intuizioni morali che si sono affermate evolutivamente. Ora, i profittatori ci sono sempre stati, sin dai tempi di Pericle. Ma almeno erano oggetto della pubblica riprovazione, e in qualche caso anche della mano della giustizia. Oggi i meccanismi di quest’ultima sono inceppati da una serie infinita di salvaguardie e guarentigie nei confronti del trasgressore, per non parlare del malfunzionamento e della corruzione, e l’opinione pubblica è talmente subissata da sempre nuove informazioni, vere o fasulle che siano, da dimenticare immediatamente o ignorare del tutto qualsiasi denuncia. Quel che è peggio, però, è che a queste situazioni ci stiamo assuefacendo, non ci sorprendono e non ci inducono allo sdegno, le liquidiamo con un po’ di disgusto e le rubrichiamo come quasi normalità. Il che significa che i tiranti morali che sostenevano una costruzione sociale durata millenni si sono allentati: e queste situazioni preludono di norma ad un crollo (anche qui, gli esempi sono freschi).

Ricapitolando. Sembra evidente che con l’aumento della popolazione e dopo l’avvento dell’agricoltura il modello di “strategia evolutivamente stabile” che ci ha accompagnato probabilmente per milioni di anni sia entrato in crisi.

Di intervenire a correggere i meccanismi evolutivi non se ne parla nemmeno (in realtà se ne sta parlando sin troppo: ci riferiamo all’ingegneria genetica): è un rischio inaccettabile, quand’anche fossimo in grado di correrlo, e davvero non sappiamo dove potrebbe condurre. Possiamo però almeno mettere in discussione quelle costruzioni culturali che essendo artificiali entrano in conflitto con la morale radicata nella nostra mente. Un esempio molto semplice e, soprattutto per gli italiani, di verificabilità immediata: condoni e iniziative analoghe provocano un deterioramento di quello che sociologi ed economisti chiamano “capitale sociale[7]” e sono perciò da rifiutare. E in positivo sarebbe semmai utile vagliare tutte le nuove norme alla luce della loro capacità di accrescere o distruggere “capitale Sociale”.

Sul futuro dell’umanità non ci pronunciamo. Ci sono sicuramente molti ottimisti, ma sembrano prevalere i pessimisti. Ad esempio, il premio Nobel Christian de Duve sostiene: «Quand’anche il nostro cervello – come è molto probabile – fosse perfettibile, le nostre società moderne non potrebbero fornire un’opportunità che consentisse alla selezione naturale di favorire i cambiamenti genetici pertinenti. Supponiamo, per esempio, che una combinazione promettente fosse presente nel genoma di Mosè, Michelangelo, Beethoven, Darwin, Einstein o chiunque altro; non ci sarebbe stata alcuna possibilità di propagare questa combinazione in forza di un qualche vantaggio evolutivo. Al contrario, le nostre società favoriscono semmai la tendenza opposta. […] Il cervello, che ha determinato il nostro successo, potrebbe anche provocare la nostra rovina, semplicemente per non essere abbastanza bravo a gestire le proprie creazioni.[8]» Ci trova perfettamente d’accordo.

 

NOTE

[1] Citazione a braccio, autore sconosciuto

[2] Marvin Harris – Cannibali e re – Feltrinelli

[3] Michael Tomasello – Storia naturale della morale umana – Raffello Cortina

[4] Richard Dawkins – Il gene egoista – Mondadori

[5] Antonio Damasio – Il sé viene alla mente – Adelphi; Stanislas Dehaene – Coscienza e cervello – Raffaello Cortina

[6] «In breve, la mente cosciente emerge nella storia della regolazione della vita – un processo dinamico sinteticamente indicato con il termine di omeostasi–, la quale ha inizio in creature unicellulari come i batteri o le semplici amebe, che pur non avendo un cervello sono capaci di comportamenti adattativi. Prosegue poi in individui il cui comportamento è controllato da un cervello semplice (per esempio i vermi) e continua la sua marcia negli individui il cui cervello genera sia il comportamento, sia i processi della mente (gli insetti e i pesci sono un esempio di questo livello). […]

La mente cosciente degli esseri umani – armata di sé tanto complessi e sostenuta da capacità di memoria, ragionamento e linguaggio ancora più robuste – genera gli strumenti della cultura e apre la strada a nuovi mezzi di omeostasi sociale e culturale. Compiendo un salto straordinario, l’omeostasi si guadagna così un’estensione nello spazio socioculturale. I sistemi giuridici, le organizzazioni politiche ed economiche, le arti, la medicina e la tecnologia sono altrettanti esempi dei nuovi strumenti di regolazione.

Senza l’omeostasi socioculturale non avremmo assistito alla drastica riduzione della violenza e al simultaneo aumento della tolleranza, tanto evidenti negli ultimi secoli. Né vi sarebbe stata la graduale transizione dal potere coercitivo al potere della persuasione che contraddistingue – a prescindere dai loro fallimenti – i sistemi sociali e politici avanzati. L’indagine sull’omeostasi socioculturale può attingere informazioni dalla psicologia e dalle neuroscienze, ma le radici dei suoi fenomeni affondano in uno spazio culturale. Chi studia le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, le decisioni del Congresso o i meccanismi delle istituzioni finanziarie può ragionevolmente essere considerato, indirettamente, alle prese con lo studio delle stravaganze dell’omeostasi socioculturale.

Sia l’omeostasi a livello fondamentale (guidata da processi non coscienti), sia l’omeostasi socioculturale (creata e guidata da menti riflessive dotate di coscienza) operano come amministratori del valore biologico. Le varietà dell’omeostasi – a entrambi i livelli, fondamentale e socioculturale – sono separate da miliardi di anni di evoluzione e tuttavia, sebbene in nicchie ecologiche differenti, perseguono il medesimo obiettivo: la sopravvivenza degli organismi. Nel caso dell’omeostasi socioculturale, quell’obiettivo si è ampliato fino ad abbracciare la ricerca deliberata del benessere. Va da sé che il modo in cui il cervello umano gestisce la vita richiede che entrambe le varietà di omeostasi interagiscano continuamente. Tuttavia, mentre la varietà fondamentale dell’omeostasi è un’eredità prefissata fornita dal genoma, la varietà socioculturale è un fragile work in progress responsabile di gran parte della drammaticità, della follia e della speranza insite nella vita umana. L’interazione fra questi due tipi di omeostasi non è confinata al singolo individuo. Dati sempre più numerosi e convincenti indicano che, nell’arco di numerose generazioni, gli sviluppi culturali inducono modificazioni del genoma.» Antonio Damasio Il sé viene alla mente – Adelphi

[7] «capitale sociale Insieme di aspetti della vita sociale, quali le reti relazionali, le norme e la fiducia reciproca, che consentono ai membri di una comunità di agire assieme in modo più efficace nel raggiungimento di obiettivi condivisi, come chiarito, per primo, da R. Putnam (Making democracy work: civic traditions in modern Italy, 1993).» Da Enciclopedia Treccani

[8] Christian de Duve – Alle origini della vita – Le Scienze

 

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​La morale e le favole

di Nico Parodi, 28 novembre 2020

In attesa di sviluppare in maniera un po’ più approfondita il discorso sui meccanismi che determinano i comportamenti umani, vorrei contribuire nell’immediato con qualche considerazione sui temi che mi sembrano maggiormente caratterizzare, soprattutto in quest’ultimo periodo, la “linea” degli interventi apparsi sul sito: ovvero, il fenomeno del complottismo, la religione laica, l’esistenza o meno di un sentimento morale condiviso. È una prima risposta all’invito lanciato da Paolo in “Acufeni?”: spero di averne bene interpretato il senso.

Siamo tutti complottisti?

Il classico detective dei libri gialli in presenza di un delitto cerca di scoprire l’arma e il movente, basandosi su una serie di indizi per crearsi un identikit mentale del colpevole. E fin qui non agisce in modo molto diverso dai complottisti che cercano dietro ogni accadimento difficilmente spiegabile (ma spesso anche dietro quelli spiegabilissimi) gli autori di una congiura. La differenza, oltre che nelle indubbie superiori qualità intellettive dell’investigatore, sta nel fatto che quest’ultimo deve fornire delle prove, mentre il complottista ne fa tranquillamente a meno, o al più se le inventa.

Quindi, diciamo che in comune c’è una disposizione, un atteggiamento di fondo: a fare la differenza è il modo nel quale viene condotta l’indagine. Sulla disposizione originaria agisce un meccanismo di risposta biologica. In presenza di un qualsiasi oggetto o fatto la mente umana cerca di capire a cosa serve, da chi o da cosa è causato e, se si tratta di esseri viventi, quali siano le intenzioni dell’ideatore. Il tentativo di mettere in connessione dei fatti tramite una relazione di causa-effetto, che è riscontrabile in qualche misura anche in altri animali, è indubbiamente utile dal punto di vista evolutivo: è quello che ci ha permesso di sviluppare le nostre conoscenze, nonché di progettare e realizzare sulla loro scorta gli strumenti che ci hanno portato all’attuale livello di competenze tecnologiche.

Ora, nell’analizzare il mondo la mente umana sembra servirsi di un modulo mentale specializzato in operazioni di “ingegneria inversa” (quella che dallo studio di un oggetto ne ricostruire il progetto). È un percorso che di norma funziona. Spesso però le urgenze legate alla sopravvivenza impongono al nostro cervello di trovare soluzioni rapide: e allora ricorriamo a scorciatoie “euristiche” che in molti casi portano a conclusioni sbagliate.

Se infatti la ricerca delle cause o delle intenzioni non offre spiegazioni logiche soddisfacenti (o ne offre di troppo complesse, magari al di fuori della nostra portata o del nostro livello di conoscenze) finiamo per tagliare corto, sconfinando dall’ambito del razionale e del dimostrabile, e immaginarne di fantasiose che ci fanno presumere di aver trovato una risposta senza eccessivo sforzo. Questo vale naturalmente tanto più per gli accadimenti: di fronte a fatti o situazioni, siano essi reali o presunti, rispetto ai quali non possediamo gli strumenti per individuare connessioni logiche, l’idea che ci sia qualcuno che congiura per fini poco chiari risolve a basso costo il problema e maschera a noi stessi la nostra ignoranza.

Questo è il vero discrimine. Il sospetto è infatti costituzionalmente e direttamente proporzionale all’ignoranza: ma ha una funzione positiva quando opera nella consapevolezza di questa ignoranza, quando cioè ci motiva a superarla facendo uno sforzo conoscitivo: mentre opera negativamente quando ci crea la presunzione di avere già tutte le spiegazioni in mano, magari con l’avallo di una condivisione diffusa (il famigerato: se lo pensano tanti, qualche motivo ci sarà).

Senza altri giri di parole, quando da metodo d’indagine (quindi da motivatore della domanda) il sospetto diventa una componente fissa della risposta, tutta la sua valenza conoscitiva va a farsi benedire: anzi, si traduce in zavorra, e spegne la nostra sete di verità con un surrogato velenoso e paralizzante.

Il complottismo è dunque il prodotto di scarto di una normale funzione della nostra mente: e non sarebbe di per sé eccessivamente preoccupante (in ogni processo produttivo ci sono disfunzioni), non fosse che l’errore sta diventando la norma, sta dilagando, e in una società pressapochista come la nostra comincia ad essere omologato per buono. In realtà, anche in un’ottica grettamente “economicistica” non andrebbe condannato solo perché è una “perversione” di un processo mentale corretto, ma anche perché in termini “evolutivi” non funziona affatto (se non per coloro che ci marciano). Offrendo spiegazioni scorrette dei problemi non consente di affrontarli in maniera efficace, e ne crea anzi di ulteriori.

Ne sanno qualcosa tutti quei poteri, più o meno occulti, che da sempre hanno usato le teorie del complotto per scaricare su gruppi sociali, etnici o religiosi, o su poveracci designati comunque come capri espiatori, le proprie responsabilità e nequizie. La cosa vale ancor più oggi, per quei complotti cosmici di cui è popolato Internet e che rimangono misteriosi e insondabili perché hanno la stessa caratteristica che Simmel attribuiva al segreto, il quale segreto è tanto più potente e seducente quanto più è vuoto. Un segreto vuoto si erge minaccioso e non può essere né svelato né contestato, e proprio per questo diventa strumento di potere.

La differenza sta semmai nel fatto che un tempo la sindrome complottista poteva trovare una parziale giustificazione nella difficoltà per la stragrande maggioranza di accedere a conoscenze e informazioni corrette. E che comunque viaggiava sotterranea, salvi sporadici momenti di esplosione, in genere creati ad arte da chi teneva le fila. Oggi non ha più diritto ad alcuna giustificazione del genere (ma nemmeno la cerca): oggi è solo frutto di una ignoranza presuntuosa e proterva, che ambisce a farsi massa e norma, che rivendica una sempre maggiore visibilità e che trasferisce su misteriose forze occulte la paura e il disprezzo che prova quando si guarda allo specchio.

Il Valium dei popoli

Da tempo vedo con crescente insofferenza ricorrere gli indizi della nascita di una “religione laica”. Mi disturba anche il fatto che siano poche le persone provviste di una certa cultura che manifestano apertamente la loro preoccupazione al riguardo. Eppure i segnali sono molti, e per coglierli è sufficiente sfogliare i giornali o assistere a qualche trasmissione televisiva con un po’ di spirito critico.

La biologia ci insegna che ogni nicchia ecologica libera viene invariabilmente colonizzata da qualche nuova specie. Allo stesso modo, evidentemente, anche nella società a tecnologia avanzata la perdita di consenso e di credito delle religioni tradizionali ha creato un vuoto, e questo vuoto viene occupato o da un edonismo sfrenato oppure, fra quelli che per indole o cultura cercano risposte meno insignificanti, da comportamenti che finiscono per assumere la forma e i contenuti di una “religione laica”.

Certo, può sembrare un ossimoro una religione senza divinità, ma in questo caso il ruolo di divinità è assunto dal concetto di “ciò che è bene/ciò che è giusto”. A ben guardare, nella nuova religione laica è presente, come nelle religioni classiche, il mito dell’evento che dà inizio al nuovo regno del “bene” (declinato poi in innumerevoli versioni), compaiono figure di martiri, santi, profeti, così come dogmi e catechismi: ma, soprattutto, si forma una classe di “amministratori” dell’idea di “bene” che giudicano e pronunciano anatemi contro gli eretici.

Ora, quelli di buono/cattivo, bene/male sono concetti legati allo stato di benessere del singolo vivente. In particolare negli esseri umani il giudizio di valore dipende da emozioni e sentimenti, e non dall’esame razionale e astratto di uno stato o di un avvenimento. Se esaminiamo razionalmente un fenomeno per giudicarlo, avremo come risultato il “funziona” o “non funziona” per un determinato scopo, e non “è bene” o “è male”.

La nuova religione laica invece, come le altre religioni, ha la pretesa di definire ciò che è bene e ciò che è male basando i suoi giudizi non su una fredda analisi razionale, il più scientifica possibile, ma su parametri che sono frutto di emozioni e sentimenti. E per giunta i suoi adepti pretendono che tutti si adeguino ai “sacri valori” cosi identificati.

Per il momento i depositari della “verità laica” non lanciano fatwe contro gli infedeli (o perlomeno, non esplicite. Anche se non mancano gli esempi di fanatici che leggono nella denuncia un invito alla “guerra santa”): intanto però rinnovano la tradizione dei libri “proibiti” e arrivano anche a creare un “indice” dei buoni e dei cattivi. Nel caso riportato da Paolo in Acufeni? si attengono alla lettera della Bibbia, facendo ricadere su nipoti e pronipoti colpe degli avi che sembravano dimenticate. Ma ancora più grave è che si discuta di leggi che stabiliscono quali sono i modi giusti di pensare. Anzi, alcune di queste leggi esistono già, e sono ispirate ad una concezione molto ambigua di ciò che va considerato “politicamente corretto”.

Qui bisogna intenderci. La correttezza è senz’altro una gran bella cosa. Se fosse esercitata da tutti in tutte le funzioni e all’interno di ogni tipo di relazione risolverebbe d’incanto metà dei problemi dell’umanità. Sappiamo però, purtroppo, di non poterci contare, e infatti le cose vanno come vanno. È dunque giusto cercare là dove possibile di salvaguardarla. Ma sappiamo anche che imporla per legge è assurdo, è una attitudine che va educata (e spesso non basta nemmeno questo, prevalgono le disfunzioni caratteriali) e tutto in questo mondo liquido sembra congiurare invece a diseducarla.

Quindi, i problemi in questo caso sono due, e vanno affrontati in maniera diversa. Il primo è quello di chiarire che la correttezza non sta nel modo in cui si pensa, ma nel modo in cui si manifesta e si professa il proprio pensiero. Di stabilire cioè che ciascuno è libero di pensarla come vuole, purché poi, all’atto pratico, questo pensiero non si traduca in una prassi che offende o danneggia gli altri. Ma questo implica a sua volta reciprocità, e cioè che nessuno si senta offeso per il solo fatto che altri la pensino diversamente da lui. Che è invece proprio il caso dei “nuovi credenti”. L’altro problema, questo si necessitante di leggi e normative chiare e severe, è semmai quello di contenere le manifestazioni di scorrettezza davvero eclatanti, offensive e dannose, quelle che sono il pane quotidiano delle trasmissioni televisive, delle quali si nutre la stampa scandalistica, che costituiscono ormai la regola nei comportamenti diffusi, ad ogni livello, e delle quali pare invece non si scandalizzi più nessuno.

A tali comportamenti si aggiungono ora le liste di proscrizione, le statue abbattute, le teorie del complotto, i libri per il momento solo segnalati ma domani eventualmente destinati al rogo, magari assieme ai loro autori. Chissà perché, tutto questo mi suona come un “già visto”, se non da me personalmente senz’altro da chi è venuto appena prima di me, nemmeno troppo tempo fa. E penso che oggi sia più che mai necessario ribadire e difendere i principi dell’illuminismo, ricordando quanto diceva Kant: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”.

Questa si chiama correttezza!

Il buono e il cattivo, l’utile e il dannoso

Sul tema della morale, così come sugli altri cui sopra ho accennato, mi riservo di tornare con calma in un’altra occasione. Voglio però anticipare alcune brevi considerazioni, che utilizzerò come fossero dei postulati per sviluppare il ragionamento successivo. Sono considerazioni che nascono da ricerche ormai consolidate, e possono quindi essere proficuamente adottate per analizzare la realtà complessa delle nostre società. In ottemperanza a quanto scritto sopra, non hanno la pretesa di costituire delle “verità” definitivamente conquistate. Le considero “strumenti affidabili di lavoro” per avvicinarmi ad una maggiore conoscenza (ed autocoscienza).

1. Credo possiamo tutti concordare nel definire l’uomo un animale social-culturale la cui sopravvivenza è legata alla convivenza collaborativa, alla cultura e alla sua trasmissione. Esperienze alla Thoreau (o alla Rambo) presuppongono il possesso di strumenti più o meno sofisticati, conoscenze e addestramento prodotti di una cultura che può essere frutto solo di una società complessa, quindi patrimonio di tutti e non del singolo individuo.

2. Un’altra considerazione da fare è che, in natura, bene/male giusto/ingiusto sono etichette soggettive di valore che applichiamo a qualcosa che funziona o non funziona. Il valore può essere misurato sul tornaconto immediato dell’individuo o su un vantaggio per il gruppo, più indiretto, ma di efficacia maggiore nel tempo. Rubare la cacciagione ad un membro del mio gruppo nell’immediato funziona, ma funziona meglio nel tempo la capacità di collaborare nella caccia per renderla più redditizia dividendo equamente le prede.

3. La morale è il risultato dell’evoluzione. Già i batteri mostrano un comportamento che, se non sapessimo di trovarci di fronte a unicellulari, quindi esseri privi di una mente e di un cervello, potremmo interpretare come regolato da principi morali1. Anche il nematode Caenorhabditis elegans mostra in alcuni casi un comportamento cooperativo, grazie a due neuroni che, eliminati, trasformano il nematode in un individuo non cooperativo (cfr. Steven Rose – Il cervello del XXI secolo).

4. Ovviamente, anche in organismi evoluti in tempi più recenti si manifesta il comportamento collaborativo, in particolare nell’uomo. La valutazione, automatica, di funzionalità per il singolo e per il gruppo che attribuiamo ai comportamenti cooperativi (un giudizio di valore in senso biologico, secondo Michael Tomasello), diventa il fondamento dei nostri giudizi morali2\. Anche Jonathan Haidt afferma che le intuizioni morali avvengono in modo automatico e inconscio: la ragione funziona poi come un “avvocato” che giustifica la scelta fatta. Fortunatamente a certe condizioni la ragione riesce a fare qualche revisione: “la natura umana non solo è intrinsecamente morale: è anche intrinsecamente moralistica”. Insomma, la morale è a un tempo stesso innata (un insieme di intuizioni evolute) e appresa (i bambini imparano ad applicare queste intuizioni all’interno di una particolare cultura).

5. Il processo che ci ha portato ad una morale tipicamente umana si ipotizza sia iniziato circa due milioni di anni fa, procedendo in una sorta di “autodomesticazione”. Sempre secondo Tomasello (in Storia naturale della morale umana), negli ultimi due milioni di anni gli appartenenti al genere Homo hanno sviluppato una “morale della simpatia” (o altruismo di parentela) che condividono con le altre grandi scimmie, mentre partendo da circa 400.000 anni fa hanno sviluppato la “morale della seconda persona” (o altruismo reciproco), che è già un gradino più complessa. Negli ultimi 150.000 poi, con la crescita della popolazione e il passaggio ad un’organizzazione tribale più ampia, fatta di diversi gruppi che dovevano estendere una qualche forma di collaborazione (ad esempio, a scopo di difesa), hanno sviluppato quella che è definita “morale oggettiva” (impersonale), che si applica in un ambito allargato, teoricamente a tutti i propri simili. Le relazioni non sono più limitate al piccolo gruppo di cacciatori (max 150 persone) regolato da rapporti interpersonali diretti: si rende necessario collaborare con altri gruppi con la stessa cultura, con cui si condividono regole di comportamento riconosciute come “il modo giusto di fare le cose”. Su questa strada, in una progressione geometrica a partire dalle società agricole, utilizzando sistemi di comunicazione evoluti, attraverso racconti, miti, religioni, istituzioni varie, l’umanità si è dotata di un insieme di norme che regolano i rapporti non solo tra gli appartenenti al gruppo ma tra tutti gli uomini.

6. La “morale della simpatia” e la “morale della seconda persona”, selezionate evolutivamente, hanno lasciato tracce genetiche che condizionano lo sviluppo del cervello, ciò che probabilmente fanno anche alcuni aspetti della “morale oggettiva”. Altri aspetti della morale dei nostri tempi sono costruzioni puramente culturali3. La nostra “mente della moralità” utilizza strumenti che definiamo “senso di equità, di obbligo, di colpa” “mantenimento della reputazione sociale”. La critica aperta e anche il pettegolezzo sono da sempre usati per censurare comportamenti scorretti: assolvono ad un ruolo educativo nei confronti di chi partecipa o assiste alla discussione.

7. Lo sviluppo del cervello è frutto della genetica e dell’ambiente e, nell’uomo, prosegue fin oltre i 20 anni; ma anche dopo le connessioni tra i vari neuroni continuano a modificarsi (il cervello umano è fatto di 1011 neuroni e 1015 connessioni). I neuroni, collegati da assoni e dendriti, si organizzano in circuiti e sistemi di diversa complessità, che non si modificano solo durante lo sviluppo. Grazie alla plasticità del cervello si verificano creazioni e demolizioni di sinapsi in relazione agli stimoli. Se, per semplificare, vogliamo utilizzare il raffronto con i computer, potremmo assimilare i circuiti formati da neuroni, assoni, dendriti e sinapsi ad una CPU (e a memorie EPROM) che si aggiornano in relazione alle esperienze di vita del “proprietario” del cervello.

8. Nessuna forma di convivenza cooperativa può reggere se all’interno non funziona un meccanismo di premio punizione. Il meccanismo di ricompensa e punizione funziona all’interno di ciascun organismo e funziona anche all’interno di gruppi o società complesse basate sulla cooperazione. I procedimenti della giustizia svolgono all’interno delle società evolute una funzione assimilabile al sistema immunitario di un organismo: cercano di bloccare i comportamenti dannosi (punizione). Le società che funzionano dovrebbero essere in grado di innescare meccanismi premiali per i comportamenti virtuosi, quali la reputazione sociale, l’aumento della “fitness riproduttiva”, ecc… Di valersi cioè, ai fini della coesione sociale, dell’appagamento delle tendenze morali istintive prodottesi nel corso dell’evoluzione.

Per il momento è tutto. Credo però sia già sufficiente ad offrire qualche elemento di riflessione. Per cominciare, a farci capire che dietro il complottismo o l’integralismo dei neo-convertiti non c’è un super-complotto. Ci sono solo cervelli in panne, o sottoalimentati. Purtroppo questa constatazione non ci consola. Le fonti energetiche per i cervelli si vanno prosciugando, e al di sotto un certo limite non sono rinnovabili. E forse quel limite lo abbiamo già superato. 

Note

1 «Nella dinamica sociale complessa, se pure priva di mente, da essi creata i batteri possono cooperare con altri batteri, imparentati o meno dal punto di vista genomico. E nella loro esistenza priva di mente risulta che assumono addirittura quella che si può soltanto definire una sorta di «attitudine morale». I membri più stretti di un gruppo sociale – una famiglia, per così dire – si identificano reciprocamente grazie alle molecole di superficie che producono o alle sostanze che secernono, le quali sono a loro volta specificate dai loro genomi individuali. Ma i gruppi di batteri devono fronteggiare l’avversità dell’ambiente e devono spesso competere con altri gruppi per conquistare territorio e risorse. Affinché un gruppo abbia successo, i suoi membri devono cooperare. E ciò che può succedere durante lo sforzo di gruppo è affascinante. Quando individuano nel loro gruppo dei «disertori», vale a dire particolari membri che si sottraggono al compito della difesa, i batteri li emarginano, persino se sono imparentati dal punto di vista genomico e fanno quindi parte della loro famiglia. I batteri non coopereranno con batteri imparentati che non svolgono la propria parte e che non contribuiscono agli sforzi del gruppo; in parole povere, ignorano i batteri voltagabbana non cooperativi». (Antonio Damasio – Lo strano ordine delle cose – Adelphi ed.)

2 «I complicati meccanismi neurali in cui sono implicate le molecole associate al «valore» rappresentano un tema importante, su cui molti neuroscienziati sono oggi impegnati a far luce. Che cosa induce i nuclei a liberare quelle molecole? Dove sono liberate, precisamente, nel cervello e nel resto del corpo? Che cosa accade con la loro liberazione? In un modo o nell’altro, le discussioni sulle nuove affascinanti scoperte tradiscono le nostre aspettative proprio quando passiamo alla domanda fondamentale: Dove si trova il motore dei sistemi del valore? Qual è il primordio biologico del valore? In altre parole, che cosa mette in moto questo sofisticatissimo macchinario? Perché esso ebbe inizio? E perché è diventato quello che è diventato?
Senz’ombra di dubbio, le note molecole e i loro nuclei di origine sono componenti importanti del meccanismo del valore, ma non sono* la risposta alle nostre domande. Io considero il valore indissolubilmente legato al bisogno, e il bisogno alla vita. Nelle quotidiane attività sociali e culturali noi formuliamo valutazioni che hanno una connessione diretta o indiretta con l’omeostasi.
Quella connessione spiega perché i circuiti del cervello umano siano stati dedicati in modo tanto dispendioso non solo alla previsione e al rilevamento di perdite e guadagni, ma anche al timore delle prime e alla promozione dei secondi. Ciò spiega, in altre parole, perché gli esseri umani siano ossessionati dall’assegnazione di un valore.
Direttamente o indirettamente, il valore ha a che fare con la sopravvivenza; in particolare, nel caso degli esseri umani, ha a che fare anche con la qualità di quella sopravvivenza, nella forma di benessere. Il concetto di sopravvivenza – e, per estensione, il concetto di valore biologico – può essere applicato a diverse entità biologiche, a partire dalle molecole e dai geni fino a interi organismi.» (Antonio Damasio – Il sé viene alla mente – Adelphi ed.)

3 «Innanzi tutto, la selezione opera su migliaia di generazioni. Per il novanta per cento dell’esistenza umana, gli uomini hanno vissuto da cacciatori e raccoglitori in piccole bande nomadi. I nostri cervelli sono adattati a quel modo di vivere morto e sepolto, non alle nuove civiltà agricole e industriali. Non sono programmati per far fronte a folle anonime, alla scuola, alla lingua scritta, al governo, alla polizia, ai tribunali, agli eserciti, alla medicina moderna, alle istituzioni sociali ufficiali, all’alta tecnologia e altri nuovi venuti nell’esperienza umana. E poiché la mente moderna è adattata all’età della pietra, non a quella del computer, non c’è alcun bisogno di sforzarsi di trovare spiegazioni adattive di tutto quanto facciamo. Nel nostro ambiente ancestrale non c’erano le istituzioni che oggi ci spingono a scelte non-adattive, come gli ordini religiosi, le agenzie di adozione e le società farmaceutiche, quindi fino a tempi recentissimi non c’è mai stata una pressione della selezione a resistere a quegli stimoli.» (Steven Pinker – Come funziona la mente – Castelvecchi ed)

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Il cielo stellato e l’etica di Alan Ladd

di Paolo Repetto, 30 maggio 2013

Non c’è cosa più difficile del far comprendere ad uno studente il senso e la grandezza del “tu devi” kantiano. Non certo per colpa di Kant, che ce l’ha messa tutta per spiegarsi, riuscendoci peraltro benissimo. E nemmeno va tirata in ballo l’inadeguatezza degli insegnanti: ce ne sono anche alcuni (pochi, in verità) che Kant lo hanno capito e lo amano, ma quando si tratta di trasmetterne la lezione etica incontrano gli stessi scogli. Io credo che il problema sia un altro, e che valga per l’etica pressappoco quello che sant’Agostino diceva del tempo: cos’è dunque? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. (Da notare che sant’Agostino non diceva di non saperlo: confessava solo di non essere in grado di spiegarlo).

Ora Kant, che era uno tosto, e a dispetto delle sue cautele davanti al noumeno pensava che in un modo o nell’altro si potesse spiegare tutto, si è messo di buzzo buono per arrivare ad una definizione razionalmente corretta e coerente dei fondamenti della morale (lui chiama così quella che io preferisco chiamare etica, e più sotto spiegherò il perché. Ma mi sembra etico non attribuirgli un uso lessicale che non è suo): e lo ha fatto svolgendo non una ricerca conoscitiva, ma un’indagine critica, sapendo cioè già perfettamente dove voleva arrivare, e quindi lavorando per esclusione, chiarendo semmai che cosa non è la morale, cosa non attiene alla sua sfera. Si potrebbe dire che ha fatto un giro completo per tornare al punto di partenza, ma che nel corso del giro ha fatto pulizia di un bel po’ di false idee. Il problema della gran parte degli studenti (e anche degli insegnanti) è dunque questo: lungo il giro si perdono per strada, e non sono più in grado di tornare là da dove sono partiti. Vediamo se una trattazione del tema “morale” in forma meno “filosoficamente corretta” può rivelarsi utile.

Prima di procedere, però, penso siano opportuni un paio di chiarimenti lessicali: riguardano l’uso che farò in questo discorso di voci apparentemente sinonime. Il primo chiarimento riguarda una voce verbale: per quel che mi concerne, un conto è capire, un altro è comprendere. Non sono affatto sinonimi, tanto che è possibile capire senza comprendere o, viceversa, comprendere senza capire. Nel nostro caso quando si parla di capire si intende decifrare, aver chiaro quello che Kant dice; quando si parla di comprendere si intende “farlo proprio, viverlo”. E se capire il ragionamento di Kant tutto sommato non è così difficile, farlo proprio, o meglio, ri-conoscerlo come proprio, non è da tutti. Il passaggio alla comprensione avviene infatti in maniera paradossale: si comprende Kant quando ci si accorge che il suo ragionamento non ci serve più. Ci ha portati sulla strada giusta, ma adesso dobbiamo camminare da soli (un po’ come Dante con Virgilio).

Il secondo chiarimento riguarda invece, come ho anticipato, i termini etica e morale. Nell’accezione più diffusa la morale viene definita come un insieme di valori condivisi in particolari epoche storiche da particolari gruppi sociali, e delle regole che vengono elaborate per affermarli e praticarli. L’etica, o filosofia morale, sarebbe invece la dottrina filosofica che ha per oggetto queste regole e questi valori, ma che all’aspetto “normativo” (l’indicazione dei valori e dei criteri) unisce anche un aspetto “descrittivo” (dei valori di fatto a cui si ispira). Insomma, la seconda sarebbe una sorta di narrazione della prima, e l’una e l’altra vanno comunque storicamente contestualizzate.

Io preferisco un uso forse filosoficamente meno corretto, ma che ha una sua ragion d’essere. Mi rifaccio direttamente all’etimologia dei termini, per ricavarne il riferimento a due sfere distinte. Etica ha la sua radice nel greco ethos, parola che indica l’abitudine (non a caso i romani la traducevano con habitus, il modo di apparire), il modo costante di comportarsi. L’habitus si riferisce alle persone singole, e d’altra parte nella cultura greca classica l’individuo veniva prima della collettività. Quindi, per me, l’etica concerne il comportamento di un singolo essere umano nei confronti dei suoi simili.

Morale deriva invece dal latino mos, (costume, usanza), e si riferisce appunto all’insieme dei costumi e delle usanze ereditate dagli antenati. Perfettamente in linea con il modo di pensare romano, che anteponeva la collettività all’individuo. Perciò la morale riguarda le norme di un gruppo, mentre l’etica riguarda il singolo. Se costui non si sintonizza sulle consuetudini e sulle norme comuni, quindi sulla morale del gruppo, non per questo sarà privo di una sua etica. Al contrario, chi si adegua pedissequamente a questa morale collettiva, senza viverla in modo problematico, non ha alcuna idea di cosa sia l’etica.

Solo per correttezza nei confronti di Kant utilizzerò quindi in queste pagine i due termini come sinonimi, ad indicare entrambi quella che io considero comunque una dimensione etica.

Ora possiamo finalmente tornare a Kant. Dire che oltre un certo punto non ci serve più non è infatti un buon motivo per buttarlo fuori. Anzi, Kant vive e ragiona con noi. Certo, non staremo qui a ripercorrere tutta la trattazione ordine geometrico demonstrata che fa nella Critica della Ragion Pratica: non è questo il tema che mi ero proposto e comunque la dimostrazione la si può trovare già bella e farcita in qualsiasi manuale di filosofia, o su Internet. Mi azzardo a dire che, ai fini del mio discorso, che è quello della comprensione, potrebbe riuscire persino inutile. Vediamone però almeno i passaggi fondamentali.

Intanto Kant definisce i limiti del suo campo di indagine, e taglia subito la testa al toro. In primo luogo non è suo compito dimostrare che esiste una coscienza, che quindi l’uomo ha in sé una dimensione morale, perché questo è un dato di fatto. Ci sarebbe magari da discutere sull’evidenza della cosa (e lo faremo), ma sul dato di fatto non ci piove. Almeno sino a quando ci si riferisce all’uomo nei termini generici della specie. Comunque, Kant parla di qualcosa che attiene allo specifico della natura umana: come uomini siamo mossi indubitabilmente da una inclinazione al male (altrimenti non si spiegherebbe perché il mondo funziona come funziona), ma siamo anche caratterizzati dalla coscienza del bene. Ciò significa che per lui il senso morale è innato. Non è dettato da una rivelazione, non si è educato storicamente, non dipende, come pensavano molti dei suoi contemporanei, dal clima, dall’ambiente, dalla tradizione. È in noi, e potrebbe anche bastarci il sapere che c’è.

Cerchiamo tuttavia di capire meglio. Il fatto che in ogni uomo esista un senso morale innato non vuol dire secondo Kant che esiste un pacchetto di valori ben precisi, perfettamente definiti: esiste invece quella che un neuropsichiatra contemporaneo, Mark Hauser, riprendendo la terminologia di Chomsky relativa al linguaggio, definisce una grammatica morale, ovvero una disposizione naturale della nostra mente a valutare positivamente o negativamente certe azioni e certi comportamenti. Non voglio fare di Kant un precursore della moderna neurobiologia, anche se la tentazione è forte: lasciamogli dire solo quello che ha effettivamente detto. E ciò che ha detto è che questa disposizione in noi c’è, non importa che ce l’abbia messa il padreterno o chi per esso, ed è tale per cui noi siamo portati ad esprimere un giudizio morale, ad adottare una scala di validità o meno rispetto alle nostre (e per estensione anche alle altrui) azioni. Ma il giudizio, e la scala stessa di valori, non ci sono suggeriti dall’esterno: la scelta è nostra, ed è operata in base alla nostra razionalità.

Qui azzardo un termine che Kant non usa, ma che è implicito. Il termine è: “evidenza”. Sta a voler dire che, razionalmente, la bontà o la negatività di certi comportamenti è evidente. Siamo in grado di distinguere benissimo se ciò che stiamo facendo è bene o male: se pianto alberi perché tengano su la terra delle colline, e lo faccio alla mia età, quando so già che non li vedrò crescere, sto agendo moralmente; se maltratto un disabile o faccio violenza ad un bambino, so che sto agendo male. Non c’è bisogno di tante spiegazioni: è evidente, e non c’è barba di cultura diversa che tenga.

In secondo luogo Kant non intende nemmeno proporre un nuovo sistema di valori, ma solo spiegare a quali condizioni quella che potremmo definire una generica consapevolezza diventa coscienza morale. Per questo motivo è stato accusato di ridurre la morale ad un puro esercizio di forma: in fondo, si dice, si limita a identificare le condizioni che rendono possibile l’esistenza di una morale, senza dirci poi quale questa morale ha da essere, cosa è bene e cosa è male. E per fortuna, vien da aggiungere: ce ne sono già troppi, da Ratzinger a Komeini e a tutti gli altri, che ce lo spiegano. Kant invece dice: non hai bisogno che te lo spieghi io, lo sai già, te lo detta la tua coscienza.

Certo, messa così pare il cane che si mangia la coda. Noi abbiamo una coscienza, ce lo dice il fatto che sappiamo distinguere tra il bene e il male, e sappiamo distinguere tra il bene e il male appunto perché abbiamo una coscienza. Non fa una piega. Ma non potremmo allora chiamarlo un “istinto morale” e darci un taglio? No, dice Kant, lo chiamiamo coscienza perché l’uomo non solo è consapevole, ma è addirittura legislatore di se stesso e arbitro delle proprie scelte: ciò significa che per quanto concerne la sfera morale è perfettamente autonomo, indipendente da ogni determinazione naturale e dalla soggezione a qualsivoglia autorità o finalità. A differenza degli altri animali l’uomo può scegliere, e scegliere suppone appunto la possibilità di decidere in perfetta autonomia tra vari comportamenti alternativi. Questi comportamenti possono essergli “dettati” da necessità o forze esterne, ma non imposti. È sempre lui, in ultima istanza, a decidere: e lo fa sulla base di un codice che lui stesso si è dato. Direi che è qualcosa di più del libero arbitrio: questa è “libertà”. Dopo coscienza, questo è dunque il secondo termine chiave: possiamo operare delle scelte perché siamo liberi.

Ma questa affermazione può essere ancora accettata, oggi, alla luce degli ultimi sviluppi delle conoscenze genetiche, neurologiche e psicologiche? I “falchi” della genetica non sarebbero d’accordo: i nostri comportamenti – direbbero – sono in realtà determinati per una percentuale altissima, tanto alta da consentirci solo una semi-libertà. Le “colombe” addolcirebbero la pillola: noi siamo certamente più liberi di qualsiasi altro animale, perché da un lato il nostro sistema nervoso è troppo complesso per poter essere determinato in ogni suo dettaglio dai geni, dall’altro perché siamo i depositari di una evoluzione culturale che sollecita uno spettro enorme di comportamenti possibili, e quindi garantisce una grande libertà. Ma non una libertà assoluta.

Ebbene, replicherebbe Kant, non mi importa un accidente di quanto siamo o meno determinati. È vero, siamo soggetti ad una serie di condizionamenti naturali, sociali, affettivi, ecc…; ma questo non significa che nel nostro intimo non ci rendiamo conto di come dovremmo agire, al di là di questi condizionamenti. E che volendolo davvero, non possiamo agire proprio così. Ora, delle due l’una: o pensiamo che Kant sbagli, e che non tutti possiedano una coscienza privata capace di dettare quei comportamenti che all’ingrosso chiamiamo morali, e allora dobbiamo assumerci i rischi e la responsabilità di questa nostra convinzione (che si fa? studiamo un test per identificare i senza coscienza, e poi si sterilizzano o si eliminano, oppure li tolleriamo, sperando che si estinguano per via naturale?): oppure crediamo abbia ragione, e allora come e perché questa coscienza si sia formata, e quali meccanismi la regolino, ai fini del nostro discorso ha in fondo un’importanza relativa. Ribadisco, a Kant interessa solo fino ad un certo punto il perché uno poi faccia o non faccia determinate scelte: vuole essenzialmente che sia chiaro che la scelta è possibile, e che se facciamo qualcosa che sotto sotto non ci piace, lo abbiamo voluto noi.

Il terzo termine è infatti “volontà”. Non solo noi possiamo scegliere. Noi vogliamo scegliere. Le scelte si possono fare anche controvoglia, per necessità, per debolezza, per ignoranza. La scelta morale è invece perfettamente consapevole: so di aver dettato io la norma, il che potrebbe anche indurmi a scendere a compromessi con me stesso: invece voglio essere coerente e adempiere sino in fondo al mio mandato morale. E questo a costo di qualsiasi sacrificio, perché è in verità la realizzazione del me che volevo essere quando ho dettato, consapevolmente e razionalmente, la norma. Quindi, l’atteggiamento morale non ha a che vedere con l’effetto, con il risultato, ma con il modo, o meglio, con l’intenzione.

La discriminante per Kant è proprio questa. Addirittura qualunque comportamento mirante ad ottenere un risultato positivo (un premio), o a evitarne uno negativo (una punizione), per lui non è morale. Non dice che non sia buono, auspicabile o addirittura encomiabile: semplicemente, non possedendo il requisito di una totale autonomia decisionale, non ricade nella sfera della moralità. Lo stesso vale per qualsiasi azione dettata dal sentimento, anche quando si tratti di amore o pietà o altri moti positivi dell’animo. Nemmeno la ricerca della felicità, che parrebbe un ottimo fine, risponde all’imperativo morale assoluto, “categorico”, come lui lo chiama: è condizionata infatti da una miriade di variabili, da ciò che intendono per felicità persone diverse, o le stesse persone in momenti e in situazioni diversi: e quand’anche non fosse la ricerca “egoistica” di una felicità individuale, ma quella “altruistica” di una felicità collettiva, varrebbero gli stessi limiti. Anche in questo caso, non vuol dire che non sia giusto cercare la felicità, massime se si cerca di realizzare quella di tutti: semplicemente, questo non ha a che fare con la legge morale.

Cosa cavolo è dunque questa legge? La legge morale è riassunta da Kant in una formula secca: il “tu devi”, appunto. Una formula che non ti dice “cosa” devi fare, che è slegata da ogni situazione specifica, da ogni valutazione di opportunità e conseguenze; ti dice “come” devi agire. La legge constata e certifica l’esistenza della norma. Non “di una” norma: “della” norma. Vediamo di capire, perché questo è il punto delicato.

Cosa significa che esiste una norma? La risposta contemporanea potrebbe essere che l’uomo, dovendo surrogare quegli istinti che dettavano “naturalmente” ai suoi antenati i comportamenti da adottare e da evitare, ha elaborato “culturalmente” delle norme comportamentali funzionali alla sopravvivenza della specie. Il che è più che plausibile, ma suona anche molto relativistico: perché la funzionalità è comunque un vincolo, è soggetta nel tempo a trasformarsi e ad essere diversamente interpretata, risponde a criteri quantitativi piuttosto che qualitativi, non è quindi cogente in assoluto. Una risposta del genere infatti a Kant non sarebbe bastata. Per lui la legge morale esiste solo per il fatto di esistere, in quanto tale, indipendentemente dagli scopi, dagli effetti, dai “contenuti”. Se vogliamo, è piuttosto quella forma che dà senso al contenuto: non supplisce ad un mancato adattamento biologico all’ambiente, al fatto che l’uomo sia l’unico animale a nascere “inadatto”; non garantisce la sopravvivenza della specie, semmai ne giustifica l’esistenza. È una presa d’atto dell’eccezionalità umana, e insieme un regolatore contro le derive possibili di questa eccezionalità. Come se l’uomo, orgoglioso ma anche spaventato della potenza che il suo cervello, la sua razionalità gli mettono a disposizione, proprio attraverso questa razionalità avesse deciso di disciplinare tale energia, di renderla costruttiva anziché distruttiva (in fondo è quello che dice Freud rispetto ad altre energie, quelle inconsce, quelle della libido).

Ora, teniamo conto del fatto che Kant pensava queste cose più di duecento anni fa. Nel frattempo c’è stato Darwin, c’è stata la genetica, c’è stato Freud, appunto, le neuroscienze hanno completamente rivoluzionata la conoscenza dei meccanismi di funzionamento della nostra mente. Tutto questo potrebbe indurci a ringraziare Kant per le sue belle parole, ma a liquidarlo come portatore di una visione antropocentrica, formalistica e utopistica, totalmente superata dai tempi. E invece credo che vada letto in altro modo. L’idea che Kant ha della legge morale in realtà prescinde da ogni possibile successivo aggiornamento o adeguamento o rivoluzionamento delle conoscenze: queste possono infatti aver contribuito a farci capire qualcosa di più su come essa sia nata, ma non hanno modificato granché per quanto concerne la consapevolezza che noi abbiamo della sua esistenza.

In sostanza: navigando a braccio tra le legittime nebbie del linguaggio e delle formule kantiane, che non potevano essere che quelli, alla fine arriviamo in vista di una concezione di questo genere: siamo uomini, e questo, a dispetto della simpatia per gli oranghi che andava di moda nei suoi anni, marca una differenza; e siamo adulti: ciò significa che abbiamo nelle nostre mani il nostro futuro, e dobbiamo assumercene la responsabilità. Possiamo sbagliare, ma non possiamo più permetterci di scaricare su altri, e neppure di giustificare con la nostra ignoranza e debolezza, la responsabilità dei nostri errori. Sappiamo quel che dobbiamo fare, perché ci è evidente; sappiamo come dobbiamo farlo, perché noi stessi dettiamo le regole. Sappiamo anche che se ci comportiamo in maniera eticamente corretta diamo un senso alla nostra esistenza, altrimenti la buttiamo. E che farlo o non farlo dipende solo dalla nostra volontà. Mi sembra che sia tutto quello che è necessario e sufficiente sapere. D’altro canto, l’orologio vivente di Köenisberg non scrive un manuale per l’installazione e il corretto uso della lavatrice. Ti dice come devi usarla, come impostare i programmi, come va fatta la manutenzione, ma sotto c’è una filosofia: usala, perché fossero anche solo stracci, nel pulito si vive meglio.

E veniamo all’altra accusa rivolta a Kant, quella di un eccessivo rigorismo: l’imperativo “tu devi” dettato dalla razionalità (perché in fondo la coscienza non è altro che razionalità, lucidità assoluta) sembra non lasciare spazio alcuno alle ragioni del sentimento, o per dirla alla Kant del sentimentalismo etico. Anche qui, credo che il problema sia nell’interpretazione, nel fatto che troppi sono più kantiani di Kant stesso. Il nostro professore non dice affatto che non dobbiamo lasciare spazio al sentimento: è invece infastidito da quello che chiama il “fanatismo morale”, ovvero dalla pretesa che l’uomo sia buono per natura e non debba compiere sforzi per mantenere un comportamento eticamente corretto. Conosce benissimo gli uomini, sa che appena possibile si comportano, e soprattutto si giustificano, secondo i dettami del cuore, o delle viscere, piuttosto che quelli del cervello. Facciano pure: ma non vengano poi a dire che “dovevano” comportarsi così, che l’impeto del cuore era più forte di loro, che non c’era altra scelta. Non è assolutamente vero, insiste Kant: per quanto elevati e nobili, non possono essere i sentimenti a determinare la volontà: la scelta l’hai sempre, altrimenti non potremmo parlare di morale. Ciò che dovresti fare, per comportarti moralmente, lo sai benissimo. La moralità è autodisciplina: e la soddisfazione, il senso, possono venire solo al termine di una lotta dura con se stessi, come avviene ad esempio in montagna, con la tentazione continua di mollare tutto e scendere. Poi vedi un po’ tu, ma non cercare scuse. Questo non è rigorismo: è solo dire le cose come stanno.

E qui entra in ballo un ultimo termine, che mi sembra il più significativo anche per chi lamenta il puro formalismo di Kant. Il termine è “rispetto”: rispetto di sé, rispetto degli altri, rispetto della norma. Il rispetto della norma, dato che questa è autonomamente dettata dalla nostra razionalità, e dato che la razionalità è ciò che ci caratterizza e ci distingue come “umani”, è in automatico rispetto di se stessi in quanto umani. E dato anche che la stessa norma appartiene a tutti gli uomini, al di là di ogni differenza di colore, di cultura, di status, è in automatico rispetto degli altri in quanto umani. Quindi, per riassumere, la norma etica è il rispetto stesso della norma. Che non c’entra un accidente con il freddo formalismo.

D’altro canto, a mostrare come stiano poi davvero le cose ci pensa la vita. La morale “aspra e fredda” di Kant, messa alla prova nei rapporti umani, ne esce molto meglio di quella “calda” dei suoi romantici detrattori. Prendiamo ad esempio il rapporto e la differenza tra Kant e Fichte.

Il primo, apparentemente ancorato ad una rigida e formale ritualità, ad una “normalizzazione” totale dell’esistenza e dei rapporti, metodico nei modi e metodista nel sentire, è poi quello che ha convitati tutte le sere per cena, per il puro piacere di stare con gli amici, o che presta soldi ai suoi studenti senza alcuna garanzia di rivederli. È aperto, comprensivo, pacato anche nel disaccordo. Proprio perché ha fiducia nella norma estende questa fiducia a tutti, e ciò in qualche maniera induce gli altri a ripagarla, a meritarsela. Per questo uno studente gli restituisce un prestito dopo trent’anni, e si fa dare informazioni per saldare un altro suo debito: ha continuato a sentire per tutto quel tempo la voce del “tu devi”, e ora è fiero di obbedirle.

Fichte, al contrario, che è un tipo agitato da caldi sensi e da vibranti entusiasmi, finisce per litigare con chiunque, per vivere un’esistenza acida e rancorosa, per non accettare la minima critica, per rendersi villano e ingiusto nei confronti di chi non la pensa come lui (e dello stesso Kant, del quale inizialmente era un entusiasta ammiratore). Parte ateo, giacobino, difensore del contratto sociale, della sovranità popolare, del diritto alla rivoluzione, e finisce spiritualista e codino. Il primo dovere “formale” citato nella sua Dottrina morale è “agisci secondo la tua coscienza”, che sembra Kant, ma è distante anni luce: perché Kant dice “agisci secondo le regole dettate dalla tua coscienza”, e intende una volta per tutte, mentre la coscienza di Fichte, e la sua storia lo dimostra, è piuttosto ballerina. Lo so benissimo che la natura incalza, se c’è uno che lo sa sono proprio io che non sono mai riuscito a tenerla a briglia: ma resta il fatto che cominciare ad appellarsi a questa (ed è ciò che Fichte fa nei Fondamenti del diritto naturale), trarre dall’inclinazione naturale la materia e da quella spirituale la forma della morale, significa già avere rinunciato alla vera libertà, quella almeno di pensare “qui e ora” ad un mondo “giusto”, ad una vita “come se”, e non farne solo il limite ideale cui tendere. Perché rimandare sempre al futuro la “moralità” induce a sacrificarle anche pesantemente il presente e chi lo abita, e a pretendere che sia condivisa da tutti, invece di assumersi la responsabilità di viverla subito, indipendentemente da come la mettono gli altri.

È allora davvero solo “forma” la morale kantiana? non è che la forma, se rispettata e fatta propria per intima convinzione e non per un ossequio fariseo ai rituali, diventi stile, e senso stesso dell’esistenza? Che il rispetto della forma sia comunque il primo passo necessario per introiettare il rispetto di sé, e conseguentemente degli altri?

Spero si sia capito che qui volevo arrivare. La lezione di Kant, almeno quella che ne ho tratto io, è: comincia da te stesso. Comincia tu a comportarti eticamente, visto che sei in grado di sapere come farlo e di scegliere se farlo, senza lasciarti condizionare da tempi, ambienti, credenze, convenienze e tradizioni. In questo senso voglio intendere il suo uso di trascendente: quello della norma che trascende ogni contingenza, che non può mai essere messa in sonno, nell’attesa o addirittura in funzione di tempi migliori.

Ora possiamo davvero congedarci da Kant, immagino con somma gioia e sollievo di studenti, insegnanti o esperti kantiani, per provare a camminare con le nostre gambe. Confesso di avvertire già un po’ di fatica, perché quando mi sono messo a scrivere volevo partire da quattro righe su Kant per poi parlare d’altro, e ora mi ritrovo ad aver tirato giù una decina di pagine. Tutto sommato, però, per quanto mi riguarda non è stato inutile (non so per chi legge). Sono stato costretto a ripensare a quello che ho letto di e su Kant, e soprattutto a chiedermi quanto e come l’ho capito. Perché una certa tendenza a interpretare le cose a modo mio l’ho sempre avuta, ed è possibile che abbia prevalso anche stavolta.

Quello che davvero volevo raccontare non era naturalmente Kant, ma piuttosto come sia possibile riconoscere il bene e il male, e l’imperativo categorico, anche molto tempo prima di incontrare Kant e di leggere la Critica della ragion Pratica. Che è poi la dimostrazione più lampante di quello che Kant nella Critica dice: tieni occhi ed orecchie aperte, e impara l’alfabeto della ragione. Sentirai parlare la tua coscienza, e potrai tradurre nei termini giusti la sua voce.

Dal momento che tratto di senso etico, parlo naturalmente a titolo individuale: ma credo che lo stesso avvenga, in un modo o nell’altro, per tutti. Io ho riconosciuto l’imperativo categorico molto precocemente. Avevo si e no otto anni, e l’ho incontrato sotto le spoglie di Alan Ladd, lo Shane de Il Cavaliere della valle solitaria. Descrivere oggi cosa poteva significare un film negli anni cinquanta per un ragazzino di campagna, e un film western per di più, e quel western in particolare, è impossibile. Infatti non ci provo nemmeno, e mi limito a dire di cosa si trattava.

Shane arriva con un vecchio giaccone con le frange nel tipico villaggio del West; non sappiamo da dove venga, e lui sembra non sapere dove intende andare. Trova momentanea ospitalità in una fattoria, il padre agricoltore, la moglie biondina e carinissima, un bambino più o meno della mia età all’epoca: e poi la casa in tronchi di legno, la stalla, i recinti. Si sdebita aiutando nei lavori: ma è capitato nel bel mezzo di una guerra tra contadini e allevatori, e deve prenderne atto alla veloce. Ogni volta infatti che un contadino si reca al villaggio, dove accanto al magazzino c’è naturalmente il saloon (in realtà il paese è tutto lì, magazzino e saloon), i cow boys del grande ranch escono a provocare, e scoppiano i guai. Quando ci si trova in mezzo Shane mostra di che pasta è fatto, e aiuta il suo ospite Van Heflin a dare una ripassata a suon di cazzotti ai prepotenti. I prepotenti però le lezioni non le capiscono: mandano quindi a chiamare un famoso pistolero, che non ricordo come si chiami ma è interpretato da un giovane e già cattivissimo Jack Palance, il quale non perde tempo e ammazza un colono vicino della famiglia. A questo punto Shane deve scegliere: non avrebbe alcuna voglia di essere coinvolto in una guerra, probabilmente ne è uscito da poco; non è la sua causa, non deve difendere la sua terra né la sua famiglia. Non lo riguarda sotto alcun aspetto. Sa però che tirandosi indietro manderebbe diritto a farsi ammazzare il suo nuovo amico, determinato a difendere a costo della pelle i suoi diritti. E allora prende la decisione: olia la pistola, indossa il cinturone, rende l’agricoltore inoffensivo e si presenta al suo posto per la resa dei conti. Naturalmente si rivela più veloce e più preciso di Jack Palance, e lo fa secco. Poi sale a cavallo, raccoglie i suoi quattro stracci, saluta il ragazzino e riparte. Camus avrebbe detto: solidaire, solitaire.

Un classico. C’era dentro tutto, in continuità con quello che avevo appreso e amato nell’infanzia, le fiabe di Grimm con soldati o animali musicanti, l’angelo della giustizia divina, i primi fumetti western, e già in proiezione verso quello che avrei amato nell’adolescenza, Ettore e il sergente Blueberry, Corto Maltese e il giovane Holden. Ma c’era anche qualcosa di nuovo, perché i protagonisti delle fiabe agiscono comunque per un fine materiale, la mano della principessa o la conquista di un regno, quelli testamentari per ristabilire un ordine divino, mentre Shane agiva solo per coerenza con se stesso e con un personalissimo e insieme universale senso della giustizia. Di nuovo c’era l’ombra di Kant. Diceva in fondo le stesse cose, e questo spiega perché al liceo, quando ho incontrato Kant, non ho scoperto nulla, ho avuto solo delle conferme. Io tra l’altro, data l’età e un ritardo tutto mio di sensibilità per queste cose (ho sempre considerato la presenza femminile nei western un inutile impiccio), non avevo colto le implicazioni sentimentali, in realtà piuttosto intuibili, tra Shane e la moglie carina dell’agricoltore: le ho scoperte solo più tardi, leggendo il libro dal quale il film era stato tratto. Non erano un fattore secondario, rispetto alla scelta morale: Shane sceglie di rinunciare ad una donna di cui si è innamorato (e che a sua volta è combattuta tra l’affetto per il marito e un confuso sentimento che non conosceva), salvando la vita del suo uomo. Se non agisse così non avrebbe più rispetto per se stesso, lo mancherebbe agli altri, non rispetterebbe la norma. Sceglie quindi di agire nel modo più totalmente disinteressato, a dispetto dei sentimenti (l’amore, l’egoismo, la paura), delle leggi degli uomini e di quelle divine. Si comporta in modo perfettamente autonomo: è un uomo giusto, un uomo etico. Quando si tratta di prendere una decisione non è nemmeno sfiorato dal dubbio: gli è tutto evidente. Gli è evidente perché vede la situazione attraverso gli occhi del ragazzino: sa che il ragazzo lo ha eletto a suo eroe e a suo modello. Il ragazzo guarda il padre, lo ama, lo ammira, ma capisce che non è del tutto libero di agire come vorrebbe. Guarda Shane, e sa che Shane può scegliere. Il ragazzino è la voce della coscienza, una coscienza nitida, pulita, semplice. Che gli dice: “tu devi”.

È stato tutto semplicissimo. Io ero quel ragazzino, che in prima fila fremeva: avanti, tira fuori dagli stracci questa benedetta pistola e dagli una lezione. Non era difficile capire per chi fare il tifo, la regia aveva predisposto tutto: da una parte Alan Ladd, biondo e occhi azzurri, dall’altra Palance, con il volto di cuoio e gli occhi strizzati e cattivissimi. Ma non si trattava solo di questo: da una parte c’erano la prepotenza, la slealtà, la viltà di chi se la prende coi più deboli, dall’altra il coraggio, la dignità, la generosità. Era tutto estremamente evidente. E anche se più tardi ho cambiato radicalmente i miei gusti fisiognomici, e Jack Palance è diventato uno dei miei attori preferiti, quelli etici sono rimasti tali. Il che, al postutto, non significa che poi mi sia sempre attenuto all’etica di Shane, ma che quando non l’ho fatto ero cosciente di non farlo, e non mi piacevo affatto.

Io non so se nel nostro corredo genetico sia prevista una grammatica morale. Credo di si, credo che come siamo predisposti (o meglio, lo siamo diventati per via evolutiva) a cogliere particolari colori, particolari frequenze sonore, particolari forme, allo stesso modo siamo portati a preferire particolari valori. Il che non significa che siamo “moralmente determinati”, e questo lo può capire chiunque, basta guardarsi attorno. Significa che sappiamo quel dovremmo fare, e possiamo scegliere di farlo o di non farlo. Non sto parlando di scelte epocali, di vita o di morte: l’etica si esercita nella quotidianità, in un rispetto degli altri che è prima ancora rispetto di sé: è etico, se si è dato appuntamento ad una certa ora, arrivare puntuali, perché in caso contrario non si rispetta il tempo altrui, e prima ancora non si rispetta un impegno liberamente preso con noi stessi. È etico fare bene il lavoro che si è tenuti a fare, per gli altri, chi ne beneficia, chi ce lo commissiona, ma prima ancora per se stessi, perché facendo bene le cose si conferisce loro dignità, e questa dignità, indipendentemente dal fatto che venga apertamente riconosciuta, si riverbera su di noi, in quanto ci dà la coscienza di aver adempiuto al “tu devi”.

Credo quindi che esista una grammatica morale, ma credo anche che in molte menti sia stampata a caratteri poco visibili, o con molti refusi. Kant direbbe: non è possibile, in quanto uomini siamo tutti esseri razionali, e in quanto razionali siamo tutti dotati di una coscienza, e questa coscienza è uguale in tutti. Ma Kant stesso era cosciente di parlare con la voce dell’ottimismo, dell’ottimismo della volontà, del dover essere. Tutta la sua opera è un inno alla gioia per l’uscita dell’uomo dalla minorità. Questo non significa che non si rendesse conto di quanti “minori” ci sono in realtà: solo, sperava diventassero maggiorenni.

Non è stato così. Non lo sarà mai. Ma questo non inficia la grandezza e la validità dell’analisi morale di Kant. Il fatto è che Kant parla dell’uomo, e il mondo è abitato dagli uomini. Kant parla di Shane, e il mondo è abitato anche dai Jack Palace, o peggio ancora, dai suoi mandanti, che non hanno nemmeno il coraggio di affrontare Shane di persona. Ma è abitato soprattutto da un sacco di persone che si ritengono costantemente in credito nei confronti della vita, che non hanno capito che la vita non consta di quello che ti è dato, ma di quello che riesci a farne, che riesci a metterci di tuo: e quindi si sentono sempre defraudati, incavolati con se stessi e con gli altri, e non si piacciono perché intuiscono che la norma c’è, ma non capiscono di esserne loro stessi gli autori, e non si sentono tenuti a rispettarla. Si perdono la bellezza del senso del dovere (ecco un altro termine chiave), il piacere di sentire che alla vita si deve qualcosa, la si deve vivere anziché limitarsi a farla trascorrere, l’idea che l’esistenza è un’opportunità, e che noi abbiamo la straordinaria responsabilità di lasciarci alle spalle qualcosa che insieme le dia un senso e permetta anche a chi verrà dopo di noi di darglielo.

Ora, il fatto che non tutti lo capiscano va tenuto presente (sarebbe difficile far diversamente), così come quello che l’indicazione di Kant è un traguardo ideale: ma nulla di tutto questo deve diventare un alibi per tirarsi indietro.

Dicevo che il ragazzino capisce che Shane può scegliere perché è solo, libero da impegni affettivi o di altro genere. Shane ha per tetto un cielo di stelle, lo stesso cui Kant guardava con ammirazione e venerazione. Ma quella di Shane non è solitudine: è libertà e autonomia piena, e questa libertà, anziché sgravare dalle responsabilità, ne crea una ancora più grande, perché non consente alcun alibi. Shane non lascia un’eredità biologica, che è controllabile fino ad un certo punto, dipende dalla combinazione dei geni: ne lascia una etica, e di questa, direbbe Kant, ha il controllo totale.

 

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