Il dilemma dell’atterraggio alle Reichenbach

di Fabrizio Rinaldi, 23 marzo 2019

Da sempre un tarlo mi accompagna: è la mania di capire come funziona il mondo che mi circonda, di aver chiare le dinamiche che impongono ad un elemento iniziale di diventare qualcos’altro, le relazioni che intercorrono fra i diversi attori, e magari di indovinarne le possibili ulteriori evoluzioni. È un’ossessione che dovrebbe essere connaturata al genere umano ma che oggi sembra anestetizzata: il mondo dei media impone una prona accettazione del pensiero unico, le spiegazioni arrivano già confezionate, in genere da chi detiene un qualsivoglia potere. Ma a me non bastano.

La mia curiosità è attratta soprattutto dai fenomeni naturali: le regole matematiche riscontrabili nella forma di un fiore, la composizione dei sedimenti rocciosi su cui è posata la mia casa, le relazioni sociali tra le vespe che vivono nel pollaio, al posto delle galline.

Ho meno interesse a capire il senso e la direzione dell’agire umano: forse perché penso di non possedere gli strumenti adeguati, o forse perché ritengo che una vera evoluzione lì non ci può essere, per un difetto congenito nella matrice originale.

Quindi: frattali, botanica, Fibonacci, gradienti, sezione aurea, Linneo, geologia, scienze forestali, fisica, ecc … Sono materie che bene o male mi hanno aiutato a intendere le armonie e le disarmonie del quotidiano – o almeno m’ha rincuorato il fatto che altri – più sapienti di me – le abbiano sapute spiegare.

Ma nemmeno questo mi bastava. Oltre a cercare nei testi scientifici le soluzioni ai miei enigmi e curiosità, andavo anche a rintracciare nella letteratura i personaggi che più mi affascinavano e che sentivo affini. Prima ancora di incontrare il tormentato Achab o gli avventurieri descritti da Conrad e Stevenson, c’era la figura tagliente, misogina e sociopatica di Sherlock Holmes che mi attraeva.

Ero affascinato dal suo metodo deduttivo, basato su una disarmante logica che connetteva ogni accadimento con i più piccoli elementi rintracciati durante le indagini, quelli che ai più apparivano insignificanti. Pezzo per pezzo svelava all’amico, biografo e medico John Watson, il mistero che c’era dietro a qualsiasi delitto, fino ad arrivare alla soluzione del caso.

Le conclusioni cui giungeva il detective nascevano dalla verifica delle ipotesi formulate dopo una minuziosa osservazione del contesto – una vera e propria vivisezione visiva – attraverso la conoscenza profonda delle discipline scientifiche in gioco. Il tutto attraverso un procedimento logico-deduttivo implacabile, che connetteva ogni singolo indizio entro un quadro generale.

Il procedimento che permetteva a Holmes di risolvere i casi più intricati è lo stesso formulato da Galileo Galilei, quello che mia figlia di 8 anni ha studiato in terza elementare e che ora, per gioco, applica esaminando i fiori e le conchiglie delle chiocciole.

Lo stesso percorso l’ho fatto io, come moltissimi miei coetanei, crescendo a pane, latte e Piero Angela: grazie al suo “Mondo di Quark” ogni pomeriggio avevo in casa una finestra sulle curiosità delle scienze naturali, sulla matematica, sui comportamenti animali (descritti minuziosamente da Danilo Mainardi) e sul metodo scientifico da applicare in ogni aspetto della vita. Col tempo non ho fatto altro che inseguire il desiderio di conoscere in primo luogo ciò che mi stava attorno, sforzandomi di capire e di costruirmi conoscenze e convinzioni basate su dati scientifici e verificabili nell’esperienza quotidiana.

Eppure oggi quegli stessi figli e nipoti televisivi di Angela sembrano aver scordato le nozioni basilari che dovrebbero aiutarli a discriminare tra tutto ciò che i media ci propinano. Si è scatenata la corsa a dare credito alle più inverosimili “belinate” (termine molto più efficace che “fake news”), a ogni stupidaggine messa in circolazione ad arte per confonderci le idee, mascherare la verità e offrire in pasto ad una massa ebete dei facili capri espiatori. Di volta in volta siamo scivolati dalle armi irachene di distruzione di massa alle scie chimiche, dal metodo Di Bella ai vaccini che portano all’autismo, dai terrapiattisti al redivivo complotto del Priorato di Sion, dalla soverchiante invasione di stranieri che ci rubano il lavoro alla crescita economica dietro l’angolo (se non ci fossero i “gufi” di turno a tifare per la recessione).

Tornando a Sherlock Holmes e al suo metodo, la certezza che sarebbe arrivato a una soluzione finale confortava e placava la mia inquietudine di ragazzino. Mi aiutava ad affrontare le mie paure, quelle che mi venivano dal mondo reale, non meno angoscianti di quelle che provavo leggendo Il mastino dei Baskerville.

Mi ritrovavo anche nel disgusto provato da Holmes per l’arroganza della borghesia inglese di fine Ottocento, per il rifiuto dei salotti buoni, ai quali preferiva le stanze da oppio, dove poteva concentrarsi per risolvere i suoi casi. Io l’oppio nemmeno sapevo cosa fosse, ma alla discoteca o al bar preferivo le camminate solitarie: erano droga per le mie gambe e carburo per il mio pensiero.

Holmes non si accontentava delle soluzioni di comodo accettate da Scotland Yard, ma si affidava alla conoscenza di elementi che ai più apparivano insignificanti: ricordo che nel racconto Uno studio in rosso è citato un suo testo fondamentale per le investigazioni: Su come distinguere le ceneri di vari tabacchi. Eccelleva poi nella capacità di individuare le connessioni fra questi differenti elementi: il suo metodo d’indagine era rigorosamente scientifico, e arrivava a risolvere i casi seguendo la logica per cui “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità” (Il segno dei quattro).

Per parte mia, come dicevo prima, modestamente e maldestramente cercavo di comprendere le interazioni che rintracciavo nel bosco e nel fiume che attraversavo durante le escursioni.

Mi ritrovavo anche nella resa di Holmes di fronte alla imperscrutabilità del mondo femminile. Nel racconto L’uomo dal labbro storto il detective ammette che “quanto una donna sente può valere più di un ragionamento analitico”; in Il cliente illustre afferma che “la mente e il cuore di una donna sono dei rompicapi insolubili per l’uomo”. Mi aggrappavo alle ragioni di Holmes per giustificare la mia incapacità di espugnare la mia Irene Adler, l’unica donna a scalfire il cuore e competere col cervello di Holmes (Uno scandalo in Boemia). Nell’universo femminile ad interessarlo c’era solamente lei, “La Donna”; io nella mia rete di investigazioni usavo maglie un po’ più larghe: la donna era comunque un “fenomeno” che volevo esplorare ed espugnare … a qualunque costo!

Nella Londra di fine Ottocento le avventure di Holmes ebbero un tale successo da far credere a molti che l’investigatore esistesse realmente ed abitasse al 221b di Baker Street, tanto che a quell’indirizzo e a quello dell’autore dei racconti, Sir Arthur Conan Doyle, arrivavano sacchi di lettere con richieste d’ingaggio per risolvere i più impensabili casi insoluti.

L’autore ne fu gratificato, per la fama e per i soldi che quel successo gli aveva procurato, ma ad un certo punto cominciò a sentirsi oppresso dalla sua stessa creatura; percepì il pericolo che il suo nome rimanesse eternamente connesso a Holmes, mentre lui voleva essere ricordato per ben altro. Voleva chiudere col detective per dedicarsi ad altri progetti, scrivere racconti horror, romanzi storici, e approfondire il mondo dello spiritismo e delle fatine dei boschi. Già, perché l’ideatore del razionale e anaffettivo Sherlock Holmes si occupò anche di questo, credendoci fermamente (tanto da attendersi la vera fama proprio da questi argomenti).

Occorreva dunque sbarazzarsi del detective. L’editore, gli amici, persino la madre, scongiurarono Arthur dal proposito omicida: ma alla fine, nel 1891, ne Il problema finale Holmes e Moriarty, il suo alter ego del crimine, ebbero il loro scontro definitivo. Entrambi vennero fatti precipitare nelle cascate svizzere di Reichenbach (quelle raffigurate a fianco, in un dipinto di Turner), fornendo all’autore il modo di liberarsi elegantemente e drammaticamente di un doppio ingombro.

Conan Doyle resistette per anni alle pressioni degli accaniti lettori che lo imploravano di scrivere altre storie holmesiane. Alla fine dovette cedere e pubblicò il racconto La casa vuota: il ritorno alle indagini di Sherlock Holmes. L’antipatia ormai maturata nei confronti del suo personaggio non era però venuta meno: probabilmente lo riteneva anche ormai psicologicamente troppo grezzo, in un tempo in cui stavano affermando le ricette dell’anima di Freud e compari.

Quanto alla vicenda, l’autore non si preoccupa di spiegare come Holmes sia sopravvissuto alle cascate delle Reichenbach: sappiamo solo che dopo questo episodio, per sfuggire alla rete di malviventi del defunto (lui si) Moriarty, ha dovuto rifugiarsi prima in Tibet e poi in Persia, per tornare infine a Londra determinato a sgominare definitivamente ciò che restava della banda del suo arcinemico.

Sempre affidando il racconto a Watson, Conan Doyle scrisse altre avventure del celebre detective fino alle soglie del primo conflitto mondiale. Fino a quando cioè Holmes, dopo la lunga carriera di disvelamenti, poté ritirarsi nella campagna londinese e dedicarsi allo studio della filosofia e alla pratica dell’apicoltura. Un finale decisamente augurabile.

Il successo di Sherlock Holmes si deve soprattutto all’uso che ne fece la nascente industria cinematografica. Comparve infatti in innumerevoli film (il primo, di pochi secondi, risale addirittura al 1900). Negli anni quaranta poi Holmes assunse anche un volto definitivo, quello dell’attore Basil Rathbone, che lo interpretò in 14 film, in uno sceneggiato e in innumerevoli trasmissioni radiofoniche, rimanendo alla fine anch’egli eternamente imprigionato nel celebre personaggio.

Con lo scadere dei diritti d’autore riconosciuti ai discendenti di Conan Doyle, recentemente sono uscite parecchie versioni cinematografiche dell’investigatore dal cappello da cacciatore. L’unica a mio avviso degna di nota è una breve serie inglese intitolata Sherlock, ambientata in epoca moderna, nella quale Watson racconta le vicende di Holmes, interpretato dall’attore Benedict Cumberbatch, attraverso un sito internet: è la traslazione moderna dell’antica modalità di pubblicazione sulla rivista britannica The Strand Magazine.

(Una piccola parentesi: come quelli di Sherlock Holmes, anche le gesta e i pensieri dei Viandanti delle Nebbie sono narrati in un sito a loro dedicato. Come per Holmes, c’è chi crede che i Viandanti esistano o siano esistiti. È un pensiero confortante, che regala un barlume di speranza nel grigiore odierno.)

L’espediente narrativo usato da Conan Doyle per eliminare il protagonista dei suoi racconti, facendolo precipitare abbracciato al suo acerrimo nemico in una cascata da cui è ragionevole pensare sia impossibile uscire vivi, induce alcune riflessioni sulla possibilità di eludere la morte (o almeno, di renderla meno penosa). Perché, come dice Moriarty in una delle puntate intitolata L’abominevole sposa, “Non è la caduta a uccidere Sherlock. È l’atterraggio!”

Una caduta rappresenta una rottura nel quiescente equilibrio della nostra vita. È un impulso di dinamicità che tende il protagonista verso un futuro inatteso e insondabile. Di certo c’è soltanto che prima o poi si verificherà l’impatto. Ora, se non si può evitare l’impatto di un problema (mentale o fisico) sulla nostra personalità, quasi sempre si possono scegliere le modalità con le quali affrontarlo. A seconda delle decisioni che riusciamo a prendere – anche quando affrettate, per oggettiva mancanza di tempo – possiamo uscirne con il collo e l’animo rotto, o con un più augurabile e dignitoso finale (vedi l’apicoltore Holmes).

Quasi sempre. Perché poi rimane in realtà la questione vera, di come affrontare quel precipizio che inesorabilmente ci attende tutti. Sappiamo che nessun Sir potrà – per sua volontà o perché costretto da un improbabile e affezionato pubblico – salvarci dall’atterraggio. Nulla potrà sottrarci dallo schianto fatale. Sta a noi allora guidare la caduta affinché la si possa affrontare con dignità da parte nostra e senza troppo sgomento in coloro che staranno sul bordo della cascata.

Sono certo che mentre cadrò cercherò di calcolare l’accelerazione, la portata della cascata e chissà che altro ancora. E mi verrà in mente che il dilemma dell’atterraggio alle Reichenbach resta, oltre che un mio titolo bello e musicale, uno dei rarissimi casi irrisolti per l’infallibile Sherlock Holmes. Lo resterà anche per me. Spero che a questo pensiero, e in vista dell’imminente atterraggio, riu-scirò a sorridere.Collezione di licheni bottone

Barangain

di Fabrizio Rinaldi, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996

La rivista che stai leggendo è nata per concretizzare le tante discussioni su idee, esperienze, letture che accomunano gli autori. Spesso abbiamo parlato di libri, consigliandoceli a vicenda, affrontando pure la questione del rapporto che abbiamo con essi. Tenterò qui di delineare un percorso che attraversi le principali tappe (o tematiche) che chi ama il libro ha prima o poi affrontato.

Poiché il paradiso del mondo di là è incerto, ma vi è effettivamente un cielo su questa terra, un cielo nel quale abitiamo quando leggiamo un buon libro.   CHRISTOPHER MORLEY

Prima ancora di aver superato l’infanzia, il bambino è costretto ad incatenare i propri occhi a quelle strisce di caratteri apparentemente senza senso. Non comprende il motivo per cui, invece di andare a tirare calci ad un pallone, deve stare lì a balbettare parole semplici, ma che vanno ricavate da quegli scarabocchi sulla carta (“perché devo leggere ma-ti-ta quando posso più facilmente disegnare una matita?”).

L’amore per i libri non è immediato, anzi per nascere ha bisogno di un lungo periodo di incubazione. Nessuno, neppure colui che diverrà bibliofilo incallito, può affermare di aver trovato piacere a leggere durante i primi anni scolastici.

Presto però il neo-lettore si rende conto che dietro al semplice (fino ad un certo punto) esercizio vocale di scansione delle sillabe c’è ben altro. Pian piano prende coscienza che ha tra le mani un nuovo gioco, paragonabile ai Lego, con il quale ha l’opportunità di crearsi un mondo tutto suo. Qui i mattoni sono le parole, e per capire la “costruzione” queste vanno lette in un certo ordine, che la maestra chiama “periodi”.

Con quella di leggere cresce anche la capacità di scrivere e il paragone con i Lego si completa: ora anche il ragazzino è in grado di fare delle costruzioni con le parole. Ma questo appartiene ad un altro mondo, quello dello scrivere.

A questo punto della crescita del novello lettore possono intervenire due eventi: il primo è il rifiuto della parola scritta, il secondo una simpatia che con gli anni diverrà vero e proprio amore.

Il ragazzo che comincia a leggere è spinto a farlo essenzialmente dalla sua curiosità verso piccoli eventi, spesso insignificanti. Questa prerogativa è insita nel bambino, ma in genere va scemando col divenire adulti. Solo in chi legge assiduamente, e non solamente la Gazzetta dello Sport o consimili, questa curiosità ancestrale rimane, e viene soddisfatta dalla ricerca che il lettore fa all’interno e all’esterno del libro stesso.

Cominciando ad indagare il rapporto che il lettore abituale instaura con l’oggetto della lettura, ci rendiamo conto che quest’ultimo offre solamente lo sfondo delle vicende narrate (l’autore lo si potrebbe paragonare, nel mondo del cinema, al soggettista o al sceneggiatore); i primi piani, i particolari sono a completa discrezione del lettore. Al ragazzo che passa dai soldatini al libro viene aperta una finestrella in un mondo tutto da scoprire, in cui diviene comparsa, protagonista e regista, separatamente o contemporaneamente.

[…] abbandonandomi alla più cara delle mie abitudini: l’arbitrio della conversazione. Alle mie spalle sento il riposo della mia biblioteca.      XAVIER DE MAISTRE

Ciò segue la differenza con quanto invece offre la “scatola ipnotica”, la quale ci presenta un prodotto preconfezionato, che inibisce i nostri desideri e le nostre passioni, appiattendo ogni personale emozione, e propinandone altre omologate. La distinzione tra chi preferisce leggere e chi si bea dei programmi idioti che sforna la televisione sta nel fatto che il primo è ancora cosciente della propria esistenza, ha una propria autonomia intellettiva; il secondo non sa più sognare, lascia che altri siano i protagonisti della sua esistenza.

Il libro consente a chi lo scopre una fuga nella fantasia, la creazione di un universo totalmente a misura del lettore. C’è chi preferisce immedesimarsi nei personaggi di Dickens, respirando l’atmosfera ottocentesca di Londra; oppure percorrere in lungo e il largo con Holden la New York di J. D. Salinger; o, ancora, seguire la fuga vera e propria che Bruce Chatwin ha eletto a sistema di vita.

Marguerite Yourcenar scriveva: “La lettura è una specie di porta d’ingresso su altri secoli, altri Paesi, su moltitudini di esseri più numerosi di quanti ne incontreremo nella vita, talvolta su un’idea che trasformerà la nostra, su un concetto che ci renderà un po’ migliori o almeno un po’ meno ignoranti di ieri”.

Chi è assalito dalla mania (malattia?) di leggere è soggetto a richiudersi nel proprio mondo dove il libro è un facile compagno di gioco. La lettura comporta conseguentemente un isolamento dalla società. Presto il “malato” si scontra con l’impossibilità di conciliare l’intensità dei sentimenti che trova nei libri con la pochezza della quotidianità. Si rende conto che il mondo anarchico di Bakunin è del tutto, e soprattutto, utopico (per questo a noi piace tanto!), che l’amore assoluto di Dante per Beatrice è irraggiungibile, che non esiste l’amicizia perfetta descritta ne “L’amico ritrovato” di Fred Uhlman, nella realtà questa se ne va senza tragiche separazioni, semplicemente scivola via.

La troppa immedesimazione nei personaggi letterari può portare a ragionare e a comportarsi come loro (vedi Don Chisciotte). Nel libro ci si rifugia dalle brutture della società, perché lì gli omicidi, gli amori e le disgrazie hanno un senso, una logica, una continuità; cosa che la realtà non sembra possedere: qui regna il caos, tutto pare non avere autore.

Luciano Canfora ne “Libro e Libertà” scrive: “Don Chisciotte che, a furia di leggere, entra nel mondo dei suoi libri e ragiona come se fosse egli stesso un soggetto di quei libri e addirittura vive come quei personaggi, è una creazione inquietante, che incombe, per così dire, come esito possibile sul mondo dei lettori”.

Tutti i giorni affrontiamo il compito di essere lettori di un libro che non ha trama e di cui non capiamo i perché, ma è il nostro mondo e dobbiamo accettarlo come tale, magari cercare di modificarlo, ma partendo comunque dal presupposto che questo è quello reale. Difficilmente torneremo sui nostri passi, quindi compito di ogni lettore è quello di chiudere il libro rifugio, con una trama, un inizio ed una fine, per affrontare i fogli sparsi di tutti i giorni. Tutti i lettori corrono il rischio di combattere contro mulini a vento se non si adoperano a filtrare ciò che contiene il libro e trarne utili appigli per la loro “sopravvivenza quotidiana”, in modo da trovare un compromesso tra la vita reale e quella utopica. Chi legge spera di trovare nel libro una possibile soluzione ai problemi di tutti i giorni: questo però non deve impedirgli di prendere coscienza del fatto che nessun testo, nessun consiglio che questo può dare, sarà determinante nelle scelte della sua vita. Essi testimoniano solo che i nostri crucci, le nostre debolezze, i nostri mal d’animo sono comuni a moltissime persone, compreso l’autore. È un’amara consolazione, ma questo ci fa sentire meno soli.

Coloro che amano il libro, leggendo ne “Il Nome della Rosa” la descrizione del momento in cui Guglielmo da Baskerville entra nella biblioteca del monastero, hanno provato invidia per la realizzazione di un sogno comune a molti: entrare in un mondo nel quale non esistono altro che scaffali zeppi di codici antichi e pergamene, dove l’aria è satura di polvere, il silenzio è quello del culto e della reverenza per la parola scritta. Molti infatti potrebbero fare proprie le parole di Jorge Luis Borges, uno che di biblioteche se ne intendeva parecchio: “Mi sono sempre immaginato il Paradiso come una specie di biblioteca”. All’interno della labirintica torre, il protagonista mette finalmente le mani su un testo che si credeva non esistesse: il “secondo libro della Poetica di Aristotele”. In fondo tutti coloro che amano leggere cercano quel volume, dal quale trasse risposte alle loro domande.

La mia libreria era un ducato abbastanza vasto.    WILLIAM SHAKESPEARE

Il libro lo si deve considerare anche come un oggetto fine a se stesso. Il piacere di possederlo, sentirlo al tatto, ammirare l’iconografia, il tipo di carattere, la rilegatura e l’odore delle pagine vecchie di molti anni, vissuti in segreti scaffali, sono risvolti che chi ama il libro non sottovaluta. Naturalmente questo deve risultare di secondaria importanza rispetto al contenuto, ma ha una sua significativa valenza.

Edmondo De Amicis diceva: “L’amore dei libri è fonte, per se solo, di mille piaceri vivissimi, piaceri della vista, del tatto, dell’odorato. Certi libri, si gode a palparli, a lisciarli, a sfogliarli, a fiutarli”.

Oggi si discute tanto di Internet, di multimedia, di molti libri a cui poter accedere tramite un semplice CD-ROM; tutti dicono che presto il libro si estinguerà. Personalmente non lo credo affatto. Il libro per la sua funzionalità è molto più avanzato del computer. Molto più pratico, più economico e non ha bisogno della spina per essere letto.

L’importanza di possedere un libro sta proprio nel fatto che è lì nella libreria personale, a portata di mano quando lo si vuole leggere, rileggere, spulciare, scoprire; oppure lo si può lasciare lì per anni, magari non leggerlo mai, ma sapere che c’è. Un buon libro può rimanere a “decantare” per anni in una polverosa biblioteca prima che lo si affronti, ma quando questo accade ci compiacciamo del fatto di aver avuto l’accortezza di acquistarlo, e magari aver atteso tanto tempo prima di affrontarlo.

Capita pure che mentre cerchiamo un testo ci rendiamo conto che non si trova nello scaffale sul quale dovrebbe essere. Divenendo sempre più nervosi cerchiamo negli interstizi più oscuri della libreria, ad un certo punto lo sgomento ci assale: lo abbiamo prestato!

Il bibliofilo spesso è in conflitto con due sentimenti apparentemente inconciliabili: il primo la gelosia dei propri testi e la loro conservazione, l’altro il desiderio di condividere con qualcuno le sensazioni che questi hanno suscitato in lui. Il prestito oculato, quello limitato a compagni di lettura accuratamente selezionati, concilia i due opposti. Con questo gesto si trasmettono sentimenti ed emozioni che altrimenti sarebbero difficilmente comunicabili. È pure un modo per dare una continuità a noi stessi. Possedere libri, far partecipi altri della lettura di questi, da l’illusione di realizzare un sogno che da secoli l’uomo insegue: l’immortalità. Avere l’opportunità di scegliere i libri da includere nella propria collezione, arrivando quindi alla realizzazione di una biblioteca che ci caratterizza, diventa la concretizzazione di un risvolto fisico che per sua natura non ha nulla di concreto: l’anima.

Non esistono in un libro risposte a domande come: chi siamo, dove stiamo andando, ma le si possono trovare in una biblioteca costruita con accuratezza; i libri stessi diventano le risposte. In ciascuno di essi troviamo esperienze di vita, enigmi, pensieri che sono i nostri. La lettura crea dei punti di riferimento della nostra vita. Una sintesi della letteratura mondiale e temporale crea nella coscienza del lettore un modello originario, primordiale ed immutabile dei rapporti umani: l’Amicizia, la Morte, la Solitudine, l’Amore, il Patriottismo, l’Esilio, ecc. Questi modelli sono gli obiettivi da raggiungere che ogni lettore si prefigge per poter avere le risposte che desidera, per poter soddisfare la sua sete di sapere.

Esistono pure libri che hanno fornito modelli ideali di comportamento e di pensiero, o hanno indotto il tentativo di renderli concreti. Penso ad esempio al fenomeno della beat generation, diffusosi dopo la divulgazione di testi come “Sulla strada” di J. Kerouac. Oppure, andando indietro nel tempo, a ciò che avvenne nel ‘600, quando fu pubblicato il manifesto “Fama Fraternitatis”, che creò il mito dei Rosacroce. Nessuno può affermare con sicurezza che essi esistessero prima di allora, ma dopo sicuramente sì. Il libro trasmise ai lettori del tempo un messaggio di integrità morale, impregnato di esoterismo, a cui molti fecero riferimento come modello organizzativo e politico.

La letteratura in generale ha dei presupposti utopici. Essa è rivolta sempre e comunque al lettore del presente come a quello del futuro. Il fatto è che da millenni l’uomo continua a scrivere, e a divulgare ciò che ha scritto, sempre sugli stessi argomenti: l’amore, la morte, la vita, l’odio, l’amicizia. A differenza delle scienze nelle quali una nuova scoperta in un certo qual modo soppianta quella precedente, la letteratura rimane immutabile nel tempo. È un eterno interrogativo, alla ricerca di una risposta che non potrà mai essere definitiva.

Per concludere vorrei spiegare il significato del titolo. È tratto dal libro “L’uomo che portava felicità” di Jürg Federspiel. È la storia di un ussaro che instancabilmente cerca un paese di nome Barangain. Il luogo è quello dove vengono realizzate tutte le sue aspettative, come dice lui stesso nelle ultime righe del racconto: “Cerco un paese, un paese come il mio. Ho tutto il tempo al mondo, per trovarlo. Tutto il tempo al mondo”.

Pure noi Viandanti delle Nebbie cerchiamo quel paese; non importa se alla fine non lo raggiungeremo, quel che conta è insistere nella sua ricerca. Il nostro Barangain è un luogo dove si concretizzano i nostri sogni, le nostre utopie, dove incontriamo personaggi fantastici e reali, che in una qualche maniera ci appartengono. Un posto dove si possa discutere di letteratura con Calvino, di poesia con Leopardi. Viaggiare nello spazio e nel tempo con Corto Maltese. Apprendere il coraggio, l’onore e la cavalleria da Don Chisciotte e Re Artù. Studiare il Medioevo, le eresie e l’Inquisizione con chi l’ha subita, come il Gran Maestro Templare De Molay. Ubriacarci con Bukowski. Sognare con Valentina (va bene anche se qualcuno è sconcio). Entrare nella biblioteca dell’Abbazia con Gugliemo da Baskerville e Jorge Luis Borges. Amare Madame Bovary.

Meglio questi sogni che quelli a 12 pollici. Quindi lasciateci cercare il nostro Barangain e non rompete con la pubblicità!

Collezione di licheni bottone