L’incostanza della ragione

di Carlo Prosperi, 28 dicembre 2020

​Caro Nico,
ho letto e riletto con piacere le tue considerazioni e le tue osservazioni (“Endogenesi delle cause o eterogenesi dei fini”) sulla mia lettera a Paolo, anche perché vedo che, da buon positivista, dimostri una dimestichezza con le scienze che io non ho e non ho mai avuto. Ma il tuo discorso, nei punti in cui sembra discostarsi e discordare dal mio, nasce da fraintendimenti. Io infatti non sono un irrazionalista né danno in toto l’Illuminismo. Ci mancherebbe. Degli illuministi, di certuni almeno, non apprezzo l’idolatria della ragione, quella che supera il dualismo cartesiano di res cogitans e di res extensa in maniera semplicistica, tutto riducendo a mero materialismo meccanicistico e scomunicando o – quel ch’è peggio – irridendo quanto ad esso non è riconducibile. Diciamo D’Olbach ed Helvetius, per semplificare. Ma altri ve ne sono più subdoli e sfuggenti… Non credere che ciò contrasti con la mia affermazione intesa a includere l’uomo nella Natura: la Natura, a parer mio, non è solo materia, ma anche energia, creatività, pensiero. Leopardi arriva a dire che la materia pensa: che vi è in essa un principio che la trascende. Forse quella che noi chiamiamo anima, mente, psyche. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano. Da approfondire, dunque.

Io sono eminentemente un pascaliano. Pascal, criticando Cartesio, distingueva un esprit de géométrie e un esprit de finesse, fino a concludere che vi sono delle ragioni che la ragione non conosce: quelle del cuore, come avrebbero poi detto i romantici. Le scienze sperimentali hanno per lui dei limiti intrinseci: l’esperienza, la quale inevitabilmente limita i poteri della ragione che non sono mai assoluti, e l’indimostrabilità dei principi primi della scienza, che, pur stando alla base di ogni ragionamento, sfuggono al ragionamento stesso (è infatti impossibile la regressione all’infinito dei concetti). Pascal oppone alla ragione deduttiva quella che chiama “comprensione istintiva”, ovvero quel tipo di comprensione che coglie gli aspetti più problematici della condizione umana. L’esprit de géométrie ha per oggetto gli enti astratti e gli oggetti esteriori, l’esprit de finesse ha per oggetto l’uomo e, tramite l’intuito, visualizza subito l’oggetto indagato senza dover passare dal ragionamento. Nel cosmo l’uomo occupa una posizione mediana tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, scaturito dallo studio scientifico della realtà naturale. Modellando il ragionamento su un principio matematico (per cui aggiungendo ad una grandezza delle grandezze di un ordine d’infinito inferiore essa non si accresce in misura sostanziale), Pascal nota che l’uomo vive sempre a metà strada tra il mondo fisico e le sue aspirazioni spirituali e che ha riempito con i suoi divertissements l’abisso generato dall’assenza di Dio nella sua vita; la conseguenza è quella dell’angoscia, in quanto la ragione si rivela insufficiente a penetrare il mistero della grazia divina. Detto in soldoni, è da qui che parte la filosofia di Pascal, il quale – non dimentichiamolo – era pure un grande matematico. E qui, per ora, mi fermo.

Del resto, i frutti migliori dell’illuminismo si vedono in Kant, che dimostra di essere pienamente cosciente dei limiti della ragione e per questo non la idolatra. Il mio razionalismo, come il suo, si oppone sia all’iper-razionalismo sia all’irrazionalismo. Ambedue appiattiscono la realtà, negandone la complessità, lo spessore dialettico. In fondo, dimentichiamo che ad ispirare Cartesio era un Angelo, a guidare Socrate un Daimon. Troppo spesso si dimentica il potere creativo, visionario e “immaginario” del nostro cervello, che molti geni, tra gli scienziati e gli inventori del passato, hanno utilizzato in modo proficuo per giungere a formulare le loro conclusioni. Ricordo di aver letto, tempo fa, un articolo di tale Andrea Doria che, a sostegno di ciò portava diversi esempi: tra cui quello del chimico Friedrich August Kékulé von Stradonitz che si era invano affannato a decifrare la struttura della molecola di benzolo; quello, però, che non gli consentì la riflessione cosciente fu un sogno a permettergli di conseguirlo: una notte, addormentatosi di fronte al fuoco, vide in sogno un serpente che si mordeva la coda, ovvero l’archetipica figura dell’Uroboros. Guarda caso, la molecola di benzolo ha una struttura ad anello. Singolare, poi, anche il caso di Niels Bohr, il quale giunse a formulare il suo famoso modello atomico come un sistema planetario in piccolo traendo ispirazione da un sogno: sognò infatti di essere seduto su un sole ardente intorno a cui ruotavano a velocità folle dei pianeti del pari incandescenti.

Non sono un irrazionalista nemmeno quando parlo dell’insonnia della ragione. L’insonnia in fondo è una malattia o è, comunque, indizio di malessere. Fa perdere lucidità. Induce stati ossessivi. L’insonnia della ragione è un’aberrazione, del tutto simile a quella – apparentemente opposta – dei massacri perpetrati da sedicenti cristiani. La troppa luce acceca, al punto che illustri illuministi hanno demonizzato il Medioevo come “secoli bui”. Ecco, la demonizzazione non mi appartiene: tanto che anche nei pensatori più lontani dalla mia visione del mondo, anche tra gli illuministi, anche in Marx, so (e amo) ricercare barlumi di verità, pagliuzze d’oro tra le tante scorie. Né presumo di essere infallibile. O di sapere tutto. Al contrario, so bene di sapere ben poco, quasi nulla. Cerco solo di orientarmi, di non perdere la bussola: una volta si diceva la trebisonda. E questo m’induce alla cautela, a comprendere più che a condannare. Quantunque, alla fine, una scelta bisogna pur farla.

Tu spieghi quella che io, usando un’espressione vichiana, chiamo “eterogenesi dei fini”, con l’incapacità dell’uomo di comprendere: io parlerei piuttosto di impossibilità. Non è umanamente possibile prevedere tutte le conseguenze delle nostre azioni, soprattutto se è vero che il minimo battito d’ali di una farfalla ai tropici sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Per questo a Diego Fusaro obietto che, a parer mio, la filosofia marxiana non è impunemente praticabile o applicabile alla realtà – che non è geometrizzabile o scientificamente-tecnicamente governabile sulla base di piani e di pianificazioni –. Finora almeno non sembra. Pensare che con l’avvento del comunismo cominci la “storia” vuol dire che finiranno le contraddizioni, e quindi la dialettica storica. O le contraddizioni rinasceranno in forma nuova? E con il comunismo si aprirà una nuova fase della vita, forse post-umana? In ogni caso la “mobilitazione totale” in vista della rivoluzione non è né indolore né scontata. Né, appunto per l’eterogenesi dei fini, è detto che raggiunga davvero i suoi scopi o sogni virtuosi … Marx affida invece alla praxis della soggettività organizzata e cosciente il riscatto, ma non considera che l’umano sapere non è in grado di valutare le infinite interferenze e le infinite conseguenze dell’agire umano: per cui questo non può essere né univoco né lineare né in toto prevedibile e scontato. Di qui la fatale eterogenesi dei fini. Lo stesso Gestell (per Heidegger, l’attuale sistema tecnocratico) è sì stato posto e prodotto dall’agire umano, ma con esiti, a sua insaputa, perversi. Fatto è che Fusaro, al pari di Marx e dei marxisti à la Lukács, tende a reagire al pessimismo dell’intelligenza con l’ottimismo della volontà astratta, in maniera appunto velleitaria…

Ha osservato Corrado Ocone: «Il fatto che gli accadimenti e le opere, così come le azioni, siano sempre individue, non significa che in esse, in sede di comprensione, non sia possibile rinvenire un ordine. Solo che quest’ordine, pur essendo opera in ultima istanza delle azioni degli individui empirici, trascende ogni loro intenzionalità, non corrisponde a ciò che gli individui o anche gruppi più o meno ampi di loro, si erano proposti con le loro azioni. È in questo solo e preciso senso, e solo in questo, che Croce può affermare, in senso metaforico, che gli accadimenti o la Storia sono come Dio. Essi, per così dire, se ne vanno per i fatti loro: la libertà è veramente, da questa prospettiva, non degli uomini ma dello Spirito». Analogamente Einstein diceva: «Dio non gioca a dadi». È come se ci fossero due piani: uno empirico, pragmatico (per cui vale l’asserzione di von Mises: «solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona, solo l’individuo agisce») e uno storico-spirituale (in cui si ordinano, in un «ordine spontaneo», le conseguenze delle azioni individuali. «Gli accadimenti non sono governabili ex ante dagli individui empirici, ma sono da loro riducibili a senso ex post».

Questo per quanto concerne l’eterogenesi dei fini. Ma torniamo ora al Gestell, frutto della “ragione strumentale”. Si dice che la post-modernità abbia segnato la fine delle ideologie. È un cliché retorico: in realtà, l’epoca che si suppone depurata da tutte le viete ideologie novecentesche si sta potentemente delineando come l’epoca forse più ideologica della storia, pervasa da un’ideologia neutra, quasi impalpabile, la quale tuttavia sta penetrando in profondità nel tessuto sociale e culturale dell’umanità, generando un uomo ormai soggiacente al volere e alla meccanica della sua stessa creatura: la Tecnica. È stato giustamente scritto, al riguardo, da Davide Parascandolo che «la soggezione di fronte allo strapotere di questo moderno Leviatano è la cifra di un uomo irriconoscibile, che ha rinunciato a se stesso e che appare profondamente assorbito da dinamiche dominate da meccanismi autoregolativi e autoperpetuantesi. La post-modernità si presenta come l’epoca dell’automatizzazione dell’uomo, della sua alienazione completa, dell’abdicazione totale del suo pensiero e del suo pensare. Le conseguenze pratiche di questo mutamento, che è al tempo stesso filosofico ed antropologico, sono di notevole portata e investono evidentemente tutte le principali dimensioni che caratterizzano il vivere umano, sia esso inteso nel più ampio spettro delle relazioni sociali e comunitarie come in quello più ristretto e privato dell’ambito prettamente individuale. Lo scivolamento di status ontologico dell’uomo da creatore a suddito della propria creatura produce ripercussioni rilevanti sulla vita associata delle società contemporanee, determinando un asservimento totale della vita umana a logiche economicistiche pervase da una sorta di tecnicismo razionalistico di per sé sussistente che si sgancia dalla realtà delle cose per assurgere a unica e assiomatica verità, la quale pretende di non conformarsi più al divenire, ma, al contrario, di imbrigliare quest’ultimo entro le sue ferree ed asettiche costruzioni iper-razionalistiche».

Di qui l’asservimento della politica all’economia o, meglio, al suo epifenomeno finanziario. Con la “delocalizzazione” della sovranità dai parlamenti a clubs ristretti, a élites impenetrabili che operano secondo logiche autoreferenziali. Emblematica e, per così dire, plastica espressione di tale processo di tecnicizzazione della politica è, a parer mio, l’attuale costruzione europea, che si regge su irrazionali criteri economicistici e contabili, assurti tuttavia ad intoccabili ed irriformabili Moloch ideologici. Essa appare – per tornare al testo di Parascandolo – come «l’inveramento storico di quel dogma dell’irreversibilità che rischia di far pericolosamente regredire l’umanità verso un unico modello: quello dell’homo reiterans». È, questo, lo svuotamento di ogni progetto umanistico, «cui fa da contraltare una drammatica automatizzazione dell’umano che è l’anticamera di quella logica dell’irreversibilità che sembra costituire l’unico possibile orizzonte imposto da una sorta di finalismo storico dal quale non poter in alcun modo sfuggire e che, in ultima istanza, rappresenta l’irreversibilità stessa dell’accettazione dell’attuale strutturazione del mondo, espressione di quella religione globalista e iperliberista che ne connota in profondità l’essenza».

Mi viene in mente Il Mondo nuovo di Aldous Huxley, ambientato in una Londra del futuro dove controllo delle nascite e controllo sociale attraverso le droghe di Stato e i piaceri diventano esempio di un nuovo tipo di dittatura. Mentre per Orwell la dittatura è promossa da un Grande Fratello che fa della cultura una prigione, per Huxley l’intrattenimento è meglio della forza e la cultura diventa una farsa. Nella nostra società non c’è nessun carceriere che ci sorveglia, ma le prigioni sono dentro le nostre teste. Il nostro non è un mondo di schiavi terrorizzati dalle punizioni di un regime totalitario, ma una società di ebeti rimbambiti da piaceri cafoneschi. Siamo cioè di fronte a un mondo apparentemente libero, in realtà controllato dalla sua stessa “libertà”. «Controllare la gente non con le punizioni, ma con i piaceri»: è così che si arriva al nuovo assetto dei sistemi totalitari. Nella “democrazia” immaginata da Huxley il popolo non è imprigionato, ma distratto continuamente da cose superficiali. La vita culturale trasformata in un eterno circo di divertimenti e un intero popolo ridotto a spettatore. Nel “mondo nuovo” non esistono censure, ma la gente è talmente subissata dalle informazioni che, incapace di rielaborare una simile mole di notizie, finisce col diventare passiva, con il disinteressarsi a tutto e a non ribellarsi più a niente. Difendersi è impossibile: si finirebbe come in un romanzo di Dick: pazzi e isolati detentori di una verità che nessuno, per comodità, accetterà mai. «Questi milioni di individui abnormemente normali, che vivono senza gioia in una società a cui, se fossero pienamente uomini, non dovrebbero adattarsi, ancora accarezzano l’illusione dell’individualità, ma di fatto sono stati in larga misura disindividualizzati. Il loro conformismo dà luogo a qualcosa che somiglia all’uniformità. E uniformità e salute mentale sono incompatibili». Per Huxley siamo solo una «calca di pecore umane che vivono soggiogate dalle cieche leggi delle abitudini».

A questo ci ha portato un certo modo – non proprio ragionevole – di intendere la ragione. E credo che anche tu ne converrai. E se anche non fosse, non ritengo che ciò possa in qualche modo precludere la prosecuzione del nostro dialogo. Almeno lo spero, in nome della nostra antica amicizia.

Affettuosi saluti e auguri di buon anno, Carlo.

 

Il dilemma dell’atterraggio alle Reichenbach

di Fabrizio Rinaldi, 23 marzo 2019

Da sempre un tarlo mi accompagna: è la mania di capire come funziona il mondo che mi circonda, di aver chiare le dinamiche che impongono ad un elemento iniziale di diventare qualcos’altro, le relazioni che intercorrono fra i diversi attori, e magari di indovinarne le possibili ulteriori evoluzioni. È un’ossessione che dovrebbe essere connaturata al genere umano ma che oggi sembra anestetizzata: il mondo dei media impone una prona accettazione del pensiero unico, le spiegazioni arrivano già confezionate, in genere da chi detiene un qualsivoglia potere. Ma a me non bastano.

La mia curiosità è attratta soprattutto dai fenomeni naturali: le regole matematiche riscontrabili nella forma di un fiore, la composizione dei sedimenti rocciosi su cui è posata la mia casa, le relazioni sociali tra le vespe che vivono nel pollaio, al posto delle galline.

Ho meno interesse a capire il senso e la direzione dell’agire umano: forse perché penso di non possedere gli strumenti adeguati, o forse perché ritengo che una vera evoluzione lì non ci può essere, per un difetto congenito nella matrice originale.

Quindi: frattali, botanica, Fibonacci, gradienti, sezione aurea, Linneo, geologia, scienze forestali, fisica, ecc … Sono materie che bene o male mi hanno aiutato a intendere le armonie e le disarmonie del quotidiano – o almeno m’ha rincuorato il fatto che altri – più sapienti di me – le abbiano sapute spiegare.

Ma nemmeno questo mi bastava. Oltre a cercare nei testi scientifici le soluzioni ai miei enigmi e curiosità, andavo anche a rintracciare nella letteratura i personaggi che più mi affascinavano e che sentivo affini. Prima ancora di incontrare il tormentato Achab o gli avventurieri descritti da Conrad e Stevenson, c’era la figura tagliente, misogina e sociopatica di Sherlock Holmes che mi attraeva.

Ero affascinato dal suo metodo deduttivo, basato su una disarmante logica che connetteva ogni accadimento con i più piccoli elementi rintracciati durante le indagini, quelli che ai più apparivano insignificanti. Pezzo per pezzo svelava all’amico, biografo e medico John Watson, il mistero che c’era dietro a qualsiasi delitto, fino ad arrivare alla soluzione del caso.

Le conclusioni cui giungeva il detective nascevano dalla verifica delle ipotesi formulate dopo una minuziosa osservazione del contesto – una vera e propria vivisezione visiva – attraverso la conoscenza profonda delle discipline scientifiche in gioco. Il tutto attraverso un procedimento logico-deduttivo implacabile, che connetteva ogni singolo indizio entro un quadro generale.

Il procedimento che permetteva a Holmes di risolvere i casi più intricati è lo stesso formulato da Galileo Galilei, quello che mia figlia di 8 anni ha studiato in terza elementare e che ora, per gioco, applica esaminando i fiori e le conchiglie delle chiocciole.

Lo stesso percorso l’ho fatto io, come moltissimi miei coetanei, crescendo a pane, latte e Piero Angela: grazie al suo “Mondo di Quark” ogni pomeriggio avevo in casa una finestra sulle curiosità delle scienze naturali, sulla matematica, sui comportamenti animali (descritti minuziosamente da Danilo Mainardi) e sul metodo scientifico da applicare in ogni aspetto della vita. Col tempo non ho fatto altro che inseguire il desiderio di conoscere in primo luogo ciò che mi stava attorno, sforzandomi di capire e di costruirmi conoscenze e convinzioni basate su dati scientifici e verificabili nell’esperienza quotidiana.

Eppure oggi quegli stessi figli e nipoti televisivi di Angela sembrano aver scordato le nozioni basilari che dovrebbero aiutarli a discriminare tra tutto ciò che i media ci propinano. Si è scatenata la corsa a dare credito alle più inverosimili “belinate” (termine molto più efficace che “fake news”), a ogni stupidaggine messa in circolazione ad arte per confonderci le idee, mascherare la verità e offrire in pasto ad una massa ebete dei facili capri espiatori. Di volta in volta siamo scivolati dalle armi irachene di distruzione di massa alle scie chimiche, dal metodo Di Bella ai vaccini che portano all’autismo, dai terrapiattisti al redivivo complotto del Priorato di Sion, dalla soverchiante invasione di stranieri che ci rubano il lavoro alla crescita economica dietro l’angolo (se non ci fossero i “gufi” di turno a tifare per la recessione).

Tornando a Sherlock Holmes e al suo metodo, la certezza che sarebbe arrivato a una soluzione finale confortava e placava la mia inquietudine di ragazzino. Mi aiutava ad affrontare le mie paure, quelle che mi venivano dal mondo reale, non meno angoscianti di quelle che provavo leggendo Il mastino dei Baskerville.

Mi ritrovavo anche nel disgusto provato da Holmes per l’arroganza della borghesia inglese di fine Ottocento, per il rifiuto dei salotti buoni, ai quali preferiva le stanze da oppio, dove poteva concentrarsi per risolvere i suoi casi. Io l’oppio nemmeno sapevo cosa fosse, ma alla discoteca o al bar preferivo le camminate solitarie: erano droga per le mie gambe e carburo per il mio pensiero.

Holmes non si accontentava delle soluzioni di comodo accettate da Scotland Yard, ma si affidava alla conoscenza di elementi che ai più apparivano insignificanti: ricordo che nel racconto Uno studio in rosso è citato un suo testo fondamentale per le investigazioni: Su come distinguere le ceneri di vari tabacchi. Eccelleva poi nella capacità di individuare le connessioni fra questi differenti elementi: il suo metodo d’indagine era rigorosamente scientifico, e arrivava a risolvere i casi seguendo la logica per cui “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità” (Il segno dei quattro).

Per parte mia, come dicevo prima, modestamente e maldestramente cercavo di comprendere le interazioni che rintracciavo nel bosco e nel fiume che attraversavo durante le escursioni.

Mi ritrovavo anche nella resa di Holmes di fronte alla imperscrutabilità del mondo femminile. Nel racconto L’uomo dal labbro storto il detective ammette che “quanto una donna sente può valere più di un ragionamento analitico”; in Il cliente illustre afferma che “la mente e il cuore di una donna sono dei rompicapi insolubili per l’uomo”. Mi aggrappavo alle ragioni di Holmes per giustificare la mia incapacità di espugnare la mia Irene Adler, l’unica donna a scalfire il cuore e competere col cervello di Holmes (Uno scandalo in Boemia). Nell’universo femminile ad interessarlo c’era solamente lei, “La Donna”; io nella mia rete di investigazioni usavo maglie un po’ più larghe: la donna era comunque un “fenomeno” che volevo esplorare ed espugnare … a qualunque costo!

Nella Londra di fine Ottocento le avventure di Holmes ebbero un tale successo da far credere a molti che l’investigatore esistesse realmente ed abitasse al 221b di Baker Street, tanto che a quell’indirizzo e a quello dell’autore dei racconti, Sir Arthur Conan Doyle, arrivavano sacchi di lettere con richieste d’ingaggio per risolvere i più impensabili casi insoluti.

L’autore ne fu gratificato, per la fama e per i soldi che quel successo gli aveva procurato, ma ad un certo punto cominciò a sentirsi oppresso dalla sua stessa creatura; percepì il pericolo che il suo nome rimanesse eternamente connesso a Holmes, mentre lui voleva essere ricordato per ben altro. Voleva chiudere col detective per dedicarsi ad altri progetti, scrivere racconti horror, romanzi storici, e approfondire il mondo dello spiritismo e delle fatine dei boschi. Già, perché l’ideatore del razionale e anaffettivo Sherlock Holmes si occupò anche di questo, credendoci fermamente (tanto da attendersi la vera fama proprio da questi argomenti).

Occorreva dunque sbarazzarsi del detective. L’editore, gli amici, persino la madre, scongiurarono Arthur dal proposito omicida: ma alla fine, nel 1891, ne Il problema finale Holmes e Moriarty, il suo alter ego del crimine, ebbero il loro scontro definitivo. Entrambi vennero fatti precipitare nelle cascate svizzere di Reichenbach (quelle raffigurate a fianco, in un dipinto di Turner), fornendo all’autore il modo di liberarsi elegantemente e drammaticamente di un doppio ingombro.

Conan Doyle resistette per anni alle pressioni degli accaniti lettori che lo imploravano di scrivere altre storie holmesiane. Alla fine dovette cedere e pubblicò il racconto La casa vuota: il ritorno alle indagini di Sherlock Holmes. L’antipatia ormai maturata nei confronti del suo personaggio non era però venuta meno: probabilmente lo riteneva anche ormai psicologicamente troppo grezzo, in un tempo in cui stavano affermando le ricette dell’anima di Freud e compari.

Quanto alla vicenda, l’autore non si preoccupa di spiegare come Holmes sia sopravvissuto alle cascate delle Reichenbach: sappiamo solo che dopo questo episodio, per sfuggire alla rete di malviventi del defunto (lui si) Moriarty, ha dovuto rifugiarsi prima in Tibet e poi in Persia, per tornare infine a Londra determinato a sgominare definitivamente ciò che restava della banda del suo arcinemico.

Sempre affidando il racconto a Watson, Conan Doyle scrisse altre avventure del celebre detective fino alle soglie del primo conflitto mondiale. Fino a quando cioè Holmes, dopo la lunga carriera di disvelamenti, poté ritirarsi nella campagna londinese e dedicarsi allo studio della filosofia e alla pratica dell’apicoltura. Un finale decisamente augurabile.

Il successo di Sherlock Holmes si deve soprattutto all’uso che ne fece la nascente industria cinematografica. Comparve infatti in innumerevoli film (il primo, di pochi secondi, risale addirittura al 1900). Negli anni quaranta poi Holmes assunse anche un volto definitivo, quello dell’attore Basil Rathbone, che lo interpretò in 14 film, in uno sceneggiato e in innumerevoli trasmissioni radiofoniche, rimanendo alla fine anch’egli eternamente imprigionato nel celebre personaggio.

Con lo scadere dei diritti d’autore riconosciuti ai discendenti di Conan Doyle, recentemente sono uscite parecchie versioni cinematografiche dell’investigatore dal cappello da cacciatore. L’unica a mio avviso degna di nota è una breve serie inglese intitolata Sherlock, ambientata in epoca moderna, nella quale Watson racconta le vicende di Holmes, interpretato dall’attore Benedict Cumberbatch, attraverso un sito internet: è la traslazione moderna dell’antica modalità di pubblicazione sulla rivista britannica The Strand Magazine.

(Una piccola parentesi: come quelli di Sherlock Holmes, anche le gesta e i pensieri dei Viandanti delle Nebbie sono narrati in un sito a loro dedicato. Come per Holmes, c’è chi crede che i Viandanti esistano o siano esistiti. È un pensiero confortante, che regala un barlume di speranza nel grigiore odierno.)

L’espediente narrativo usato da Conan Doyle per eliminare il protagonista dei suoi racconti, facendolo precipitare abbracciato al suo acerrimo nemico in una cascata da cui è ragionevole pensare sia impossibile uscire vivi, induce alcune riflessioni sulla possibilità di eludere la morte (o almeno, di renderla meno penosa). Perché, come dice Moriarty in una delle puntate intitolata L’abominevole sposa, “Non è la caduta a uccidere Sherlock. È l’atterraggio!”

Una caduta rappresenta una rottura nel quiescente equilibrio della nostra vita. È un impulso di dinamicità che tende il protagonista verso un futuro inatteso e insondabile. Di certo c’è soltanto che prima o poi si verificherà l’impatto. Ora, se non si può evitare l’impatto di un problema (mentale o fisico) sulla nostra personalità, quasi sempre si possono scegliere le modalità con le quali affrontarlo. A seconda delle decisioni che riusciamo a prendere – anche quando affrettate, per oggettiva mancanza di tempo – possiamo uscirne con il collo e l’animo rotto, o con un più augurabile e dignitoso finale (vedi l’apicoltore Holmes).

Quasi sempre. Perché poi rimane in realtà la questione vera, di come affrontare quel precipizio che inesorabilmente ci attende tutti. Sappiamo che nessun Sir potrà – per sua volontà o perché costretto da un improbabile e affezionato pubblico – salvarci dall’atterraggio. Nulla potrà sottrarci dallo schianto fatale. Sta a noi allora guidare la caduta affinché la si possa affrontare con dignità da parte nostra e senza troppo sgomento in coloro che staranno sul bordo della cascata.

Sono certo che mentre cadrò cercherò di calcolare l’accelerazione, la portata della cascata e chissà che altro ancora. E mi verrà in mente che il dilemma dell’atterraggio alle Reichenbach resta, oltre che un mio titolo bello e musicale, uno dei rarissimi casi irrisolti per l’infallibile Sherlock Holmes. Lo resterà anche per me. Spero che a questo pensiero, e in vista dell’imminente atterraggio, riu-scirò a sorridere.Collezione di licheni bottone