Fiato corto

di Paolo Repetto, 2018

Non posso più farmi sconti, devo accettare l’idea che ho il fiato corto. E non mi riferisco all’ultima salita al Tobbio e all’amara constatazione che ogni volta impiego cinque minuti in più. Questo lo sapevo già. D’altro canto, se sommo gli anni alle sigarette è un miracolo che respiri ancora.

No, sto parlando d’altro, del respiro della scrittura. Non ho fiato per i lunghi percorsi, e quello che ho lo uso male, respiro in maniera irregolare e quindi tendo a fermarmi, ad accelerare, a perdermi. In termini sportivi reggerei magari i diecimila, ma nella maratona sarei un disastro. E un libro è essenzialmente una maratona: percorrere il maggior spazio narrativo possibile nel minor numero di pagine. Me ne sono fatto comunque una ragione, e facendo di necessità virtù ho scelto il mezzofondo. Quello che ho da dire non necessita di tirate eccessivamente lunghe.

In realtà nei programmi giovanili qualche progetto di gran fondo c’era. Una storia dell’idea di tempo, ad esempio, e una di quella di progresso (ci ho messo un po’ a capire che si trattava della stessa cosa). Poi una del pensiero ebraico e del suo influsso sulla modernità, una del fumetto, una del razzismo e una dell’utopia. Insomma, non è che le ambizioni mancassero. In molti casi il problema si è risolto da solo: nel frattempo qualcuno ha provveduto a scrivere le cose di cui avrei voluto scrivere io, lo ha fatto meglio e mi ha risparmiato la fatica, offrendomi anche un alibi per la mia indecisione o la mia pigrizia. O addirittura l’aveva già fatto, e me sono accordo in ritardo, ma sempre in tempo per scansarla. Anche quando i risultati altrui non mi convincono del tutto, riscrivere le stesse cose per arrivare a conclusioni diverse mi sembra uno spreco.

Rimangono però degli argomenti dei quali davvero avrei voluto scrivere, e che difficilmente ormai riuscirò a trattare. Ne ho in testa gli schemi, alcuni ronzano lì da un sacco di anni, e penso che l’unico modo per liberarmene sia alla fin fine trascriverli direttamente. Se la motivazione alla mia scrittura è di suscitare qualche stimolo, questa potrebbe essere la strada buona. Quando manca il fiato per la salita, ci si deve accontentare di passeggiare in piano.

 

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Storia di una montagna (di Elisée Réclus)

Storia di una montagna (di Élisée Reclus)a cura di Paolo Repetto, 30 settembre 2018

L’asilo

Le sommità e le vallate

La roccia e il cristallo

L’origine della montagna

I Fossili

La degradazione delle cime

Le frane

Le nubi

La nebbia e la bufera

Le nevi

La valanga

Il ghiacciaio

La morena e il torrente

Le foreste e i pascoli

Gli animali della montagna

La distribuzione dei climi

Il libero montanaro

Il cretino

Il culto delle montagne

L’olimpo e gli dei

I Genii

L’uomo

Tip. A. de Mohr; Milano: L’Università popolare, 1909

Traduzione di LAURA MALNATE

L’asilo

Era triste, abbattuto, stanco della vita. Il destino era stato crudele verso di me, m’avea rapito gli esseri più cari, aveva rovinati i miei progetti, distrutte le mie speranze. Degli uomini, che io chiamavo amici, al sopraggiungere della sventura, m’aveano abbandonato o s’erano schierati contro di me: l’intera umanità, colle sue passioni sfrenate, col suo egoismo, m’ispirava disgusto. Volevo ad ogni costo fuggirla, sia per morire, sia per cercare nella solitudine un po’ di forza e la calma dello spirito.

Senza tampoco propormi una meta, era uscito dalla città rumorosa e mi dirigevo verso le grandi montagne, il cui profilo si disegnava sul lembo estremo dell’orizzonte.

Un passo dopo l’altro, preferivo le strade meno frequentate e mi fermavo la sera nelle osterie fuor di mano. Il suono di una voce umana, il rumore di un passo, mi facevano trasalire; ma quando camminavo da solo, ascoltavo con melanconico diletto il canto degli uccelli, il mormorio del fiume, e i mille rumori che salgono dai boschi immensi.

Finalmente, camminando sempre a caso per strade o per sentieri, giunsi alla prima cerchia di montagne. La spaziosa pianura, listata, di solchi, finiva bruscamente ai piedi delle roccie e alle falde dei declivi ombreggiati dal castagno. Le alte cime azzurrine, che scorgevo da lungi, erano scomparse dietro quelle creste meno elevate ma più vicine. Alla mia destra, il fiume, che più basso si adagiava in un letto spazioso, si rompeva contro i massi, scendeva rapido fra le roccie liscie e vestite di muschio nerastro. Lateralmente, la costa, contrafforte avanzato della montagna, ergeva le scure sue rupi, e mostrava, sulla sua sommità, le rovine di un antico castello, già custode della valle. M’era il passo, per così dire, e quasi il respiro, limitato da alte muraglie; eppure mi sentivo libero. Perchè? M’allontanavo rapidamente dalle grandi città, m’allontanavo dalle nebbie e dal frastuono; laggiù aveva lasciati i nemici e i falsi amici.

Per la prima volta, dopo molto tempo, gustavo una vera gioia. Camminavo più spedito ed allegro; anche lo sguardo s’era fatto più sicuro. Mi arrestai per aspirare con voluttà l’aria pura della montagna.

In quel bel paese, non più degli stradoni coperti di ciottoli, di polvere o di fango: adesso ho abbandonato le bassure, mi trovo nella montagna non ancora asservita. Un sentiero, appena segnato dalle orme delle capre e dai mandriani, si stacca dalla straduccia, che si tiene nel mezzo della valle, e sale obliquamente lungo il fianco della montagna. Prendo questa via per potermi trovare alla fine del tutto solo. Mano mano che m’innalzo, veggo impicciolirsi i viandanti che attraversano la valle. Le capanne, i villaggi si celano dietro le colonne di fumo, nebbione grigio-azzurrognolo che sale lento lento verso le cime e si straccia lungo i margini della foresta.

Verso sera, dopo di aver girato parecchi massi rupinosi, dopo di aver attraversati dei burroni, saltando da pietra a pietra, diletto virile e fanciullesco insieme, per tacere dei ruscelli chiassosi varcati allegramente, giunsi alla base di una balza che domina dall’alto le rocce, i boschi e le praterie. Sulla vetta una capannuccia affumicata; lungo i pendii delle pecore pascenti. Il sentieruolo giallastro saliva verso la capanna e pareva mettervi capo, quasi nastro spiegato sul velluto dell’erba folta. Intorno a non molta distanza, botri sassosi, precipizi pittoreschi, rupi franate, la cascata fragorosa, e in alto ammassi di neve e di ghiaccio. Era l’ultima dimora dell’uomo. Quella casupola doveva offrirmi un asilo per molti mesi: due soli amici, un pastore ed un cane.

Libero oramai, m’abbandonai fidente alla natura, affinchè potesse rinnovarmi la vita. A volte andavo passeggiando fra le pietre disordinatamente crollate da una cresta rocciosa; a volte inoltravo a caso nella scura foresta di abeti; ora giungevo le vette per contemplare di là i più vasti orizzonti; spesso scendevo in una forra profonda e nera, e potevo per poco figurarmi d’essere calato negli abissi della terra. A poco a poco, mercè gli influssi del tempo e della natura, i lugubri fantasmi che s’affollavano nella mia mente cessarono di torturarmi. Non passeggiavo più col solo scopo di sfuggire i penosi ricordi, ma anche per accogliere delle nuove impressioni e per gustarle in uno stato di dolce inconsapevolezza.

Certo, fin dai primi passi in montagna, avea provato un senso di gioia, e ciò appunto perchè mi trovavo nella solitudine; roccie, foreste, un mondo del tutto nuovo si collocava tra me e il passato: ma non tardai ad accorgermi che una nuova passione era penetrata nella mia anima. Amavo la montagna per sè stessa, amavo la sua fronte calma e superba, ancora illuminata dal sole, quando già le prime ombre ci contristano; amavo le poderose spalle cariche di ghiacci degli azzurri riflessi; e l’occhio si compiaceva di scendere lungo i ripidi fianchi sparsi alternatamente di pascoli, di foreste e di frane.

Le radici immense si spingono lungi come quelle di un albero gigante, e fra quelle propagini si aprono le vallette; e ciascuna ha il suo rivoletto, la cascata, il lago, le praterie. In una parola amava la montagna tutta quanta, anche il muschio giallo o verde che cresce sulla roccia, persino la pietruzza che brilla in mezzo all’erba.

Non altrimenti, il pastore mio compagno, che m’era dapprima quasi spiaciuto, come rappresentante di quell’umanità che io fuggiva, m’era divenuto un po’ per giorno necessario: sentivo nascere per lui la confidenza e l’amicizia. Non mi limitavo più a ringraziarlo per le cure che mi prestava, cominciavo a studiarlo, cercavo d’imparare anche da lui qualche cosa. Per dire il vero sapevo assai poco: pure, quando l’amore della natura s’impadronì di me, fu lui che mi fece conoscere la montagna ove pascevano i suoi greggi e alle cui falde era nato. Mi disse il nome delle piante, mi additò le roccie ove si trovavano i cristalli e le pietre rare, m’accompagnò sugli orli vertiginosi degli abissi per insegnarmi la via migliore e più sicura. Dall’alto delle cime, mi designava le vallate, il corso dei torrenti: di ritorno alla capanna, mi narrava la storia del paese e le leggende locali.

In compenso, io gli veniva spiegando molte cose che egli non sapeva, o non capiva, e che forse non aveva mai desiderato di comprendere. Ma la sua intelligenza s’apriva a poco a poco, e la curiosità del vero la rendeva vogliosa e insieme capace di gioie non prima gustate. Prendevo diletto a insegnargli il poco che io sapevo nel vedere che il suo occhio si accendeva e la sua bocca s’apriva al sorriso. Quel volto già scolorito e rozzo, pigliava una nuova espressione: da incurante che era, quell’uomo si faceva riflessivo, studiava sè stesso e il mondo esteriore.

Ora mentre istruivo il mio compagno, istruiva me stesso, giacchè sforzandomi di spiegare al pastore i fenomeni della natura, giungeva a capirli meglio: maestro e scolaro insieme, anche per questo rifiorivano per me i bei giorni della cara e indimenticabile giovinezza.

Ed ecco come, spinto da un duplice movente, l’amore della natura e la simpatia per il mio simile, procurai di conoscere la vita attuale e il passato della montagna, sulla quale noi si viveva come dei moscerini sulla epidermide d’un elefante. Volli studiarne la massa grandiosa, o, come si direbbe, l’ossatura, mercè l’esame delle roccie, di quegli accidenti del terreno, che offrono gli aspetti più variati, or graziosi, or terribili, al variare del punto di vista, dell’ora, della stagione.

Non trascurai, s’intende, di occuparmi degli ammassi di neve, dei ghiacci, delle meteore, della fauna e della flora. Tentai anche di sapere ciò che la montagna è nella poesia e nella storia delle nazioni, l’influenza che esercita sulle emigrazioni e sugli stanziamenti dei popoli e in genere sul progresso dell’intera umanità.

In questo studio mi tornò sempre prezioso l’aiuto del mio pastore; e, per dire tutto, devo molto ad una collaborazione, che potrebbe essere passata in silenzio senza offendere alcun amor proprio, quella dell’insetto, della farfalla, dell’uccello canoro.

Se non avessi trascorso delle lunghe ore, sdraiato sull’erba, ad osservare o ad audire questi piccoli esseri, miei buoni fratelli, forse non avrei sentito del pari quanto sia viva, dovunque, la vasta terra, la quale sostiene e alimenta gli animali infinitamente piccoli e li trasporta con noi negli spazi senza confini.

 

Le sommità e le vallate

Veduta dalla pianura, la montagna ha una forma semplicissima; è un piccolo cono frastagliato che s’innalza, con altre sporgenze d’ineguale altezza, sopra una muraglia azzurra, striata di bianco e di rosa, che limita tutto un lato dell’orizzonte. Mi sembra di vedere da lontano una sega mostruosa, dai denti bizzarramente tagliati; uno di questi denti è la montagna, su cui mi sono perduto, o piuttosto ove ho ricuperato me stesso.

Tuttavia il piccolo cono, che appena distinguevo dalle sottoposte campagne, pulviscolo su quel granello di sabbia che è la terra, è adesso per me un mondo. Dalla capanna scorgo, è vero, a poche centinaia di metri sopra il mio capo, una cresta di roccie, che sembra essere la vetta: ma, giunto lassù, ecco un’altra cresta, che si drizza oltre le nevi. Se salgo la seconda cinta, ancora la montagna mi si presenta sotto un nuovo aspetto. Da qualsiasi punta, da ogni burrone, da ogni versante, il profilo della montagna è diverso, diverso il suo rilievo. Da sè solo il monte è un gruppo di alture a quel modo che l’onda è formata di ondicine innumerevoli. Per figurarsi nel suo complesso l’architettura della montagna, occorre studiarla, percorrerla in ogni senso, salirne ogni sporgenza, penetrare nelle più piccole gole. Come tutto quaggiù, la montagna nel suo insieme e nelle sue parti, non ha, per così esprimersi, limiti di sorta; anche lassù l’infinito ci attornia, ci impensierisce, ci esalta.

La cima, sulla quale preferivo sedermi, non è la vetta sovrana, sgabello da re per contemplare i regni soggetti: mi sentivo più felice sulle cime meno elevate, dalle quali potevo osservare i declivi più bassi, quindi risalire, da costa a costa, verso le pareti superiori, per poi fissare la punta immersa nel cielo azzurro. Da quella modesta altura contemplavo ciò che di meglio può offrire le montagne, roccie, foreste, pascoli, nevi, senza dover reprimere quel moto d’orgoglio che avrei forse provato nell’afferrare la vetta più elevata. Mi libravo, per così dire, a media altezza, fra la terra e il cielo; e mi sentivo libero senza essere isolato. In nessun altro luogo mi fu dato gustare di una pace maggiore.

Però è anche una gioia vivissima quella di giungere una delle maggiori vette, da cui si abbraccia una vasta veduta di picchi, di vallate e di pianure. Con quale voluttà, con quale rapimento si contempla nella sua massa il gigantesco edificio di cui si occupa il fastigio. Dal basso, sulle prime ondulazioni, non si vede che una parte della montagna, tutt’al più un solo versante: ma, dalla sommità, si vede lo sfilare dei rialzi e dei contrafforti, una fuga di creste, che via via declinano e si uniscono alle colline e alle prime sporgenze del terreno. Trattiamo da uguali le grandi masse che ci sorgono in giro, noi pure ci sentiamo immersi, anzi trasportati nell’aria pura e nella luce; ci leviamo in pieno azzurro, al pari dell’aquila che si libra a tanta altezza sulla terra. Laggiù, molto al di sotto della cima, vedesi quel che la folla del piano già chiama cielo: le nubi, che viaggiano lentamente lungo i fianchi della montagna, si rompono agli angoli acuti delle roccie e ai lembi dei boschi; ondeggiano nei burroni dei frammenti di nebbia, mentre la massa delle nuvole trascorre sulla pianura, e oscura vasti tratti. Da questa orgogliosa altezza, non si vedono correre i fiumi al pari delle nuvole da cui provengono, ma il moto dell’acqua si distingue mercè il tremulo scintillìo, che attira lo sguardo tratto tratto, dove il ruscello fila dal ghiacciaio spaccato, dove precipita in cascatelle, o si distende nei laghetti, o serpeggia fra i colti ed i frutteti sottoposti. Nell’osservare le profonde incisioni del suolo, quei botri, quelle gole, quegli anfiteatri, assistiamo, come se non fossimo di ieri, come se fossimo vissuti nelle epoche più remote, all’immenso lavoro geologico delle acque, che scavano il proprio letto in ogni direzione intorno alla massa primitiva della montagna. Si vedono, per così dire, scolpire incessantemente il blocco enorme, degradare le cime, trasportare le macerie, livellare la pianura, colmare le baie. E la scorgo anch’essa questa baia, dall’alto del pinacolo conquistato: là s’estende quello sterminato abisso dell’Oceano, da cui la montagna è uscita, tutta stillante di salsi flutti, e dove all’ultimo deve ritornare.

E l’uomo? È invisibile, ma pur rivela la sua presenza. Al fondo delle valli o sul versante delle verdeggianti montagne discerno, come nidi mezzo nascosti nel fogliame, delle capanne, dei cascinali, dei villaggetti. Più giù, sotto la nebbia, sotto uno strato d’aria viziata dalla soverchia popolazione, una macchia biancastra indica una grande città.

Le case, i palazzi, le torri, le cupole si confondano in una tinta rugginosa e fosca, che fa contrasto coi freschi colori delle campagne vicine: si direbbe una muffa. Si pensa, allora, con tristezza, al molto male che si fa in quel formicaio, ai vizi che fermentano sotto quel punto oscuro. Però, contemplato dall’alto, è pur bello nel suo insieme il panorama delle campagne; le città, i villaggi, e le case si staccano dal verde e scintillano al sole. Sotto l’intensa luce, le macchie sfumano nell’insieme, formando un tutto armonicamente gaio: l’aria distende sulla pianura un velo azzurro pallido.

La vera forma della montagna, sì pittoresca, sì ricca di svariati aspetti, è molto diversa dall’idea che me ne era formato studiando le carte sui banchi delle scuole. M’immaginavo allora una massa isolata d’una regolarità perfetta, dai declivi per ogni verso uniformi, la cima a pan di zucchero nè più nè meno, o a forma di cupola, e la base con insensibile pendio unita alla pianura.

Di codeste montagne non ce ne sono, che io sappia, sulla terra. Anche i vulcani, che sorgono isolatamente, staccati talora da ogni altra massa, e che si sollevano a poco a poco, depositando intorno ai fianchi degli strati di cenere e di lava, non presentano questa regolarità geometrica. Il getto delle materie interne ora avviene dallo sfiatatoio centrale, ora da un crepaccio laterale; dei piccoli vulcani secondari si formano sui pendii del monte principale e formano delle spaccature o delle scannellature nel terreno. Il vento fa cadere ove meglio gli piace i nembi di cenere eruttata, ciò che pure può modificare la forma del cono.

Ma si può paragonare la nostra montagna, vecchia testimone delle età remote, ad un vulcano, nato appena ieri e che non ha ancora sopportato gli assalti del tempo?

Dal giorno in cui il punto della terra, ove ci troviamo, cominciò ad indurirsi e a prendere una forma rugosa, che dovea grado grado trasformarsi in montagna, la natura, che è moto e trasformazione incessante, ha lavorato senza posa a modificare l’aspetto di questa gibbosità: qui ha rialzata la massa, altrove l’ha depressa, ed ecco spuntare delle guglie, sorgere delle colonne, ovvero le creste assumere la forma tondeggiante e cupolare. La natura ha piegato, foggiato, inciso, scolpito all’infinito il terreno mobile e per così dire vivente; ed anche adesso, sotto i nostri occhi, il lavoro continua. All’occhio dello scienziato, che vede la montagna attraverso il corso dei tempi, si presenta non meno ondeggiante e agitata del mare sconvolto dalla burrasca; è un’ondata rappresa, una solida nebbiuzza: scomparsa, non sarà che un sogno.

Tuttavia, queste decorazioni mutevoli, queste varietà inesauribili prodotte dalle forze instancabili della natura, presentano dei rapporti costanti, delle armonie all’osservatore, che si fa a studiare con attenzione l’interna ed esterna struttura. Sia che la parte più elevata si allarghi a modo di pianoro, sia che formi una massa semisferica, e quando la cima si assottiglia in una parete verticale, e quando piramideggia verso le nubi o prende forma di un castello diroccato, anche il resto della montagna presenta un aspetto che s’accorda colla configurazione della sommità. Dal bel mezzo della massa scendendo giù giù alla base, si dispongono, da ogni lato, delle vette o gruppi di vette analoghi alla parte centrale; a volte, persino alle falde dell’estremo contrafforte, coperto dalle alluvioni della pianura o dalle acque salse, una miniatura del monte sbalza con lievi ondulazioni dal mezzo delle campagne o sorge a mo’ di scoglio dal seno del mare. Il profilo di queste sporgenze, che si schierano e si perdono in lontananza declinando a poco a poco, ovvero abbassandosi bruscamente, presenta allo sguardo una serie di curve graziose. È una linea sinuosa, che congiunge le creste della grande cima alla pianura, è il vero pendìo: il gigante delle favole infantili, il mago dagli stivaloni fatali preferirebbe questa via, questo ponte aereo.

La montagna, che m’accolse a lungo, è bella e serena fra tutte; ed ha lineamenti, per così esprimermi, di una regolarità espressiva, ma calma. Dai pascoli più elevati, si scorge la vetta, ritta come una piramide in cui si veggono intagliati dei gradini ineguali; negli anfratti d’una tinta scura, quasi nereggiante, risalta il candore delle nevi intatte; il verde, che riveste le cime secondarie, spicca sui dorsi bigi, e lo sguardo scendendo dal pianoro centrale, nella sua arditezza formidabile, si riposa con voluttà sulle molli curve dei prati; un gigante, pensi, sentirebbe vaghezza di accarezzarle, tanto sono vellutate e di grazioso aspetto. Più al basso, dei declivi ripidi, delle sporgenze rocciose o dei contrafforti coperti di selve, mi tolgono in gran parte la vista di un fianco della montagna; ma l’insieme mi sembra anche per questo più alto e sublime, quel che avviene nel contemplare una statua il cui piedestallo resta in parte celato: la sommità scintilla nel mezzo del cielo, nella regione delle nuvole, nella pura luce.

Alla bellezza delle cime e dei rialzi d’ogni specie corrisponde quella delle spaccature, delle piegature, delle strette. Tra il culmine della nostra montagna e la vetta più vicina, la cresta s’abbassa notevolmente e lascia una colma o passo, assai agevole, fra gli opposti versanti. Da questa depressione comincia il primo solco della valle serpentina che si apre tra i due monti. A questo solco se ne aggiungono degli altri e poi degli altri, che incidono le roccie e s’affondano in botri e forre, i quali convergono verso una chiostra mediana, dalla quale, mercè una serie di strette e di bacini a scaglioni, le nevi si squagliano e le acque scendono a valle.

Colà, sopra le pareti quasi a picco, comincia a verdeggiare il prato, e nelle rientranze o sporgenze del terreno si celano dai gruppi di capanne e matura un povero frutteto. Da ogni versante, delle vallette, le une a solatio e gioiose, le altre a bacio e tetre, quali aperte, quali chiuse, scendono alla vallata principale. Al di là di uno svolto lontano, dietro una cortina avanzata, la valle dispare ad un tratto; ma, pur cessando di vedere il fondo, la forma generale s’indovina dai margini più o meno paralleli, cioè dai profili dei contrafforti. La valle, colle sue innumerevoli ramificazioni, che s’addentrano da ogni parte nello spessore della montagna, rassomiglia ad un albero colossale, i cui grossi rami si suddividono in ramoscelli. È appunto la valle colla sua rete di vallette, che ci fa meglio conoscere il rilievo delle montagne.

Non è dai vertici, dai quali lo sguardo spazia più liberamente, che si vede un gran numero di cime, per modo di poterle paragonare le une alle altre? Al di là del contorno sinuoso delle cime che si rizzano dalla parte opposta della valle, si distingue nella lontananza un altro profilo di monti più azzurrini; e più oltre una terza linea, quindi una quarta. Queste muraglie, che vanno a saldarsi alla grande cresta, che presenta le vette principali, si dispongono in certo qual modo parallele, ad onta delle loro divaricazioni e merlature, e qui apparentemente si avvicinano, là s’allontano giusta l’aggrupparsi delle nuvole e il corso del sole. Due volte nella giornata risalta l’immenso panorama dei monti, quando i raggi obbliqui delle aurore e dei tramonti lasciano nell’ombra i piani rivolti verso la notte e inondano di luce quelli che guardano il roseo orizzonte. Dalle cime occidentali più lontane a quelle che si discernono appena verso oriente si dispiega, nell’aria tersa, una gamma armonica di colori e sfumature, attraverso gli splendori della luce crescente. Talune di quelle montagne presentano una tale delicatezza di toni, sono sì diafane e azzurrine, che per poco immagini di poterle dissolvere con un leggero soffio.

Basta che una nebbiuzza si elevi, che un velo tenuissimo di vapori si formi all’orizzonte; basta che il sole, abbassandosi, ceda spazio all’ombra; e le belle montagne torreggianti, le nevi, i ghiacciai, sfumano o scompaiano ad un tratto. Si ammiravano nella loro grandiosità splendida, ed ecco che non si veggono più; ondeggiano nel nostro pensiero come un sogno, come un ricordo incerto.

 

La roccia e il cristallo

La dura roccia, che forma l’ossatura dei monti, o che sostiene i piani erbosi, è coperta, quasi dovunque, da uno strato più o meno profondo di terra vegetale, che alimenta la flora più svariata. Qui delle foreste, altrove dei cespugli, delle brughiere, delle steppe: nelle maggiori estensioni un’erba bassa e fine, il pascolo più gradito. Perfino la roccia nuda, che si frastaglia in guglie o si rizza a mo’ di parete, è vestita di licheni bianchi, rossi o gialli, che impediscono talora di distinguere a primo tratto le pietre di origine anche diversissima. Nelle fredde altitudini, ai piedi dei ghiacciai e sugli orli dei campi di neve, la vegetazione cela per modo la pietra, che gres calcari, graniti sembrano al viaggiatore, per poco che sia distratto, della medesima formazione.

Tuttavolta grande è la varietà delle roccie; il naturalista che percorre i monti armato di martello, può raccogliere centinaia e migliaia di pietre diverse, per aspetto ed intima struttura. Le une sono di una grana uniforme in tutta la massa, le altre sono composte di parti diverse e differiscono nella forma, nel colore, nello splendore. Ve ne ha di macchiettate, di screziate, di cangianti come i diaspri e il raso; ve ne ha di trasparenti, di traslucide e di opache. Quelle sono irte di cristalli e faccie regolari; queste presentano dei disegni arboriformi che imitano le foglie delle felci o i ciuffi di tamarisco. Tutti i minerali si trovano nella pietra, sia allo stato puro, sia conglomerati ad altri elementi: ora sono riuniti in cristalli o noccioli, ora presentano delle tenue venature iridescenti come i riflessi di una bolla di sapone. La roccia inoltre racchiude e serba l’impronta di innumerevoli fossili, animali e vegetali; frammenti dispersi, vestigi preziosi della vita, che s’è perpetuamente rinnovellata attraverso le serie indefinite dei secoli decorsi.

Non occorre essere mineralogista, nè geologo di professione, per notare a bella prima la meravigliosa varietà delle roccie, che formano la massa della montagna. Tale è la differenza fra le varie parti dell’immenso edificio, che spesso si può riconoscere, anche da lungi, a quale formazione esse appartengono. Se contempli un vetta, è facile distinguere la cupola di granito, la piramide d’ardesia, e la parete di roccia calcare.

La vetta granitica della mia montagna si osserva meglio a breve distanza. Una sega di roccie nere separa due campi di neve, superbi di una bianchezza smagliante: un diadema di giavazzo sopra un velo di mussola. Da quella merlatura è più facile afferrare il culmine, evitando i crepacci nascosti sotto la superficie unita delle nevi: il piede vi si ferma saldamente, si può far forza di braccia e salire quella spaventosa gradinata. Da quella parte compivo di solito la mia ascensione, quando, separandomi per poco dal mio ospite, andavo a passare delle ore sul picco più elevato.

Veduta da lontano, attraverso i vapori azzurrognoli dell’atmosfera, la cresta di granito sembra molto uniforme; i montanari, che preferiscono dei paragoni di tutta evidenza, sogliono dare il nome di pettine: e per dire il vero pare proprio di vedere una fila di denti acuminati disposti regolarmente. Però nel mezzo di quelle roccie, si ha, per così dire un’immagine del caos: aguglie, pietre tremole, ammassi di blocchi, macigni sovrapposti, torri a picco, muraglie altissime che lasciano degli angusti passaggi. Fin lassù la roccia è quasi dovunque vestita di licheni; ma in più luoghi venne denudata dalla pressione del ghiaccio, dagli sgeli, dalle piogge, dai venti, dal sole: alcune punte, spezzate dalla folgore, calamitate dal fuoco celeste, hanno per avventura in disdegno la bassa terra e la sua vegetazione.

Aggirandosi fra queste rovine, non è difficile formarsi un’idea di ciò che era, pur recentemente, l’interno della roccia: vedo i cristalli nel loro splendore, il quarzo bianco, il feldspato dalla tinta rosa pallida, la mica che si direbbe una pagliuzza d’argento. In altre parti della montagna, il granito, messo a nudo, presenta aspetti differenti; qui la roccia è bianca come il marmo e punteggiata di nero, poco lungi è turchinicchia e scura. Di solito il granito è d’una grande durezza, perciò preferibile nelle costruzioni monumentali: ma talora è sì friabile, è composto di cristalli sì poco aggregati, che si possono polverizzare tra le dita. Un ruscello, la cui sorgiva si cela sotto dei massi granitici di questa formazione, si adagia nel burrone sovra un letto di sabbia scintillante di mica; par di vedere l’oro e l’argento brillare attraverso l’acqua tremola e fuggitiva: chi sa, qualche zotico venuto dal piano, avrà tentato di raccogliere quei tesori che il rivoletto trascina seco con orgogliosa noncuranza!

L’incessante lavorìo della neve e dell’acqua ci mette in grado di studiare un’altra specie di roccie, che è molta parte della gigantesca mole. Non lungi dalle creste e dalle cupole granitiche, che emergono verso il cielo e che sono, per così dire, il nodo della montagna, campeggia una cima secondaria, che si fa notare per la regolarità della forma: è una piramide a quattro lati, sorretta dall’enorme piedestallo dell’alpe. Questa vetta è composta di ardesia, logorata incessantemente dalle meteore, dal vento, dalla vampa solare, dalle nevi, dalla nebbia, dalla pioggia. L’ardesia, che è lamillare, si sfalda e si fende facilmente; i suoi pezzi si frantumano e sdrucciolano in masse dai pendii. Il passo d’una pecora basta, talvolta, a mettere in moto miriadi di pietre sull’intero declivio della montagna.

Ben diversa dall’ardesia è la roccia calcare, di cui sono spesso formate le rupi avanzate. Non si spezza, come l’ardesia, in frantumi innumerevoli, ma si rompe in grandi masse. Una roccia di trecento metri d’altezza è rimasta spaccata in due parti, dalla base alla cima; si rizzano al cielo le due pareti verticali, si accumulano in disordine spezzami di rupi, al fondo del baratro, l’acqua, scesa dalle cime nevose, precipita con impeto e rifrange la poca luce che penetra dall’alto. Qui più che altrove la natura è grandiosa. Uscendo da questo abisso, da questo tumulto d’acque e di macigni, la parte calcare del monte si mostra tale quale è, riprende le sue reali proporzioni; si vede che è soverchiata da roccie ancora più imponenti. Ad ogni modo, la roccia calcare, coi suoi ammassi e coi suoi torrioni, non manca di grandiosità teatrale, finge, talora, dei palazzi assiri o dei templi babilonesi.

Del pari pittoresche, quantunque di minore importanza, sono le roccie di gres, o di differenti conglomerati. Dove la pendenza del suolo favorisce l’azione dell’acqua questa scioglie il cemento e scava un canaletto, una stretta fessura, che a poco a poco sega la roccia. Tutto all’ingiro l’acqua ha fatto il debito suo; s’è aperta delle vie attraverso la pietra arenaria; le spaccature sono più o meno larghe e profonde giusta la quantità e l’impeto della corrente: la roccia, incisa in ogni senso, non è altro oramai che un dedalo di obelischi, di torri, di bastite. In alcuni punti la montagna si direbbe, quasi, una fortezza deserta, una vecchia città abbandonata: vie umide e sinuose, muraglie merlate, torricelle, statue o stemmi bizzarri. Mi ricordo ancora l’impressione di meraviglia non scevra di spavento, che provai avvicinandomi alla soglia di un baratro già occupato dalle ombre della sera. Scorgevo da lungi l’ingresso scuro e lateralmente, sul coccuzzolo del monte, notavo delle forme strane: parevano giganti schierati, colonne d’argilla, ciascuna sormontata da una grossa pietra rotonda, che, da lungi, figurava una testa. Le pioggie avevano un po’ per anno disciolto e portato via il terriccio circostante, ma le massiccie pietre non s’erano smosse e col loro peso tenevano saldi i sottoposti piloni d’argilla.

Ciascuna roccia, ciascuna rupe della montagna ha dunque un aspetto particolare, che dipende dai materiali di cui è composta e dalla forza colla quale resiste alla degradazione. Per tal modo si produce una infinita varietà di forme, accresciuta dal diverso rivestimento delle roccie, nevi, zolle erbose, foreste, campi messi a coltivo. Al pittoresco dei piani e delle linee aggiungi le modificazioni continue della esteriore decorazione. Eppure, sono pochissimi gli elementi che formano la montagna, e che, confusi insieme, danno al paesaggio alpino tanta varietà d’aspetti!

I chimici analizzano le roccie, e ci fanno conoscere la composizione dei diversi cristalli. Sappiamo da essi che il quarzo è della silice, e cioè del silicio ossidato, un metallo, che, puro, sarebbe simile all’argento, e che, mescolandosi all’ossigeno dell’aria, è divenuto roccia biancastra. Sappiamo che felspato, mica, augite, urniblenda e altri cristalli, sparsi a larga mano nelle rupi della montagna, sono dei composti nei quali si trovano, col silicio, altri metalli, l’alluminio, il potassio, uniti in diverse proporzioni e giusta certe leggi di affinità chimica col gas dell’atmosfera. L’intera montagna, i monti vicini e lontani, le pianure su cui s’innalzano e tutta quanta la terra, di che sono formati? Di metallo allo stato impuro. Se gli elementi fusi e mescolati nella massa del globo ridivenissero puri ad un tratto e se gli abitanti di Marte e di Venere appuntassero in quell’istante il telescopio verso il nostro pianeta, si offrirebbe il medesimo ai loro sguardi come una palla d’argento moventesi nel cielo nero.

Lo scienziato, che indaga la composizione della pietra, trova che tutte le roccie massiccie, composte di cristalli o di pasta cristallina, sono, al pari del granito, dei metalli ossidati. Di che si compongono il porfido, il serpentino, le roccie ignee uscite dalla terra durante le eruzioni vulcaniche, come la trachite, il basalto, l’ossidiana, la pietra pomice? Si compongono di silicio, di alluminio, di potassio, di sodio, di calcio. Sono pure dei metalli le roccie friabili, sovrapposti a strati, giacchè provengono in gran parte dal disgregamento delle roccie massiccie. Pietre rotte in pezzi, poi cimentate di nuovo, dopo essere state triturate polverizzate; argille, già sciolte dall’acqua, e quindi riunite in masse; ardesie, che sono appunto delle argille indurite, qualsiasi frantumo di roccie più antiche si compone di metalli. Solo i calcari, che formano tanta parte della corteccia terrestre, non provengono direttamente dalla distruzione delle roccie primitive; sono formati da avanzi elaborati dagli animali marini, mangiati e digeriti, ma pur sempre metallici: hanno per base il calcio combinato collo zolfo, col carbonio, col fosforo. In tal guisa, mercè le meschianze, le combinazioni varie e mutevoli, la massa pulita, uniforme, impenetrabile del metallo assume delle forme ardite e bizzarre, sia tondeggianti, sia depresse, quest’ultime per accogliere le acque scorrenti; si veste anche di terra vegetale, ed entra perfino nel succhio delle piante e nel sangue degli animali.

Tra le pietre della montagna c’è ancora, qui e là, del metallo puro. Nel mezzo delle frane e sovra il margine delle fonti si trovano spesso delle masse ferrugginose: negli avanzi sparsi si trovano dei cristalli di ferro, di rame, di piombo, combinati ad altri elementi; talora nella sabbia del ruscello, scintilla una pagliuzza d’oro. Però nella roccia dura, nè il minerale prezioso, nè il cristallo sono distribuiti a caso; sono disposti in vene arborate che si sviluppano specialmente fra gli strati di diverse formazioni. Questi filoni metallici, come il filo magico del labirinto, guidarono i minatori verso le agognate ricchezze, giovarono al geologo per studiare la storia della montagna.

C’è stato un tempo, dicono i racconti favolosi, nel quale era facile disseppellire dei tesori dalle viscere dei monti: bastava un po’ di fortuna o piuttosto il favore degli Dei. Nel fare un passo falso, si afferrava per salvezza un arbusto e la debole pianticella cedeva, smovendo una grossa pietra, che celava, forse, una grotta fino a quel giorno sconosciuta. Il pastore penetrava arditamente nella grotta, non senza pronunciare qualche formola magica, o affidandosi alla virtù di un amuleto; dopo alquanti passi, si trovava addirittura sotto una volta di cristallo e di diamante; torno torno delle statue d’oro e d’argento, ingemmate di rubini, di topazi, di zaffiri; bastava stendere la mano per farsi ricchi. Ai tempi nostri le parole magiche non giovano più; ci vuole del lavoro; e molto, per conquistare l’oro e gli altri metalli deposti nelle roccie. I preziosi frammenti sono rari, impuri, mischiati di terra; è d’uopo raffinarli nella fornace per ridare ad essi il valore e lo splendore che hanno in proprio.

L’origine della montagna

Come si vede, fino nella menoma molecola, la montagna non è altro che una combinazione di elementi diversi, che si sono mescolati in proporzioni mutevoli; il cristallo, il minerale, il granello di sabbia ha una storia, e al pari di quella degli astri una storia senza limiti noti. Il più piccolo frammento di roccia ha la sua genesi come l’universo; però, ad onta del reciproco aiuto delle scienze, l’astronomo, il geologo, il fisico, il chimico si chiedono ancora con ansietà se conoscono davvero questa pietra e il mistero della sua origine.

E l’origine della montagna poi è proprio vero che è da essi conosciuta? Mercè l’esame delle roccie, pietre arenarie, calcari, ardesie, graniti, possiamo dire come questa spettacolosa massa s’è venuta formando e s’è sollevata verso il cielo? Pieni di meraviglia dinanzi questa bellezza imponente, possiamo noi, raccogliendoci in noi stessi, noi appena percettibili sul dorso del gigante, dire alla montagna, colla coscienza altera del vero: «La più piccola delle tue pietre può schiacciarci, ma noi ti conosciamo; sappiamo la tua nascita e la tua storia?».

La natura e i suoi fenomeni sveglia la curiosità degli adulti e dei fanciulli: ma, di solito, quest’ultimi, fiduciosamente ingenui, si contentano della risposta vaga e talora fallace d’un padre o di un anziano che nulla sa, o pochissimo; ovvero della risposta di un professore che pretende di saper tutto. Se egli non ottenesse una risposta, domanderebbe, domanderebbe ancora, fino a che gli fosse dato una spiegazione qualsiasi; giacchè il fanciullo non sa star nel dubbio: pieno della coscienza di sè, inconsapevolmente orgoglioso, affacciandosi al mondo da conquistatore, nulla vi dev’essere di ignoto per lui; vuol parlare da maestro, fors’anche da padrone, di ogni cosa.

Non altrimenti i popoli, appena usciti dalle prime barbarie, non esitavano di accogliere delle opinioni recisamente affermative intorno ai fenomeni, che facevano su di essi maggiore impressione.

La spiegazione, che si presentava per la prima, e che era più adatta al grado d’intelligenza e ai costumi di quella famigliola umana, era ritenuta buona. Trasmessa di bocca in bocca, la leggenda acquistò il valore di parola rivelata, e le caste sacerdotali la circondarono di simboli e di cerimonie. E però il matrimonio mitico dei popoli è ricco di racconti, che risguardano le origini dei monti, dei fiumi, della terra, dell’oceano, delle piante, degli animali, dell’uomo.

La favola più ovvia rappresenta gli Dei o i genii in atto di gittare le montagne dall’alto del cielo, lasciandole cadere a caso sulla terra; ovvero in atto di rizzarle e di foggiarle artisticamente, come colonne destinate a reggere il firmamento. Non altrimenti fu eretto il Libano e l’Hermon; e sui confini della terra fu saldamente collocato il monte Atlante dalle poderose spalle. Edificate le montagne, non si creda che gli Dei le lasciassero immobili nel posto ad esse assegnato; se le scaraventavano addosso, in loro battaglie, o ne sfasciavano colla folgore le vette. I Titani, che pure non erano Dei, ma solo giganti, sovrapponevano il Pelio all’Ossa, monti della Tessaglia, per dare la scalata all’Olimpo; qual festuca sollevavano fra le braccia il monte Athos, e dai confini della Tracia lo portavano sulla spiaggia del mare Egeo, ove si trova attualmente. Un gigante del Nord riempiva il grembiule di colline e le disseminava lungo la via percorsa affine di riconoscere il cammino. Visnù, il dio del bene degli Indiani, scorta una giovinetta addormentata, a cui poteva dar molestia la vampa estiva, sollevò una montagna e la tenne in equilibrio sulla punta del dito per far ombra alla bella dormente.

E non sempre gli Dei e i giganti, dovevano usare la forza per muovere le montagne: bastava un semplice cenno. Le pietre accorrevano al suono della lira di Orfeo e formavano da sè le mura delle città; le montagne si sollevavano per udire Apollo: e però il monte Elicona, soggiorno delle Muse, pel desiderio di quel canto divino, si elevò dal piano. Il profeta Maometto, se fosse vissuto due mila anni prima, in una età di fede più ingenua, non sarebbe andato lui alla montagna, la montagna si sarebbe mossa verso di lui.

La mitologia di parecchi popoli ci offre, intorno la nascita dei monti, una favola meno grossolana delle precedenti. Il mito vi sa dire che le roccie e i monti, organi viventi, spuntarono sull’immane corpo della terra, come spuntano i pistilli nella corolla dei fiore. Da un lato il terreno s’abbassa per ricevere le acque del mare, dall’altro si solleva verso il sole per bere la divina sua luce. Anche i fiori volgono i petali verso l’astro che suscita la vita e i colori. Ma le antiche leggende non hanno più credenti, al pari dei sogni che si dimenticano prestissimo, o conservano solo il valore di poetiche reminiscenze; la mente indagatrice, libera d’illusioni, è più che mai avida del vero. Ad ogni modo gli uomini d’oggi, come gli uomini primitivi, devono ancora chiedersi, contemplando le cime dorate dal sole: «Come hanno potuto rizzarsi verso le nuvole?».

Benchè nell’epoca nostra gli scienziati facciano professione di appoggiare le loro teorie solo sull’osservazione e sull’esperienza, non mancano delle ipotesi fantastiche intorno all’origine delle montagne, che rassomigliano alle leggende degli antichi. Un grosso volume, uscito per le stampe non è molto, si sforza di dimostrare, che la luce del sole, che investe il nostro pianeta, s’è assolidata, formando gli altopiani e le montagne. Un altro libro accerta che l’attrazione del sole e della luna, non solo innalza due volte al giorno le onde del mare, ma ha fatto rigonfiare la terra, sollevando delle solide ondate sino alla regione delle nuvole. Un terzo volume racconta sul serio che delle comete, smarrite negli spazi, urtarono il nostro globo, forandone la corteccia come la pietra spezza il ghiaccio, e dalle vaste lacerature balzarono le montagne in lunghe giogaie o in masse compatte.

Fortunatamente la terra, sempre in gestazione, non cessa d’agire sotto i nostri sguardi, per cui vediamo come si modificano a poco a poco le rugosità della sua superficie. Si va sfacendo, ma insieme ricostruendo giorno per giorno, costantemente; livella le montagne, ma per innalzarne delle altre; scava ma insieme colma le valli. Percorrendo la superficie del globo e osservando con cura i fenomeni della natura, vediamo formarsi delle colline e dei monti, non ad un tratto, è vero, come desidererebbero gli amici del miracolo, ma con un lavoro lento ed assiduo. Si veggono nascere, sia direttamente dal seno della terra, sia indirettamente, per così esprimerci, mercè l’erosione degli altopiani, a quel modo che una statua appare a poco a poco in un blocco di marmo. Una massa insulare o continentale, dell’altezza di centinaia o migliaia di metri, è trasformata dalle pioggie abbondanti; i suoi declivi sono grado grado intagliati: vi si aprono dei burroni, delle vallette, delle valli. La superficie uniforme dell’altopiano si frastaglia in cime, in creste, in piramidi; ovvero si affonda in bacini e in precipizi. Delle imponenti giogaie compaiono, in un periodo incomputabile di tempo, dove il suolo piano spaziava sopra una immensa estensione di paese. Sonvi delle regioni della terra ove l’altopiano, investito dalle pioggie da un lato solo, non si frange in montagne che da quella parte: valga ad esempio la terrazza della Mancia, in Ispagna, che, sorretta dalle rupi della Sierra Morena, s’incurva e discende verso l’Andalusia.

A queste cause meccaniche che trasformano gli altopiani in montagne, dobbiamo aggiungere le lenti perturbazioni, che avvengono nell’interno della terra e che producono degli enormi sfasciamenti. Gli infaticabili studiosi, che, armati di martello, visitano per anni e anni le montagne affine di studiarne la forma e la struttura, notano, negli strati recenti di formazione marina, che costituiscono la parte non cristallina dei monti, delle gigantesche spaccature e fessure di separazione che si estendono per centinaia di chilometri. Delle masse, di migliaia di metri di spessore, si sono rialzate nella caduta o furono completamente rovesciate, per cui la parte eminente di prima è diventata il piano inferiore. Gli strati, cedendo per cadute successive, lasciano a nudo lo scheletro delle roccie cristalline, a cui servivano, per così dire, di mantello; per tal modo rimane scoperto il nocciuolo della montagna, come, al sollevarsi della tenda, appare ad un tratto il monumento nascosto.

Però nella storia della terra e delle montagne, che ne formano le rughe superficiali, le increspature del terreno hanno maggiore importanza degli sfranamenti. Sottoposte a lente pressioni secolari, la roccia, l’argilla, gli strati di pietra arenaria, i filoni di metallo, si piegano al pari di una stoffa, si alzano i monti, si affondano le valli, crespe appena sensibili paragonate alla massa del nostro pianeta. La superficie terrestre si solleva, come l’Oceano, in ondate poderose; s’agita come per burrasca; le Ande, l’Imalaja si alzano al disopra del livello medio dei continenti. Le roccie della terra sostengono senza posa degli urti laterali, per modo che si piegano e ripiegano in vario senso, e gli strati sono in un fluttuamento continuo. È proprio così che si aggrinza la pelle di un frutto.

Le cime che si levano direttamente dal suolo e che salgono grado grado dal livello dell’Oceano verso gli strati glaciali dell’atmosfera, sono montagne di lave e di ceneri vulcaniche. In molte parti della superficie terrestre si possono studiare comodamente: si notano le progressive modificazioni. I vulcani propriamente detti, al tutto diversi dai monti ordinari, hanno un fumaiolo centrale, da cui sfuggono i vapori ed escono i frammenti polverizzati delle roccie ignee; ma quando cessa la loro attività, il fumaiolo si chiude, i pendii del cono vulcanico perdono la forma regolare e caratteristica a motivo delle pioggie e della vegetazione, e il vulcano rassomiglia poi ad ogni altro monte. Delle masse rocciose, elevandosi dal seno della terra, sia allo stato liquido, sia allo stato pastoso, escono da un lungo crepaccio del suolo, e non sono lanciate da un cratere, come le scorie del Vesuvio e dell’Etna. Le lave, che s’accumolano in monticuli e si allargano in poggi, differiscono solo per la recente origine dalle vecchie montagne canute che sfidano i secoli. Le lave già ardenti a poco a poco si raffreddano, si sfaldano e si vestono di terra vegetale; bevono ardentemente l’acqua piovana, che si raccoglie in ruscelli e in fiumi; si coprono alla base di formazioni geologiche recenti e si circondano, come le altre montagne, di ammassi di ciottoli, di sabbia o di argilla. Dopo tanto lavorìo e travestimento della natura, solo l’occhio del naturalista s’avvede che quelle lave sgorgarono dal seno della grande fornace, la terra, come una massa di metallo in fusione.

Fra i monti vetusti, che fanno parte delle maggiori cordigliere, cioè di quelle catene che si considerano come le «colonne vertebrali» dei continenti, molti ve ne ha che sono composti di roccie somigliantissime alle lave attuali e di analoga costituzione chimica. Queste lave, porfidi, trappi e metafiti, irruppero da larghe fessure, dilagando sul terreno, come una materia vischiosa che doveva rapprendersi ben presto al contatto dell’aria. Ora la maggior parte delle roccie granitiche pare si sieno formate nello stesso modo; sono cristalline come le lave, e i loro cristalli si compongono degli stessi corpi semplici, il silicio e l’alluminio. Non è ragionevole pensare che anche questi graniti siano stati una massa pastosa, eruttata ancor bollente da vasti crepacci? Ma, badate, non è che un’ipotesi in discussione, e non una verità provata. A quel modo che le lave, che sgorgano dal suolo, sollevano a volte dei vasti tratti con terriccio vegetale e con foreste, così par probabile che l’eruzione dei graniti o di consimili roccie sia stata la causa più consueta del sollevamento degli ammassi di diversa formazione, che costituiscono la parte più ragguardevole delle montagne. Le acque deposero sul fondo del mare o dei laghi, degli strati di calcare, di sabbia, d’argilla, distesi parallelamente gli uni sugli altri. Questi strati formavano, per così esprimerci, la pellicola della corteccia terrestre. Ammessa l’ipotesi precedente, si potrebbe ritenere che tali strati venissero piegati e rizzati dalla massa impetuosa che s’innalzava dalle viscere della terra e che cercava un’uscita. Qui la marea montante del granito spezza gli ammassi superiori in isole e isolotti, che, rotti, fessi, increspati bizzarramente si trovano ora disseminati nelle depressioni e sulle sporgenze della roccia.

In un altro luogo, il granito s’è dischiuso una sola via di uscita urtando e piegando da ambo i lati gli ammassi superficiali, giusta i più diversi angoli d’inclinazione: oppure il granito, senza tampoco farsi strada attraverso la superficie, ha resi gibbosi gli strati superiori. Per tal modo, anche gli ammassi composti di strati di formazione acquea, giacenti sul letto dei mari o dei laghi, furono levati in alto, foggiati in creste, proprio come le gobbe o le protuberanze delle lave: un pozzo scavato attraverso gli strati sovrapposti dovrebbe senza meno scendere al nocciolo di porfido o di granito.

Se ammettiamo che i più fra i monti sieno apparsi come le lave, rimane ancora da cercare la causa che ha fatto prorompere dal suolo questi materiali. Si suppone generalmente che essi sieno stati spremuti, se ci si consente questa frase, dalla contrazione della corteccia della terra, che si raffreddò lentamente nel suo viaggio interminabile. Primamente il nostro pianeta fu una goccia infuocata di metallo. Ruotando negli spazi privi di calorico s’è raddensato poco a poco. Ma si è solo solidificata, come si preferisce di credere, la buccia, o la goccia tutta quanta s’è indurita? Non lo sappiamo, giacchè nulla prova che le lave dei nostri vulcani escano da un immenso serbatoio, che dovrebbe riempire l’interno del globo. Sappiamo solo che queste lave si slanciano a volte dai crepacci del suolo e defluiscono sulla superficie: medesimamente i graniti, i porfidi e simili roccie uscirono, se così piace supporre, dalle fenditure della corteccia, come la linfa geme dalle ferite d’una pianta. La marea delle pietre fuse, sotto la pressione dell’involucro planetario, che via via si veniva risecando per effetto di raffreddamento, monta dall’interno all’esterno: quindi si svolge sotto quelle forme che sono il soggetto del nostro studio.

 

I Fossili

Qualunque sia la primitiva origine della montagna, la sua storia ci è almeno nota da un’epoca molto anteriore agli annali della umanità. Dai primi atti de’ nostri antenati, di cui rimasero testimonianze, sono appena trascorse centocinquanta generazioni; prima di questo tempo, l’esistenza della nostra stirpe ci è appena rivelata da monumenti incerti. La storia della montagna è scritta, invece, a caratteri visibili da milioni di secoli.

Il fatto capitale, che fermò l’attenzione dei nostri antenati sino degli albori della civiltà, soggetto poi di diverse leggende, è che le roccie che formano degli ammassi regolari, in strati collocati gli uni sugli altri, come le pietre di un edificio, vennero deposti dalle acque. Passeggiando lungo le rive di un fiume, o anche solo osservando, in un giorno di pioggia, il rivoletto che si forma nella depressione del suolo, si vede la corrente trascinare la sabbia, i sassolini, la polvere e i frammenti sparsi e deposti con un tal qual ordine sul fondo e sulle rive del proprio letto: i frammenti più pesanti si accumulano in strati là dove l’acqua perde o scema la sua forza primitiva; le molecole più leggiere vanno più lungi a deporsi in strati regolari; le argille, il cui peso supera di poco quello dell’acqua, si ammucchiano dove cessa il moto torrentizio dei fiume. Sulle spiagge e nei bacini dei laghi e del mare, gli ammassi di avanzi, successivamente deposti, presentano un aspetto ancora più regolare, giacchè le acque non hanno il corso impetuoso delle onde fluviatili, e ogni avanzo sospeso passa come attraverso uno staccio e si depone senza che intervenga nessuna causa a disturbare il lavoro delle onde e delle correnti.

È appunto in tal modo che nella vasta natura, si applica la legge della divisione del lavoro. Sulle coste rupinose dell’Oceano, investite dalle ondate d’alto mare, non si vedono che ciottoli e sassi ammucchiati. Ma gli scogli scompaiono poi per dar luogo ad una rada dalla finissima sabbia, che si estende a perdita d’occhio, dove le onde spargono carezzevolmente delle volute di schiuma. Gli scienziati che studiano il fondo del mare, affermano che lo scandaglio, lungo spazi vasti come delle provincie o dei regni, raccoglie dei detriti che si compongono di un fango uniforme, più o meno meschiato all’argilla o alla sabbia, secondo i diversi paraggi. Hanno pure riconosciuto che in altre parti del mare, la roccia, che si forma al fondo, è della creta pura. Cadono incessantemente dagli strati superiori nicchi, spicule di spugne, animaletti d’ogni specie, infimi organismi silici o calcari, e si mescolano agli esseri innumerevoli che si accumulano, vivono e muoiono in quelle profondità, in tanto numero da formare degli ammassi non meno ragguardevoli di quelli delle nostre montagne; e, d’altra parte, quest’ultime non sono pure formate di avanzi dello stesso genere? In un avvenire lontanissimo, quando gli attuali abissi dell’Oceano si distenderanno in pianure o si rizzeranno in alture alla luce del sole, i nostri discendenti vedranno dei terreni geologici simili a quelli che formano soggetto del nostro esame, e che allora non esisteranno più, giacchè saranno stati sminuzzati e travolti dalle acque fluviali.

Durante la serie delle età, gli ammassi di formazione marittima e lacustre, di cui i più dei nostri monti sono composti, hanno potuto occupare, ad una grande altezza al disopra del mare una posizione inclinata, foggiandosi all’ingiro in crespe bizzarre. Vuoi che siano stati sollevati da una pressione venuta dal basso, vuoi che l’Oceano si sia ritirato in seguito al raffreddamento e alla contrazione della terra o per altro motivo, lasciando degli strati di pietra arenaria e di calcare sull’antico letto emerso alla luce, quegli ammassi ora si trovano al posto indicato, e noi possiamo agevolmente studiare gli avanzi del mondo sottomarino, che si celano nelle loro viscere.

Questi residui sono i fossili, avanzi di piante o di animali conservati nella roccia. Le molecole che formavano lo scheletro animale o vegetale di questi corpi scomparvero, scomparvero il tessuto delle carni e le goccie di sangue o di linfa, ma la pietra ha ritenuto l’impronta e persino il colore dell’essere distrutto. Abbondano oltre ogni dire avanzi fossili di nicchi dei molluschi: i dischi, le sfere, le spine, i cilindri, i bastoncini silicei e calcarei dei foraminiferi e delle diatomee; ma si rinvengono altresì delle impronte che sostituiscono esattamente le carni molli di questi organismi; si veggono degli scheletri di pesci colle squame e colle natatoie; si ravvisano degli elittri d’insetti, dei ramuli e delle foglie; perfino si distinguono le orme fuggevoli di uccelli o di altri animali; e nella dura roccia un tempo mobilissima sabbia delle spiaggie, si discerne l’impronta delle goccie di pioggia e l’incrocicchiamento dei solchi tracciati dalle ondicine della placida marina.

I fossili sono rari in certe roccie di formazione marina, sono numerosi all’incontro in altri ammassi e compongono in gran parte i marmi ed i terreni cretacei. Essi giovano a stabilire l’età relativa degli ammassi, che si sono formati lungo il corso delle età geologiche. In vero, non tutti gli strati fossiliferi furono rovesciati e disordinatamente mescolati in seguito a sprofondamenti o franamenti: anzi la più parte dei medesimi conserva una sovrapposizione regolare, per cui è dato osservare e raccogliere i fossili proprio nell’ordine della loro apparizione sulla terra. Laddove gli ammassi, ancora in stato normale, ritengono la posizione che già ebbero quando si venne formando al fondo dei mari e dei laghi, le conchiglie che si trovano nello strato superiore sono senza dubbio più recenti di quelle che giacciono negli strati inferiori. Centinaia, migliaia d’anni, rappresentati da numerevoli molecole intermediarie di pietra arenaria o di creta, si frappongono fra le due faune.

Se dal primo apparire della vita sulla corteccia raffreddata della terra, fossero sempre vissute le stesse specie di piante e di animali, non si potrebbe riconoscere l’età relativa dei diversi strati. Ma la flora e la fauna si sono svolte attraverso le forme più differenti nei successivi periodi geologici. Talune forme, che si riscontrano in gran copia nelle viscere delle stratificazioni più antiche, divengono a poco a poco più rare nelle roccie di origine meno remota, poi scompaiono del tutto. Le nuove specie che succedono alle antecedenti, hanno anch’esse, come ogni individuo, il periodo di rinascita, di propagamento, di decadenza e di morte; si potrebbe paragonare qualsiasi specie fossile, sia animale che vegetale, ad un albero gigantesco, le cui radici si abbarbicano nei terreni inferiori d’antica formazione, e il tronco si ramifica e finisce negli strati elevati d’origine più recente.

I geologi, che nei diversi paesi del mondo, si consacrano allo studio delle roccie, molecola per molecola, affine di scoprirvi i vestigi degli esseri defunti hanno potuto, mercè il succedersi dei fossili, riconoscere l’età relativa dei diversi strati deposti dalle acque. Le ripetute, e quel che più rileva, le comparate osservazioni, posero spesso in grado d’indicare l’epoca geologica approssimativa di una roccia mercè l’esame di un solo fossile in essa rinvenuto. Una pietra di gres, di schisto o di calcare offre una impronta visibile di conchiglia o di pianta; il naturalista non sempre, ma spesso, esaminando quell’impronta, vi sa dire a quale serie di roccie appartiene la pietra in discorso e anche il posto che occupa nella storia del pianeta.

Questi fossili, che ci piacerebbe chiamare rivelatori, questi documenti incontrovertibili, s’agitarono, per milioni d’anni, nel fango degli abissi oceanici ed ora si trovano a tutte le altezze, negli strati delle montagne. Se ne veggono su quasi tutte le cime dei Pirenei, formano la massa delle Alpi: s’incontrano nel Caucaso, nelle Cordigliere dell’Asia e dell’America dovunque. Questi depositi fossiliferi, che oltrepassano ora la zona media delle nubi, occupavano un tempo delle altezze anche maggiori. In molti punti, sui declivi dei monti, si notano spesso delle interruzioni nei vari depositi: il geologo incontra nelle vallette dei tratti di questi terreni, ma gli strati continui non ricompaiono che a molta distanza di là sul versante opposto del monte.

Che avvenne dei frammenti intermedi? La massa granitica, salendo dall’interno, ha rotto per certo quello strato, ed una parte delle roccie infrante rimase sulla ripida cima.

 

La degradazione delle cime

Monti sovrapposti a monti, masse ben più delle attuali spettacolose, sparvero come nubi spazzate dal vento, i cumuli di tre, quattro o cinque chilometri di spessore, di cui è accertata la primitiva altezza dalla sezione geologica delle roccie, sparvero anch’essi o piuttosto rovinarono per ricadere nell’orbita di una nuova creazione. Certo la montagna ci sgomenta ancora per la sua mole, e ne contempliamo con ammirazione non scevra di spavento, i picchi superbi che si slanciano al di sopra delle nuvole negli spazi glaciali dell’atmosfera. Queste piramidi, smaglianti di candide nevi, sono sì alte che ci nascondono metà del cielo; gli abissi, che si aprono dinanzi e che l’occhio non sa misurare, ci danno il capogiro. Eppure ciò che esiste adesso non è che una rovina, non è che il residuo di un insieme ben più grandioso.

Un tempo, gli strati d’ardesia, di calcare, di pietra arenaria che si distendono alla base della montagna e che si rialzano, qui e là, in cime secondarie, si riunivano, al disopra della cima granitica, in ammassi uniformi. La montagna era, per altezza, raddoppiata; la vetta spaziava fin dove l’aquila non regge più al volo a motivo della rarefazione dell’aria. L’immaginazione quasi impaura figurandosi ciò che era allora la montagna: ed è facile arguire quanto essa venisse perdendo, nelle successive età geologiche, a motivo delle nevi, dei ghiacci, delle pioggie e delle tempeste. Quante vicende di elementi ebbero per teatro queste cime inaccessibili: che lunga o piuttosto interminabile sequela di piante, di animali, per tacere dei differenti popoli, dacchè i monti si dimezzarono in altezza e mutarono perfino di forma!

Codesto lavoro di degradazione ha lasciato in molti luoghi, delle traccie visibilissime. La neve logora le vette, i pezzi che cadono vengono trascinati dalle valanghe o spinti al piano dai ghiacciai, l’acqua tritura e polverizza, ma non è a credere che tutti i materiali del monte sieno trasportati al mare, dal quale uscirono in un’epoca anteriore: enormi masse s’incontrano nel tratto più o meno lungo fra i ripidi declivi della montagna e il basso litorale dell’Oceano. In questa zona intermedia, ove le colline si allineano e si abbassano con molli pendii, il suolo è del tutto composto di pietre rotolate e di rottami accumulati. Sono i residui della montagna, ridotti dall’acqua in minuti frammenti, trasportati un po’ per volta e disposti in vasti cumuli allo sbocco delle grandi vallate. I torrenti impetuosi scorrono senza ritegno in questi monticuli di residui, sfranando le rive impotenti a trattenerli.

Sui declivi del profondo bacino, nel quale serpeggiano le acque, si trovano in un apparente disordine, le diverse roccie che fornirono i materiali al grande edificio della montagna, ecco i blocchi di granito e i frammenti di porfido, ecco degli schisti dalla cresta acuminata per metà sepolta nella sabbia: e non lungi dei pezzi di quarzo, dei ciottoli calcari, dei cristalli smussati, degli arnioni di minerali. Vi si trovano altresì dei fossili d’epoche diverse; e, dove le acque a lungo si aggirarono circolarmente, s’incontrano in gran numero degli scheletri di animali. Ivi appunto, si scopersero a migliaia le ossa dei mastodonti, dei mammuth e di altri colossali mammiferi, che un tempo vivevano nelle nostre contrade, e che sparvero per agevolare all’uomo l’impero del mondo. I torrenti, che rapirono al monte questi residui, continuano poi a spingerli verso il mare, frantumandoli via via e riducendoli in polvere. Scheletri e fossili, argille e sabbie, blocchi di schisto, di pietra arenaria e di porfido, ogni materiale della montagna si dissolve a poco a poco e prende la via del mare.

L’immenso lavoro di degradazione che si compie intorno alle cime più elevate e in ogni parte del monte, continua ad effettuarsi dovunque i residui si formano e si accumulano, per cui ogni ammasso, logorato dall’acqua, s’abbassa mano mano e si divide in collinette separate. Ad ogni modo l’altipiano, che si estende alla base della montagna, comunque rastremato dal lavorio dei secoli, e se volete anche sfasciato e sconvolto, ove, per prodigio, tornasse alla primiera altezza, rialzerebbe la vetta di alcune migliaia di metri.

Il lavoro di denudamento delle roccie procede anche adesso con una prodigiosa attività. Delle montagne, composte di materiali poco coerenti, si sfasciano, si dissolvono, per così dire a vista d’occhio: delle gole si scavano nei fianchi, delle breccie si aprono nel mezzo delle creste: la massa principale, sfranata dalle valanghe e dall’impeto degli uragani, si divide a poco a poco in due cime distinte e la scissura si fa sempre più larga e profonda, per modo che le due cime si scostano ognora più l’una dall’altra.Specie in primavera, lo squagliarsi delle nevi rammollisce il terreno, che cede in molte parti, le erosioni, gli scoscendimenti avvengono con maggiore facilità: si direbbe che la montagna intera stia per sprofondare od almeno per muoversi alla volta della pianura.

Ricordo che in una giornata tepida e umidiccia, m’inoltrai in una stretta gola per salutare le nevi prima che fossero portate via dalle acque primaverili. Le nevi ostruivano ancora il fondo del burrone; ma in più luoghi non era facile riconoscerle, a motivo dei detriti nerastri e fangosi da cui erano coperte. Le roccie d’ardesia, che cingono il burrone, erano rivestite di una scura poltiglia, che scivolava in larghe falde; il fango nero, che colava in rivoletti dalle pareti, andava a cadere con un sordo rumore nella neve in parte squagliata. Da ogni parte cascatelle di neve sporca e di detriti: vien di chiedere, non senza un istintivo spavento, se le roccie non stanno anch’esse per squagliarsi, come la neve, precipitando al basso in una sola massa fangosa. Il torrente s’era gonfiato in brevissimo tempo: attraverso i cunicoli, che si sono già formati nella neve, entro i quali precipitano dei pezzi già rammolliti, scorgo le acque, color inchiostro, cariche di detriti: è un’enorme massa di fango in movimento. Invece del rumorìo giulivo, che ero solito ascoltare con tanto diletto, un sordo muggito, frantumi d’ogni sorta, si urtano trabalzando nelle acque impetuose. È appunto al rinnovarsi di tutte le cose, nel dolce aprile che s’affretta più che mai l’opera della demolizione.

Aggiungi il lavorìo che avviene nell’interno delle roccie. Le meteore producono delle modificazioni esterne: ma anche le molecole della roccia sono in continuo movimento, e le trasformazioni latenti non sono meno importanti delle palesi. La montagna si sfalda superficialmente e muta di continuo d’aspetto: contemporaneamente nell’interno la sua struttura si viene cambiando, e muta anche la composizione degli ammassi. Considerato nel suo insieme il monte è un immenso laboratorio, ove agiscono le forze fisiche e chimiche, colla collaborazione del tempo, di cui l’uomo può giovarsi solo in minima parte.

L’enorme peso della montagna, centinaia di miliardi di tonnellate schiaccia le roccie inferiori, foggiandole ben diversamente dalla forma che ebbero primamente, cioè al momento della emersione dai mari. Sotto la formidabile pressione, le ardesie e le altre formazioni schistose assumono una disposizione lamillare. Nel corso di migliaia e migliaia di secoli, le molecole compresse si assottigliano in foglioline, sollevate quelle roccie alla superficie da qualche rivoluzione geologica, si staccano quelle lamine o foglie colla massima facilità. La struttura della roccie viene pure modificata dal calore terrestre, che, almeno fino ad una certa profondità aumenta regolarmente. In tal modo i calcari si trasformano in marmi.

Non solo le molecole delle roccie si avvicinano o si allontanano o si aggruppano diversamente, giusta le condizioni fisiche in cui vengono a trovarsi durante il corso dei tempi, ma cangia pure la composizione delle pietre, è un incrociamento continuo, un viaggio incessante dei corpi che si spostano, si mescolano, si inseguono. L’acqua che penetra dalle fenditure nello spessore della montagna e quella che sale in vapore dai profondi abissi, serve di veicolo principale a questi elementi che s’attirano, poi si respingono trascinati nel gran vortice della vita geologica.

Il cristallo caccia il cristallo; il ferro, il rame, l’argento o l’oro sostituiscono l’argilla o la calce; la roccia scolorita s’avviva delle molteplici sostanze che vi si infiltrano. Mercè lo spostamento del carbonio, dello zolfo, del fosforo, la calce diviene marna, dolomite, solfato di calce cristallina; mercè nuove combinazioni, la roccia si gonfia o si restringe, e delle rivoluzioni lentamente avvengono nel seno della montagna. La pietra, compressa in uno spazio angusto, solleva e scosta gli ammassi sovrapposti, fa crollare degli immensi pezzi, e, mediante una lenta cospirazione di sforzi, che producono dei risultati identici a quelli di una straordinaria esplosione, smuove le roccie e le dispone in modo diverso. A volte la pietra si contrae, si fende, vi si formano delle grotte, delle gallerie, oppure avvengono degli scoscendimenti, che modificano pure l’aspetto e la forma esterna del monte. Ad ogni mutamento di composizione della roccia corrisponde un cangiamento di forma esterna.

La montagna riassume tutte le vicissitudini geologiche: crebbe per migliaia di secoli, decrebbe per miriadi di anni, e nei suoi ammassi si avvicendano senza fine i fenomeni di aumento e di diminuzione, di formazione e di distruzione che avvengono su tutto il resto della terra. La storia della montagna è insieme la storia del nostro pianeta.

Ogni roccia rivela un periodo geologico. A bella prima, contemplando la mia montagna dalle linee graziose, proporzionate, la si direbbe l’opera di un giorno, giacchè l’insieme presenta una mirabile unità, e tutti i particolari concorrono all’armonia generale. Invece la mia superba montagna fu artisticamente scolpita dalla natura durante un tempo, che si computa a secoli e che non si può stabilire con certezza. I vecchi graniti parlano di quell’età nella quale la storia terrestre era ancora priva di vegetazione. Il gneiss formatosi anch’esso per avventura in epoca anteriore alla comparsa delle piante e degli animali, ci parla pure di un’età remotissima, quando l’Oceano lo depose sulle sue spiaggie, e delle montagne erano già state sfasciate e rotte dalle sue onde.

La lastra di ardesia che conserva l’osso di un animale o solo una leggera impronta ci narra la storia di generazioni innumerevoli che si successero nella superficie della terra lottando tutte per la vita, le traccie di carbon fossile ci parlano di quelle foreste immense, che sepolte, dovevano preparare il combustibile all’umana industria; l’alta spiaggia calcarea, ammasso di animaletti che ci vengono rivelati dal microscopio, ci fa assistere al lavoro di miriadi di organismi che pullulano al fondo dei mari; i residui d’ogni specie attestano l’azione non interrotta della pioggia, delle nevi, dei ghiacci, dei torrenti, azione che mentre si prolunga nei tempi muta senza posa il campo nel quale si esercita.

Lo spettacolo di queste continue trasformazioni, l’avvicendarsi perenne di questi fenomeni, l’importanza che ha la montagna nella vita generale della terra e nella storia dell’umanità, questo insieme di bellezze, di scene, di offici provvidenziali doveva ispirare i poeti fin dalle origini dell’umana coltura, e però i più antichi cantori della stirpe arya, dall’alto piano di Pamir e dalle rupi del Bolor lodarono le potenze arcane della terra, inneggiarono la montagna, accordandole l’appellativo di creatrice. Ed è tale davvero. È dessa che manda alla pianura il limo fecondo e le acque, le quali, non solo fertilizzano i campi, ma formano una immensa forza locomotrice e motrice; collaboratrice del sole la vita vegetale e animale non sarebbe possibile senza il suo concorso, è dessa che colma le valli e vi addensa cogli inviti di un lavoro abbondantemente compensato la popolazione. Un mito greco fa autore delle montagne Eros, il primogenito del Caos, il dio sempre giovine, il dio dell’eterno amore.

Le verità scientifica che la superficie terrestre non è immobile e invariabile, come pare ai più, ma va soggetta col volgere dei tempi a mutamenti profondi, ha pure ispirato la poesia persiana. Mohammed Kazvini, scrittore persiano che fioriva nel settimo secolo dell’egira (1300), pone in bocca ad un personaggio allegorico di nome Kidhz, il seguente racconto:

— Attraversando un giorno una città assai antica e popolosa, chiese ad uno degli abitanti da quanto tempo fosse fondata, «È invero una potente città, mi rispose, ma non potrei dire a quale epoca risalga la sua origine.»

Molto tempo dopo, nel visitare lo stesso paese, non vidi traccia di abitazioni, ed essendomi imbattuto in un contadino, il quale mieteva le biade verdeggianti, laddove altre volte sorgevano torri e palagi, «quando mai, gli chiesi, andò distrutta la città?» «In fede mia è una singolare interrogazione, mi rispose: di quale città intendi parcare? nè io nè i miei vecchi ne abbiamo mai avuto notizia.»

Trascorso un eguale spazio di tempo, mi ritrovai nel medesimo luogo; non più dei terreni messi a coltivo, sibbene spaziava un mare immenso!

Alcuni pescatori traevano le reti nei battelli ed io li interrogai così: è molto che le acque salse invasero questo territorio? Mi risposero meravigliati, dubitando quasi che io fossi in senno: «Questo in ogni tempo fu il dominio dell’Oceano.»

Un gran tratto di tempo si era ancora dileguato, quando, ritornando colà, invece dei mobili flutti, m’apparve una distesa infinita di aride sabbie. Ad un viandante, che attraversava il deserto chiesi come e quando la terra avesse preso il posto del mare. Ne ottenni la risposta che avevo già ricevuto precedentemente: egli ignorava che alcun mutamento fosse mai avvenuto nel paese.

Finalmente visitai dopo una lunghissima età quella terra: ed ecco che di bel nuovo, invece del campo di biade, dell’Oceano e del deserto, trovai una città di gran lunga più fiorente, più ricca di monumenti, più popolosa della prima. Gli abitanti, alle domande che indirizzai loro, replicarono: l’origine della nostra città si perde nella notte dei tempi, ignoriamo l’epoca della sua fondazione e i nostri padri non sapevano di più di quanto sappiamo noi stessi.

 

Le frane

Non solo le pioggie, le nevi, il gelo, la valanghe degradano a poco a poco la montagna, ma se ne staccano anche dei pezzi notevoli che rovinano al basso. Dove il monte è formato di strati malamente disposti e fuori della perpendicolare, non che disgiunti da materie eterogenee che l’acqua può facilmente rimuovere e sciogliere, queste catastrofi sono più frequenti. Non appena le materie interposte scompaiono, quegli ammassi manchevoli di appoggio devono, prima o poi, precipitare al fondo. Al piede dei dirupi questi frammenti che cadono dall’alto, formano una collinetta e talora una montagna secondaria.

Una cima abbastanza elevata, che mi piaceva salire, perchè campeggiava isolata nello spazio e spingeva verso il cielo delle punte ardite, mi era parso sorgesse addirittura nella pianura sottoposta, e che facesse per così dire parte da sè stessa, al pari della vetta principale, che si rizzava sublime dinanzi ai miei occhi: invece non era che un immenso pezzo staccato dalla vicina montagna. Me ne feci persuaso esaminando la disposizione degli strati, e le traccie ancora visibili dello spaccato sulle due pareti corrispondenti. La gigantesca massa ombreggiata ora dai boschi, sparsa di casali e di pascoli, aveva dovuto dopo lo spaccamento, girare sopra il proprio perno e cadere per il proprio peso. Una delle pareti si era affondata nel suolo, mentre dalla parte opposta, si era parzialmente sradicata. Nella caduta aveva chiuso lo sbocco di una valle, e il torrente, che un tempo, mormorava placido al fondo, era divenuto un laghetto, che ristringendosi poi discendeva verso la pianura formando delle cascatelle o delle rapide. Senza dubbio codesti cangiamenti avvennero prima che il paese fosse abitato, giacchè non ne pervenne a noi alcuna memoria. Il montanaro impara la storia della propria montagna dal geologo.

Non è così degli sfaldamenti repentini e di quelle cadute di massi, che senza mutare in modo sensibile l’aspetto della montagna, pure recano danni ragguardevoli ed anche la distruzione di interi villaggi; il montanaro può esserne non solo informato per udita ma anche per veduta. Di solito gli alpigiani ne hanno avviso alcun tempo prima. La spinta interna della montagna in lavoro fa vibrare incessantemente la pietra dall’alto al basso: piccoli frammenti si staccano e cadono saltellando lungo i declivii; dei pezzi più grossi, staccati o trascinati, seguono il pietrame, sbalzando e descrivendo delle ardite parabole nello spazio. In seguito degli interi pezzi di roccia cadono con immenso fragore.

Ogni parte che deve precipitare al basso rompe, per così dire, i legami che ancora la teneva aderente all’ossatura interna della montagna e ad un tratto la grandine spaventevole delle rupi infrante piomba al fondo. Il fracasso è assordante; si direbbe il conflitto di cento uragani. Di pieno giorno, gli spezzami di roccia mescolati alla polvere, alla terra vegetale, a pezzi di piante, oscurano del tutto il cielo e la tenebra momentanea, può essere solcata dal sinistro lampeggio, che proviene dalle roccie le quali si urtano violentemente e volano in frantumi.

Dopo la catastrofe, quando cessa quel rovinio, quella mitraglia che fa pensare alla guerra dei Titani, quando il cielo si rischiara, escono i montanari, scampati alla morte, dall’abituro e muovono sbigottiti a contemplare il disastro. Capanne e frutteti, recinti e pascoli, ogni traccia del lavoro umano è scomparsa sotto un cumulo disordinato di pietre che potrebbero dare immagine del caos; forse dei parenti adorati, degli amici diletti giacciono sotto la vasta rovina! Mi fu detto da alcuni montanari che nella loro vallata un villaggio due volte distrutto fu ricostruito una terza volta nello stesso posto. Gli abitanti avrebbero preferito di allontanarsi e di far scelta di un luogo più adatto, e sovratutto sicuro, ma gli abitanti dei vicini villaggi s’erano rifiutati di ceder loro un po’ di terreno. Si adattavano a vivere nel sito funestato dal disastro, coll’ansia che potesse rinnovarsi, tremando ad ogni segnale della campana, ad ogni scossa, senza poter dormire del tutto tranquilli neppure una notte.

Se molte roccie sfranate, che si veggono nel mezzo dei campi hanno la loro storia o la loro leggenda da raccontare, ve ne ha che non fecero danno di sorta e a cui non si potrebbe fare alcun rimprovero. Uno di questi enormi blocchi sporgenti e la cui base è tutta affondata nel terreno, si rizza da un lato del cammino e minaccia di continuo il viaggiatore. Pur ammirando la grandiosità della massa e la finezza dalla materia non so vincere un senso di terrore. Un sentieruolo, staccandosi dalla via, sale direttamente alla base di un’immensa pietra: lì presso dei cocci e del carbone, una cancellata di giardino s’appoggia a quel masso, l’orticello invaso dalle erbe appena ricorda l’opera dell’uomo.

Chi mai aveva scelto questo sito singolare per disporvi un giardinetto che poi doveva abbandonare! Il sentieruolo, i cocci, il carbone, il giardinetto facevano subito pensare alla casuccia scomparsa sotto la valanga delle pietre. Durante la notte della catastrofe, un montanaro, lo seppi più tardi, dormiva solo in quella casupola. Svegliatosi di soprassalto, intese il fracasso delle pietre che sbalzavano di rupe in rupe lungo il fianco della montagna, e tutto spaventato si gettò dalla finestra per cercare un riparo dietro l’argine del torrente. Era appena al sicuro quando l’enorme peso schiacciò la capanna, trascinandola sotto il pietrame che tutta la coperse. Passato il pericolo, il bravo uomo rifece il suo abituro, e lo rialzò fiduciosamente alla base d’un’altra roccia caduta dalla sterminata parete del monte.

Sono appunto questi sfranamenti di pietre, immagine della più spaventosa confusione, che formano di solito quelle anguste gole, quegli stretti passaggi, attraverso cui le acque e gli uomini si aprono a fatica la via. Nelle nostre Alpi, negli impervii Pirenei quanti ve n’ha, anche segnalati da ricordi storici e che col nome medesimo danno immagine della loro forma e strettezza: si direbbero più che altro pertugi o finestre (Fenestrelle nelle Alpi di Pinerolo, Oulx in quel di Susa, ecc.)!

È davvero singolare il disordine di queste masse gettate alla rinfusa le une sulle altre per modo da formare un interminabile labirinto. In alto, sul fianco della montagna, si discerne ancora, dal colore e dalla forma delle roccie, il luogo ove ebbe principio lo sfranamento; ma reca meraviglia l’osservare come uno spazio relativamente ristretto abbia potuto eruttare, per così dire, sulla vallata un tal diluvio di pietre. Nel mezzo di questi blocchi formidabili e bizzarri, il viaggiatore potrebbe credersi in un mondo che fa da sè, che non rassomiglia punto alle parti meglio note della terra. Delle roccie, quasi monumenti fantastici, si rizzano quà e là: torri, obelischi, portici merlati, fusti di colonna, tombe rovesciate, rovine imponenti.

Dei ponti di un solo pezzo varcano o coprono addirittura il torrente; si vedono le acque ingolfarsi, sparire sotto l’enorme arco, quindi non se ne ode nemmeno il rumore. Fra questi spettacolosi edifici appaiono delle forme gigantesche: e la fantasia facilmente ricostituisce gli scheletri di animali antidiluviani di cui spesso si trovano le ossa fossilizzate negli strati terrestri. Quella scena del caos si fa viva e completa in ogni sua parte: ti par di vedere tra le macerie di un mondo crollato dei mammuth, dei mastodonti, delle tartarughe giganti, dei coccodrilli alati, dei serpenti favolosi ed ogni altra forma reale o chimerica di un passato remotissimo. Migliaia di pietre cadute ingombrano il passaggio, eppure una sola darebbe materiale sufficiente per costruire un intero villaggio.

Queste rovine che vedo sempre con meraviglia e tra le quali non so avventurarmi senza qualche timore, che cosa sono mai al paragone di quegli sfasciamenti, per cui dei tratti molto vasti di paese rimangono coperti di terriccio e di ciottoli. Vi hanno delle montagne la cui cima è composta di roccie compatte e pesanti, le quali s’adagiano sopra strati friabili poco resistenti al lavorio delle acque. In queste montagne la caduta delle pietre è un fenomeno normale, come la valanga e la pioggia. Per sapere se lo sfranamento si prepara, basta osservare attentamente le cime. Non lungi di qui, in un luogo detto il Paese delle rovine, due montagne, piuttosto vicine, per molto e antico odio, al dire degli abitanti, presero a cozzare tra di loro, scrollando dall’eccelso capo pezzi di rupi e pietre senza numero. I due giganti, quasi dotati di stessa vita o consapevolezza, giusta la facile leggenda popolare, vollero combattersi ad armi uguali, roccie contro roccie. Ad onta però del lungo combattimento, non si fecero che delle scalfitture, la loro massa quasi intatta si leva ancora nello spazio: ma non è difficile figurarsi la sterminata quantità di pietre che rotolò dall’alto e che occupò il declivio ad una distanza anche ragguardevole.

E l’uomo non manca di profittare delle lezioni della natura: esso pure imparò a difendere la propria montagna, il proprio nido, dal luogo più adatto, dalla gola più angusta, precipitando dall’alto ciottoli e macigni. Non altrimenti i Baschi, celati dietro le folte macchie del monte Altabiscar, attesero l’esercito dei Franchi, reduci dalle valli dell’Ebro e condotto dal prode paladino Orlando, che doveva attraversare la stretta forra di Roncisvalle. Quando le schiere nemiche, sfilarono nell’angusto passaggio, come un enorme serpente di bronzo che si snoda lentamente, un grido selvaggio ruppe l’aria e le pietre grandinarono senza tregua sui malcapitati invasori delle patrie vallate. I ruscelli scorrevano tinti in rosso travolgendo cadaveri ed armi, spettacolo altamente pietoso. Tutti i Franchi perirono, e ancora si addita al piede del monte il sito in cui il paladino Orlando morì co’ suoi compagni, nè gli valse suonare il corno fatato e maneggiare la formidabile Durlindana. L’impareggiabile sua virtù andò spenta per inaspettata vendetta di un popolo risoluto a difendere a qualunque costo la propria indipendenza. Ed ora che resta? Le pietre che seppellirono tanto novero di prodi, si vestono ad ogni primavera di finissima erba, di arbusti e anche di fiori.

Nelle valli dei Pirenei durò per lungo tempo questa dolorosa memoria di Roncisvalle ed un canto di quei montanari in lingua basca celebra la vittoria dei loro antenati sui guerrieri di Carlomagno, esso è come dire la espressione dei sentimenti e degli uomini di quella popolazione contro i figli del Nord che venivano a turbare la pace nei Pirenei. Ivi non è alcun lamento per gli uccisi paladini, non compianto per Orlando, ma solo la cara memoria della vendetta contro quei guerrieri che abbandonarono il Reno e la Mosella per venire a piombare sull’Ebro. Ecco quel canto antico, selvaggio in uno e sublime. «Un grido sorse dai monti e il pastore dimanda: Chi va là? chi mi vuole? E il cane che appiè dormiva del suo padrone, si sveglia ed empie la valle dei suoi latrati. È il sordo mormorio d’una oste che s’avanza a cui rispondono i nostri dalla vetta dei monti soffiando nei loro corni bovini. Vengono! vengono! o che selva di lancie! quante bandiere! o che lampi mandano le loro armi! Quanti sono! Contali bene, figliuolo: venti e migliaia d’altri ancora. Orsù uniamo le nerborute nostre braccia, strappiamo questi massi, gittiamoli dalla cima dei monti sui loro capi, schiacciamoli, ammazziamoli. E che vengono a fare questi uomini del Nord nelle nostre montagne? le montagne sono fatte da Dio a frenare il corso degli uomini. E i massi rotolano e il sangue scorre, oh quante ossa peste! oh che mare di sangue! Fuggite, fuggite voi che avete ancora una lena ed un cavallo!.. Fuggi re Carlo con le tue piume nere e con la rossa tua cappa, il tuo nipote, il primo dei tuoi prodi, il tuo caro Orlando è laggiù steso morto. Fuggono, fuggono! Tutto è finito, e voi, montanari tutti, forbite le vostre freccie, e riponetele insieme col vostro corno di bue, a notte le aquile verranno a divorare quelle peste carni, e tutte quell’ossa biancheggeranno in eterno.»

Però quel che fa l’uomo appena lascia traccia, mentre gli sfranamenti naturali, prodotti dalle meteore o dall’intimo elaterio della massa terrestre lasciano segni non cancellabili. Anche dopo molti secoli, le grandi valanghe offrono un aspetto talmente caotico da produrre un senso di ribrezzo e d’orrore. Ma quando la medica possente mano della natura ha saldate le ferite, i siti più graziosi della montagna sono appunto quelli, ove in cui i dirupi si sono franti e per così dire sgretolati. Nel corso degli anni, le acque fecero il debito loro: trasportarono dell’argilla, delle sabbie cementate per ricostruire il proprio letto entro ben disposte prode vegetali. Anche i torrenti vennero via via spazzando il proprio letto, logorando o spostando le pietre che davano impaccio al deflusso delle acque. L’ineguale pavimento formato da roccie, casualmente distribuite lungo il fondo della valle, si è coperto di erba; le grandi roccie celano sotto il muschio la propria nudità, formando in più luoghi dei monticuli pittoreschi, dei ciuffi di arbusti, dissimulano le asperità e danno un aspetto gaio al paesaggio. Al pari del volto umano, la faccia della natura cangia espressione: allo sberleffo succede il sorriso.

 

Le nubi

Rispetto alla grandezza del globo, la montagna quantunque ci sembri così grande, non è che una piccola rugosità, un punto, un granello di sabbia. Tuttavolta questa sporgenza, comunque minimissima, immerge i fianchi e la cresta in regioni aeree, spaziando attraverso delle zone climatiche successive, dalla temperata alla glaciale. Il viaggiatore, che, in poche ore, si leva dalla base alla cima, compie un viaggio ben grande, e più fecondo di impressioni o per lo meno più ricco di contrasti che non s’egli percorresse il giro del mondo, tenendo la via dei mari e delle regioni basse dei continenti.

L’aria pesa maggiormente sull’Oceano e sui paesi che si trovano a poca altezza sul livello del mare, mentre, via via che si sale, si rarefà e diviene sempre più leggera. Le montagne vanno mano mano elevandosi in un’atmosfera, le cui molecole sono due volte meno dense di quelle dell’aria, che ondeggia sulle pianure. Fenomeni di luce, di calore, di clima, di vegetazione, tutto cangia lassù; l’aria più rada, lascia sfuggire più facilmente i raggi di calore, sia che provenga dal sole, sia che monti dalla terra. Quando il sole scintilla in un cielo terso, il calore s’addensa rapidamente sui pianori e sui declivi superiori, ma appena tramontato, le parti elevate della montagna si raffreddano: mercè l’irradiazione perdono presto il calore che avevano assorbito. E però il freddo regna quasi sempre nelle maggiori altitudini; nelle nostre montagne la media della temperatura discende di un grado ogni duecento metri di altezza.

Gli abitanti della città, condannati a respirare un’atmosfera impura, nelle ascensioni alpine godono anzi tratto della meravigliosa purezza dell’aria. Si respira con gioia, si beve a pieni polmoni l’onda vitale: ne siamo inebriati. È per noi l’ambrosia, la bevanda degli dei. Ai nostri piedi, molto lungi, molto al basso, ondeggia una distesa di nebbie, attraverso la quale nulla possiamo scorgere. È la grande città. Si pensa con disgusto al tempo vissuto sotto quello strato di fumo e di polvere.

Che differenza tra la vista della pianura e il panorama della montagna quando la vetta è sgombra di vapori; al di là e al disopra della grossa atmosfera, che gravita sulla città, ci appare come un punto luminoso, come la sede della salute e del piacere. Lo spettacolo è magnifico, specie se la pioggia ha depurata l’aria, scemando le distanze ottiche e aumentando la trasparenza. La linea delle roccie e delle nevi si stacca nettamente sull’azzurro del cielo: ad onta della lontananza, il monte dalla tinta turchina come l’orizzonte, spicca sul fondo aereo colla maggiore purezza di contorni e nulla ne perde l’occhio, nemmeno le più piccole rientranze o sporgenze, si distinguono le vallette, le forre, i precipizi, ed è per ciò che è possibile scorgere, mercè un potente cannocchiale, il puntolino nero che si sposta, cioè il viandante che sale alla vetta. La sera, dopo, il tramonto del sole, la piramide si stacca più che mai per nettezza e bellezza. Il resto del paese giace nell’ombra, un crepuscolo grigio vela gli orizzonti della pianura, il vestibolo delle gole è già occupato dalla notte; ma lassù tutto è chiarezza e gioia. Le nevi, ancora dorate dal sole fiammeggiano di poetica luce, e quegli splendori sembrano anche maggiori paragonati alle ombre, che salgono a poco a poco, invadono successivamente i declivi, e li vanno quasi coprendo di un nero ammanto.

Fra poco, la sola vetta può ancora ricevere l’ultimo saluto del sole, che è già disceso al di sotto dell’orizzonte: ancora s’accende come una scintilla, per poco non ti fa pensare a quei prodigiosi diamanti che secondo le leggi indiane, sfolgorano sulla sommità delle montagne divine. Ad un tratto la fiamma si spegne, quella gran luce si dissipa nello spazio. Però non levate l’occhio di lì: al riflesso del sole succede quello dei vapori rosei dell’estremo orizzonte. La montagna s’illumina di bel nuovo, ma di uno splendore meno vivo. La dura roccia quasi perde i suoi contorni sotto quella roccia di raggi blandi, è una luce tenue, un velo trasparente, una specie di miraggio; la superba montagna quasi vaneggia nel lume crepuscolare, pare staccata dalla terra e campata sovra le nubi.

Per tal modo la rarefazione dell’aria, nelle alte regioni, rende più lucido il paesaggio, gli immondi vapori degli strati inferiori non possono salire fino lassù: ma nello stesso tempo, tale stato dell’aria agevola la condensazione dell’umidità, la quale sotto forma di nubi discende lungo i fianchi della montagna. Di solito il vapore acqueo, sospeso negli strati inferiori dell’aria, non vi si trova in tale quantità da potersi cangiare immediatamente in nubi e da precipitare in pioggia: va ondeggiando allo stato di gas invisibile. Ma se lo strato d’aria sale verso il cielo, seco recando i vapori acquei, gradatamente si raffredda, e l’elemento acqueo non tarda a mostrarsi. È dapprima una nebula quasi impercettibile, un fioccolo bianco nel cielo azzurro: ma ecco altri punti grigiastri, e si avvicinano si riuniscono e formano un velo, rotto qui e là, e l’occhio rivede attraverso l’azzurro senza macchia: e il velo si raddensa, si fa scuro scuro, diviene una gran massa che assume le forme più svariate e fantastiche. Vi ha delle nubi che si allargano sull’orizzonte quasi gigantesche montagne. Anch’esse spingono verso il cielo delle punte acuminate, o delle creste da figurare un castello diroccato; anch’esse nereggiano in più parti per modo da simulare le vallate e i precipizi; e i contorni non sono meno precisi di quelli della montagna, intorno a cui si muovono e grandeggiano. Solo che i monti di vapore sono mutevoli e fuggitivi: una corrente d’aria li ha formati, un’altra può dissolverli, o mutarne ad un tratto la forma. Hanno la vita di poche ore, mentre le montagne esistono da milioni d’anni: ma la differenza non è poi tanto grande. Rispetto alla vita del globo, nubi e montagne non sono che fenomeni di un giorno: minuti e secoli hanno un valore approssimativo, fuggono rapidamente incalzati dal tempo e precipitano insieme nell’abisso del passato.

Le nubi si ammucchiano di preferenza intorno le roccie, che sporgono nello spazio a guisa di promontori: quali attirate da una elettricità contraria; quali, spinte dal vento, vengono ad urtare contro le pareti del monte, immensa barriera che arresta il loro corso. Ve ne ha, che invisibili nell’aria tiepida, appena vengono in contatto della fredda pietra e delle nevi si fanno visibili, deponendosi intorno le cime in forme più o meno bizzarre: ecco perchè le vette sono quasi sempre incappellate di nubi. È la montagna che condensa i vapori, e, per così dire, li spreme dall’aria. Quante volte osservando la cima o qualche promontorio, m’è occorso di vedere i veli delle nubi in formazione discendere intorno la punta ghiacciata. Un po’ di fumo s’innalza; è una colonna o solo un filo di nebbia, simile al fumo che s’innalza dai crateri dei vulcani attivi, ma fra poco la nebbia involge tutti i cocuzzoli, e il monte si cinge di un turbante di nubi. Si direbbe che degli spiriti invisibili attendano alla formazione delle tempeste e alla caduta delle pioggie. Quando l’abitante della pianura vede la montagna scomparire dietro un ammasso di nubi, capisce, dal modo con cui il gigante copre la calva testa, che genere di spettacolo gli vada preparando. Se due correnti si incontrano intorno a quella vetta, la nube, che s’è formata, sale con violenza e gira vorticosamente nello spazio; la montagna si direbbe un vulcano, e il vapore acqueo sembra escirne senza posa coll’impeto di una eruzione, per poi accumularsi da una parte o dall’altra descrivendo una curva immensa.

Delle nubi staccate si spargono liberamente nel cielo, si rincorrono ovvero si raggruppano, si spiegano o si assottigliano sferzate dal vento; ora si allargano per modo da coprire una vasta plaga di cielo, ora sfuggono a forma di cono o pennacchio e salgono negli spazi più elevati, molto al disopra delle cime più alte della terra. Queste nubi vagabonde hanno delle forme molto più variate delle nuvole che cingono le sommità dei monti. Ad ogni modo anche queste presentano una singolare mobilità di aspetto.

A volte sono delle nubi isolate, che seguono il moto ascendente o discendente degli strati freddi dell’aria; si vedono serpeggiare nei burroni o moversi lungo le creste rompendosi contro le sporgenze delle roccie. A volte sono delle grosse nuvole che nascondono tutto un versante della montagna; attraverso la densa massa, che ora aumenta ed ora diminuisce, si trasloca o si straccia, si discerne tratto tratto la cima ben nota, ancora pur bella a vedersi dacchè sembra moversi in mezzo agli ondeggianti vapori. Talora, gli strati aerei sovrapposti di diversa temperatura sono perfettamente orizzontali e distinti come gli strati geologici: le nubi che vi si raddensano hanno una forma analoga: sono disposte su zone regolari e parallele, che nascondono delle foreste ovvero dei pascoli, più in alto dei campi di neve, più al basso delle roccie, appena velandole come se la montagna fosse coperta di una sciarpa trasparente. Talvolta poi le cime, i declivi superiori, tutto il cono superiore della montagna sono immersi nella pesante massa delle nuvole, specie di volta aerea che s’è avvicinata alla terra: la montagna s’allontana o si avvicina giusta il gioco dei vapori, che vanno sciogliendosi o si raddensano. Ad un tratto, non si vede più nulla: il monte è del tutto avvolto dalle nubi: la bufera scende dalle maggiori altezze, solleva e sconvolge quel mare di pesanti vapori, finchè il gigante riappare di nuovo, sul fondo bigio del cielo, come lo scoglio flagellato dalle onde dell’Oceano.

 

La nebbia e la bufera

Se percorriamo la montagna in tempo di nebbia, è come trovarsi in un mondo nuovo, terribile e fantastico insieme. Anche percorrendo un sentiero sicuro, o salendo dei declivi uniti e senza insidie, si prova un certo sgomento nel vedere le forme vicine, il cui incerto profilo ondeggia nella bruma, a quando rada e abbastanza chiara, più spesso fitta e scura.

Bisogna già fare a fidanza colla natura, ed avere, per così dire una certa famigliarità colla montagna per non provare un po’ d’inquietudine quando siamo prigionieri della bruma: il più piccolo oggetto assume delle proporzioni immense, indefinite. Alcun che di vago e di nero s’avanza misteriosamente verso di noi come per afferrarci o per avvolgerci da ogni lato. È un ramo? è un albero? Non è forse che un arboscello, od anche solo un ciuffo di foglie. Un giorno che la bruma era molto rada, e i raggi del sole, attraversando i vapori, spandevano gran luce, mi fermai con meraviglia ad osservare un albero gigantesco che, dal ciglione di una rupe, torceva le braccia come un atleta. Non vidi mai un albero più forte e meglio radicato per lottare eroicamente contro la bufera. Lo contemplai a lungo; ma a poco a poco vidi che si muoveva verso di me e nello stesso tempo si faceva piccino piccino. Quando il sole vincitore dissipò la bruma, il superbo tronco non era che un smilzo arboscello, che aveva saputo gettare le sue povere radici nella screpolatura di una roccia vicina.

Il viaggiatore, smarrito o, se piace meglio, immerso nel nebbione, fra precipizii e torrenti, si trova in una posizione proprio terribile: da ogni lato il pericolo, forse la morte. Bisogna affrettare il passo per raggiungere, il più presto possibile, la via meno pericolosa o il facile pendio dei pascoli: ma nella vaga incertezza di tutte le cose, in quell’annebbiamento d’ogni contorno, nulla serve d’indizio e il menomo oggetto può divenire apparentemente un ostacolo. Da un lato la terra fugge; par di trovarsi sull’orlo di un precipizio. Dall’altra si leva un masso, che sembra inaccessibile. Per evitare l’abisso, si tenta di scalare la rupe; si mette il piede in un’anfrattuosità della pietra, inerpicandosi come la capra: giunti ad una certa altezza si è come sospesi tra cielo e terra. Finalmente si afferra la cima; ma al di là della prima rupe se ne leva un’altra dal contorno indeciso e mobile. Gli alberi, le macchie che crescono sovra le sporgenze spingono i rami attraverso la nebbia; si direbbero braccia levate in alto in atto di minaccia. Certe volte non si vede che una massa nerastra vestita di un’ombra grigiastra: è un ramo il cui tronco è interamente nascosto dalla nebbia. Ci sentiamo bagnati da una minuta pioggerella, dai cespugli e dalle piante gronda l’acqua gelata, le brughiere si attraversano con piede incerto come se si immergesse il piede in uno stagno. L’umido e il freddo aggranchiscono le membra, il passo è mal fermo, si teme di sdrucciolare sull’erba o sulla roccia bagnata e di cadere nel precipizio. Dei rumori spaventevoli salgono dal basso, ed hanno suono di minaccia: si ode la caduta delle pietre che rovinano al basso, dei rami si schiantano sotto il peso della neve; si ode il sordo tuono della cascata e il sinistro rombo delle acque del lago che si frangono contro le rive. Non è senza terrore che si vede il nebbione farsi, verso sera, sempre più scuro; ci nasce perfino il dubbio di dover morire per assideramento o per qualche altro accidente.

In molti paesi, l’impressione di stupore, perfino di orrore che le montagne producono, deriva dall’essere sempre inondate di brume. Molte montagne della Scozia e della Norvegia sembrano imponenti, quantunque in realtà meno alte di altre sommità terrestri. Avviene spesso che si cingano di vapori, quindi si spogliano parzialmente di nubi o si celano di nuovo, viaggiano per così dire in mezzo al nebbione, si scostano apparentemente per poi avvicinarsi ad un tratto, s’abbassano quando il sole spande la più viva luce, grandeggiano nelle ore crepuscolari o nebulose. Gli aspetti mutevoli, le trasfigurazioni lente o rapide danno alla montagna sembianza di un gigante prodigioso che agita il capo al di sopra delle nuvole. Le montagne di cui la poesia nordica ci dà sì belle e animate pitture, che il bardo scozzese descrive con entusiasmo patriottico, differiscono al tutto dalle colline immutabili immerse nel diafano e sfolgorante cielo dell’Egitto. Le cime brumose hanno alcun che di vivente e per poco non aggiungo di umano: vi guardano; a volte vi sorridono; talora vi minacciano; partecipano quasi ai vostri sentimenti; sono tristi e liete con voi: almeno ciò vi è permesso supporre o piuttosto di immaginare, e il poeta ha un bel campo nelle sue descrizioni.

Belle pei vapori che vi ondeggiano intorno, quando le contempliamo dal basso attraverso un’atmosfera pura, le montagne non sono meno belle, specie al mattino, quando la vetta è immersa nel cielo senza nubi e la base è interamente coperta dal più fitto nebbione. È proprio un Oceano che spazia da ogni parte fino al limite estremo dell’orizzonte. Le onde bianche della nebbia si svolgono alla superficie, non colla regolarità delle onde liquide, ma con un maestoso disordine, che aumenta l’effetto artistico. Qui si sollevano in tumulto, si gonfiano, si innalzano come trombe o cicloni, quindi cascano e si sparpagliano in fiocchi nivei. Là, invece, si avallano profondamente, a simiglianza di gole o di botri invasi dalle ombre.

Laggiù le nubi si rincorrono, girano a tondo: è un moto vorticoso, una ridda disperata. Certe volte il velo dei vapori non presenta lacerazione di sorta; la nebbia si mantiene ad un’altezza pressochè uniforme su tutta la linea delle roccie che s’avanzano a modo di scogli o di rupi; in molti luoghi delle colline isolate s’alzano al disopra del nebbione come isole e guglie. Talora, l’Oceano nubiloso si divide in mari distinti, e lascia scorgere, qui e là, il fondo delle vallate, fondo scuro, triste, senza prestigio: si direbbe un mondo inferiore che non ha nulla della dolce serenità delle cime. Il sole illumina obliquamente le volute grigie che s’innalzano al disopra del gran mare: le tinte rosee, porporine, dorate, che si mescolano al bianco smagliante, variano all’infinito l’aspetto della nebbia. L’ombra delle montagne si proietta da lungi sui vapori e muta forme giusta la posizione del sole. Lo spettatore osserva con meraviglia la propria ombra riprodotta fra i vapori e a volte con proporzioni gigantesche: è una specie di spettro che s’avanza, che indietreggia, che muove le braccia a piacer nostro.

Le montagne, che sorgono nella zona dei venti alisei, sono di solito fasciate a metà altezza da una zona di nebbie, che vieta al viaggiatore, giunto sulla cima, la vista dell’immensa pianura turchiniccia: ma intorno la sommità, di cui percorre i pascoli, i veli di vapore salgono e discendono cangiano e si dissolvono come a caso: fenomeno del tutto incostante. Dopo ore e anche giornate d’oscurità, il sole riesce a diradare almeno in un punto, la massa delle nebbie, straccia il velo poc’anzi fitto e impenetrabile, lo respinge e dissolve verso il basso, o l’attira in alto sotto forma di leggere nuvolette, per modo che il sottoposto paese, che era privo del dolce lume, si riscalda di nuovo al vivificante splendore. Ma avviene altresì che le nebbie si raddensino, si accumulino in nubi vorticose. Le medesime si attirano, quindi si respingono, l’elettricità si ammassa rapidamente: scoppia la bufera, e la pianura è inondata da un rovescio di pioggia.

La burrasca non sempre sale agli strati superiori: spesso rimane nelle zone basse dell’atmosfera, ove s’è formata; e lo spettatore, tranquillamente seduto sull’erba secca delle alte pasture illuminate dal sole, può vedere ai propri piedi le nubi incollerite che si urtano violentemente e sgomentano la pianura co’ propri sdegni.

È uno spettacolo magnifico e insieme terribile. Un chiarore livido sfugge da quelle masse in tumulto: dei riflessi cuprei, delle tinte violacee danno all’ammasso dei vapori l’aspetto di un’immensa fornace di metallo; per poco si crede che la terra si sia lacerata, lasciando uscire dal proprio seno un oceano di lave. I lampi, che solcano quella specie di caos, descrivono nell’aere tenebroso dei zig-zag, delle striscie di fuoco. Il rumoreggiare del tuono, ripetuto dagli echi delle montagne, si prolunga senza fine: da ogni plaga di cielo si sprigiona il baleno, in ogni valletta si ripercuote il vasto rumore dell’uragano. Nello stesso tempo, si ode un mormorio sordo che sale dalle campagne sottoposte attraverso le nubi agitate. È il rovescio della pioggia o la caduta della grandine; è il fracasso degli alberi che si rompono, delle roccie che si spaccano, delle valanghe che precipitano al basso: è il mugghio delle acque, che ingombrano il breve letto e rompono le sponde; e tutti questi suoni discordi formano un immenso frastuono che s’innalza verso il cielo sereno, verso la montagna libera d’ogni tema. Giunge quel frastuono lassù alquanto attenuato a motivo della distanza, ed ha, per così dire, suono di pianto, di lungo gemito che la terra esala flagellata dalla tempesta: gli uomini e le cose si querelano dell’ira degli elementi.

Un giorno che, seduto sopra una cima non sturbata dalla burrasca, vedevo la bufera imperversare intorno la base della montagna, non potei resistere a questa voce che sale dalla pianura ove vivono i miei simili. Discesi con risolutezza; mi spinsi nella massa nera dei vapori vorticosi; mi cacciai, per così dire, nel mezzo della folgore, sotto la volta dei lampi, nel turbine della pioggia e della grandine. Discendendo lungo un sentiero, che era divenuto un ruscello, saltavo da pietra a pietra, impaziente di giungere al basso. Esaltato dal furore degli elementi, dal rombo del tuono, dall’impeto delle acque, dal gemitio degli alberi che il vento fortemente scuoteva, scendevo a precipizio con strano diletto. Al cessare della bufera, trovai del fuoco, del pane, degli abiti asciutti e caldi, in una parola la dolce ospitalità dei montanari, ma rimpiansi quasi la potente voluttà che avevo goduto poco prima. Tra quegli sdegni dalla natura, in mezzo al diluvio delle acque e al cozzo dei venti, potevo quasi illudermi di far parte io stesso della burrasca, e di avere per poco associata la mia personalità cosciente alle cieche forze della natura.

 

Le nevi

«Bianche, splendenti, nevose,» tale è il primitivo significato di quasi tutti i nomi dati alle grandi montagne dai popoli, che si avvicendarono sulle spaziose falde o sui rupinosi declivii delle medesime. Levando gli occhi verso le cime, si nota al disopra delle nubi, la bianchezza immacolata e spesso scintillante delle nevi e dei ghiacci; e l’ammirazione aumenta a motivo del contrasto, giacchè le sottoposte campagne presentano delle tinte uniformi e brune. Quando il caldo è intenso, quando un polverio ardente ondeggia sulle interminabili strade della pianura, e il viaggiatore spossato cerca un po’ d’ombra, come si volgono volentieri gli sguardi verso gli ammassi di ghiaccio, che scintillano ai raggi solari e che sembrano specchi d’argento! La notte poi un dolce lume, che si direbbe quello di un mondo lontano e fantastico, annuncia da lungi i vasti e nivei campi, che, piede umano non ha forse ancora violato.

I declivi mediani, i promontori inferiori sono spesso coperti di strati nevosi. Verso la fine dell’estate; quando i torrenti trasportano l’acqua gialliccia e sovraccarica di detriti; quando gli alberi rialzano i rami testè curvi sotto il peso della neve, quando i cespugli, riscaldando lo spazio vicino, depongono anch’essi, per così dire, il manto invernale, il più piccolo raffreddamento dell’atmosfera basta per trasformare in neve i vapori delle montagne. Il giorno innanzi, i contrafforti e i pascoli ignoravano ancora l’inverno: si distingueva nettamente il colore bruno e giallastro delle roccie nude, il verde delle foreste e dei prati, il rossiccio delle brughiere. Il mattino, al primo risveglio, il lenzuolo jemale ha ricoperta tutta la scena sino ai promontori più avanzati.

Nullameno questa candida veste, di cui parlano i poeti, è stracciata in più luoghi. Le punte scure emergono dallo strato bianco, e le tinte bigie delle roccie contrastano col candore per modo da segnare con maggiore nettezza il rilievo dei dirupi. Nei burroni profondi, la neve si accumula in densi strati; sovra i ripidi declivi, la neve è leggermente distesa come un fine tessuto, che potrebbe paragonarsi ad un velo o ad un ricamo. Sulle piagge alte e dirupate, vedo qua e là dei soffici tappeti, che scintillano al primo raggio del sole per la loro candidezza. Ogni piega della montagna è da lungi segnalata nella sua vera forma dai monticuli di neve che vi sono accumulati; di ogni masso sporgente si rilevano le protuberanze e le anfrattuosità mercè il maggior o minore spessore degli strati di neve che si alternano colla nuda roccia. Là ove la roccia è formata di strati regolari, la neve traccia nel modo più netto le linee di separazione; s’adagia sugli sporti e si stacca dalle pareti molto inclinate. Gli strati si dispongono con una sorprendente regolarità per molte miglia, mascherando irregolarità d’ogni sorta: si direbbero dei gradini arditamente disposti dalla mano di un gigante.

Però quelle nevi passeggere d’estate, che al pari di un velo coprono la montagna, e che ne celano le forme ma insieme le fanno spiccare meglio, sono, per così dire, un artificio civettuolo della natura, sempre varia e graziosa, quando non è terribile. Presto si squagliano sulle basse colline e sui contrafforti meno elevati; giorno per giorno, i caldi raggi ne respingono il limite verso le cime più elevate; nelle belle giornate si può d’ora in ora riconoscere il progressivo squagliamento. Ogni spaccatura, che incide a media altezza i fianchi della montagna, presenta un versante già sgombro di nevi, dardeggiato dal sole meridiano, e un altro versante candido come marmo, quello volto verso nord. Ma indi a poco anche questo declivio rimette a luce le sue rupi e i suoi prati: della caduta estiva delle nevi non rimangono che poche traccie, cioè gli ammassi che colmarono il fondo delle meno soleggiate vallette; ma anche questi ammassi verranno fra poco portati via dalle acque torrenziali.

Le nevicate di pochi giorni danno piacere all’occhio: è un diletto osservare quella mutevole decorazione, che dura appena abbastanza per farci pensare ad un momentaneo ritorno dell’inverno. Ma per conoscere le nevi sotto il loro vero aspetto, e per misurarne l’azione come agenti dello natura è d’uopo esaminarle nella dura stagione: allora la montagna è coperta di strati enormi di acqua cristallizzata; colline e contrafforti dalla base alla vetta quasi non si riconoscono più, tanto sono mutati d’aspetto, o piuttosto il denso velo che li riveste ne cela il rilievo o dà ad essi inaspettati contorni. Invece dei risalti, delle merlature, delle punte tagliuzzate, il pendio del monte si svolge ora in graziose ondulazioni, in groppe di forma ardita ma pur sempre sinuosa. A quel modo che l’acqua, mercè il peso, tende, chi nol sa, a disporsi allo stesso livello, così la neve, per propria legge, si rigonfia in strati di forma tondeggiante. Il vento, che la trasporta e la raggira, dapprima la depone nelle cavità quindi smussa ogni angolo, e ammorbidisce ogni risalto: e però la montagna aspra, stracciata, selvaggia, mitiga in parte la fiera espressione, e si allieta di linee meno trarotte, di curve molli e maestose.

Però, ad onta dei contorni meno risentiti e più morbidi, il gigante ritiene l’imponente sua grandezza: qui e là, delle roccie a picco, degli sfranamenti, sui quali la neve non ha potuto fermarsi, si rizzano al disopra dei vasti declivi di una bianchezza senza macchia; e, a motivo del contrasto, quelle pareti sembrano anche più nere. Si è colti da una specie di sgomento guardando quelle sterminate muraglie, che hanno l’aspetto di alte dighe di carbone lungo le spiagge di un oceano polare.

Durante queste trasformazioni, mutano d’aspetto, ancora più delle protuberanze, le parti in declivio o pianeggianti della catena. Affondandosi in ogni senso, le nevi colmano le gole, livellano le cavità, fanno scomparire gli accidenti secondari del terreno. I torrenti e le cascate impigriscono rappresi dal ghiaccio; ogni moto delle acque si arresta sotto la dura mano dell’inverno. I laghi scompaiono anch’essi, per così esprimerci, sotto una lastra di ghiaccio, che porta degli alti cumuli di neve; e si può perfino non riconoscere più il preciso posto, ove, nella miglior stagione, tremano le onde azzurrine increspate dal vento: tutt’al più una fessura consente di vedere, al fondo di una voragine, la superficie del lago, tranquilla, nera, senza riflessi: si direbbe un pozzo, un abisso senza fondo.

Al di sopra delle grandi cime e degli anfiteatri superiori, ove la neve s’ammucchia in cumuli alti come palazzi, le foreste d’abeti si mostrano interrottamente, e solo per metà. Su ciascuno dei rami supplichevolmente protesi, gli alberi sopportano tutto il peso di neve che possono sostenere senza rompersi: nel loro insieme, i rami intrecciati formano quasi a dire delle volte, sulle quali degli ammassi di neve cristallizzata si aggruppano a modo di cupole disuguali: solo alcuni rami più arditi, o ribelli, sfuggono alla prigione di ghiaccio e spingono nell’aria libera le punte, color verde cupo, quasi nero, che si curvano anch’esse sotto il peso della neve. Quando il vento soffia tra i rami, cadono con rumore metallico dei frammenti di neve agghiacciata: un movimento generale di vibrazione agita la foresta seminascosta e il tetto brillante che la ricopre: di quando in quando avviene una rottura, un ammasso di neve e di rami cade con fracasso, in quel luogo la foresta sembra sfondarsi; si apre una specie di pozzo, che spalanca la sua bocca fino a che non venga a chiuderla un ponte di neve ivi trasportato dalla tormenta. Quale sarebbe la sorte di un viaggiatore, che si smarrisse durante l’inverno in una simile foresta, ove d’estate si cammina così piacevolmente, sulla breve erbetta all’ombra di poderosi alberi? Ad ogni passo, correrebbe pericolo di cadere nell’abisso, ovvero di rimanere soffocato sotto la valanga.

Al basso, nella vallata, le casettine del villaggio si discernono meno facilmente delle foreste e delle macchie d’alberi. I tetti interamente coperti da uno strato di neve sotto il quale si piega la travatura, si confondono coi vicini campi biancheggianti; ci avvediamo che degli uomini vivono e lavorano laggiù soltanto dalle colonne azzurrognole di fumo che s’innalzano. Dei pezzi di muro, un campanile, forse il tetto accuminato della chiesuola spiccano sulla tinta monotona del paesaggio. E poi, laggiù, la neve è più mossa e tormentata che non nei posti privi di abitazioni umane: il vento, soffiando intorno le case, accumula da una parte la neve in dighe e barricate, e dall’altra la spazza via interamente. Un tal quale disordine nella natura indica la vicinanza dell’uomo; ma anche là, come altrove la pace è senza limiti: di rado dei rumori turbano il silenzio mortale che regna sulla vallata e sui monti.

Nullameno, è necessario che qualche volta l’uomo e gli altri abitanti delle montagne escano dalle casupole e dalle tane per turbare il grande riposo della natura. Solo la marmotta, nascosta nella sua buca sotto lo spessore delle nevi, può dormire i lunghi mesi dell’inverno, aspettando, in uno stato di morte apparente, che la primavera ridoni vita ai ruscelli, all’erba, ai fiori. Meno felice il camoscio, che la neve caccia dalle alte cime, deve aggirarsi nei dintorni delle foreste, cercando un rifugio ove gli alberi sono più fitti, per vivere di foglie e di corteccie. L’uomo, dal canto suo, deve abbandonare la sua dimora per scambiare alcuni prodotti, procurarsi di che vivere, compiere dei doveri di famiglia e d’amicizia. Bisogna, allora, spazzare i mucchi di neve che si sono accumulati dinanzi la porta, e aprirsi con fatica un sentiero, Da una capannetta posta sovra un alto promontorio, m’è occorso di vedere dei piccoli esseri quasi impercettibili, delle nere formiche umane, camminare lentamente in un angusta callaia tra due muraglie di neve; l’uomo non mi era mai sembrato sì piccolo come in quel giorno. Nel mezzo di quella vasta distesa biancheggiante, quei passeggeri sembravano come smarriti nello spazio, senza meta e senza forze: mi chiedevo come mai una razza composta di simili pigmei avesse potuto compiere le grandi cose della storia ed effettuare, di conquista in conquista, quell’insieme di opere che si suole chiamare civiltà, promessa solenne di maggiori vittorie nell’avvenire.

Eppure, anche nel mezzo di queste formidabili nevi invernali, l’uomo ha saputo far prevalere la sua intelligenza e la sua audacia, dischiudendo delle strade pel commercio accessibili e sicure in ogni stagione dell’anno. Il camoscio s’è già ritirato dalle cime, e molti uccelli, che volano all’estate intorno le vette più eccelse, sono prudentemente calati verso le tepide regioni del piano. Ma l’uomo continua a percorrere le strade che, di gola in gola, di contrafforte in contrafforte, s’innalzano sino ad una breccia della cresta e discendono dall’altra parte. Durante la bella stagione, quando gli allegri torrenti saltellano in cascate a lato del cammino, anche le vetture tratte da cavalli di posta, i cui sonagli s’annunziano da lungi al povero viandante, possono superare con moderata fatica le ardue strade dischiuse dall’uomo per valicare il passo od anche la cresta di una montagna. Quando la neve ha coperto la via, è d’uopo cambiare veicoli: ai carri e alle vetture vengono sostituite le slitte, che sdrucciolano leggermente sul letto indurito e lucido. Però la traversata si compie colla stessa rapidità che nei giorni più caldi dell’anno; nella discesa la rapidità è sì grande che può dare una specie di vertigine.

È appunto viaggiando in islitta, per superare i valichi alpini, che ci è dato meglio conoscere le grandi nevi. La slitta non fa alcun rumore; non si ode più il cigolio sordo dei ferramenti, che urtano contro il suolo; pare di viaggiare nello spazio, pare di volare come spiriti. Ora si segue la curva di una frana, ora la cornice di un promontorio; si passa dal fondo delle gole al ciglione dei precipizi; ma, pur offrendo delle forme svariatissime, la montagna conserva la sua bianchezza uniforme. Se il sole illumina la superficie delle nevi, si vedono scintillare innumerevoli diamanti; se il cielo è grigio e basso, ci si presenta una specie di confusione degli elementi: frammenti di nuvole, monticelli nevosi mal si discernono gli uni dagli altri; uno può credere di attraversare degli spazi molto al di sopra della montagna; non si appartiene più alla terra.

Si entra del pari nel dominio dei sogni, quando, dopo di aver superato il punto culminante del valico, si discende il versante opposto, trasportati da pendio in pendio con spaventevole rapidità. Al partire della carovana, quando l’ultima slitta si mette in movimento, la prima è già scomparsa dietro una sporgenza della montagna; la si rivede, quindi scompare di nuovo, per riapparire tratto tratto, finchè l’occhio non può più scorgerla.

Si discende a precipizio in un abisso che dà le vertigini, dentro il quale precipitano degli ammassi di neve grossi come pezzi di rupe. La comitiva dei viaggiatori si direbbe una valanga, che deve scivolare al basso insieme ad altre valanghe, le quali cascano lateralmente e in ogni senso. Si vedono sfilare, da ogni parte, le rupi, le frane ed ogni altro accidente del suolo, come se fossero rapite dalla bufera; anche le cime, che fuggono come guerrieri in rotta, sembrano trascinate nello spazio da una forza irresistibile.

E quando, al termine di una corsa sfrenata, si giunge alla base della montagna, nelle pianure già sgombre di neve o appena chiazzate di bianco; quando si respira un’altra atmosfera, e si vede una flora più ricca pei favori di un clima migliore, vien di chiedere se non si è stati vittime di un’allucinazione, se ci avvenne davvero di attraversare le alte nevi, al di sopra della regione delle nuvole e delle burrasche.

Ma, durante i giorni di tempesta, il passaggio è tanto pericoloso che difficilmente il viaggiatore se ne ricorda, ed ogni impressione si confonde in una sensazione angosciosa. Il vento solleva senza posa dei vortici di neve, che nascondono la strada e ne modificano la forma, colmandone i declivi laterali. I cavalli, che non mostrano esitazione di sorta nel percorrere una strada solida, devono, ora, traversare degli ammassi di neve rammollita, che cede e si muove ai primi contatti: mentre l’uno affonda fino al petto, l’altro s’impenna urtando contro un ammasso indurito. La bufera fischia alle loro orecchie, i bioccoli di neve gelata che entrano negli occhi e nel naso, le bestemmie dei vetturali non servono che a confonderli e irritarli.

La slitta trabalza sullo stretto cammino, pende ora verso la parete della montagna, ora verso il precipizio: giacchè l’abisso è pur sempre là, aperto per tutto accogliere e seppellire; se ne rade l’orlo, lo si misura anche da lungi con l’occhio atterrito, come se, cadendo, si dovesse trovarsi in un altro mondo. Il vetturale ha deposto la frusta, ma tiene nelle mani un coltellaccio, pronto a tagliare le cinghie e le redini se i cavalli, presi dallo spavento o sdrucciolando da un declivio di neve, stessero per rovinare in qualche baratro.

Terribile è la situazione del pedone, quando, nell’attraversare lentamente dei campi di neve, è ad un tratto assalito dalla bufera. Dal basso, i pianigiani possono senza tema ammirare le meteore alpine; ma non è così per chi si trova su quelle cime. La vetta del monte, flagellata dal vento, sembra fumare come un cratere; le innumerevoli molecole agghiacciate, che la tempesta solleva, si ammassano in nuvole, che si aggirano al di sopra delle cime. La linea dentellata della montagna, rotta e sfumata dal vorticoso nevischio, che vi trascorre dinanzi, sembra meno precisa; par di vederla ondeggiare nello spazio; la montagna medesima sembra vacillare sulla sua enorme base. E nel mezzo di questo tumulto degli elementi, che si scatenano nelle alte regioni alpine, che può fare il misero viandante? Gli aghi di ghiaccio, lanciati contro di lui come frecce, lo colgono nel viso e per poco non l’accecano; penetrano attraverso i suoi abiti; avvolto nel suo grosso ferraiuolo, si difende con grande stento. Se egli mette il piede in fallo, o perde di vista la strada, è forse inevitabilmente perduto. Cammina a caso, cadendo di frana in frana; ora affonda per metà in un ammasso di neve; rimane alcuni istanti, in attesa della morte, nella fossa che s’è dischiusa davanti a lui: ma poi si rialza con un moto disperato e ricomincia l’ineguale sua marcia attraverso nuvole di punte nevose che il vento gli soffia nel volto. Le raffiche ora allontanano ed ora avvicinano l’orizzonte: a quando il viandante non vede che il fumo biancastro del nevischio che gli ruota intorno, a quando egli discerne a dritta e a sinistra una cima tranquilla, che non risente gli effetti dell’uragano e che par contemplarlo, «senza odio e senza amore», indifferente alla sua disperazione: però egli può sperarvi una specie di riparo, che gli permetta di riprendere il cammino con un residuo di fiducia. Ma invano: acciecato, stordito, quasi pazzo, irrigidito per il freddo, si smarrisce, perde ogni forza di volontà e cammina senza risultato. Alla fine, caduto in qualche voragine, guarda con stupore passare le minacciose nuvole, assiste trasognato allo svolgersi dell’uragano e si lascia a poco a poco assalire dal sonno, precursore della morte. Fra pochi mesi quando la neve verrà squagliata dai tepori primaverili e spazzata via dalle valanghe, il cane del pastore ritroverà il cadavere e con forte e lugubre abbaiamento ne avvertirà il pastore.

Di solito, almeno ne’ tempi andati, gli avanzi umani trovati nella montagna dovevano riposare per sempre nel sito, ove il pastore li aveva scoperti. Delle pietre venivano ammucchiate in quel luogo, e il viaggiatore aveva uso di aggiungere egli pure il suo ciottolo al tumulo funerario. Anche adesso, il montanaro, che passa di là, non dimentica di gettare con pio e melanconico pensiero la sua pietra. Il morto è da gran tempo obliato; forse non se ne ricorda, o non se ne seppe mai il nome: ma, di secolo in secolo, il passeggiero non cessa di rammentare, forse confusamente, la causa della sua morte, e si figura la lotta che egli ha dovuto sostenere e quanto egli ha sofferto.

 

La valanga

Al lungo inverno e ai terribili conflitti della natura succede, alla fine, la dolce primavera colle pioggie desiderate, i tepidi venti, il vivificante calore. Ogni cosa ringiovanisce; la montagna, come la pianura, prende un nuovo aspetto: scuote il mantello delle nevi: foreste, declivi erbosi, cascate e laghi, ricompaiono ai raggi del sole.

Nella vallata, l’uomo s’è per il primo liberato degli ammassi di neve, che gli davano disturbo. Ha spazzato la soglia di casa, riparati i sentieri, sgomberato il tetto della neve accumulata, pulito il giardino, aspettando che il sole faccia il resto. Già i declivi, posti a solatìo, cominciano a riapparire sotto il loro consueto e tanto geniale aspetto; qui e là, la roccia, la terra o l’erba arsiccia si rivedono attraverso lo strato di neve. Questi tratti scuri a poco a poco aumentano; saresti tentato di paragonarli a dei gruppi d’isole, che si allargano di continuo e per ultimo si riuniscono: le placche bianche diminuiscono di numero e di estensione; si fondono, o piuttosto diresti che salgono il pendio della montagna, riducendosi sempre più in alto. Gli alberi, usciti dal torpore, si dispongono all’imminente gioia della fioritura; aiutati dagli uccelletti, che saltellano di ramo in ramo, scuotono il fardello di brina e di neve e bagnano liberamente le recenti gemme nell’atmosfera intiepidita.

Anche i torrenti si rianimano. Al di sotto dello strato protettore delle nevi, la temperatura del suolo s’è abbassata meno che alla superficie esterna, spazzata dai venti freddi; e, durante i lunghi mesi dell’inverno, dei piccoli serbatoi d’acqua, simili a goccioline in un vaso di diamante, si mantengono qui e là sotto i ghiacci. Alla primavera, questi serbatoi, verso i quali si dirigono i ruscelletti alimentati dalla neve che si squaglia, non bastano più a contenere la massa liquida: le lastre di ghiaccio si rompono, i serbatoi straripano, e l’acqua cerca di scavarsi una strada sotto le nevi. In ogni burrone, in ogni depressione del suolo si compie questo lavoro nascosto; e il torrente che scorre nel mezzo della valle, nutrito di copiose acque, riprende il corso interrotto nell’inverno. Dapprima si apre una specie di cunicolo al disotto delle nevi ammucchiate: poi, mercè il progresso incessante della fusione delle nevi, allarga il proprio letto, innalza le volte del viadotto: ed ecco che la massa sovrapposta non può più sostenersi tutta unita; si sfascia a quel modo che crollerebbe il tetto di un tempio, i cui piloni venissero scossi fortemente o meglio abbattuti. Dei rammollimenti avvengono anche negli ammassi di neve che colmano il fondo delle vallate; affacciandosi all’orlo di questi baratri, si nota al fondo alcun che di nero, su cui un po’ di schiuma forma una specie di fuggitivo ricamo: è l’acqua del torrente; il sordo rumorìo della ghiaia trascinata sale dal fondo di quella tenebrosa spaccatura.

A questo primo sciogliersi della nevi segue uno squagliamento più generale; e ben presto il torrente, in gran parte ridivenuto libero, può misurarsi coi maggiori ostacoli, può rovesciare le dighe formate dalle nevi più alte e più compatte. Però ve ne ha di queste dighe, che resistono all’azione delle acque per delle settimane e dei mesi. Anche vicino alle cascate, delle grandi masse di neve, trasformate in ghiaccio e di continuo asperse dall’acqua che si rompe contro di esse in una minuta spruzzaglia, conservano ostinatamente la loro forma: pare quasi che vogliano resistere alla fusione. Spesso si vede, dinanzi alla caduta precipitosa del torrente, una specie di scanno formato da una cateratta solidificata, quella delle nevi agghiacciate che fermarono il corso delle acque durante l’inverno.

L’acqua dei ruscelli e dei torrenti, modificando il proprio letto in ogni valletta che si apre alla base dei monti, in ogni botro che ne incide i fianchi, toglie alle nevi dei pendii i sottostrati, che servivano ad esse di punto d’appoggio. Allora, mercè l’azione del peso, tendono a prodursi delle valanghe: e, di tempo in tempo, la montagna, come se fosse viva, scuote dalle poderose spalle il vestito nevoso ond’è coperta.

In ogni stagione, anche nel mezzo dell’inverno, delle masse di neve, trascinate dal peso, precipitano dalle sommità e dai declivi; ma, fino a che queste valanghe si compongono solo della parte superficiale delle nevi, formano un lieve accidente nella vita delle montagne. Però può accadere che una massa intera di neve sdruccioli dalle cime per inabissarsi nelle vallate: l’acqua fusa, che penetra attraverso gli strati ancora agghiacciati della superficie, ha reso il suolo sdrucciolevole e preparato così la via alla valanga. Giunge il momento nel quale un intero campo di neve non è più rattenuto sul pendio; cede, e, mediante la scossa che comunica alle nevi vicine, cedono anche queste. Tutta la massa si precipita con un solo movimento sul declivio della montagna, spingendo dinanzi a sè ogni avanzo che incontra, tronchi d’albero, pietre, pezzi di rupe. Move intorno a sè l’aria per modo, che questa può schiantare gli alberi, può staccare sassi enormi: e lo spaventevole sfranamento nulla lascia d’intatto, modifica la conformazione di quel tratto di montagna, e rovescia una sì grande quantità di materiali nella sottoposta valle da colmarla forse interamente. I torrenti, che urtano contro somigliante ostacolo, devono temporariamente cangiarsi in laghi.

Di queste valanghe in massa, i montanari e i viaggiatori non possono parlare che con sgomento: e però molte vallate, che sono più esposte di altre a simile flagello, ebbero dagli abitanti dei nomi sinistri, per esempio «Valle dello Spavento», o «Gola del Terremoto». Una delle più alte montagne delle Alpi Elvetiche sveglia un senso di timore col solo suo nome «Picchi del Terrore». Una valletta, nella massa del S. Gottardo, sparsa di enormi sassi, è detta «Valle Tremola». Conosco una gola, forse più pericolosa di molte altre, nella quale i mulattieri non si avventurano che tenendo sempre d’occhio le alture. Specialmente nei bei giorni di primavera, quando l’atmosfera tepida e dolce è carica di vapori sciolti, i viaggiatori parlano a mezza voce ed hanno un’espressione inquieta: ben sanno che la valanga aspetta un semplice urto, un fremito dell’aria o del suolo per mettersi in moto. E però camminano come ladri, a passi discreti e rapidi: a volte, involgono nella paglia le campanelle dei muli, affinchè il tintinnio del metallo non vada a svegliare, lassù, il mal genio che li minaccia. Quando poi hanno oltrepassata l’uscita dei temuli valichi, su cui la montagna sovrasta con tutte le minaccie delle sue rovine e delle sue valanghe, possono respirare liberamente e pensare senza ansietà personale ai meno fortunati, di cui il giorno innanzi avevano intesa la triste storia. Spesso, mentre i viaggiatori continuano riposatamente la discesa verso la pianura, un rumore di tuono, un lungo fracasso che si ripercuote di rupe in rupe, li costringe a volgere indietro lo sguardo: è lo sfasciamento delle nevi che avviene in quel momento e che riempie tutto il fondo della gola, che poc’anzi essi attraversavano colla più ragionevole ansietà.

È una vera fortuna che la disposizione e la forma dei pendii permetta ai montanari di riconoscere i luoghi pericolosi. Non costruiscono quindi le loro capanne al di sotto dei declivi ove sogliono formarsi le valanghe, o sulla via che esse percorrono, sibbene hanno cura di scegliere dei posti riparati. Ma tutto cangia nella natura, e quella casettina, quel sentiero che per lungo tempo nulla avevano a temere, si trovano alla lor volta esposti al pericolo: forse l’angolo d’un promontorio disparve, la direzione di un colatoio delle nevi o delle valanghe s’è forse modificato; una zona protettrice di foreste ha forse ceduto sotto la pressione delle nevi medesime; e però le previsioni del montanaro, quantunque basate su eccellenti indizii, vengono interamente smentite.

I boschi, radicati fortemente al suolo, e opponendo ai venti e ad ogni altra forza della natura migliaia e migliaia di tronchi, massicci e saldi come colonne, si possono riguardare come una delle migliori barriere contro le valanghe; e molti villaggi non hanno altra difesa contro le nevi. Quindi i montanari consacrano alle selve un particolare rispetto, anzi una venerazione che un tempo fu religione e che non ha perduto del tutto tale suo carattere. Lo straniero, che percorre le montagne, ammira la foresta a motivo della bellezza degli alberi; e di quel verde ora cupo, ora chiaro, che spicca sulle intatte nevi: ma essi, i montanari, devono al bosco la vita e il riposo: se le loro capanne non sorgessero a piè del medesimo, non potrebbero una sola notte condursi al riposo senza temere di essere schiacciati dalla valanga durante la notte. Pieni di riconoscenza verso la foresta protettrice, per poco non le prestano culto. Sventura a chi offende colle scure uno solo de’ suoi tronchi annosi! «Chi uccide l’albero sacro uccide il montanaro,» dice un proverbio.

E tuttavia quante mani stolte e sacrileghe s’avventano contro i boschi, e vengono schiomando le montagne del loro più bell’ornamento e di questo valido presidio contro le meteore della terra e del cielo! A quel modo che pure ai giorni nostri, dei soldati che si dicono civili, costringono alla sottomissione gli abitanti di un’oasi, abbattendo i palmizi, che alimentano la loro vita, non altrimenti è accaduto, che per soggiogare i montanari, gli invasori al soldo di qualche principe, oppure i pastori della vallata vicina, tagliarono i boschi che servivano ai villaggi di tutela contro la distruzione. Tali erano, tali sono in parte anche adesso le pratiche della guerra. Non meno feroce e avida è la speculazione. Quando un bosco diviene la proprietà di un ignoto e forse lontano signore, sia per compera, sia per eredità, mal capitati coloro, la cui sorte dipende dalla sua benevolenza o dal suo capriccio. Può darsi che la distruzione del sacro bosco venga decretata: allora i boscaioli si accingono all’opera, i tronchi vengono abbattuti, precipitano nella vallata, tagliati in tavole e pagati a danaro sonante. Una larga strada si dischiude in tal modo alle valanghe. Però può darsi che gli abitanti del villaggio minacciato persistono a rimanere sul luogo, per attaccamento al medesimo, quantunque privi, adesso, di quel naturale baluardo: ma, prima o poi, il pericolo si fa imminente, bisogna emigrare in gran fretta, trasportare gli oggetti più cari e abbandonare la casa al destino inevitabile.

Nelle lunghe veglie invernali, in ogni casupola di montagna ricorre spesso il racconto di qualche catastrofe naturale, ed ogni interlocutore aggiunge un particolare straziante: i fanciulli ascoltano e si restringono ai ginocchi delle madri. Anche il minatore affronta i maggiori rischi, e ad ogni piè sospinto gli trema il cuore nell’ansia del disastro: ora per il montanaro questo complesso di timori si riassume nella parola valanga. È la valanga che si forma inaspettatamente e senza poterla prevenire; è la valanga che minaccia la capanna, i granai, il bestiame, che può inghiottire un intero villaggio con tutti i suoi abitanti. L’alpigiano è sfuggito più volte, quasi per miracolo al pericolo; ma degli amici, dei parenti ne furono vittime! La sera, quando egli passa accanto al luogo, ove la valanga s’è formata seppellendo anche degli uomini, gli pare che la montagna, da cui si è staccata la valanga stessa, lo guardi minacciosamente; e raddoppia il passo per fuggire il luogo sinistro. A questo senso di terrore può associarsi un dolce ricordo, se gli avvenne di poter salvare, in modo meraviglioso, qualche camerata; in tal caso, gli avanzi dello sfranamento gli rammentano i più minuti particolari del disastro. Proprio in quel posto, una notte di primavera, un blocco di neve di un volume maggiore della torre del villaggio, e più alto dei più alti abeti, venne a cadere con orribile fracasso. Un gruppo di capannucce e di stalle si trovava sotto quella formidabile massa. Senza dubbio, dicevano i montanari accorsi dai villaggi vicini, tutto è stato spezzato e travolto, e non resta anima viva.

Ad ogni modo, si misero coraggiosamente all’opera per salvare quel poco che ancora si poteva; e, chi sa, dicevano, che non troviamo vivo ancora qualche compagno! Lavorarono senza posa per quattro notti e quattro giorni; e, quando il piccone toccò alla fine il tetto di una capanna, intesero delle voci! Pensate la loro commozione, pensate la gioia di quegli infelici che stavano per essere provvidenzialmente soccorsi. Altre casupole si trovarono pressochè intatte: avevano potuto resistere, non si sa come, alla violenza della scossa e della caduta; e quella poca aria che contenevano, avea bastato a serbare in vita gli abitanti. I medesimi non si erano perduti d’animo; avevano aperte delle comunicazioni da capanna a capanna, e lavoravano senza posa per aprirsi una via di uscita.

Allorchè le foreste sono state distrutte, non è facile davvero di sostituirle. I disboscamenti producono effetti lunghi e disastrosi; e però vennero stabilite delle leggi per frenarli. Le nuove piantagioni hanno d’uopo di gran tempo per vigoreggiare: gli alberi crescono con lentezza, specialmente nelle montagne; e sui posti, battuti dalla valanghe, non rimettono più radice.

È vero che si potrebbe supplire all’azione benefica dei boschi con giganteschi lavori, ma sono troppo lenti e costosi: si potrebbe cioè relegare le nevi sulle cime più elevate e impedire così il disastro della loro caduta, ma per ciò è d’uopo tagliare il pendio in scaglioni orizzontali, sui quali gli strati di neve dovrebbero disporsi e rimanere come sui gradini di una scala gigantesca. Un altro spediente è quello di sostituire ai tronchi d’albero dei piuoli di ferro e delle palizzate, che valgono ad impedire, in quanto è possibile, lo sdrucciolamento delle masse superiori. Dei tentativi di questo genere si fecero con successo, ma solo nelle vallate che hanno densa popolazione e copia di mezzi.

Dei meschini villaggetti, a meno che non sieno aiutati dalle borgatelle vicine o meglio dalla nazione, mal saprebbero intraprendere lavori così grandiosi, che hanno quasi l’audacia di mutar forma alla montagna e di combattere il disastro nella sua causa; quindi non resta ai medesimi che di affidarsi al caso propizio o alla provvidenza, responsale o irresponsale insieme di tante aspettative e di tanti giudizi! Dovranno quei poveri pastori contentarsi di proteggere le casupole, disponendovi intorno degli enormi speroni di pietra, o ammassando all’ingiro delle mura ciclopiche, che valgano ad arrestare l’impeto delle nevi cadenti o piuttosto a romperne il corso, quando le medesime non piombino addosso in tale quantità da tutto demolire al primo urto!

Di tutte le forze che distruggono la montagna, la valanga è la più energica. Trascina tutto seco, terriccio e frammenti rocciosi, come un torrente che straripa. Inoltre, a motivo della fusione graduale delle nevi che ne formano lo strato inferiore, inumidisce talmente il suolo, che diviene una fanghiglia cedevole con profonde spaccature, per cui si sfascia per il proprio peso. Sino a grandi profondità, la terra è divenuta pressochè fluida; scorre lungo i pendî, trascinando seco i sentieri, i pezzi di roccia, le foreste e le case, come giuocattoli. Dei brani interi di montagna, rammolliti dalle nevi, sdrucciolano in massa; campi, pascoli, boschi e abitanti vengono travolti nella medesima rovina.

I bioccoli di neve, che si direbbero a prima vista del tutto innocui, valgono a demolire le montagne mercè il loro accumularsi e la lenta pervasione dell’umidità nel suolo. Alla primavera, ogni burrone mostra chiaramente questo lavoro di distruzione: è uno spettacolo imponente, una specie di cambiamento di scena a vista: le acque e le roccie, le nevi e le valanghe, i boschi e le rupi discendono con un disordine minaccioso dalle cime e s’incamminano verso la pianura.

 

Il ghiacciaio

Anche nel mezzo dell’estate, quando tutte le nevi si son fuse al soffio dei venti caldi, degli enormi ammassi di ghiaccio, chiusi nelle alte vallate, perpetuano ivi l’inverno, presentando un contrasto coi luoghi circostanti: è un passaggio rapido che fa grande effetto sul viaggiatore. Se il sole brilla in tutto il suo splendere, il calore diretto e quello che rimandano i ghiacci danno grave molestia al viandante; il caldo vi è maggiore che non nelle vallate inferiori, a motivo della secchezza dell’aria, di continuo priva di umidità, che viene assorbita dall’avida superficie del ghiacciaio.

Nelle vicinanze, si odono cantare di ramo in ramo gli uccelli, i fiori smaltano i prati, i frutti maturano sotto le foglie del mirtillo. Ma accanto a questo mondo, che ha in sè e diffonde tanta gioia, ecco il torvo ghiacciaio, colle sue larghe spaccature, gli ammassi di pietre, il terribile silenzio, l’apparente immobilità. La morte accanto alla vita! Diciamo apparente giacchè anche la massa di ghiaccio ha un suo proprio movimento: con lentezza, ma con forza invincibile, lavora, come il vento, le nevi, le pioggie, le acque correnti, e viene rimutando la superficie del pianeta. Dovunque i ghiacciai passarono, nell’una o nell’altra età geologica, l’aspetto del paese fu trasformato dalla loro azione. Al pari delle valanghe, i ghiacciai trasportano al piano i residui delle montagne, sempre in corso di degradazione; e ciò senza urti, senza violenze, mercè uno sforzo paziente d’ogni minuto.

L’azione del ghiacciaio, che nel suo movimento segreto non è facile riconoscere, ma che produce i più vasti risultati, comincia sulla sommità della montagna, alla superficie degli strati nevosi. Lassù, nei circhi solitarii, ove di rado si avventura l’uomo, fra quelle alte muraglie silenziose, il turbinoso nevischio ha deposto i suoi aghi pungenti e le larghe falde di acqua condensata, e quello strato uniforme non muta mai d’aspetto. D’anno in anno, di secolo in secolo, sempre la stessa bianchezza, pallida all’ombra delle nubi, scintillante ai raggi del sole. Si direbbe che quella neve sia eterna; e appunto con tal nome la designano gli abitanti delle pianure, che, dal basso, la vedono brillare accanto al cielo. Essi ritengono che rimanga sempre sulle vette più eccelse; e seppure il vento, incollerito, la solleva, credono che la deponga poi nello stesso posto, come le onde che ricadono nel sito medesimo ove vengono gonfiate dalla burrasca.

Ciò non è vero. Una parte della neve evapora e ritorna alle nuvole da cui è discesa. Un’altra parte della nevata, esposta ai raggi del sole e all’influenza del vento caldo del mezzodì, si sparge di goccioline che scivolano sulla superficie o penetrano negli strati inferiori, fino a che, rapprese di nuovo dal freddo, si congelano in gemme impercettibili. Per tal modo la massa di neve si trasforma insensibilmente col mezzo di miriadi e miriadi di molecole che si fondono, quindi si rapprendono di nuovo, per poi fondersi e ridivenire solide. Nello stesso tempo, la massa di neve si sposta a quel modo che il peso spinge alla distanza di pochi millimetri le goccie sciolte; e, a poco a poco, le nevi cadute sul culmine della montagna, ne discendono il pendio. Altre nevi ne prendono il luogo e si spostano mercè un lento movimento o squagliamento senza che l’occhio se ne avveda e senza che avvenga alcun apparente cambiamento. Ma per le nevi il tempo non ha il valore che ha per noi; hanno davanti a sè uno spazio indefinito ed è con lentezza che muovono verso il mare, che un giorno dovrà assorbirle, per uscirne poi di nuovo mercè la evaporazione e riprendere l’eterno cammino. Due generazioni, forse, si successero nei sottoposti declivi; l’avo è morto, e il bambino si trastulla accanto al ruscello, e quel bioccolo di neve, caduto in una grigia giornata, non è per anche uscito dalla massa, colla quale venne a confondersi; non fece che un brevissimo cammino; però anch’esso compierà fatalmente la sua via. Lento è il suo andare, per certo, ma incessante; quel molle mucchietto di neve s’è cangiato in cristallo, e si muove, si muove sempre. La gran massa, la gran nevata di quella invernata, s’è fatta più omogenea; e trasformata in ghiaccio, già s’avviò nella gola della montagna, ove è sospinta dal proprio peso. Sempre immobile in apparenza, lo sterminato cumulo potrebbe paragonarsi ad un fiume dalle acque rapprese, che corre entro un letto roccioso.

Innumerevoli insetti vivono e ronzano sull’erbetta dei pascoli; l’aria è dolce, e il pastore conduce i greggi sovra i greppi più elevati, da cui l’occhio spazia e scopre pure, fra le nereggianti rupi, le liste bianche delle nevi, che effettuano la loro solenne e poco meno che invisibile discesa.

Con uno sforzo incessante, il solido fiume prosegue il viaggio verso la pianura: si allargherebbe, intatto, sulle floride campagne, che abbelliscono la base della montagna, e giungerebbe fino al mare conservando il medesimo aspetto, se il dolce clima delle valli inferiori, il tepore dei venti, i raggi del sole non sciogliessero i ghiacci molto prima della meta che devono raggiungere.

Nel suo corso, il solido fiume si comporta come un fiume dalle acque fluttuose. Anch’esso procede ora diritto, ora tortuoso, presenta delle magre e delle piene, ed ha pure delle rapide e delle cateratte. Al pari dell’acqua che s’allarga o si restringe giusta la forma del letto, il ghiaccio s’adatta alle dimensioni del burrone che l’accoglie; sa modellarsi esattamente sulla roccia, sia nel vasto bacino le cui pareti si scostano notevolmente, sia nell’angusto passaggio ove le pareti si avvicinano per modo da chiudere quasi la via. Spinto dalle masse che si formano di continuo nelle regioni superiori, il ghiacciaio non cessa di sdrucciolare verso il basso, sia che il pendio sia quasi insensibile, sia che formi una serie di scanni ovvero di precipizi.

Tuttavia, il ghiaccio, non avendo la mollezza, la fluidità dell’acqua, compie, per così dire, con mal garbo, con una certa durezza selvaggia, i movimenti che gli vengono imposti dalla natura del suolo. Le sue cateratte non hanno la superficie unita dell’acqua fluttuosa che precipita dall’alto; ma, giusta le ineguaglianze del fondo e la coesione dei cristalli di ghiaccio, si rompe, si fende, si frastaglia in blocchi che s’inclinano in modo diverso, cadono gli uni sugli altri, si foggiano in obelischi bizzarri, in torricelle, in gruppi fantastici. Anche là ove il fondo dell’incanalatura è con sufficiente regolarità inclinato, la superficie del ghiacciaio non rassomiglia punto alla distesa uniforme delle acque d’un fiume. Il ghiaccio urtando contro le rive non può risentire gli effetti dell’acqua viva e scorrente, la quale forma delle mobilissime ondicine, ma si storce e si frange in spaccature che si incrociano e si urtano e producono un dedalo di sinuosità e di risalti.

D’inverno, e quando la primavera ha già rinnovato l’ammanto delle campagne inferiori, molte screpolature sono mascherate da densi cumuli di neve, che si estendono in strati non interrotti alla superficie del ghiacciaio: allora, se la neve non venne ammollita dal calore del sole, è facile camminare sopra questi abissi nascosti anche senza accorgersene: si oltrepassano dei burroni spaventevoli senza tema di sorta; il viaggiatore può ignorarli, come nulla sa del labirinto sotterraneo delle grotte e delle acque, e in generale dei misteri che la montagna nasconde coll’imponente sua massa.

Però il ritorno dell’estate non manca mai al suo ufficio; fonde a poco a poco le nevi superficiali. Il ghiacciaio, che procede senza posa e la cui massa frantumata vibra di un fremito continuo, scuote il mantello nevoso che lo ricopre; in alcuni punti, le vôlte si sfaldano e grossi pezzi s’inabissano nelle profonde fessure: non restano poi che dei ponti stretti e sospesi, sui quali non si osa arrischiarsi che dopo di aver riconosciuto ripetutamente col piede la solidità del passaggio.

È appunto in questa stagione che diviene pericolosa la traversata dei ghiacciai a motivo della larghezza delle fessure che si ramificano senza fine.

Dagli orli dell’abisso si vedono spesso, nell’interno, degli strati sovrapposti di ghiaccio azzurrognolo, un tempo soffici masse di neve, listate di striscie nerastre, avanzi d’ogni sorta caduti sulla neve; ma spesso il ghiaccio, chiaro e omogeneo in tutta la sua massa, sembra una sola lastra enorme di cristallo.

E la profondità di questi pozzi? Chi può misurarla? Una sporgenza del ghiaccio o le tenebre impediscono allo sguardo di spingersi sino al fondo solo, si odono a volte dei rumori misteriosi, che s’alzano dall’abisso: e dell’acqua che scorre, una pietra che si stacca, un pezzo di ghiaccio che si fende e s’inabissa.

Degli esploratori discesero nelle fenditure dei ghiacciai per misurarne lo spessore e per studiare la temperatura e la composizione dei ghiacci profondi.

A volte fecero queste esplorazioni con poco pericolo, penetrando lateralmente nelle fessure, che si aprono, talora, verso la parte inferiore delle rupi, dentro le quali si muove il ghiaccio. In altri casi, s’è dovuto discendere col mezzo di corde, come il minatore che penetra nel seno della terra. Ma se degli studiosi, adottando le maggiori precauzioni, hanno saputo esplorare i pozzi dei ghiacciai senza danno di sorta e con vantaggio della scienza, quanti incauti pastori e quanti viaggiatori imprudenti vi caddero miseramente! Vi furono, però, dei montanari, che caduti al fondo di un crepaccio, feriti, perdendo sangue, smarriti nelle tenebre, seppero rialzarsi, serbare il proprio coraggio e formare il proposito di rivedere la luce. Uno, fra gli altri, che io ebbi la fortuna di conoscere, seguì il letto di un ruscello, formatosi sotto il ghiacciaio, e compì un vero viaggio al di sotto dell’enorme vôlta, col timore di vedersi ad ogni momento abbarrata la via o di rimanere schiacciato sotto qualche frammento della volta medesima. Dopo una simile escursione, non rimane all’uomo che di discendere nella bocca di un cratere per esplorare il serbatojo sotterraneo delle lave!

Senza meno dobbiamo lodare grandemente il dotto coraggioso, che discende nelle cavità del ghiacciaio per studiarne le strie, i cristalli e quanto interessa la scienza; ma quante cose importanti possiamo osservare anche alla sua superficie, quanti graziosi particolari ci è dato di scoprire, e come ci si rivelano, da questo semplice esame, delle leggi importanti.

E in vero questo caos apparente ha pure le sue leggi immutabili! Perchè, in un dato punto, una fessura si apre nella massa agghiacciata? Perchè, ad una certa distanza, il crepaccio, che s’è gradualmente ingrandito, si restringe di nuovo e il ghiacciaio torna a rassodarsi? Perchè la superficie tondeggia regolarmente da una parte per incavarsi dall’altra? Nell’osservare queste accidentalità, che riproducono grossolanamente le pieghe, le ondicine, gli avvallamenti dell’acqua fluttuosa in un punto e il suo distendersi e rigonfiarsi altrove, si ha un altro argomento per riconoscere la grande semplicità delle leggi della natura, quella unità meravigliosa che presiede a tutte cose.

Quando siamo entrati, ci si conceda l’espressione, nell’intimità del ghiacciaio, mercè lunghe esplorazioni, e quando si conosce la ragione dei piccoli cambiamenti che avvengono alla sua superficie, è una gioia, una delizia percorrerlo nei bei giorni d’estate. Il calore del sole gli ha dato più che mai movimento e voce.

Dei rivoletti d’acqua, quasi impercettibili dapprima, filano in ogni senso, per unirsi in scintillanti ruscelli, che incidono la lastra del ghiacciaio, e scompaiono poi ad un tratto in un crepaccio, facendo udire con voce argentina un tenue lamento. Si gonfiano o scemano giusta le oscillazioni della temperatura. Se appena una nube oscura il sole, l’atmosfera si raffredda, e i rivoletti non hanno quasi più acqua: il calore aumenta, i ruscelli insuperbiscono ed hanno il moto audace dei torrenti; trascinano, persino, della sabbia e dei ciottoli per formare degli argini, delle isole, insomma un vero deposito di alluvione! Poi, verso sera, si calmano, e il freddo notturno li congela di nuovo.

Anche i sassolini caduti sul ghiacciaio dalle pareti vicine si agitano e si spostano durante gli influssi estivi, che avvivano temporaneamente il campo di ghiaccio fondendone lo strato superficiale. Il pendio ghiaioso, lungo il ruscello, si sfalda mercè parziali sfranamenti e cade nei crepacci. Allora della ghiaia nerastra rimane sparsa sul ghiacciaio; i ciottoli assorbono e concentrano il calore, e, crivellando il ghiaccio al di sotto, vi formano migliaia di fori cilindrici. Più in là, al contrario, dei vasti ammassi di residui d’ogni specie e di grosse pietre impediscono al calore solare di penetrare al di sotto; all’intorno, il ghiaccio si fonde ed evapora; quelle pietre formano dei pilastri, che par quasi escano dal ghiacciaio come colonne marmoree; ma hanno breve durata, si frangono rumorosamente per il proprio peso, si sparpagliano in mille frantumi, per ricominciare il giorno dopo una evoluzione consimile. Questi piccoli drammi della natura rianimata acquistano poi un pregio di gran lunga maggiore, quando la natura organica vi prende parte. Attirata dalla tepidezza dell’aria, s’affretta al ghiacciaio con volo festoso la farfalla, mentre la pianticella, caduta con una frana dalla vicina roccia, si giova del breve respiro concessole per rimettere radici e per offrire al sole la sua ultima corolla. Sulle coste polari dei navigatori videro un tappeto di vegetazione abbellire un alto argine, formato alla base di ghiaccio e di terra nella base superiore.

 

La morena e il torrente

I piccoli fenomeni, che avvengono ogni giorno e che abbiamo testè descritti, a bella prima si riterrebbe che non debbano influire gran che sulla storia del mondo. Infatti, che è mai il lavoro del ghiacciaio in una giornata estiva? La sua massa, pur procedendo con sforzo costante, ha appena progredito di pochi centimetri; due o tre roccie si sono staccate dalle pareti per cadere sul campo mobile dei ghiacci; il ruscello, che trasporta le acque di fusione, si è allargato alquanto, e nel suo letto, i ciottoli si urtano con maggiore violenza; ma nel suo complesso ogni cosa ha conservato la solita apparenza. Chi non direbbe che la natura è assai lenta nella sua opera di perpetuo rinnovamento?

Nullameno, le minime trasformazioni di ogni giorno, di ogni minuto devono, necessariamente, produrre grandi cangiamenti nell’aspetto della terra, delle vere rivoluzioni geologiche. Questi ciottoli, questi frammenti di roccie, che cadono dagli scoscendimenti superiori sul letto del ghiacciaio, s’accumulano a poco a poco al basso, formando degli enormi baluardi di pietre; camminano lentamente insieme colla massa che li trasporta; ma altri residui, che pure sfranano dall’alto, vengono ad occupare il posto dei precedenti.

Per tal modo, dei lunghi convogli di roccie, accumulati in disordine accompagnano il ghiacciaio della sua marcia: al fiume di ghiaccio s’aggiungono dei fiumi di pietre, che provengono dalle rupi, che il tempo o le meteore hanno logorato, e da quei declivi che furono maggiormente disastrati dalle valanghe.

Giunto all’uscita delle alte gole in una zona di temperatura più dolce il ghiacciaio non può più mantenersi allo stato cristallino; si fonde in acqua e lascia cadere il suo fardello di pietre. I copiosi materiali trasportati si sfasciano e poi si accumulano, formando una barriera più o meno elevata; all’estremità di parecchi ghiacciai questi ammassi caotici di pietre formano delle vere montagne, dalla base o dallo scarco, se volete, poco saldo, quindi nel loro insieme vacillanti. Dopo una non interrotta serie di anni nevosi, la massa del ghiacciaio aumenta e s’allunga; e quindi raggiunge questi monticelli di pietre, li trascina ancora seco e li spinge innanzi. In seguito, mercè l’influenza di una temperatura più dolce, d’inverni meno abbondanti di neve, tutta la parte inferiore del ghiacciaio si squaglia lasciando vuoto l’intero bacino roccioso che gli serviva di letto; la «morena», cioè l’ammasso delle pietre, al cessare dell’impulso che la spingeva innanzi, rimane isolata ad un certa distanza dal ghiacciaio: dietro di essa si vedrà la pietra nuda, pulita, levigata dal peso enorme che vi si moveva sopra poc’anzi, e coperta qua e là di fango rossastro, formato dal polverizzamento di sassi e ciottoli trascinati. Un’altra morena di residui accumulati si formerà a poco a poco dinanzi lo scarco del ghiacciaio, che fu ridotto entro più brevi confini.

Le traccie indiscutibili dell’antica azione dei ghiacci, si notano a distanze considerevoli dal vestibolo delle vallate. Delle intere pianure, un tempo sparse di acque, furono gradualmente colmate dal fango e dai sassi, che il ghiacciaio spingeva a sè dinanzi; le sporgenze delle montagne e delle colline, che si trovavano sul passaggio del solido fiume, furono smussate e pulite; e per ultimo, delle roccie sparse, delle morene furono deposte assai lontano, anche sul pendìo di montagne appartenenti ad altre masse.

Si riconosce facilmente l’origine di queste pietre dalla composizione chimica, dalla disposizione dei cristalli e dei fossili: talora i caratteri distintivi hanno una tale precisione che si può indicare, sulla stessa montagna, il circo elevato da cui si è staccato il blocco errante. Quanti anni e secoli ha durato il viaggio? Molti, senza dubbio, a dedurlo dal tempo che impiegano le pietre trasportate dai ghiacciai attuali per compire il loro cammino, tempo che è stato esattamente misurato. Fra questi blocchi erratici ve ne ha di quelli che i dotti hanno resi molto notori colle interessanti loro osservazioni e che si rivedono volontieri come vecchi amici.

Le pietre che si incastrarono nelle pianure, gli ammassi di fango trasportati lontano, le traccie in genere attestanti la presenza di antichi ghiacciai, ci consentono d’immaginare quali furono le grandi alternative del clima e le immense modificazioni del rilievo e dell’aspetto terrestre durante le età geologiche. Tenendo conto di questi residui, vediamo in un’epoca remota la nostra montagna e le sue vicine rizzarsi molto al di sopra delle vette attuali; le punte supreme oltrepassavano le nuvole più elevate, e i vapori dello spazio venivano a trasformarsi in nevi o in aggi[1] di ghiaccio urtando contro la gigantesca parete; i pascoli ad anfiteatro, le valli verdeggianti, i versanti ora imboschiti erano coperti da uniformi lastre di ghiaccio; nella vallata non si vedevano ancora nè cascate, nè laghi, e nemmeno praterie e ruscelli; lo immenso fiume agghiacciato, d’un volume superiore ad ogni attuale esempio, riempiva tutte le depressioni; e, al di là della vallata, s’allargava nella pianura al di sopra delle colline e sino ad un limite molto lontano. Tale era, al tempo dei nostri antichissimi progenitori, l’aspetto che presentava il monte carico di ghiacci; e pei più tardi nostri nepoti, nella distanza indefinita dei secoli, il quadro sarà cangiato. Forse il ghiacciaio, allora del tutto fuso, sarà sostituito da un ruscelletto; la montagna medesima non sarà più, e un leggiero rialzo di suolo ne indicherà il posto; mentre la pianura attuale, del tutto sconvolta, offrirà delle enormi differenze di livello, e in alcuni punti sorgeranno delle alture, desiderose di rivaleggiare, quando che sia, colle montagne, e che non foss’altro, andranno gradatamente innalzandosi.

Ma mentre noi pensiamo alla storia della montagna e del suo ghiacciaio, a quello che furono e a quello che diverranno un giorno, ecco il torrentello che esce rumoreggiando dai ghiacci e che va per il mondo affine di concorrere anch’esso all’opera di rinnovamento continuo della terra! L’acqua, divenuta biancastra o lattea a motivo delle innumerevoli molecole di roccie triturate, che porta in sospensione, non è poi altro che il ghiacciaio stesso che passa allo stato liquido. Ma qual differenza, tuttavia, fra la massa solida coi suoi crepacci, colle grotte, coi cumoli di pietra, pendii fangosi, e quell’acqua che zampilla allegramente e serpeggia cinguettando tra i fiori. È uno degli spettacoli più curiosi della montagna l’improvvisa apparita del ruscello, che, durante il suo corso superiore, scorre nell’oscurità, invisibile, alimentato da miriadi di goccioline che cadono dalle fessure della vôlta. La caverna, da cui esce il torrente, muta ogni giorno di forma, giusta gli scoscendimenti e la fusione dei ghiacci: di solito, però, è facile addentrarsi fino ad un certo punto nella grotta, e ammirarne le pareti, terse quale specchio, la luce azzurrognola, i riflessi mutevoli.

La stranezza dello spettacolo, l’ansietà che agita il cuore, quel non so che di vago e di misterioso, tutto illude e commuove a segno che uno si crederebbe trasportato in un luogo sacro. «Mille e tre volte benedetti» si credono i pellegrini indiani, che, dopo di avere risalito il Gange sino alla sorgente, osano penetrare sotto alla vôlta tenebrosa da cui si slancia il sacro fiume!

I torrenti, che filano dai ghiacciai, apportano alla pianura, con una grande regolarità, proveniente dal ricorso delle stagioni, l’acqua fecondatrice e il limo alluvionale, che si forma in quella vasta officina di triturazione, la quale agisce di continuo sotto il ghiacciaio. Durante la stagione fredda delle nostre zone temperate, quando le pioggie cadono più frequentemente nelle campagne, e, invece di evaporare, si aprono la via verso i fiumi, il ghiacciaio si rapprende più che mai, aderisce dovunque alla vôlta che lo ricopre, al letto dentro cui scorre, e non lascia uscire che uno scarso ruscelletto; a volte il ruscelletto manca al tutto di acqua; neppure una goccia discende dalla montagna. Però, a misura che il caldo ritorna e che la vegetazione chiede, per le foglie e pei fiori, una maggiore quantità d’acqua; a misura che la vegetazione si fa più attiva e che il livello dei fiumi tende ad abbassarsi, i torrenti dei ghiacciai si gonfiano, si cangiano temporaneamente in fiumi e forniscono l’umidità necessaria ai campi arsicci e assetati.

Si stabilisce una compensazione delle più utili per la prosperità delle contrade, irrigate da corsi d’acqua che vengono parzialmente alimentati dai ghiacciai. Quando gli affluenti, gonfiati dalla pioggia, scorrono in abbondanza, i torrenti della montagna non apportano che un tenue tributo liquido; e, di rimando, straripano quando gli altri fiumi sono quasi secchi: mercè questo compenso, una certa egualità si mantiene nel livello del fiume, nel quale sfociano i diversi corsi d’acqua.

Nell’economia generale della terra, il ghiacciaio, immobile in apparenza, sempre sì lento e calmo nella sua forza, è un grande elemento di equilibrio.

Di rado esso introduce un disordine impreveduto nella natura. Ciò può accadere, per esempio, quando un ghiacciaio laterale, spingendo innanzi una larga diga di residui o avanzando esso medesimo attraverso un torrente uscito dal ghiacciaio principale, ne accumola le acque e forma così un lago, che si allarga di continuo. Per molto tempo la diga resiste alla pressione della massa liquida; ma in seguito ad uno squagliamento ragguardevole di neve, o per altra cagione, può accadere che la barriera di ghiacci e di pietre ammucchiate ceda ad un tratto. Allora il lago prorompe dal recente letto e dà origine ad una spaventevole valanga: l’acqua si precipita con furore sulla vallata sottoposta, travolgendo seco le lastre di ghiaccio, i sassi ed ogni residuo strappato alle rive mal ferme: rovina i ponti, distrugge i mulini, abbatte le case, trascina gli alberi dei bassi pendii, quanto incontra sul suo passaggio, giacchè nulla può scemare la sua violenza: scalza intere praterie, come se un immenso vomero vi trascorresse sotto, le travolge e ripiega in cento guise, ne spezza e rimpasta le zolle erbose, e dissemina il terriccio in quella indescrivibile e tumultuosa confusione di materiali d’ogni specie. È un vero diluvio, e malcapitate le valli che si trovano sulla strada dell’inondazione: il disastro non ha limiti e se ne trasmette il racconto di generazione in generazione.

Sono, però, delle catastrofi assai rare e che divengono sempre meno probabili nei paesi inciviliti, ove le popolazioni minacciate hanno cura di prevenire il pericolo scavando dei canali di scarico, mercè cui i serbatoi lacustri, che si formano dietro una diga mobile di ghiacci o di pietre, possono emettere il soverchio delle acque. Così frenato nei suoi eccessi, il ghiacciaio non può che giovare il paese irrigato dalle sue acque. È il ghiacciaio che lo inumidisce nella stagione, in cui potrebbe nuocergli maggiormente la siccità; è il ghiacciaio che ne reintegra la forza vegetativa distendendovi della terra vegetale ancora vergine e ricca dei migliori elementi chimici.

Il ghiacciaio non è altro, se ben si guardi, che un lago, un mare d’acqua dolce, che può avere un volume enorme: ma questo lago, sospeso sul dosso dei monti, s’effonde con lentezza e con una tal quale studiata misura. Contiene dell’acqua più che sufficiente per inondare tutte le campagne sottoposte, ma sa ripartire con discrezione i suoi tesori, e aspetta di farlo nella stagione più opportuna. Quella massa di ghiaccio, quantunque abbia l’aspetto della morte, giova potentemente la vita, e non fa che risparmiare, in una calma sublime una forza, che viene poi rivolta a beneficio degli uomini, e per compire i mirabili disegni della natura.

 

Le foreste e i pascoli

Le nevi e i ghiacci, che, squagliandosi, nutrono i torrenti e i fiumi durante l’estate, servono, come s’è visto, al mantenimento della vegetazione, non solo alle falde della montagna, ma anche a grandissima distanza. Però la montagna, mentre prodiga tanta parte di sè, conserva sufficiente umidità per nutrire la propria flora, la quale, a proporzione di spazio, è molto più ricca od almeno più varia di quella del piano. Dal basso, lo sguardo non può rilevare i particolari della scena offerta dalla verdeggiante montagna, ma ne abbraccia il magnifico insieme, e gode dei mille contrasti che l’altezza, gli accidenti del suolo, l’inclinazione dei pendii, l’abbondanza dell’acqua, la vicinanza delle nevi e tutte le altre condizioni fisiche producono sulla flora alpina.

Alla primavera, quando tutto rifiorisce, è un raro diletto vedere il verde delle erbe e del fogliame pigliare il posto del monotono candore delle nevi. Gli steli dell’erba, che possono riprendere vita, smettono la tinta rossiccia per rianimarsi coi colori primaverili, una tinta gialla bianchiccia dapprima quindi verde vivace. Miriadi e miriadi di fiori smaltano le praterie; qui non vedi che ranuncoli, più là degli anemoni e delle primavere, che sbocciano a cespi; ma in una parte della prateria, il verde quasi scompare sotto il bianco niveo del grazioso narciso dei poeti o sotto il lilla del zafferano, che dalle radici all’orlo della corolla è tutto un profumo: accanto ai rivoletti, la parnassia dischiude la variopinta corolla; laggiù dei fiorellini bianchi o azzurri, rosa o gialli, fitti fitti, sì che quei colori dominano su tutto il declivio erboso, e dal versante opposto si può riconoscere la specie di pianticella o di fiore che prevale sui pascoli prospicenti, mano mano che la neve indietreggia verso le alture per cedere posto al tappeto verde che è già tutto profumato. Fra poco anche gli alberi saranno della gioiosa partita.

Al basso, sovra i primi declivii, gli alberi fruttiferi, che, poche settimane dopo di aver deposto il niveo ammanto, si vestono di un altro velo niveo, quello dei fiori. Più alto, i castani, i faggi, varie specie di arbusti si coprono di un verde morbido; da un giorno all’altro, si direbbe che la montagna si rivesta di un meraviglioso tessuto, nel quale al velluto si combina la seta con fili aurei ed argentei e mille graziosi ricami. Grado grado, la recente verzura delle foreste e delle macchie innoltra verso la sommità; dà, per così dire, la scalata ai burroni e alle vallette per conquistare i dirupi più elevati, che campeggiano in mezzo ai ghiacciai. Lassù, è tutta una festa, tanto più geniale per l’occhio quanto meno aspettata. Perfino le roccie più cupe, che nereggiano sulla candida distesa delle nevi s’adornano anche nelle minime anfrattuosità di ciuffetti verdi, quasichè vogliano anch’esse partecipare alla lietezza della primavera.

I pascoli più elevati, quantunque meno sontuosi, di un verde meno molle ed esuberante e meno smaltato di fiori, sono forse più graditi all’occhio delle praterie inferiori; è un tappeto verde che invita il viaggiatore, con una morbidezza più dolce, e, quasi si direbbe, più intima, ad un riposo, che certo non farebbe sospirare i tumulti cittadini. Si passeggia senza fatica di sorta sulla fine erbicciuola e si fa più facile conoscenza coi fiori che sbocciano a miriadi dai cespi verdeggianti.

Ivi del resto, lo splendore delle corolle è incomparabile. Il sole vi dardeggia dei raggi più cocenti, la cui azione chimica è più potente e più rapida: elabora nei succhi delle sostanze coloranti di una bellezza più perfetta. Armati di lenti, il botanico ed il fisico riconoscono positivamente il fenomeno; ma, anche senza i loro istrumenti, il viaggiatore riconosce a prima vista che la flora del piano non offre un turchino così vivace da eguagliare l’azzurro intenso della piccola genziana. Incalzate dalla brevità del tempo, impazienti di vivere e di godere, le piante si fanno più belle; s’ornano di colori più spiccati, giacchè la stagione della gioia è passeggiera: non appena l’estate sarà fuggita, perderanno i bei colori ed anche la vita.

Lo sguardo è affascinato dalle larghe zone di erba, costellate del vivo roseo, che tanto piace nel silenzio, e sparse di mazzetti di miosotide e dei larghi fiori dall’aureo cuore dell’aster alpino. Sui pendii brulli, fra mezzo alle roccie aride, cresce l’orchide nera dal profumo di vaniglia e il «piede di leone», il cui fiore non appassisce mai ed è simbolo di eterna costanza.

Fra queste pianticelle dai fiori splendidi, ve ne ha che non temono la vicinanza della neve e dell’acqua ghiacciata. Non sono punto freddolose! Perfino sull’orlo dei campi di neve o dei ghiacciai, i succhi vitali circolano abbondantemente nella delicata soldanella, che spenzola al di sopra della neve la sua corolla di una sfumatura sì morbida e poetica: quando brilla il sole, ben si può dire di essa che ha le sue radici nel ghiaccio e la testa nel fuoco.

Anche al termine delle nevi, il torrente, a cui il ghiaccio appena squagliato dà ancora una tinta lattea, cinge amabilmente coi suoi rami un’isoletta tutta in fiore, mazzo smagliante di colori che freme ad ogni spiro di vento. Più in là, il candido letto, a cui la vicina rupe contese i raggi del sole, è tempestato di fiori; il dolce tepore, che diffondono intorno a sè, viene sciogliendo all’ingiro la neve; par quasi che essi sbocciano da una coppa di cristallo, a cui l’ombra dà una tinta turchiniccia. Altri fiori, meno arditi, non osano avvicinarsi troppo alla neve, ma hanno cura di coprirsi di una molle pelliccia di muschio. Tale è, per esempio, il piccolo garofano rosso, detto della neve: si sarebbe tentati di paragonarlo ad un rubino deposto sopra un cuscino di velluto verde nel bel mezzo di una aiuola di lanuggine bianca.

Sui pendii della montagna, le foreste s’alternano coi tratti erbosi, ma non a caso. La presenza dei grandi alberi, è sempre indizio che ivi la terra vegetale è molto abbondante, e che l’acqua per certo non fa difetto. Così osservando la distribuzione delle foreste e dei pascoli, si possono rilevare, anche da lontano, le particolari condizioni della montagna, semprechè l’uomo non sia intervenuto brutalmente abbattendo gli alberi e modificando l’aspetto del paesaggio.

Pur troppo, in alcuni luoghi, l’uomo, cupido di danaro, ha vandalicamente tagliati tutti gli alberi; non vi resta più nemmeno una ceppaia; sicchè le nevi invernali, non più fermate nella discesa dal verdeggiante baluardo, sdrucciolano oramai con piena libertà; denudano le roccie, sconvolgono la terra vegetale, seco travolgendo perfino l’ultima radice.

L’antica venerazione è quasi venuta meno del tutto. Un giorno, il boscaiuolo s’avvicinava con rispetto alla silenziosa foresta della montagna, e vi entrava con un raccoglimento quasi religioso: il vento, che gemeva fra gli alberi, aveva per lui un linguaggio pressochè divino: per tacere delle fantasie superstiziose che gli passavano per il capo, non mancava mai di ricordare delle tradizioni locali, nelle quali il bosco sosteneva molta parte: e per poco non vedeva degli esseri vivi o dei fantasmi balzare dai tronchi annosi: e nel recidere un ramo forse temeva che desse sangue umano, giusta le credenze poetiche e mistiche del medio evo e dei romanzi cavallereschi. Se pur gli era imposto di adoperare la scure contro quei giganti, nol faceva che con ossequio, come se temesse di disturbare o di ferire qualche vita misteriosa; aveva l’aria di chiedere perdono alla pianta stessa. Nell’impugnare la scure, i rami fremevano sulla sua testa; e, chi sa, gli pareva che fosse un segno di protesta; le rugosità della corteccia prendevano per lui quasi un’espressione incollerita: al primo colpo, il legno umido faceva pensare alla rosea carne di una Driade. Ma adesso questo lavorìo fantastico del pensiero è del tutto cessato; e il boscaiuolo compie molto duramente e prosaicamente il suo ufficio.

Però, anche ai giorni nostri, s’incontrano spesso gli alberi particolarmente venerati. Il montanaro non sa il perchè, e non vuol nemmeno essere interrogato in proposito; ma, in parecchi luoghi, si veggono delle quercie antichissime, rispettate dai nativi, e cinte di palizzate per difenderle dagli animali e dai viaggiatori insolenti. Nella vecchia Bretagna, quando si era in punto di morte e non si trovava lì per lì un prete per raccogliere la confessione, era volgare credenza che bastasse l’autoconfessione a piè di un albero; i rami udivano, e lo stormire lamentevole delle fronde portava al cielo l’ultima preghiera del moribondo.

Se non chè, se qualche vecchio tronco è rispettato in memoria dei tempi andati, o di fatti occorsi nelle vicinanze, la foresta non ispira più un santo terrore: ora, i proprietari dei boschi, se ci hanno interesse, non hanno riguardo di sorta e distruggono senza pietà specialmente se non è provato che il bosco serva a rattenere le valanghe. Basta che ci sia il profitto, basta che la spesa del taglio e del trasporto sia sufficientemente compensata dalla vendita del legname! Se molte foreste serbano ancora virginale interezza e vigoria, ciò si deve all’elevata posizione, alla mancanza di strade, alla difficoltà di trasportare gli alberi abbattuti. Ma quando i mezzi di trasporto sono agevoli, quando i fusti si possono far sdrucciolare sovra piani inclinati, e giù nella valle il torrente ha forza sufficiente per spingere i tronchi, riuniti insieme a mo’ di zattere, verso il piano: quando al piano la forza motrice delle acque può essere utilizzata da poderose segherie meccaniche, allora le foreste corrono grande pericolo di essere investite dai taglialegna. Se i medesimi sanno sfruttarle con intelligente misura, e moderano con cura i colpi per modo da non scemare le raccolte di legname delle annate successive e di sviluppare nel suolo forestale la massima forza possibile di produzione, la società non ha che a rallegrarsi in attesa di nuovi e forse maggiori profitti per l’avvenire.

Ma a volte avviene che si tagli senza alcun ritegno; si rade completamente la foresta, senza tener conto del danno immenso che si fa agli altri ed anche a sè stessi: una specie di frenesia invade questi incauti demolitori, che meritano davvero di essere additati al pubblico biasimo.

Le foreste, che rimangono ancora sui declivi delle nostre montagne, di una bellezza vigorosa e robusta, fanno ricordare con rammarico quelle che ci furono tolte da avidi speculatori. Sui primi pendii lambiti dalla pianura, le boscaglie di castagni vennero in genere risparmiate a motivo della ricca chioma; delle foglie si fa strame per le bestie e il frutto è cercatissimo, specie nelle lunghe serate invernali. La raccolta, che se ne fa, è attesa con pazienza sui monti, ed è una festicciola, paragonabile in certo qual modo alla vendemmia, che rallegra la vita autunnale dei pianigiani. Certo le foreste di castagni sono fra le più variate e pittoriche del mondo, non escluse dal paragone quella delle regioni tropicali, ove si alternano in gruppi gli alberi dall’aspetto e dai prodotti più diversi. Il pendio erboso, sul quale questi colossi diramano le loro radici, è quasi sgombro di cespugli per cui l’occhio abbraccia con libertà delle vaste prospettive sotto l’intreccio dei rami, bizzarramente spiegati. In più luoghi, la verdeggiante volta lascia passare la luce del cielo; il grigio delle ombre e il giallo morbido dei raggi oscillano giusta il fremito delle foglie; i muschi e i licheni, che tappezzano le cortecce rugose, aumentano l’effetto di questi lumi e di queste ombre fuggitive. Gli alberi, sia che si rizzano isolati, sia aggruppati a due o a tre differiscono di forma e di aspetto. Quasi tutti pare che abbiano sofferto un movimento di torsione da sinistra a diritta; ma, mentre il tronco dell’uno è abbastanza unito e i suoi rami si biforcano e suddividono regolarmente, l’altro presenta delle strane gibbosità, dei nodi, delle verruche bizzarramente ornate di ciuffi. Si veggono delle piante vetuste dal tronco enorme, che perdettero tutti i rami, scavezzati dalla bufera, per rimettere dei ramoscelli acuminati come lancie.

Ve ne ha che conservano il lusso dei rami, ma il tronco è imputridito all’interno; il tempo ha rosa la corteccia, schiudendovi delle cavità più o meno profonde: forse non resta che un po’ di legno coperto dalla corteccia, che pur basta a reggere tutto il peso della vegetazione superiore. Tratto tratto si nota una ceppaia di poderose dimensioni: il tronco disparve; però su questa imponente rovina, già crescono dei nuovi alberi distinti ma immiseriti, e ben inferiori al gigante che vi teneva tanto posto.

Per tal modo, la foresta offre i maggiori contrasti: acanto a degli alberi ben venuti, superbi di aspetto e di maestoso sviluppo, degli alberetti rattrappiti, contorti, dei gruppi dalle forme strane, che, veduti di notte o nelle ore crepuscolari, possono suscitare dinanzi alla fantasia immagini paurose, i vaghi e mostruosi ricordi della favola e del sogno!

Anche i faggi preferiscono di raggrupparsi in foreste, come i castagni, ma presentano delle differenze e dei contrasti molto minori. Diritti come colonne, quasi tutti; e dei lunghi cannocchiali, se giova l’espressione, fra gli alti fusti, consentono allo sguardo di spingersi lontano. I faggi sono lisci, dalla scorza lucida coperta di licheni; alla base vestiti di muschio verde; dei ciuffetti di foglie abbelliscono sparsamente la parte bassa del tronco: ma a quindici metri al disopra del suolo, i rami si spiegano e s’intrecciano, da albero ad albero, formando, quasi, una volta continua, attraversata in modo regolare da raggi paralleli che diffondono una mite luce sull’erba. L’aspetto della foresta è severo e insieme ospitale: un dolce lume, composto di fasci brillanti della tinta verdognola per il riflesso delle foglie, riempie i viali e si mesce alla loro ombra, formando un giorno vago pallido, senza bruschi passaggi di luce, ma insieme abbastanza chiaro. A questo lume, si distingue nettamente tutto ciò che vive al piede dei grandi alberi: gli insetti che strisciano, i fiorellini tremolanti, i funghi e i muschi che tappezzano il suolo e le radici: e sovra i fusti, disposti regolarmente, i caldi raggi fanno vivamente spiccare licheni bianchi o giallo oro. Le foreste di faggi mutano d’aspetto giusta il variare delle stagioni. Al principio dell’autunno, la fioritura si colora di tinte diverse, fra le quali dominano le sfumature brune e rossastre; poi appassisce e cade al suolo, che copre con un folto strato di foglie secche, agitate dal minimo soffio di aria. La luce del sole pervade liberamente la foresta, tra i rami nudi, ma vi cade pure la neve e vi si diffonde la nebbia; il bosco rimane silenzioso e triste sino ai giorni di primavera, quando i primi fiori sbocciano accanto alla neve, che rapidamente si squaglia, quando i bottoncini e le gemme rossiccie diffondono fra i rami impazienti di rivivere, una incerta luce d’aurora.

La foresta di abeti, che grandeggia alla medesima elevazione dei faggi sui versanti dei monti, ma a una diversa esposizione, fa una impressione severa, per non dire triste. Si direbbe che essa abbia un terribile secreto da conservare: delle sorde voci escono dai rami, quindi si estinguono del tutto come il lontano rumorio delle onde. Ma è in alto, nei rami aerei, che si diffonde il rumore; al basso, tutto è calmo, impassibile, sinistro: i rami, carichi di nero fogliame, si incurvano sino al suolo; si prova un tremito passando sotto quelle volte oscure. Quando la neve peserà sovra quei rami robusti, non si piegheranno, non vacilleranno sotto quel carico ingrato, e lasceranno solo cadere sull’erba una polvere argentina. Si è quasi tentati di supporre, che quei rami abbiano una volontà tenace, tanto più valida perchè uniti allo stesso tronco e quasi associati nello stesso bisogno di crescere e di innalzarsi. Nel salire la montagna, attraverso la foresta, è facile accorgersi che gli alberi devono sempre più lottare affine di sfuggire agli effetti di una temperatura più fredda.

La corteccia è più rugosa, il tronco meno diritto, i rami più nodosi, il fogliame più duro e meno abbondante: se valgono a resistere alle nevi, alle tempeste, al freddo, ciò si deve in parte al mutuo appoggio che si offrono: isolati, perirebbero; associati in foreste, continuano a vivere. Ma quando avvenga che gli alberi, i quali formano la prima palizzata di difesa, verso la furia dell’uragano, in tutto e in parte cedano e cadano infranti, anche gli alberi vicini saranno tra poco scossi dalla bufera e rovesciati.

La foresta offre immagini di un esercito, e gli alberi sono disposti, come soldati, in linea di battaglia. Solo uno o due abeti, più robusti degli altri, occupano una posizione avanzata, come sentinelle perdute. Solidamente radicati nella roccia, abbarbicati con ostinata fermezza, corazzati di rugosità e di nodi come di un’armatura, tengono fronte alle burrasche, e scuotono baldanzosamente il loro fiocchetto di foglie. Ho veduto uno di questi eroi che si era impadronito di un punto isolato e di là dominava una immensa estensione di valli e di burroni. Le sue radici, che la terra vegetale, poco profonda, non aveva potuto coprire, avviluppava la roccia per un tratto considerevole, rampanti e tortuose come serpenti, si riunivano in un sol tronco basso e nodoso che si levava maestoso e formidabile, come se volesse prendere possesso della intera montagna. I rami de l’albero, lottatore indefesso contro le forze nemiche, si erano piegati, ma non spezzati, sotto l’impeto del vento, ancora fermi e stretti quasi in sè per maggiore resistenza, potevano sfidare la collera di cento uragani.

Al di là della foresta di abeti e della sua piccola avanguardia, esposta a tutte le bufere, crescono ancora degli alberi, ma sono di tale specie, che invece di elevarsi diritti verso il cielo, serpeggiano sul suolo e scivolano paurosamente nelle anfrattuosità per sfuggire al vento e al freddo. È in larghezza che si sviluppano i rami, serpentini come le radici, si ripiegano accanto di esse e profittano di quel po’ di calore che ne emana. Non altrimenti, per riscaldarsi, nelle notti invernali le pecore dormono a ridosso l’una dell’altra. Facendosi piccolo, cioè presentando minor superficie al freddo ed al vento, può vivere ad altezze considerevoli il ginepro: lo si vede strisciare verso le cime nevose molto al disopra dell’abete che pure osa avanzarsi tanto. Anche gli arbusti, come la rosa delle Alpi, possono giungere a ragguardevole altezza a motivo della forma sferica o cupolare dei gambi stretti fra di loro. Più in alto, tuttavia, la lotta contro il freddo diviene impossibile; gli arbusti cedono luogo ai muschi che si distendono sul suolo, e ai licheni, che fanno quasi un tutto colla roccia: uscita dalla pietra, la vegetazione per così dire vi rientra.

 

Gli animali della montagna

Ricca di foreste, d’arbusti, d’erbe e di muschi, la montagna è, relativamente, povera d’animali: sembrerebbe quasi del tutto deserta, se i pastori non vi avessero condotti i greggi di pecore e di mucche, che si vedono da lungi, sul verde dei pascoli, come punti rossi o bianchi; e se i cani di guardia, sempre vigilanti, non corressero senza posa in ogni senso, facendo risuonare la valle dei loro abbaiamenti. Ma sono abitatori temporari, che salgono dalle basse vallate in primavera, e che devono ritornarvi d’inverno, a meno che non vengano affollati nelle stalle dei villaggi, sparse alle falde della montagna. I soli figli della montagna, che s’incontrano salendo i pendii, sono gli insetti, che attraversano il sentiero, scivolando fra le erbe e ronzando nell’aria; delle farfalle, fra cui si notano le erbe[2] nere dai riflessi cangianti, e il magnifico apolline, fiore vivente che vola sulle profumate corolle; tratto tratto, qualche rettile scompare fra le pietre. Le foreste sono silenziose: mancano d’uccelli canori.

Tuttavia la montagna, fortezza naturale che si solleva nel mezzo delle pianure, ha pure i suoi ospiti: gli uni, timidi fuggitivi, che vi cercano un inaccessibile ritiro; gli altri arditi volatili, animali da preda, che, dall’alto dei loro covi, spiano lontano lontano l’orizzonte prima di calare alla rapina.

Cosa singolare, che fa comprendere troppo bene la viltà degli uomini, le bestie della montagna che ricevono maggiori omaggi sono appunto quelle che fanno maggior male: la leggenda assegna loro un posto speciale, il mito dà loro un carattere quasi divino, e dei vecchi libri di storia naturale ne magnificano gli istinti e gli atti rapaci: per lo meno si concedono loro dei titoli di nobiltà nella gerarchia degli esseri.

Ecco dapprima l’aquila ed altri rapaci, uccelli carnivori che quasi tutti i potenti della terra scelsero per emblema, assegnando persino ad essi due teste, quasi per esprimere il voto di avere, per più divorare, due becchi, come l’aquila bicipite austriaca. Per certo, l’aquila è bella quando ferma gli artigli sopra una roccia inaccessibile agli uomini, ed è magnifica quando si libra sicuramente nell’aria, sovrana dello spazio: ma che pregio ha la sua bellezza? Se il re l’ammira il mandriano la teme. È la nemica del greggie, e però il pastore si propone di giungerne i nidi più elevati e di sterminarla.

Tra non molto le aquile e gli avvoltoi non si vedranno che nei nostri musei; già, su molte montagne, non se ne trovano più; ovvero gli ultimi nidi non accolgono che uccelli solitari e diffidenti, invecchiati, spennacchiati, senza forza.

L’orso è un divoratore di pecore; e, prima o poi, il pastore ne spegnerà la razza. Ad onta della prodigiosa sua forza, dell’arte con cui sa maciullare le ossa, non è il favorito dei re e dei grandi: gli manca del tutto l’eleganza e quindi non è degno di figurare negli stemmi: per compenso, vi hanno delle tribù, che lo rispettano per certe sue doti; e il cacciatore medesimo, che lo insegue, non manca di riconoscere la sua superiorità ed il suo coraggio. L’Ostiako, che abita i lidi polari della Siberia, dopo di avergli dato l’estremo colpo e dopo di averlo steso tutto sanguinante sulla neve, dicono che si getti a ginocchio davanti al cadavere per implorare il suo perdono «Ti ho ucciso, è vero; ma avevo fame, la mia famiglia aveva pur fame». Ma se le tribù selvagge possono assegnarli una specie di culto, non è men vero che gli stessi uomini civili, sì deliberati nel dargli la caccia, gli rendono giustizia.

L’orso prova fortemente l’affetto della famiglia! È amorevolissimo verso gli orsacchiotti, che fanno mattezze intorno ad esso, salti e capriole senza fine. I suoi costumi sono davvero patriarcali; e se ne vive in ampia caverna, rivestita di muschio, in maestoso riposo. È vero, che di quando in quando, azzanna qualche pecorella sbandata; ma, di solito, sa vivere sobriamente; si accontenta di brucare delle foglie; tutt’alpiù scende nella vallata per addentare un po’ d’uva o delle pera, e non disdegnerebbe delle focaccie di miele.

Un naturalista svizzero, Tschudi, ci assicura, se pur gli si può credere, che, se il discreto e bravo animale incontra per via una fanciulletta con un paniere di fragole, si limita ad appoggiare delicatamente la zampa sul paniere per chiederne una parte! E se l’uomo lo prende al proprio servizio, com’è obbediente, di buon umore, magnanimo e sdegnoso, degli insulti. Non posso astenermi dal rimpiangere questo buon animale, che fra poco non si vedrà più nelle nostre montagne e di cui il cacciatore inchioda orgogliosamente le zampe sulla porta della sua capanna. Si estinguerà la specie; ma, non sarebbe stato miglior consiglio addomesticare il fortissimo animale e associarlo ai nostri lavori?

Rispetto al lupo, nessuno davvero piangerà quando potrà dirne che non esista più nei nostri paesi. Merita proprio la sua fama; è perfido, sanguinario e per giunta vile. Non pensa che a stracciare le sue vittime e a bere il caldo sangue che esce dalle loro vene. Egli non sa che odiare e tutti gli animali lo odiano: ma egli non osa che attaccare i deboli e i feriti. Ma frenesia della fame può solo spingerlo ad attaccare gli animali più forti.

Vedete con quale impazienza si precipita sulla preda già caduta e sopra un nemico che non può difendersi! Non si rispettano nemmeno reciprocamente; e se un lupo cade sotto la palla del cacciatore, ancora vivo, i compagni gli si gettano addosso per finirlo e disputarsi i suoi brani. Certo, Roma, la sanguinaria, ha associato alla sua gloria imperitura molti delitti; ha distrutte molte città, spenti migliaia e migliaia d’uomini; si è satollata delle richezze della terra; colla perfidia e colla violenza, è divenuta la regina del mondo antico; e tuttavia, ad onta de’ misfatti commessi, la simbolica lupa, che figura nella leggenda delle sue origini e nel suo stemma, esprime un complesso ancora peggiore di tendenze. Il popolo, le cui leggi governano tuttavia il mondo civile, era duro, inflessibile, feroce, ma non era poi così tristo come lo fa credere il simbolo che la leggenda dell’allattamento di Romolo e di Remo gli fece adottare.

A chi si delizia delle montagne, torna gradito sapere che il lupo, questo animale odioso e sovra ogni altro spregevole, è indigeno delle vaste pianure. La distruzione delle native foreste e il numero crescente dei cacciatori lo costrinsero a rifuggire nelle gole più remote; ma sui monti è pur sempre un intruso: la natura lo ha disposto a percorrere, in una sola corsa, cinquanta leghe attraverso le steppe, ma non a scalare i pendii delle roccie!

Ben altra attitudine a vivere in montagna ha il grazioso camoscio, l’antilope dei nostri paesi: la forma del corpo e l’elasticità dei muscoli gli permettono di balzare di roccia in roccia, di varcare con ardito salto i crepacci, di seguire senza tema l’orlo degli abissi, di giungere le cime più eccelse. Nessun pericolo lo sgomenta, nessuna profondità gli dà il capogiro, ed osa inerpicarsi su quei declivi di neve sdrucciolevoli, che salgono verso le creste più elevate. Supera con pochi salti degli scaglioni altissimi, sui quali il cacciatore più audace non osa spingersi; si slancia sovra delle punte sulle quali appena può tenersi, avvicinando le quattro zampe: è un animale di terra, eppure lo si crederebbe alato.

Inoltre è dolce e socievole; desidererebbe unirsi ai nostri greggi di capre e pecore; con poca fatica si potrebbe aggregarlo al piccolo numero dei nostri animali domestici: ma si preferisce sterminarlo, ciò che è poco utile e per nulla umano: e rimangono ormai pochi individui, che appena bastano alle ingloriose soddisfazioni di pochi cacciatori. Anche questo inoffensivo animale è destinato a scomparire: del resto, non val meglio morire che vivere schiavi?

Ancora disopra la zona frequentata dal camoscio, sovra roccie e declivi circondati da ogni parte dalle nevi, non cessa la vita animale. Vive fra gli altri animali, una specie di lepre, che sa con accorgimento mutar pellame giusta la stagione, per modo da confondersi in ogni tempo col suolo circostante. In tal guisa sfugge all’occhio accorto dell’aquila. D’inverno, quando i pendii sono coperti di neve, il suo pelo è candidissimo; di primavera, il bianco è picchiettato, sì da figurare le macchie di vario colore che compaiono sul niveo tappeto: d’estate ha il colore della pietra e dell’erba bruciata: poscia, al brusco mutarsi della stagione, di nuovo cangia in brevissimo tempo di pellame.

È anche più avveduta la marmotta, che passa l’inverno in una buca profonda, ove la temperatura si mantiene sempre costante, ad onta dei densi strati di neve che coprono il suolo; e, per dei mesi interi, sospende per così dire, la vita in un sonno letargico, fino a che il profumo dei fiori e i raggi primaverili la invitano a ridestarsi.

Ricorderemo, altresì, quel piccolo rosicchiante, il ratto campagnolo, sempre sveglio e sempre operoso, che s’incontra dovunque, e che ha l’ardire di attingere il sommo delle montagne, scavando dei cunicoli e delle gallerie al di sotto delle nevi. Coperto da quel freddo mantello, vive di quel povero nutrimento che può trovare sotto terra e se ne accontenta.

È tale la fecondità della terra, che essa perpetuamente produce miriadi di esseri, chiamati alla più dura battaglia, quella dell’esistenza; delle innumerevoli legioni di divoratori e di vittime, che impegnano di continuo la lotta nell’oscurità, a più di mille metri al di sopra del limite delle nevi perpetue.

Quello spettacolo, che mi aveva tanto disgustato nella pianura dell’accanimento con cui gli esseri si contendono il cibo o il guadagno, mi veniva ancora dinanzi a tanta altezza, sotto gli strati della terra rappresa dal ghiaccio.

Spesso, l’uccello di rapina si libra ancora più in alto, per trasferirsi dall’un vertice all’altro, per attraversare spazii ove appena giunge l’occhio dell’uomo, ovvero per abbracciare una più vasta distesa di paese e scoprire la preda. Le farfalle, le libellule infervorate dal desiderio del sole, s’elevano sino alla zona più elevata dei monti; e, non prevedendo il freddo della notte, non cessano di salire allegramente verso la luce: più frequentemente quelle povere bestioline, al pari delle mosche e di altri insetti, sono trasportate verso le più alte regioni dai venti impetuosi; e si veggono morte, sulla neve, confuse alla polvere.

Ma, oltre questi esseri stranieri, che, di buon grado o per forza, visitano le regioni del silenzio e della morte, ve ne ha di indigeni, che si trovano benissimo lassù: non sembra loro nè che l’aria sia troppo fredda, nè che il suolo sia agghiacciato. Intorno ad essi s’estende la triste immensità delle nevi: ma le punte della roccia, che, qui e là, spuntano, si possono paragonare a delle oasi nel mezzo del deserto: è là, fra i licheni, che trovano il nutrimento necessario per la loro sussistenza: ma fa davvero meraviglia che riescono a sfamarsi.

Ragni, insetti o miti[3] di neve, questi ed altri animaletti sapranno per certo che sia la fame, e forse i diversi fenomeni della loro vita si compiono con estrema lentezza.

Nell’impero del gelo le crisalidi devono rimanere assopite nel loro sonno, che si direbbe una morte apparente.

Non solo la vita si mantiene anche accanto alle nevi, ma le nevi medesime sembrano vive, dove, almeno, gli animaletti nascono a miriadi. Da lungi si scorgono, sul bianco tappeto, delle grandi macchie rosse o gialle. È la neve imputridita, dicono i montanari: sono, dicono gli scienziati, armati di microscopio, miliardi e miliardi d’esseri brulicanti, che vivono, amano, si propagano e si mangiano l’un l’altro!

 

La distribuzione dei climi

I naturalisti che percorrono la montagna, studiando gli esseri che vi hanno dimora, piante o animali, non si limitano a esaminare la specie nella sua forma e nei suoi attuali caratteri: vogliono altresì conoscere i limiti entro i quali vive, la sua distribuzione lungo i versanti, e la storia della razza. Considerano gli innumerevoli esseri della medesima specie, erbe, insetti o mammiferi, come un immenso individuo, di cui importa conoscere così gli stanziamenti sulla superficie della terra come la durata nella serie dei tempi.

Nel salire il versante della montagna, il viaggiatore osserva anzi tratto che sono assai poche le piante che gli tengono compagnia sino alla cima. Quelle che egli vide alla base e sopra i primi declivi, non le rivede più sui pendii più elevati; e se anche ne incontra qualcuna, scompaiono all’appressarsi delle nevi, per dare luogo ad altre specie. È un cambiamento continuo di forme e di colori a misura che ci avviciniamo alle cime più fredde. Anche quando l’albero delle colline inferiori continua a mostrarsi accanto al sentiero, che mette alle prime nevi non sembra più lo stesso; al basso è già sfiorito mentre lassù mette le prime gemme; al basso, è già trascorsa la sua estate, in alto risente il primo alito della primavera.

Non è già col metro che si può misurare la precisa altezza a cui l’una pianta non attecchisce più e l’altra comincia a mostrarsi. Mille condizioni di suolo e di clima, contribuiscono a spostare incessantemente, ad allargare o a restringere i limiti che separano il naturale dominio delle diverse specie. Quando cangia il terreno, quando la roccia succede alla terra vegetale o l’argilla sostituisce la sabbia, molte piante cedono il posto ad altre. Gli stessi cambiamenti avvengono se l’acqua rammollisce il suolo o se la terra è arsiccia, se il vento soffia nel pieno suo furore o se per fortuna incontra degli ostacoli, che scemano la sua violenza. All’uscita delle gole, ove maggiormente infuria la bufera, i declivi sono talmente flagellati dal potente soffio, che la vegetazione cessa o immiserisce ad un tratto, come là s’innalzasse un muro di ghiaccio. Altrove, la vegetazione si modifica giusta la maggiore o minore ertezza degli scaglioni della montagna. Sui dirupi verticali, non incontri che muschi, solo dei cespugli possono attaccarsi alle pareti molto inclinate dei precipizi; se il pendio è meno erto, quantunque ancora troppo ripido per l’uomo, gli alberi si arrampicano su le roccie o si attaccano colle radici ai crepacci e alle fessure del suolo; su le spianate, all’incontro, i tronchi si rialzano e il fogliame rinverdisce. La natura degli alberi varia, di solito, non meno della loro altezza. Colà ove la differenza dei declivi è causata da quella degli scaglioni rupinosi, che gli agenti atmosferici hanno più o meno intaccato, la montagna offre una serie di gradini paralleli di vegetazione, del più bizzarro effetto. Le pietre e le piante cangiano insieme, con una alternativa regolare.

Di tutti i contrasti della vegetazione, il più importante nel suo insieme è quello prodotto dalla disposizione ai raggi del sole. Quante volte, inoltrando in una valle di forma regolare e che abbia quindi versanti uniformi, l’uno volto al nord, l’altro esposto a perfetto mezzogiorno, si vede nel modo più spiccato come la differenza di luce e di calore modifica la vegetazione sovra i due pendii. Spesso la differenza è completa, si direbbero due regioni della terra, lontane parecchie centinaia di miglia l’una dall’altra. Da un lato gli alberi fruttiferi, i campi messi a coltura, le opulente praterie, rimpetto, non giardini, non colti, ma solo boschi e pascoli. Anche le foreste, che crescono di rimpetto, sovra i due versanti, si compongono di piante differenti. Lassù, sotto quel lume pallido diffuso dal cielo del nord, gli abeti dal cupo fogliame, sotto la chiarezza vivificante del mezzodì, si schierano a pieno agio e con lieto rigoglio i larici dal verde delicato. Al pari delle piante, che preferiscono svilupparsi ai raggi del sole, l’uomo presceglie per sua dimora i declivi posti a solatìo. Da questa parte, sono frequenti i villaggi, e le pittoresche capannuccie disseminate come punti grigiastri nella zona degli alti pascoli. Sul freddo versante, che si leva di rimpetto pochi abituri si celano, tra le pieghe di un burrone.

Differenti sono i declivi della montagna, per l’aspetto, il clima, la vegetazione; ma hanno tutti questo di comune, che nel salirli uno può credere di dirigersi verso i poli della terra; un centinaio di metri di altezza, corrispondono, per così dire a una cinquantina di chilometri di più dall’equatore. Quella vetta, che si vede a tanta altezza, al di sopra del nostro capo, ha una flora simile a quella della Scandinavia, che se l’oltrepassiamo per innalzarci ancora di più, si entra in Lapponia, e ad una altezza anche maggiore, si trova la vegetazione dello Spitzberg. Ogni montagna, è per la vegetazione, una specie di riassunto o frontispizio, se meglio vi piace, di tutto il paese che si estende dal luogo, ove la montagna medesima s’innalza, alle regioni polari, attraverso i continenti e le acque, si potrebbe riguardare come un emisfero capovolto. I naturalisti descrivono spesso, nei loro libri, la gioia mista a sorpresa che provano, quando, dopo avere scalate roccie nude, attraversate le nevi e viaggiato lungo dei crepacci spalancati, giungono al fine in uno spazio libero, in un «giardino» artico, le cui pianticelle in fiore ricordano qualche terra amata del lontano settentrione, forse la loro patria, collocata a migliaia di chilometri di distanza dal luogo ove attualmente si trovano. Il miracolo delle Mille ed una notte si è avverato per essi, colla fatica di poche ore di cammino, eccoli trasportati in un’altra vegetazione, sotto un nuovo clima.

Ogni anno, qualche disordine violento ma temporario, si nota nella distribuzione normale delle flore alpine. Passeggiando nel mezzo di recenti frane, o sugli ammassi di terre accumulate dalle acque torrentizie, il botanico nota spesso degli spostamenti nella distribuzione delle tribù vegetali. Sono fenomeni che interessano in sommo grado lo scienziato, il quale, meditando sulle piante, pone naturalmente grande affetto in questo studio. Ciò che lo commuove è vedere l’esilio forzato di erbe e di muschi, violentemente trascinati in un clima che non è adatto ad essi. Nello sdrucciolare o nel cadere dall’alto, i pezzi di rupe trasportarono seco la propria flora, sementi, radici, fusti e ceppi intieri. A quel modo che i frammenti di un pianeta remoto potrebbero per avventura depositare sulla terra gli abitanti di un altro mondo, queste roccie discese dalle alte cime, servono al trasporto di colonie di piante.

Le meschine meravigliate di respirare in un’altra atmosfera, di trovarsi in altre condizioni di freddo e di caldo, di secchezza e d’umidità, d’ombra e di luce procurano di acclimarsi nella nuova patria. Talune riescono a mantenersi tra la fitta schiera di piante indigene da cui sono circondate, ma le più si sforzano invano contro condizioni sfavorevoli; invano si stringono le une alle altre, povere reiette che tutto il mondo odia e che si amano vieppiù; sono condannate a perire ben presto. Assalite da ogni parte dagli antichi proprietari del suolo devono cedere loro il posto, le piante indigene hanno tutti i vantaggi per sè, mentre esse devono soccombere in una lotta superiore alle loro forze. Lo scienziato che le studia nel loro ambiente, le vede deperire a poco a poco: dopo alcuni anni, o alcuni mesi di dimora, le infelici colonie si compongono di un picciolo numero di sofferenti, poi anche questi se ne vanno. Non altrimenti, in molti paesi del mondo, delle colonie straniere scompaiono, prima o poi, in mezzo ad una popolazione ostile e sotto un clima micidiale.

Da che proviene questa singolare ripartizione delle piante sulla superficie del globo? Perchè delle specie originarie di contrade anche lontanissime sono sparse in piccole colonie sovra i solitari ripiani dei monti? Senza meno i semi di alcune di esse furono trasportati dagli uccelli o dai venti; ma la più parte di queste specie provengono da semi di cui gli uccelli non si nutrono, o che sono troppo pesanti per attaccarsi alle loro zampe, fra queste piante delle regioni fredde, che popolano la montagna, ve ne ha che nascono da bulbi, e certo nè il vento nè gli uccelli avrebbero potuto trasportarli al di sopra dei continenti e dei mari.

È quindi ragionevole pensare che le piante si sieno propagate l’una dall’altra, per allargamento graduale, come avviene nei nostri campi e ne le nostre praterie. I piccoli coloni, che si vedono adesso nei «giardini» circondati dalle nevi, sono giunti fino lassù salendo dai piani inferiori, mentre altre piante delle medesime specie, procedendo in senso orizzontale, si dirigono verso le regioni polari, ove sono attualmente acclimate. Non occorre dire che il clima delle nostre campagne era allora non meno rigido di quello delle cime più elevate e della zona boreale: ma, a poco a poco la temperatura divenne più dolce, le piante, abituate al duro alito iemale, dovettero ridursi, le une verso nord, le altre verso i pendii dei monti. Delle due bande di fuggitivi, separate da una zona sempre più larga, l’una, quella ritiratasi verso le montagne, vedeva lo spazio scemare dinanzi via via che il clima si faceva più dolce, occupò dapprima i contrafforti della base, poi i declivi medesimi, per ultimo le cime elevate, ed ora taluni individui scelsero per ultimo rifugio le creste supreme dei monti. Se il clima si raffreddasse di nuovo, a motivo di una rivoluzione tellurica, le pianticelle, che vincono le maggiori altezze, ricomincierebbero la discesa verso la pianura, non più in ritirata, ma in marcia di conquista, caccierebbero davanti a sè le specie che chiedono una temperatura più dolce. A norma dell’alternativa dei climi o dei ritorni ciclici, che si effettuano entro periodi smisurati di tempo, le legioni delle piante avanzano o indietreggiano sulla superficie del globo, lasciando dietro di sè delle bande di ritardatarii, che indicano ancora la via percorsa dalla schiera principale.

Lo stesso movimento si nota, chi nol sa, fra gli uomini, non che fra gli animali! Durante le oscillazioni del clima, dei popoli di differente stirpe, che non potevano adattarsi ai cambiamenti climatici, procedettero lentamente verso il nord o verso il sud, cacciati dal freddo o dall’eccessivo calore. Sventuratamente la storia, che non era ancora nata, non ha potuto serbare il ricordo di queste primitive migrazioni, le quali erano pure motivate da interessi economici o da passioni guerresche o da altre cagioni. Delle intere tribù mutarono sede e anche adesso vanno di luogo in luogo senza saperne il motivo, sospinte da una forza operosa che non concede loro riposo. È fama che una tribù dell’Africa levi le tende ogni volta che viene visitata dalla morte, quasi che si illuda di potersi sottrarre alla tremenda e insieme provvida legge di tutte le cose. I popoli serbano un vago ricordo di queste antichissime mutazioni di sede e di solito novellano di essere stati scorti[4] da una stella o da una colonna di fuoco, o di aver seguito il volo d’un aquila, e anche di avere avuto per duci degli eroi divinizzati o le medesime divinità del loro Olimpo.

Se la storia è muta o almeno scarsa di notizie, intorno le marcie o le contromarcie, effettuate dai popoli a motivo dei rivolgimenti climatici, più esplicito è il linguaggio della natura, solo che si osservi due opposti versanti d’una montagna, dove è facilissimo riconoscere come la differenza degli uomini risponda alla differenza della temperatura e dell’ambiente. Quando, nei due opposti declivi del monte, la differenza climatica è poco sensibile, sia perchè la direzione di tutta la linea delle cime è da nord a sud, sia perchè venti analoghi per origine ed umidità vengono ad irrigare i due versanti, allora gli uomini della medesima stirpe possono spargersi liberamente da una parte e dall’altra, applicarsi alle stesse colture, alle stesse industrie, adottare gli stessi usi e i medesimi costumi. Ma se la montagna e tutta la serie delle creste che vi si connettono da una parte e dall’altra, hanno l’un versante rivolto verso il nord e i suoi venti freddi, mentre l’opposto pendio è inondato dal dolci raggi del mezzodì, ovvero, se da un lato, il vapore marittimo dà origine a copiosi torrenti, mentre dall’altro versante i burroni rimangono sempre asciutti, in questo caso, i due declivi offrono le maggiori differenze di flora di fauna ed anche notevoli contrasti per ciò che risguarda l’uomo. Ogni passo che fa il viaggiatore al di là della cresta, gli presenta una natura del tutto nuova, egli inoltra in un nuovo mondo, ove le scoperte si succedono alle scoperte. Ora si ferma dinanzi un’erba odorifera, che non aveva mai veduta, ora osserva un arboscello, che gli è ignoto; una farfalla di colori inusati gli vola intorno, e mentre studia delle nuove specie di piante o di animali, cerca di formarsi un’idea del nuovo paesaggio, almeno nei principali suoi tratti, gli si fa incontro un pastore, è l’uomo d’un’altra razza e d’un’altra civiltà, anche la sua lingua è diversa.

Mentre divide due zone climatiche, la cresta della montagna divide spesso due stirpi, ciò si verifica specialmente nei paesi, ove la conquista non ha brutalmente mescolati popoli di diverso linguaggio, ma, ad onta della violenza, la natura tende a rimettere ciascun popolo entro i suoi naturali confini. La storia dell’Italia è una luminosa conferma di questa verità! Quante volte Tedeschi e Francesi per tacere di altri popoli, allettati dalla fecondità del suolo, dall’opulenza delle città, dalle incomparabili bellezze di natura, si precipitarono in bande armate sui verdeggianti piani, che si estendono fra una duplice seducente marina. Ma ad essi non valse nè l’incendiare nè il saccheggiare, nè il distruggere: non la lunga dimora su quelle terre, malamente acquistate, non la commistione dei sangui, non la fondazione per opera loro di regni e principati, la popolazione nativa rimase lungamente schiacciata e serva, ma conservò il proprio tipo e custodì gelosamente il desiderio della rivincita. Venne il giorno, benedetto, in cui questi stranieri, dovettero transalpinare, restituendo la patria, iniquamente violata agli amorosi suoi figli.

E però le montagne, rialzi appena sensibili, se li paragoniamo alla superficie terrestre, barriere che l’uomo può superare in un giorno o poco più, hanno una singolare importanza storica come frontiere tra popolo e popolo. Esercitano quest’ufficio, nella vita dell’umanità, mercè l’altezza, l’ertezza, la mancanza di vie, la massa delle nevi e delle roccie nude, la difficoltà insomma del passaggio, ma anche più lo esercitano mercè l’influsso diverso da esse prodotto sopra i due versanti, per cui vivono lungo i medesimi dei popoli differenti e talora nemici fra di loro. La storia del passato ci offre molte conferme in proposito, ogni limite posto dalla natura tra i popoli, mercè un ostacolo non facilmente superabile, altopiano, montagna, deserto o fiume, doveva naturalmente costruire una frontiera morale e politica tra gli uomini: come nei racconti delle fate, si legge di muraglie invisibili, o di castelli incantati, eretti per difesa contro i nemici. L’uomo che calava alla conquista dai monti non era solo uno straniero, era un nemico. I popoli si odiavano, ma a volte un pastore, vivendo al disopra d’ogni mondana passione e forse migliore d’ogni altro uomo, cantava con dolcezza qualche ingenua parola di pace e di concordia. Lui, almeno, sapeva vivere fuori d’ogni conflitto, a quell’altezza ove non giunge il rumore della battaglia, lui sapeva, contemplando il cielo, dimenticare o ignorare le miserie di quaggiù, e il suo cuore si faceva una patria ideale, che si estendeva sovra l’uno e l’altro versante della sua montagna. Delle vecchie canzoni dei montanari attestano il trionfo di questo sentire, che non tiene conto degli odii nazionali, anzi li attuta completamente nel culto della natura.

 

Il libero montanaro

Non solo la posizione, ma anche la configurazione dei paesi ha, come tutti sanno, una grande influenza sulla storia: la direzione e la forma dei monti, la direzione delle vallate, e molte altre circostanze producono degli effetti ragguardevoli, sia sul carattere, sia sulle occupazioni dei popoli, sulle loro migrazioni, sui loro conflitti, in una parola sulla loro vita storica e economica. Non altrimenti, per riferire il primo esempio che ci soccorre alla mente, una topinara, nel mezzo di una prateria, fra un nugolo di animaletti che vanno e vengono senza posa, per fornire chi sa quale viaggio o lavoro, basta a sviare quella lunga e fitta schiera di piccoli emigranti, che prendono tutt’altra direzione.

Mentre la montagna coll’enorme sua massa divide le nazioni, che si affollano intorno, serve anche a proteggere gli abitanti, di solito poco numerosi, che sono venuti a cercare un asilo tra le sue vallate. Essa li accoglie, li difende, li fa suoi, dà loro dei costumi speciali, un carattere proprio; fa che si applichino ad un particolare tenore di vita e ad un particolare lavoro. Qualunque sia la sua schiatta originaria, il montanaro è divenuto ciò che è mercè l’influenza dell’ambiente che lo circonda; la fatica delle scalate e delle penose discese, la semplicità del nutrimento, il rigore del freddo, la lotta contro le intemperie lo hanno agguerrito, lo hanno reso diverso e in alcune cose superiore rispetto agli altri uomini; gli hanno dato un contegno, una gagliardia, una spigliatezza di movimenti che in genere non posseggono gli abitanti della pianura. Aggiungi a ciò un modo di pensare e di sentire, che ha, di solito, maggior forza: i vasti orizzonti infondono nell’animo del montanaro, se non c’inganniamo, quella serenità e quella tendenza religiosa che si notano nel marinaio. Lo spirito d’intraprendenza, associato a un forte amore per la libertà, sono altre doti dell’abitatore della montagna: e però molti luoghi delle Alpi e di altre catene, furono illustrati da straordinarie imprese e dalle prove del più ardente patriottismo.

Uno dei motivi, che maggiormente valse a conservare l’indipendenza di alcune tribù montanare, può ravvisarsi in ciò, che sui monti, la mutualità dei servigi e il lavoro in comune sono più che altrove necessarii. – Uno per tutti e tutti per uno, questa è la massima che occorre più frequentemente di applicare: anche il mandriano, che sale le più alte pendici per guidare al pascolo le mandrie, e lassù vive per molti mesi isolato, è necessario alla prosperità generale. Se accade un disastro, è d’uopo che ciascuno s’adoperi per ripararlo: durante le più crudeli invernate, tutti lavorano a spazzare via le nevi: quando la pioggia rovina i campi disposti a giardino sul pendio, tutti s’occupano di rimettere a luogo la terra sfranata: giacchè lo scarso raccolto è appena bastante a sfamare il villaggio, e quello che uno fa oggi a prò del vicino potrà forse essergli ricambiato domani.

Il torrente disalveato ha coperto le praterie di ciottoli; ma eccoli tutti in moto, anche i vecchi e i fanciulli a liberare l’erba da quell’ingombro, che la schiaccia. D’inverno, quando è pericoloso avventurarsi sulle nevi, i montanari fanno assegnamento sulla reciproca ospitalità: si considerano tutti della stessa famiglia, e si amano come fratelli. E però, se mai vengono attaccati, resistono di comune accordo, mossi, per così dire dallo stesso pensiero. D’altra parte, quella vita d’incessanti lotte, di vigilanza continua, non che di difesa contro pericoli che li minacciano o che realmente si presentano ad ogni poco, l’aria vivida e pura che respirano, la sobrietà del vitto, la temperanza del costume, gli amori gagliardi e pugnaci, per tacere di molte altre circostanze, tutto concorre a renderli arditi, battaglieri, capaci d’ogni sacrificio; e, per la difesa della patria e della casa, pronti a dare mille volte la vita. Pacifici lavoratori, non disturbano i vicini ma se vengono assaliti, sanno difendersi.

La montagna procura facili mezzi di opporsi contro qualsiasi nemica invasione. Le valli sono, per solito, difese da angusti passi, ove bastano pochi uomini per arrestare delle intere bande di nemici. Delle fertili spianate si celano fra pareti, che si direbbero insuperabili. Dei villaggi sono edificati sopra cocuzzoli, ai quali non si giunge che per angusti sentieri: sono difesi, quasi da ogni parte, dall’abisso. In molti luoghi, la montagna presenta delle caverne, comunicanti le une colle altre, e che possono offrire un sicuro nascondiglio.

Lungo la parete di un ristretto passaggio, ove spingevo spesso le mie solitarie passeggiate, mi fu dato scoprire uno di questi ricoveri o fortilizii nascosti. Fu con molta fatica che ne raggiunsi l’ingresso, attaccandomi alle anfrattuosità della roccia e afferrando gli scarsi cespugli e virgulti, che aveano potuto radicarsi nelle fessure; ma quanto più difficile poteva essere quella scalata per dei nemici! Dei blocchi, ammucchiati all’ingresso della grotta, potevano essere spinti al basso, e già mi figuravo di vederli sbalzare di punta in punta giù giù fino al torrente. Da ogni lato dell’ingresso, la roccia, del tutto verticale e levigatissima, per cui nemmeno un serpente avrebbe potuto strisciarvi sopra; al di sopra, il dirupo d’una mole spaventevole, nero, così sporgente e quasi staccato, che pareva imminente la sua caduta, proteggeva, come un portico gigantesco, l’apertura. Inoltre una specie di muraglia la chiudeva per metà. La grotta era quindi imprendibile, a meno che non si avesse potuto ricorrere ad una sorpresa.

I nemici dovevano limitarsi a sorvegliarla da lungi; ma quando non ne usciva più alcun rumore, quando si poteva credere che i ricoverati fossero morti di fame, e il nemico si avvicinava per contare i cadaveri, trovava, spesso, le gallerie sotterranee del tutto vuote. I montanari, pei quali la montagna non ha segreti, avevano potuto scivolare da grotta a grotta fino ad un’altra uscita, forse nota a pochissimi e celata da intricati e folti cespugli. La preda era fuggita; e però si doveva ricominciare la caccia. Purtroppo, la lunga insistenza trionfa spesso della più cauta e più costante difesa, e non sempre la preda sfugge al crudele cacciatore: ma niuno può frodare al montanaro la gloria di saper resistere sino all’estremo.

Dove la montagna non offre delle caverne difensibili, presenta dei picchi isolati nella valle, o una rupe dalle pareti verticali; ed ivi ricoveravano e si fortificavano i più coraggiosi, i più deliberati a tentare la prova estrema. Tagliato a picco dai tre lati che lambe il torrente, quel picco non è accessibile che da un solo lato: e da questa parte i montanari, pei quali il formidabile acrocoro poteva servire di specola o di torre di rifugio, non avevano che a continuare il lavoro cominciato dalla natura. Essi tagliavano la roccia, la rendevano impraticabile a piede umano e non lasciavano che un solo ingresso sotterraneo scalpellato nello spessore del masso. Quando si riducevano, per osservazione o per difesa, in quel naturale fortilizio, abbarravano l’ingresso con un macigno, e si potevano considerare come fuorchiusi dal mondo: solo gli uccelli potevano far loro visita. Per dire il vero a questa cittadella aerea tornava inutile qualsiasi ornamento architettonico. Tuttavia, sull’orlo del precipizio, soleva il montanaro costruire un muro merlato, per modo che i fanciulli potessero giuocare senza pericolo sulla piattaforma, ed anche per poter lui spiare meglio dall’alto i movimenti dal nemico. In molte contrade montuose dell’oriente, nelle cui valli vivono popoli forse da secoli in guerra fra di loro, e dove si combatte per abitudine e si uccide anche per giuoco, ve ne hanno ancor molti di questi fortilizi, sospesi sulle rupi come nidi di aquila, e si continua ad abitarli. Quando un ospite giunge alla base della rupe, manda un grido di chiamata. Poco dopo una cesta discende da una botola aperta nella roccia; il viaggiatore vi siede, e le robuste braccia dei suoi amici innalzano lentamente il pesante corbello, che volteggia nell’aria.

Se le roccie scoscese delle valli elevate servirono a difendere le popolazioni da ogni incursione straniera, di rimando le rupi dalle prealpi e le collinette, che sorgono isolate nelle pianure, servirono di vedette o di covi a dei feroci baroni, il cui principale studio era quello di assalire i pacifici viandanti e devastare il paese vicino.

Non pochi villaggi, anche del nostro paese, sono fabbricati in modo, che si capisce che la guerra vi è stata frequente, pure in tempi assai vicini ai nostri: vi si traeva una vita poco sicura per certo e si poteva attendere, d’ora in ora, qualche assalto. Dove ha maggiormente imperversato la rissosa feudalità, non si vede, in montagna una sola casa isolata; all’incontro i casolari si raggruppano, come montoni sbigottiti dalla bufera, e formano, veduti da lontano, un solo cumolo di nere pietre. Dal basso sembrano, nè più nè meno, una continuazione della roccia, una merlatura della cima ora scintillante di luce, ora avvolta nelle ombre. Vi si arriva percorrendo dei sentieri vertiginosi, che all’alba i montanari discendono per coltivare i sottostanti campi, e risalgono faticosamente la sera dopo il lungo lavoro della giornata. Una sola porta dà ingresso al villaggio, e sulle torricelle laterali sono ancora visibili le traccie della saracinesca e di altri mezzi di difesa. Nessuna finestra si apre verso l’immenso anfiteatro dei monti circostanti; non si veggono da quella parte che delle feritoie, le quali permettevano la difesa e l’offesa con minor pericolo. Anche adesso, i nepoti di quegli uomini sempre minacciati, non sanno indursi a vivere all’aperto, hanno contratta l’abitudine del vivere recluso e diffidente. Potrebbero costruire i casolari nel mezzo delle praterie e dei campi coltivati; ma l’uso, questo tiranno a cui tutti obbediscono, li costringe ancora a vivere nell’antica prigione; e nemmanco si lamentano, forse, del disagio e dell’aria meno respirabile.

Le alte valli della montagna erano libere, liberi gli abitanti; ma, al di là delle anguste gole, dentro le quali gli aggressori non avevano mai potuto, impunemente, mettere piede, un promontorio quasi isolato superbiva, per solito, di un castello baronale. Di lassù, il blasonato brigante, diffamato da’ suoi delitti e da quelli dei suoi antenati, poteva sorvegliare le vicine spianate, non che i burroni e le strette della montagna. Come un serpente che si avvolge intorno un sasso e rizza la testa inquieta per fissare un nido di uccellini, il nobile masnadiero guarda dall’alto della sua torre: non osa assalire i montanari nella loro vallata inviolabile; ma si propone, in compenso, di sorprendere e di malmenare i viaggiatori, che attraversano le strade vicine.

Il castello del nobile, che già maltrattava i viandanti e lucrava sui riscatti dei più ricchi, è adesso in piena rovina. Un sentiero sassoso, ingombro di rovi, mal ricorda la strada sulla quale i guerrieri, al momento della partenza, facevano gioiosamente caracollare i cavalli, e che veniva risalita dalla dolente schiera dei mercatanti incatenati e da una lunga fila di somari carichi di bottino. Dove calava rumorosamente il ponte levatoio, la fossa venne riempita di pietre; il vento o il piede de’ passanti vi deposero un po’ di terra vegetale, che pur basta ad alimentare magra vegetazione. Le mura sono quasi del tutto sfasciate; enormi pezzi si vedono sparsi sul suolo: più in là, delle frane di pietre, cadute nel fossato, ne colmano in parte i piccoli stagni, sui quali si distende un fitto tappeto di lenticchie palustri. La gran corte, nella quale un tempo si raccoglievano gli uomini d’arme, per disporsi a qualche ladroneggio, è ingombra di ruderi; in più punti franata; si cammina con diffidenza fra le alte erbe e i cespugli spinosi; si teme di toccare qualche vipera appiattata tra due pietre o di cadere in qualche trabocchetto ancora spalancato. Si va quindi innanzi con precauzione, osservando ove si mette il piede. Meno male che il pozzo è ancora circondato dal suo muretto. Ci appoggiamo al medesimo con una specie di terrore; spingiamo l’occhio in quel vuoto tenebroso, ma invano tentiamo di vedere il fondo attraverso le erbaccie che tappezzano le pareti. Forse, in quel buio indistinto, ci pare che tremuli un tenuo lume, un raggio quasi smarrito e di cui non si conosce la provenienza; e ci pare anche di udire un mormorio soffocato, che sale dal profondo verso di noi. Che è mai questo suono confuso, che si direbbe un lamento? è forse una corrente d’aria imprigionata, che cerca un’uscita. È una sorgente la cui acqua geme attraverso le pietre e cade a goccia a goccia? È una salamandra che strisciando nell’acqua la sommuove? Chi lo sa? Una volta, dice la leggenda, i rumori confusi che salivano dal pozzo erano i gridi di disperazione e i singhiozzi delle vittime. L’acqua salmastra, imbevibile, riposa sopra un letto di ossa umane.

Ritiro con sforzo lo sguardo dal gorgo che mi affascina, e lo volgo verso la massa quadrata del torrione, che spicca in piena luce. Le torricelle sono cadute, ma la parte principale del castello ha in parte resistito al tempo e mostra ancora alcuni merli della sua corona. I muri ingialliti dal sole, sono ancora puliti come il giorno, nel quale il signore banchettò per la prima volta nella gran sala: non vi si vede una screpolatura; sono intatti e saldi, come se attendessero il primo assalto; solo le inferriate e gli schermagli delle anguste finestre, che servivano anche da feritoie, disparvero. A cinque metri d’altezza, s’apre nello spessore della muraglia, quel vano, che fu già la porta: una larga pietra ne forma la soglia, e il sommo dell’arco ogivale è adorno d’una scultura grossolana, cioè lo stemma baronale e un monogramma spesso bizzarro. La scala mobile, che s’appoggiava alla porta, più non esiste e l’archeologo, che volesse decifrare il motto orgoglioso scolpito sulla pietra, dovrebbe, senza meno, procurarsi una scala. Per introdursi nell’interno della torre, i contadini ricorsero ad un mezzo più comodo, aprirono un piccolo ingresso nel muro all’altezza del suolo. Fu, per certo, un lavoro un po’ faticoso; ma chi sa, vi si saranno accinti di buon cuore per fare qualche offesa a quell’odioso edificio, ove molti compaesani erano stati torturati o condannati a morire di fame: o vennero spinti a ciò come è più probabile, dalla speranza di scoprire un tesoro nascosto.

Non senza un po’ d’apprensione oso penetrare nell’interno attraverso questa porticina o breccia; provo un senso di freddo ai primi aliti dell’aria umidiccia non mai riscaldata dal sole, che si muove fra quelle tetre pareti. Tuttavia la luce piove dall’alto fino al fondo della torre; il tetto è crollato; i tavolati, andarono, forse, consunti da qualche incendio, e ancora restano, incastrati nel muro, delle travi annerite. Tutti questi avanzi, pietre, legname, ceneri, si sono mescolati formando una poltiglia che l’acqua piovana, che entra nella torre come in un pozzo, mantiene sempre umida. Un fango lubrico copre il molle terriccio, su cui il piede procede con repugnanza e sdrucciola frequentemente.

Mi par già di essere chiuso nell’orribile prigione; respiro con disgusto un’aria mefitica. Eppure quest’aria è relativamente pura paragonata a quella, davvero pestilenziale, che esce dalle fosse e dai trabocchetti. Mi piego alquanto verso queste voragini e cerco di vedere qualche cosa, ma non vi riesco. Occorrerebbe un occhio acuito dalla lunga oscurità per distinguere quel po’ di lume che oscilla nelle tenebre. Pozzi spaventevoli! Chi sa quante vittime vi perdettero la vita; questo pensiero m’agghiaccia, e devo, per rimettermi in calma, sollevare lo sguardo verso l’azzurro del cielo, che mi appare al di sopra delle grosse muraglie del torrione. Una civetta spaventata vola in alto gettando l’acuto suo grido.

Una scala praticata nello spessore del muro permette di salire sino alla cima. Parecchi gradini sono logori dal tempo, per cui la scala in molti punti è piuttosto un piano inclinato, sul quale è difficile fermare il piede: ma appoggiandomi alle pareti, attaccandomi agli sporti, non senza cadere più volte, potei giungere al sommo della muraglia, ancora guernita di merli.

C’è spazio sufficiente, e non corro pericolo di sorta; tuttavia non oso quasi muovermi per il timore di essere colto da vertigine. Mi trovo come sospeso fra cielo e terra, nella regione degli uccelli e delle nuvole; e da ogni parte mi si spalanca davanti l’abisso. Da un lato è la voragine nera della torre; dall’altra la montagna stessa, le roccie e i declivii illuminati dal sole. Il promontorio, su cui s’innalza il torrione, si direbbe un’altra torre, senza confronto più massiccia, di parecchi centinaia di metri d’altezza; e il torrente, che rumoreggia ai suoi piedi, vi fa intorno per difesa una specie di fossato. Si riferisce che uno dei vecchi signori del luogo si prendeva, a volte, il diletto di far precipitare i suoi prigionieri nel torrente dal punto più elevato del torrione. Riservava ai nemici più odiati una lenta agonia nei pozzi dei trabocchetti: mentre i prigionieri, verso i quali non nutriva particolare risentimento, potevano, almanco, dar saggio di coraggio sbalzando dalla torre nel sottoposto abisso. Quei baroni feroci, abituati alle stragi, non avevano quasi più nulla di umano; era per loro un giuoco vedere spasimare un proprio simile per acutissimi dolori; e lo spettacolo della morte, qualunque esso fosse, dava loro il piacere che i gladiatori, combattenti fino all’estremo nei circhi di Roma, procuravano ai dominatori della terra.

Ai piedi della rupe si aggruppavano in disordine le umili casupole dal tetto d’ardesia o di stoppa, ove i servi si raccoglievano, tremanti al cenno del superbo padrone. Che mutazione s’è operata nel mondo, non solo nelle istituzioni e nei costumi, ma anche nel carattere dell’uomo, dal giorno in cui il signore teneva tanti servi sotto il suo piede, e poteva sbigottirli col solo sguardo; dal giorno in cui l’erede del suo nome cresceva fra questa plebe di schiavi, e poteva dire: «Mi appartengono; posso farne ciò che meglio mi talenta!» Se anche egli fosse stato dotato di miti sentimenti, il figlio del barone, l’erede di tante ricchezze e di tanto potere, non poteva per avventura sottrarsi ad un senso malsano d’orgoglio, nello abbracciare collo sguardo una sì grande estensione di terre; nel contemplare dalla feudale torricella il villaggio, spaurito sotto l’assidua minaccia del signore; nel vedere quei miseri servi, mal vestiti, abietti, reietti, brulicanti in mezzo al concime e al sudiciume. Quando pure avesse potuto pensare che ogni uomo ha pari diritto alla felicità, quando pure il desiderio dell’eguaglianza e della giustizia avesse potuto vincere per un istante i pregiudizi castali, bastava, forse, che egli paragonasse la sua posizione a quella dei servi che lo attorniavano, per convincersi della propria superiorità e quasi per attribuirsi una origine diversa. Per rendere omaggio all’umiltà e all’uguaglianza non nella fase del godimento, sibbene in quella della disperazione e dei rimorsi, era d’uopo che egli fuggisse il paterno castello, e andasse a celarsi in un remoto convento, o facesse nelle chiese lunga ammenda dell’orgoglio e dei misfatti commessi.

Ai tempi nostri, i discendenti degli antichi feudatari hanno mutato parte; tanto meglio per essi e per tutti; non devono più cingersi d’armati, non vivono fra le plebi rurali come tirannelli, ma piuttosto come protettori ed amici. Tutt’al più devono esercitare un certo imperio per giovare l’agricoltura, per fare del bene: che se posseggono delle vaste officine, i valligiani stanno loro intorno, come gli operai intorno al capitalista. La villa, che l’attuale barone si fece costruire sul pendio d’un colle, neppur si vede, forse, da lontano. È celata da grandi alberi; e i villaggi, che sono sparsi nella valle, non formano quasi più una diretta e umile dipendenza del castello, ma servono ad abbellire il paesaggio. Il castellano non è più lo spavento dei luoghi vicini; non minaccia più alcuno e quindi non ha nulla da temere. Perchè vivrebbe ancora, come il falco, nel covo di una rupe? Preferisce un poetico isolamento, ove gli sia concesso di godere in pace della natura.

Già da molto tempo castello e villaggio hanno cessato di formare un mondo a sè; volenti o nolenti sono entrati in un mondo più grande, in una società nella quale le lotte hanno un carattere più elevato, uno scopo più serio, e il progresso che si raggiunge è senza paragone più esteso. Il piccolo principato, di cui il feudatario era il padrone assoluto, non è, adesso, che un modesto mandamento o circondario; e il nipote degli orgogliosi baroni non indossa più maglia nè corazza, non guida più le schiere alla battaglia, e più non esercita i diritti di alta e bassa giustizia. Forse egli rimpiange i privilegi, di cui godeva un giorno, e procura di serbarne alcuni, non foss’altro in apparenza; forse si adatta pienamente alla nuova vita che deve condurre, e non gli dispiace di andare confuso alla rimanente cittadinanza, e di esercitare i diritti e i doveri di tutti. Ad ogni modo, i tempi sono sostanzialmente cambiati; e che resta delle fatiche di quei fieri uomini? Poco hanno giovato a sè, molto più, forse, alla potenza di principi o di re scomparsi anch’essi. I trionfi della forza sono passeggieri: mentre a que’ prepotenti riusciva di spingere la loro signoria fino sulle più alte creste dei monti, violando le franchigie montanare, alla loro volta doveano sostenere l’urto dei vicini, ancora più forti; e così via via il cozzo degli interessi e delle armi si estendeva per un lungo tratto di paese.

Un nome bizzarro, che ricorre spesso in montagna, mi fece pensare a queste cose del passato. In un burrone, scintilla da lungi, come un piccolo diamante mobilissimo, una sorgente, che forse non si vedrebbe nemmeno se il sole non vi dardeggiasse i suoi raggi, che scherzano nell’acqua. Mi avvicino; delle foglie di crescione si piegano e si rialzano sotto l’onda argentina che passa: intorno pispigliano gli uccelletti e l’erba, che bagna le radici nell’acqua nascosta, ha ben maggior vigore dell’erba arsiccia della vicina prateria: gli steli sono diritti, folti, d’un verde scuro e umido, e mille fiorellini ingemmano la fronte. Quel piccolo tappeto, discernibile anche a distanza, a motivo dei colori più vivaci, sul versante grigio e in gran parte abbruciato della montagna, è la «Fontana dei tre signori.»

Da che deriva questa singolare denominazione? Come mai una sorgente così povera ha preso il nome di tre potentati? La leggenda racconta, che, in un’epoca antichissima, quando i fortilizi cinti di fossati o di altre difese naturali incoronavano tutte le rupi all’ingiro, tre conti, che pel momento non attendevano alla guerra, ebbero un incontro di caccia nelle vicinanze della piccola fonte. Affaticati dalla lunga corsa per inseguire i cervi o i cinghiali, il sudore imperlava la loro fronte. La turba de’ valletti s’affaccendava intorno ad essi ed offriva a gara il vino e l’idromele; ma quel tenue filo d’acqua, che esce dalla fenditura della roccia, tornò loro più accetto d’ogni liquore versato in tazze d’argento. Uno dopo l’altro, si piegarono sul piccolo bacino della fonte, scostarono le erbe ondeggianti sulla superficie dell’acqua e bevettero alla stessa fonte come semplici pastori o come cerbiatti della montagna. Poi si stesero la mano in segno d’amicizia; e, sedendo sull’erba, si misero a discorrere allegramente. Il tempo era bello, il sole era già tramontato sull’orizzonte, delle nubi sparse gettavano delle grandi ombre sulle messi gialliccie della pianura; delle leggere colonne di fumo si innalzavano, qui e là. I tre potenti erano di buon umore. Sino allora, i vasti loro dominii non aveano avuto precisi limiti nella montagna; da quel giorno decisero, che la sorgente, che li aveva dissetati, fosse il punto di confine delle tre contee. L’una dovea estendersi lungo la riva destra, l’altra lungo la riva sinistra del ruscello; i dominii del terzo signore doveano estendersi dalla sorgente al sommo della montagna, e quindi sull’opposto versante. A conferma del trattato, che era stato concluso, i tre signori spruzzarono con un po’ d’acqua della fontana il confine delle tre contee.

Ma, pur troppo, la bella concordia durò poco; e i tre nobili conti tornarono presto alle offese. Vassalli, borghesi e contadini si sgozzarono nelle foreste e nei dirupi per spostare anche di poco i limiti delle tre contee. La pianura fu devastata; e, per il corso di molte generazioni, torrenti di sangue vennero versati per il possesso di quel filo d’acqua che sgorga dalla rupe.

Alla fine, la pace è fatta; e se la guerra ricomincia, non è più fra i tre baroni o per la conquista di una fontana, ma fra potenti sovrani e per il possesso di vasti territori con montagne, foreste, fiumi e città popolose. Non più poche bande male armate si trucidano, ma centinaia di migliaia d’uomini, provvisti di mezzi scientifici di distruzione, si affrontano in giusta battaglia, governata dal genio. Certo è a desiderare che la guerra scompaia definitivamente dalla terra; ma non si può negare che il mondo non abbia anche in questo progredito: non sono più possibili gli orrori e le brutalità d’una volta.

Quanto sono felici le popolazioni, che vivono ritirate nelle alte valli, e che ebbero mai a soffrire i danni della guerra; o che almeno, ad onta del flusso e riflusso degli eserciti in movimento, hanno saputo conservare la propria indipendenza. Molte popolazioni di montagna, protette da catene elevatissime, ebbero la grande soddisfazione di rimanere libere: e ciò devono non solo all’eroismo dell’animo, al vigore del braccio, alla concordia dei propositi, ma anche alla fortezza dei luoghi. Le grandi montagne furono, spesso, il sacro asilo e il propugnacolo insuperabile dei liberi pensieri e delle libere armi.

Il cretino

Accanto a cotesti uomini fortissimi, a cotesti valorosi dal petto saldo, dallo sguardo penetrante, che si arrampicano con fermo passo sui dirupi, vedi trascinarsi degli esseri che destano compassione, i cretini dai gozzi pendenti. E ve ne ha, fra questi, che neppur possono camminare: rimangono tutto il giorno seduti, coperti di cenci, oggetto più che altro di ribrezzo ai passanti; incapaci di formare, forse, un solo pensiero che sia giudizioso; agitando la pesante testa e muovendo a fatica il corpo contraffatto. Più infelici ancora quelli che non hanno l’uso delle braccia, e che si devono imboccare, come si fa coi bambini e coi malati; e fortuna se trovano delle persone amorevoli, le quali sappiano vincere l’avversione che di solito ispirano per dedicare loro delle cure sollecite, indulgenti, meritorie. Ecco gli ultimi rappresentanti dell’umanità, «la cui faccia è stata fatta per contemplare gli astri!» Che spazio immenso fra la testa ideale dell’Apollo delfico e quella del povero cretino dallo sguardo spento e dalla bocca sgangherata. Men brutta è la testa di un animale inferiore, giacchè essa rassomiglia al suo tipo, mentre la faccia dell’idiota si scosta tanto dalla comune espressione: da lungi ci par di scorgere un uomo; ma, accostandoci, dobbiamo riconoscere che gli manca perfino l’intelligenza dell’animale

Ad aumentare il nostro disgusto, i sentimenti rudimentarii che si mostrano in questo essere sventurato non sono sempre buoni. Quanti cretini sono nativamente cattivi, e pericolosi! Ve ne ha che digrignano i denti, mandano dei ruggiti feroci; fanno dei gesti di collera colle braccia quasi paralizzate, ciò che attenua davvero l’effetto che vorrebbero produrre; battono il suolo col piede, e chi sa quanto male farebbero, se fosse loro consentito! Ma i buoni montanari non si danno alcun pensiero di tali minaccie, anzi vi trovano un nuovo argomento di pietà e di sorveglianza. Non invano hanno dato ai poveri idioti il nome di «cretini», in Francia di «créstias», o d’«innocenti», pensando che tali esseri, incapaci di ragionare, godono del privilegio di non avere alcun peccato sulla coscienza: incolpevoli dalla nascita, potranno, appena muoiono, salire direttamente al cielo. Non per altro, nei paesi maomettani, la folla si prostra davanti ai pazzi e agli allucinati, ai quali tutto è permesso; e si tollerano, anzi si cercano le loro offese, giudicando che apportino fortuna. Dacchè, sotto umana spoglia, vivono, quasi al di fuori dell’umanità, si considera che la loro esistenza non sia altro che un sogno divino.

E, d’altra parte, fra questi sventurati ve ne ha di veramente buoni, e che cercano, nell’angusta loro cerchia, di fare del bene. Un giorno, discesi nella vallata per risalire il versante opposto, affine di contentare una di quelle curiosità da alpinista disoccupato, che formano tanta parte della vita in montagna: voleva asciolvere sovra un pascolo delizioso, nel mezzo del quale, anche da lungi, si vedeva un laghetto. Senza tampoco fermarmi, aveva oltrepassata una capannuccia umida e miserabile, circondata da pochi ontani, e, con passo sicuro, seguiva un sentieruolo appena segnato lungo un rapido ruscello. Già mi trovavo ad un tiro di pietra dalla capanna quando intesi dietro di me un passo pesante e precipitoso: nello stesso tempo, un respiro gutturale, una specie di rantolo annunziava un essere umano che m’inseguiva e mi si avvicinava. Mi rivolsi e vidi una povera cretina, che aveva un’enorme gozzo, sufficiente, da solo, a farla grandemente compiangere: tanto rendeva il suo collo deforme. Feci fatica a trattenere un’espressione di orrore, vedendo quella massa umana, che mi si avvicinava, ora gettandosi di peso sovra una gamba, ora sovra un’altra, quasi stesse per cadere ad ogni passo. La poverina mi fece segno d’attenderla; poi si fermò dinanzi a me fissandomi cogli occhi ebeti e quasi alitandomi in volto il pesante respiro. Con un gesto negativo, mi additò la gola senza uscita, nella quale stava per inoltrare il piede; e per farmi capire che delle roccie a picco impedivano il passo, continuò a servirsi della mimica: «Là, là» soggiunse, indicandomi un sentiero meglio tracciato, che sale a zig zag sovra un pendio poco inclinato e conduce ad un pianoro, mercè cui si può superare l’ostacolo ora accennato.

Quando mi vide seguire il suo buon consiglio, emise due o tre suoni gutturali, che erano evidentemente di soddisfazione; mi seguì collo sguardo per qualche tempo, quindi s’allontanò tranquillamente, forse col contento, almeno in parte provato, di avere compiuta una buona azione. Dal canto mio, trassi da ciò una lezione, che non era senza rimprovero, e che umiliava alquanto il mio amor proprio. Un essere sfavorito dalla natura, orribile, una massa di carne quasi informe, non aveva potuto privarsi del piacere di mettermi sulla buona strada, ed io, nella pienezza della salute, senza alcun difetto fisico, dotato di ragione, con piena coscienza della mia responsabilità morale, quante volte aveva trascurato di aiutare il mio simile, quante volte, per fuggir fatica, aveva lasciato dei conoscenti, forse degli amici, mettersi sovra delle strade fallaci! L’idiota, il gozzuto m’aveva, questa volta, insegnato il dovere. Così, anche dove la intelligenza sembrava assente od obliterata, trovava la benevolenza, che manca tanto spesso a coloro, che pur si chiamano i grandi e i forti. Nessun essere è talmente degradato da demeritare l’amore od anche solo il rispetto. Darete ragione a Sparta, che precipitava dall’alto del monte Taigete i bambini deformi, o alla madre, che, tutta in lagrime, allatta e accarezza il figlioletto idiota e deforme? Oh! per certo, niuno vorrà dar torto alle madri che lottano, forse, contro ogni speranza per strappare i figli alla morte; ma è d’uopo che la società venga in soccorso di questi infelici, mercè la scienza e l’affetto, per guarire quelli che sono guaribili; per procurare un po’ di felicità, almeno relativa, a coloro il cui stato non offre alcuna speranza; vegliando a che la pratica dell’igiene e l’osservanza delle leggi fisiologiche limitino, quanto più è possibile, tanta sventura.

Una educazione continuata e regolare può dirozzare queste grossolane nature, e se all’affetto della madre s’aggiunge la sollecitudine di un compagno, di un benefattore, che riesce, con paziente studio, ad insegnare un mestiere, od almeno un determinato lavoro al povero disgraziato, costui si sviluppa a poco a poco ed anche il suo volto potrà per avventura mostrare un raggio di intelligenza. Fra i numerosissimi quadri che si sono impressi nella mia memoria, quando vissi in montagna, ne ricordo uno, che ancora mi commuove, al solo rammentarlo, dopo parecchi anni. Era di sera, verso gli ultimi giorni dell’estate. Le praterie della valle erano state falciate per la seconda volta; i mucchi di fieno diffondevano intorno quel profumo salubre, che tanto piace in campagna, portato assai lontano da un soave venticello. Percorrevo una via sinuosa godendo la frescura della sera, aspirando quasi voluttuosamente l’odore delle erbe, ammirando la bellezza delle cime indorate dal sole al tramonto. Ad un tratto, allo svolto del sentiero mi trovai in presenza di un gruppo singolare. Un cretino gozzuto era aggiogato mediante corde ad una specie di carro colmo di fieno. Trascinava senza stento il pesante veicolo non accorgendosi dei pantani, neppur evitando le grosse pietre, sparse sull’ineguale terreno, ma facendo, molto coscienziosamente, il maggior sforzo possibile. Però gli stava daccanto il minor fratello, fanciullo grazioso e agile, il cui volto era tutto sguardo e tutto sorriso.

Con un segno, con un grido lo faceva piegare a diritta o a sinistra per evitare gli ostacoli, gli faceva sollecitare o rallentare il passo: formavano insieme, per così dire, una pariglia; l’uno era l’anima, l’altro il corpo. Quando mi passarono vicino, il fanciullo mi salutò con un gesto grazioso, e urtando Calibano col gomito, gli fece levare il berretto, mentre volgeva verso di me degli sguardi quasi senza pensiero. Se non che, osservando bene quel volto, vi balenava un sentimento umano di rispetto e di amicizia. Ed io mi affrettai a salutare, con un senso di rispetto, questo gruppo commovente, che oltre il significato suo proprio risguardante l’amore fraterno, poteva simboleggiare, in certo qual modo, il progresso lento dell’umanità, preceduta e scorta dall’intelligenza di pochi.

Abbandonato a sè stesso, appena fornito di quel lume, che può venire da un istinto più che altro animalesco, il cretino può, a volte, compire delle cose, che sarebbero al di sopra della forza di un uomo intelligente e pieno della coscienza di sè medesimo. Spesso il pecoraio, mio compagno, mi descriveva la sua caduta nel crepaccio di un ghiacciaio; e, quando ne parlava, lo spavento si dipingeva ancora sul suo volto. Era seduto sovra un pendio, presso l’orlo d’un ghiacciaio, quando una pietra, staccandosi, gli fece perdere l’equilibrio, per cui rovinò in una fessura spalancata, che s’apriva fra la roccia e la massa compatta dei ghiacci: in men che non si dica, si trovò come al fondo di un pozzo, scorgendo appena, verso l’alto, un tenue raggio di luce. Era stordito, contuso; ma non s’era fatto alcun male grave.

Spinto dall’istinto della conservazione, potè aggrapparsi alla parete della roccia e risalire, di sporgenza in sporgenza, fino a pochi metri dalla bocca del crepaccio: rivedeva il sole, i pascoli, le pecore e il cane fedele, che lo fissava con occhi compassionevoli. Ma, giunto a quel punto, il pecoraio non poteva più salire: sul suo capo, la roccia era del tutto liscia, e non lasciava alcuna presa alla mano. Il cane era non meno disperato del suo padrone: correndo, di qua e di là, lungo l’orlo del precipizio, mandava un sordo e breve abbaiamento: ma, ad un tratto, volò come una freccia alla volta del villaggio. Il pastore non aveva più nulla da temere: egli sapeva che quella buona bestia andava in cerca di soccorso e che ben presto sarebbero venuti, per salvarlo, dei montanari con delle corde. Tuttavia, durante la lunga aspettativa, egli sofferse le più crudeli angoscie: i minuti gli parevano secoli: temeva che i montanari non capissero il muto linguaggio del cane; già prevedeva di dover morire di fame sulla nuda e spietata roccia e si figurava con orrore le aquile in atto di cibarsi delle sue carni forse prima che egli fosse morto. Però egli ricordava benissimo, come, in un caso simile, si fosse condotto un cretino. Essendo caduto al fondo d’un crepaccio, dal quale gli era impossibile di uscire, il cretino non aveva consumate le sue forze in conati inutili: aveva atteso con pazienza, battendo i piedi per mantenere il calore animale, ed era rimasto in quello stato tutta una sera, poi tutta una notte, poi una metà del giorno seguente. In quella il pastore udì pronunciare il suo nome da coloro che lo cercavano, rispose con tutta la forza; e poco dopo fu tolto a quel pericolo. Egli si lamentò solo di aver provato un gran freddo.

Ma quali sieno i privilegi e le immunità del cretino, comunque lo sventurato non abbia ad affrontare i travagli e i disinganni dell’uomo, che si apre da sè un cammino nella vita, non è meno obbligatorio di fare di tutto per rischiarare la sua intelligenza, per guarirlo di malattie disgustose o prevenirle, per dargli colla forza del corpo il sentimento della sua responsabilità morale.

Bisogna farlo entrare nella società degli uomini liberi, e, per guarirlo e rialzarlo, è d’uopo sapere anzi tutto quali furono le cause della sua degenerazione.

Degli scienziati, curvi sui libri e sulle storte, mettono innanzi delle opinioni differenti: gli uni dicono che il gozzo dipende in particolare dalla mancanza di iodio nell’acqua potabile, e che, per legge d’aumento, la difformità morale non tarda ad aggiungersi alla fisica: gli altri, invece, credono che gozzo e cretinismo provengano da ciò, che l’acqua formata dalle nevi non ebbe tempo bastevole di agitarsi e di arricchirsi d’aria. È certo che un’acqua cattiva può spesso contribuire a far nascere o sviluppare le malattie: ma valgono queste cause a spiegare da sole degli effetti così gravi come quelli di cui qui si discorre?

Basta mettere piede in una di quelle capanne, ove nascono e vegetano gli idioti, per riconoscere che altre cause concorrono a produrre la loro tristissima condizione. L’interno è cupo e fumoso; gli armadi, la tavola e gli sgabelli sono in pessimo stato; negli angoli sono ammassate le immondizie; dappertutto ragnatele. Manca l’impiantito; la terra è umida, e, diresti, vischiosa a motivo delle acque impure che l’hanno ingrassata e degli avanzi di cucina, che nessuno s’è dato la cura di portare altrove. L’aria che si respira in questo angusto ricovero è acre e fetida. Vi si sente l’odore del fumo, del lardo rancido, del pane ammuffito, della biancheria sporca; e aggiungi pure i peggiori odori che sai immaginare. Di notte, le uscite sono otturate per impedire al freddo esterno di penetrare nella camera; vecchi, padre, madre, fanciulli, tutti dormono in una specie di vasto armadio a parecchi piani, ove s’accumula un’aria ancora più malsana di quella che si respira nel resto della capanna: di giorno quell’armadio è nascosto da una tenda. Durante i freddi invernali, la famiglia, per avere più caldo, lascia il pianterreno e scende nella cantina che serve nello stesso tempo di stalla. Da un lato dormono gli animali sul fetido strame; dall’altro uomini e donne, pure sulla paglia, e avvolti in sudicie coperte. Appena un canaletto, di cui è meglio tacere l’ufficio, divide i due gruppi viventi; ma l’aria è comune ad entrambi; e, quel che è peggio, non può lentamente rinnovarsi a motivo delle nevi che coprono il suolo e che ingombrano gli angusti spiragli, per cui penetra la luce; allora bisogna scavare dei camini, attraverso la neve, per ricevere un po’ di lume e dare uscita al fumo. In quelle cantine il giorno è sì freddo e pallido che potrebbe paragonarsi ad una notte polare.

Non c’è proprio da meravigliarsi che in queste afose stamberghe nascano dei fanciulli scrofolosi, rachitici, contraffatti. Fin dalle prime settimane, molti neonati sono assaliti da terribili convulsioni, alle quali i più soccombono. In alcuni paesi, le madri sono talmente dubbiose intorno la vita dei bambini, che non osano sperare nella loro conservazione se non dopo che hanno superata «la malattia dei cinque giorni.» Ma anche molti di quelli che sfuggono a quest’ardua prova trascinano una vita meschina, travagliata da cento mali e forse vengono colpiti dalla pazzia. Se da un lato l’aria libera della montagna e il lavoro esterno sono attivissimi a sviluppare la forza e la destrezza dell’uomo valido, l’angustia dello spazio e l’ombra umida della capanna peggiorano la salute e accrescono il numero dei gozzuti e dei cretini. A fianco del figlio, che diviene il più robusto giovinotto del paese, i genitori veggono un altro figliuolo che rimane privo di vigore e d’intelligenza, di peso alla casa, e che trascina la sciagurata sua esistenza in una perpetua oscurità morale.

In parecchi luoghi s’è pensato di erigere degli ospedali per questi poveretti. Nulla manca in tali ricoveri ideati dalla carità, sempre pronta e ingegnosa, e governati con intelletto d’amore da filantropi e da scienziati. L’aria circola liberamente; il sole invade ogni parte dell’ampio edificio; l’acqua vi è pura e salubre; il mobiglio è decente; i letti poi sono pulitissimi. I cretini hanno intorno a sè una sorveglianza, che non potrebbe essere maggiore; sono trattati come fanciulli, che non si devono mai perdere di vista; e dei maestri procurano di diradare le fitte tenebre della loro intelligenza, od almanco di far penetrare nella loro anima qualche verità morale. Spesso raggiungono l’intento; e il cretino, mercè le solerti loro cure, può grado grado salire ad una vita superiore. Se non che quello che importa di più non è di riparare il male, sibbene di prevenirlo. Queste stamberghe malsane, se convengono al paesaggio e se possono dilettare l’occhio dell’artista, devono però scomparire in ossequio all’umanità, devono sorgere in loro vece delle casette comode e pulite: l’aria e la luce non dovrebbero essere patrimonio di pochi, sibbene una ricchezza universale, diffondentesi ampiamente in tutte le abitazioni degli uomini senza distinzione di nascita o di condizione sociale: tanto la buona igiene, come la dignità morale devono essere tenute nel maggior conto, e ciascuno deve procurare di osservare l’una e l’altra. Solo con questo mezzo i montanari, nel corso di poche generazioni, sapranno sottrarsi a quelle malattie, che attualmente degradano molti fra essi. Allora gli abitanti saranno degni dei luoghi: potranno contemplare con soddisfazione la vasta scena che loro si dischiude d’innanzi, potranno godere nella loro pienezza le gioje della vita alpina.

 

Il culto delle montagne

Il culto della natura esiste ancora fra noi; ed è molto più vivace di quello che si creda. Quante volte il montanaro, scoprendosi il capo, m’additò il sole e disse con solennità: «Ecco il nostro Dio». Certo egli voleva dire l’occhio di Dio o qualche altro pensiero di questo genere, che non disconviene a nessun credente: ma un simile linguaggio prova che i nostri alpigiani sanno ammirare la natura e le prodigiose sue forze. Ed io pure, perchè lo tacerei? quante volte nel contemplare le auguste cime che dominano le vallate e le pianure, non ho provato quasi la tentazione di chiamarle divine?

Un giorno percorreva tranquillamente una stretta gola, ingombra di ciottoloni. Il vento soffiava con violenza, aumentata dall’angustia del passo, e mi sferzava brutalmente, gittandomi in faccia ad ogni folata pioggia e neve miste insieme. Un velo grigio mi celava le roccie: solo qui e là intravedeva delle masse nere e minacciose, che, giusta lo spessore del nebbione, ora, s’allontanavano, ora s’avvicinavano. Ero intirizzito, triste, di cattivo umore. Ad un tratto un vivo lume, che scintillava sulle innumerevoli goccioline di acqua, mi fece levare la testa, e quasi mi diede una scossa al sangue. Il nuvolone d’acqua e di neve, che ingombrava parte del cielo, s’era squarciato. Il cielo era più azzurro e raggiante che mai, e su quel fondo sereno e luminoso compariva, in tutta la sua maestà, la fronte della montagna. Le sue nevi, la cui distesa era interrotta dalle roccie che venivano disegnando lungo l’orizzonte una specie di fine arabesco, scintillavano collo splendore dell’argento, e il sole vi aggiungeva l’aureo profilo della sua tepida luce. La vetta aveva la nettezza di contorno di una statua e si rizzava fiammeggiante nell’ombra: la superba piramide sembrava del tutto disgiunta dalla terra. Salda nello spazio, immutabile nel suo riposo, pareva che si librasse nel cielo: apparteneva ad un mondo migliore, si staccava ardita dalle bassure di questa povera terra, come avesse fastidio delle sue miserie. Una simile visione, mi fece considerare quel vertice di montagna come un lembo sacro di terra, come un soggiorno privilegiato, la sede della felicità, l’Olimpo degli Dei! Però una nube invidiosa venne ad un tratto a contendermi quella beata vista. Mi ritrovai ancora immerso nella bruma, sferzato dalla piova e dal vento: e più che mai rimpiansi la scena di poc’anzi; un Dio m’era apparso e s’era subito tolto al mio sguardo.

Nei tempi primitivi dell’umanità, quando il sentimento religioso trovava l’uomo ingenuamente credulo, si contemplavano i monti con un rispetto particolare; vi si vedevano delle divinità, od almeno il loro trono, ora velato dalle nubi, ed ora completamente svelato e scintillante del più vivido lume. Appunto dalle montagne si facevano provenire le varie stirpi, e vi si collocavano le più antiche tradizioni e leggende: e parecchi popoli attendevano da lassù l’effettuazione delle loro speranze: di là doveva discendere il salvatore, l’angelo della gloria o della libertà. È tanto importante la missione delle montagne nella vita delle nazioni, che la storia dell’umanità è in parte la storia delle grandi catene; si direbbero delle tappe poste dalla natura lungo il cammino percorso dai vari popoli in viaggio.

Gli scienziati affermano che i nostri antichissimi progenitori, gli Arii, vissero primamente alle falde dei grandi monti dell’Asia centrale. La stirpe arya, dal cui linguaggio provengono quasi tutte le lingue europee, si raggruppò in società civili sovra i versanti del Paropamiso o Caucaso Indiano; e di là si diffuse su molta parte dell’Asia e in Europa. Da questa stirpe vennero gli Indù, che, superato l’Imalaja, si stabilirono dapprima sul versante meridionale della più alta catena del mondo, per poi conquistare tutta la penisola cisgangetica. I vecchi canti degli Indù non mancano di squarci che celebrano le montagne, quella catena spettacolosa la quale all’occhio meravigliato presenta «ottantaquattromila punte d’oro» che si levano nella luce, al disopra delle foreste e delle pianure, per svegliare ne’ riguardanti sensi di religioso ossequio. Le più elevate montagne di questa giogaja, dalla testa nevosa, personificano le maggiori divinità del ricchissimo Olimpo indiano; godono di una forza e di una maestà sovrumana, e forse, nel concetto dei superstiziosi, di una vitalità immortale. Il Gaurisankar, la cui vetta fende le nuvole, e il Tchamalari, meno alto, ma più colossale e giù imponente per essere isolato, ricevono un duplice culto, figurando la Gran Dea unita al Gran Dio. I ghiacci sono il letto di cristallo e di diamanti; le nubi di porpora e d’oro il velo che nasconde l’immortale connubbio. Lassù ha preferita dimora il dio Siva, che distrugge e che crea; ed ivi pure ha sua sede la dea Chama, che concepisce e genera senza fine: da essa provengono i fiumi, le piante, gli animali e gli uomini.

La religione e la letteratura indiana, sì fertili di leggende, di tradizioni e di epopee, assegna un gran posto all’Imalaja: l’immane catena è considerata come vivente di una vita sublime, in rapporto assiduo cogli Dei, soggiorno dei beati, generatrice dei continenti e dei popoli, nocciolo della terra. Una poetica e religiosa fantasia paragona la terra ad un gigantesco fiore di loto, le cui foglie sono le penisole che avanzano nell’Oceano, e i cui stami e pistilli formano il monte Meru, padre delle cose e della vita. I ghiacciai, i torrenti, i fiumi, che si muovono lentamente, o precipitano dall’alto per deporre sulla terra delle benefiche alluvioni, hanno pure un ufficio nelle credenze indiane: sono divinità secondarie, che mettono gli umili abitanti della pianura in rapporto indiretto colle divinità supreme, le quali risiedono al di sopra delle nuvole nello spazio luminoso.

Non solo il monte Meru, punto culminante del pianeta, giusta questa credenza, ma anche altre montagne dell’India ottengono culto dai popoli stabiliti alla loro base o sui loro pendii. I monti Vindyah, Satpurah, Aravalli, Nilagherry, hanno numerosi adoratori. Nei paesi bassi, ove mancano le grandi elevazioni di suolo da adorare, i divoti costruiscono delle moli altissime, ovvero dei templi preceduti da viali di bizzarre guglie, cioè enormi blocchi di granito per figurare le cime venerate del monte Meru. Forse, gli Egiziani stessi furono indotti ad innalzare quelle orgogliose moli che sono le Piramidi per esprimere la divozione verso ciò che si eleva maggiormente sulla superficie della terra, e per contentare l’occhio, afflitto dalla squallida monotonia di una pianura sabbiosa.

L’isola di Ceylan, Lanka «la scintillante», quella terra benedetta, ove, secondo una leggenda, la misericordia divina collocò i primi uomini dopo l’espulsione del Paradiso, innalza pure verso il cielo delle montagne sacre. Fra le altre, la cima isolata nel mezzo della pianura, ove sorge la città santa di Anaradjapura. È il Mihintala. Su quella aerea rupe fermò il volo, ventidue secoli sono, Mahindo, l’apostolo indiano, che s’era slanciato dalle pianure del Gange, mosso da virtù divina, per chiamare i Cingalesi alla religione di Budda. Un tempio fu innalzato sulla vetta ove, un giorno, dicesi che il santo posasse il piede. Alta, colossale è la pagoda; e tanto venerata dai pellegrini, che la vollero coperta di gelsomini dalla base alla cima. Una gemma, color fiamma, brillava al sommo dell’edificio e rinfrangeva da lungi i raggi del sole. È fama che un rajah facesse distendere, dalla cima della montagna alle sue falde, un largo tappeto di dodici chilometri di lunghezza affine che i piedi dei fedeli non fossero contaminati da terra impura.

Non meno venerato è il celebre picco d’Adamo, che i marinai salutano con rispetto allorchè s’avvicinano all’isola sacra. L’orma di un piede enorme, appartenente, sembra, ad un gigante, che doveva essere alto per lo meno dieci metri, è scavata nella roccia, sull’orlo estremo della cima. Questa impronta, affermano i Maomettani e gli Ebrei, è l’orma di Adamo, il primo uomo, che salì sul picco per contemplare la vasta terra, le sterminate foreste, i monti e i bassopiani, le spiaggie e il grande Oceano colle sue isole e i suoi scogli. Al dire dei Cingalesi e degli indù, non il piede di un uomo, ma di un dio lasciò quell’impronta. È Siva, giusta i bramini; è Budda, affermano i buddisti, Jehovah, scrivono i Gnostici dei primi secoli cristiani. Quando i Portoghesi sbarcarono da conquistatori nell’Isola di Ceylan, scemarono importanza al sacro monte: non ci videro più l’impronta di un Dio, ma solo di San Tommaso, o di un antico missionario, l’eunuco di Candace. Un armeno, Mosè di Corene, si mostrò ancora meno rispettoso, forse per serbare il primo luogo al monte Ararat; sulla sommità del picco di Adamo non vuol vedere che la traccia del piede di Satana, l’eterno nemico. I viaggiatori inglesi, liberi di ogni superstizione, fanno in gran numero l’ascenzione del sacro monte, ma nell’«orma divina» non vedono che un capriccio della natura o un artificio per attirare i pellegrini. Se non che questi stranieri increduli sono oggetto di commiserazione o di disprezzo pei pellegrini, la cui fede è incrollabile e che vanno a prostrarsi sulla vetta della montagna divina, baciano divotamente la supposta orma, e depongono le loro offerte nella casa del sacerdote.

A mente loro, ogni circostanza e ogni indizio conferma l’autenticità del miracolo, per cui sarebbe crassa ignoranza dubitarne. A pochi metri al di sotto della vetta spiccia un filo d’acqua: il Dio colla sua verga ottenne il prodigio, simile a quello che Mosè operò nel deserto. Gli alberi s’abbarbicano al ripido declivio, ma, caso singolare, volgono i rami dalla parte della sacra orma, evidentemente per renderle omaggio, anzi per adorarla. Il suolo è sparso di pietre preziose; sono le lagrime del dio, desolato per le sofferenze e i delitti dell’umanità. Le ricchezze incomparabili dell’isola fanno, del resto, pensare agevolmente al prodigio; e hanno dato un tal quale fondamento ai racconti favolosi delle Mille ed una notte. I rivoletti che scendono dalla montagna, non travolgono, come i nostri ruscelli ciottoli o sabbia, bensì polvere di rubini, di zaffiri, di granate; il bagnante, che si ristora nelle loro acque, si avvolge, come le sirene, in una sabbia di pietre preziose.

Le schiatte dell’estremo Oriente, la cui civiltà ha seguito una via opposta a quella della stirpe arya, dedicarono pure un culto particolare alle montagne. Nella China e nel Giappone, come nell’India, non c’è sommità di qualche importanza che non abbia il suo tempio, od almeno la sua capella votiva; ma alcuni monti sono anche riguardati, almeno dal volgo, come geni tutelari o vendicatori. A queste maggiori elevazioni di suolo, che colpiscono l’occhio, i popoli si volgono, sia per riconoscervi la prima loro sede, sia per rimpiangere uno stato d’innocenza e di perfezione ivi goduto.

Le più antiche montagne storiche sono quelle della China, giacchè il popolo «di mezzo» è il primo che sia uscito dalle tenebre delle barbarie, e quello che da più tempo tiene memorie scritte di sua vita. Sono cinque le montagne sacre della China: s’innalzano in regioni famose per agricoltura, industrie, memorie storiche; e la popolazione s’addensa alle loro falde. La più santa, fra tali montagne, il Tai-Chan, domina tutte le altre cime della fertile penisola di Chan-Tung, fra i due golfi del Mar Giallo. Dalla cima, a cui conduce un sentiero selciato, per tacere delle scale tagliate nella roccia, si vedono a perdita d’occhio, le fertili pianure attraversate dal fiume Giallo, ovvero Hoang-Ho, detto dai Chinesi il Dolore, a motivo dei disastri che producono le sue inondazioni; il maestoso fiume ora s’avvicina all’uno dei due golfi, ora all’altro, formando poi un amplissimo delta, e se nuoce quando le sue acque escono dall’ampio letto, contribuisce in generale al benessere di un vastissimo territorio, ove la popolazione è fittissima come le spiche del campo; uno dei grandi alveari dell’umanità. L’imperatore Chung ne intraprese la salita or sono quattrocentotrenta anni, com’è narrato negli annali officiali del paese. Anche il filosofo Confucio tentò di raggiungerne la cima; ma la salita è difficile, il filosofo dovette fermarsi ad un certo punto che ancora si addita, e ridiscendere. Le principali divinità e i genii hanno dei templi o degli oratorii sulla santa montagna; e vi si onorano altresì il Cielo, le Nuvole, la Grande Orsa e la Stella Polare. I dieci mila genii vi dirigono il loro volo e vi si arrestano per contemplare la terra e le dimore degli uomini. «Il merito del monte Tai-Chan non è inferiore a quello del Cielo: è il dominatore del mondo; raccoglie le nuvole e invia le pioggie; decide delle nascite e dei morti, della sfortuna e della felicità, della gloria e del disonore. Fra quanti picchi si levano verso il Cielo è il più meritevole d’essere visitato.» E però i pellegrini vi si conducono in folla per implorare delle grazie, e il sentiero è fiancheggiato da caverne, ingombre di mendicanti, che ostentano delle piaghe schifose e speculano sulla pietà, o sul ribrezzo che ispirano, per ottenere una più pronta ed abbondante elemosina.

Le montagne vulcaniche sono di una notevole bellezza di forme; il Giappone è appunto un arcipelago di origine vulcanica, per cui i suoi abitanti possono avere anche maggior invito ad onorare le più elevate montagne del paese, grandeggianti in mezzo alle pianure, coni colossali dove il fuoco e il ghiaccio estendono il loro impero. Havvi idolo nel mondo che possa paragonarsi al vulcano Fusi-Yama, il «monte per eccellenza», che si innalza, quasi isolato, nel mezzo di fiorite campagne, alla base vestito di foreste, e coperto di eterne nevi nella parte superiore? Un tempo, il vulcano fumava e slanciava fiamme e lave; adesso, riposa. Però altre montagne, nell’arcipelago giapponese, continuano ad emettere nuvole cariche di pietre e fiumi di fuoco, che scorrono sul suolo scosso dai terremoti. Fra questi vulcani, uno ve ne ha, il più terribile di tutti, che si sperò di placare gettando nelle sue fumanti voragini, al tempo di una terribile persecuzione religiosa, migliaia e migliaia di cristiani. I Gesuiti erano riusciti a stabilirsi nel Giappone, diffondendo presso molti la propria fede, quando il più feroce fanatismo scoppiò contro di essi, e tutti i cristiani furono barbaramente uccisi. Non altrimenti, dicesi, si tentò di calmare, nel Nuovo Mondo, il vulcano Monotombo, precipitando nel suo cratere dei preti, che aveano osato sostenere agli indigeni che quella montagna non era una divinità, ma piuttosto una bocca dell’Inferno. Del resto, i vulcani, non aspettano, di solito, che si getti loro delle vittime: sanno procurarsele da sè, fondono la terra, eruttano dei laghi di fango, coprono di cenere delle intere provincie. In un giorno possono dar morte ad un’intera popolazione. Ciò basta per farli adorare dai volghi, che sempre si inginocchiano dinanzi i portenti della forza. Il vulcano distrugge e divora; dunque è un Nume!

Per tal modo, la religione delle montagne, come ogni altra, s’è impadronita dell’uomo signoreggiando i diversi suoi sentimenti. Dove la montagna vomita lave, il terrore induce il volgo a prosternarsi. Nelle campagne, assetate, dove la vegetazione muore per mancanza d’acqua, il desiderio fa volgere l’occhio verso le nevi, serbatoi di inestimabile ricchezza: al desiderio s’aggiunge la preghiera. Coloro poi che trovarono un rifugio nella valle romita o sulla rupe inaccessibile provano una così viva riconoscenza, che per poco non potrebbe riguardarsi come un vero culto. Per ultimo, l’ammirazione verso i monti doveva crescere nell’uomo mano mano che in lui si svolgeva il sentimento del bello, e quindi non poteva essere estraneo a quel complesso di entusiasmi, che forma tanta parte delle religioni. E in vero non c’è giogaia che non offra degli aspetti da commuovere l’animo, invitandolo alla contemplazione! Ogni montagna ha delle bellezze sue proprie, degli asili fidati, dei ricordi preziosi: benefica e terribile ad una, amata e temuta, un piccolo mondo completo. I popoli, spargendosi per la terra, riguardavano i monti quale punto di partenza o di arrivo; e però ne associavano il ricordo alla parte più essenziale e importante delle proprie tradizioni e memorie, sia religiose, sia storiche. Ad ogni tappa del viaggio innalzavano sulle alture un nuovo tempio. È fama che le tribù erranti sugli altopiani della Persia vedessero, verso sera, una gran massa sorgere dal mezzo delle pianure polverose: era il monte Telesme, il divino «talismano», che precedeva i suoi adoratori nel loro pellegrinaggio attraverso il mondo. E quando, dopo un lungo cammino, quella massa, scorta da lungi, non era un ingannevole miraggio, ma una vera montagna con roccie e nevi, il volgo poteva facilmente convincersi di essere davvero scorto, nel faticoso esodo, della propria divinità? Si contemplava fiduciosamente l’ardita cima e fra le nuvole bizzarramente raggruppate forse i devoti scorgevano la vasta ombra del Nume.

Ed ecco com’è accaduto che la montagna noetica, sulla cui punta si fermò l’arca, è identificata, dai divoti, ora coll’una ora coll’altra cima, per cui può dirsi che non abbia ancora cessato di spostarsi dinanzi i passi e la fede delle genti: al qual proposito ricorre benissimo la nota elocuzione proverbiale, che la fede muove anche i monti. Una versione samaritana del Pentateuco pretende che il picco d’Adamo sia la cima su cui si arrestò l’arca noetica; le altre versioni affermano che l’Ararat meritò di salvare la varia famiglia d’animali, che doveva, per volontà di Dio, ripopolare la terra. Ma dove s’innalza questa antica montagna? È proprio l’Ararat dell’Armenia, o può superbire di tanta gloria ogni altra montagna, ove i pastori pretendono di aver trovato degli avanzi del vascello sacro? In molti luoghi dell’Oriente, la tradizione ravvisa la montagna salvatrice nella più alta massa delle vicinanze, da cui discendono le acque che irrigano e che fecondano il paese. È proprio di là, dicono gli abitanti, che la vita è ridiscesa sulla terra, seguendo il cammino delle nevi e il corso dei ruscelli! E, pensate, se le attestazioni possono far difetto: le prove abbondano in ogni caso. Non si trovarono dei mucchi di legno pietrificato anche nei ghiacciai, e persino nelle roccie non si rinvennero le traccie di quegli «anelli del diluvio», che i nostri dotti moderni hanno battezzato col nome di ammoniti fossili? Non meno di cento montagne della Persia, della Siria, dell’Asia Minore, dell’Arabia si contendono l’onore di aver accolto il grande patriarca, il secondo padre degli uomini, appena uscito dall’arca. La Grecia additava il Parnaso, ove Deucalione e Pirra, sfuggiti al diluvio, ebbero facoltà di rinnovare il genere umano in un modo davvero singolare, gettando cioè pietre dietro le spalle: le pietre gittate da Deucalione divenivano uomini, e donne quelle gettate da sua moglie Pirra. Chi lo crederebbe? Anche la Francia vanta delle montagne, sulle quali, secondo la volgare opinione, s’è fermata l’arca: una di queste cime divine è Chamechande, presso la grande Certosa di Grenoble; un’altra è il Puy di Prigue, che domina le sorgenti dell’Aude.

Come vedete, il mito ci offre delle notevoli analogie e delle ripetizioni che non mancano di significato: è sempre dalle alture che sono discesi gli uomini. È dai dirupi, trono della divinità, che si fece udire la gran voce la quale apprese ai mortali i loro doveri. Il Dio degli Ebrei risiedeva sulla vetta del Sinai, nel mezzo delle nubi e dei lampi, e parlava colla folgore al popolo riunito nella sottostante pianura. Anche le divinità fenicie, Baal, Moloch, a cui si prestava un culto sanguinario, comparivano ai divoti sulle cime dei monti. Nell’Arabia Petrea, nei paesi di Edom e di Moab, non c’è un’altura, non una collina, non una roccia che non sia segnalata da un cumulo o da una piramide di pietre, ara su cui i sacerdoti sgozzavano le vittime per propiziarsi il nume feroce. A Babele, ove mancava la montagna, si concepì il folle disegno della torre, che doveva toccare le nuvole: orgoglio che ebbe poi quel castigo, che è narrato nella Genesi.

I profeti ebrei, sospettosi d’ogni culto straniero, maledirono spesso gli «alti luoghi», ove i popoli vicini rizzavano gli idoli, o delle pietre atte a figurarli o piuttosto a ricordarli: ma anch’essi rispettavano le alture, e di là solevano attendere la discesa dei loro angeli protettori. Sopra un colle s’innalzava il loro tempio, sovra una montagna Elia s’intrattenne col Signore; la Transfigurazione del Redentore, fra i due profeti Mosè ed Elia, ebbe luogo dal monte Tabor, salendo di là nella luce increata. Sul Calvario venne crocefisso, fra i due ladroni; e quando, dice la profezia, circondato da santi e da angeli, verrà a giudicare i vivi e i morti, dal cielo lo si vedrà discendere sovra una montagna, che deve spaccarsi appena egli vi fermerà il piede divino. Un’altra montagna, una cima ideale, su cui sorgerà una nuova città d’oro e di diamanti, si vedrà librarsi nello spazio luminoso; e in quel soggiorno di tutte delizie verranno accolti gli eletti, la loro vita sarà una festa non interrotta, e così lontana dalle noie e dai mali di quaggiù da non poter nemmeno formarsene, oggi, una lontana e languida idea.

 

L’olimpo e gli dei

A qual modo che la gloria della Grecia, che pure occupa un piccolissimo spazio sulla terra, avanza quella dei vastissimi imperi dell’Oriente, così l’Olimpo, la più alta e la più bella fra le cime sacre degli Elleni, è venuta nell’opinione e nella fantasia dei popoli la montagna per eccellenza; nessun’altra massa, non il monte Meru, non l’Elburz, non l’Ararat, non il Libano, può competere con l’Olimpo: nessun’altra presenta al pensiero un’immagine più generalmente accettata di grandezza e di maestà. E giova osservare che la sua posizione è davvero privilegiata: doveva far colpo, doveva servire di segnale alle stirpi che s’accostavano all’Europa con animo di occuparla e colonizzarla. Emerge lungo il mare Egeo di molto superiore a tutte le cime vicine, e però il marinaio ne scorge la vetta a somma distanza. Dalle pianure della Macedonia, dalle ricche vallate della Tessaglia, dal monte Athos e da altre vette delle giogaie che i Balcani spingono verso sud, si discerne la triplice cupola dell’Olimpo, e i suoi versanti dalle «mille pieghe» o insenature, di cui parla Omero. La prodigiosa fertilità delle campagne che si estendono ai suoi piedi, invitava da ogni parte i coloni, che venivano ad incontrarvisi sia per contendere disperatamente un palmo di terra, sia per conoscersi meglio ed affratellarsi. S’aggiunga che l’Olimpo domina le strade, che ebbero a seguire le tribù o gli eserciti in marcia dall’Asia in Europa o dalla Grecia verso i paesi barbari del nord: s’innalza come una immensa pietra miliare fra l’Oriente e l’Occidente.

Parecchi altri monti del mondo ellenico presero dalle scintillanti nevi il nome di Olimpo o di «luminoso»; ma nessuno lo meritava meglio della poetica e imponente massa, che s’innalza nella Tessaglia, la cui cima serviva di trono agli Dei.

Ma è bene ricordare che gli Elleni aveano vissuta la loro rigogliosa infanzia nelle vallate e nelle pianure distese all’ombra del gran monte. Dalla Tessaglia provennero gli Elleni dell’Attica e del Peloponneso: ivi i primitivi loro eroi affrontarono i mostri o compirono altre imprese favolose, meritando onori celesti; ivi i più antichi poeti, ispirati dalle Muse, composero degli inni, celebrarono le magnanime opere dei forti. Movendo dalle native convalli verso lontane regioni, le tribù greche non potevano per certo dimenticare la montagna divina, che aveva veduta l’alba della loro esistenza e che li aveva, per così dire, amorevolmente protetti e nutriti.

I principali episodi della storia mitica degli Elleni si svolsero in questa parte della Grecia, o piuttosto la fantasia ivi ne finge il teatro: e fra questi episodi vien subito di ricordare il più importante, quello che decise dell’impero della terra e del cielo. L’Olimpo era la cittadella scelta dai nuovi Dei, e nei dintorni si raccoglievano con animo ostile le vecchie divinità, i Titani mostruosi, figli del Caos. Formidabilmente schierati sui monti vicini, che si allargavano al sud in un vasto semicerchio, i giganti afferravano enormi roccie dei pezzi interi di montagna e li lanciavano contro l’Olimpo in parte sradicato. Per levarsi più alto nel cielo, i vecchi Titani sovrapposero l’un monte all’altro, il Pelio all’Ossa, sicchè pareva volessero dare la scalata alle nuvole; ma la vetta nevosa dell’Olimpo rimaneva pur sempre inaccessibile, campeggiava al di sopra di loro, e si circondava di tetre nuvole solcate dalla folgore. I giganti, che in sè raccoglievano tutte quante le forze della terra, scuotevano il mondo sovra i suoi cardini; la loro voce rumoreggiava come la bufera; avevano nei polsi il vigore della tempesta; colle cento smisurate braccia lanciavano a caso la grandine dei sassi; ma contro le giovani divinità dotate di maggiore intelligenza, non potevano vincere la prova: lottavano senza consiglio e senza misura, servendosi più che altro del furore cieco degli elementi. Soccombettero, ed è fama che sotto le rovine dei monti dei popoli interi perissero miseramente con essi. Non altrimenti avviene spesso che il capriccio regale tragga a morte migliaia d’uomini come per giuoco.

Erano già trascorsi parecchi secoli, e di queste prodigiose battaglie fra gli Dei, intorno l’Olimpo, si serbava appena un languido ricordo, quando alle imprese dei Numi s’aggiunsero le fatiche degli uomini, e i popoli dorici e ioni osarono grandi cose, che meritarono di essere cantate dai poeti, e, più tardi, narrate dagli storici. Allora Zeus, il padre degli Dei e degli uomini, risiedeva in pace sul monte sacro; il suo trono era collocato sulla più alta cima; al suo fianco, Hera, la divinità sempre vergine; intorno la bella schiera degli immortali dal volto eternamente giovine e lieto. Un etere luminosa avvolgeva la cima dell’Olimpo e suscitava i più vivaci colori; non mai le tempeste turbavano il riposo di quegli esseri felici; nè la pioggia, nè la neve cadeva sulle cime scintillanti. Le nuvole, che Zeus radunava, si agitavano ai suoi piedi, intorno le rupi, superba base del suo trono. Le Ore sollevavano o lasciavano ricadere, ovvero squarciavano il grande velario delle nubi, che toglieva la vista della Terra, per cui Giove poteva tratto tratto volgere lo sguardo onnipotente verso la Terra, ne contemplava i mari e i continenti, le città e i popoli. Da quell’altezza inviolabile, egli decretava la sorte degli uomini, pronunciava la vita o la morte, distribuiva a capriccio la pioggia benefica o la folgore vendicatrice. Nessun lamento, che giungesse dal basso mondo, poteva avere la virtù di turbare la pace olimpica degli Dei. Sempre la loro mente era giocondata da sereni pensieri, e gli interminabili conviti erano rallegrati da copiose libazioni; il nettare e l’ambrosia avevano una dolcezza, che non veniva mai meno. Assaporavano il profumo delle primizie offerte dagli uomini, l’acre odore del sangue sparso sulle are; e il concerto delle voci supplichevoli saliva fino lassù come una musica. Sotto i loro sguardi, si spiegava una scena indefinita, il quadro delle lotte e delle miserie umane. Vedevano urtarsi gli eserciti, le flotte andare sommerse, le città consunte dall’incendio; vedevano i poveri lavoratori, formiche quasi invisibili, affannarsi senza posa per ottenere un buon raccolto, che forse il vicino tirannello porterà loro via; e nell’interno delle case, forse molte madri versavano calde lagrime e strillavano i fanciulletti. Più lungi, il loro nemico, il protettore degli uomini, l’audace Prometeo gemeva sovra la rupe del Caucaso, a cui Giove lo fece legare, condannandolo ad avere il fegato, sempre rinascente, divorato da un avoltoio. Tali erano le delizie degli Dei.

Qual Greco ha osato, pastore, sacerdote o re, salire le rupi dell’Olimpo al di sopra dei pascoli e dei gioghi frequentati dai greggi? Ce ne fu uno solo così temerario da spingersi fin lassù per trovarsi a faccia cogli Dei? Gli antichi scrittori affermano che dei filosofi non hanno temuto la scalata dell’Etna, ben più alta dell’Olimpo; ma non fanno menzione di alcun mortale, che abbia avuto l’audacia di ascendere il monte degli Dei, anche quando l’incredulità era penetrata nelle menti, e si cominciava a considerare Zeus e il suo corteggio come una semplice creazione della fantasia.

In seguito nuove religioni, accolte dai popoli, che nacquero nella Tessaglia e paesi vicini, o trassero a vivere in quelle ridenti pianure, diffusero nuove opinioni o fantasie; e la sacra montagna fu volta a miglior culto, ad un culto meno rozzo e sensuale, più spirituale ed elevato. Invece di Zeus, i cristiani greci vi onorano la Santa Trinità; nelle tre principali cime o cupole, ravvisano i tre grandi troni del Cielo; nè vorrete togliere loro questa innocente e pia soddisfazione. Uno dei promontori più elevati, su cui ne’ tempi remoti sorgeva un tempio dedicato ad Apollo, mostra ora un monastero consacrato a sant’Èlia: in una delle vallette, ove si accoglievano le Baccanti per celebrare Bacco Dionisio, danzando sovra i prati smaltati di fiori, passeggiano lenti lenti i monaci del vicino convento di San Dionigi. Nuovi sacerdoti vennero a prendere il posto dei sacerdoti pagani; le are furono trasformate in altari, e l’adorazione degli antichi rivive nel rispetto superstizioso de’ moderni; ma forse la più alta cima non fu ancora tocca da piede umano; il dolce lume, che risplende sulle sue roccie e sulle sue nevi, non à ancora rallegrato alcun mortale dal giorno in cui le divinità greche ne sono partite.

Sono pochi anni, sarebbe stato difficile ad uno straniero di salire la vetta dell’Olimpo, giacchè i Klefti, armati fino ai denti, e dalla mira infallibile, ne occupavano tutte le gole; vi si erano fortificati come in una gigantesca cittadella, dalla quale, rinnovando la lotta degli Dei contro i Titani, assalivano senza tregua i Turchi, odiati dominatori del paese. Consapevoli del loro coraggio, quindi giustamente orgogliosi, facevano gran stima di sè; si proclamavano invincibili come la montagna, che offriva loro un formidabile asilo: e nei loro canti di guerra pretendevano di personificare l’Olimpo e rinnovare i favolosi miracoli: «Riconoscetemi, dice una canzone, sono l’Olimpo, illustre in ogni tempo e celebrato tra le nazioni; quarantadue picchi fanno diadema alla mia fronte; settantadue fontane zampillano nei miei burroni, e sulla punta più alta si libra l’aquila tenendo fra gli artigli la testa di un famoso eroe!» È per avventura l’aquila di Giove: l’antica divinità continua a dilettarsi delle stragi e del sangue.

La fantasia popolare sbizzarisce volentieri a proposito di quelle divinità e di quelle credenze che furono da essa create. Nel corso dei tempi, muta loro il nome; aumenta o diminuisce la loro supposta potenza; ne modifica gli attributi; e tutto ciò a norma delle vicissitudini storiche, col cangiarsi delle lingue, o col sovrapporsi di nuove tradizioni, o per altre cagioni: per ultimo li fa morire, come già diede loro la vita, e colloca sulle are nuovi Dei o piuttosto nuovi simulacri dei medesimi. Del pari la fantasia dei volghi non esita a trasferire la sede di una divinità da un luogo all’altro, dispone di essa come di cosa tutta sua. E però, tra gli Elleni, ogni vetta e per poco non aggiungo ogni altura aveva il proprio nume, ed anche, il più spesso, una pleiade d’esseri celesti: e la stessa divinità viveva in luoghi diversi. Zeus prediligeva il monte Ida, l’Olimpo, le alture di Creta, le colline di Cipro, le rupi di Egina e non so quanti altri luoghi, Apollo aveva la sua dimora sul Parnaso e sull’Elicona, sul Cillene e sul Taigete, su tutte le rupi e i picchi che emergono dal mare Egeo. Ogni vetta dorata dal sole nascente, veduta dalla valle ancora avvolta nelle umide ombre della notte, doveva apparire, agli occhi de’ Greci, quale sede prediletta al Dio della luce: ed ecco perchè molte cime della Grecia portano ancora dei nomi atti a ricordare Apollo radiante.

«Contempla quel trono, centro della terra», diceva Eschilo, parlando di Delfo. Ma questo pilone centrale, questo nocciolo della terra, dalla fantasia dei poeti o dall’immaginazione popolare veniva allogato anche in altri luoghi. Pindaro lo vedeva nell’Etna; i marinai dell’Arcipelago designavano il monte Athos, il grande scoglio che domina la distesa delle acque e che si vede sia veleggiando verso le rive dell’Asia, sia staccandosi da esse per muovere alla volta dell’Attica e delle altre spiaggie della Grecia orientale. Dietro questa montagna, dicevasi, il sole tramonta tre ore più tardi che non nelle pianure, distese ai suoi piedi, tanto è alta; pare che guardi al di là dei limiti della terra. Quando l’Ellade, già libera, fu ridotta in servitù da un Macedone, e divenne trastullo di un padrone, si trovò fra i vinti, un uomo così sprovveduto di dignità umana, un adulatore tanto ingegnoso e bizzarro nell’enorme sua viltà da proporre ad Alessandro, che già s’era fatto proclamare divino, di trasformare il monte Athos in una statua del nuovo figlio di Zeus, «più possente di suo padre». L’opera straordinaria avrebbe potuto tentare un uomo folle d’orgoglio, quale era Alessandro; pure egli non osò intraprenderla, non osò spendervi intorno le forze dei soldati e degli operai, che egli serbava a ben altre fatiche. I marinai, che veleggiavano alle falde della gran montagna, seguitarono a vedervi qualche vecchia divinità, o il passaggio e l’impronta, almeno, della medesima, finchè cominciò a svolgersi un nuovo ciclo storico, che addusse un nuovo culto. Allora si novellò che il Monte Athos è precisamente la montagna, sulla quale il diavolo trasportò Gesù per additargli tutti i regni della terra stesi a’ suoi piedi, l’Europa, l’Asia e le isole del vasto mare. Gli abitanti della penisola calcidica, di cui il Monte Athos è la punta più avanzata, forse lo credono ancora; e, del resto, la leggenda è giustificata da ciò che quella vetta consente una delle più estese e variate vedute del mondo.

Non si creda, però, che i soli Elleni abbiano saputo arricchire la mitologia alpina; se la loro fantasia fu fertile e poetica, non ebbero certo il privilegio di fingere o tessere essi soli miti e leggende. Anche altri popoli videro nelle loro montagne il trono delle divinità. Non solo le grandi cime delle Alpi suscitarono idee religiose, e l’una prese il nome di Giove Tonante (Tonale), l’altra fu detta Monte Giove, poi San Bernardo: non solo l’Appennino partecipò alle vaghe ma solenni credenze naturalistiche o panteistiche dei primi volghi italici; ma anche nelle lande del Nord, nella Germania e nella Danimarca, ove appena sorga una collinetta od un lieve rialzo, le vecchie credenze vi collocarono delle divinità, o vi fecero agire delle forze occulte e misteriose. Perfino nella fredda Islanda, in quella terra delle brume e dei ghiacci eterni, gli scarsi abitanti, addensati sulla costa meglio abitabile, volgevano lo sguardo verso i monti dell’interno, ravvisandovi il soggiorno dei loro numi. Per certo, se avessero saputo ascendere fino all’orlo, orribile a vedersi, dei crateri, dentro i quali fluttua un lago di fuoco; se avessero potuto assistere da vicino allo spaventevole conflitto delle forze più diverse su quelle cime polari, illuminate dalle fiamme di frequenti eruzioni, non avrebbero osato allogare, in un soggiorno maledetto, quelle divinità, che sanno eleggere i luoghi meglio riposati e più favoriti dalla natura. Ma quelle montagne le vedevano solo da lungi; ne scorgevano le cime scintillanti attraverso fauci, per così dire, di negre nubi, e se le figuravano, quelle vette, tanto più belle quanto più monotone e tristi sono le spiaggie della loro isola. Quei monti, disgiunti dalla dimora dell’uomo mercè barriere di rupi e abissi non misurabili, formano, nel mito islandese, la città di Asgard, ove sotto il cielo sempre clemente, vivono gli Dei in una beatitudine senza fine. Quella nube di vapori, che si stacca dalla montagna divina e spazia largamente nel cielo, non era per i superstiziosi isolani, una colonna di cenere, sibbene il gigantesco frassino Ygdrasil, all’ombra del quale riposavano i padroni dell’universo.

 

I Genii

Le religioni si trasformano lentamente. I riti del mondo antico, non più riconosciuti dallo Stato, e da molte generazioni in apparenza scomparsi, sopravvivono, almeno in parte, nei nuovi culti. Spesso le divinità mutarono nome, ma non muta per questo l’altare. Gli attributi della divinità sono pur sempre quelli che ad essa si attribuivano due mila anni or sono, e la fede che si invoca ha per molti conservato la «santa semplicità» della superstizione, per molti altresì non è ancora spoglia del fanatismo. Nelle valli selvatiche dell’Olimpo, ove le scapigliate baccanti s’abbandonavano ad una pazza gioia, i monaci mormorano delle preghiere; sul monte Athos, riguardato dagli antichi marinai quale sede delle divinità, s’innalzano novecento trentacinque chiese in onore di tutti i santi: il Dio dei cristiani ereditò da Giove, come Giove avea ereditato dalle divinità precedenti. A Siracusa, il tempio di Minerva, la cui freccia d’oro veniva salutata dai marinai versando nelle acque una coppa di vino, è ora dedicato alla Vergine. Ogni promontorio che si bagna nel mare, e, nell’interno delle terre, ogni montagna coronata da un tempio, continua ad essere meta di devoti pellegrinaggi, solo è mutato il nome della divinità. Un viaggiatore percorreva l’isola di Cipro, per visitarvi il tempio di Venere Afrodite. Ne chiedeva agli abitanti, e: «Noi non la chiamiamo più Afrodite, esclamava con fervore la pia donnicciuola, la chiamiamo la Vergine Chrysopolite!»

Però i popoli cristiani non solo continuano ad onorare le montagne, che già furono oggetto di culto pei Greci e pei Romani, estesero questo culto, avvivato da una fede certamente superiore alla pagana, in tutti i paesi ove si stabilirono. Come i nostri avi dei tempi leggendari, i nostri antenati di tempi più vicini, massime quelli del medio evo, non potevano contemplare una montagna senza sentirsi religiosamente commossi, e la loro immaginazione dava vita ad esseri superiori, che si piacevano delle valli misteriose e delle cime scintillanti. È vero che questi esseri non avevano grado di numi; maledetti dalla Chiesa venivano riguardati quali spiriti malvagi, quali demonii: oppure, tollerati dalla Chiesa medesima, si consideravano quali genii tutelari, o santi di secondo ordine, e ricevevano onoranze accanto ai patroni principali della Fede.

Giove, Apollo, Venere, discesi dal trono nemboso, ricoverarono nel fondo degli antri: soliti a vivere fra gli splendori meridiani, dovettero adattarsi alle tenebre delle caverne. Cessate le feste dell’Olimpo, si ebbero i convegni delle streghe, che a cavallo di una scopa volavano, nelle notti burrascose, sulle cime dei monti per evocare le potenze dell’Inferno. Quale differenza fra i gioiosi banchetti degli Dei e i sabbati delle streghe bruttati di opere nefande, almeno se vogliamo porgere fede alle relazioni che se ne hanno e al ricordo che ne rimase presso al popolo! Si può anche ritenere che il freddo clima, e il cielo nuvoloso delle contrade settentrionali influissero a sbandeggiare le vecchie divinità dalle alture relegandoli in luoghi, quasi diresti, di pena. E, per dire il vero, come avrebbero potuto prolungare i loro convivi, assaporare l’ambrosia e dilettarsi della musica, che Apollo traeva dall’aurea cetra, vivendo sovra monti avvolti nella bruma, flagellati da venti impetuosi, e coperti tutto l’anno di neve? La fantasia aveva d’uopo di allogare l’Olimpo nei paesi del mezzodì, al disopra delle nuvole dorate dal sole, che quasi figurano all’occhio dei palazzi fantastici: rapidamente si formano, istantaneamente si dissolvono come sogni e miraggi; solo l’etere luminoso conviene ai Figli del Cielo.

Gli Dei e i Genii si possono riguardare come la personificazione di ciò che l’uomo teme o desidera. Le sue passioni, i suoi terrori, le sue medesime ignoranze prendevano, un tempo, forma soprannaturale. E però, fra gli spiriti della montagna, ve ne ha di benevoli, che uno può propiziarsi spandendo sul suolo una ciottola di latte od anche con semplici incantamenti, mentre i maligni, solo intenti a nuocere, uccidono il bestiame o coi loro incantesimi fanno ammalare gli uomini o rendono sterili i campi. Il pastore invoca qualche buon genio affinchè il gregge vada immune dalla epidemia e la mandria vanti i tori più robusti e delle giovenche candide come il latte. A qualche buon genio si rivolgono giovani e vecchi, uomini e donne per avere ciò che dai più si considera come il bene supremo della vita, dell’oro, delle ricchezze, insomma un tesoro. Delle vecchie leggende riferiscono che i genii della montagna discendono nelle viscere della terra e penetrano anche nelle vene della roccia per deporvi i cristalli e i metalli, per mescolare a loro posta le terre e i minerali. E c’è chi pretende conoscere l’ora e le parole magiche, che meglio convengono alla scoperta dei tesori nascosti: sanno come si deve battere la sacra pietra che li ricopre, e i segni e le preci che si devono fare per ottenere l’aiuto degli Spiriti. Che se avviene di omettere una sola sillaba, se non si osserva alla lettera il rituale diabolico, l’incantamento non riesce e si rimane a mani vuote!

M’è occorso di vedere dei vasti scavi intrapresi dai montanari presso l’orlo di una rupe; coperta dalla neve per tre quarti dell’anno. Quel promontorio era dedicato ad un santo, che assunse la protezione del monte succedendo ad una divinità pagana. Ogni anno, tornavano i cercatori di tesori ad allargare quella buca, servendosi di parole e di gesti sacramentali. Non trovavano che dello schisto lamillare, ma non si davano per vinti; i più ostinati continuavano l’opera vana, sperando di evocare il Nume con qualche scongiuro più efficace, e di venire a capo della fantastica intrapresa.

Più interessanti, o, se volete, più importanti di questi, genii che custodiscono i tesori, sono quelli che, nelle caverne della montagna, hanno l’ufficio di vegliare sovra i destini di un’intera razza. Celati nello spessore della roccia, o in altra guisa nascosti agli sguardi comuni, personificano un popolo intero, tradizioni, storia, avvenire. Vecchi come la montagna, dureranno quanto essa, e fin che vivranno, vivrà la stirpe, i cui figli sono sparsi nelle vallate vicine. È il Genio che compendia in sè l’indole e le azioni, la grandezza e le sventure della schiatta, che s’agita ai suoi piedi. I Baschi, per esempio, volgono lo sguardo altero verso il picco d’Anie, ove si cela il loro Dio, non riconosciuto dai preti, ma anche per questo più onorato «Finchè Egli rimane lassù, noi pure vivremo su queste montagne.» E si decretano senza meno l’immortalità, essi la cui lingua forse scomparirà fra non molto!

Allo stesso ordine d’idee popolari appartengono quelle leggende, nelle quali vediamo figurare dei guerrieri o profeti, che, nascosti per secoli e secoli in qualche grotta, devono un giorno o l’altro ricomparire fra gli uomini per effettuare una missione divina. Tale è il mito dell’imperatore tedesco, di Federico Barbarossa, che s’è ritirato in una caverna, e, appoggiato ad una tavola di pietra, vi dorme; la sua barba è cresciuta a dismisura e s’è, caso novo, abbarbicata al suolo.

Tratto tratto un cacciatore, forse un bandito, inoltrò nella caverna e turbò il sonno del possente guerriero. Il quale, levando lentamente la testa, rivolse una interrogazione al nuovo venuto, ma riprese subito il sonno interrotto, dicendo con un sospiro: «Non ancora!» Che attende, adunque, per morire in pace? Senza dubbio l’eco di qualche grande battaglia, l’odore di un fiume di sangue umano, un immenso macello in onore del suo impero. Speriamo che questa battaglia sia già stata combattuta: speriamo che il formidabile campione della forza, il feroce imperatore, «di cui dolente ancor Melan ragiona», non sia ormai che un mucchio di cenere!

Molto più commovente e più bella è la leggenda dei tre Svizzeri, che, in attesa del grande risveglio, riposano nelle viscere di un’alta montagna dei vecchi cantoni forestali, di quei cantoni che videro l’alba dell’indipendenza svizzera e tanto vi contribuirono. Sono tre, come furono tre i patriotti svizzeri che al Grütli, memorabile rupe che sporge sul lago di Lucerna, giurarono, stringendosi la destra, di far libera la patria: e portano tutti e tre il nome di Tell, dell’eroe leggendario che spense il tiranno. Dormono anch’essi; sognano forse: ma non è la vanissima gloria militare che vagheggiano, sibbene la libertà; e non la sola libertà svizzera, ma quella di tutti i paesi e di tutti gli uomini. Tratto tratto l’un di essi si leva per contemplare la più vasta distesa possibile di paese, ma ritorna triste a’ compagni, e ripete egli pure con un sospiro: «Non ancora! Non ancora!» Il giorno della completa liberazione non è ancora spuntato. I popoli, più o meno schiavi, continuano a sberrettare il palo, sia che porti una corona, o il cappellaccio di un demagogo!

 

L’uomo

Aspettiamo, però, aspettiamo con fiducia; il giorno verrà. Gli Dei se ne vanno, traendo seco il corteggio dei tiranni e dei prepotenti, che in nome loro e col concorso di prezzolati sacerdoti hanno asservito i popoli. L’uomo apprende a poco a poco a parlare il linguaggio della libertà; imparerà pure ad osservare i costumi che meglio convengono alla sua dignità e alla sua grandezza.

Fra gli Dei che se ne vanno, o che piuttosto se ne sono andati, collocheremo i Numi tutelari delle montagne. S’è cessato da un pezzo a figurarsi Giove fra i gioghi nembosi: le valanghe e il tuono non esprimono più le sue collere; appena in poesia è permesso di fingere la casta Giunone vestita di candide nuvolette. Senza alcuna tema, noi accostiamo le alte valli, soggiorno degli Dei o rifugio dei genii.

Le cime, un tempo temute, divennero la meta di migliaia di alpinisti, che, si direbbe, abbiano fermamente stabilito di non lasciare alcuna via de’ monti intentata e di piantare su tutte le vette la propria bandiera. E già nelle regioni popolose dell’Europa occidentale, non c’è picco che non sia stato più volte conquistato: quelli dell’Asia, dell’Africa, dell’America vennero pure, almeno i principali misurati e vinti dall’uomo: gli altri lo saranno sicuramente: non è che questione di tempo. Giacchè l’era delle grandi scoperte geografiche volge al suo termine, e, salvo alcune lacune, le terre sono quasi completamente conosciute nel loro insieme, altri viaggiatori, dovendo contentarsi di una gloria minore, si disputano l’onore di essere i primi a superare le montagne non ancora visitate: persino nella Groenlandia si vanno a cercare delle cime ancora vergini di piede umano.

Tra questi alpinisti ve ne ha che, ogni anno, tentano di superare qualche cima molto elevata ed ardua più che altro per vaghezza. Se la vetta non è coperta da una cupola di neve, non trascurano di portare anche delle pietre per segnalare la loro conquista e per innalzarsi ancora di pochi pollici. Credono di essere, in quel momento, i padroni del mondo, giacchè l’intera montagna serve loro di piedestallo, e vedono i regni della terra distesi ai loro piedi. Allungano il braccio come per afferrare la signoria di tutte le cose. Quest’orgoglio potrebbe farci sorridere; e ci ricorda un po’ quel poeta di campagna, che, invitato per la prima volta, a visitare un castello reale, chiese il permesso di salire per un momento sul trono: appena sedutovi, fu preso dalla vertigine della dominazione; e, colta una mosca insolente, che gli dava molestia, esclamò: Sono re, adesso e ti schiaccio!; e con un colpo di pugno eseguì la regia sentenza!

Ad ogni modo anche l’uomo modesto, che non magnifica le sue opere quali sieno, e che non ambisce per nulla la gloria effimera di aver scalato qualche picco di difficile conquista, prova una fortissima gioia quando pone il piede sulla vetta di una importante montagna. Il naturalista De Saussure non tenne, per parecchi anni, intento lo sguardo verso quella cima, che doveva procurargli la più pura gloria, e non fece più volte l’asciensione del Monte Bianco per semplice amore della scienza! Quando, dopo Balmatt egli toccò le nevi, fino allora inviolate, non ebbe solo la gioia di poter fare delle nuove osservazioni, si abbandonò altresì all’ingenua felicità di aver soggiogato un mondo ribelle. Il cacciatore di bestie e anche il cacciatore di uomini provano anch’essi un piacere selvaggio, quando, dopo un accanito inseguimento attraverso boschi e burroni poggi e vallate, raggiungono la vittima e la stendono a terra con una fucilata. Fatiche, pericoli, niente li scoraggia, sorretti, come sono, dalla speranza; ed ora che riposano accanto alla preda caduta, dimenticano ciò che hanno sofferto. Al pari del cacciatore, l’intrepido alpinista prova questa gioia della conquista dopo la fatica, a cui si aggiunge la compiacenza di aver messo in pericolo solo la propria vita: le sue mani sono pure.

Nelle grandi ascensioni, il pericolo è spesso assai vicino; e ad ogni istante si mette a cimento la vita: ma si avanza sempre e si è sostenuti da una viva soddisfazione, che proviene dai rischi evitati o superati: quanto più i rischi sono maggiori e frequenti, ci compiaciamo della saldezza de’ nostri garretti e dalla nostra prontezza di spirito. Spesso accade di camminare lungo un declivio di neve agghiacciata; e basterebbe un passo falso per farci cadere in qualche precipizio. Altre volte, si arrampica sovra un ghiacciaio attaccandosi ad un fragilissimo risalto, che, rompendosi, saremmo slanciati nel sottoposto abisso, di cui non si vede il fondo: si è proprio sospesi tra la vita e la morte. Talora si presentano delle pareti rocciose, le cui sporgenze sono così strette che appena vi si può appoggiare il piede, e, quel che è peggio, sono ricoperte da una lastra di ghiaccio, su cui si spande un velo d’acqua, che si raccoglie in un bacino sottostante: eppure si osa dare la scalata anche a queste muraglie. Però è tale il coraggio e la calma di coloro, che hanno l’abitudine delle grandi salite, che non un muscolo si permette un falso movimento, e si direbbe che il corpo medesimo abbia l’intelligenza del pericolo e sappia con ogni cura evitarlo.

Un viaggiatore sdrucciola sopra una roccia di ardesia pulita e assai inclinata, che taglia bruscamente un precipizio di cento metri di altezza: egli scende con vertiginosa rapidità sul pendio levigatissimo, ma sa distendersi quanto è possibile per presentare una più larga superficie di sfregamento; quindi la sua discesa può essere in qualche modo rallentata dalle asperità anche minime della roccia; si giova delle braccia e delle gambe a mo’ di freno, e, fortunatamente, può fermarsi sull’orlo dell’abisso. Appunto là, un ruscelletto si distende alquanto sulla pietra prima di formare una cascata. Il viaggiatore aveva sete; beve tranquillamente, prima di risolversi a rialzarsi per mettere piede sovra una roccia meno pericolosa.

L’alpinista prende amore alla montagna anche pei rischi che egli vi corse. Però il ricordo del pericolo superato, non è la sola gioia dell’ascensione, specie nell’uomo che, nel corso della vita, ha dovuto sostenere delle forti lotte per compire il suo dovere. Anche senza volerlo, egli non può a meno di vedere nel cammino percorso, ne’ passi difficili, nelle nevi, nei crepacci, negli ostacoli d’ogni specie, un’immagine del penoso cammino della virtù: questo riscontro fra le cose materiali e il mondo morale si presenta naturalmente al suo pensiero. «Ho lottato anche contro la natura, sono riuscito, egli dice; e il dovere è compiuto». Questo sentimento deve avere un grande impero in coloro, che nell’intraprendere un’ascensione hanno davvero uno scopo scientifico, sia di studiare le roccie e i fossili, sia di estendere fin lassù la triangolazione per misurare il paese e formarne la carta. Costoro hanno davvero di che compiacersi se conquistano la cima; se avviene loro qualche sventura, hanno diritto di essere chiamati martiri della scienza. L’umanità riconoscente deve rammentarne i nomi ben più degni di gloria di molti pretesi grandi uomini.

Prima o poi l’età eroica dell’esplorazione delle montagne dovrà finire come in genere avrà termine l’esplorazione del pianeta; e forse il ricordo dei più arditi esploratori diverrà una leggenda. Quale prima, quale dopo, tutte le montagne saranno state scalate: dei sentieri facili, e in seguito (nei luoghi popolosi) delle strade maestre verranno costruite dalla base alla cima, per facilitarne la salita, anche alle persone deboli o di poca lena; per mezzo delle mine si allargheranno i crepacci, per modo che i dilettanti di curiosità naturali possano ammirare la testura del cristallo; chi sa, degli ascensori meccanici verranno disposti nei punti malagevoli; e gli sfaccendati delle cinque parti della terra si faranno innalzare lungo delle muraglie a picco, fumando la sigaretta e ciaramellando della cose più frivole di questo mondo.

Di nulla dovremo meravigliare, giacchè l’arte ingegnerile ha già saputo spingere la vaporeria sino alle vette più elevate. Oltre le ferrovie comuni, che vincono con lunghi giri le più forti pendenze, si sono trovati parecchi ingegnosi sistemi per fare delle piacevoli ascensioni, servendosi del vapore e col minor incomodo possibile. Vennero inventate delle locomotive alpine, mercè cui anche la gente meno adatta alle grandi salite può attingere a pieni polmoni l’aria libera delle montagne, a tutte le ore del giorno, magari per digerire il lauto pranzo fatto nell’albergo della sottoposta pianura. Gli Americani, gente pratica e insieme poetica, cioè intenta a semplificare il godimento delle cose belle senza guastarle, ricorsero, tra i primi, ai più rapidi e più comodi metodi di ascensione. Per attingere più presto e senza fatica la cima della collina, da essi più venerata, a cui hanno dato il nome di Washington, l’eroe della guerra di indipendenza tra i coloni anglo-sassoni e la madre patria, hanno saputo annetterla alla rete delle loro ferrovie, che è forse la più sviluppata e completa di tutto il mondo. Roccie e pascoli sono attorniati da spirali di binari, che i treni salgono e scendono fischiando e snodandosi fra quelle gole e quei dirupi come giganteschi serpenti. Una stazione è stabilita sulla cima; e non vi manca l’abbellimento e la comodità di trattorie e di chioschi nello stile chinese. Il viaggiatore, in traccia d’impressioni, può estasiarsi durante un incomparabile tramonto senza che il suo stomaco ne soffra o che il suo appetito debba fare delle privazioni: alla poesia delle aurore e dei tramonti può associare i giornali, le bibite, i biscottini.

Il sistema che gli Americani applicarono sul monte Washington, fu adottato dagli Svizzeri per il Righi, proprio nel mezzo di quel panorama grandioso, che è noto in tutto il mondo, abbellito dalle più pittoresche montagne e da non so quanti laghi. Lo adottarono pure pel monte Utli; ed è probabile che venga introdotto anche in altri luoghi, per modo che l’arte verrà a levare quasi del tutto i disagi del salire, appianando le cime anche più aspre e di più difficile ascensione.

Le ferrovie funicolari si cominciano ad introdurre altresì in Italia. La vaporiera trasvolerà da valle a valle, a mezza costa od anche sulla cresta delle montagne, come una nave trascorre l’Oceano ora innalzandosi ed ora abbassandosi sulle mobili onde. Rispetto alle vette eccelse delle Ande e dell’Imalaja, che spaziando nella regione del freddo intenso mal possono venire esplorate dall’uomo, si troverà altro modo di giungervi. Di già gli areostati hanno portato l’uomo ad un’altezza anche maggiore di quella che avea saputo attingere colle sole sue forze; l’aerea navicella saprà deporre lo scienziato e l’alpinista sulla cima del Gaurisankar, sul «Gran diadema del cielo scintillante.»

L’intraprendenza dell’uomo, che sconvolge e modifica la superfice della terra pei proprii fini, non si limita a rendere le montagne di facile accesso, sa anche al bisogno perforarle, appianarle; sa compire giganteschi lavori, che destano dapprima una specie d’incredulità, quando vengono proposti, ed eseguiti ottengono la più generale ammirazione. I trafori compiuti in questi ultimi anni, nelle Alpi e in altre catene, per aprire delle vie alla vaporiera, mostrano l’ardire e la pertinacia della scienza e dell’arte. Non c’è quasi ostacolo che vieti il passo all’uomo; s’egli si ostina, trionfa di qualsiasi impedimento; e viene a poco a poco foggiandosi una terra novella più adatta ai bisogni. Gli occorre un vasto porto di rifugio per le sue navi? Demolisce, pezzo a pezzo, un promontorio vicino, e lo getta nel fondo del mare per costruire un argine od un molo, capace di resistere alle più terribili burrasche. Se glie ne venisse l’idea, o piuttosto se vi fosse un motivo sufficente per farlo, saprebbe, credo, frangere delle alte montagne, triturarle e spargerne i frammenti sulla pianura. Anzi un somigliante lavoro è già incominciato. In California, i minatori cui tardava d’arricchirsi, stanchi di raccogliere la polvere e le pagliuzze d’oro trasportate dai fiumi, formarono l’idea di demolire i monti, che nascondono i tesori da essi agognati. In molti punti, spaccano la dura roccia per estrarne il metallo: ma questo lavoro è lento e costoso. La bisogna è più facile quando hanno dinanzi a sè dei terreni di alluvione, specie delle sabbie mobili e ghiajose. Allora, pigliano il nemico di fronte, logorano incessantemente il pendio con copiosi getti d’acqua, slanciata col mezzo di pompe da incendio e sfasciano a poco a poco la montagna per estrarne le molecole d’oro. In Francia si ebbe l’idea di spazzare via nello stesso modo una parte delle enormi masse antiche di alluvione accumulate in collinette dinanzi i Pirenei: col mezzo di canali, quegli avanzi, già impastati e inumiditi per modo da formare un fertile limo, verrebbero trasportati e deposti sulle pianure sterili della Francia occidentale, che prendono il nome di lande.

Per fermo, sono codesti dei progressi ragguardevoli. Non è più il tempo in cui i sentieri di campagna erano così stretti, che in alcuni luoghi davano il passo ad una sola persona. Tutti i punti della terra divengono, un po’ per volta, accessibili, anche per gli invalidi, e pei malati; nello stesso tempo, le più celate ricchezze vengono volte a profitto degli individui e della società; la vita media dell’uomo non solo s’allunga a motivo delle regole igieniche meglio osservate e per le progredite condizioni sociali, s’allunga altresì mercè un guadagno considerevole di tempo e un grande risparmio di forze, mentre il privato e pubblico tesoro s’arricchisce dei beni rapiti alla terra, o chiesti alla medesima col lavoro. Se non che, come tutte cose umane, questi progressi genereranno anche dei mali, o degli abusi corrispondenti; a volte, si giungerà persino a dubitare del loro vantaggio, forse a maledirli, come pur ci accade, in certi accessi di misantropia, di bestemmiare la parola, la scrittura, il libro ed anche il pensiero. Checchè si dica dai perpetui lodatori del buon tempo antico, la vita, così dura per la maggior parte degli uomini, diverrà ogni giorno più facile, forse troppo facile per ciò che riguarda la ginnastica della volontà e la forza del carattere. Toccherà a noi di vegliare a che questa soverchia facilità non danneggi le future generazioni: procureremo che una gagliarda educazione armi il giovane di indomabile coraggio e lo renda capace dei più eroici sforzi; solo mezzo per conservare all’umanità il suo vigore morale e materiale! Spetta a noi di supplire con delle prove volontarie e metodiche a quella lotta per l’esistenza, che si farà via via sempre meno aspra. Un tempo, quando la vita era una battaglia incessante dell’uomo contro l’uomo o gli animali feroci, l’adolescente era considerato come un fanciullo fino a che non avesse portato in casa qualche sanguinoso trofeo. Egli doveva mostrare la forza del braccio, la saldezza dell’animo, un ardore a tutta prova prima che gli fosse permesso di levare la voce nel consiglio dei guerrieri. Nei paesi, ove il maggior pericolo non consisteva tanto nel misurarsi col nemico come nel sopportare la fame, il freddo, le intemperie, era spesso il giovinetto, il futuro uomo abbandonato nella foresta senza nutrimento, senza vestito, esposto agli aquiloni, all’assalto delle fiere, al morso degli insetti: egli doveva rimanere in quella solitudine, fra quei pericoli, fra quelle privazioni senza mormorare, senza tremare, impassibile, il volto calmo e fiero: e dopo lunghe giornate di attesa e di vigilanza, forse di lotta, doveva serbare ancora tanta forza da lasciarsi torturare senza mandare un lamento, o da assistere ad un lauto banchetto senza stendere la mano per chiedere o per prendere.

Adesso non s’impongono più queste barbare prove ai nostri figli, ma, sotto pena di decadenza e d’infiacchimento, l’educazione deve agguerrire il fanciullo, deve dargli un sentire alto e fermo, non solo contro le sventure possibili, ma specialmente contro quelle facilità della vita che spossano o svogliano dal grandemente operare. Lavoriamo a rendere l’umanità felice, ma insegniamole nello stesso tempo a sprezzare la felicità, a non cercarla, a saperne fare a meno; rendiamola superiore alla medesima felicità mediante la virtù.

In questo compito, tanto essenziale, dell’educazione dei fanciulli, e, mercè loro, dell’umanità futura, la montagna può avere non piccola parte. La vera scuola dev’essere la natura libera, i cui vasti paesaggi inebbriano l’occhio, e che offre sì larga materia di studio: non solo la montagna può giovare l’intelligenza dell’uomo, ma gli ostacoli e i pericoli che presenta servono a ringagliardire il suo carattere. Non è certo in anguste stanze, dalle finestre chiuse mediante grate o schermagli, che si faranno degli uomini coraggiosi e puri. Che si conceda ad essi la gioia d’immergersi nei torrenti e nei laghi della montagna, si permetta loro di passeggiare sui ghiacciai e sui campi di neve; s’imponga loro tratto tratto la fatica delle grandi ascensioni ed anche il rischio, se occorre, delle ardite scalate. Non solo impareranno senza fatica ciò che nessun libro può insegnare loro; non solo si ricorderanno poi sempre di ciò che avranno appreso in quei giorni felici, quando la voce del maestro si associava alla vista dei paesaggi graziosi e imponenti; impareranno altresì a sfidare il pericolo e a vincere ogni meschina timidezza. Lo studio sarà per essi un piacere e il loro carattere si formerà nel pieno e libero godimento della vita.

Non c’è dubbio, noi siamo alla vigilia di compire i più importanti cangiamenti sia sulla superfice della terra, sia nelle condizioni sociali e nella vita dall’umanità: questo mondo esterno, che già noi abbiamo saputo in parte adattare ai nostri bisogni, verrà da noi trasformato con mezzi ancora più efficaci e per raggiungere dei fini sempre più elevati. Man mano che aumenta il nostro sapere e la nostra potenza materiale, la nostra volontà diventa sempre più ardimentosa e tenace rispetto alla natura. Attualmente, quasi tutti i popoli detti civili impiegano la maggior parte del loro risparmio annuale a tenersi armati per difesa ed offesa, ad apparecchiare grandi mezzi distruttivi: che se la guerra scoppia fra uno stato e l’altro i danni sono incalcolabili; ma in seguito, e speriamo che ciò sia presto saranno meglio avvisati, e impiegheranno a preferenza i loro risparmi nell’aumentare la produzione del suolo, nell’utilizzare le forze tutte quante della terra, nell’abbattere ogni ostacolo che si opponga al libero svolgimento della civiltà. Venuto questo giorno, che tutti gli uomini di mente e di cuore sospirano ardentemente, la scienza, l’arte e l’industria troveranno maggiori mezzi per operare nuovi prodigi, e la terra continuerà a trasformarsi sotto i nostri occhi, ma con maggiore rapidità e con effetti ancora più utili.

Ogni popolo darà, per così dire, una veste nuova alla porzione della terra, assegnatagli per sua dimora. I campi coltivati e le strade, le case e le costruzioni d’ogni specie, la disposizione medesima degli alberi, il raggruppamento e lo stile degli edifici daranno più che mai una fisonomia speciale al paesaggio, per modo che valga a rivelare, più che mai l’indole degli abitanti. Insomma così gli individui come le nazioni potranno più facilmente che non ora effettuare il proprio ideale. Quei popoli, che hanno davvero il sentimento del bello, sapranno rendere la natura più bella. Che se la gran massa dell’umanità dovesse restare quello che è adesso, ciò che davvero non vorremmo ammettere; se il maggior numero dovesse conservarsi rozzo, egoista e falso, la terra non potrebbe progredire nel vero senso della parola, e non acquisterebbe che una apparente e menzognera bellezza. In tal caso verrebbe forse di chiedere col poeta: «Ove fuggire? la natura diviene brutta!»

Qualunque debba essere l’avvenire dell’umanità, qualunque sia l’opera che essa saprà compiere intorno a sè, la solitudine, specie dove l’arte umana non è ancora giunta od ha fatto pochissimo, diverrà sempre più necessaria agli uomini, i quali, lungi dal conflitto delle opinioni o dai vani rumori del mondo, vogliono rattemprare il loro pensiero. Se i luoghi più deliziosi o più imponenti della terra dovessero, un giorno, divenire più che altro il ritrovo di tutti i disoccupati, ai pochi che amano vivere nell’intimità della natura non rimarrebbe che di fuggire sovra una barca in mezzo alle onde, o piuttosto dovrebbero attendere il giorno in cui si potrà, al pari degli uccelletti, librarsi negli spazi. Però essi rimpiangerebbero sempre le fresche vallette dei monti, e i torrenti che sgorgano dalle nevi inviolate e i pinacoli candidi o rosei che si spingono nel cielo azzurro. Fortunatamente, le montagne continuano ad offrire i più secreti asili a coloro che fuggono le strade troppo battute. Chi sa per quanto tempo ancora sarà dato di allontanarsi dal mondo frivolo e di trovarsi, in montagna, a faccia a faccia col proprio pensiero, colla natura, al di fuori di quella corrente d’opinioni volgari e fittizie che turbano e sviano anche gli spiriti più sinceri.

Che sorpresa fu la mia, e come furono rotte penosamente le mie abitudini, quando, oltrepassata l’ultima cerchia della catena, mi trovai alle falde della regione alpestre là dove la collina con insensibile declivio si unisce alla pianura, alla grande pianura dagli orizzonti indistinti e fuggitivi, dallo spazio illimitato. Il mondo immenso era dischiuso dinanzi a me poteva volgermi verso quella parte dell’orizzonte, che meglio gradiva al mio capriccio; feci molto cammino, ma l’orizzonte non si spostava nemmeno, e la natura circostante aveva perduto il suo prestigio e la sua varietà. Non udiva più il garulo torrente che saltella fra i sassi; nevi e roccie s’erano tolte al mio sguardo; vedevo sempre la medesima campagna monotona. Libero era il mio andare, eppure mi sentiva men libero che non lassù, quasi imprigionato, stanco; un solo albero, un arbusto bastava a celarmi l’orizzonte; non una strada che non fosse fiancheggiata ai due lati da alti siepi o da muricciuoli.

Nell’allontanarmi dai monti che amava e che fuggivano così presto da me, mi volgevo spesso indietro per discernerne le forme impicciolite.

I pendii si confondevano a poco a poco in una medesima massa azzurrognola; le larghe spaccature delle vallate cessavano d’essere visibili; le cime secondarie scomparivano; solo le cime più alte si disegnavano sul fondo luminoso. Dopo alcune ore, l’impuro polverio che si innalza dalla pianura mi celò i bassi pendii delle montagne; non vedevo altro che una specie di scenario quasi compatto sulle nuvole, e non senza fatica poteva discernere, fra le altre la mia montagna, e risalutare le vette tanto note e da me con tanto diletto conquistate. In seguito ogni linea si perdette e confuse nel cielo nuvoloso: la pianura senza limiti visibili mi circondò da ogni parte. Pur troppo la montagna era assai lungi da me; ed io ero ritornato nel gran tumulto degli uomini. Almeno ho potuto conservare nella memoria la dolce impressione del passato. Veggo ancora sorgere dinanzi ai miei occhi l’amato profilo dei monti, ritorno col pensiero nelle vallette ombrose; e, per alcuni istanti, gusto di nuovo in pace le dolci sensazioni che vengono dalla rupe, dal ruscello, dall’insetto, dal filo d’erba.

[1] Nell’originale “cristaux” “cristalli di ghiaccio” secondo la traduzione di Persio Falchi. [nota per l’edizione elettronica Manuzio].

[2] Nell’originale “érèbes”; “nottue nere” secondo la traduzione di Persio Falchi. [nota per l’edizione elettronica Manuzio].

[3] Nell’originale “mites” “pulci dei ghiacci” secondo la traduzione di Persio Falchi. [nota per l’edizione elettronica Manuzio].

[4] Nell’originale “guidées” “guidate” (riferito a tribù) secondo la traduzione di Persio Falchi. [nota per l’edizione elettronica Manuzio].

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Essere obiettivo

di Fabrizio Rinaldi, 30 aprile 2018

In fotografia la creazione è un breve istante, un tiro, una risposta, quella di portare l’apparecchio lungo la linea di mira dell’occhio, catturare quello che ci aveva sorpresi nella piccola scatola a buon mercato afferrandolo al volo, senza artifici e senza sbavature. Si fa della pittura ogni volta che si prende una fotografia.
HENRI CARTIER-BRESSON, L’immaginario dal vero, Abscondita 2005

Il racconto nell’album fotografico

C’era sempre una presenza discreta nelle gite, nelle feste e nelle ricorrenze: una macchina fotografica al collo di mio padre. Negli anni Settanta lo ricordo sempre con quella reflex mentre scattava foto ai familiari.
Autodidatta, come me, aveva una vera passione per quella piccola scatoletta: inquadrava, scattava e portava a svilupparne il rullino dal fotografo. …

Fotografia e utopia (di Paolo Repetto)

Il pezzo di Fabrizio sulla fotografia ha casualmente incrociato lungo il mio percorso di letture un breve saggio di Pietro Bellasi comparso trentacinque anni fa su Prometeo (rivista che ancora esiste, o almeno esisteva sino ad un paio d’anni fa) …

La fotografia immemore

Dobbiamo muoverci e pensare ad una velocità sempre maggiore: questo ci chiedono i ritmi imposti dalla modernità. In realtà la nostra mente non è evolutivamente preparata alla brusca accelerazione impressa negli ultimi cento anni, pochissimi se paragonati all’intero arco della storia antropica …

Che i digitali diventino analogici

I bambini ospitati a turni settimanali nella struttura educativa dove lavoro vivono un altro modo di fare scuola. Sperimentano attività e fanno esperienze (le escursioni naturalistiche, ad esempio) che non sono previste nel contesto scolastico abituale …

Riconosciute assenze

L’applicazione della tecnologia digitale alle macchine fotografiche e l’uso diffuso di software di fotoritocco hanno semplificato il gesto del fotografare fino a generare una polluzione incontrollata di immagini, per lo più ordinarie, che ci sorbiamo nostro malgrado e che rispondono a un artificioso bisogno indotto dalla modernità: quello della “spettacolarizzazione di sé” e della condivisione in rete della propria squallida quotidianità…

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Riconosciute assenze

s’intravvede, ma non si vede

di Fabrizio Rinaldi, 8 aprile 2018

L’applicazione della tecnologia digitale alle macchine fotografiche e l’uso diffuso di software di fotoritocco hanno semplificato il gesto del fotografare fino a generare una polluzione incontrollata di immagini, per lo più ordinarie, che ci sorbiamo nostro malgrado e che rispondono a un artificioso bisogno indotto dalla modernità: quello della “spettacolarizzazione di sé” e della condivisione in rete della propria squallida quotidianità.

Questa ossessione ha contribuito ad uniformare verso il basso molti aspetti del gesto fotografico, da quelli tecnici relativi al marcato bilanciamento dei colori e ai loro contrasti a quelli contenutistici, relativi alla scelta dei soggetti. Nel novantanove per cento dei casi ad essere ritratto è chi fotografa (selfie), oppure sono familiari, animali domestici, tramonti, edifici, o ancora, “eventi” che si pretendono tali solo perché l’immagine è opportunamente mirata a suscitare una qualche reazione emotiva (per lo più di pancia – o giù di lì).

L’inflazione d’immagini fa si che queste raramente rimangano nella memoria, poiché non suscitano particolari emozioni né in chi le produce, né in chi le guarda. Va così persa una peculiarità fondante del fotografare, ossia l’essere una raffigurazione concreta di un pensiero.

La semplificazione del processo fotografico pone interrogativi a chi, come me, vorrebbe continuare a scattare senza cadere nelle mediocrità del già visto e ambisce a produrre immagini che, almeno a livello personale, trasmettano una qualche tensione emotiva.

Vedere e fotografare, nell’accezione più pura, significa esser consapevole dell’“unicità” di ciò che si sta guardando, che è tale in un tempo concluso, ovvero in quel preciso momento, scegliere di fermare quell’istante e di fissarlo attraverso il mezzo fotografico. Questo gesto richiede una – seppur mediocre – padronanza tecnica, la capacità di mettere a fuoco e isolare il soggetto all’interno dello spazio che occupa, la percezione istintiva della quantità di luce necessaria ad evidenziare ciò che l’obiettivo inquadra, ma soprattutto una buona dose di lucidità e di distacco: ovvero un coinvolgimento emotivo controllato, almeno un po’. È senz’altro necessaria anche una certa presunzione nel riproporre soggetti che quasi sicuramente sono stati fotografati da altri molto più bravi. Basta fare una ricerca in rete per vedere foto davvero belle che fissano quel paesaggio, quel fiore o quello scorcio che ci apprestiamo a fotografare.

Quindi, dobbiamo prevedere nell’equipaggiamento una borraccia piena di presunzione. Ci tornerà utile quando, individuato il soggetto, ci verranno in mente le immagini scattate da fotografi più o meno titolati. Per una frazione di secondo esiteremo prima di schiacciare l’otturatore. Ma a quel punto, bevuto un sorso dalla borraccia, scatteremo la “nostra” foto che regalerà a noi – forse solamente a noi – un briciolo di emozione. Se poi non è paragonabile alle calle di Tina Modotti, ai panorami di Ansel Adams o ai nudi di Man Ray, chi se ne frega!

Piuttosto, una volta premuto l’otturatore avremo l’illusione d’aver fissato quel momento in un’immagine senza tempo: ma non è così.

Anzitutto perché, come detto prima, la memoria diffusa delle immagini è labile e a brevissimo termine, proprio per la quotidiana indigestione che ne facciamo: quindi presto scorderemo quei fotogrammi, che difficilmente si raccomanderanno nella memoria collettiva per una loro intrinseca rilevanza o per le loro qualità estetiche.

C’è poi l’aspetto connesso all’hardware su cui sono conservate le tanto care foto. Il tempo continua a scorrere per noi, ma anche per loro. Apparentemente le immagini rimangono inalterate, ma sia nei file digitali, sia nelle stampe fotografiche è in atto un continuo deterioramento. E a dispetto di ciò che si pensa, se sono immagazzinate in bit il deterioramento sarà ancor più veloce di quello delle fotografie cartacee: si potrebbe guastare l’apparecchio su cui sono conservate, potrebbero esser dimenticate e quindi in un secondo momento cancellate, o, in un continuo copia-incolla, è sufficiente la perdita di qualche “zero” o “uno” per rendere illeggibili i file.

La consapevolezza di questa precarietà, insieme all’importanza che diamo a ciò che viene inquadrato nel mirino della reflex, ci dovrebbero render maggiormente coscienti del “momento fluttuante” che ci accingiamo a fotografare. In questo modo dovrebbe risultare più facile realizzare foto che abbiano una possibilità di rimanere per un po’ nel ricordo, almeno nel nostro.

Quando metto mano alla macchina fotografica mi scopro ad inquadrare per lo più soggetti che escludono la presenza umana. Preferisco soffermarmi sulle tracce riconoscibili del suo passaggio: la sua interazione col territorio, le sue opere, le sue manipolazioni e le sue dimenticanze.

Cerco insomma la “pregnanza” umana che il manufatto, il paesaggio o l’edificio rivelano, che hanno assorbito – magari in tempi antichi – dai loro costruttori. Allora fotografo balconi, finestre, barche dismesse, legni e ferri abituati al lavoro umano, angeli di pietra che sorvegliano gli ingressi, fontane, porte, terrazzamenti e così via, alla ricerca della seduzione di cui l’autore ha impregnato – intenzionalmente o meno – quel manufatto. Oppure perseguo l’incanto inatteso che a volte il degrado e l’abbandono regalano alla materia creata dall’uomo: ad esempio le croste sui muri di vecchie case, sui quali il decadimento fa scaturire la bellezza di una semplice ed autentica disarmonia.

Ho difficoltà invece a fotografare volti: non per superstizione aborigena, ma per la convinzione che ritrarli presupponga un’esposizione del soggetto alla violenza inferta dallo scorrere del tempo e al giudizio estetico – inconscio o meno – di estranei.

C’è poi una personale tensione relativa alle reali intenzioni di chi fotografa e di chi è fotografato: quanto voglio rivelare del soggetto e di me in un’immagine? È un interrogativo rilevante in tutto il mondo fotografico, ma in particolare in quella di ritratto.

Il tempo è impietoso: la foto che ci ritrae oggi pare brutta, ma rivista tra dieci anni potrebbe persino indurci ad affermare che non eravamo male. Per questo i ritratti mi bloccano: hanno qualcosa di maligno, fissano un tempo che si allontana da noi, e ce lo ricordano.

Un’altra domanda che sorge quando guardiamo una nostra foto è: ma è così che mi vedono gli altri? Quesito lecito, che mette in luce la distonia con la nostra corporeità e con lo spazio scenico che occupiamo nella quotidianità.

Lo sguardo diretto sottende una sfida che spesso non voglio sostenere, perché implicitamente mette in discussione anche me. O meglio, riesco a ritrarre la persona solo quando tra me e chi inquadro c’è una rilevanza emotiva. Altrimenti lo scatto finirà in un semplice album familiare, ma di questo abbiamo già parlato.

In ogni gesto del fotografare, ogni volta che la macchina fa clic, c’è una certa violenza, che lo si voglia o no. L’atto stesso di fermare qualcosa è potenzialmente violento, anche se si tratta di una foto molto affettuosa. Io credo nel valore dell’idea indiana secondo cui fotografare una persona equivale a rubarne il volto. C’è una cosa degli aborigeni australiani che mi ha colpito molto: non hanno il permesso di guardare l’immagine di una persona morta. Dunque un morto non dovrà più comparire da nessuna parte, né in un libro, né in una foto. Per questo, quando qualcuno muore, si porta via tutto ciò che potrebbe ricordarlo, ogni sua immagine. Per lo stesso motivo gli aborigeni non amano farsi fotografare: perché sanno che la foto sopravvivrà loro oltre la morte, che ogni foto dura al di là della persona, oltre ogni fenomeno che loro possono cogliere, oltre l’istante in cui è stata scattata. È questo a spaventarli.
WIM WENDERS, Una volta, Contrasto 2015

Sai che non c’è una sola foto di Hillary sull’Everest in quella prima salita del ’53? Hillary aveva l’apparecchio e fotografò Tenzing, il contorno delle montagne intorno, ma non chiese a Tenzing di fargli una fotografia. Non è speciale questo? Hillary era lassù a nome collettivo, era solo un rappresentante della specie umana. Non so se gli venne la tentazione di passare a Tenzing l’obiettivo. So che non lo fece e per me quello scatto mancato è il più bello di tutti, il colpo di umiltà che dà la precedenza all’impresa, non a chi la compie.
NIVES MEROI
da ERRI DE LUCA, Sulla traccia di Nives, Feltrinelli 2016

In fotografia la creazione è un breve istante, un tiro, una risposta, quella di portare l’apparecchio lungo la linea di mira dell’occhio, catturare quello che ci aveva sorpresi nella piccola scatola a buon mercato afferrandolo al volo, senza artifici e senza sbavature. Si fa della pittura ogni volta che si prende una fotografia.
HENRI CARTIER-BRESSON, L’immaginario dal vero, Abscondita 2005

Collezione di licheni bottone

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Un medico a 4500 metri di quota

Una storia vera sotto forma di racconto

di Stefano Gandolfi, marzo 2018 (Tibet-Nepal, ottobre 2001), da sguardistorti n. 02 – aprile 2018

Steve viaggiò molto, dentro e fuori se stesso, nel mondo e nel proprio caos interiore.

Non viaggiò tanto come i viaggiatori di professione, come i cacciatori di visti sul passaporto, come i collezionisti di dogane e frontiere. Le vere frontiere da superare forse si riesce una sola volta nella vita a varcarle veramente, ed ancora più difficile risulta il non tornare più indietro.

Viaggiò comunque a sufficienza da stampare nel proprio DNA emozioni e ricordi che solo la dissoluzione della mente, l’Alzheimer o la morte potranno sottrargli.

 

Si trovò anche ad attraversare, in momenti e circostanze che ancora adesso oscillano fra sogno e realtà, i maestosi altipiani tibetani in una lungo raid su fuoristrada da Lhasa a Kathmandu, sempre al limite tra terra e cielo, a quote che a casa nostra sono dominio delle nevi e dei ghiacci. Conobbe strani e meravigliosi personaggi che gli spiegarono in una lingua sconosciuta ma perfettamente comprensibile come sia possibile avvicinarsi alle risposte cercate invano per tutta la vita, ammesso che qualcuno abbia dentro di se almeno ancora la volontà di porsi certe domande.

Conobbe la saggezza in volti devastati dall’ipossia, dalla fame, dalla brutalità dell’invasione cinese: in quegli occhi vide ostinatamente, spudoratamente la gioia, la serenità, l’accettazione del proprio destino, la consapevolezza che nel fluire del tempo e della vita il singolo individuo è un frammento insignificante che non può e non deve sprecare energie per cercare di cambiare ciò che è infinitamente superiore al più forte degli esseri umani: ovvero il significato del proprio viaggio che fin dalla nascita corre su binari prefissati e con una meta sconosciuta ma scritta nel codice genetico prima ancora di iniziare la fatica di vivere.

Ovviamente non poté assolutamente capire né accettare queste risposte, tanto erano estranee al modo di vivere al quale era stato educato e cresciuto e dal quale cercava di fuggire, ma senza avere gli strumenti per poterlo fare veramente.

Conobbe le montagne straordinarie dell’Himalaya, che toccò con mano, calpestò fin dove le circostanze del viaggio gli permisero di fare. Le vide dall’aereo di linea nel volo dal Nepal al Tibet, le vide dalle polverose piste sterrate della trans-himalayana, dai finestrini delle Toyota Land Cruiser che viaggiavano indifferenti fra valichi a 5300 metri di quota ed altipiani infiniti e misteriosi, tra cime maestose e senza nome perché non aveva senso dare loro un nome, salvo che per gli alpinisti cinesi ed europei, americani e giapponesi accomunati dalla frenesia di poter scalare vette ancora vergini e prestigiose per il proprio curriculum.

Le vide da un piccolo aereo turistico pilotato da un folle aviatore nepalese che lo portò così vicino al suo amato Everest da fargli temere per un attimo di atterrare in modo poco convenzionale al colle Sud ad ottomila metri di quota: ma una virata incredibile a 180 gradi quando erano ormai a non più di due chilometri in linea d’aria dalla parete sud gli permise di imprimersi in modo irreversibile nella mente l’immagine della “sua” montagna e di tornare incolume all’aeroporto di Kathmandu.

 

Vide le limacciose, sacre acque del Bhagmati, affluente del Bramhaputra, attraversare il quartiere induista di Kathmandu per raccogliere le ceneri dei cadaveri bruciati su cataste di legna e poi affidati al fiume nel loro ultimo viaggio; e vide la gente lavarsi nel fiume e raccogliere l’acqua per bere e per cucinare, la vide fare bucato nel fiume accanto alle pire fumanti.

 

Vide i bambini degli altipiani, figli delle tribù di nomadi e pastori, giocare con gli yak e con palle di stracci; indossavano maglie, felpe, pantaloni di incredibili e sgargianti colori con scritte occidentali, regali dei turisti che gli portavano gli abiti dei loro figli.

Li vide con la pelle scura, perché non avevano mai conosciuto il sapone. Ma erano sani e sembravano felici. Li vide aspettare in disparte, silenziosi, che alla fine dei pic-nic dei turisti si offrisse loro qualcosa da mangiare: e Steve si adattò a mangiare sotto il loro sguardo discreto, educato ed incuriosito dallo strano cibo degli occidentali, dal grana padano e dallo speck portato di scorta nel caso che il cibo locale non fosse di troppo gradimento.

Vide i templi ed i monasteri bhuddisti, distrutti dai bombardamenti cinesi e ricostruiti ostinatamente pietra su pietra dai monaci e dalle popolazioni dei villaggi vicini. Calpestò i loro pavimenti di legno, scivolosi e lisciati dal passaggio di migliaia di pellegrini, respirò l’odore del burro di yak, utilizzato per ogni scopo, come fondamento della loro alimentazione e come combustibile da bruciare nelle lampade votive: enormi recipienti di rame accoglievano centinaia di lumini che creavano un irreale, tenue illuminazione in ambienti privi di finestre e di corrente elettrica, e sullo sfondo le enormi statue delle divinità bhuddiste troneggiavano con quei sorrisi rassicuranti ma al tempo stesso inquietanti e così difficili da comprendere nel loro significato simbolico.

Vide i cieli incredibilmente azzurri come si possono vedere solo dove l’aria è estremamente rarefatta ed i colori sono così saturi, intensi da sembrare artificiali.

Vide i cilindri di preghiera, e Steve non si stancò mai di farli girare perché così anche lui contribuiva a far salire in cielo le preghiere contenute dentro di essi.

Vide il Potala, la residenza del Dalai Lama fino al giorno in cui dovette fuggire in India per proseguire in modo libero ad esercitare la sua influenza morale sul popolo tibetano. E rimase come tutti sgomento e senza fiato davanti alla maestosità dell’edificio: aveva paura di un impatto emotivo indebolito dalle centinaia di foto e di filmati visti e rivisti sul palazzo e su Lhasa, ma si rese conto subito che esserci veramente davanti annulla ogni immagine vista a casa ed ogni descrizione letta a tavolino. La stessa sensazione che aveva avuto in Perù visitando Machu-Picchu: pensava di conoscere ogni singola pietra del villaggio Inca e di non potersi emozionare più di tanto a vederlo dal vivo, invece l’impatto fu straordinario. Questo fa la differenza fra il viaggiare con la fantasia ed esserci davvero.

Vide i militari cinesi pattugliare armati la piazza del Jokhang, e comprese che lì, davanti al tempio più sacro del buddismo, avvennero fatti molto più sanguinosi che a Tien-an-Men, ma praticamente nessuno al mondo se ne accorse o volle accorgersene. Su quella piazza, a distanza di anni dal tentativo di resistenza tardivo, quasi patetico del popolo tibetano ma soffocato con violenza inaudita dai “liberatori”, ancora adesso era vietato “radunarsi” in gruppi di più di tre-quattro persone, pena il materializzarsi di una guardia del popolo a far cessare subito l’adunata sediziosa.

Vide molte altre cose e tante persone, ognuna delle quali meriterebbe un racconto ed una citazione, ma tutto ciò rimane indelebilmente nella sua memoria e questa è la cosa più importante: “ricordati tutto ciò che hai visto, perché tutto ciò che dimentichi ritorna a volare nel vento” disse un saggio apache.

Al termine di un ennesima lunga, faticosa e straordinaria giornata consumata su piste sterrate al limite dell’impraticabilità, dopo il guado di diversi torrenti ed infinite deviazioni per visitare un minuscolo monastero in uno dei villaggi più solitari e suggestivi dell’altipiano tibetano, la piccola carovana di Land Cruiser arrivò, come mai più in quel viaggio, vicina all’Everest.

Steve riuscì a convincere i compagni di viaggio a cambiare destinazione per la notte, d’accordo con la guida, e sul tardo pomeriggio arrivarono a Tingri. Villaggio di poche decine di case, a 4500 metri di altitudine, esattamente di fronte alla parete ovest dell’Everest. Il destino volle che della grande montagna non si vedesse nulla: nuvole basse coprivano completamente l’orizzonte e non si dissolsero né per il tramonto né la mattina dopo. Ma non aveva importanza: tutti sapevano che essa era là davanti a loro, non si poteva, forse, pretendere di averla a disposizione così facilmente. E forse l’averla sognata così intensamente ha lasciato nell’immaginazione di tutti un ricordo ancora più nitido e vivo che se la si fosse potuta vedere veramente.

Un piccolo “lodge”, una via di mezzo fra un rifugio alpino in stile tibetano ed un bed &breakfast molto spartano, diede ospitalità a Steve, a sua moglie Augusta ed ai loro compagni. Piccole stanze, tutte al piano terreno, disposte su tre lati di una corte quadrata, rigorosamente senza luce elettrica e con un unico bagno comune che difficilmente svanirà dal ricordo degli ospiti: praticamente cinque-sei latrine separate da murettini alti si e no mezzo metro; l’ultima, più appartata, era più larga per esigenze specifiche il che creava anche il rischio di caderci dentro se di notte, al buio, con una lampada frontale in testa e con una feroce emicrania da ipossiemia il coraggioso fruitore non stava ben attento a divaricare adeguatamente le gambe …

Dentro le stanze una candela accesa: una sfida all’intelligenza degli occidentali poco acclimatati; perché non si capì subito che anche il poco ossigeno consumato dalla candela era meglio conservarlo per irrorare il cervello. Un lavabo stile nostre campagne del secolo scorso ed un grosso recipiente termico per conservare l’acqua calda (riscaldata dall’enorme stufa della cucina) completavano l’arredo delle stanze: tutto l’essenziale, nulla di superfluo. Il pagliericcio non era neanche poi scomodo.

Ad un’estremità della corte, la grande stanza con la cucina, un’enorme stufa in mezzo ed il locale comune per mangiare, proprietari ed ospiti tutti insieme. Niente sedie; tappeti e cuscini per terra tutt’attorno a un lungo tavolo quasi al livello del pavimento; così che si finiva per mangiare comodamente e mollemente coricati in posizione orizzontale. Acqua e birra tibetana, cibo a volontà e probabilmente in quello sperduto lodge al altissima quota Steve e soci mangiarono meglio che in qualunque albergo di standard di lusso per i parametri cinesi, con un ospitalità che andava ben oltre i doveri dei gestori di un locale a pagamento.

Ma prima di mangiare, una ben strana esperienza toccò Steve nel cuore. Entrando nella grande sala, già con la mente un po’ annebbiata dall’ipossia, dalla stanchezza della giornata passata sui fuoristrada e dalle birre tibetane bevute poco prima, Steve venne accolto da Pino, il ragazzo di Torino che accompagnò il gruppo per tutto il viaggio.

Pino era un personaggio eccezionale, amava il Tibet, la filosofia buddista in modo totale ed era riuscito nel non facile obiettivo di coniugare la grande passione della sua vita con il lavoro, diventando accompagnatore turistico nella regione himalayana per conto di un importante tour operator italiano: da dieci anni passava almeno sei mesi all’anno fra Nepal e Tibet.

Conosceva perfettamente la lingua nepalese e tibetana, parlava con i monaci e si permetteva il lusso di spiegare loro alcuni aspetti della dottrina religiosa che essi stessi non conoscevano. Recitava i “mantra” insieme ai pellegrini che continuamente si incontravano nei villaggi e nei monasteri e spesso ne insegnava loro di nuovi. Era amico personale del Dalai Lama e più volte gli fece da interprete nelle sue visite in Italia. Aveva proposto a Steve un trekking intorno al Kailash, la montagna sacra dei tibetani, per vivere un’esperienza mistica e sportiva allo stesso tempo. Visitare quei luoghi con Pino era un privilegio che trasformava un viaggio turistico in una full-immersion nella più straordinaria filosofia di vita che Steve avesse mai conosciuto.

Dunque Pino aspettava Steve nella grande sala da pranzo, e gli chiese, quasi con imbarazzo, se non voleva fare qualcosa per la figlia più piccola dei proprietari: era malata, e i loro genitori sarebbero stati onorati se un medico venuto da così lontano avesse avuto la compiacenza di visitare la loro bambina.

Steve rimase sgomento: un medico occidentale, con tutto il suo bagaglio di grandi conoscenze scientifiche ma privo di ogni strumento, per non parlare della possibilità di effettuare o prescrivere esami, si sente istintivamente inadeguato nel suo compito e si trova di fronte, quasi con violenza, alla povertà spirituale della propria condizione, basata su presupposti fondamentalmente tecnologici. E quando ti ritrovi a disporre solo delle tue mani, degli occhi, della mente e forse del cuore, un grande disagio ti pervade.

Anche perché, Steve lo capì subito, per i suoi interlocutori lui era più di un medico, era un marziano, qualcuno venuto da un altro pianeta, probabilmente alla stregua di un dio, tanta era la differenza culturale, psicologica, tecnologica fra questi due mondi che si incontravano davanti alla grande madre di tutte le montagne: e la differenza non significava assolutamente inferiorità di qualcuno o superiorità di qualcun altro, significava semplicemente due modi totalmente diversi di vivere.

E mentre Steve masticava faticosamente questi concetti, si ritrovò davanti a tutta la famiglia riunita in cucina: la mamma teneva in braccio una bambina spaventatissima; poteva avere sei o sette anni, era visibilmente denutrita, aveva un aspetto sofferente, il colore della pelle era grigio, impossibile dedurre dalla cute o dagli occhi segni di itterizia o di anemia.

La bambina doveva essere visitata in braccio alla mamma, se no avrebbe pianto istantaneamente alla vista di questo stregone venuto da un altro mondo. E Steve, nei limiti del possibile, le toccò la pancia, le mise un orecchio sul cuore e sul torace, le guardò le sclere, cercò di valutare il tono muscolare e dei riflessi articolari, cercando di immaginare cosa avrebbe fatto un suo collega dell’ottocento, quali ragionamenti avrebbe sviluppato in una situazione forse normale per l’epoca …

La pancia era gonfia: “potrebbe avere un problema al fegato, chissà quale infezione intestinale, una malattia del sangue, un disturbo congenito del cuore …” disse a Pino affinché traducesse, ma più che altro per spezzare la tensione, per dire qualcosa, per non sembrare completamente impotente. Perché effettivamente così era.

“Bisognerebbe portarla al più presto a Shi-gatze, la città più vicina, perché possa effettuare degli esami in un ospedale cinese” aggiunse Steve (almeno a qualcosa si rendano utili, gli invasori, disse dentro di sé): Pino riferì e la risposta fu sconcertante: “fra cinque-sei mesi, quando sarà finito l’inverno e andranno in città per fare acquisti ai mercati, di cibo e di ogni altra cosa, porteranno la bambina all’ospedale”.

“Se sarà ancora viva…” Steve lo pensò solamente, ma era evidente la perplessità nei suoi occhi.

 

“Non giudicarli male – mreplicò subito Pino – so cosa stai pensando, ma devi capire cos’è il loro mondo e il loro modo di vivere: da secoli in queste terre si nasce, si vive, si muore nella totale indifferenza dell’umanità e nessun fattore esterno può influenzare, se non in male, la loro esistenza. Invasioni di popoli stranieri, dominazioni che cambiavano solo nella lingua e nell’aspetto dei nemici, istinto di sopravvivenza radicato ma anche realismo ed accettazione del proprio destino. Nessuno ti regala nulla né offre alcuna possibilità di cambiare la tua vita. Questi genitori amano sicuramente la loro bambina più di se stessi, ma sono perfettamente consapevoli che non possono modificare il suo destino. La loro vita è scandita da comportamenti, abitudini, eventi immutabili da molto prima che nascessero loro e i loro genitori, e che rimarranno tali anche dopo la loro morte.

Per loro andare nella grande città al di fuori del tempo previsto e dei motivi abituali costituisce non solo uno sforzo economico al di fuori delle loro possibilità, ma anche un cambiamento psicologico nelle loro tradizioni inconcepibile. Lo so che per noi occidentali tutto questo è inaccettabile, ma non possiamo neanche permetterci di venire qui per due-tre settimane e pensare di cambiare il loro modo di essere né tanto meno di giudicare le loro azioni.

Ti sono infinitamente riconoscenti per aver visitato la loro bambina, tu rimarrai impresso nei loro ricordi per tutta la vita per avergli concesso questo onore, ma loro con i soldi che spenderebbero per portare la bambina a Shi-gatze a farla curare dai cinesi garantiranno per almeno un anno la sopravvivenza agli altri figli, la possibilità di farli studiare e di dargli una chance di migliorare la loro vita …

Ma ora dobbiamo onorare i cibi che hanno preparato per noi: per loro sono l’equivalente di un banchetto nuziale, di una cerimonia straordinaria, non dobbiamo deluderli”.

Steve non disse nulla, ma meditò a lungo sulla concezione della vita nel suo mondo: si arrivano a spendere cifre incredibili per salvare la vita ad ultraottantenni affetti da almeno cinque-sei malattie croniche degenerative, la maggior parte delle quali correlate allo stile di vita di una società ricca che si puo ‘permettere il lusso di rovinarsi la salute per il troppo mangiare, la sedentarietà, il fumo, l’obesità e l’opulenza, bisogna sprecare risorse per curare gli eccessi e non le carenze. Poi capiti dall’altra parte del mondo e resti indignato se una bambina è destinata a morire nell’indifferenza e nell’accettazione di un destino che non è mai stato ne mai sarà benigno. Quella sera bevve molta birra tibetana prima di riuscire a tornare in sintonia con i suoi compagni, poi cominciò ad immergersi nel personaggio che doveva interpretare e raccontò, come tutti si aspettavano, la storia della conquista dell’Everest. Steve era un narratore affascinante e catturò a lungo l’attenzione di tutti con la struggente ed eroica sfida di George Mallory a quel pezzo di roccia proteso verso il cielo.

Se tu hai mai alzato gli occhi
in una fredda notte d’inverno
quando il cielo è terso
e le stelle si mischiano
come in un mare di latte incandescente.
Se un nodo è salito alla tua gola
di fronte a questo universo
assurdamente grande
tu hai nel cuore tutte le risposte
inespresse e impronunciabili.
ANONIMO

Alla fine della cena le donne del gruppo presero da parte le figlie più grandi della famiglia e valorizzarono la loro bellezza utilizzando tutte le armi della cosmesi occidentale. Per la prima volta, e forse unica nella loro vita, poterono truccarsi e non credettero ai loro occhi quando si specchiarono e si guardarono fra di loro. Le risate di tutti risuonarono fino a tardi e la felicità pervase la grande sala da cucina in questo strano connubio tra due mondi.

Nessuno vide più né seppe più nulla di quella bambina.

La vita riprese il suo corso ordinario, dopo gli strani eventi di quella sera passati a tentare di vedere l’Everest in mezzo alle nuvole ed a cercare il senso della vita stando attenti a non sprofondare in una latrina tibetana pagando il dazio alle troppe birre bevute.

La mattina dopo, all’alba, con l’Everest sempre sdegnosamente nascosto, i potenti motori dei Land Cruiser portarono lontano gli occidentali, a toccare il cielo sui valichi più alti del mondo, fra centinaia di file di bandierine di preghiera e di sciarpe di seta bianca lasciate in segno di devozione là dove la terra compie un ultimo sforzo per avvicinarsi agli dei prima di ripiegarsi verso il basso per buttarsi a capofitto verso le foreste nepalesi, verso il confine fra due mondi, verso la mitica incredibile frontiera fra il Tibet, ovvero la Cina, ed il Nepal, ovvero l’avamposto della società occidentale a ridosso della grande potenza orientale.

I cinesi, come tutti i dominatori, si permettono anche un distorto senso dell’ironia.

E così hanno deciso di chiamare “ponte dell’amicizia” quello stretto precario nastro di cemento sospeso sopra la gola del Dude-Khosi che in realtà separa fisicamente e militarmente due universi.

Il paesaggio sembrava assecondare, con i suoi cambiamenti, quella crescente inquietudine che pervadeva l’animo dei viaggiatori man mano che ci si avvicinava a Zangmu, paese di frontiera, avamposto del nulla, monumento all’assurdità della condizione umana: se Francis Ford Coppola avesse avuto bisogno di qualche ulteriore fonte di ispirazione, oltre al “Cuore di tenebra” di Conrad, per ambientare il suo “Apocalipse Now”, sicuramente poteva attingere a piene mani a Zangmu, alla sua popolazione, alla sua atmosfera.

Dopo il dissolversi nel nulla della cortina di ferro e lo smantellamento del muro di Berlino, nessuno può capire cos’è una frontiera se non passa da Zangmu e dal Ponte dell’Amicizia.

Dopo giorni interi sui grandi altipiani, dove l’orizzonte ed i pensieri del viaggiatore corrono verso l’infinito, quasi all’improvviso la terra si ripiega su se stessa aprendosi in una selvaggia profonda ferita provocata dallo scorrere delle acque del Dude-Khosi: un’enorme gola, con le pareti che cadono a picco, quasi verticali, verso il fiume che a malapena si riesce a distinguere centinaia di metri più in basso. Sul lato orientale della gola, i cinesi ed i nepalesi hanno costruito un’arditissima pista sterrata (chiamarla strada è decisamente esagerato) che con infiniti tornanti perde quota scendendo verso le foreste a sud dello spartiacque himalayano.

I cinquanta chilometri da percorrere in territorio cinese sono degni di un Camel Trophy: la parete della montagna frana continuamente e la pista, già di per sé stretta, spesso si riduce a permettere a malapena il passaggio di un veicolo con la ruote sull’orlo del baratro, zigzagando fra cumuli di detriti ammucchiati ai bordi della strada; diventò ben presto un’abitudine non vedere altro che il vuoto dai finestrini per i passeggeri seduti sul lato destro dei Land Cruiser; rivoli d’acqua che scendevano dalla parete non di rado si trasformavano in vere e proprie cascate ed il massimo divertimento dei piloti era di fermarsi proprio sotto questi diluvi per lavare i fuoristrada dalla polvere e dalla sabbia accumulati nel viaggio. Ma la cosa più straordinaria era il fatto che la pista, ovviamente, non era a senso unico, costituendo l’unica arteria stradale fra il Nepal e la Cina: di conseguenza ogni dieci-quindici metri si verificava un incrocio fra fuoristrada, camion, pulmini, mezzi militari e rare automobili civili che percorrevano ininterrottamente la strada dai due lati.

Un fluire lento, quasi immobile ma ostinatamente in movimento di veicoli che sfidava ogni legge della fisica e del buon senso. Vedere due enormi camion carichi all’inverosimile di masserizie, generi alimentari e quant’altro affiancarsi la dove lo sterrato accennava appena ad allargarsi, salire letteralmente sul fianco della montagna con due ruote, al limite del ribaltamento ed incrociarsi con le lamiere che stridevano toccandosi fu uno spettacolo indimenticabile che proseguì per ore, perché in queste circostanze si percorrevano a malapena dieci-quindici chilometri orari.

All’improvviso cominciarono ad apparire sui bordi della strada le prime case di Zangmu, abbarbicate alla parete della montagna lungo gli interminabili tornanti che tagliavano il fianco della gola. Quando la densità delle costruzioni aumentò, la pista sterrata diventò sempre più stretta, trasformandosi in un rivolo melmoso che raccoglieva a cielo aperto gli scarichi delle abitazioni e dove al caos del traffico di veicoli si sovrapponeva la costante presenza di bambini, polli, maiali, cani, uomini e donne indaffaratissimi e del tutto indifferenti agli inutili, continui, disperati suoni di clacson effettuati più per abitudine che per la speranza di ottenere strada.

Alberghetti di infimo livello, ristorantini per tutte le tasche, scambiatori di valuta clandestini ma che lavoravano tranquillamente sotto gli occhi di tutti, prostitute sulla soglia delle case, sui marciapiedi, venditori ambulanti di qualunque cosa in mezzo alla strada: questa la fotografia che ci si portava a casa da Zangmu.

Ma il vero capolavoro dell’assurdo si raggiungeva solo all’inizio della “no man’s land”: la cosiddetta terra di nessuno, un poco plausibile territorio neutro, non più cinese ma non ancora nepalese ove i fuoristrada tibetani erano obbligati a fermarsi ed a scaricare repentinamente gli stralunati viaggiatori con tutti i loro bagagli nel caos più totale. Frotte di bambini e ragazzini erano pronti a precipitarsi sulle valigie e sugli zaini per trasportare il tutto, ovviamente a pagamento, fino alla dogana cinese, distante due-tre chilometri. Ed ogni turista od escursionista doveva stare attento a non perdere di vista il proprio “facchino” per evitare brutte sorprese ai bagagli, mentre si faceva largo nella melma fra polli, maiali ed umanità varia.

La dogana cinese incuteva timore e si percepiva la vera dimensione politica della situazione: pur facendo parte di un viaggio organizzato il minimo disguido, un documento mancante, un cavillo interpretato male dai funzionari poteva in un istante creare problemi inimmaginabili e bloccare per ore l’intero gruppo in quella bolgia dantesca.

Per fortuna Pino, ben addentro ai meccanismi burocratici, riuscì a gestire bene il controllo dei passaporti e dei visti e finalmente Steve e compagni attraversarono, a piedi, il “ponte dell’amicizia”. Sul versante nepalese della “no man’s land” rivissero una situazione quasi speculare, anche se con minor tensione; purtuttavia i doganieri nepalesi, per non essere da meno dei colleghi cinesi, fecero di tutto per esasperare ogni dettaglio ed esaminare al microscopio ogni documento.

Dopo due ore finirono i controlli doganali e nuovamente furono tre chilometri da percorrere a piedi con i propri bagagli passati in una staffetta dai bambini cinesi a quelli nepalesi. Solo allora Steve comprese la vera dimensione del traffico commerciale fra i due paesi: una fiumana ininterrotta, per chilometri, di camion carichi di qualunque genere di alimenti, vestiti, elettrodomestici attendevano forse da giorni il sospirato visto per transitare verso la Cina. Decine di modestissime locande davano ospitalità a chi poteva permettersi il privilegio di non dormire nella cabina del camion; gli sguardi rassegnati ed annoiati degli autisti accompagnarono il percorso dei viaggiatori fino ai pulmini che li attendevano più a valle per iniziare la discesa verso Kathmandu.

E fu, all’improvviso, la foresta sub-tropicale monsonica, verde, esuberante, inquietante dopo le pietraie desolate ed infinite degli altipiani tibetani. E fu all’improvviso la guida a sinistra sulle strade nepalesi, retaggio della colonizzazione britannica: sempre dominazione straniera, diversa, ma dominazione. E furono tredici ore passate a percorrere centocinquanta chilometri, ma potevano essere anche i cinque anni-luce per raggiungere Alpha-Centauri. E fu, alla sera, una doccia calda in un lussuosissimo (o sembrava tale?) lodge nepalese poco a nord di Kathmandu. E fu, per pochi, interminabili ed indimenticabili secondi, il più stupefacente tramonto rosso fuoco sulla catena himalayana che turista od alpinista potesse mai aver visto nella sua vita. E il Tibet, già era diventato un sogno.

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Dall’Appennino alle Ande

Taccuini di viaggio: l’America Australe

Perù 1998 – Argentina 2005

di Stefano Gandolfi, foto originali di Augusta Galelli e Stefano Gandolfi, 30 gennaio 2018, vedi l’Album

Foto originali di Augusta Galelli e Stefano Gandolfi. Testi di Stefano Gandolfi

Un tentativo di spiegare perché si viaggia

Dall'Appennino alle AndeOK partiamo dall’inizio, che potrebbe anche essere la fine e non cambierebbe molto, se è vero che per scoprire l’America puoi dirigerti verso ovest o verso est indifferentemente … perché poi quello che conta è quella maledetta malattia che uno si porta dentro per tutta la vita, inguaribile e probabilmente poco curabile (e male); quell’inquietudine, come diceva Bruce Chatwin, che ti attanaglia dopo troppo tempo passato nello stesso luogo, quel desiderio di partire e di conoscere posti nuovi, vedere volti sconosciuti, cercare il senso della vita in circostanze che ad altre persone creano fastidio e magari anche repulsione, quali il dormire in un altro letto, il non mangiare ciò a cui sei abituato nella patria del buon cibo, lo stare per forza in stretto contatto con persone con le quali abitualmente non ti verrebbe nemmeno voglia di scambiare una parola ma che ti ritrovi lì fianco a fianco sull’aereo o sulla jeep, su un pulmino o lungo un percorso di trekking; e poi mille altre cose, la fatica, il caldo, il freddo, i disagi materiali, gli imprevisti, il doversi adattare a situazioni che dovrebbero farti rimpiangere l’ordinarietà della vita quotidiana: ma forse è proprio da questo che si vuole fuggire, forse perché fin dalle origini del genere umano è stata sancita la separazione delle “carriere”, da una parte i cacciatori/raccoglitori e dall’altra i coltivatori/allevatori; da una parte i nomadi, dall’altra gli stanziali. E probabilmente ognuno di noi ha scritto nel suo DNA a quale delle due categorie appartiene.

Dall'Appennino alle Ande (1)

2015 Bolivia, Quetena Chica:
comoda cameretta senza luce ne acqua a 4250 metri, ai piedi del Volcan Uturuncu

Dall'Appennino alle Ande (2)

aereo, Stefano e Augusta 2008:
interminabile viaggio per il Nepal via Bangkok, 24 ore di volo prigionieri in un non-luogo surreale, sognando le montagne himalayane

Per un volo in Sudamerica o in Himalaya si può impiegare anche un giorno intero; uno scalo tecnico o l’attesa di una coincidenza possono essere per molte ore l’evento più memorabile, Il tempo sembra cristallizzato in una giornata interminabile e lo scorrere delle ore sull’orologio sembra avere perso ogni significato in assenza di eventi che lo scandiscano. Anche l’organismo si adatta a questa apatia da vita sospesa e si pensa con un senso di distacco e di irrealtà ad un evento “fisico” quale un duro trekking in montagna, al freddo, la fatica, il vento, la fame come antidoto a questa specie di anestesia.

Perché sopportare tutto questo? Per scattare qualche foto da mostrare agli amici? Per vantarti poi in ufficio o sul posto di lavoro? Qualcuno forse anche sì, i cacciatori di visti sul passaporto,  i recordmen del numero di nazioni indipendenti visitate (che cuccagna lo smembramento dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia!), ma non è di loro che sto parlando, c’è qualcos’altro che ha fare con il ricordo, con la memoria, con il bene più prezioso e forse unico che si possiede, cioè l’integrità mentale e cerebrale: si può parlare di esperienza, di acquisizioni, di fatti vissuti, di emozioni, idee, conoscenza (“fatti non foste per viver come bruti …”) e di  quanto poi ci sforziamo di fare per mantenere integro tutto ciò (“i miei occhi hanno visto cose…”).

Dall'Appennino alle Ande (20)

2005 Argentina, Patagonia, direzione Terra del Fuoco:
perdersi nel nulla nell’attesa di arrivare alla fine del mondo

Ma cosa si vuole vedere e ricordare? Possibilmente tutto, perché vai in un posto magari una sola volta nella vita, e non vorresti perdere nulla, tralasciare nulla. non vorresti nemmeno dormire e mangiare per non sprecare tempo; ma non puoi e devi fare i conti con innumerevoli compromessi, con il tempo a disposizione, con le esigenze dei compagni di viaggio, con gli orari degli spostamenti, con le prenotazioni degli alberghi e dei voli; e anche se sei da solo quello che guadagni in libertà di movimento lo sacrifichi con tempi più dilatati e problemi logistici e di organizzazione del viaggio.

E appena ti fermi di più in un luogo che meriterebbe da solo la visita, si crea immediatamente la necessità di ripartire per rispettare i tempi, e ti chiedi se sia giusto così, se poi alla fine non sia tutto vano, se non ti riduci a fare il turista superficiale, che vede una spruzzata di tutto e non si sofferma su niente: forse che non merita di definirsi un vero viaggiatore colui che, arrivato in un posto lontanissimo, non decide di fermarsi lì e di non muoversi per chissà quanto tempo fino a che non ne avrà esplorato ogni piccolissimo e remoto angolo e non avrà conosciuto e parlato a lungo con i suoi abitanti? Deve considerarsi meno viaggiatore del cacciatore di visti sul passaporto? Chi conosce meglio il mondo, colui che entra in sintonia con un piccolo e nascosto paese o colui che è stato ovunque e può raccontare aneddoti di ogni suo viaggio ma senza penetrare nel cuore di nulla?

Dall'Appennino alle Ande (4)

2016 Sudafrica, Kruger National Park:
l’emozione di un incontro fugace che da solo vale il viaggio

Lo si affronterà tante volte in seguito in tanti altri viaggi, l’eterno, irrisolvibile conflitto tra l’esigenza psicologica della libertà dei tempi del vero viaggiatore e la tirannia del tempo a disposizione che insieme alla smania, all’irrequietudine del volere vedere, toccare più posti possibile ti obbliga sempre a un circolo vizioso di compromessi: è il paradosso della condizione umana dell’uomo moderno, sempre più ricco materialmente ma sempre meno libero di possedere la vera ricchezza, ovvero la possibilità di essere padrone del proprio tempo e di viverlo senza limiti, senza ferie che stanno per finire, senza il ritorno alle convenzioni, agli obblighi, alle responsabilità della cosiddetta persona “adulta”.

Un eterno, frustrante “coitus interruptus”, una fuga psicologica abortita prima ancora che ci si possa credere veramente e che si possano godere i benefici del vero strappo brutale, totale dal mondo tanto amato e tanto odiato e dal quale solo pochi coraggiosi riescono alla fine a distaccarsi. Ad un costo altissimo, certo, ma nulla è a costo zero, e tanto meno le cose più preziose.

Ed alla fine una consapevolezza: che non esiste scritto, fotografia, disegno, video che valga il ricordo che ti porti dentro. E’ solo quello che riesci a far entrare nel tuo DNA che determina il livello qualitativo del viaggio, non certo l’appartenenza alla tribù dei viaggiatori “Avventure nel mondo” piuttosto che di una agenzia più convenzionale.

E come diceva un saggio apache, “tutto ciò che vedi, ricordalo, perché tutto ciò che dimentichi, ritorna a volare nel vento”.

Dall'Appennino alle Ande (5)

2016 Nepal, Nuwakot:
nelle baracche di lamiera con i bambini della scuola distrutta dal terremoto

 

Perù 1998: perché andarci?

Dall'Appennino alle Ande (7)Forse per ogni viaggio basta un solo luogo, un edificio, una presenza umana o animale, una reminiscenza letteraria, musicale o cinematografica per giustificare la partenza, questo può valere per il Taj Mahal in India, per il Potala a Lhasa in Tibet, per Capo Nord in Norvegia o Capo di Buona Speranza in Sudafrica, il delta dell’Okavango in Botswana, i gorilla di montagna in Uganda e Ruanda, la patagonia di Chatwin, Sepulveda e Mutis, la “Mia Africa”  per il Kenya, la struggente colonna sonora di E. Morricone di “Mission” per Iguazù fra Argentina e Brasile, e poi si potrebbe passare una notte intera a collegare decine e decine di film, libri, canzoni, poesie ad ogni località meritevole di un viaggio. Per il Perù non ci sono dubbi, è stata la mitica, leggendaria Machu Picchu ad averci dato lo spunto per il nostro primo grande viaggio extraeuropeo.

Dall'Appennino alle Ande (6)Machu Picchu, certo, valeva il viaggio; ma ben prima di arrivare all’antica capitale perduta degli Inca, ci siamo resi conto dell’immediato impatto emotivo e anche fisico che ci accompagnava in questa scoperta del mondo e che non ci avrebbe mai più abbandonato, come un virus che si annida nel sistema nervoso e si slatentizza ad intervalli regolari; e per favore, se esiste un vaccino, tenevetelo!  A Lima si va al museo archeologico che ci regala una straordinaria testimonianza delle grandi civiltà autoctone pre-colombiane spazzate via in pochi decenni dai “colonizzatori” spagnoli nel nome del Dio cristiano.

Si esce dalla capitale lentamente, faticosamente, dopo aver visto per la prima volta l’oceano Pacifico (qui lo chiamano semplicemente “il mare”); attraversiamo per alcuni chilometri i “pueblos juvenes” che sono, molto più brutalmente, le favelas che giustificano i sette milioni di abitanti di Lima.

Dall'Appennino alle Ande (8)

Machu Picchu al tramonto un lama contempla con immutato stupore
la maestosità dell’antica capitale degli Incas

Finisce Lima, iniziamo il viaggio su una delle strade più mitiche del mondo, la Carretera Panamericana Sur. Subito l’impatto con la natura violenta, monotona ma sempre un po’diversa dei grandi spazi: a destra l’oceano, a sinistra il deserto costiero. All’inizio non ci si fa quasi caso poi irrompe nel paesaggio, è il deserto più arido del mondo, piove mediamente trenta minuti ogni due anni. Si vola su un piccolo aeroplano giocattolo sulle linee di Nazca, dove si percepisce la grande cultura astronomica e l’ingegno degli antichi popoli autoctoni,. Si vola da Arequipa a Puno, 3900 metri di quota sul lago Titicaca, si fa amicizia con il  “soroche”, il mal di montagna e si comincia a bere a profusione il mate e a masticare pallottole di foglie di coca, come fanno i locali pere combattere l’ipossia e la fatica della vita in condizioni estreme.

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nelle saline incaiche di Maras, a 3000 metri di quota, un contadino ingaggia ogni giorno la sua lotta per la sopravvivenza estraendo il salgemma dal suo piccolo appezzamento

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capanne su isole di canne fango e detriti “galleggianti” sulle acque del lago Titicaca

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in volo radente sopra le linee di Nazca, con spericolate acrobazie
del pilota per avere buone prospettive

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Cordillera Vicabamba, colture di riso, patate e cereali a 4000 metri di quota

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Pisac, vita di strada, vita vissuta sulle strada

Si viaggia verso Cuzco con il Ferrocarril del Sur, il treno delle Ande con un vagone adibito ad infermeria con bombola di ossigeno: ma noi ci immunizziamo ossigenandoci con formaggio peruviano e vino rosso cileno. Cuzco, la vera capitale andina, a 3500 metri di quota; la fierezza del popolo indio, ancora una volta lo stupore per le capacità tecniche degli antichi, senza tecnologia e solo con l’intelletto;  i loro edifici non crollano mai dopo decine di terremoti, quelli dei dominatori europei non reggono mai e regolarmente vengono distrutti. Nel muro di una antica casa, nel cuore della città, una pietra, tagliata e levigata a mano, si incastra perfettamente a secco e ad angolo retto con altre 12 pietre: per il turista significa poco, per il viaggiatore vale più di un libro di storia, ma di quelli scritti dagli sconfitti anziché dai vincitori.

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Cuzco, le ciclopiche mura della fortezza di Sacsayhuaman, costruite e squadrate a mano con incastri perfetti

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Sosta a 4250 metri sul Ferrocarril de los Andes, solitudine, vento, vita immodificata da secoli

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soste a 4250 metri sul dal Ferrocarril de los Andes, solitudine, vento, vita immodificata da secoli

Si arriva a Machu Pichu già carichi di emozioni e di ricordi; anche con il fastidioso pensiero di non avere un impatto che valga le aspettative, mi spiego meglio: nella civiltà delle immagini, alle quali siamo esposti in continuazione spesso in overdose, tante volte io ho temuto di avere un impatto emotivo ridimensionato, nel momento in cui vedevo dal vivo i luoghi meta dei nostri viaggi, a causa del fatto di averne già assorbito centinaia, migliaia di immagini, di video, di resoconti; ma nulla di tutto ciò può minimamente valere le sensazioni generate dall’esserci veramente, dal vedere dal vivo luoghi, edifici, persone, animali nel loro ambiente naturale, con tutto ciò che non potrà mai essere registrato su un nastro magnetico o su un supporto digitale come gli odori, i rumori, le parole dele persone, le emozioni, la fatica, anche l’inquietudine di non essere ben protetto dentro le mura di casa ma veramente esposto al mondo, alla vita vera.

Al tramonto e all’alba i lama si fermano incuriositi a vedere la città, anche loro ogni volta stupiti e ammaliati. Un solco tracciato sull’altare del tempio del sole è allineato con perfezione assoluta con il sorgere del sole nel solstizio d’estate. Forse fra mille ricordi il più duraturo e profondo è proprio relativo alle avanzatassime conoscenze astronomiche grazie alle quali gli Incas padroneggiavano lo scorrere del tempo, le ore, i giorni, le stagioni; senza tecnologia e senza scomodare gli extraterrestri. Le antiche mura della capitale, come a Cuzco e come ovunque i loro edifici non siano state distrutti dai conquistatori europei, sopravvivono orgogliosamente agli innumerevoli terremoti che colpiscono le Ande. Tutto ciò, in definitiva, costituisce il ricordo più vivido e allo stesso tempo una delle prime fra le tante lezioni di vita che si acquisiscono in giro per il mondo, ben più di quelle impartite dai libri o inculcate sui banchi di scuola.

Perù, aprile 1998

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Argentina 2005: perché andarci?

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Buenos Aires, PeninsulaValdes, Punta Tombo, Ushuaia, Terra del Fuoco, Canale di Beagle, El Calafate, Ghiacciaio Perito Moreno, Iguazù: le missioni gesuitiche, le cascate fra Argentina e Brasile

Patagonia, Patagonia e poi ancora Patagonia … va bene, ho capito, signori maestri, professori e presidi viandanti: poco originale, anzi banale e scontato; compitino ben svolto, proprietà di linguaggio, ma ci si aspettava più originalità. Va bene, ma provateci voi a spiegare perché ti viene voglia di andare in Patagonia senza dover ricorrere a tutte le suggestioni geografiche, letterarie, musicali più ovvie.

Alzi la mano chi non si è portato con sé una copia di “In Patagonia” di B. Chatwin lasciando a casa Sepulveda e Coloane, Mempo Giardinelli con il suo tormento per il finale di romanzo che non esce dalla penna, chi non si è fatto la sua colonna sonora con Ennio Morricone, Astor Piazzolla e i Gotan Project, chi non ha desiderato di percorrere la Routa 3 fine alla fine del mondo e poi, sul canale di Beagle, passare Capo Horn e proseguire sulle rompighiaccio per l’Antartide seguendo suggestioni e inquietudini di navigatori ed esploratori? In poche righe ho già liquidato il discorso di un intero continente quale è l’Argentina, dalle cascate di Iguazù con le reminiscenze di “Mission” fino a 4000 chilometri più in giù con le case coloratissime di Ushuaia per combattere la solitudine della “Fin del mundo”, passando per la steppa patagonica, grande contenitore di un nulla assordante fatto di luce, vento, cielo, nuvole e vuoto.

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Lago Argentino, ghiacciaio Onelli, sullo sfondo le Ande Patagoniche

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Patagonia, sulla costa atlantica, sferzata continuamente dal vento, popolata solo dai pinguini

Passando e ripassando da Buenos Aires con il suo tango che come diceva Enrique Santos Discepolo è un pensiero triste che si balla, con le case popolari del Boca, quartiere che trasuda ancora delle memorie degli immigrati genovesi e con il ricordo recente di Maradona, vero eroe popolare con tutte le sue contraddizioni. E commuovendosi alla vista dei pinguini Magellano a Punta Tombo, degli elefanti marini, delle balene australi in lontananza sulle coste dell’Atlantico. E la gente meravigliosa, nostri cugini, fratelli, così simili e separati da destini spesso drammatici in balia di vicende politiche e sociali che noi speriamo di avere lasciato alle spalle. Un continente in quindici giorni e in poche righe di racconto.     Cosa ti porti dentro, al ritorno, di tuo, che non sia un emozione filtrata da altre persone? Tantissimo, praticamente tutto. E non è poca cosa.

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i piccoli pinguini di Magellano a Punta Tombo

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Buenos Aires, facciata di casa nel quartiere del Boca “playground” al Boca

Patagonia dunque: “il n’y a plus que la Patagonie, qui convienne a mon immense tristesse” (B. Cendrars): ma c’è un antidoto alla tristezza, gratuito ed eternamente rinnovabile; il vento della steppa, che non ha inizio ne fine, un vento secco, tagliente, che ti penetra nella scatola cranica e ti spazza via ogni pensiero, ogni inquietudine, fino a lasciarti con un vortice di libertà e di pace interiore. Non c’è bisogno di chiedersi dove sia il vento quando non soffia, qua non cessa mai, e te lo porteresti a casa, nelle lande nebbiose della pianura padana, e te lo terrestri sempre al tuo fianco ben stretto per farti cancellare ogni angoscia esistenziale. E poi ti porteresti con tè i pennelli e la vernice con cui dipingono le case di Ushuaia, regalandoti dei colori che anch’essi combattono la solitudine e la lontananza dal resto del mondo, al quale peraltro nessun “fueghino” vorrebbe mai avvicinarsi davvero, non potrebbe resistere nemmeno un giorno nel mondo “normale”.

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Ushuaia: siamo arrivati alla fine del mondo

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Terra del Fuoco, al termine della Ruta n°3, davanti al Canale di Beagle

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le case di Ushuaia

E poi vorresti tornare a casa con un piccolo pinguino di Magellano nascosto nella valigia, ma non lo faresti mai perché sarebbe la crudeltà peggiore strapparlo dalla sabbia, dal vento, dal mare della sua libertà. E con un cubetto di ghiaccio caduto dal ghiacciaio Perito Moreno, straordinario fronte glaciale quasi a livello del mare al termine dello Hielo Continental Sur, e un pezzetto di roccia del Cerro Torre o del Fitz Roy, le piccole grandi montagne delle Ande Patagoniche, poco più di 3000 metri di quota, nulla rispetto ai colossi himalayani, ma molto di più di questi in termini di difficoltà alpinistiche tecniche e ambientali, con una dimensione di avventura e di epicità che rende unici gli alpinisti patagonici per la loro resilienza, alimentata da settimane intere sepolti in una trama di ghiaccio o in un capanno di lamiera ad aspettare una finestra di bel tempo che magari non arriverà mai. Sempre in balia del vento, del freddo e della solitudine, davanti a muraglie che sono un vero “Grido di pietra” come nel mitico film di W. Herzog (poteva mancare una suggestione cinematografica?).

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il fronte colossale del ghiacciaio Perito Moreno

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le cascate di Iguazù, al confine fra Argentina e Brasile

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E poi ancora il sogno di una doccia rigenerante sotto una delle oltre duecento cascate che formano il grande monumento naturale di Iguazù, dopo un grande salto dalla Terra del Fuoco al confine con il Brasile; dove si scopre il caldo, l’afa e la memoria storica delle missioni gesuitiche, indelebilmente collegate alla struggente colonna sonora di E. Morricone per il film “Mission”. E un piccolo campetto di calcio o un playground di basket per vederci fiorire qualche giovane campione alla ricerca di un riscatto sociale e personale.

E alla fine ti produci da solo il tuo film con la tua colonna sonora, con le tue reminiscenze letterarie, con le emozioni che altri ti hanno trasmesso e che tu vuoi provare a ritrasmettere ad altri ancora, in un percorso di sogno e realtà che viene continuamente modificato e plasmato dai tuoi ricordi e dal tuo viaggio personale in una terra di illusioni, di sogni infranti, di vita dura, intensa, aspra che potrebbe in ogni istante riscattarsi se solo qualcosa, per una sola volta nella vita, girasse nel senso giusto; e nell’attesa che succeda, o se non succedesse mai, si ricomincia da capo con ostinata convinzione e con immutato disincanto, fino a quando ci sarà la forza per un ultimo giro di danza con una donna portena al suono di una musica profonda e sensuale come la loro terra.

Argentina, dicembre 2005

Dall'Appennino alle Ande (31)

Lago Argentino: iceberg galleggianti sullo sfondo delle Ande

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Di spalle e con lo zaino

di Paolo Repetto, 2015 e e l’Album “A spasso con Pietro“ 

Ogni volta che salgo il Tobbio trovo un pezzo di Pietro Jannon. Non ossa o brandelli di equipaggiamento, ché purtroppo non è morto dove gli sarebbe piaciuto, ma spezzoni di memoria, fotogrammi di sentieri percorsi assieme. È capitato anche ieri, quando a metà percorso mia figlia, senza nemmeno allungare troppo, mi ha lasciato ad ammirarne le spalle e il passo deciso e a meditare mesto sul trascorrere del tempo. Ero chiaramente orgoglioso di lei, ma non nascondo che ero anche un po’ avvilito, sia pure considerando il mezzo secolo che ci separa.

È proprio lì che all’improvviso, per una qualche recondita associazione d’idee, certamente non giustificata dal cielo terso e dal sole tiepido, mi sono rivisto salire nella nebbia di un umidissimo novembre di trent’anni fa.

Negli anni eroici del CAI ovadese per un intero autunno ci ritrovammo ogni sabato, nel primo pomeriggio, al valico degli Eremiti, per trasferire in vetta sabbia, calce, cemento, taniche d’acqua, latte di impermeabilizzante per il tetto del rifugio. Ciascuno si caricava in base alle sue forze e alla sua buona volontà: qualcuno aveva anche in più una motivazione “sportiva”. Come sempre, tra me e Pietro si era ingaggiata una tacita gara: caricavamo lo zaino con una latta ed un sacchetto di sabbia, per un peso dai trenta ai trentacinque chili. Pietro però aveva scovato per l’occasione delle staffe di ferro, che non si capiva bene a cosa potessero servire e che in effetti poi non servirono a nulla, ma facevano comunque zavorra e fugavano ogni dubbio su chi portasse il carico maggiore. Si partiva in una lunga colonna, che dopo dieci minuti era già sgranata, e si saliva per il versante orientale, la via “classica”. Tutti, ma non Pietro. Non ho mai capito che percorso seguisse. Riusciva sempre a rimanere in coda e dopo i primi trecento metri era scomparso. Non credo intendesse accorciare, perché con trenta chili sulle spalle la direttissima è altamente sconsigliata, e comunque in genere arrivava contemporaneamente a noi. Solo, faceva un’altra strada.

Ecco, quando prima ho parlato di sentieri percorsi assieme mi sono allargato un po’ troppo. Potevi percorrere lo stesso sentiero, raggiungere lo stesso rifugio, ma non eri mai completamente “assieme” a Jannon. Diciamo che manteneva le distanze, e non solo in senso metaforico. Senza alcuno snobismo, per carità: ma aveva bisogno di uno spazio suo. Possibilmente tanto.

Come camminatore, Pietro mi pativa. Non fisicamente, perché era due volte più forte di me, ma perché io avevo capito certe sue manie, certi suoi punti scoperti, e mi divertivo a spiazzarlo, a scombinargli i programmi, a stargli sul collo, ciò che lo costringeva a dimostrare qualcosa anche quando non aveva granché voglia e non era il caso: e dal momento che il gioco lo conducevo io, a volte si imponeva degli sforzi inutili. Credo che per certi versi fosse persino un po’ in soggezione.

Fino a quel giorno, quando, deposto il carico e cambiata la maglietta fradicia, ho buttato lì: Quasi quasi, torno giù di corsa e faccio un altro viaggio. Gli altri mi hanno mandato giustamente a stendere, ma Pietro no. Si è rimesso la camicia a quadri e senza battere ciglio mi ha fregato: Dai, che se ci muoviamo siamo nuovamente qui prima di notte.

In effetti è andata così. Per stargli dietro quella volta ho dovuto mordere le rocce, perché davvero a metà salita non ne avevo più. Una volta in cima, dove per fortuna ci attendeva la stufa ancora accesa, ci siamo seduti uno di fronte all’altro, aspettando che arrivassero anche le nostre anime. Poi lui ha alzato gli occhi, mi ha guardato serio ed ha sbottato: Dì, ma noi due, saremo furbi?

Credo di aver riso per cinque minuti di seguito senza potermi trattenere, tanto ero stanco: e anche lui era scoppiato in una risata liberatoria. L’ho visto ridere così poche altre volte, e devo dire che rideva bene (io bado molto a queste cose: c’è gente che non sa nemmeno ridere).

E adesso capisco anche l’associazione d’idee. Io in fondo Pietro lo ricordo così: di spalle e con lo zaino. Mi pare giusto, perché tutti lo abbiamo sempre visto così, e non solo mentre salivamo Tobbio, ma anche quando lo incrociavamo al Posta, in libreria o al mercatino. C’era immancabilmente un impegno che lo chiamava da un’altra parte, una cornice, un libro, un pezzo di lamiera raccattato per strada che urgeva di essere portato altrove.

Mi manca, Pietro. Ci sono persone che toccano la tua vita apparentemente solo di striscio, camminano ai suoi margini: però ti ci abitui, sono un riferimento, sai che se ti giri le trovi là. Anche se nel suo caso magari sarebbe meglio dire “sono appena passate di là”. Era quello che ti suggerivano le tracce improvvise nella neve fresca, lungo il sentiero degli Eremiti, quando pensavi di essere il primo: o gli amici che lo avevano incontrato un attimo fa in via San Paolo, o la sera precedente al CAI. Poco alla volta questa inafferrabilità era entrata nella sua leggenda, insieme alle sue manie e ad un fisico e un carattere egualmente rocciosi. Per un certo periodo, quando lo conoscevo meno, ho anche pensato che la coltivasse volutamente. Invece era timidezza genuina, o se si vuole amore della solitudine.

Ci si vedeva raramente: per le mostre, per qualche ascensione, per un trekking. Non mi andava di disturbare la sua riservatezza, probabilmente perché il mio riferimento era proprio quello. Non ero mai io a cercarlo. Però sapevo che c’era, con tutte le sue stranezze, eppure solido, affidabile. Forse un po’ lo invidiavo, in positivo. Mi piaceva l’idea che qualcuno sapesse vivere come viveva lui, pur rimanendo consapevole che quello non era il mio stile. Pietro era una delle proiezioni nelle quali ambientavo le mie vite parallele. Probabilmente l’ho anche un po’ coltivato, come personaggio, e sono sicuro che non gli spiacesse quando epicizzavo le sue avventure. Anzi, qui era lui a condurre il gioco, e al ritorno dai suoi viaggi, quando mi telefonava o ci incontravamo in sede, mi buttava lì dei trailers risicatissimi del futuro racconto, che rimandava immancabilmente alla serata delle diapositive. Naturalmente le serate poi non c’erano, perché doveva scegliere tra diecimila scatti per ogni viaggio, e io sono rimasto con frammenti di tête à tête con orsi grizzly, di discese dello Yukon in canoa e di ponti sospesi nelle Ande mai legati in una narrazione coerente.

Ciò che però ci ha avvicinato maggiormente, all’inizio, era il suo lavoro artistico. Per quella che è la mia concezione dell’arte Pietro era un artista vero.

Era geloso delle sue opere. Le mostrava con riluttanza, e se ne staccava ancor più a malincuore. Salvo poi regalarti qualcosa per cui avevi manifestato un interesse particolare, quando sapeva che quell’opera sarebbe andata a vivere bene. Sarà una concezione minimalista, ma è una concezione genuina, così come minimalista e genuino era anche l’approccio materico e segnico di Pietro. Pochi segni, ridotti all’osso, e quindi tanto più significativi ed evidenti. Ho alcune creazioni sue che non scambierei con un Van Gogh, e noto che tutti coloro che le vedono per la prima volta ne rimangono incantati. Non ci sono messaggi nelle sue opere: ci sono delle semplici constatazioni, ma tanto immediate ed evidenti che ti chiedi come hai fatto a non renderti conto prima. Sul piano dell’arte, anziché patirmi, mi cercava invariabilmente. Era sorpreso da quello che vedevo in quadri che teneva ben riposti nel suo studio, nascosti dietro cumuli di tele e compensati e cornici, e che riuscivo ad ammirare solo perché mi infischiavo tranquillamente dei suoi “meglio di no, è roba vecchia”. Li riprendeva, li rigirava e rimirava, poi diceva: “però, magari ritoccando, aggiungendo …”: ma era ben felice quando gli intimavo di non azzardarsi a rimetterci mano. Dopo aver letto la prima presentazione che avevo scritto per una sua mostra mi telefonò la sera e disse semplicemente: “Io … grazie!” Non mi lasciò nemmeno il tempo di rispondergli: prego.

Avrei voluto fosse con noi, ieri. Avrebbe sorriso divertito, a vedermi in affanno dietro Elisa. E poi lo avrebbe raccontato, solo a quelli giusti: “Vedessi la figlia di Paolo. Ci ha mollati a metà salita”. E sarebbe stato orgoglioso, come se la figlia fosse sua.

 

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Viaggi di carta. La letteratura dei viaggi e delle esplorazioni

Tracce per un itinerario bibliografico sul tema

di Paolo Repetto, 2013

Questa bibliografia non pretende di essere “ragionata”, ma ambisce a risultare quanto meno “ragionevole”: nel senso che propone, con un paio di eccezioni, opere disponibili nella traduzione italiana e abbastanza facilmente reperibili o acquistabili. Che siano tali lo dimostra il fatto che io le ho acquistate o reperite.

Sulle motivazioni, la psicologia, il simbolismo del viaggio
Sulla storia del viaggio
Guide al viaggio o riflessioni sul viaggio
Storia delle esplorazioni
Storie romanzate di viaggiatori o esploratori
Resoconti e diari di viaggio: scienziati ed esploratori
Resoconti e diari di viaggio: turismo, esotismo e viaggi culturali (fino al 1950)
Resoconti e diari di viaggio: turismo, esotismo e viaggi culturali (dopo il 1950)
Opere di narrativa e di poesia utilizzabili per percorsi didattici sul viaggio

Sulle motivazioni, la psicologia, il simbolismo del viaggio

AA. VV. – Il viaggio. L’avventura e la memoria – GUIDA, 1990
AA. VV – Il viaggio nei classici italiani. Storia ed evoluzione di un tema letterario – LE MONNIER, 2011
AIME, M. – Sensi di viaggio – PONTE ALLE GRAZIE, 2005
ANDERSON, N. – Il Vagabondo. Sociologia dell’uomo senza dimora – DONZELLI, 1994
ATTALI, J. – L’uomo nomade – SPIRALI, 2006
AUGÉ, M. – Non luoghi – ELÉUTHERA, 1993
BARBER, R. – Pellegrinaggi – ECIG, 1995
BENJAMIN, W. – Il viaggiatore solitario e il flaneur – MELANGOLO, 2001
BLUMBERG, H. – Naufragio con spettatore – BOLOGNA, 1985
BLUMBERG, H. – La leggibilità del mondo – IL MULINO, 1984
BOCCONI, A. – Viaggiare e non partire – GUANDA, 2002
BOITANI, P. – L’ombra di Ulisse – IL MULINO, 1992
BOITANI, P. – Sulle orme di Ulisse – IL MULINO, 1998
BOITANI, P. – Parole alate – MONDADORI, 2004
BRIL, J. – La traversata mitica – ECIG, 1993
BRILLI, A . – In viaggio con Leopardi – IL MULINO, 2000
CAMASSA, C. – FASCE, S. – Idea e realtà del viaggio – ECIG, 1991
CARLA’ M. , MERLANTE R. – Il viaggio – PALUMBO, 1996
COLLINI, P. – Wanderung. Il viaggio dei Romantici – FELTRINELLI, 1996
DEMETRIO, D. – Filosofia del camminare – CORTINA, 2006
D’AGOSTINI, M.E. – Viaggi in Utopia e altri luoghi – MILANO, 1989
D’AGOSTINI, M.E. – La letteratura di viaggio – MILANO, 1987
DISCACCIATI, R. – Invito al viaggio – ARCHINTO, 2010
DISCACCIATI, R. – Il dottor Livingstone, suppongo – ARCHINTO, 2011
FARINELLI, F. – La crisi della ragione cartografica – EINAUDI, 2009
FARINELLI, F. – L’invenzione della terra – SELLERIO, 2007
FISSET, E. – L’ebrezza del camminare. Piccolo manifesto in favore del viaggio a piedi – EDICICLO
FASANO, P. – Letteratura e viaggio – LATERZA, 1999
FEGA, W. –Il viaggio. Mito e scienza – BONONIA U.P., 2006
GARGANO, A. SQUILLANTE, M. – Il viaggio nella letteratura occidentale tra mito e simbolo – LIGUORI, 2005
GASPARINI, G. – Il viaggio – EDIZIONI LAVORO, 2000
GOTT, R. – Viaggiare nel tempo – MONDADORI, 2002
GROS, F. – Andare a piedi – GARZANTI, 2013
GUARNIERI, L. – Viaggio, nonostante tutto – ANIMA, 2009
GUEDJ, D. – Il meridiano – TEA, 2002
LAVARINI, R. – Viaggiatori. Lo spirito e il cammino – HOEPLI, 2005
LEED, E. – La mente del viaggiatore – IL MULINO, 1992
LEED, E. – Per mare e per terra – IL MULINO, 1994
MASPERO, A. – A come Avventura – FBE ED., 2005
MAZZOLENI, G. TIBALDI, M. – Il mito delle Isole Felici – D’ANNA, 1976
MENZIO, P. VATTIMO, G. – Il viaggio dei filosofi. La metafora del viaggio – CIRVI, 2000
MILANI, R. – Il paesaggio è un’avventura – FELTRINELLI, 2006
MONTANDON, A. – La passeggiata. Ritualità e divagazioni – SALERNO, 2006
NORTHJ, J. – Il segreto degli ambasciatori – RIZZOLI, 2005
PELLEGRINO, F. – Geografia e viaggi immaginari – ELECTA, 2006
PIERANGELI,F. PAPI,F. – Il viaggio nei classici italiani – LE MONNIER, 1987
PRATO, P. – TRIVERO, L. – Viaggio e modernità – SHAKES. e C., 1989
QUAINI, M. – La mongolfiera di Humboldt – DIABASIS, 2002
RIVA, G. – Filosofia del viaggio – CITTÀ NUOVA, 2008
SCARAMELLINI, G. – La geografia dei viaggiatori – UNICOPLI, 1993
SCARPI, P. – La fuga e il ritorno – MARSILIO, 1992
SOBEL, D. – Longitudine – RIZZOLI, 1996
TEROUX, P. – Il tao del viaggio – Dalai, 2012
VIRILIO, P. – L’orizzonte negativo – COSTA e NOLAN, 1989
ZANETTO, G. – Entra di buon mattino nei porti – B. MONDADORI, 2012
ZUMTOR, P. – La misura del mondo – Bologna, 1995
WINCESTER, S. – La mappa che cambiò il mondo – TEA, 2001
WINCESTER, S. – Il fiume al centro del mondo – NERI POZZA, 2001
WINCESTER, S – Atlantico – ADELPHI, 2014

Sulla storia del viaggio

AA. VV – Geografia e viaggi immaginari – ELECTA 2006
AA. VV. – Storie di viaggiatori italiani. Le Americhe – ELECTA-NBA 1987
AA. VV. – Storie di viaggiatori italiani. L’Oriente – ELECTA-NBA 1985
AA. VV – Storie di viaggiatori Italiani . L’Africa – ELECTA-NBA 1986
AA. VV – Storie di viaggiatori Italiani . EUROPA – ELECTA-NBA 1988
AA. VV. – Schiavi e negrieri. La grande tratta – ELECTA GALL. 1996
AA. VV. – Il turismo. Dal Grand Tour alle grandi organizzazioni – ELECTA GALLIMARD 1995
AA.VV. – I viaggi della storia – DEDALO 1988
AA. VV. – Le rotte degli schiavi – TOURING CLUB, 2001
AA VV – Il Viaggio nella letteratura occidentale tra mito e simbolo – LIGUORI, 2005.
AA.VV. – Hic sunt leones. Geografia fantastica e viaggi straordinari – Milano 1983
AA VV – Viaggi e viaggiatori nel Medioevo – JAKA BOOK 2008
BARRIE, D – Il viaggio del sestante – RIZZOLI 2014
BAXTER, S. – Storia del mondo in 500 viaggi in treno – RIZZOLI 2018
BELLEC, F. – La navigazione – NUOVA ERI, 1990
BERTUCCI, P. – Viaggio nel paese delle meraviglie.(Sc e curiosità nell’Italia del 700) – BORIN. 2007
BRILLI, A. – Quando viaggiare era un’arte – IL MULINO 1995
BRILLI, A. – L’arte del viaggiare – SILVANA 1992
BRILLI, A. – Il viaggiatore immaginario – IL MULINO 1997
BRILLI, A. – Il viaggio in Italia – IL MULINO 2006
BRILLI, A. – Il viaggio in Italia – BANCA POPOLARE DI MILANO 1987
BRILLI, A. – Il viaggio in Oriente– IL MULINO 2009
BRILLI, A. – Un paese di romantici briganti – IL MULINO 2003
BRILLI, A. –Mercanti avventurieri – IL MULINO 2013
BRILLI, A. – Il grande racconto del viaggio in Italia – IL MULINO 2014
BRILLI, A. – Gli ultimi viaggiatori – IL MULINO 2018
BRILLI, A. – Le viaggiatrici del Grand Tour – IL MULINO 2020
BROC, N. – La géografie des Philosophes. Géographes et voyageurs en XVIII° siècle – OPHRIS 1975
BROTTOM, J. – Le grandi mappe – GRIBAUDO 2015
BROWN, K. J. – Viaggio nel tempo – WHITE STAR 2017
CAMUSSO, L. – Guida ai viaggi nell’Europa del 1492 – Milano 1990
CAPPELLI ,V. – Sguardi (Il sud osservato dagli ultimi viaggiatori) – RUBBETTINO 2000
CARDINI, F., VANOLI, A. – La via della seta – IL MULINO 2017
CARDONA, G.R. – I viaggi e le scoperte – in LETT. IT. V, EINAUDI 1986
CASSON, L. – Viaggi e viaggiatori nell’antichità – MURSIA 1978
CHASTEL,A.– Luigi d’Aragona. Un card. in viaggio per l’Europa – LAT. 1995
CLEMENTI, A. STELLA, M. – Viaggi di donne – NAPOLI 1996
CLERICI, L. (a cura di) – Il viaggiatore meravigliato – IL SAGGIATORE 1999
CLIFFORD, J. – Strade (Viaggio e tradizione alla fine del secolo) – BORINGHIERI 2001
COLLINI, S. (a c.) – Le istruzioni scientifiche per i viaggiatori (XVII-XIX sec.) – POLISTAMPA 1997
CORSI, D. – Altrove. Viaggi di donne dall’antichità al ‘900 – VIELLA 1999
D’ANCONA, A. – Viaggiatori e avventurieri – SANSONI 1964
DEAKIN R. – Diario d’acqua – EDT 2011
DOSSENA, G. – Avventure e viaggi di mare – SALANI 1999
DUNN, R. E. – Gli straordinari viaggi di Ibn Battuta – GARZANTI 1993
FARNETTI, M. – Reportages. Letteratura di viaggio nel ‘900 italiano – MILA-NO 1994
FINZI, C. – Ai confini del mondo – NEWTON COMPTON 1978
FLEMING, F. – I ragazzi di Barrow – ADELPHI 2016
FOCCARDI, G. – Viaggiatori del regno di mezzo – EINAUDI 1992
FERRARI, M. – Terraferma – CORBACCIO 2002
FRANZINA, E. – Merica, Merica! – FELTRINELLI 1979
FUSSEL, P. – All’estero – IL MULINO 1981
GABRIELI, F. – Viaggi e viaggiatori arabi – SANSONI 1966
GREPPI, C.- La geografia del Rinascimento : cartografi, cosmografi, viaggiatori, 1460-1620 – PANINI 1996
GREPPI, C. Viaggi e scienza : le istruzioni scientifiche per i viaggiatori nei secoli 17.-19. – Olschki, 2005
GREPPI, C. Intorno a Humboldt : nove interventi– Uni. FERRARA 1996
GREPPI, C. Una carta per la corte: il viaggiatore immobile – Ed girasole, 1984
GUAGNINI,  E.– La regione e l’Europa. Viaggiatori emiliani e romagnoli nel 700 – IL MULINO 1986
HARVEY , M. – L’isola delle mappe perdute – RIZZOLI 2001
HOCKMAN, C. – La navigazione nel mondo antico – GARZANTI 1988
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LE CARRER, O. – Carte nautiche – MONDADORI ELECTA 2017
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MARCENARO, G. – Viaggiatori stranieri in Liguria – JANUA (GE)1987
MARTINO, M. C. – Viaggiatrici. Quando le donne inglesi potevano andare dappertutto – XL ed.
MAZZEI, R. – Donne in viaggio, viaggi di donne – LE LETTERE, 1998
MAZZEI, R. – Per terra e per acqua. Viaggi e viaggiatori nell’Europa moderna – CAROCCI 2013
MORABITO, G. – Stranieri nel mezzogiorno d’Italia –BARBARO, 1981
MOZILLO, G. – Viaggiatori stranieri nel Sud – COMUNITA’ 1964
OLHER, N. – I Viaggi nel Medio Evo – GARZANTI 1988
OLHER, N. – Vita pericolosa dei pellegrini nel Medio Evo – PIEMME 1996
QUATRIGLIO, G. – Viaggio in Sicilia – MARSILIO 2002
PAVAN, A. – La via dell’incenso. Sulle tracce delle antiche carovane attraverso la Penisola Arabica DE AGOSTINI, 2010
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PELLEGRINO, F. – Geografia e viaggi immaginari – ELECTA 2006
PEYER, H.C. – Viaggiare nel Medio Evo – LATERZA 1990
PICCIONE, L.– Il libro dei vulcani d’Islanda – IPERBOREA 2019
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PROSIO, M. – Stendhal e altri viaggiatori a Torino – CIRVI, 2004
RAIMONDI, E. – Scienziati e viaggiatori – In Storia Lett. It. Cecchi–Sapegno, GARZANTI 1988
REVELLI, G. – Da Ulisse a … Il viaggio nelle terre d’oltremare – ETS 2005
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ROSSI, F. – Itinerari e viaggiatori inglesi nella Calabria del ‘700 e dell’ ‘800 – RUBBETTINO 1998
RUSSO, N. – L’Italia è un sentiero – LATERZA 2019
SCAMARDI, T. – Viaggiatori tedeschi in Calabria – RUBBETTINO 2000
SCHIWELBUSH, W. – Storia dei viaggi in ferrovia – EINAUDI 1988
SILVESTRE, M. L. – VALERIO, A. – Donne in viaggio – LATERZA 1999
SOBEL, DAVA – Longitudine – RIZZOLI 2017
SOLÈ, R. – Viaggi in Egitto – TOURING CLUB., 2004
SORI, E. – L’emigrazione italiana dall’Unità alla prima guerra mondiale – IL MULINO 1979
SPRAGUE DE CAMP, L. – Le terre leggendarie – BOMPIANI 1962
TAVIANI, P. E. – Il profilo del mondo – NUOVA ERI, 1992
UHLIG, H. – La via della seta – GARZANTI 1994
VANOLI, A. – Strade perdute- FELTRINELLI 2019
VICENTI, L. (a c. di) – Viaggiatori del Settecento – TORINO 1950

Guide al viaggio o riflessioni sul viaggio

AA VV – Libri di viaggio, libri in viaggio – SETTE CITTÀ 2014
BENJAMIN, W. – Il viaggiatore solitario e il flaneur – IL MELANG. 1998
BERTINETTI, L. – Verso la sponda invisibile. Il viaggio nella letteratura inglese – ETS 1995
BORSANI, A – Addio Eden – NERI POZZA 2009
BOUVIER, N. – La polvere del mondo – DIABASIS 2005
BRILLI, A. – Il viaggiatore raffinato ( 2 voll. ) – AMILCARE PIZZI 1992
BROWN, M. – Il turista spirituale – TEA 2008
CACUCCI, P. – Camminando – FELTRINELLI 1998
CAMPA, R. – Il viaggio – GUIDA 1992
CANESTRINI, D. – Andare a quel paese – Feltrinelli 2000
CHATWIN, B. – Anatomia dell’irrequietezza – ADELPHI 1993
CONTI, L. – Inter Rail Men – STAMPA ALTERNATIVA 1991
DE BOTTON, A. – L’arte di viaggiare – GUANDA 2002
DEL SETTE, L. – SOMOZA, A.L. – Guida ai viaggi a occhi aperti – AIR-PLANE Bologna 2001
DE PASCALE, G. – Scrittori in viaggio – BORINGHIERI 2007
DIDEROT, D. – Appendice ai viaggi di Bougainville – LONGANESI 1974
FERRARI, M. A. – In viaggio sulle Alpi – EINAUDI 2014
FISSET, E. – L’ebbrezza del camminare – EDICICLO 2012
GALTON, F. – L’arte di viaggiare – IBIS 1999
GALTON, F. – Piccolo manuale di sopravvivenza per viaggiatori – IBIS 2001
GIANNOTTI, L. – L’Arte del camminare – EDICICLO 2011
GUADALUPI G, MANGUEL A, – Manuale dei luoghi fantastici – RIZZOLI 1982
GUADALUPI G., SILVESTRINI E. – Manuale del viaggiatore interplanetario – RIZZOLI 1984
GUAGNINI, E. – Il viaggio, lo sguardo, la scrittura – EUT 2010
HUDSON, W.H. – Il viaggiatore in piccole cose – MUZZIO 1993
JALLADE, S. – Il richiamo della strada – EDICICLO 2010
KIPLING, R. – l profumi dei viaggi – IBIS 2000
LA CECLA, F. – Jet-Lag. Antropologia e altri disturbi da viaggio – BORING. 2002
LANZMANN, J. – L’arte di camminare – EDT 1994
MALERBA, L. – Il viaggiatore sedentario – RIZZOLI 1993
MORAND, P. – Viaggiare – ROSELLINA ARCHINTO 1996
MORAND, P. – Al mare – ROSELLINA ARCHINTO 1999
MORELLO M. – Lo Zen e l’arte del viaggio – IDEALIBRI, Rimini 2002
OSBORNE, L. – Il turista nudo – ADELPHI 2006
PASCALE, A. – Non è per cattiveria. Confessioni di un viaggiatore pigro – LATERZA, 2006
PASSERI, E. – Il viaggio – ERACLE, 2002
POTTS, R. – Vagabonding – PONTE ALLE GRAZIE, 2004
QUILICI, F. – Si, viaggiare. Come, quando, con chi, perché – MONDADORI 2006
RICORDO, R. – La letteratura di viaggio in Italia – LA SCUOLA 2012
CARAMELLINI, G. – La geografia dei viaggiatori – UNICOPLI 1993
SEVERGNINI, B. – Manuale dell’imperfetto viaggiatore – RIZZOLI 2000
SOLINAS, S. – L’onda del tempo – PONTE ALLE GRAZIE 2001
SOLINAS, S. – Percorsi d’acqua – Ponte alle Grazie 2004
SOLVIT, R. – Storia del camminare – BRUNO MONDADORI, 2001
STHENDAL – Guida ad uso di chi viaggia in Italia – BIB. DEL VASC. 1989
STEVENSON, R. L. – Appunti di viaggio in Francia e in Svizzera – MUZZIO 1998
STOPPIGLIA, G. – Diario di un viandante – EDIZIONI LAVORO 2001
THOREAU, W.H. – Camminare – MONDADORI 1994

Storia delle esplorazioni

AA. VV. – L’Africa. Esplorazione del continente nero – EL. GALL, 1995
AA. VV. – Artide ed Antartide. La grande sfida dei poli – EL. GALL,. 1994
AA. VV. – Humboldt – ELECTA GALLIMARD 1998
AA. VV. – Il grande libro delle esplorazioni – VALLARDI, 1976
AA. VV. – I grandi esploratorii – LE MASCHERE, 1957
AA. VV. – In mezzo ai ghiacci – HOBBY & WORK, 2008
AA. VV. – La storia dei grandi navigatori – HOBBY & WORK, 2005
AA. VV. – Le grandi esplorazioni che cambiarono il mondo – SEL.R. D. 1979
AA. VV. – Marco Polo e la via della seta – ELECTA GALLIMARD 1994
AA. VV. – Nei mari del Sud. Da Magellano a Cook – EL. GALL. 1995
AA VV. – Segni e sogni della Terra. Il disegno del mondo dal mito di Atlante – DE AGOSTINI 2001
AA. VV. – Nuovi mondi. Relazioni, diari e racconti di viaggio – BUR, 2000
AA. VV. – Nuovo Mondo. Gli Spagnoli – MONDADORI 1992
ANDERSON, B.– Verso Nord (La corsa al Polo) – CORBACCIO, 2006
ANTEI, G. – L’orizzonte in fuga. Viaggi e vicende di Agostino Codazzi da Lugo – OLSCHKI 2012
ARDITO, S. – La grande avventura. La spedizione in Himalaya di Filippo De Filippi – CORBACCIO 2013
ARIOLI, A. – Le isole mirabili – EINAUDI 1989
ARMESTO, F. F. – Esploratori – BRUNO MONDADORI 2008
ASCHERSON, N. – Mar Nero – EINAUDI 1999
A.t’SERSTEVENS – I precursori di Marco Polo – GARZANTI –1982
AVELARDI, A – Romolo Gessi Pascià – PARAVIA, 1948
BALESTRACCI, D. – Terre ignote strana gente. Storie di viaggiatori medievali –LATERZA 2008
BELLORINI, E. – G. B. Belzoni e i suoi viaggi in Egitto – PARAVIA 1929
BELLORINI, E. – G. Miani e Speke alla scoperta delle sorgenti del Nilo – PARAVIA 1931
BERCHET, J. C. – Le voyage en Orient dans le XIX siècle – LAFFONT, Parigi 1985
BERGREEN, L. – Oltre i confini del mondo – GARZANTI 2004
BERLINGUER, G. – Il mago dell’Occidente – GIUNTI 1997
BERRTINO,. S. – I conquistatori della terra – MURSIA 1976
BERTON, C. – Sulle vie del Levante – STAMPA ALTERNATIVA 2003
BIANCHI, F. – Un finto rabbino … – GUARINI 2003
BIANCHI, N. – Mungo Park e la ricerca del Niger – PARAVIA, 1930
BIANCHI, N. – Il Capitano Cook alla ricerca del Passaggio di Nord-Ovest – PARAVIA, 1927
BIANCHI, V. – Gengis Khan e Marco Polo – MONDADORI 2005
BIGNARDELLI, I.O. – Cristoforo Colombo – UTET 1959
BLACKBURN, J. – Cavalcare il coccodrillo – BORINGHIERI 1993
BLOND, G. – Storia della filibusta – MURSIA 1970
BOARSTIN, D. – L’avventura della scoperta – MONDADORI
BOCCAZZI, C. – La via dell’incenso – NERI POZZA 1997
BONATI, M. – Vittorio Bottego – SILVA, 1997
BOORSTIN, D. J. – Storia delle conquiste umane – MONDADORI 1985
BOSI, R – Primo incontro con le esplorazioni – GIUNTI-NARDINI 1987
BRAVETTA, E. – Pirati e Corsari – AGNELLI, 1932
BRENNECKE, D. – I viaggi di Marco Polo – NATIONAL GEO. 2008
BRILLI, A. – Dove finiscono le mappe – IL MULINO, 2012
BRILLI, A. – Il grande racconto dei viaggi di esplorazione – IL MULINO 2016
CARLINI VENTURINO, A. – Carlo Piaggia – PARAVIA 1952
CARTER, R. – L’Europa alla conquista dell’America – Garzanti, 1963
CASSON, L. – Viaggi e viaggiatori dell’Antichità – MURSIA 1974
CATONE,. G. – Otto Sverdrup nell’Artide inesplorata – PARAVIA 1953
CERULLI, E. – Nel paese dei Bantu. Le esplorazioni in Africa – UTET 1961
CHERRY-GARRARD, A. – Il peggior viaggio del mondo – RIZZOLI 2004
CIARDI, M. (a c. di) – Esplorazioni e viaggi scientifici nel ‘700 – BUR 2008
CONNIFF, R. – Cercatori di specie – LE SCIENZE, 2012
COZZANI, E. – Giacomo Bove – PARAVIA, 1951
CROSS, W. – Disastro al Polo – TEA 2005
CUMMINS, J. – Francis Drake – PIEMME, 1995
DAINELLI, G. – La conquista della terra: esploratori ed esplorazioni – UTET 1954
DAINELLI, G. – Viaggiatori del Medioevo in Asia – UTET 1960
DAINELLI, G. –Gli esploratori italiani in Africa – UTET 1958
DAINELLI, G. – Esploratori e alpinisti nel Karakorum – UTET 1959
DAINELLI, G. –La gara verso il Polo Nord– UTET 1959
DAINELLI, G. –Il passaggio di Nord-Ovest– UTET 1956
DAINELLI, G. – L’impresa di Magellano – UTET 1957
DAINELLI, G. – L’esplorazione del grande Oceano – UTET 1955
DE BENEDETTI, R. – V. Bòttego e l’esplorazione del Giuba – PARAVIA, 1927
DE MONFREID, H. – Verso le terre ostili dell’Abissinia – GENIO, 1935
DETTORE, U. – Storia delle esplorazioni – DE AGOSTINI 1981
DE VOTO, B. – La corsa all’impero – IL MULINO 1963
DE VOTO, B. – Di là dal grande Missouri – MURSIA 1992
DOE, B. – L’Arabia felice – NEWTON COMPTON, 1982
DONATTINI, M. – Dal nuovo mondo all’America – CAROCCI 2004
DOPLICHER, M. – Come l’uomo scopre il suo mondo – VIE NUOVE 1973
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STANLEY, H. M. – Diari dell’esplorazione africana – DALL’OGLIO 1963
SYMES, M. – Viaggio a Pegù (1795) – FMR, 1988
THESIGER, W. – Sabbie arabe – MONDADORI 1991
THESIGER, W. – Quando gli arabi vivevano sull’acqua – NERIPOZZA 2004
T’SERSTEVENS, A.(a c. )– I precursori di Marco Polo – GARZ.1982
TUCCI, G. – Dei, demoni e oracoli – NERI POZZA, 2006.
TUCCI, G. – Nepal: Alla scoperta del regno dei Malla – NEW COMPT 1978
TUCCI, G. – Tra giungle e pagode – NEWTON COMPTON 1979
TUCCI, G. – A Lhasa ed oltre – NEWTON COMPTON, 1980
TUCCI, G. – Tibet ignoto – NEWTON COMPTON 1978
TUCCI, G. – La via dello Swat – NEWTON COMPTON 1979
VINCI, A. – Samatari – L. DA VINCI, BARI, 1956
VINCI, A. – L’acqua, la danza e la cenere – RIZZOLI 1973
XU XIAKE – Peregrinazioni in luoghi sublimi – RIZZOLI 1997
WALLACE, A. D. – L’arcipelago malese – MIMESIS 2014
WALLACE, A. D – Travels of the Amazon and Rio Negro – LONDRA 1890

Eccellenti le antologie LES VOYAGES , edite da ROBERT LAFFONT (Parigi)
Interessante la AA VV – Biblioteca illustrata dei viaggi intorno al mondo per terra e per mare. N. 1 – La Gujana Francese. L’isola del diavolo N. 2 – Cuba e Portorico N. 3 – Il tetto del Mondo viaggio al Pamir N. 4 – I fiordi della Norvegia N. 5 – La Cina cinese N. 6 – Le Filippine N. 7 – In Tunisia N. 8 – Il Siam N. 9 – I Barcelonnettes nel Messico N. 10 – L’Isola Maurizio N. 11 – Attraverso le Pampas (Repubblica Argentina) N. 12 – Le Nuove Ebridi N. 13 – Suriname (Gujana Olandese) N. 14 – Nel Klondyke N. 15 – Darjiling (Himalaya) N. 16 – Il Marocco N. 17 – Chicago N. 18 – Madagascar N. 19 – Ceylan N. 20 – In Palestina N. 21 – L’Ararat N. 22 – Il Paese del Fiume Azzurro N. 23 – Le Steppe Kirghise N. 24 – Bombay la città dei Parsi N. 25 – In Lapponia N. 26 – Gli antropofagi del Perù N. 27 – Il Brasile N. 28 – Gli Annamiti N. 29 – Tangeri (La città dei cani) N. 30 – I Boubous del Congo – SONZOGNO, 1899

Resoconti e diari di viaggio: turismo, esotismo e viaggi culturali (fino al 1950)

AA. VV. – Viaggiatori del Settecento – UTET 1962
AA. VV. – Viandanti e viaggiatori – ROBIN, 2008
AA. VV. – Il viaggio. L’avventura e la memoria (4 voll.) – GUIDA 1988
AA. VV. – I narrabondi – EDITORI RIUNITI 1991
AA VV. – Il mediterraneo pittoresco – SONZOGNO 1892 (ried. LIRITI 2003)
AA VV– Viaggiatori dell’Ottocento e del Novecento – IST. POL. STATO 2003
AA. VV. (a cura di Gianni Guadalupi) – Babilonia – FMR 1992
AA. VV. (a cura di Gianni Guadalupi) – Tsu-Ching-Cheng– FMR 1993
AA. VV. (a cura di Gianni Guadalupi) – Argovia e Brisgovia – FMR 1989
AA. VV. (a cura di Gianni Guadalupi) – Carpazia – FMR 1990
AA. VV. (a cura di Gianni Guadalupi) – Vulcania – FMR 1993
AA. VV. (a cura di Gianni Guadalupi) – Beciuania – FMR 1994
AA. VV. (a c.Guadalupi G.) – Ingermanlandia (Sankt Peterburg) – FMR 1992
AA.VV. (a c. Guadalupi G.) – Vicereame della Nuova Spagna – FMR 1992
AA. VV. (a cura di Gianni Guadalupi) – Etèria – FMR 1992
AA. VV. (a cura di Gianni Guadalupi) – Palatinato di Masovia – FMR 1993
AAFJES, B. – Un viaggio a piedi sino a Roma (poemetto) – OLANDA 1946
ALGAROTTI, F. – Viaggi di Russia – GARZANTI, 2001
ALLAN, M. – I viaggi di Byron – BIBL. DEL VASCELLO 1992
ANDREANI, P. – Giornale 1790 (al paese deli Irochesi) – CLUEB 2005
ANDREANI, P. – Viaggio in Nord America – SCHEIWILLER 1994
ANDREANI, P. –Giornale di viaggio – CDA VIVALDA 2003
ANGIOLINI, L. – Lettere sopra l’Inghilterra, la Scozia e l’Olanda– MODENA 1990
ANONIMO – Racconti di un pellegrino russo – RUSCONI 1973
APPELIUS, M. – La sfinge nera. Dal Marocco al Madascar – 1924
APPELIUS, M. – Asia gialla – 1926
APPELIUS, M. – Il cimitero degli elefanti – 1928
APPELIUS, M. – Le isole del raggio verde – 1929
APPELIUS, M. – Da mozzo a scrittore: attraverso il mondo – 1934
APPELIUS, M. – La crisi di Budda: due anni tra i Cinesi – 1935
APPELIUS, M. – Asia tragica e immensa – 1940
ARDEMAGNI M. – Viaggio alla Terra del Fuoco e in Patagonia – AGNELLI, 1929
ARNAUD, J.F. – Viaggio nel regno della regina di Saba – SELLERIO 2007
BACCHELLI, R. – Mal d’Africa – 1933
BACHOFEN, J.J. – Viaggio in Grecia – MARSILIO, 1993
BADIA y LEBLICH, D. – Viaggio in Siria e Palestina – NOVECENTO 1991
BARETTI, G. – Narrazione incompiuta di un viaggio in Inghilterra – BIB. DEL VASCELLO 1995
BARRILI, B. – Il viaggiatore volante – MUZZIO 1999
BARILLI B. – Il sole in trappola. Diario del periplo dell’Africa (1931) – SANSONI
BARZINI, L. – Viaggio in Terrasanta – EDITORI RIUNITI, 2004
BARZINI, L. – Sotto la tenda – RINFRESCHI (PC), 1915
BARZINI, L. – Nell’estremo oriente – LIB. ED. INTERNAZIONALE, 1904
BARZINI L. – Dall’impero del Mikado all’impero dello Zar – RINFRESCHI,1914
BELLOC, H. – La via per Roma – CANTAGALLI, 2012
BELYI, A. – Da Venezia a Palermo – CASTELVECCHi 2008
BELZONI, G. B. – Viaggi in Egitto e Nubia – HARMAKIS 2019
BENJAMIN, W. – Il mio viaggio in Italia – RUBBETTINO 2000
BEONIO-BOCCHIERI, V. – Dall’uno all’altro Polo – 1934
BEONIO-BOCCHIERI, V. – Vita selvaggia – 1938
BEONIO-BOCCHIERI, V. – In volo traverso i secoli – 1941
BERNIER, F. – Viaggio negli stati del Gran Mogol – IBIS 1991
BERTARELLI, L.V. – Insoliti viaggi – TOURING 2004
BIRD, F. – Una lady nel West – EDT 1998
BORSANI, A. – Stranieri a Samoa – NERI POZZA, 2006.
BOTTA, P. E. – Viaggio intorno al globo – FIBRENO, NAPOLI 1841
BRYDONE, P. – Il grand tour – AGORA’ 2002
BURCKHARDT, J. – Viaggio in Giordania – CIERRE 1994
BYRON, G. – Lettere italiane – GUIDA, 1985
BYRON, R. – Gente di pianura, dei della montagna – BIB. DEL VASC 1993
BYRON, R. – La via per l’Oxiana – ADELPHI 1996
BYRON, R. – Monte Athos. Viaggio alla montagna sacra della Grecia – IBIS, 2006
BYRON, R – L’Europa vista dal parabrezza –  EXCELSIOR 1881
CARROL ,L. – Viaggio in Russia – IBIS 2001
CARVER J. – Voyage dans l’ interieure de l’Amerique Septentrionale 1766-1768. r – YVERDON, 1842
CASTI, G. B. – Viaggio a Costantinopoli (1802) – IL POLIFILO, MI 2005.
CASTIGLIONI, L. – Viaggio negli Stati Uniti dell’A. Sett. – MUCCHI, 2001
CHAMISSO, A. von – Viaggio attorno al mondo – GUIDA 1988
CHATEAUBRIAND, R. – Viaggio in America – PINTORE 2007
CHATEAUBRIAND, R. – Viaggio in Italia – CAROCCI 2010
CHATEAUBRIAND, R. –Memorie d’oltretomba – CAROCCI 2010
CIARLANTINI, F. – Viaggio nell’Oriente mediterraneo – MILANO 1935
CIPOLLA A. – Su gli altipiani dell’Iran –ALPES, 1926
CIPOLLA A. – Sulle orme di Alessandro Magno – MONDADORI,1933
COLLINS, W. – DICKENS, C. – Il pigro viaggio di due apprendisti oziosi – SELLERIO 2003
CORBETT, J. – Il leopardo che mangiava gli uomini – MONDADORI, 1951
DAVID NEEL, A. – Viaggio di una parigina a Lhasa –BIB. DEL VASCELLO 1995
DE AMICIS, E. – Spagna – MUZZIO 1992
DE AMICIS, E. – Sull’Oceano – IBIS 1991
DE AMICIS, E. – Costantinopoli – TOURING 1997
DE BIANCHI, A. – Viaggio in Armenia, Kurdistan, Lazistan (1859) – ARGO 2005
DE BROSSES, C. – Viaggio in Italia – LATERZA 1992
DE GOBINEAU A.J. – Ricordi di viaggio – GRECO E GRECO 2000
DEMARTIN DU TYRAC, L.M. –Scali di Levante – FMR 2000
DEMIDOFF A. – Viaggio nella Russia meridionale e nella Crimea (1837) – TO, FONTANA, 1841
DE MONTMOLLIN, E – Image de la Chine – A LA BACONNIÈRE, 1942
DE SAINT PIERRE, B. – Viaggio all’isola Mauritius – CIERRE 1995
DE SANTIS, F. – Viaggio elettorale – GUIDA 1989
DE VOLNEY, C. F. – Viaggio in Egitto e in Siria (1782-1785) – LONGANESI 1974
DE SAINT-NON, C. – Viaggio pittoresco – RUBETTINO 2009
DESCALZO, G. – Su due oceani – 1946
DI CAPUA, G. SALIBENE, Luigi Castiglioni nel paese degli uomini liberi – RUBETTINO, 2010
DICKENS, C. – America – FELTRINELLI
DICKENS, C. – Pickwick in Italia – TOURING CLUB, 1998
DICKENS, C. – Impressioni italiane – BIB. DEL VASCELLO 1992
DICKENS, C. – Lettere da Genova, Napoli e altre città – ARCHINTO 2000
DICKENS, C. – Genova e dintorni – SAGEP 1995
DIDEROT, D. – Viaggio in Olanda – IBIS 1995
DORR, D.F. –Un uomo di colore in viaggio attorno al mondo– IBIS 1998
DOUGLAS, N. – Vecchia Calabria – GIUNTI-MARTELLO 1967
DUHAUT, C. A. – Viaggio intorno al globo 1826-1829 – ST. DEL FIBRENO 1842
DUMAS, A. – La guerra santa. Viaggio tra i ribelli ceceni – RUBETT. 2002
DUMAS, A. – Viaggio in Calabria – RUBETTINO 2007
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EBERHARDT, I. – Sette anni nella vita di una donna – GUANDA 2005
EBERHARDT, I – Il paradiso delle aquile – IBIS 2012
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FERMOR, P. L. – Mani – ADELPHI 2004
FERMOR, P. L. – Tempo di regali – ADELPHI 2009
FERMOR, P. L. – Tra i boschi e l’acqua – ADELPHI 2013
FERMOR, P. L. – La strada interrotta – ADELPHI 2015
FLAUBERT, G. – Viaggio in Egitto – IBIS 1993
FLAUBERT, G. – Viaggio nei Pirenei e in Corsica – MOBYDICK, 2001
FLAUBERT, G. – Viaggio a Cartagine – IBIS 2004
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FLEMING, P. – Avventura brasiliana – LONGANESI 1951
FONTANE, TH. – Viaggio attraverso la Scozia – SANTI QUARANTA 2002
FOUNTAINE, M. – Viaggi e avventure di una lady vittoriana – MUZZIO 1992
FRISON-ROCHE, R. – Il richiamo dell’Haggar – CDA 2006
FROMENTIN, E. – Un’estate nel Sahara – 18?
GAUTHIER, T. – Viaggio in Italia – NARDINI 2006
GAUTHIER, T. – Viaggio pittoresco in Albania – SALERNO 2001
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GIBBS, P. – Viaggio nell’Europa del 1934 – MUZZIO 1995
GIDE, A . Viaggio al Congo
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GISSING, G. – La terra del sole – RUBBETTINO 2000
GOETHE, W. – Viaggio in Italia – RIZZOLI 1983
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GUADALUPI, G. – La terra dei Rajah. Passaggi in India dal ‘600 al ‘900 – ANABASI 1993
GUGLIELMINETTI, M. – Viaggiatori del Seicento – UTET 1976
HALLIBURTON, R. – Giro del mondo a tasche vuote – ED. GENIO, Mi 1933
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HEINE, H. – Impressioni di viaggio – DE AGOSTINI 1983
HESSE, H. – Viaggio in India – NEWTON COMPTON 1990
HESSE, H. – L’azzurra lontananza – SUGAR 1978
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HUDSON, H.W. – Una terra lontana – ADELPHI 1995
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HUXLEY, J. – Misteri di una terra antica – MONDADORI 1955
KEYSERLING, H.– Diario di viaggio di un filosofo (Cina, Giappone, America) – N. POZZA 1998
KEYSERLING, H – Diario di viaggio di un filosofo (India) – N. POZZA 1998
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KIPLING, R. – Viaggio in India – CASTELVECCHI 2010
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LEWIS, N. – Niente da dichiarare – ADELPHI 2008
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MAILLART, E. – La via crudele – EDT 1999
MAILLART, E. – Oasi proibite – EDT 2003
MAILLART, E. – Ti-puss – EDT 2002
MAILLART, E. – Crociere e carovane – EDT 2006
MANZONI, R – El Yemen – EDT 1996
MARAINI, F. – Incontro con l’Asia – DE DONATO 1972
MARAINI, F. – Segreto Tibet – CORBACCIO 2001
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MAZZEI, F. – Memorie della vita e delle peregrinazioni del fiorentino Filippo Mazzei – MI 1970
MAYLE, P. – Un anno in Provenza – EDT 1993
MAYLE, P. – Toujour Provence – EDT 1995
MELVILLE – Diario italiano – BIB. DEL VASCELLO 1990
MELVILLE, H. –Clarel: poema e pellegrinaggio in Terrasanta – EIN, 1999
MERIMÉE, P. – Viaggio in Spagna – IBIS 2002
METRAUX, A. – La meravigliosa isola di Pasqua – TASCO, 1992
MONTAGU, M.W. – Lettere orientali di una signora inglese – IL SAGG 1984
MONTAIGNE, M. de – Viaggio in Italia – LATERZA 1991
MONTESQUIEU, C. de – Viaggio in Italia – LATERZA 1991
NERVAL, G. d. – Viaggio in Oriente – EINAUDI 1997
ODESCALCHI B. – Il libro dei viaggi – Roux & Viarengo 1905
ORIOLI, G. – In viaggio – RUBETTINO 2012
PAPI, L. – Ritorno dall’India Lettere sulle Indie orientali – ROBIN, 2006
PENNELL, Elizabeth – Le Alpi in bicicletta – ARCHINTO 2002
PIZZAGALLI, D. – Il viaggio del destino. Carla Serena da Venezia al Caucaso – RIZZOLI, 2006
POTOCKI, J – Nelle steppe di Astrakan e del Caucaso – MONDADORI 1996
POTOCKI, J. – Viaggio in Turchia, in Egitto e in Marocco – E/O,2002
PRZHEVAL’SKIJ, N. – Sur le toit du monde
RADISCEV, A. N. – Viaggio da Pietroburgo a Mosca – VOLAND, 2006
RATH, G.von – Un’escursione in Calabria – RUBETTINO
ROMANELLI, S. – Visioni d’Oriente – LA GIUNTINA 2007
ROSSI, V.G. – Tropici – MONDADORI 1980
ROSSI, V.G. – Oceano – DE FERRARI, 2001
RUGGIERI, V. – Dal Transvaal all’Alaska – PARAVIA 1901
RUSKIN, J. – Viaggi in Italia – NUOVA ITALIA 1972
SAINT-NON, J. C. – Viaggio pittoresco (1778) – RUBETTINO
SAINT-NON,J.C.–Viaggio pittoresco nella Magna Grecia–KURUMUNY 2017
SAKVILLE-WEST, V. – Il più personale dei piaceri – GARZ. 1992
SAVAGE-LANDOR, A. H. – In the forbidden land –ULAN PRESS 2012
SAVAGE-LANDOR, A. H. – Across Widest Africa – NABU PRESS 2010
SAVAGE-LANDOR, A. H.  – Across Coveted Lands –ULAN PRESS 2012
SCHWARZWNBACH, A. – La gabbia dei falconi – RIZZOLI 2007
SCHWARZWNBACH, A. – La via per Kabul – IL SAGGIATORE, 2000
RIZZOLI 2007SCHWOB, M. – Viaggio a Samoa – IBIS 2004
SEAL, J. – Viaggio nelle terre dei serpenti – PIEMME, 1999
SEGALEN, V. – Lettere di Cina – ROSELLINA ARCHINTO 1990
SEUME, J.G. – L’Italia a piedi – LONGANESI 1973
SMOLLETT, T. – Viaggio attraverso l’Italia – NUTRIMENTI, 2003
SOLINAS, S. – Il corsaro nero. Henry de Monfreid, l’ultimo avventuriero – NERI POZZA 2015
SPALLANZANI, L. – Viaggi alle due Sicilie – HOEPLI 1936
SPALLANZANI, L. – Viaggio a Costantinopoli – MUCCHI (MO) 2007
STARK, F. – Le porte dell’Arabia – GUANDA 2002
STARK, F. – Effendi – GUANDA 2003
STARK, F. – Le valli degli assassini – GUANDA 2004
STEIN, G. – Paris, France – EDT 1996
STEVENSON, R.L. – Viaggio nelle Cevennes in compagnia di un asino – IBIS 1993
STEVENSON, R.L. – Viaggio nell’entroterra – MUZZIO 1992
STEVENSON, R.L. – Edimburgo e tre passeggiate a piedi – MUZZIO 1996
STEVENSON, R.L. – Gli accampati di Silverado – STUDIO TESI 1985
STEVENSON, R.L. – Nei mari del Sud – MUZZIO 1992
STENDHAL – Viaggio in Italia da Milano a Reggio Calabria – LAT. 1990
STENDHAL – Piccola guida per il viaggio in Italia –LA VITA FELICE 1998
STENDHAL – Passeggiate romane – GARZANTI 2004
STOLBERG, F.L. von – Viaggio in Calabria – RUBBETTINO 1999
STRUTT, A. – Un viaggio a piedi in Calabria – RUBETTINO
SUBIROS, P. – La rosa del deserto – EDT 2000
SWINBURNE, H. – A cavallo in Calabria tra antiche rovine – RUBETTINO
TACKERAY, W. – Da Cornhill al Gran Cairo – MUZZIO 1993
TAINE, H. – Viaggio in Italia – UTET 1932
TOCQUEVILLE, A. De – Viaggio in America (1831-1832)- FELTRINELLI 1990
TOCQUEVILLE, A. DE – Quindici giorni nel deserto americano – SELLERIO 1989
TOCQUEVILLE, A. DE – Viaggi – BORINGHIERI, 1996
T’SERSTEVENS, A – Itinerario spagnolo – DE AGOSTINI 1962
TWAIN, M. – Vagabondo in Italia – BIB. DEL VASCELLO 1991
TWAIN, M. – Seguendo l’Equatore – BALDINI E CASTOLDI, 2010
TWAIN, M. – In cerca di guai – ADELPHI, 2005
TWAIN, M. – In questa Italia che non capisco – MATTIOLI 1885
VALERY, P. – Viaggio in Sardegna – ILISSO 1998
VERNE , J. – Viaggio ( a ritroso ) in Inghilterra e Scozia – BIBLIOTECA DEL VASCELLO 1993
VOLNEY, C. F. – Viaggio in Egitto e in Siria – LONGANESI 1974
VOLTA, A. – Viaggio in Svizzera – IBIS 1994
WALLACH, T. – The rugged road – ULTRA 2015
WALLEMBERG, J. – Mio figlio sulla galea – LONGANESI 1971
WEST, R. – Viaggio in Jugoslavia – EDT 1996
WEST, R. – LA Bosnia e l’Erzegovina – EDT 1995
WEST, R. – Vecchia Serbia – EDT 1998
WOOLF, V. – Diari di viaggio in Italia Grecia e Turchia – MATTIOLI 1885, 2011

Resoconti e diari di viaggio: turismo, esotismo e viaggi culturali (dopo il 1950)

AIME, M. – Le radici nella sabbia – EDT, 1999
ALBANOV, V. – Nella terra della morte bianca – TEA 2002
ALLEN, S. L. – La tazzina del diavolo – FELTRINELLI 2007
ANQUETIL, G. – Approdi di un passeggero clandestino – VIV. CdA 2008
ARBASINO, A. – Trans-Pacific Express – 1981
ARBASINO, A. – Dall’Ellade a Bisanzio – ADELPHI, 2006
ASCOLI, L. – Alesià mon amour. Alla ricerca delle origini di Venezia – Roma, EREDI BARDI, 2005
ARNESEN, L. BANCROFT A. – Nessun orizzonte è troppo lontano – TEA 2005
AUTISSIER, I. – Sola intorno al mondo – TEA 2006
BANHAM, R. – Deserti americani – EINAUDI, 2006.
BARBINI, T. – Le nuvole non chiedono permesso –FI POLISTAMPA, 2006.
BARBINI, T. – I giorni del riso e della pioggia – VALLECCHI, 2009
BARBINI, T. – Il cacciatore di ombre – VALLECCHI, 2011
BARROSO, M. REYES-ORTIZ, I. – Cronache dai Caraibi – FELTRIELLI 1998
BERG, N. I. – Fiumi di terra rossa – TEA, 2003
BETTINELLI, G. – In vespa – FELTRINELLI 1997
BETTINELLI, G. – La Cina in vespa – FELTRINELLI 2002
BETTINELLI, G. – Brum brum – FELTRINELLI 2005
BETTINELLI, G. – Rapsody in black – FELTRINELLI 2007
BETTIZA, E. – L’anno della tigre: viaggio nella Cina dei Deng – 1987
BIONDI, M.– Gule Gule Parti con un sorriso – P. ALLE GRAZIE. 2004
BIONDI, M. – Strade bianche per i monti del cielo – PONTE G. 2005
BOCCONI, A. – Di buon passo – GUANDA 2007
BOCCONI, A. – Il giro del mondo in aspettativa – GUANDA 2005
BOCCONI, A. – Viaggiare e non partire – GUANDA 2002
BOCCONI, A. – La tartaruga di Gauguin – GUANDA 2005
BORGHESE, A. – Ritorno in India – PIEMME,2006.
BRANDI, C – Persia mirabile – ELLIOT 2016
BRESSAN, A. – Lettere dal Sudan – Udine, KAPPA VU, 2005
BRIZZI, E. – Il pellegrino dalle braccia tatuate – MONDADORI 2007
BRIZZI, E. – Nessuno lo saprà – MONDADORI 2005
BRIZZI, E. – Gli psicoatleti – MONDADORI 2011
BRYSON, B. – America perduta – FELTRINELLI 1996
BRYSON, B. – Una passeggiata nei boschi – CORBACCIO 2000
BRYSON, B. – In un paese bruciato dal sole – GUANDA 2001
BRYSON, B. – Una città o l’altra – GUANDA 2002
BRYSON, B. – Notizie da un’isoletta – GUANDA 2004
BRYSON, B. – Diario d’Africa – GUANDA 2005
BUESCHER, W. – Germania, un viaggio – VOLAND 2009
BULDRINI, C. – In India e dintorni – PIEMME 1999
CACUCCI, P. – La polvere del Messico – FELTRINELLI 1992
CACUCCI, P. – Camminando – FELTRINELLI 2003
CACUCCI, P. – Demasiado corazon – FELTRINELLI, 1999
CACUCCI, P. – Un po’ per amore, un po’ per rabbia – FELTRINELLI 2008
CAGNAN, P. – Con tutti i posti che ci sono … –VALLECCHI, 2009
CAMUS, A. – Viaggio nell’America del Sud – CITTÀ APERTA 2008
CASELLA, M. – Nero-Bianco-Nero. Tra le montagne e la storia del Caucaso – CGE 2013
CASSOLA, C. – Viaggio in Cina – FELTRINELLI 1956
CAVALLARI, A. – Una lettera da Pechino – 1974
CAVALLARI, A. – La Cina dell’ultimo Mao – 1975
CAVALLI, E. – Il divano del nord – FELTRINELLI 2005
CAVALLO, G. – Una vita diversa – FBE ED, 2006
CECCHI, U. – Le ceneri del baobab – VALLECCHI, 2008
CEDERNA, G. – Il grande viaggio – FELTRINELLI 2005
CELATI, G. – Avventure in Africa – Feltrinelli, 1998
CHATWIN, B. – In Patagonia – ADELPHI 1982
CHATWIN, B. – Che ci faccio qui ? – ADELPHI 1990
CHATWIN, B. – La via dei canti – ADELPHI 1988
CODECASA, M. S. – Metà cielo e mezza luna – VALLECCHI, 2005
COHN, N. – Avventure nell’altra Inghilterra – FELTRINELLI 2001
COLOANE, F. – Una vita alla fine del mondo – GUANDA 2005
COMISSO, G.– Cina, Giappone – 1932
CONDÈ, M. – Le muraglie di terra – IL LAVORO, 2003
COTLOW, L. – Zanzabucu, safari pericoloso – DEL DUCA 1956
CUNNINGHAM, M. – Dove la terra finisce: una passeggiata per Provincetown – BOMPIANI, 2003
DALRYMPLE, W. – Il Milione – RIZZOLI 1999
DALRYMPLE, W. – In India – RIZZOLI 2000
DALRYMPLE, W. – Dalla montagna sacra– RIZZOLI 1998
DAVID, M. – Buana Muandi – BIETTI 1973
DAVIDSON, R. – Orme – FELTRINELLI 2004
DEAKIN, R. – Nel cuore della foresta – EDT 2008
DEAMBROGIO, M.– Il giro del mondo in moto – SPERLING & K. 2006.
DEDOLA, R. (a c di] – La valigia delle Indie e altri bagagli – B. MOND. 2006.
DEL CORONA, M. – Strade di bambù – EDT 1999
DESIO, A. – La via della sete – POLARIS 2007
DOMALAIN, J.Y. – Le case lunghe – MONDADORI 1972
DYHRENFURTH, G. O. –  Il terzo Polo – BALDINI & CASTOLDI, 1953
ELIOT, J. – Specchio dell’invisibile (Iran) – NERI POZZA 2006
ELIOT, J. – Una luce inattesa (Afganistan) – NERI POZZA 2005
EMANUELLI, E. – Il pianeta Russia – 1952
EMANUELLI, E. – Giornale indiano – 1955
EMANUELLI, E. – La Cina è vicina – 1957
ENZENSBERGER, H.M. – Ah, Europa! – GARZANTI 1989
EVANS, A. J. – A piedi per la Bosnia durante la rivolta – SPARTACO, 2005
FERGUSON, W. – Autostop col Buddha – FELTRINELLI 1998
FERMOR, P.L.– Mani – ADELPHI 2006
FERRARI, M.A. – In viaggio sulle Alpi – EINAUDI 2009
FERETTI, G., ZAMBONI, M. – In Mongolia in retromarcia – GIUNTI 2000
FIUMI, C. – La strada è di tutti – FELTRINELLI 1999
FIUMI, L. – La bottiglia sotto il sole di mezzanotte – 1965
FLANNERY, T. – L’ultima tribù – TEA 2005
FRÉDÉRIC, L. – L’India mistica e leggendaria – NERI POZZA, 1998
FUCHS. P. – Nel paese degli uomini velati – BOMPIANI 1\955
FULLER, E. – Quando vedi un emù in cielo – TEA, 2005
FULTON, R. E. – One man caravan – ELLIOTT, 2014
GANDOLFI,A. MAUGERI,M. – A est di Hamilton Road(Kurdistan) – EDT 2000
GIFFORD, R. – Cina. Viaggio nell’impero del futuro – NERI POZZA 2008
GIARDINA, R – L’altra Europa – BOMPIANI 2004
GIARDINELLI, M. – Finale di romanzo in Patagonia – GUANDA 2001
GORACCI, R. – A est dell’Avana – TEA 2005
GOSS, P. – Corsa nel vento – TEA 2006
GRANT, D. – Capre bianche e api nere – MURSIA 1982
GREENFIELD, O. – Alla ricerca dell’unicorno – FELTRINELLI 1993
GUEVARA, E. – GRANADO, A. – Latinoamericana – FELTR.1993
HALL, T. – Alla ricerca del cimitero degli elefanti – TEA 2005
HALLBERG, ULF P. – Lo sguardo del flaneur – IPERBOREA 2001
HAMILTON-PATERSON J. – Sette decimi (In viaggio per i mari) – GUANDA 2001
HANSEN, E. – In viaggio con Mohammed – FELTRINELLI 1997
HANUT, E. – La strada per Guadalupe – PONTE ALLE GRAZIE 2003
HEAT-MOON, W. L. – Strade blu – EINAUDI 1991
HEAT-MOON, W. L.– Prateria – EINAUDI 1996
HEAT-MOON, W. L. – Nikawa – EINAUDI 2000
HILLARY, E. –Appuntamento al Polo Sud – DE AGOSTINI 1962
HOLMSEN, S. – Gli alisei della Polinesia – MARTELLO 1954
HORN, Mike– Sulla linea dell’equatore. Milano, CAIRO, 2006
HÖST, P. – Ciò che ho visto nel mondo – MARTELLO, 1955
KEAY, J. -HORN, M. – Sulla linea dell’equatore. Milano, CAIRO, 2006
IVE, R. – Gobi – BONANNO, 2005
IYER, P. – C’era una volta l’Oriente – NERI POZZA 2000
KAPUSCINSKI, R. – Ebano – FELTRINELLI 2000
KAPUSCINSKI, R. – In viaggio con Erodono – FELTRINELLI 2004
KAPUSCINSKI, R. – Lapidarium – FELTRINELLI 1997
KAPUSCINSKI, R. – Shah-in Shah – FELTRINELLI 2001
KERTSCHER, K. – Africa solo – TEA 2003
LAPOUGE, G. – L’inchiostro del viaggiatore – EXCELSIOR 1881
LATHAM, A – Il leopardo di ghiaccio – FELTRINELLI 1991
LAURENT, A. – Desiderio di deserto – FELTRINELLI 2003
LE CLEZIO – Il continente invisibile – INSTARLIBRI 2008
LEONELLI, L. – Siberia per due – FELTRINELLI 2005
LEVI, P. – Il giardino luminoso del re angelo. Viaggio in Afghanistan con Chatwin – EINAUDI 2002
LEWIS, N. – La dea delle pietre – FELTRINELLI 1991
LEWIS, N. – Un dragone apparente – EDT 2015
LEWIS, N. – Niente da dichiarare – Adelphi 2000
LEWIS, N. – Un’idea del mondo – EDT 2016
LILLI, V. – Penna vagabonda – SEI 1952
MAGRIS, C. – Danubio – GARZANTI 1986
MALAURIE, J. – Magia bianca – BALDINI & CASTOLDI 1956
MANERA, D. –Yuruparí: i flauti dell’anaconda celeste –FELTRINELLI 1999
MANGANELLI, G. – Esperimento con l’India – 1992
MANGANELLI, G.– Cina e altri orienti – 1974
MANGANELLI, G. –L’isola pianeta e altri settentrioni – ADELPHI, 2005
MANN, M. – Sul Gringo Trail – TEA 2003
MARCENARO, G. – Passaporti. Un viaggio esoterico – Il Saggiatore 2020
MAROSO, A. FIORIN, A. – Strade d’Oriente – EDICICLO 2007
MASON, V. – Il profumo del tè alla menta. Diario di viaggio in Alto Atlante – NORDPRESS 2006
MATTHIENSEN, P. – Meridiano blu – SPERLING & KUPFER 1999
MATTHIENSEN, P. – Il leopardo delle nevi – SPERLING & KUPFER 1999
MAYLE, P. – Un anno in Provenza – EDT 1993
MAYLE, P. – Toujours Provence– EDT 1993
MC CARTHY, P. – La scoperta dell’Irlanda – GUANDA 2004
MC GREGOR, E. BORMAN, C. – Long way round – MOND. 2005
MC KITTRICK, E. – La strada ai confini del mondo(Canada) – BORIN. 2010
MEEGAN, G. – La grande camminata. Dalla Patagonia all’Alaska in sette anni – MURSIA 2012
MERTON, T. – Diario Asiatico – GARZANTI 1975
MEHTA, S. – Maximum City. Bombay città degli eccessi – EINAUDI 2006
METZELIN, S. – Polvere nelle scarpe – CORBACCIO 2006
MICHAUX, H. – Ecuador – THEORIA, 1987
MILLIMAN, L. – Estremo nord – GARZANTI 1991
MOORE, P. – La strada sbagliata – FELTRINELLI 2003
MOORE, T. – Adagio su due ruote – TOURING, 2006
MOORE, T. – Due baffi sottozero – TOURING 2004
MORAND, P. – Nient’altro che la terra – CORBACCIO 2002
MORAVIA, A. – Un’idea dell’India – BOMPIANI, 1962
MORAVIA, A. – Passeggiata africana – BOMPIANI 1987
MORELLO, M. – Mekong story. Lungo il cuore d’acqua del Sud-est Asiatico – TCI, 2005
MORTARI, C. – Islanda, inferno spento – SEI 1965
MURCUTT, M. – Lost in Tibet. Cinque yankee alla corte del Dalai Lama – BOROLI, (MI) 2006
MURPHY, D. – In Etiopia con un mulo – EDT 2000
NAIPAUL, V.S. – Tra i credenti – RIZZOLI 1983
NAIPAUL, S. – A nord del sud – SERRA E RIVA, 1989
NADOLNY, S. – Biglietto aperto – EINAUDI 1997
NEHBERG, R. – Avventura sul Nilo azzurro – TEA – 2006
NOOTERBOOM, C. – Verso Santiago – FELTRINELLI 1997
NOOTERBOOM, C. – Il Buddha dietro lo steccato – FELTRINELLI, 1997
NOVELLI, L. – In viaggio con Darwin – ECIG, 1992
O’ HANLON, R. – Nel cuore del Borneo – FELTRINELLI 1993
OLLIVIER, B. – La lunga marcia – FELTRINELLI 2003
OLLIVIER, B. – Il vento delle steppe – FELTRINELLI 2006
OLLIVIER, B. – Verso Samarcanda – FELTRINELLI 2002
ORIZIO, R. – Tribù bianche perdute – LATERZA 2000
ORSENNA, E. – Ritratto della corrente del Golfo –P. ALLE GRAZIE 2006
QUILICI, F. – Nelle isole del Sud-Pacifico – REPORTER, Roma 1968
QUILICI, F. – I serpenti di Melqart – MONDADORI, 2003
PACE, F. – Controvento – EINAUDI 2017
PACI, P. – Evitare le buche più dure. Vent’anni di viaggi al contrario – FELTRINELLI 2006.
PARIANI, L. – Patagonia blues – EFFIGIE, MI 2006
PASOLINI, P.P, – L’odore dell’India – GARZANTI 1962
PELLEGRINO, A.M. – In Transiberiana – STAMPA ALTERNATIVA 1990
PEISSON, E. – Poli – BALDINI & CASTOLDI, 1954
PERROTTI, C. – Deserti – CORBACCIO 1998
PERROTTI, C. – Silenzi di sabbia – CORBACCIO 2006
PETTERSON, H. – Con l’Albatross intorno al mondo – BALDINI & C. 1951
PICCARD, B., JONES, B. – L’ultima grande avventura – TEA 2001
PICCOLO, F. – Allegro occidentale – FELTRINELLI 2003
PIOVENE, G. – Viaggio in Italia – BALDINI & CASTOLDI, 1993
PISTONE, F. – Uomini renna – EDT, 2004
POPESCU, P. – Dove comincia il tempo – TEA 2005
PORTELLI, A. – Taccuini americani – MANIFESTOLIBRI 1991
PORZIO, G. – Cuore nero – FELTRINELLI 2001
POSITANO DE VINCENTIIS, F. – Tre donne sulla Transiberìana – MARNA, 2006
PROSPERI, F. – Gran Comora – GARZANTI, 1955
RAMAZZOTTI, S. – Vado verso il Capo – FELTRINELLI 2001
RAMAZZOTTI, S.– Afrozapping. Breve guida all’Africa – FELTR. 2006
RAWICZ S. – Tra noi e la libertà – CORBACCIO 1999
RAVIZZA, V. – Ai confini della vita – GIUNTI 2008
RICHARD, L. – Viaggio nella Cina proibita – TEA 2006
RIGATTI, E. – Minima pedalia – EDICICLO 2005
RIPELLINO, A.M. – Praga magica – EINAUDI 1991
RODRIGUEZ, S.L. – Fior di Norvegia – MAGENES, 2004
ROGGERO, A. – Australian cargo – FELTRINELLI 1998
ROGGERO A. – La corsa del levriero – FELTRINELLI 2002
RUGGERI, C. – Farfalle sul Mekong – FELTRINELLI 2002
RUGGERI, C. – Viaggio in Nuova Guinea – FELTRINELLI 2000
RUMIZ, P. – Oriente – FELTRINELLI, 2003
RUMIZ, P. – La leggenda dei monti naviganti – FELTRINELLI 2007
RUMIZ, P. – Trans Europa Express – FELTRINELLI 2012
RUMIZ, P. – Annibale – FELTRINELLI 2008
RUMIZ, P. ALTAN, F. – Tre uomini in bicicletta – FELTRINELLI 2004
RYTCHEU, J. – Un sogno ai confini del mondo – MURSIA 1983
SARAMANGO, J. –Viaggio in Portogallo – BOMPIANI, 1996
SARNO, L. – Il canto della foresta: la mia vita fra i pigmei – GARZANTI, 1995
SCHILDT, G. – Vent’anni di Mediterraneo – Milano, MAGENES, 2005
SEBALD, W. G. – Gli anelli di Saturno – ADELPHI 2010
SEBALD, W. G. – Gli emigrati – ADELPHI 2007
SEBALD, W. G. – Il passeggiatore solitario – ADELPHI 2006
SEPULVEDA, L. – Patagonia Express – GUANDA 1995
SETH, V. – Autostop per l’Himalaya – EDT 1990
SHAND, M. Viaggio in India in groppa al mio elefante – N. POZZA, 2005
SHAND, M. – Il fiume, il cane e il fumatore d’oppio – N. POZZA, 2006
SIMON, T. – I viaggi di Juppiter – LONGANESI 1979
SINGE, M. – Vagabondo in Irlanda – MATTIOLI 1885
SNYDER, G – Nel mondo selvaggio – RED, 1992
SOLINAS, S. – Da Parigi a Gerusalemme– VALLECCHI, 2011
SOMMERVILLE, C. – Lo scalino d’oro (Creta) – EDT 2001
SOSNINA, E. B. – Le Verste italiane di Ivan Cvetaev – CIRVI, TO 2005
SPARKS, N. – Tre settimane, un mondo – FRASSINELLI, 2006.
STEWART, C. – Una casa tra i limoni – TEA 2006
STEWART, C. – Un pappagallo sull’albero del pepe – TEA 2007
STEWART, R. – In Afganistan – PONTE ALLE GRAZIE, 2005
TAYLER, J. – La valle della casbah – NERI POZZA 2003
TAYLER, J. – In Congo – NERI POZZA 2000
TERZANI, T. – Mustang. Un viaggio – FANDANGO 2011
TERZANI, T. – In Asia – MONDADORI 1997
TESSON, S. – Baku, elogio dell’energia vagabonda – EXCELSIOR, 2007
TESSON, S. – Nelle foreste siberiane – SELLERIO 2011
TESSON, S. – Piccolo trattato sull’immensità del mondo – GUANDA 2006
THAPA, M. – Forget Kathmandu – Vicenza, NERI POZZA, 2006
THEROUX, P. – Bazar Express – RIZZOLI 1986
THEROUX, P. – Il gallo di ferro – BALDINI E CASTOLDI 2001
THEROUX, P. – Dark star safari –BALDINI E CASTOLDI 2006
THEROUX, P. – L’ultimo treno della Patagonia – BALD. E CAST. 2001
THEROUX, P. – Da costa a costa – FRASSINELLI 1985
TODISCO, A. – Viaggio in India – MONDADORI, 1962
TOLSTOJ. A. – L’ultimo segreto sulla via della seta – FBE EDIZIONI, 2003
TOMASSINI, S. – Amor di Corsica : viaggi di terra, di mare e di memoria – FELTRINELLI 2001
THUBRON, C . – In Siberia – PONTE ALLE GRAZIE 2000
THUBRON, C. – Oltre la Muraglia – PONTE ALLE GRAZIE 2001
THUBRON, C. – Nel cuore dell’Asia – PONTE ALLE GRAZIE 1998
THUBRON, C. – Ombre sulla via della seta – PONTE ALLE GRAZIE 2006
THUBRON, C. – Viaggio tra i Russi – PONTE ALLE GRAZIE 2003
THUBRON, C. – Verso l’ultima città – PONTE ALLE GRAZIE, 2002
TORRES, M. – Amor America: un viaggio sentimentale in America Latina – FELTRINELLI, 1996
TILMANN, H. W. – Himalaya dal Nepal – BALDINI & CASTOLDI, 1954
TREVI, E. – L’onda del porto. Un sogno fatto in Asia – LATERZA, 2005
TRILLARD, M. – Cabotage e altri vagabondaggi. Capo Verde e il respiro dell’Atlantico – TCI, 2005
TULLY, M. – Sabarmati express. Nel cuore del gigante indiano – SARTORIO, 2006
TURRI, E. – Viaggio a Samarcanda – DIABASIS, 2003
TUZZI, H. – In Irlanda – TOURING 2004
TYLER, J. – La valle della casbah – NERI POZZA, 2003
TYLER, J. – Congo – NERI POZZA 2001
VERGANI, O. – 45 gradi all’ombra – SEI 1958
VERNI, P. – Mustang, ultimo Tibet – CORBACCIO 2000
VERONESE, P. – Africa : reportage – LATERZA, 1999
VOGEL A. A: – Papuasi e Pigmei – BALDINI & CASTOLDI, 1953
WAUGH, E. – Etichette. – Milano, ADELPHI, 2006
WILL, R. – Il viaggiatore innocente. Avventure nel Pacifico del Sud – GUANDA 2006
WRIGHT, R. – Spagna pagana – MONDADORI 1962

Opere di narrativa e di poesia utilizzabili per percorsi didattici sul viaggio

CASTELLANETA, C. – Viaggio col padre – MONDADORI 1976
CONRAD, J. – Cuore di tenebra – EINAUDI 1980
CONRAD, J. – Racconti di mare e di costa – NEWTON COMPTON 1992
CONRAD, J. – Romanzi della Malesia – NEWTON COMPTON 1993
CONRAD, J . – TifoneIl negro del “Narciso” – BOMPIANI 1955
CONRAD, J. – Lord Jim – MURSIA 1965
FAST, H. – Gli emigranti – EST 1996
FORSTER, E.M. – Passaggio in India – EINAUDI 1981
FORSTER, E.M. – Camera con vista – RIZZOLI 1963
GIONO, J. – Nascita dell’Odissea
GOLDING, W. – Riti di passaggio – MONDADORI
GUTHTRIE, A. B. – Il grande cielo – MONDADORI 1956
GUTHTRIE, A. B. – Il sentiero del west – MONDADORI 1960
HUXLEY, A. – Isole – MONDADORI
KING, S. – Stagioni diverse – SPERLING E KUPFER 1982
KEROUAC, J. – Sulla strada – MONDADORI 1959
JEROME, K. J. – Tre uomini in barca – RIZZOLI 1960
JEROME, K. J. – Tre uomini a zonzo – RIZZOLI 1963
LARSSON, B. – Il cerchio celtico – IPERBOREA 1999
LAWRENCE, R.D. – Sulle piste del grande Nord – MURSIA 1984
LESKOV, N. – Il viaggiatore incantato – GARZANTI 1985
LONDON, J. – Racconti del Pacifico e dei mari del Sud – NEW.CO. 1992
LONDON, J. – Racconti del Grande Nord –NEWTON COMPTON 1992
LONDON, J. – Avventure di mare e di costa – NEW. COMPTON 1992
MALAUF, B. – Leone l’africano
MALRAUX, A. – La via dei re – MONDADORI
MC CARTY, C. – Cavalli selvaggi – EINAUDI 1995
MC CARTY, C. – Oltre il confine – EINAUDI 1996
MELVILLE, H. – Moby Dick – EINAUDI 1974
MELVILLE, H. – Giacchetta bianca – SANSONI 1967
MELVILLE, H. – Billy Budd – RIZZOLI 1965
MELVILLE, H. – Le isole incantate – RIZZOLI 1965
MELVILLE, H. – Taipi – RIZZOLI 1965
MICHENER, J.A. – Il viaggio – BOMPIANI 1993
MOORE, B. – Manto nero – PIEMME 1992
MUTIS , A. – Trittico di mare e di terra – EINAUDI
OMERO – Odissea – EINAUDI 1995
PIRSIG, R. – Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta –ADELPHI 1981
PLATONOV, A. – Ricerca di una terra felice – EINAUDI 1980
POE, E. A. – Gordon Pym – SANSONI 1965
REPETTO, G.L. – Careghé – GUARALDI 1996
RIDER-HAGGARD, Le miniere di re Salomone – NEW.COMPTON 1995
SEBALD, W. – Gli emigranti – BOMPIANI 1999
SENOFONTE – Anabasi – RIZZOLI 1974
SEPULVEDA, L. – Il vecchio che leggeva romanzi d’amore – GUANDA 1994
STERNE, L. – Viaggio sentimentale – RIZZOLI 1995
STEVENSON, R.L. – Mare e avventura – CURCIO 1978
STEVENSON, R. L. – L’isola del tesoro – CASINI, 1963
STIFTER , A. – Cristalli di rocca – ADELPHI 1982
SWIFT, J. – I viaggi di Gulliver – FELTRINELLI 1997
THUBRON, C. – Verso l’ultima città – PONTE ALLE GRAZIE, 2002
TOLKIEN, J.R.R. – Il signore degli anelli – RUSCONI 1970
TOURNIER, M. –Venerdì, o il limbo del Pacifico – EINAUDI 1993
VERNE, J. – Il giro del mondo in ottanta giorni – RIZZOLI 1991
VERNE, J. – Viaggio al centro della terra – RIZZOLI 1991
VERNE, J. – Cinque settimane in pallone – RIZZOLI 1991
VOLTAIRE – Candido – SANSONI 1968
YURIK, S. – I guerrieri della notte – MONDADORI 1983
WHITE, P. – L’esploratore – MONDADORI 1979

 

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Viaggiare (a piedi e non)

Postilla

di Paolo Repetto, 2013

Per una fertile combinazione di motivi (le cose che ho trovato per caso, quelle che ho ostinatamente cercato e quelle che ho scritto) la letteratura di viaggio ospitata nella parte destra della scaffalatura a tutta parete ha continuato in questi anni a debordare verso sinistra, a conquistare prima nuovi ripiani e poi interi scaffali e a costringermi a periodiche risistemazioni.

Dovessi scriverlo oggi, quindi, il capitoletto sul viaggio occuperebbe almeno il doppio di pagine. Le nuove scoperte, sia per quanto concerne le opere che per i personaggi, riguardano soprattutto la storia delle esplorazioni e dei viaggi scientifici. Provo a rendertene sommariamente conto.

Innanzitutto, i protagonisti. A Humboldt ho dedicato un piccolo saggio biografico (glielo dovevo) e nel frattempo ho acquisito tutto ciò che di suo era reperibile, comprese le edizioni in italiano, in tedesco e in francese del Cosmos. Le lacune ora riguardano solo la corrispondenza: non esiste una raccolta completa in francese, e quella tedesca, in fase di edizione, occupa già oltre dieci volumi: in compenso ho trovato in Francia una scelta abbastanza ampia e significativa delle lettere scambiate con Bonpland, (A. von Humboldt, A. Bonpland – Correspondance 1805-1858, a cura di Nicolas Hossard) e una biografia di Bonpland (Aimè Bonpland, mèdecin, naturaliste, explorateur en Amerique du Sud, dello stesso Hossard), l’unica che conosco e che possiedo A differenza di trent’anni fa, quando è partita la mia humboldt-mania, e quando era praticamente sconosciuto in Italia e dimenticato in patria, oggi lo scienziato-viaggiatore tedesco conosce un piccolo ritorno di popolarità grazie anche a due recenti biografie: Federico Focher ha scritto A. von Humboldt. Abbozzo di una biografia, mentre Andrea Wulf, già autrice de La confraternita dei giardinieri, gli ha dedicato quel volumone dal titolo L’invenzione della natura, sul quale, ti confesso, ho molte riserve. Insomma, anche il mio personalissimo eroe comincia ad essere macinato dall’industria culturale.

Sull’onda delle ricerche dedicate a Humboldt è cresciuta la curiosità per le biografie di altri scienziati-esploratori. Darwin, naturalmente (del Viaggio di un naturalista attorno al mondo possiedo ormai quattro diverse edizioni, e due dell’Autobiografia, oltre alla biografia classica di Desmond e Moore, a quella leggermente più romanzata di Irwing Shaw, L’origine, e ai Taccuini); ma anche, e soprattutto, il suo corrispondente-amico-antagonista Alfred Douglas Wallace, un po’ meno ignoto anche agli italiani da quando il buon Federico Focher ne ha scritto una avvincente storia (L’uomo che gettò nel panico Darwin). Wallace è un personaggio che riserva un sacco di sorprese: oltre che esploratore, cercatore di specie, scienziato autodidatta, era un socialista umanitario, pronto a battersi per ogni causa, soprattutto per quelle perse, e un convinto spiritista, tanto solare e disposto a mettersi in gioco quanto Darwin era riservato e pieno di dubbi. Dei suoi scritti è stato finalmente tradotto L’arcipelago malese, divertente e commovente resoconto di quattro anni di avventure (e soprattutto disavventure) a caccia di nuove specie vegetali nel sud-est asiatico. Lo trovi accanto ai libri di e su Darwin, e a quello sullo spiritismo che ho scaricato dalla rete.

La passione per la montagna mi ha aiutato a scoprirne il miglior interprete e precursore in Déodat de Dolomieu, l’”inventore” delle Dolomiti. Dolomieu ebbe un’esistenza che definire avventurosa è riduttivo. Fece le esperienze più disparate, da un duello mortale (per l’avversario) a sedici anni fino a venti mesi di assoluto isolamento in una fetida e piccolissima cella di un carcere borbonico, poco prima di morire, ma compì soprattutto una ricognizione minuziosa e completa di ogni vallata alpina. Era un camminatore formidabile, capace di sfiancare non solo i compagni di percorso ma anche i muli e i cavalli da soma, e uno spericolato arrampicatore, che tuttavia nei Viaggi sulle Alpi non rivendica alcuna delle innumerevoli vette da lui per primo conquistate. Per conoscerlo mi sono avvalso di una monumentale (ma piuttosto confusa) biografia scritta da Luigi Zanzi (Dolomieu, un avventuriero nella storia della natura) e ho poi ricostruito il resto attraverso la lettura diretta dei suoi resoconti di viaggio.

Del tutto fortuita è sta invece la conoscenza con l’opera e la vita di Guido Boggiani. Attraverso un volume dedicato principalmente alla sua pittura (Guido Boggiani. Pittore, esploratore, etnografo, di Maurizio Leigheb) ho scoperto una seconda esistenza, quella di etnologo e viaggiatore (raccontata da Boggiani stesso nei Viaggi di un artista nell’America meridionale) che lo ha portato a vivere per anni ai margini del Gran Chaco paraguagio e a morirvi, ucciso da un indigeno, prima dei quarant’anni.

Altre storie come la sua, o come quelle di Wallace e di Dolomieu, ho trovato in un paio volumi piuttosto stagionati, I cacciatori di piante di Thaylor Whittle e Scienziati ed esploratori alla scoperta del Sudamerica di Victor von Hagen, e in uno recentissimo, Cercatori di specie, di Richard Conniff. Quella del viaggio a scopo scientifico è una vera e propria epopea, naturalmente poco conosciuta e per niente celebrata nelle nostre scuole, che ha cambiato non solo lo sguardo ma anche la quotidianità della vita dell’Occidente. I libri che ho appena citati offrirebbero ai nostri demotivati studenti, e non solo a loro, ben altri stimoli rispetto alle ricostruzioni politiche e militari alle quali si riduce in genere l’insegnamento della storia, e li aiuterebbero a coltivare un minimo di passione per le scienze e ad acquisire qualche fondamento etico.

Attraverso un gioco di rimandi, di letture di sponda, sono poi arrivato ad alcuni personaggi davvero singolari, avventurieri nel senso più letterale del termine. L’ultimo in ordine di comparsa, ma primo per collocazione storica, è Lodovico de Varthema. Ne ho trovato traccia nei testi di Herrmann e di Brilli di cui parlerò tra breve, ho poi acquisito una sua biografia (Lodovico di Varthema alle Isole della Sonda) e ho scovato infine le recentissime edizioni del suo Itinerario e del Viaggio alla Mecca. De Varthema si trovava già a Calicut quando, nei primissimi anni del ‘500, ci arrivarono i Portoghesi. Dalle mie parti si usa dire che quando Colombo approdò in America ci trovò i mandrogni che già gestivano un ben avviato giro d’affari. Bene, i lusitani trovarono senz’altro un bolognese che già aveva girato tutto il Medio Oriente e visitato le Isole della Sonda, pronto a far fruttare le informazioni accumulate e ad acquisirsi meriti (al ritorno in Europa fu insignito dal re del Portogallo della dignità nobiliare, oltre che di una pensione). Anche se probabilmente molte delle sue avventure sono enfatizzate, soprattutto per il gusto di inserire situazioni boccaccesche delle quali è immancabile protagonista, resta il fatto che quelle terre le aveva realmente visitate e che per esserne tornato vivo e vegeto doveva avere senz’altro la scorza dura.

Non quanto Enrico Tonti, o Henry de Tonti, però. Tonti è stato una vera folgorazione. Non lo avevo mai sentito nominare sino a dieci anni fa, e vengo poi a scoprire che è stato uno dei protagonisti dell’esplorazione nordamericana, al fianco di de La Salle. Non esiste una sua biografia in italiano (che mi risulti, nemmeno in francese), ma le notizie essenziali sulle sue incredibili avventure si possono ricavare da L’Europa alla conquista dell’America, un bellissimo libro di Raymond Cartier che racconta nel dettaglio le guerre indiane sui Grandi Laghi tra Sei e Settecento – quelle de L’Ultimo dei Mohicani, per intenderci, o di Ticonderoga –, o da Mississippi di Mario Maffi. “Mano di ferro”, come lo chiamavano gli indiani, fu uno dei pochi che mise in soggezione persino gli Irochesi, che quanto a ferocia e coraggio non la cedevano a nessuno, e fu determinante per l’esplorazione del bacino del Mississippi, consegnato poi nelle mani della corona francese. Su questo tema e sulla storia di La Salle è invece appassionante La Louisiana per il mio re, di Hans Otto Meissner, mentre interessanti sono alcuni libri di memorie legati alla fase americana della guerra dei Sette Anni: ad esempio il diario anonimo di un soldato francese che ha partecipato a tutte le fasi della campagna e alla caduta di Montreal (Oltre le cascate del Niagara).

Altrettanto singolare, e secondo nemmeno agli Irochesi per determinazione, è il personaggio di Augusto Franzoj. Militare, disertore, giornalista radicale sempre in cerca di rogne e capace di sopravvivere ad oltre cinquanta duelli, Franzoj attraversò nella seconda metà dell’Ottocento mezza Africa centro-orientale per andare a recuperare le spoglie di un esploratore italiano morto nel paese dei Galla. L’Africa fu per lui inizialmente un rifugio, ma divenne poi una vocazione. Sebbene non avesse alcuna necessità di spostarsi per vivere pericolosamente, l’Etiopia gli offrì il teatro ideale per un’avventura che più pazza e disperata è difficile immaginare. Ne uscì, e la raccontò, naturalmente con tutti gli aggiustamenti del caso, in Continente nero, che nella sua ostentata “obiettività” è davvero un resoconto spassosissimo: ma per conoscere anche gli altri particolari della sua vita sempre sopra le righe occorre leggere Un viaggiatore in brache di tela, di Felice Pozzo.

Queste ed altre figure altrettanto avvincenti sono balzate fuori dalle pagine di diverse opere sulla storia generale delle esplorazioni da tempo fuori commercio, alle quali solo recentemente ho potuto arrivare attraverso il mercato on line. Pur restando fermo sulla mia linea di principio, secondo la quale l’eccessiva facilità nel reperire testi ritenuti a lungo introvabili sottrae una buona fetta di piacere al gioco, quella dell’attesa, della ricerca febbrile sulle bancarelle e magari dell’incredula sorpresa di un ritrovamento, devo ammettere che la diffusione di siti dedicati alla compravendita dei libri ha reso accessibili cose che mai mi sarei sognato di poter un giorno possedere. È il caso della fondamentale trilogia di Paul Herrmann (Sulle vie dell’ignoto, Sette sono passate e l’ottava sta passando e Santa vergine di Guadalupa, aiutaci tu) o di La conquista della terra di Giotto Dainelli, opere edite più di mezzo secolo fa. Mentre il libro di Dainelli lo conoscevo (e lo desideravo) da tempo, quelli di Herrmann sono stati un’autentica rivelazione. Soprattutto mi ha stupito il non averne mai sentito parlare in precedenza, il non avere mai colto alcun rimando. Forniscono una messe incredibile di informazioni, ma sono anche di lettura piacevolissima: avrei voluto averli tra le mani a quindici anni, e forse mi avrebbero cambiata la vita.

Ma sarebbe stato probabilmente sufficiente poter disporre per tempo di opere divulgative illustratissime come Il grande libro delle esplorazioni o Le grandi esplorazioni che cambiarono il mondo, che a dispetto dell’apparente destinazione a fare tappezzeria nei salotti forniscono un racconto dettagliato ed esauriente delle grandi imprese di esplorazione. Ne ho fatto incetta, e adesso mi ritrovo a confrontare le diverse narrazioni, a scovare le imprecisioni e a sommare i piccoli tasselli forniti da ciascuna per costruirmi un quadro il più vasto e completo possibile.

In che senso una precoce conoscenza di opere del genere può riuscire determinante? Beh, intanto perché consente di affinare lo sguardo sulle vicende storiche, di sottrarlo ai condizionamenti che le letture ideologiche legate al clima del momento immancabilmente ne danno. Faccio un esempio. Ho amato molto presto la storia e la civiltà del popolo irochese, o meglio, della Società delle Cinque Nazioni, attraverso la lettura di “Dovuto agli irochesi”, di Edmund Wilson, un classico di quello che Pascal Bruckner chiama “il singhiozzo dell’uomo bianco”. Wilson racconta di una cultura avanzatissima sotto il profilo politico e sociale, che non ha nulla da invidiare alle coeve istituzioni occidentali, ed esprime un accorato rimpianto per la sua distruzione da parte degli invasori bianchi. Bene, leggendo i diari di Tonti, di De La Salle e di padre Hennepin, che con gli Irochesi ebbero a trattare direttamente, nonché le testimonianze di quei pochi gesuiti e francescani che riuscirono a sopravvivere ad una caccia spietata, viene fuori un quadro ben diverso, quello di una popolazione dai costumi ferocissimi, che provava un sadico gusto nella lenta tortura dei prigionieri, delle cui carni spesso e volentieri si cibava, e che per un secolo e mezzo costituì un vero e proprio incubo per tutte le altre nazioni indiane dell’area dei grandi laghi. L’accusa di cannibalismo non è affatto pretestuosa, come si è affannata invece a dimostrare nella seconda metà del novecento l’antropologia terzomondista, e lo dimostra il fatto che i nostri testimoni non hanno esitazione a raccontare come questa pratica fosse fatta propria comunemente, nelle situazioni di necessità, anche dagli occidentali. Quanto al diritto sul suolo, gli Irochesi erano degli invasori al pari degli occidentali: arrivavano da un’altra area, non combattevano per difendere le proprie terre, ma per conquistare nuovi territori sterminandone sistematicamente gli abitanti.

Lo stesso vale per la complessa vicenda dello schiavismo. I diari degli esploratori africani ci mettono di fronte alla realtà di una pratica istituzionalizzata da millenni, tanto comune all’interno delle singole popolazioni quanto normale nei confronti di quelle esterne, e a quella di una tratta araba che ebbe sulla demografia del continente un impatto ben più devastante di quella europea, e che per motivi ideologici viene sempre sottaciuta o minimizzata. Certo, i portoghesi prima e poi via via tutti gli altri hanno intensificato questa pratica, hanno incanalato il flusso addirittura verso un altro continente: ma non hanno inventato nulla. Al più hanno fornito armi e incentivi per intensificare una tragedia presente da sempre, in ogni epoca e presso ogni civiltà: e a partire da un certo periodo, almeno dalla prima metà dell’Ottocento, hanno almeno teoricamente combattuto la tratta. Questo non assolve certamente l’occidente dalle sue colpe: spagnoli, inglesi, francesi, olandesi, belgi, tedeschi, e non ultimi gli italiani, si sono resi responsabili di veri e propri genocidi: ma quando Franzoj ci testimonia dal vivo (è arruolato più o meno a forza come osservatore) che nel corso di una delle periodiche campagne di guerra Menelik fa almeno cinquantamila morti e conduce via quasi il doppio di prigionieri, ovvero di schiavi, la storia lascia spazio a sfumature interpretative un po’ diverse.

Queste sfumature sono state volutamente ignorate nell’ultimo settantennio, a causa di un preconcetto ideologico, purtroppo radicato in quella che continua ad autodefinirsi “cultura di sinistra”, che ha condizionato costantemente la narrazione storica. Ti faccio un esempio. Nel 2008 è uscito in Francia il saggio Le génocide voilé (Il genocidio nascosto), di uno studioso di origine senegalese, Tidiane N’Diaye. In esso, con un calcolo certamente approssimato per difetto, N’Diaye dimostra che nel corso di tredici secoli, arrivando praticamente sino ad oggi, sono stati ridotti in schiavitù e deportati verso il Medio Oriente o verso la fascia mediterranea del continente almeno diciassette milioni di abitanti dell’Africa sub-sahariana. Di costoro, ed è questa la cosa che dovrebbe far maggiormente riflettere, non è rimasta praticamente traccia, mentre ad esempio negli Stati Uniti o nell’America del Sud i discendenti dei nove milioni di schiavi deportati tra il cinquecento e l’ottocento sono oggi più di settanta milioni. Ciò si spiega col fatto che gli schiavi deportati dagli arabi venivano castrati o uccisi, e non potevano lasciare alcuna discendenza. Ora, tutto questo non significa affatto che gli schiavi in America fossero trattati umanamente, non diminuisce lo scandalo della tratta: ma mi pare lecito chiedersi come mai si parli solo di quest’ultimo, e non dello schiavismo arabo, e come mai mentre questo scandalo la cultura occidentale lo ha bene o male denunciato ed esecrato, nessuno storico arabo lo abbia mai ammesso a carico del suo popolo. E anche perché questo dato venga costantemente ignorato in qualsiasi dibattito sulle colpe dell’Occidente.

L’altro aspetto, più personale, riguarda un possibile esito professionale che avrebbe potuto scaturire dai miei interessi. C’è stato un momento, al termine degli studi universitari, in cui ho dovuto scegliere tra strade diverse per il mio futuro. Forse non sarebbe cambiato nulla, ma forse una conoscenza di questi argomenti non legata più soltanto alle letture di Salgari e Verne o del vecchissimo Cantù mi avrebbe reso più determinato ad inseguire quella che era già allora una passione profonda (col rischio magari, come accade per ogni passione che diviene professione, di vedere poi spento ogni entusiasmo).

 

Ma torniamo all’oggi. I percorsi di questi ultimi anni mi hanno indotto a rivedere, almeno parzialmente, il giudizio negativo sull’attenzione riservata in Italia alla letteratura di viaggio che avevo espresso in “Perché non esiste una letteratura di viaggio in Italia”. L’assenza di interesse riguarda a quanto pare soprattutto il periodo del secondo dopoguerra (guarda caso, proprio quello della mia formazione). Gli italiani avevano un sacco di altre cose da sistemare e di cui occuparsi, e il clima culturale era tutt’altro che propizio alla rievocazione delle scoperte e delle conseguenti avventure coloniali. Ma nella prima metà del novecento, per le ragioni opposte, questo interesse c’era, e lo testimonia ad esempio una iniziativa editoriale della Paravia dedicata a I grandi viaggi di esplorazione, che contava decine e decine di titoli. Si trattava di operette divulgative, caratterizzate da un marcato taglio agiografico e intrise, soprattutto quelle degli anni trenta, dello sciovinismo di regime: ma avevano comunque il merito di portare all’attenzione degli adolescenti, e anche degli adulti, la storia delle esplorazioni e dei viaggi. E anche quello di proporre, accanto alle storie di Colombo, Magellano e Cook, quelle di Humboldt, Boggiani e Carlo Piaggia, e persino di Lodovico de Varthema. Le sto raccogliendo con cura, e una buona parte le trovi qui.

Sempre nella prima metà del secolo (ma anche nell’immediato dopoguerra) hanno goduto di una certa popolarità i libri di Vittorio G. Rossi (quella G puntata mi ha sempre fatto impazzire: essendo il mio secondo nome Giuseppe, ho continuato per anni a firmarmi Paolo G. Repetto, fino a quando esigenze di “razionalizzazione” dell’anagrafe non mi hanno costretto a tenermi un solo nome). Alcuni titoli sono davvero suggestivi (Pelle d’uomo, L’orso sogna le pere, Il cane abbaia alla luna). Rossi era uno scrittore atipico, almeno per l’epoca: di mestiere faceva altro, era un navigante, e in questa veste ha visitato praticamente tutto il mondo. Poi riversava nei libri (e tra il 1930 e il 1980 ne ha scritti più di due dozzine) quello che aveva visto e quello che aveva provato, dando spesso spazio, soprattutto nell’ultimo periodo, a considerazioni a ruota libera di filosofia spicciola. Per un sacco di tempo è stato lo scrittore di viaggio più venduto e più conosciuto in Italia, poi, complici da un lato una certa ripetitività e dall’altro l’ostracismo decretatogli dopo gli anni sessanta per i suoi trascorsi politici, è stato totalmente rimosso. Anche nel suo caso sto recuperando tutto il possibile. Prova a leggerlo. Non credo ti appassionerà, non è un grande scrittore, ed è chiaro che per me vale l’aura particolare della quale lo rivestivo da ragazzino, una sorta di precursore di Corto Maltese: ma è un ottimo testimone di come l’occidente guardasse al resto del mondo fino almeno alla seconda guerra mondiale, e del fatto che questo sguardo fosse meno velato dall’ipocrisia di quello dei futuri “terzomondisti”.

La riscoperta del piacere e del valore culturale del viaggio, alla quale già accennavo nell’articolo citato poco sopra ma che attribuivo soprattutto ad una moda di importazione, ha invece dato in questi ultimi anni dei frutti notevoli, non inferiori a quelli anglosassoni. Il merito va soprattutto ad autori come Paolo Rumiz, che con La leggenda dei monti naviganti ha toccato le vette della migliore letteratura di viaggio raccontando un fantastico itinerario dalle Alpi marittime alla Sicilia compiuto a bordo di una vecchia Topolino, seguendo a zig zag la dorsale appenninica, quindi la parte più sconosciuta e relativamente intatta della nostra penisola. Rumiz aveva già pubblicato il resoconto di un viaggio attraverso i Balcani in direzione di Costantinopoli (È oriente) ed ha poi proseguito nella riscoperta dell’Italia con Annibale. Un viaggio, una rivisitazione-confronto tra il passato e l’oggi sulle orme del grande condottiero cartaginese, per spostarsi infine nuovamente fuori dell’Italia con Trans-Europa Express, un itinerario che segue il vecchio confine della cortina di ferro dal circolo polare sino all’Adriatico. (In questo è stato preceduto però da Wilhelm Buescher, che in Germania, un viaggio percorre uno stralunato itinerario invernale seguendo l’ormai scomparsa linea di demarcazione tra est ed ovest).

Una traversata latitudinale completa della penisola è raccontata anche da Enrico Brizzi, sia pure con qualche eccessiva concessione al romanzesco, ne Gli Psicoatleti. Brizzi viaggia rigorosamente a piedi, e percorre preferibilmente i vecchi itinerari del pellegrinaggio, quelli per intenderci della via francigena o del Camino di Santiago di Compostela. Non so se ne abbia tratto ispirazione, ma ha dei precedenti illustri: nel 1801 lo scrittore tedesco J. G. Seume (altro bel personaggio: arruolato a forza nelle truppe vendute dal sovrano dell’Hannover agli inglesi per combattere in America, poi disertore, quindi ufficiale nelle truppe russe impegnate in Polonia, curatore di edizioni di classici, libero pensatore), si è fatto a piedi tutta la penisola, diretto a Siracusa, e lo ha poi raccontato in un gustosissimo L’Italia a piedi, ormai quasi introvabile ma che ho fortunosamente rimediato in un’asta mediatica.

Rimanendo nel campo dei camminatori, una scoperta sensazionale è stata quella di Patrick Leight Fermor, scomparso recentemente in tardissima età e protagonista di vicende degne di un Tonti. Nel corso del secondo conflitto mondiale Fermor venne impiegato dagli inglesi, per le sue conoscenze linguistiche e culturali della Grecia, come agente di collegamento con i partigiani ellenici che operavano a Creta. Bene, in quella veste organizzò e condusse a termine personalmente il rapimento del comandante delle truppe tedesche che occupavano l’isola, portandoselo a spasso per settimane in barba a tutti i rastrellamenti. Ma di possedere la stoffa Fermor lo aveva dimostrato già diverso tempo prima, a diciotto anni, quando intraprese da solo un lunghissimo viaggio a piedi che lo portò dall’Inghilterra a Costantinopoli, lungo la linea del Reno prima e del Danubio poi, attraverso un’Europa che stava appena entrando negli anni oscuri del nazismo. Di questo passaggio e del clima nel quale si stava svolgendo Fermor è un testimone anomalo e interessantissimo in Tempo di regali, dove raccoglie le ultime vestigia di un mondo, soprattutto quello asburgico, che stava ormai rapidamente scomparendo, e avverte tutte le inquietudini e le ombre di ciò che stava arrivando.

Altro formidabile camminatore, questo, come Rumiz, più o meno mio coetaneo, è Bernard Ollivier, un giornalista francese che al momento di andare in pensione si imbarca in un’impresa titanica, la traversata dal Mediterraneo alle porte della Cina attraverso l’Anatolia e il Medio Oriente, in pratica una variante dell’antica via della seta, resa ancor più ardua di quanto non fosse secoli fa dalla situazione politica interna ai diversi paesi. Il percorso è raccontato in una trilogia che comprende La lunga marcia, Il vento delle steppe e Verso Samarcanda.

Stavo però parlando della diffusione della letteratura di viaggio anche in Italia. È indubbia, i viaggiatori-narratori pullulano e le collane nelle quali possono trovare spazio si moltiplicano. Allo stesso tempo è in atto anche una riscoperta e ripubblicazione delle opere del passato che consente di avvicinare cose ormai scomparse addirittura dalla memoria (un caso emblematico è proprio quello di Lodovico di Varthema). A questa rinascita di interesse, a livello storico oltre che di pura evasione, ha dato un fortissimo contributo l’insieme dell’opera di Attilio Brilli, che per certi aspetti può essere considerato l’equivalente italiano di J. Leed, e per altri lo ha sicuramente sopravanzato. Brilli sta sfornando uno dietro l’altro studi avvincenti e documentatissimi sulla storia del viaggio, partendo da quello in Italia, dal Gran Tour sette-ottocentesco (Il viaggio in Italia, Quando viaggiare era un’arte, Un paese di romantici briganti, Il viaggiatore raffinato), per spaziare poi su tutto il globo con Il viaggio in Oriente, Mercanti e avventurieri, Dove finiscono le mappe.

È il segno di un passaggio di interesse, di una raggiunta maturità anche nei confronti di una pratica, quella del viaggio, che dagli italiani è stata sempre considerata piuttosto una costrizione che una scelta. Ma è anche, come tutte le forme di bilancio che si possono fare sulle varie attività umane, il segno di un suggello finale, la manifestazione della coscienza che un’epoca, e un modo di interpretarla, è ormai finita. E che può essere rivissuta, e rimpianta, solo attraverso le tracce lasciate sulla carta.

 

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Quelli che dormono sulla montagna

di Paolo Repetto, 2012

Quando i Viandanti delle Nebbie si misero alla ricerca di riferimenti ideali si imbatterono quasi per caso negli Yamabushi. I riferimenti ideali sono importanti, soprattutto se sono abbastanza lontani nel tempo e nello spazio da rimanere ideali. Per noi gli Yamabushi erano perfetti: stavano dall’altra parte del globo ed erano praticamente spariti dalla circolazione da almeno un secolo e mezzo. In più, anche in piena New Age li conosceva nessuno (tanto che per un attimo l’idea di riesumarli ci ha sfiorato, e resto convinto che avremmo trovato adepti) e i loro rituali erano impegnativi solo sul piano fisico. Adoravano come noi le montagne, le salivano come noi, come noi le rispettavano, senza provare alcun bisogno di domarle e di sconfiggerle. Non c’era da cambiare una virgola nel nostro atteggiamento e nei nostri comportamenti. Gli Yamabushi sono quindi rimasti giustamente in Giappone, ma il loro spirito ha camminato e cammina tuttora con noi, le rare volte che ancora riusciamo ad accostarci ai monti. E, in fondo, anche quando non riusciamo a farlo.

Il testo che segue è tratto dalla prima presentazione del movimento, comparsa in forma ridotta sulla rivista “Sottotiro” e poi raccolta nell’opera fondamentale del sublime maestro Olao P., gli “Appunti per una riforma della filosofia Yamabushi”. Da allora la filosofia yamabushi non è stata riformata, il nostro modo di pensare la montagna, e la vita, forse si.

A differenza di quanto accade in Occidente, il mondo orientale sviluppa precocemente un sentimento positivo della sacralità della montagna, e lo mantiene poi intatto. Il culto delle cime e delle alture è testimoniato nell’Asia orientale già a partire dall’età prestorica, ed è diffuso un po’ dovunque: ma assume un rilievo particolarmente significativo nella cultura religiosa del Giappone. La geografia delle montagne giapponesi disegna un reticolo sacro di derivazione shintoista. I monti sono considerati i troni e le dimore dei Kami, le divinità shinto, che scendono benevole in pianura durante la stagione del raccolto e si ritirano a riposare sulle cime nei mesi più freddi. Tra le vette primeggia naturalmente il Fuji, oggetto da sempre di una timorosa venerazione (in fondo è un vulcano, e fino alla fine del settecento era piuttosto vivace), nonché meta di pellegrinaggi che possono svolgersi con le modalità e le finalità più diverse. Gli adepti della setta shinto Dusokyo lo scalavano ad esempio traducendo man mano l’ascensione fisica corporea in ascesi spirituale, invocando di tappa in tappa la purezza della vista, dell’udito, dell’odorato, del sentimento, e infine quella della percezione non corporea.

La diffusione del buddismo, a partire dal VI/VII secolo, avvenne attraverso la costante contaminazione con lo shintoismo preesistente, facilitata dal comune atteggiamento di rispetto e di attenzione nei confronti della natura. Ebbe successo in particolare una versione autoctona del buddismo, quella Shingon, più esoterica e settaria, e senz’altro più congeniale alla mentalità e alla cultura nipponica, che cercava la via dell’illuminazione nell’isolamento, nella contemplazione della natura e del sé interiore e nelle pratiche di resistenza fisica. Per tutte queste cose la montagna era evidentemente l’ambiente ideale. Si moltiplicarono quindi le scelte di vita isolata e ascetica e i romitaggi negli anfratti di rilievi particolarmente suggestivi e selvaggi, come il monte Hiei, vicinissimo a Kyoto, o il monte Koya, prossimo ad Osaka. Sempre nei pressi di Osaka sembra essersi svolta nel VII secolo d.C. la lunga esperienza eremitica e sciamanica di En-no-Gyoja, figura semi-leggendaria alla quale veniva attribuito, oltre alle doti taumaturgiche e alle reincarnazioni plurime (con vite anteriori sempre interessanti, come imperatore del Giappone o discepolo diretto del Budda), il merito di aver salito per primo (o meglio: di essere volato su) la vetta del monte Fuji. En-no-Gyoja ebbe moltissimi seguaci. I primi e i più antichi agivano isolatamente, vivevano come il maestro da perfetti eremiti ed erano conosciuti con il nome di hijri (i santi). Poi, poco alla volta, seguendo una parabola simile a quella del primo monachesimo cristiano, cominciarono a riunirsi in gruppi e a darsi rigide regole disciplinari, sotto la guida di sendatzu, o capi spirituali.

Dalla fusione di diversi riti shinto col buddismo nacque quindi lo Shugendō (la via dei cimenti: shu è l’illuminazione iniziale, gen la comprensione totale, dō la via che porta al Nirvana). Lo shugendō era praticato dai “maghi della montagna” o yamabushi (“i bivaccatori”,”coloro che giacciono sulle montagne”), i quali ben presto si divisero in due scuole, quella più rigorista del monaco Shobo (IX secolo) e quella “riformata” del monaco Zoyo (XI secolo). I seguaci della prima badavano piuttosto all’interiore redenzione che all’acquisto di poteri, all’identificazione con il Buddha cosmico che alla dominazione dei demoni: quelli della seconda erano più attenti agli aspetti liturgici e ritualistici, erano riuniti in confederazioni monastiche associate a singoli templi e coinvolte nelle vicende politiche. La versione più radicale di questo ramo dello Shugendō contemplava anche lo studio e la pratica delle arti marziali, e finì per assimilare i suoi praticanti ai monaci guerrieri delle tante sette che si confrontavano, destreggiandosi tra la corte imperiale e lo shogunato, nella tormentatissima storia del Giappone. (Balza agli occhi il parallelismo con la vicenda francescana, la divisione in spirituali e conventuali. A dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che si tratta di uno schema ricorrente, di un processo comune a tutti movimenti). Non sono questi però gli aspetti dello spirito yamabushi che a noi interessano.

Ciò che davvero importa è che tutti condividevano una ideologia proto-alpinistica, che prevedeva lunghi periodi di permanenza in montagna, pratiche ascetiche spinte e anche forme di alpinismo quasi acrobatico. Lungo alcuni strapiombi si trovano ancora oggi pioli o catene di ferro vecchi di secoli, che agevolavano il superamento dei punti critici. Ma, soprattutto, gli Yamabushi cercavano nelle montagne la rigenerazione spirituale non aggredendole, non cavalcandole in rapide performances fisiche, ma vivendole con lentezza, con un approccio riverente e intimo al tempo stesso.

Il rituale tipico dell’ascensione era complesso e bizzarro, ricco come abbiamo visto di simbologie legate ai gradi dell’ascesi verso la perfezione. Facendosi preventivamente flagellare e purificare dalle acque gelide di una cascata, lo yamabushi risaliva poi i vari livelli della realtà: progressivamente si identificava con l’inferno, il mondo degli affamati, delle belve, dei titani e degli uomini. Via via che si inerpicava, calzando sandali e munito di un bordone, si fermava ai vari stupa per compiervi il sacrificio del fuoco e per recitare mantra o formule sacre evocanti i poteri delle divinità.

Quando il pellegrinaggio non era solitario, ad un certo punto della salita tutti i componenti del gruppo venivano sospesi a testa in giù sopra un precipizio, perché contemplassero la natura transeunte di tutte le cose e si pentissero del male compiuto. Gli Yamabushi raggiungevano infine una capanna o un tempietto, situati di norma presso le rocce sommitali, spesso appesi su un alto burrone isolato, vi si rinchiudevano nel buio assoluto e immaginavano di morire e di entrare nel grembo della montagna stessa. Nell’ultima notte del rituale essi bruciavano ceppi rappresentanti le ossa del corpo precedente, riducendo così in cenere quanto rimaneva delle loro passioni e illusioni. Il mattino seguente, al momento di scendere dalla montagna, si rannicchiavano in posizione fetale e balzavano in piedi con un grido acuto, simbolo del momento estatico della rinascita e dell’ingresso in una nuova vita che li avrebbe condotti all’illuminazione.

Durante il periodo medioevale molti Yamabushi, dopo aver acquisito poteri ascetici nei luoghi consacrati dello Shugendō, si dedicarono a sviluppare presso le comunità di valle il culto nei confronti di una particolare montagna delle vicinanze. Tra le cime più venerate c’erano il Dewa Sanzan e lo Yudono, e soprattutto lo Ontake-san. A piccoli gruppi di due o tre persone, indossando tuniche bianche, giravano di paese in paese annunciando il loro arrivo col suono caratteristico di buccine, le horagai, ricavate da grandi conchiglie. Erano ricercatissimi come indovini, guaritori, maghi e astrologi. Diffondendosi in questo modo, lo shugendō divenne la forma di religione predominante tra la gente umile del Giappone, fino a quando la restaurazione nazionalistica Meji del 1868 bandì ogni credenza diversa dallo shintoismo puro.

Fu però la rapidissima industrializzazione del paese a liquidare l’arcaica funzione degli Yamabushi. Essi sopravvivono oggi solo come associazioni folklorico-religiose, che hanno lo scopo di mantenere vive antiche tradizioni, come quella dei sacri fuochi. Anche i pellegrinaggi al Fuji continuano, ma sotto la forma di un perenne flusso turistico d’alta quota, agevolato anche da una linea ferroviaria che si inerpica sin oltre la metà della salita. La più sacra delle montagne del Giappone, il luogo per eccellenza del divino e dell’autoliberazione e il simbolo stesso dell’identità nipponica, è diventata, come i grandi santuari occidentali, il più classico dei non-luoghi.

 

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