Esserci

(dalla Rappresentanza alla Rappresentazione)

di Paolo Repetto, 15 febbraio 2025

Ho avuto la percezione netta dello smottamento alla fine degli anni Settanta. Non che prima le cose andassero meglio, le tivù private erano nate a metà decennio e stavano già imponendo un nuovo “stile”, al quale la Rai era corsa immediatamente ad adeguarsi: ma tutto sommato la novità erano ancora i comici demenziali usciti del Bagaglino e un po’ di tette che davano fastidio a nessuno. Qualche avvisaglia c’era certamente già stata, ma all’epoca non avevo tempo da dedicare alla televisione, se non per gli incontri di boxe: quindi fui colto quasi alla sprovvista, e posso quasi citare anche la data della rivelazione.

Dell’accelerazione rovinosa mi accorsi assistendo a una delle prime puntate de Il processo del lunedì della gestione Biscardi, tra l’altro trasmessa su Rai3, l’emittente in forza alla sinistra. Ero allibito. Aldo Biscardi, che già di suo parlava un italiano a dir poco approssimativo e capiva una mazza di qualsivoglia argomento, aveva messo assieme una vera corte dei miracoli, nella quale tra pseudo-giornalisti ed ex-calciatori in bolletta gigioneggiavano personaggi assurdi come Maurizio Mosca, uno che su un campo di calcio non avrebbe avuto un ruolo nemmeno come raccattapalle. Non mi scandalizzava l’incompetenza, perché avendoci giocato sino a cinquant’anni sapevo benissimo che sul calcio non c’è nulla da sapere, da capire o da discutere, si tratta solo di mettere un pallone in rete o di non lasciarcelo finire, ma ero disgustato dalla beceraggine di tutto l’assieme, dai toni, dagli argomenti e dalle atmosfere da bettola d’angiporto, proposti su un medium nel quale un attimo primo erano passate notizie di guerre o di catastrofi, oppure rubriche di arte o di letteratura, o anche semplicemente qualche bel film o qualche documentario a tema storico. La cosa peggiore era che in quella trasmissione non circolava un filo di ironia, si prendevano tutti sul serio (come sogliono fare notoriamente gli imbecilli) e, ma questo l’ho scoperto dopo, venivano presi sul serio anche dalla sinistra più accorta, quella sempre un po’ più avanti, che plaudiva al fatto che finalmente si desse voce anche al più genuino “sentire popolare”, confondendo l’idiozia e la sguaiataggine con l’autenticità e la freschezza. In fondo, pensava, quei quattro bagonghi rompevano gli schemi seriosi e ingessati della televisione di regime, erano una ventata d’aria, magari puzzolente ma nuova.

Fu un tutt’uno: compresi allora che l’elogio di Franti tessuto da Umberto Eco e Fantozzi e il gossip confidenziale di Maurizio Costanzo non erano passati invano, c’era una logica che li legava, erano tanti cunei ribattuti nelle crepe della cultura occidentale aperte da due guerre e da tutto quel che c’era stato in mezzo. E compresi anche che quelle martellate non preludevano a una ripulitura e a un restauro (che non è una “restaurazione”, ma il riportare in vita quei motivi, quei colori, in definitiva quei valori originari che il tempo e le nequizie della storia hanno sporcato e deturpato), ma annunciavano la demolizione.

Da allora il degrado dell’etica, del gusto, del semplice buon senso non ha più avuto sosta: ogni volta che ho pensato si fosse toccato il fondo ho dovuto immediatamente ricredermi. Negli ultimi quarant’anni abbiamo visto di tutto: gabibbi chiamati a raddrizzare i torti e inviati “sul campo” bardati come mentecatti: filosofi di grido e indagatori della psiche ridotti a cumulare marchette nei talk show, senza il minimo pudore; intellettuali, artisti, politici, magistrati, sportivi, persino religiosi, in corsa a mendicare un passaggio televisivo per promuovere “eventi” o paccottiglia “d’ingegno”; uomini e donne di ogni età e condizione ansiosi di sputtanarsi in trasmissioni per cerebrolesi, in cambio di trenta secondi di visibilità.

I risultati li abbiamo di fronte: non è nemmeno più il caso di accendere la tivù per farsi un’idea del degrado. Basta girare per strada, origliare le conversazioni, quelle dal vivo e peggio quelle telefoniche, che vengono fatte condividere per un raggio di cinquanta metri, entrare in una scuola, sfogliare un quotidiano. Certamente però i media di massa rimangono il sensore più attendibile, non nel senso che ci raccontino il vero, ma, al contrario, perché del degrado sono il principale veicolo. Una trasmissione radiofonica come La Zanzara, ad esempio, giusto per fare riferimento alla manifestazione più recente di idiozia perversa nella quale mi sono imbattuto, dovrebbe essere usata come argomento di studio nelle facoltà di psicologia, di antropologia, di sociologia, per dare un taglio all’eterno dibattito sulla natura umana. Io non so se allo stato brado questa sia buona o cattiva, ma per certo è facilmente plasmabile da ogni input negativo, mentre non lo è altrettanto da quelli positivi. Se siamo stati modellati con la polvere, c’era qualcosa che non funzionava nell’impasto.

Comunque sia, credo valga la pena cercare di capire come milioni di anni di evoluzione ci abbiano regalato uno che si chiama come Paperino e ne ha la stessa consistenza cerebrale, ma si trova tra le mani le sorti del mondo. E che non ci è arrivato per via ereditaria, come accadeva un tempo, ma attraverso una ufficialmente libera competizione elettorale. È dura da spiegare, ma voglio provarci lo stesso, almeno a grandi linee e almeno per quanto riguarda la parte di cui sono stato un sempre più sconcertato spettatore.

Per parlare dell’oggi prendo spunto da un libro scritto sessanta anni fa, che fotografava la realtà sociale dell’epoca col teleobiettivo, ne coglieva gli sviluppi futuri e la incorniciava in una efficacissima definizione. Lo rispolvero non tanto per verificarne i riscontri, quanto piuttosto per constatare come nel frattempo l’interpretazione di quella (e quindi anche dell’attuale) realtà sia andata radicalmente cambiando. Devo dunque partire di lontano, sperando di non perdermi per strada.

Come è stata raccontata – Nel 1967 Guy Debord pubblicava La société du spectacle, (in italiano: La società dello spettacolo, De Donato, 1968, successivamente ritradotto e ristampato da Vallecchi, 1979, e ultimamente da Massari, 2002 e da Baldini-Castoldi, 2017). Debord era stato uno dei fondatori, dieci anni prima, dell’Internazionale Situazionista. (Per chi non conoscesse la vicenda del situazionismo, fornirò qualche riferimento in calce a questo intervento, allegando anche uno dei documenti di fondazione. Comunque anticipo che il situazionismo come inteso da Debord, da Asgen Jorn e da Raul Vaneigem aveva nulla a che vedere con i patetici sciamannati che da allora hanno nascosto dietro quella fortunata etichetta la propria presuntuosa inconsistenza).

Il libro arrivava al momento giusto – si era alla vigilia del Sessantotto. Conobbe anche una qualche notorietà (sia pure di seconda mano, perché era molto citato ma molto meno letto – in effetti era piuttosto noioso) e in particolare esercitò un forte influsso sul linguaggio immaginifico della contestazione. Debord vi sviluppava un’analisi della trasformazione che era in atto all’epoca nei rapporti sociali e nelle forme del dominio, ovvero della loro sempre più accentuata “spettacolarizzazione”: uno slittamento che aveva conosciuto un’accelerazione esponenziale con la comparsa della televisione, ma aveva preso avvio già nella prima metà del Novecento, con il cinema e con la radio. Non si limitava però a scandagliare il passato e il presente, profetizzava per questa trasformazione uno sbocco rivoluzionario: e lì la lucidità dell’analisi veniva meno, anche se non si può negare che in parte, almeno per quanto concerneva la deriva più immediata, quella precedente la rivoluzione informatica degli anni Novanta, i suoi pronostici fossero azzeccati.

Il testo di Debord si articola in una lunghissima sequenza di “tesi” (addirittura 221), e ha come modello formale quello del Manifesto del 1848. Esordisce così: “Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli”. Enunciazione che rimane quanto mai vera oggi, anche se io farei risalire la tendenza a tradurre la vita in spettacolo molto più addietro, a tempi precedenti la cosiddetta “modernità”: direi piuttosto che il moderno “modo di produzione” l’ha solo spinta alle estreme conseguenze, ad un esito per il quale Debord può scrivere che “le necessità della produzione capitalistica si sono staccate dalla vita, al punto che lo spettacolo è considerato come l’inversione della vita”.

Il nuovo manifesto prende l’avvio da dove Marx era arrivato, ovvero dall’alienazione prodotta dal capitalismo classico, che aveva indotto un passaggio di senso dell’esistenza “dall’essere all’avere”, e descrive l’ulteriore transizione ad un “capitalismo spettacolare”, quello che produce il passaggio “dall’avere all’apparire”. “La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni avere effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima”.

È accaduto insomma che la progressiva razionalizzazione dello sfruttamento, quella che il capitalismo moderno ha operato per esercitare un sempre maggiore controllo e mantenere gli sfruttati a margine del processo produttivo, nel ruolo di pura forza-lavoro, ha determinato una sovrabbondanza di beni (almeno nel mondo occidentale): ma questo non ha liberato né i popoli né gli individui dalla necessità, perché la sovrabbondanza è finalizzata al nuovo modello di accumulazione capitalistica, e non certo a venire incontro ai loro bisogni. Ha creato al contrario una necessità apparentemente meno immediata, ma più subdola, perché non potrà mai essere pienamente soddisfatta: la coazione al consumo. Il ciclo del controllo è stato quindi portato a compimento dal capitalismo contemporaneo sfruttando le masse non solo nella fase della produzione ma anche in quella del consumo, determinandone e falsificandone bisogni, aspettative, rapporti: penetrando insomma ogni aspetto dell’esistenza. (Come poi funzioni questa faccenda, perché insomma il capitale per accrescersi debba operare una sia pur molto contenuta redistribuzione, è apparentemente ovvio, ma i modi sono poi complessi da spiegare: ci hanno provato moltissimi economisti, arrivando a conclusioni diametralmente diverse. Io credo dipenda soprattutto da due fenomeni: la finanziarizzazione sempre più spinta – il prevalere del capitale finanziario su quello produttivo – e l’autonomizzazione della tecnica: cose di cui su questo sito si è già parlato, e sulle quali avrò ancora qui modo di tornare).

La totale dipendenza del produttore-consumatore è indotta dalla rappresentazione spettacolare che il capitale elabora di se stesso. I progressi tecnologici nel campo della produzione vanno infatti di conserva con quelli nella comunicazione – ma in questo caso sarebbe forse più corretto dire nella “persuasione”. Tanto meno un prodotto risponde ad una reale necessità, tanto più avrà bisogno di essere caricato di significati esterni che lo rendano desiderabile. I costi della sua promozione vengono naturalmente scaricati a valle, entrano quindi a far parte integrante del costo totale di produzione, mentre il marchio, la certificazione di qualità, promette al consumatore una ostentazione di esclusività e di capacità economiche. La comunicazione a questo punto non è più solo un mezzo, diventa un fine, e avviene in base a codici che sono elaborati tutti dall’offerente, e che vanno a ridisegnare le modalità dei rapporti tra gli individui. Nei paesi capitalisti si sta dunque configurando un modello sociale all’interno del quale gli individui sono ridotti a meri spettatori passivi di un flusso di immagini scelte dal potere. Queste immagini giustificano l’assetto di potere istituito e si sostituiscono completamente alla realtà. “Le nuove tecnologie della comunicazione spingono all’estremo il feticismo delle merci, la coazione al consumo, e soprattutto rimodulano il rapporto sociale fra gli individui, mediato dalle immagini”.

Il nuovo rapporto sociale è in realtà, secondo Debord, un non-rapporto. La messa in scena dello spettacolo presuppone, infatti, l’assenza di dialogo tra gli spettatori. Al consumatore non resta altro che ammirare, rimanendo nella passività assoluta, le immagini che altri hanno scelto per lui. L’individuo ha dunque esclusivamente il ruolo di “pubblico”, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. A parlare deve essere solo il potere. Gli individui risultano sempre più isolati nella folla atomizzata. “Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento”.

In questo isolamento lo spettatore finisce per essere dominato dal flusso delle immagini, immerso in un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato. O meglio: nel quale è vero ciò che chi governa lo spettacolo ha interesse a mostrare, mentre tutto ciò che non è stato creato o selezionato dal potere è falso, o non esiste.

Pertanto, nella misura in cui l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. Il consumatore non vive più esperienze dirette, ma si accontenta dei surrogati che lo spettacolo gli offre, e cerca di soddisfare quei bisogni, sia materiali che emozionali, che gli vengono artificialmente indotti. Diventa un consumatore di illusioni. Lo spettacolo è dunque il contrario della vita. Debord scrive “Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio”.

Molto all’ingrosso, questo è il succo della prima parte del saggio, quella dell’analisi: e direi che sin qui il discorso non fa una piega. D’altro canto, questa chiave di lettura della modernità e dei suoi esiti ultimi non arrivava del tutto nuova, e Debord stesso riconosce i suoi debiti. Si pone infatti come abbiamo visto in diretta continuità col marxismo (sia pure con un Marx liberato dai dogmatismi delle letture “ortodosse”, a partire da quella di Lenin), ma tra i suoi riferimenti vi sono anche Max Stirner, George Lucàks e i francofortesi (e io includerei Thornstein Weblen e Vance Packard, che tuttavia nel Sessantotto erano considerati “organici” al pensiero borghese, quindi poco spendibili – infatti non li cita mai). Il merito del libretto sta nell’aver raccolto e sistemato in una trama coerente tutti questi spunti, di averli attualizzati. E magari anche di avere intravisto le origini più remote del fenomeno, le cui prime avvisaglie fa risalire sino a Cervantes (e anche su questo tornerò).

Ciò che Debord metteva a fuoco sessant’anni fa oggi lo diamo per scontato, perché nella spettacolarizzazione viviamo immersi, è la nostra quotidianità: sul suo libro si è già depositata la patina del tempo, senza peraltro farne un piccolo classico del pensiero, ma al più un reperto documentale da esibire in occasione di future celebrazioni anniversarie o di festival del situazionismo. All’epoca invece l’analisi appariva, oltre che estremamente lucida, anche tempestiva, sviluppata in tempo utile per immaginare delle contromosse, per esorcizzare in qualche modo il fenomeno. Ed è proprio qui che Debord risulta datato: nell’idea che da questa coscienza potesse scaturire una qualche positiva reazione.

La seconda parte del nuovo manifesto è infatti dedicata alle strategie che Debord suggerisce per sottrarsi agli allettamenti della spettacolarizzazione. Non è il caso di elencarle tutte, ma direi che possono essere riassunte ed esemplificate nella pratica del détournement: ovvero del cambiamento di senso di tutto ciò che è espressione del potere, dell’inversione dei meccanismi della ricezione culturale, specialmente se legati alla comunicazione di massa, come la pubblicità o il fumetto, ma anche della modifica e della dissacrazione di oggetti estetici che da sempre orientano o dettano i canoni del gusto: “La libertà per esempio di trasformare la cattedrale di Chartres in luna-park, in labirinto, in campo di tiro, ecc.”.

Di primo acchito verrebbe da pensare che il suo invito sia stato raccolto. In fondo lo stravolgimento dei canoni estetici e dei messaggi, lo snaturamento di luoghi sacri o edifici storici, l’irrisione dei rituali, la falsificazione delle tradizioni, gli sberleffi alle istituzioni, tutto questo è già in atto da tempo. Il problema è che, appunto, lo “spiazzamento”, la “decostruzione”, il “disincanto” sono diventati la nuova normalità. Questa presunta “rivoluzione” continua ad essere gestita dal sistema stesso. Si può discutere se l’abbia anche innescata, senz’altro comunque se ne è appropriato, come è accaduto del resto per tutte le rivoluzioni dell’età moderna, da quella inglese a quella francese, da quelle “nazionali” dell’Ottocento a quelle “sociali” del primo Novecento. È accaduto nel Sessantotto, quando la contestazione giovanile è stata pilotata a svecchiare il sistema e a reclutare nuove fasce di utenti al consumo; è accaduto l’altro ieri, col femminismo, continua ad accadere oggi coi vari movimenti di rivendicazione di identità sessuale.

Insomma, il rinnovato protagonismo auspicato da Debord si risolve in una provocazione sterile, totalmente autoreferenziale, quando non addirittura funzionale al sistema che professa di voler combattere. In linea con la presunzione di épater les bourgeois che dal Romanticismo in poi ha sempre animato ogni “avanguardia” intellettuale. D’altro canto il situazionismo nasce proprio nell’ambiente delle avanguardie artistiche, che con la prosa della realtà hanno in genere un rapporto piuttosto conflittuale, e alla spettacolarizzazione sono predisposte già di per sé. Debord non fa che riproporre in chiave più esplicitamente politica il “sabotaggio” predicato mezzo secolo prima dai surrealisti, da operarsi con gli spostamenti di senso e gli accostamenti paradossali. Ma un orinatoio esposto in un museo o i baffi sul volto della Gioconda non smuovono le coscienze: semmai le anestetizzano, irridono dei valori, decostruiscono dei codici, ma non ne propongono di alternativi. Debord sembra non aver capito che il sistema è un muro di spugna. Fagocita tutto quello che gli butti contro e te lo rigetta in forma di merce. Non a caso i surrealisti più famosi sono Magritte e Dalì, quelli che hanno disatteso i dettami “internazionalisti” di André Breton, mentre nessuno legge più le poesie di quest’ultimo. E non a caso le “avanguardie” del secolo scorso, dai futuristi appunto ai surrealisti, rivelano poi una inquietante consonanza coi totalitarismi.

Com’era –Il discorso a questo punto potrebbe sembrare chiuso: liquidati ormai tutti i sogni di una palingenesi che passi per la presa di coscienza collettiva, rimane solo l’illusione di un protagonismo individuale, sia pure effimero. E invece, proprio di qui potrebbe partire una riflessione non oziosa. Non so infatti se Debord fosse del tutto inconsapevole di quanto onnivoro sia il sistema: di quanto cioè egli stesso, con la fondazione del movimento situazionista, e tanto più con la pubblicazione del libro, si prestasse ad essere risucchiato nei meccanismi di quella rappresentazione sociale che voleva smascherare. Forse consapevole lo era, dal momento che già immediatamente dopo la contestazione sessantottina, durante la quale il movimento aveva conosciuto una particolare popolarità, disgustato dalla massa di aspiranti che professavano la loro adesione all’Internazionale senza averne minimamente capito il senso, dichiarò quest’ultima disciolta (definiva sprezzantemente i neo-adepti “i pro-situ”: lascio immaginare cosa potrebbe pensare degli odierni “post-situ”): ma rifiutava di accettarne le conseguenze, e si trastullava con l’idea che portando scompiglio nei modi della trasmissione culturale, mostrando “di che lacrime grondi e di che sangue” e di che trucchi e menzogne si nutra, si sarebbe aperta la strada ad un ribaltamento dell’assetto sociale.

Lungo tutto il saggio è fortissima la critica alla contemplazione: “Solo nell’attività l’uomo realizza se stesso, nel caso contrario non può esserci che alienazione”. Ma non è ben chiaro di quale attività si stia parlando: “Poiché tutti diventeranno artisti ad uno stadio superiore, cioè in modo inseparabile produttori-consumatori di una creazione culturale totale, si assisterà alla rapida dissoluzione del criterio lineare di novità. Poiché tutti diventeranno, per così dire, situazionisti, si assisterà ad un’inflazione multidimensionale di tendenze, esperienze, di scuole, radicalmente differenti, e tutto questo non più successivamente, ma simultaneamente.” Appunto, un gran casino. Ma non del tipo che Debord si sforzava di immaginare.

Se infatti l’analisi era centrata, non lo erano le prospettive future che l’autore ne inferiva. Certo, come abbiamo visto la “spettacolarizzazione” si è realizzata compiutamente, addirittura al di là di quanto ci si potesse attendere. Tutti sono diventati “produttori-consumatori”, in una filiera nella quale sotto molteplici spoglie il capitale tecno-finanziario gestisce i luoghi, i tempi e i mezzi di produzione delle merci, gli apparati per il loro spostamento, le cattedrali del loro consumo e i rituali per la loro consacrazione. E all’individuo continua ad essere riservato un ruolo passivo di contemplazione (quello dal quale il situazionismo avrebbe voluto riscattarlo), di consumatore delle merci e di una cultura e di una politica “spettacolarizzate”, ridotte a merce anch’esse.

Ma è accaduto anche qualcosa che Debord non aveva messo in conto. Non solo non c’è stata affatto quella reazione liberatoria che secondo il filosofo belga le masse e i singoli individui, una volta acquistata consapevolezza, avrebbero prodotto, ma al contrario le une e gli altri si sono totalmente integrati nella messa in scena, e hanno accolto l’invito all’azione e al ritorno al protagonismo in un senso esattamente contrario a quello da lui atteso. Hanno scelto di essere, ma non di essere consapevoli, quanto piuttosto di essere visibili. Di esserci, di essere riconosciuti (che è cosa ben diversa dall’essere conosciuti), e quindi di rappresentarsi. Si sono arresi ad un surrogato di protagonismo, ad una smodata e malata coazione ad apparire che rientra perfettamente nel disegno del sistema spettacolare.

Va detto onestamente che un detournement di questo tipo non era prevedibile. Nel ‘67 internet e gli smartphone e i social network erano di là da venire, la frontiera tecnologica più avanzata della comunicazione scritta erano la Lettera 22 e il ciclostile. Ma ora che abbiamo imparato a conoscere i media di ultima generazione, a usarli, ad avvertirne le dipendenze, dobbiamo prendere atto che hanno completamente stravolto il quadro. Con le nuove tecnologie l’inflazione multidimensionale di cui Debord parla si è tradotta in una polluzione multimediale, entro la quale tendenze, esperienze, “scuole” non si esprimono, ma si appiattiscono, si svuotano di senso e si perdono dentro un rumore di fondo indistinto.

Provo a riassumere. Nelle aspettative della sinistra movimentista la rete telematica avrebbe dovuto fornire a ciascuno un megafono, essere lo strumento di una partecipazione attiva all’esercizio della democrazia diretta, del controllo dal basso, della trasparenza, e consentire un libero accesso alla conoscenza. Nella realtà si è rivelata un ulteriore formidabile strumento di manipolazione e ha dato la stura al manifestarsi di un individualismo narcisistico e presuntuoso, che si nutre di like e dell’illusione di protagonismo, Se nella fase precedente non c’era alcun dialogo e gli occhi degli spettatori-consumatori erano puntati solo sul cinema messo in piedi dal sistema, ora l’isolamento è ancor più totale, perché il dialogo è in realtà solo un chiacchiericcio unidirezionale e l’attenzione si concentra soprattutto sulle immagini autoprodotte e su una patetica ricerca di “consenso”, che dia l’illusione di una qualche eco e di una qualche visibilità. Tutto ciò che transita sulla rete viene banalizzato, e anche i messaggi e gli inviti al risveglio lanciati in buona fede, persino quelli che sembrano momentaneamente conoscere un certo successo, sono risucchiati velocemente nel vuoto. Ne è riprova il caso delle proteste di massa dello scorso decennio, degli indignati e dei girotondini, delle primavere arabe e non, delle rivolte popolari che non si sono non mai tradotte in rivoluzioni durature, nonché dei passaggi nostrani di banchi di Sardine: milioni di persone hanno risposto simultaneamente, come si augurava Debord, agli appelli al cambiamento diffusi attraverso i network, ma una volta in piazza non sapevano più cosa dire e cosa fare, e nei casi più seri hanno finito per scatenare risposte ferocemente reazionarie.

Per capire come si sia arrivati a questa situazione è necessario comunque fare un passo indietro. Non è liquidabile come un rincoglionimento generalizzato (anche se ha tutte le caratteristiche), frutto di un qualche avvelenamento da piombo come si ipotizzava un tempo per la fine dell’impero romano, o dell’inquinamento atmosferico. Il fatto è che i nuovi media sono stati colonizzati immediatamente dal sistema, così come del resto era accaduto per quelli del passato, ma con effetti più diluiti e meno traumatici. Negli anni Novanta l’alleanza tra il neo-capitalismo digitale e quello finanziario ha prodotto un vero sconvolgimento, in primo luogo nell’economia, accelerando la globalizzazione e la concentrazione monopolistica. Le innovazioni portate dall’ industria high tech sono state sospinte ed enfatizzate con enormi iniezioni di capitali da una finanza in cerca costante di nuove opportunità di investimento. A loro volta le nuove tecnologie hanno velocizzato in maniera esponenziale le transazioni, creando di fatto un mercato finanziario unico, legittimandone le operazioni speculative più ardite e cancellando le regole e i contrappesi che sino a ieri lo avevano regolamentato. E soprattutto hanno “smaterializzato” il concetto stesso di capitale, un tempo legato ai frutti di imprese produttive, oggi a quelli di una attività puramente speculativa. La gran parte dei dirigenti delle grandi multinazionali non ha la minima idea di cosa producano le aziende di cui hanno il controllo, mentre è sintonizzata costantemente sugli algoritmi che ne monitorano le fluttuazioni di valore.

Gli effetti di questa trasformazione sono stati immediati. Intanto il ridimensionamento, in termini di occupati, degli apparati produttivi. In un mercato aperto e senza regole la competitività può essere mantenuta soltanto abbattendo i costi fissi di produzione: e dal momento che sulle altre componenti, materie prime ed energia, non ha il pieno controllo, il capitale interviene comprimendo l’occupazione, esternalizzando il più possibile le attività, spostandole in paesi nei quali il costo del lavoro è più basso o appaltandole ad aziende più piccole, nelle quali la forza contrattuale dei lavoratori è minima; o addirittura individualizzandole, tramite l’affidamento a lavoratori “indipendenti” che operano in regime di “libero mercato”. In quest’ultimo caso soprattutto, ma anche negli altri, sono appunto le tecnologie digitali a consentire un controllo costante e istantaneo.

Ma questa è una storia risaputa. Mi interessano piuttosto gli affetti sociali più eclatanti che questo terremoto economico ha prodotto.

Intanto la precarizzazione del lavoro, quindi il venir meno di quel riferimento fisso che nel bene o nel male informava le esistenze delle generazioni precedenti. Con conseguente insicurezza e perdita di ogni stimolo a progettarsi un futuro. Poi la dissoluzione di quei legami di solidarietà che il lavoro dipendente creava, e che diventavano anche occasioni di amicizie, di rapporti interpersonali effettivi, concreti. Quindi il progressivo isolamento dei singoli nel guscio individuale e il disinteresse nei confronti dei problemi collettivi.

Nel mentre procedeva a questa azione distruttiva l’alleanza tecno-finanziaria si premurava anche di fornirne una giustificazione. Il lavoro precarizzato e individualizzato è stato presentato come un’opportunità di democratizzazione dei nuovi modelli produttivi. In sostanza, il lavoratore verrebbe a godere di margini di libertà più ampi di quelli di cui godevano coloro che operavano nelle imprese fordiste.

A sostituire i rapporti sociali concreti maturati lavorando in azienda provvederebbe la stessa rete, ampliando a dismisura la possibilità di contatto con interlocutori sparsi in tutto il mondo, e consentendo di scegliere e selezionare entro uno spetto molto più ampio.

A questo tipo di rappresentazione fornito dal sistema corrisponde però una realtà molto diversa. L’autonomia di cui dovrebbero godere i nuovi produttori è smentita proprio dal controllo più stretto che le tecnologie digitali consentono, oltre che dalla dipendenza costante dai flussi verso i quali il capitale dirige i consumi. D’altra parte, l’isolamento degli individui non è affatto superabile attraverso un surrogato tecnologico di rapporto che di per sé, per quelli che sono gli aspetti essenziali della sua natura (velocità, appiattimento dei livelli, la modalità stessa della fruizione), prescinde da ogni effetto emozionale e al tempo stesso non si presta affatto a reggere un discorso ponderato e organizzato.

Ciò che effettivamente vediamo scaricato e circolante in rete sono piuttosto sfoghi insensati, urlati, patetici, quando va bene solo sterili; ed è tutto materiale funzionale allo spettacolo. Creano da un lato l’illusione di una appartenenza identitaria, di far parte di una comunità che sia pure solo virtualmente ti riconosce e sia pure solo attraverso gli emoji ti prende in considerazione, dall’altro quella di affermare una autonomia di pensiero e di giudizio all’interno del delirio di voci collettivo. Tutti si influenzano vicendevolmente, tutti parlano e straparlano, ma nessuno in realtà ascolta l’altro. Un brevissimo tour nell’inferno dei social ci offre una fotografia allucinante e allarmante della solitudine, del livore e dell’avvilimento che regnano in platea.

Ma non è tutto: utilizzando i dati forniti dalla coazione ad autorappresentarsi, il sistema è ormai in grado di andare oltre le proposte di consumo generalizzate, di elaborare per ciascuno delle risposte mirate. Non si fa a tempo ad esprimere un’opinione, una preferenza, un interesse o un dubbio che si è immediatamente inondati di offerte e proposte da parte del mercato (e di risposte o di insulti da parte degli altri utenti). È in fondo il modello Toyota, applicato ad ogni forma di produzione di merce.

Questo ci si doveva attendere. Il fatto che Debord non l’abbia previsto è comprensibile, mentre lo è molto meno l’ostinazione odierna della sinistra superstite a non prenderne atto.

Vorrei precisare che il difetto stava comunque già a monte, ben prima della comparsa dei social. Stava intanto nel continuare da parte della sinistra ad adottare criteri di analisi obsoleti; nel fare riferimento a categorie sociali, il proletariato in primis, assunte come se nulla fosse cambiato dai tempi della redazione del Capitale; nel continuare a leggere Marx come un profeta, e non come un economista che ragionava sui dati e sulla realtà del suo tempo; nel credere infine che il sistema sarebbe comunque rimasto ancorato al modello fordista. Debord almeno questo ultimo cambiamento lo aveva intuito.

C’era naturalmente anche l’abbaglio di fondo che ha condizionato tutti i messianismi, religiosi o secolari che fossero, e le utopie: il postulare una natura umana originariamente positiva, corrotta poi ed espulsa dall’Eden per la sua presunzione di dominio sulla natura, bisognosa soltanto di essere riscoperta e redenta. Paradossalmente, questa riappropriazione del sé dovrebbe passare attraverso un contradditorio iter di “rieducazione” alla libertà, di rifiuto di ogni condizionamento politico e sociale (che in occidente si esprime innanzitutto attraverso la critica della democrazia). Di fatto, si risolve nello scivolamento progressivo verso una centralità dei diritti individuali rispetto a quelli collettivi.

Com’è – È ora però di arrivare al dunque. Che non significa tirare delle conclusioni, perché la trasformazione sociale è velocissima e imprevedibile, e riserva ogni giorno nuove sorprese: si possono però fare almeno un paio di considerazioni.

Intanto penso di dover chiarire ulteriormente a cosa mi riferisco quando uso il termine “sistema”, perché dal significato che gli si dà dipende l’interpretazione di tutto quanto ho scritto finora. Io lo intendo come il risultato di un processo, sempre in divenire, messo in moto sin dai primordi dell’evoluzione della specie umana, quando quest’ultima si è trovata nella necessità di ricorrere al soccorso di tecniche per garantirsi la sopravvivenza (e per “tecniche” intendo tutto, secondo l’originale valenza etimologica, dall’uso di protesi e di strumenti materiali – per la difesa, per gli spostamenti, per la domesticazione della natura, ecc. – a quello di un pensiero e di un linguaggio complesso, e dei supporti – scrittura, stampa, ecc. – destinati a trasmetterlo). Col tempo quel supporto che era nato in funzione difensiva si è sviluppato in una direzione offensiva, ed è stato monopolizzato o comunque posto al proprio servizio da una piccola parte dell’umanità per soggiogare e sfruttare non solo la natura, ma la restante maggioranza di una popolazione o di intere altre popolazioni. Di qui la formazione delle classi sociali (sacerdoti, cavalieri, scribi, ecc.) e la sua cristallizzazione in dominanti e dominati, secondo un modello che ha continuato a funzionare così, pur con tutte le possibili varianti, per millenni. Poi sono arrivate la rivoluzione scientifica, e appresso quella industriale, e al seguito di questa quelle sociali, che hanno aperto in quel modello delle crepe.

Ma la rivoluzione profonda, quella che ha sparigliato del tutto le carte, è stata indotta dall’autonomizzazione della tecnica. Voglio dire che ad un certo punto il controllo di quest’ultima è sfuggito dalle mani delle stesse classi dominanti, perché si è innescato un meccanismo in base al quale l’innovazione tecnologica non è più governata in funzione della produzione o dell’accumulazione di capitale, ma è forzata da un processo “necessario” e autoreferenziale di accrescimento. Lo sviluppo della tecnica non è più finalizzato a scopi esterni, ma ad alimentare la capacità tecnica stessa. Un po’ quello che sembra destinato ad accadere in maniera eclatante con l’intelligenza artificiale, ma che già è accaduto ad esempio quasi tacitamente con la progressiva finanziarizzazione del capitale. Il sistema a questo punto non è più rappresentato dai colossi dell’industria o della finanza o del network, tutti protagonisti intercambiabili, e meno che mai dagli apparati politici al loro servizio: è come un enorme e complesso quadro elettrico dove si sono cumulati e intrecciati nel corso della storia innumerevoli fili di colore e diametro diverso, e interruttori e relè e inverter e altre apparecchiature e pulsantiere, che assorbe e distribuisce energia, ma del quale nessuno più è in grado né di individuare i dispositivi di accensione o di spegnimento né di ricordare le finalità del funzionamento.

Tutto questo ha potuto accadere per via della parcellizzazione e della specializzazione delle competenze e dei ruoli tecnici, a sua volta indotta dalle esigenze di strumenti e di modalità produttive (o accumulative) sempre più performanti. Per costruire una carriola erano sufficienti le competenze di mio nonno, per un’auto elettrica si assemblano quelle di migliaia di operatori, nessuno dei quali possiede un’idea complessiva del prodotto finale e a ciascuno dei quali si chiede solo di garantire e aumentare l’efficienza del proprio segmento. Ciascuno aggiunge un filo o un interruttore, e si preoccupa che all’interno di quello passi o si interrompa la corrente. La finalità unica del quadro pare ormai essere proprio quella di funzionare.

Il termine più adatto per definire questa situazione potrebbe essere “tecnocrazia”: ma anche qui, occorre intenderci sull’accezione in cui viene usato. Nel mio caso non mi riferisco a un “governo dei tecnici”, perché questa accezione suppone una “autonomia” di questi ultimi che di fatto non esiste, in quanto al momento è ancora il capitale finanziario a orientare e decidere le direzioni della ricerca e dello sviluppo, e i tecnici semmai rappresentano la componentistica più avanzata, ma sono essi stessi dei cavi o degli strumenti di trasmissione. Penso invece ad un “governo della tecnica”. Sono due cose decisamente diverse: un governo dei tecnici ha una dimensione ancora “umana”, è comunque uno strumento, che può essere piegato a finalità di sfruttamento o di egemonia, ma teoricamente potrebbe anche perseguire altre strade; un governo della tecnica, come dicevo sopra, prescinde da qualsiasi altra finalità che non sia la propria perpetuazione e il proprio sviluppo.

Può sembrare quindi prematuro definire quella attuale una “tecnocrazia”, perché ancora il processo non si è compiuto: ma siamo già molto avanti su questa strada, sulla via della totale autoreferenzialità tecnologica.

Su questo discorso si innesta quello della spettacolarizzazione. Il quadro-sistema è il teatro in cui tutti recitano una parte, alcuni da protagonisti, la maggioranza come semplici comparse, ma nessuno è insostituibile e nessuno ha davvero in mano la regia. A decidere su chi o su cosa puntare o spegnere i riflettori è il tecnico delle luci, come in questo caso potremmo definire la tecnica autoconsapevole, quello che fa sì che il tutto continui a funzionare, che le spie rimangano accese. Qualcuno, non ricordo chi, ha scritto che oggi la scienza (e quindi la tecnica, che ne è l’applicazione) non guarda più a ciò che è utile fare, ma a tutto ciò che è possibile fare: che non è dunque più al servizio dell’uomo, ma di se stessa. Sembra stia parlando della saga di Terminator, ma se sostituiamo l’intelligenza artificiale guerriera che lì prende possesso del mondo in maniera violenta e crudele, e la sostituiamo con un’invadenza tecnologica strisciante, apparentemente ancora strumento e in realtà altrettanto determinata a diventare il fine, ci siamo già dentro. Fisicamente (io stesso ho già dovuto ricorrere a “ricambi” artificiali), ma soprattutto intellettualmente (la rete è già diventata un’indispensabile protesi della nostra memoria).

Non è un’immagine confortante, soprattutto se connessa a quella abusatissima (anche da me) di Kierkegaard, del teatro che sta andando in fiamme e degli spettatori che applaudono e se la ridono, ma è forse quella che meglio fotografa la realtà attuale.

Come se ne esce? Sinceramente, non ne ho la minima idea. Altri le idee le hanno, ma mi sembrano piuttosto confuse e contraddittorie, Per alcuni la soluzione verrà dalla tecnica stessa, che ad un certo punto, a sua stessa salvaguardia, attiverà un riduttore o un salvavita e rimetterà in ordine i fili. Altri prevedono un’operazione di autodifesa del capitale, che ha sensori acutissimi, e che davanti alla prospettiva di un generale collasso vorrà riformarsi secondo modalità più “sostenibili”. I nostalgici del marxismo continuano a sperare in un risveglio collettivo degli ultimi, che è improbabile quanto quello del capitale ed apre a scenari altrettanto foschi, e comunque nebulosi. Altri ancora, al contrario dei primi, ritengono che l’incombere della catastrofe ambientale stia già facendo maturare un rifiuto integrale della tecnica, e dunque del consumismo, e propugnano il ritorno ad una economia “a misura d’uomo”. Magari auspicando anche una drastica riduzione numerica della nostra specie, operata in questo caso dalla natura stessa coi suoi mezzi (dagli asteroidi alle epidemie). Insomma, l’impressione è che chi si pone il problema in termini realistici non possa augurarsi altro che un rallentamento della corsa al disastro, anziché una sospensione, e che negli animi si stia sottilmente insinuando la rassegnazione di fronte a ciò che appare ineluttabile. Non in tutti, per fortuna.

Non rassegnarsi non significa per me progettare migrazioni su Marte o continuare a vagheggiare rivolgimenti sociali sulla Terra, oppure ritirarsi a pascolar capre in montagna: significa molto più semplicemente continuare a fare quello che bene o male ho cercato di fare fino ad oggi: pensare, indagare, capire almeno come siamo arrivati alla condizione attuale, per vedere casomai una delle strade non scelte in passato potesse offrire qualche via di fuga. E lo scritto presente, nel suo piccolo, imponendomi di riflettere risponde a questo assunto.

Come sarà? – Cerco dunque di venirne a una, tornando finalmente al tema che avrebbe dovuto essere centrale. Ho parlato sin qui di due modalità di autorappresentazione, quella proposta dal sistema sul grande schermo del mondo e quella concessa nel formato selfie ai rimanenti otto miliardi di individui umani. Ora vorrei cercare di chiarire qual è il rapporto tra il trionfo della rappresentazione e il crescente rifiuto dell’istituto della rappresentanza. Che a questo punto mi sembra scontato. Ma andiamo con ordine.

La rappresentanza è uno dei cardini della democrazia occidentale, e di fronte all’attuale crisi di credibilità del sistema democratico è il primo ad essere messo in discussione. Lo si elenca tra i trucchi illusionistici imputati alla “modernità” per mascherare l’azione sempre più pervasiva del potere, anche se a ben vedere non è affatto un portato dell’età moderna. Delle modalità di delega erano già presenti infatti, per i ruoli più diversi e in ambiti di partecipazione più o meno ristretti, sin dalla nascita delle comunità umane (a dispetto di quanto sostenuto dai nostalgici dell’eden paleolitico, delle società “orizzontali” dei cacciatori-raccoglitori). E duemilacinquecento anni fa ad Atene erano già regolamentate secondo il modello vigente ancora oggi. Col tempo, con la crescita di istituzioni politiche di grandi dimensioni (per intenderci, con lo stato moderno), e soprattutto con i rivolgimenti sociali prodotti dal modo di produzione industriale, le forme della rappresentanza sono state più o meno uniformemente definite e universalmente accettate. Questo soprattutto in Occidente, e almeno fino a ieri.

Oggi non è più così. Nei confronti della democrazia rappresentativa crescono i dubbi e la disaffezione. E dal momento che non si conoscono modelli alternativi che abbiano funzionato meglio, la critica investe tutto il sistema di princìpi, valori, regole e procedure che caratterizzano le istituzioni democratiche nel loro complesso. Anche questi attacchi non sono una novità: nei secoli scorsi erano uno sport praticato principalmente dalle destre, legittimiste, populiste o tradizionaliste che fossero, e questo è comprensibile. Ma non meno ostile era l’atteggiamento delle sinistre più radicali, nelle loro svariate sfumature, ortodossamente marxiste, operaiste, consigliari, leniniste, anarchiche, che nel mirino hanno sempre avuto la “democrazia borghese”

La differenza sta nel fatto che quelle proponevano bene o male delle alternative, (anche se dove hanno potuto sperimentarle sono andate incontro a risultati tragici), dei progetti sociali definiti e strutturati, mentre il rifiuto espresso dal nuovo corso “movimentista” è tutto all’insegna dello spontaneismo, del culturalismo (le appartenenze identitarie non sono più quelle di classe, ma quelle di cultura o di genere), dell’“orizzontalismo” (quello che avrebbe dovuto passare per Internet). Ciò spiega l’incapacità di questi movimenti di coordinarsi e di adottare obiettivi, programmi e forme organizzative comuni. Si tratta in sostanza di un velleitario miscuglio di ideologie ferocemente antigerarchiche e antistataliste, genericamente antiautoritarie, orientate alla rivendicazione di diritti individuali o di gruppi specifici, che finisce poi paradossalmente per essere espressione più o meno cosciente della globalizzazione e per aggregare masse disorientate, il “volgo disperso che nome non ha”, attorno a leader carismatici.

Tutto questo meriterebbe però una trattazione specifica, che rimando a una prossima volta. Qui mi interessa invece mettere in luce come la narrazione in negativo della politica che prevale oggi non sia solo trasversale ai due vecchi schieramenti, ma li superi, perché è orchestrata appunto da quel “sistema post-politico” che ho identificato sopra. I temi, le argomentazioni e i modi della critica tradizionale sono ripresi e riproposti in una confezione patinata, che sfrutta la potenza e la duttilità dei nuovi strumenti mediatici lasciando parlare, per così dire, le evidenze. Quelle, naturalmente, che si prestano a screditare il modello democratico. Cosa ci raccontano infatti i notiziari, i talk show, le inchieste scandalistiche, ma anche i film, le serie televisive, gli spettacoli di satira, se non che il mondo della politica è un letamaio, che quello politico è uno sporco lavoro, che non c’è verso a giocare puliti e che occorre averci il minor contatto possibile se non vogliamo a nostra volta insozzarci?

Questa narrazione ha senz’altro buon gioco, perché per un funzionamento corretto della rappresentanza la delega dovrebbe essere conferita ad individui in possesso dei giusti requisiti, e nella realtà politica queste condizioni ideali non si verificano quasi mai – non è un problema di oggi, è sempre stato così. Sulle scelte influiscono infatti logiche di partito, condizionamenti economici, interessi più o meno occulti, che alla lunga falsano completamente le regole del gioco. Basti pensare ad esempio a ciò che accade negli Stati Uniti, dove l’enorme aumento dei costi delle campagne elettorali ha finito per riservare ai ricchi la competizione elettorale, tagliando fuori dalla possibilità di vedere rappresentati i propri interessi non solo le classi lavoratrici, ma anche le classi medie (per cui a questo punto è praticamente indifferente che vinca l’uno o l’altro candidato). Lì la cosa è più eclatante per le cifre spropositate che entrano in gioco, ma anche in Europa, pur senza arrivare a questi eccessi, la democrazia non sta molto meglio.  Ciò parrebbe in parte spiegare la disaffezione nei confronti della rappresentanza: in realtà spiega però solo quella nei confronti di coloro che deputiamo a rappresentarci, mentre oggi ad essere messo sotto accusa è proprio l’istituto politico.

Va altresì aggiunto che anche laddove una parvenza di senso le elezioni sembrano mantenerla, coloro che per onestà e competenza potrebbero essere più adeguati tendono a sottrarsi alla responsabilità, e non sempre per una scelta di comodo. In molti casi questo atteggiamento nasce dalle delusioni maturate nelle esperienze dirette, che inducono i più sensibili a ritirarsi nel loro guicciardiniano “particolare”.

Tutto, insomma, congiura a far prevalere l’idea che chi vuole preservare la sua dignità dovrà limitarsi alla resistenza passiva, alla difesa delle sue private libertà. E lasciare libero campo all’azione del sistema, rassegnandosi a vivere in una società post-democratica.

Questo avviene infatti mentre dietro le quinte dello spettacolo, nel mondo reale, aumenta in maniera esponenziale la distanza tra l’esigua minoranza dominante e il resto della popolazione, mentre è in atto lo smantellamento dello stato sociale, con la privatizzazione di una quota crescente di attività di assistenza, di cura, di controllo dell’ordine, di gestione del territorio e delle infrastrutture, tutte cose che prima rientravano nelle sfere delle relazioni private, famigliari e comunitarie. Quelle che erano le competenze degli stati sono trasferite ad agenzie transnazionali o a grandi aziende private che operano su scala planetaria, e le vecchie istituzioni politiche sopravvivono solo come facciate della gestione locale del capitale globale. E tutto ciò accade nella quasi totale indifferenza dei “sudditi”, la cui attenzione è stata frammentata e dirottata sui diritti individuali e sulle rivendicazioni identitarie, che sono impegnati a rappresentarsi e a gratificarsi reciprocamente sui social, e ai quali, disponendo di una tribuna teoricamente aperta sul mondo intero, di avere dei portavoce non importa più per niente. D’altro canto, che istanze dovrebbero rappresentare i delegati? quelle femministe, quelle ambientaliste, quelle pacifiste, quelle delle identità di genere o di cultura, e con quale tipo di mandato, e soprattutto, di fronte a chi?

Qui volevo arrivare. Il nuovo assetto sociale fa sì che venga meno anche la necessità di una finzione democratica, di un’ammortizzazione politica: democrazia e mercato, che bene o male avevano convissuto sino al secolo scorso, non viaggiano più di concerto. La prima non funziona nemmeno più da paravento, ha ceduto campo totalmente al secondo. Gli interessi del tecno-capitalismo globale, la sua nuova configurazione e gli strumenti di persuasione di cui dispone, gli consentono di governare direttamente le nostre vite, senza più bisogno di mediazioni politiche.

Questo, lo si voglia o no, è lo stato delle cose. Come si sarà capito, mi è difficile stabilire quanto sia frutto di un ben preciso progetto e quanto invece di un effetto a valanga, prodotto come dicevo sopra dall’autonomizzazione della tecnica, da una corsa di quest’ultima all’autorealizzazione che riesce per il momento perfettamente funzionale al capitale. Nel primo caso un’azione di contrasto dovrebbe essere eminentemente politica, e forse può essere ancora pensabile, nel secondo si tratta di mettere in discussione tutto un modello esistenziale, e qui davvero temo che le probabilità di sovvertire i pronostici infausti siano nulle. Rimanendo comunque al primo caso, sono convinto che l’azione politica non possa prescindere da una difesa e da una rivitalizzazione della democrazia. E che questa sia attuabile solo attraverso l’istituto della rappresentanza, senz’altro rivisto, purgato delle tante criticità, ridisegnato nei modi e nelle finalità: ma non ci sono alternative. Per come gli stati moderni sono configurati non si può pensare di saltare la rappresentanza per attuare una democrazia diretta: lo hanno dimostrato le recenti esperienze politiche dei “nuovi movimenti” che avevano come unico collante “l’indignazione”, l’insofferenza per i doveri, lo sprezzo per ogni tipo di istituzione – segnatamente di quelli che hanno avuto momentaneamente accesso al potere, come è accaduto in Italia per i grillini. Il rifiuto di un’organizzazione politica strutturata, la partecipazione digitale praticata con un click, ha creato in alcuni l’illusione che la democrazia potesse essere rivitalizzata semplicemente cambiandone le regole, in molti la presunzione di essere finalmente protagonisti e di farsi interpreti dei problemi del “paese reale”. Col risultato di consegnare il paese nelle mani di una combriccola incompetente e inconcludente, rissaiola, altrettanto disonesta e compromessa di quelle che avrebbe dovuto spazzare via, e di disamorare ulteriormente dalla partecipazione gli incerti e i delusi. Ha fatto cioè esattamente il gioco del sistema, ha recitato nel suo spettacolo.

Preferirei non assistere alle repliche.

Due postille

1)   Non vorrei che il mio approccio al tema della tecnica fosse confuso con quello dei vari Severino, Galimberti e, giù per li rami, Heidegger e Nietzsche. La differenza sta nel fatto che da costoro la tecnica è intesa come un male assoluto, il peccato originale che ha strappato l’umanità dal suo edenico rapporto con la natura, e ha indotto la nostra specie a contrapporsi alla natura stessa e a volerla dominare.

Ora, non c’è dubbio che la risposta adattiva della nostra specie alla propria particolare condizione di debolezza biologica sia finita sopra le righe, ma a mio giudizio questo rientra pienamente nella sua particolare natura. Si può anche pensare che l’uomo sia un tragico errore dell’evoluzione, ma è pur sempre frutto di un processo evolutivo, che nel suo caso ne è la continuazione “con altri mezzi”. La tecnica non è “innaturale” in sé, lo diventa semmai quando il suo controllo è volto a finalità che secondo il nostro metro morale risultano sbagliate. Non è espressione della pura “volontà di potenza” come pensa Heidegger, sulla scia di Nietzsche, o una fuga di fronte angoscia del divenire, del destino della mortalità, come la considera Severino. È una “necessità” evolutiva.

Insomma, dobbiamo capirci. L’uomo per sopravvivere ha bisogno della tecnica: su questo non ci piove. È una scimmia nuda: non ha una pelliccia né una corazza, non ha dentature potenti come le tigri o i coccodrilli, non ha zanne né artigli, non si difende e non attacca coi veleni. Non è attrezzato come tutti gli altri animali alla vita di natura, almeno a partire dal momento in cui lo consideriamo una specie separata dalle sue più affini. Quando questa separazione sia avvenuta più o meno l’abbiamo stabilito, ma non sappiamo né come né perché. Probabilmente i cambiamenti climatici hanno costretto una parte dei nostri cugini scimpanzé a uscire dalle foreste e li hanno gettati allo sbaraglio nelle savane. Comunque sia, per non sopravvivere precariamente solo come prede, gli esuli da quel momento hanno dovuto riadattare il loro fisico alla nuova situazione, e là dove la selezione non provvedeva hanno dovuto ingegnarsi con quello che l’ambiente offriva, pietre, ossa, bastoni, pelli degli animali uccisi. Farne delle protesi dei loro corpi. Sono diventati “umani”, e hanno cominciato a modificare con le loro attività l’ambiente stesso (caccia, raccolta, agricoltura, allevamento) e a plasmarlo progressivamente in un crescendo inarrestabile, a creare nuove forme di società e di rapporti, moltiplicandosi fino ad arrivare a coprire con la loro presenza ogni angolo della terra.

Tutto questo ad un certo punto ha travalicato la pura volontà di sopravvivenza. E qui sposo completamente la tesi esposta da Ortega y Gasset nella Meditación de la técnica (1939): “Senza la tecnica l’uomo non esisterebbe e non sarebbe mai esistito”. L’uomo, dice Ortega, sviluppa, proprio per le circostanze che deve affrontare, una “intelligenza tecnica”, idonea a individuare le relazioni tra i fenomeni che lo circondano. Oltre a fornirgli la basilare possibilità di sopravvivere, questa gli permette di immaginare molteplici possibilità esistenziali e di scegliere tra esse per costruirsi un programma di vita. La sua condotta non è quindi più casuale, ma intenzionale. Per poter realizzare questo programma, per poter “essere insomma quello che vorrebbe essere”, e quindi vivere bene, usa la sua ingegnosità tecnica per creare artifici e procurarsi strumenti che gli consentano di superare le difficoltà e gli allevino le fatiche. Compie delle azioni “tecniche” volte a modificare e a migliorare la natura che lo circonda, generando in tal modo una sovranatura, e adattando l’ambiente a se stesso. La tecnica non è infatti soltanto adeguamento dell’uomo alla Natura ma, viceversa, tende progressivamente a diventare adattamento del secondo termine al primo. “L’esistenza dell’uomo, il suo stare al mondo, non è uno stare passivo ma egli deve, necessariamente e costantemente, lottare contro le difficoltà che si oppongono a che il suo essere abiti nel mondo.

Bene. Anzi, male. Perché tutto questo funziona fino a quando l’uomo ha chiaro l’essere che vuole diventare: ma in caso contrario non può che maturare angoscia e disorientamento. E questa è la sua condizione attuale.

Cos’è accaduto allora (cosa è accaduto soprattutto nel frattempo, da quando quasi un secolo fa Ortega esponeva le sue Meditaciones: ma va ammesso che ciò che ancora non era così evidente il filosofo spagnolo ha saputo presagirlo)? È accaduto che gli sviluppi tecnologici hanno creato nell’uomo la sensazione di poter “essere tutto”: hanno moltiplicato esponenzialmente le sue possibili esistenze, ma proprio questa potenziale mancanza di limiti ha generato smarrimento, ha complicato sia l’individuazione che l’attuazione di un proprio progetto di vita, sino ad indurre all’assenza del desiderio o a perdersi dietro “pseudo-desideri, spettri di appetiti privi di sincerità e vigore”. L’uomo ha cominciato a riporre fiducia esclusivamente nella tecnica in quanto tale, addossandole anche la responsabilità creargli un senso. Dal canto suo il dominio della tecnica e della strumentazione scientifica, che orienta le nostre vite, quel senso invece lo nega, frammentandolo nella specializzazione e riducendo quei comportamenti che sono le caratteristiche costitutive della nostra identità a reazioni chimiche, elettriche o meccaniche (e questo per Ortega era uno dei prodomi della massificazione). “All’uomo è data l’astratta possibilità di esistere ma non gli è data la realtà. Questa se la deve conquistare, minuto dopo minuto: l’uomo, non solo economicamente ma anche metafisicamente, deve guadagnarsi da vivere”. Questo perché «l’essere umano e l’essere della natura non coincidono totalmente: dal “lato naturale” l’uomo risulta essere immerso nella natura circostanziale in cui i suoi processi naturali si attivano spontaneamente; la sua “parte extra-naturale” che “pretende di essere” ossia la sua personalità, il proprio io, necessita di costruzione, di cura ininterrotta e di attenzione».

Quindi: la tecnica è un beneficio nella misura in cui risponde alla sua funzione principale, ovvero, cambiamento ma soprattutto miglioramento della nostra situazione esistenziale. Il maggior rischio insito nella tecnica non è la produzione sterminata delle possibilità di vita che può offrirci; questa è una complicanza (il che non significa male assoluto) direttamente proporzionale alla sua grandezza. È invece l’uso improprio, il ricorso esasperato al suo aiuto per semplificarci la vita, che ce la semplifica ma solo nel senso che l’appiattisce, la omologa, la rende simile a tutte le altre, annichilendo la nostra identità. L’avanzamento tecnico, conclude Ortega, se fuori controllo, «indebolisce la forza dei centri riflessivi, semplifica e organizza razionalmente i rapporti umani. Potremmo essere vittime di un sistema tecnico che a sua volta corre un grave pericolo, quello “di sfuggirci dalle mani e scomparire in molto meno tempo di quanto potessimo immaginare”».

Riassumendo. La tecnica ha permesso all’essere umano di superare la sua ancestrale situazione di bisogno, di conquistare una libertà nei confronti delle determinazioni naturali della quale prima non godeva. Gli uomini hanno creato delle macchine moltiplicatrici della potenza, della velocità, della memoria, della conoscenza, le hanno usate per produrre o per distruggersi vicendevolmente, le hanno automatizzate e oggi con le nanotecnologie le hanno rese compatibili col nostro organismo, addirittura incorporabili. Tutto questo non l’hanno fatto le protesi, gli utensili, le strumentazioni, le macchine, lo hanno fatto gli uomini, e la tecnica è rimasta al loro servizio. Che poi ne abbiano fatto un buon uso o meno, è un altro discorso. Guardiamo al risultato: siamo più di otto miliardi. Dal punto di vista evolutivo, un incontestabile successo.

Fino ad oggi. L’evoluzione prevede infatti anche situazioni recessive. Anche queste le vanno messe in conto. Le specie che hanno esercitato sulla terra una eccessiva pressione si sono ridimensionate, o sono addirittura scomparse, e a questo non hanno provveduto solo i cataclismi o l’azione umana. I segni di una recessione di quella umana ci arrivano già dalle proiezioni sul calo demografico naturale a partire dalla metà di questo secolo (che potrebbe essere accelerato dalla natura stessa – epidemie, cambiamenti climatici – o dalla dissennatezza degli uomini – conflitti, carestie indotte). E sappiamo che anche là dove l’uomo ha inciso più profondamente e distruttivamente le tracce del suo passaggio la natura non impiega secoli per riprendere il sopravvento, ma pochi decenni.

C’è però un altro punto di vista da considerare: quello della essenza “umana”. Gli uomini non hanno bisogno della tecnica solo per sopravvivere. Hanno si trasformato il mondo per adeguarlo alle proprie aspirazioni, alla propria interiorità, per raggiungere i propri scopi, ma lo hanno fatto a costo di arrivare a dipendere totalmente dalle risorse tecniche. Le nuove necessità dell’uomo sono sempre meno determinate dalla sua natura e sempre più dallo stesso progresso tecnico-scientifico. La liberazione si è tradotta in una nuova forma di dipendenza.

Non è necessario insistere oltre su questo aspetto. Basta guardarci attorno. O riflettere su ciò che facciamo, sul tipo relazioni che viviamo. Ogni aspetto della nostra vita oggi è condizionato dalla tecnica, anche quando riteniamo di non essere “fuori controllo”. Può sembrare terribile, per molti versi lo è: ma l’ho già scritto sopra, non abbiamo alternative alla tecnica. Come scrive Ortega: “L’unica alternativa possibile all’uso delle macchine è quella di ritirarsi in se stessi e limitarsi a contemplare il mondo, rinunciando ai propri sogni e alle proprie aspirazioni per un futuro migliore”, e “vivendo in un continuo e vacuo sforzo di adattamento ai suoi (della tecnica) mutamenti”.

Questo non significa che non abbiamo alcuna possibilità di riprenderne almeno in parte il controllo, di sfruttarne positivamente i potenziali, di decidere se e quando cambiare marcia e svoltare. Significa che abbiamo una alternativa non all’uso, ma nell’uso.

Per darci un taglio, ed evitare di incartarmi ulteriormente, ricorro ad un esempio. Di fronte alla crescente digitalizzazione delle opportunità e delle competenze si parla del rischio di una “amnesia digitale”. Con questo si indica sia la precarietà dei contenuti, che possono andare dispersi per un qualsivoglia motivo, dall’attacco hacker all’incidente tecnico nel sistema, sia la perdita di competenze, la loro atrofizzazione, dal momento che l’operatività può essere demandata ai sistemi operanti sul web. Pensiamo alle mappe stradali, o alle calcolatrici sullo smartphone, o all’enorme deposito di conoscenze presente su Google. È chiaro che se ci affidiamo all’ausilio delle mappe digitali, che ci suggeriscono ogni svolta del nostro percorso, alla lunga perdiamo la capacità di orientarci autonomamente, di interrogare la segnaletica stradale, di affidarci al ricordo visivo. Lo stesso vale naturalmente se anziché ricorrere alle competenze di calcolo mi affido alla calcolatrice, o se per le mie ricerche consulto Google anziché faticare a rintracciare, a leggere e a comparare le fonti scritte.

È però da considerare un altro fatto: questo modo di procedere esige un investimento di tempo, di attenzione, di sforzo molto inferiore a quello classico. Se ci disabitua all’uso delle nostre facoltà, libera però anche molto spazio nel nostro cervello, che può essere riempito con altre conoscenze e competenze. È qui semmai che viene fuori il vero volto del problema: lo spazio liberato andrebbe riempito con conoscenze e competenze intelligenti, non col ciarpame. La responsabilità quindi non è della tecnica, che fino a questo punto ci offre una opportunità, ma nostra: siamo noi a dover decidere come utilizzare positivamente questi spazi. Il fatto che ciò non avvenga non può essere imputato all’invadenza degli strumenti, ma all’incapacità nostra di farne un uso sensato.

Quindi, lasciamo perdere le recriminazioni su come è andata a partire da Adamo ed Eva, o i vagheggiamenti di un’Arcadia presocratica desertificata dall’iper-razionalizzazione e dalle tecnologie. Abbiamo demandato alla tecnica la soluzione dei nostri problemi materiali, ci stiamo accingendo a demandarle anche il compito di pensare e decidere per nostro conto. È il momento di tracciare dei confini, e questo siamo ancora in grado di farlo: se non ci riusciremo come comunità umana, potremo comunque sempre volerlo come singoli. Non ci sono alibi.

Come vorrebbe dimostrare la postilla successiva.

2)  Ne La société du spectacle Debord indica tra i suoi riferimenti Cervantes, dandogli atto di aver precocemente intuito dove sarebbe andata a parare la “modernità”. E questo pur vivendo lo scrittore spagnolo in un paese che nel XVII secolo accusava un grave ritardo nella nascita di un capitalismo moderno. Nella seconda parte del Don Chisciotte attorno al “cavaliere dalla trista figura” viene infatti costruito un mondo artificioso, nel quale tutti recitano uno spettacolo ininterrotto, un po’ alla maniera del Truman Show. In questo caso lo spettacolo non è finalizzato come accade oggi a realizzare un dominio economico e psicologico totale, risponde semplicemente alla maligna voglia di divertimento del duca e della duchessa d’Aragona; ma si tratta comunque di una rappresentazione ingannevole, nella quale tutti hanno una loro parte, e che finisce per far perdere il senso della realtà anche a chi l’ha inscenata. Mano a mano che l’inganno si complica e richiede una partecipazione sempre più allargata ci accorgiamo che i primi a crederci sono proprio coloro che lo ordiscono, nel senso almeno che nello sbeffeggiamento della loro vittima cercano un riscatto, qualcosa che dia un surrogato di senso alle loro vuote esistenze.

L’ultima rilettura del romanzo mi ha rafforzato nel convincimento che avevo già maturato sessant’anni fa, al primo incontro: il cavaliere sarà un pazzo, almeno in base ai criteri di normalità che vigevano all’epoca e vigono tutt’oggi, ma non è un idiota. Attraversa tutte le sue disavventure consapevole di vivere nell’illusione, ma preferisce quella eroica che lui stesso si è scelta a quella squallidamente prosaica nella quale gli altri pretenderebbero di confinarlo. Lo dice chiaramente nel suo testamento: “Ed ancorché tutto avvenisse al rovescio di quello che io mi figuro, non potrà venire oscurata da malizia di sorta alcuna la gloria di aver tentata quest’alta e nuova impresa”. Ma non è l’unico ad avere questa consapevolezza: poco alla volta la sua determinazione scuote anche l’ignavia di Sancho Panza, e apre gli occhi a Sansone Carrasco, lo studente di Salamanca suo amico-avversario, che così lo ricorda dopo la morte: “Giace qui l’hidalgo forte / che i più forti superò, / e che pure nella morte / la sua vita trionfò. / Fu del mondo, ad ogni tratto, / lo spavento e la paura; / fu per lui la gran ventura / morir savio e viver matto”.

L’hidalgo non ha combattuto e vissuto invano.

Appendice

Informazioni più dettagliate sul situazionismo si possono trovare cliccando la voce su Wikipedia, e magari andando poi a confrontarle con quelle presenti su altri siti (ad esempio, su quello della Treccani, su Situazionismo.it, su Anarcopedia, ecc …) o in blog come Doppiozero e Carmilla; oppure consultando direttamente volumi come “AA VV, Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, Massari, 1998”, o “Mario Perniola, I situazionisti, Castelvecchi, 2005”, e “L’avventura situazionista. Storia critica dell’ultima avanguardia del XX secolo, Mimesis, 2013”.

È difficile dare un’idea dell’impatto reale che il situazionismo ha avuto sul pensiero alternativo del secondo novecento. Nato nell’ambiente delle avanguardie artistiche, il movimento si è poi spostato progressivamente sul terreno della critica rivoluzionaria, andando incontro nel frattempo a diverse scissioni (chi ha vissuto gli anni attorno al Sessantotto sa di cosa parlo) e prestandosi alle più svariate riletture. Gli va comunque riconosciuto di aver portato nella sinistra una ventata di rinnovamento, mettendo a nudo i ritardi e le miopie dei partiti tradizionali e la loro incapacità di far fronte alle trasformazioni in atto nel secondo dopoguerra.

Aggiungo solo un personalissimo ricordo di uno degli autori qui citati, Mario Perniola, una delle persone più aperte, intelligenti e disponibili che io abbia mai conosciuto, a dispetto di una non sempre totale convergenza delle nostre opinioni. Lo cito perché, a differenza di troppi altri cialtroni incontrati dentro e fuori del mondo accademico, mi ha regalato, col suo solo modo di essere, una straordinaria lezione di vita.

 “Manifesto”, redazionale del 17 maggio 1960, I.S. n. 4, Giugno 1960

Una nuova forza umana, che il quadro esistente non potrà soggiogare, si accresce di giorno in giorno con l’irresistibile sviluppo tecnico e l’insoddisfazione per i suoi impieghi possibili nella nostra vita sociale privata di senso. L’alienazione e l’oppressione nella società non possono venire pianificate in nessuna delle loro varianti, ma solo rigettate in blocco con questa stessa società. Ogni progresso reale è evidentemente sospeso alla soluzione rivoluzionaria della multiforme crisi del presente.

Quali sono le prospettive d’organizzazione della vita in una società che, autenticamente, “riorganizzerà la produzione sulle basi di una associazione libera ed uguale dei produttori”? L’automazione della produzione e la socializzazione dei beni vitali ridurranno sempre di più il lavoro come necessità esterna, e daranno infine la libertà completa all’individuo. Liberato così da ogni responsabilità economica, liberato da tutti i suoi debiti e le sue colpe verso il passato e gli altri, l’uomo avrà a disposizione un nuovo plusvalore, incalcolabile in denaro perché impossibile da ridurre a misura del lavoro salariato: il valore del gioco, della vita liberamente costruita.

L’esercizio di questa creazione ludica è la garanzia della libertà di ognuno e di tutti, nel quadro della sola uguaglianza garantita con il non sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La liberazione del gioco, è la sua autonomia creativa, che supera l’antica divisione tra il lavoro imposto e i divertimenti passivi. La Chiesa ha bruciato un tempo le cosiddette streghe per reprimere le tendenze ludiche primitive conservate nelle feste popolari. Nella società attualmente dominante, che produce in maniera massiccia degli squallidi pseudo-giochi di non partecipazione, una vera e propria attività artistica è classificata necessariamente come criminalità. È semiclandestina. Si presenta come fatto scandaloso.

Cos’è, in effetti, la situazione? È la realizzazione di un gioco superiore, con più esattezza, è la provocazione a quel gioco che è la presenza umana. I giocatori rivoluzionari di tutti i paesi possono unirsi nell’I.S. per cominciare ad uscire dalla preistoria della vita quotidiana. Proponiamo fin d’ora un’organizzazione autonoma dei produttori della nuova cultura, indipendente dalle organizzazioni politiche e sindacali che esistono in questo momento, poiché non riconosciamo loro la capacità di organizzare nient’altro che il riassetto dell’esistente.

L’obiettivo più urgente che fissiamo per questa organizzazione, dal momento in cui esce dalla sua fase sperimentale iniziale per una prima campagna pubblica, è la presa dell’UNESCO. La burocratizzazione, unificata su scala mondiale, dell’arte e di tutta la cultura è un fenomeno nuovo che esprime la profonda affinità dei sistemi sociali coesistenti nel mondo, sulla base della conservazione eclettica e della riproduzione del passato. La risposta degli artisti rivoluzionari a queste nuove condizioni deve essere un tipo nuovo di azione. Siccome l’esistenza stessa di questa concentrazione direttoriale della cultura, localizzata in un solo edificio, favorisce la conquista con un putsch; e siccome l’istituzione è del tutto sprovvista della possibilità di un uso sensato al di fuori della nostra prospettiva sovversiva, ci troviamo giustificati, di fronte ai nostri contemporanei, se ci impossessiamo di questo apparato. E l’avremo. Siamo determinati ad impadronirci dell’UNESCO, anche se per poco tempo, perché siamo sicuri di fare all’istante un’opera che resterà tra le più significative per illuminare un lungo periodo di rivendicazioni.

Quali dovranno essere i caratteri principali della nuova cultura, prima di tutto in rapporto all’arte del passato?

Contro lo spettacolo, la cultura situazionista realizzata introduce la partecipazione sociale.

Contro l’arte conservata, è un’organizzazione del momento vissuto, direttamente.

Contro l’arte parcellare, sarà una pratica globale basata contemporaneamente su tutti gli elementi utilizzabili. Tende naturalmente ad una produzione collettiva e senza dubbio anonima (almeno nella misura in cui, non essendo le opere immagazzinate in merci, questa cultura non sarà governata dal bisogno di lasciare delle tracce). Le sue esperienze si propongono, come minimo, una rivoluzione del comportamento ed un urbanismo unitario dinamico, suscettibile di essere esteso all’intero pianeta, e di essere poi diffuso su tutti i pianeti abitabili.

Contro l’arte unilaterale, la cultura situazionista sarà un’arte del dialogo, un’arte dell’interazione. Gli artisti — con tutta la cultura visibile — si sono separati del tutto dalla società, come sono separati tra loro dalla concorrenza. Ma anche prima di questa impasse del capitalismo, l’arte era essenzialmente unilaterale, senza risposta. Essa supererà questo periodo chiuso del suo primitivismo a favore di una comunicazione completa.

Poiché tutti diventeranno artisti ad uno stadio superiore, cioè in modo inseparabile produttori-consumatori di una creazione culturale totale, si assisterà alla rapida dissoluzione del criterio lineare di novità. Poiché tutti diventeranno, per così dire, situazionisti, si assisterà ad un’inflazione multidimensionale di tendenze, esperienze, di “scuole”, radicalmente differenti, e tutto questo non più successivamente ma simultaneamente. Inauguriamo ora quello che sarà, storicamente, l’ultimo dei mestieri. Il ruolo di situazionista, di dilettante-professionista, di anti-specialista è ancora una specializzazione fino a quel momento di abbondanza economica e mentale in cui tutti diventeranno «artisti», in un senso che gli artisti non hanno raggiunto: la costruzione della loro vita. Tuttavia, l’ultimo mestiere della storia è così vicino alla società senza divisione permanente del lavoro, che non gli si riconosce la qualifica di mestiere quando fa la sua apparizione nell’I.S. A quelli che non ci comprendessero bene, diciamo con un irriducibile disprezzo: “I situazionisti, di cui vi credete forse i giudici, vi giudicheranno un giorno o l’altro. Vi aspettiamo alla svolta, che è la liquidazione inevitabile del mondo della privazione, sotto tutte le forme. Questi sono i nostri fini, e saranno i fini futuri dell’umanità”.

L’estate tra i ghiacci

di Paolo Repetto, 4 ottobre 2021    [1]

Allora. Siamo campioni del mondo anche nella pesca d’altura al tonno rosso, e stracciamo gli inglesi persino nel cricket. L’estate del 2021 rimarrà negli annali per i successi colti dagli azzurri in ogni immaginabile disciplina sportiva, olimpica, paralimpica e post-olimpica. Sono piovute tante medaglie che se fossero tutte d’oro massiccio, anziché placcate, avrebbero sanato il debito pubblico.

Purtroppo però non è piovuto altro: la trascorsa stagione sarà ricordata principalmente per una siccità che ha portato alle stelle i prezzi delle verdure e spinto nel panico i vegani (già si sussurra di un complotto dei padroni del clima), e per gli incendi che hanno carbonizzato mezza penisola, mandando in fumo i residui di un patrimonio boschivo già al lumicino. A tutto questo, al contrario che per le medaglie, il cui favoloso raccolto difficilmente si ripeterà, dovremo purtroppo abituarci. Anzi, direi che già ci siamo abituati.

Nel frattempo sono rimasto vittima anch’io dell’arsura estiva, assieme ai kiwi, ai cocomeri e al granoturco. Per mesi non c’è stato verso di buttare giù quattro righe. In questo caso il danno culturale oggettivo non è grave, e infatti nessuno giustamente se n’è accorto: ma per me la cosa stava diventando seria, perché ho vissuto la perdurante afasia come se la vita avesse cessato di riservarmi sorprese, le piccole scoperte che poi mi divertivo a condividere con gli amici. Fino a pochi giorni fa, il bilancio di uno sguardo indietro era che di questa estate non mi sarebbe rimasto nulla (o peggio: che avesse definitivamente certificato l’avvio di una stagione di decadenza).

E invece no. Per fortuna (almeno, per la mia) non è così. È bastato scrollarmi di dosso per un attimo il torpore da afa e distrarmi dai segnali di resa che il corpo mi invia per rendermi conto che anche in mezzo alle stoppie bruciacchiate si può raccogliere qualcosa. L’ho fatto, e ora provo a raccontarlo, accorgendomi tra l’altro che è già scattato l’effetto ciliegia (una tira l’altra, come sa bene Salvini), e che rischio addirittura di appesantire il bagaglio. Credo che sarà opportuno cavalcare l’onda dei ricordi in almeno un paio di puntate, per non esserne travolto.

Dunque, cominciamo. Nei giorni della canicola più arrabbiata, attorno alla metà di agosto, ho cercato refrigerio in un libro che sembrava scritto ad hoc: L’Idea di Nord di Peter Davidson. In effetti il saggio onora diligentemente la promessa del titolo: esplora cioè il posto occupato nell’immaginario antico e moderno dall’idea di un nord favoloso, misterioso, minaccioso. Dell’impero dei ghiacci, insomma, che nell’immaginario mio è entrato prepotentemente da subito, da quando bambino vedevo all’orizzonte le Alpi innevate e leggevo La regina delle nevi di Andersen o Lo zio di Svezia. Nel libro ho trovato molte cose che conoscevo, il che non manca mai di gratificarmi, ma moltissime di più che invece ignoravo: e me ne sono venute non rivelazioni epocali ma senz’altro alcune suggestioni che potrebbero essere considerate “leggere”, di quelle che non ti cambiano il modo di guardare alla vita ma lo insaporiscono (stavo per dire che sono le uniche possibilità che abbiamo di darle autonomamente un senso, perché per il resto siamo condizionati dalla natura, dal caso e dalle risposte altrui. È un po’ forte, ma sostanzialmente è vero).

L'estate tra i ghiacci 02

Ad esempio: nella sua analisi delle immagini letterarie Davidson cita il prodigioso fenomeno nel quale si imbatte Pantagruele nel corso di una delle sue avventure, mentre sta navigando nel mare del Nord, oltre il circolo polare artico.

Il gigante e i suoi compagni cominciano a percepire ad un certo punto rumori di fondo e voci che sembrano parlare nell’aria, dapprima flebili, poi sempre più distinti, senza che ci sia alcuno in vista. Sono naturalmente spaventati, ma il pilota della barca su cui viaggiano offre loro una strabiliante spiegazione:

— Non vi spaventate di nulla, Signore, rispose il pilota. Qui è il confine del Mar Glaciale, sul quale al principio dell’inverno scorso fu combattuta grossa e cruda battaglia tra gli Arimaspii e i Nefelibati. Le parole e le grida degli uomini e delle donne, il cozzo delle mazze, l’urto dell’armature e delle bardature, i nitriti dei cavalli e ogni altro fracasso del combattimento gelarono allora per aria. Ora, passato il rigore dell’inverno, sopravvenendo la serenità e il tepore del buon tempo, essi fondono e sono uditi.
— Per Dio, così dev’essere! disse Panurgo. Ma non si potrebbe vederne qualcuna? Mi ricordo aver letto che a piè della montagna dove Mosè ricevette la legge degli Ebrei, il popolo vedeva le voci sensibilmente.
— Ecco, ecco, disse Pantagruele, vedetene qui che non sono ancora sgelate. E ci gettò sul ponte parole gelate a piene mani, che sembravano confetti perlati di colori diversi. Tra esse vedemmo parole di gola, di sinopia, d’azzurro, di sabbia e d’oro. E stando un po’ tra le mani si riscaldavano e fondevano come neve, talché le sentivamo realmente; ma non le comprendevano, ché erano in lingua barbara. Un confetto tuttavia, abbastanza grosso, che Fra Gianni aveva riscaldato fra le mani, scoppiò come fanno le castagne gettate sulle bragie senza essere castrate, e ci fece trasalire di paura. — Fu a suo tempo, un colpo di falconetto, disse Fra Gianni. Panurgo ne chiese ancora a Pantagruele, ma questi gli rispose che dar parole era costume d’innamorati.
— Vendetemene dunque, disse Panurgo.
— Vender parole: costume d’avvocati, rispose Pantagruele. Vi venderò silenzio piuttosto, come talvolta ne vende Demostene mediante la sua argentangina.
Ciononostante ne gettò sul ponte tre o quattro manate. Fra le quali vidi parole pungenti, parole sanguinose, che, disse il pilota, talora ritornavano là dond’erano partite, ma colla gola tagliata, parole orribili, e altre assai disgustose a vedere. E fondendosi insieme udimmo: hen, hen, hen, hen, his, tic, torc; lorgn, brededen, brededoc, frr, frrr, frrr, bu, bu, bu, bu, bu, bu, bu, tracc, tracc, trr, trr, trr, trrr, trrrrrr! On, on, on, on, on, uuuuon! got, magot e non so quali altre parole barbare. Egli diceva che erano grida d’assalto e nitriti di cavalli nell’ora dell’attacco; poi ne udimmo altre grosse che sgelando davano suono, talune come di tamburi o pifferi, altre come di buccine e trombe.
Ci divertimmo assai, credetelo. Io volevo mettere in conserva nell’olio qualche parola di gola, come si conserva la neve e il ghiaccio, e dentro feltro ben pulito. Ma Pantagruele non volle, dicendo esser follia conservare ciò di cui non v’è mai difetto e che si ha sempre sottomano, come sono le parole di gola fra tutti i buoni e allegri pantagruelisti.

L'estate tra i ghiacci 03Non ricordavo l’episodio (è difficile ricordare qualcosa nel mare magnum di stramberie che farcisce il capolavoro di Rabelais: o forse non ero mai arrivato a leggerlo), e Davidson vi fa giusto un cenno, per cui sono immediatamente andato a verificare. È così che ho pescato questa perla.

Parole e suoni ibernati. È un’immagine fantastica. Parole e suoni che arrivano dal passato, e scongelano al ritorno della primavera o a contatto col calore delle mani. Che vincono insomma le leggi del tempo, e in qualche misura lo fermano. Rabelais era davvero geniale, e la sua trovata non era affatto peregrina: anche senza metterle sott’olio come propone il narratore, gli uomini hanno trovato il modo di conservare le parole. Ci sono riusciti dapprima con la scrittura, con un processo che potremmo definire di trasposizione sensoriale e di essicazione, poi conservandole in tutta la loro pienezza espressiva, attraverso la registrazione magnetica.

Quando leggiamo un libro, quando ascoltiamo una voce o un brano musicale registrati, noi scongeliamo le parole e i suoni, vinciamo, sia pure momentaneamente, sul tempo. Sarà anche una vittoria effimera, ma sono comunque soddisfazioni.

Il Nord però riserva altre sorprese. In un altro punto, parlando de Il senso di Smilla per la neve, Davidson fa notare come la seconda parte del romanzo ricalchi pari pari un’avventura di Tintin, quella dell’albo L’Isola Misteriosa. Sarò anche malato, ma sono queste le cose che mi mandano in pressione. È seguito l’immediato ripescaggio di Smilla (e, naturalmente, di Tintin). Non era però Smilla ad intrigarmi davvero, ma il suo autore, Peter Høeg. All’epoca in cui Høeg inaugurava la moda del triller nordico, negli anni novanta, mi ero letto anche I quasi adatti, che mi era piaciuto moltissimo, e La storia dei sogni danesi, che invece mi aveva lasciato perplesso. Non certo per il tema. Il romanzo tratta infatti dell’archetipo di tutte le utopie, il sogno della cancellazione del tempo. Nel racconto questo sogno viene perseguito e persino apparentemente realizzato nel XVI secolo da un aristocratico danese seguace di Paracelso, che isola dal resto del mondo se stesso, la sua famiglia e le sue proprietà, bandisce tutti gli orologi e semplicemente ignora il passare dei giorni, dei mesi, degli anni, fino ad arrivare a dimenticarsene. La diga eretta ad esclusione del tempo regge per secoli, fino a quando un outsider non la incrina e avvia il processo di disgregazione, per cui il muro crolla e il tempo torna a trascorrere inesorabile.

Quando lessi il libro, più di vent’anni fa, mi diede l’impressione di un tentativo in sostanza poco riuscito, a dispetto dell’assunto e di pagine bellissime: mi ero perso in un gioco di metafore che mi pareva eccessivo. Ora mi rendo conto che quel sogno, e persino le modalità della sua realizzazione (le mura altissime erette attorno alla proprietà, l’isolamento totale nei confronti dell’esterno), li ho ritrovati recentemente, ma senza realizzare la connessione, nella vicenda di Charles Waterton (cfr. L’inventore dei capelli a spazzola). Sono dunque tentato di rileggerlo, magari rimandando a possibili e purtroppo probabili recrudescenze del Covid, con le conseguenti quarantene.

L'estate tra i ghiacci 04Tintin invece l’ho riletto subito, e sì, sono convinto anch’io che Høeg l’avesse in mente mentre scriveva Smilla. Immagino che io e Høeg abbiamo letto le storie di Hergé più o meno nello stesso periodo (in Italia hanno cominciato a circolare solo verso la fine degli anni Sessanta), ma avendo lui dieci anni di meno. Per me era stato come trovare un riassunto di tutti i sogni dell’infanzia e dell’adolescenza, per lui era il bacino cui attingere per cominciare a sognare. I risultati, infatti, si vedono.

L’isola misteriosa racconta una delle più belle avventure del mini giornalista belga, seconda solo a Tintin in Tibet. E ha innescato la mia ennesima re-immersione in quel mondo assieme straordinariamente reale e fantastico, nel quale la cosiddetta “linea chiara”, il segno grafico che caratterizza il fumetto francofono e quello belga in particolare, proietta scenari e vicende e personaggi assolutamente verosimili, curati nei minimi dettagli, in una dimensione alla quale hanno accesso gli spiriti avventurosi di tutto il globo.

L'estate tra i ghiacci 05A proposito di verosimiglianza. Ho scoperto che l’ispirazione per il personaggio Tintin è arrivata dalla vicenda di un boy scout quindicenne danese, Palle Huld, divenuto famoso a livello internazionale per aver compiuto nel 1928 un viaggio intorno al mondo da solo, come inviato di un giornale. Il berretto, il cappotto e i pantaloni alla zuava che esibisce nella foto sono esattamente gli stessi indossati in genere da Tintin, la cui prima avventura (Tintin au pays des Soviets) uscì esattamente un anno dopo (ed era ambientata nello scenario che fa da sfondo alla foto di Palle).

En passant: cinque anni dopo un altro ragazzo, questi diciottenne, Patrick Leigh Fermor, partiva da Londra per raggiungere a piedi Costantinopoli, da solo, attraversando nell’inverno del ‘33, giusto all’epoca dell’ascesa al potere di Hitler, un mondo germanico e slavo che ancora respirava aria asburgica. Un Tintin giramondo non era quindi affatto così inverosimile, o almeno, era l’incarnazione dei sogni della gioventù dell’epoca.

Non solo di quelli di viaggio. Hergé venne accusato dopo la guerra di personale connivenza con il nazismo, e il suo eroe di essere portatore di una mentalità fascista e di atteggiamenti razzisti (né più né meno come Tex, negli anni Sessanta). Sono accuse che possono arrivare solo da chi il fumetto non lo ha mai amato, e non sa quindi che il significato assunto (e trasmesso) dall’eroe prescinde per il lettore da ogni ideologia e da ogni contingente appartenenza di parte. Tintin incarna il coraggio che ogni adolescente – ma non solo – vorrebbe avere, e il suo coraggio è messo al servizio della giustizia. Che poi questa giustizia possa essere diversamente intesa a seconda delle epoche, delle circostanze e persino delle disposizioni individuali, questo è un altro discorso. E si spera che il giovane non si affidi solo alla lettura di Tintin per approfondirlo.

L'estate tra i ghiacci 06Beninteso. Hergé era davvero un simpatizzante della destra cattolica vallona, scriveva e disegnava per un giornale reazionario, professava idee fasciste e razziste, finanche antisemite, ed era amico del fondatore del fascismo belga, Léon Degrelle. Ma a dispetto del fatto che quest’ultimo abbia scritto (in Tintin mon ami) di essere stato lui l’ispiratore del personaggio, la verità è che come ogni eroe di carta che si rispetti l’intrepido ragazzino ha cominciato a vivere da subito, e già nella mente del suo ideatore, un’esistenza autonoma. Comunque, la situazione che Hergé racconta in Tintin au pays des Soviets non è molto lontana dai resoconti di altri visitatori che si erano recati nell’URSS in quegli stessi anni, partendo dal preconcetto opposto: e gli stereotipi razziali di Tintin au Congo erano quelli correnti in Europa negli anni Trenta, mentre la politica sudamericana descritta in Tintin e i picari, con i suoi caudillos e i sedicenti rivoluzionari, è esattamente quella con la quale la sinistra si è confrontata per anni tra entusiasmi e delusioni, da Castro a Sandino a Maduro, senza mai capirci nulla.

Se una colpa Tintin ha è quella di aver aiutato molti della mia generazione, e di quella precedente, a credere che per riportare un po’ di giustizia in questo mondo fosse sufficiente armarsi di coraggio e di determinazione: ma allora deve spartire la responsabilità con Tex, con Capitan Miki, con i supereroi della Marvel e persino con Corto Maltese, oltre che con i cavalieri solitari o i mucchi selvaggi del cinema western. Io non gliene voglio, né a lui né agli altri: so che non è così, ma mi piace sperare che continueranno a crederci anche le generazioni future.

L'estate tra i ghiacci 07Visto che ci stiamo aggirando in territorio di utopia, e nella provincia semiautonoma del fumetto, una naturale associazione di idee mi fa tornare in mente che in un mercatino estivo ho scovato una copia seminuova del Paperino don Chisciotte, quello disegnato nel 1956 da Pier Lorenzo de Vita (uno dei disegnatori di Pecos Bill, tanto per restare in tema di utopia). Ho l’impressione di averlo letto già all’epoca, anche se Topolino non era tra mie letture fumettistiche preferite, e soprattutto era una pubblicazione cui avevo accesso raramente. Senz’altro l’ho conosciuto dopo, quando mi sono divertito a recuperare tutti i classici della letteratura della Disney, da I promessi paperi alla Paperodissea e alla Paperopoli liberata. Comunque, è una trasposizione in chiave moderna delle avventure dell’hidalgo, che rimane abbastanza fedele al plot originale. Rileggerla ha però suscitato il ricordo di altre immagini, quelle che per prime mi avevano fatto incontrare il cavaliere della Mancia: il Don Chisciotte di Benito Jacovitti, uscito nel 1953 come supplemento a Il Vittorioso. Un po’ come Tintin, Il Vittorioso ha sofferto nelle valutazioni postume l’essere la rivista a fumetti dei circoli cattolici, schierata decisamente sul versante anticomunista: e questo ha fatto sì che se ne siano a lungo misconosciuti i meriti. In realtà, cattolico o meno, Il Vittorioso vantava fior di sceneggiatori e di disegnatori, e ha comunque proposto un modello etico positivo alla generazione dell’immediato secondo dopoguerra, soprattutto negli anni Cinquanta. Uno dei punti di forza del periodico era appunto Jacovitti, che come Hergé si è portato dietro la patente di reazionario, ma alla stessa maniera di Hergé non ha mancato di imporre i suoi personaggi al di là di ogni lettura ideologica, per la loro intrinseca vis comica, da Cocco Bill a Pippo, Pertica e Palla e alla signora Carlomagno.

L'estate tra i ghiacci 08Anche il suo Don Chisciotte era riletto in chiave moderna: si reincarnava in un pronipote del cavaliere e si imbarcava nelle stesse imprese disastrose, solo attualizzate (ad esempio, anziché contro i mulini a vento si lanciava contro i treni): finiva poi però per combattere le mire di un palazzinaro e, proprio in forza dei suoi proclami deliranti, veniva eletto sindaco di una piccola città. Cosa, quest’ultima, davvero molto attuale. Ma, come accadeva per tutti i fumetti di Jacovitti, l’interesse non era tanto nella storia quanto nell’umorismo delle singole vignette, straripanti di particolari assurdi. Per questo la mia non fu all’epoca una vera conoscenza col personaggio: avevo conosciuto il protagonista di una storia di Jacovitti, piuttosto che di quella di Cervantes.

L'estate tra i ghiacci 09Dopo quelle di Jacovitti e di De Vita ci sono state altre innumerevoli trasposizioni del Chisciotte a fumetti: io ricordo solo quella di Lino Landolfi (1968/69), sempre per Il Vittorioso, e quella di Toni Pagot e Gino Gavioli per il Giornalino. La prima, sebbene arrivata molto tardi, quando i fumetti erano ormai diventati per me una passione collezionistica e non esercitavano più una fascinazione etica, mi ha indubbiamente colpito: tra quelle che conosco è la più fedele allo spirito di Cervantes, anche nella regia. Mi aveva stupito a suo tempo la presenza di una parte introduttiva nella quale l’autore, inteso in questo caso proprio come Landolfi (c’è una sua foto) raccontava i propositi dell’opera, e di una sorta di poscritto nel quale era Don Chisciotte stesso a uscire dalla storia e a polemizzare contro le interpretazioni errate della sua figura.

Mi sono chiesto a chi potesse essere rivolta un’operazione del genere, nella quale tra l’altro la caratterizzazione fisica del personaggio era del tutto difforme da quella classica dettata da Cervantes (il Chisciotte di Landolfi ha un gran naso a patata, e un profilo tutt’altro che aquilino): difficile immaginare un pubblico, a meno di pensare che i destinatari fossero proprio i donchisciottomani patologici come me.

Il recupero della versione disneyana mi ha dato anche modo di realizzare che il Don Chisciotte è uno dei pochissimi classici di cui non ho mai posseduto una riduzione per ragazzi. Ho controllato sulle vecchissime liste dei desiderata, quelle che stilavo direttamente sugli elenchi riportati nelle quarte di copertina delle edizioni Carroccio-Aldebaran, dai quali spuntavo ogni nuova acquisizione. Queste riduzioni esistevano, alcune comparivano proprio nelle mie collane di riferimento, ma il Don Chisciotte non l’ho mai selezionato. Si vede che le versioni a fumetti non mi avevano convinto molto.

Qui però, come ho promesso sopra, mi interrompo, perché su Cervantes e sul suo alter ego avrei da dire parecchie cose: me lo riprometto da un pezzo e non voglio bruciarmi l’occasione. Vale la pena riservare loro una puntata apposita. Ma non è finita: l’estate non è stata attraversata solo dal Cavaliere dalla triste figura. Procedendo a ritroso la memoria ha iniziato a snebbiarsi, e ho in serbo tante perle che nemmeno in un romanzo di Salgari. Quindi (continua).

L'estate tra i ghiacci 01[1] Come al solito, il titolo non è originale. L’ho preso in prestito da un libro di Sally Carrigar, edito da Longanesi nel 1956, che possiedo nell’edizione rilegata, con una splendida sovracopertina. È stata una scelta apotropaica, viste le notizie che arrivano dai luoghi in cui il romanzo era ambientato: le acque e le terre che circondano il Polo Nord, l’Alaska, il Mare di Bering e lo stretto omonimo. Oggi, a soli sessant’anni di distanza, i ghiacci la Carrigar non saprebbe quasi più dove trovarli.

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Il giorno della marmotta

di Paolo Repetto, 2 aprile 2020

Quando comporranno il mio manifesto funebre dovranno scontarmi un anno. Perché ho già capito che quello in corso mi sarà interamente sottratto: e comunque già mi è stata rubata la primavera, che per un anziano come me è la stagione di una fugace rinascita. Non dicono infatti i saggi pellerossa: ho vissuto tante primavere e ho superato tanti inverni? (non so se lo dicono, ma mi piace pensarlo).

Non voglio farla tragica, ci sono situazioni ben più serie della mia, alcune delle quali le vivo anche da molto vicino, e ho quindi quasi ritegno a parlare delle mie nevrosi da quarantena. Ma l’alternativa è il silenzio totale, e questo lo vedrei come una resa al virus e al disamore per la vita che si sta insinuando in tutti noi. Provo così, a venti giorni esatti dalle prime impressioni proposte su questo sito, a ricapitolare un po’ la situazione.

Parto dal titolo di questo intervento. C’è un film americano dei primi anni novanta, che non conoscevo affatto e che solo uno come Geppi poteva segnalarmi, distribuito in Italia col titolo Ricomincio da capo, mentre nell’originale fa riferimento a una ricorrenza celebrata negli Stati Uniti e in Canada il 2 di febbraio, il Groundhog Day, giorno della Marmotta. Si tratta di una delle tante ricorrenze riciclate (e non solo per promuovere consumi, ma nel tentativo di surrogare con una liturgia laica la scomparsa dei tempi sacri) delle quali si nutre la modernità: trascrizioni profane di antiche celebrazioni cristiane, a loro volta già istituite pescando in più antiche tradizioni pagane e riadattandole. (Sul tipo di quella di Halloween, che si è sostituita nel mondo protestante alla festa di Ognissanti, a sua volta ricalcata sulle credenze celtiche nel ritorno dei morti il giorno del Samhain).

Nella versione americana della ricorrenza si è adattato un proverbio scozzese, che recita più o meno: Se il giorno della Candelora è luminoso e chiaro, ci saranno due inverni in un anno. In effetti, proprio di una rivisitazione della Candelora si tratta, che anche dalle nostre parti è indicata come spartiacque temporale per i vaticini meteorologici. Noi basso-piemontesi diciamo: Su fa bruttu a ‘ra Candlora, da l’invernu a summa fora (mi si perdoni la trascrizione alla buona: non sono un filologo dialettale. Il dialetto mi limito a parlarlo).

Ma cosa c’entra in tutto questo la marmotta? C’entra perché gli americani sono dei bambinoni e hanno bisogno di spettacolarizzare un po’ tutto, e allora si sono inventati un cinema particolare: in questo giorno si dovrebbe tenere d’occhio l’ingresso di una tana di marmotta (già la location è abbastanza problematica), perché è il periodo in cui i suoi inquilini si risvegliano. Ora, se la marmotta emerge dal buco e non vede la sua ombra, perché il tempo è nuvoloso, l’inverno ha i giorni contati; se invece è una giornata limpida e soleggiata la marmotta scorgerà la sua ombra, si spaventerà e si rintanerà velocemente. Ciò significa che l’inverno andrà avanti fino a metà marzo.

Si farebbe molto prima a dare un’occhiata al cielo, senza disturbare la povera marmotta: ma tant’è, anche noi appena svegli non guardiamo dalla finestra, ma accendiamo il televisore per seguire le previsioni meteo.

Bene, tutte queste premesse per arrivare alla spiegazione dei titoli, il mio e quello originale del film: che però con quello che voglio dire c’entrano solo di striscio. Nel film accade infatti che un giornalista inviato nel Connecticut a scrivere un pezzo di folklore sulla celebrazione, e giustamente scazzato (un po’ come Forster Wallace al Festival dell’aragosta nel Maine), si ritrova bloccato in un paesino da una tempesta di neve e scopre, con crescente disperazione, che lì i giorni si ripetono tutti esattamente uguali, introdotti al mattino dal “Salve. Oggi è il giorno della marmotta” sparato dalla radio locale. L’idea è originale, una cosa alla Robida – ma lui il tempo non lo fermava, lo faceva correre addirittura all’indietro, e almeno c’era un po’ di movimento, di novità, sia pure a rovescio. Quel che in fondo tutti oggi vorremmo.

Ecco dove volevo arrivare con questo lungo giro. Da un mese, ogni mattino, è come se qualcuno mi dicesse dalla radio: “Salve. Oggi è il giorno del coronavirus, e sarà esattamente simile a ieri e a domani”. Anzi, non è come se qualcuno me lo dicesse: me lo urla la tivù, me lo dicono i giornali, che ormai non sanno più che titoli inventare, li hanno già esauriti tutti. La sostanza è sempre la stessa. Cifre dei contagiati, dei decessi e dei guariti – queste ultime ovvie (se non fossero guariti sarebbero deceduti), ma servono a far apparire un po’ meno cupa la faccenda. Per il resto, le rituali raccomandazioni sui comportamenti da tenere, e gli altrettanto rituali giri d’opinione con giornalisti, attori, cantanti, e politici a piede libero, per l’occasione allargati anche a virologi e operatori sanitari.

Mi si potrà obiettare che in fondo i giorni si susseguivano tutti uguali, o quasi, anche prima. Senz’altro era così in tivù, fatto salvo l’oggetto dei talk e delle interviste. Ma la quotidianità era un po’ più mossa. Incontravi gli amici, cosa ben diversa dal sentirli anche tutti i giorni per telefono, scazzati come te e progressivamente sempre più imbozzolati, per cui ti rendi conto di quanto l’empatia abbia bisogno del contatto fisico; ti inventavi lavori, occupazioni, blitz nei musei, al cinema, in libreria, o semplicemente su un sentiero di campagna. Ma non è tanto ciò che effettivamente facevi, a mancare (qualcuno mi dice: in fondo non ho mutato di molto le mie abitudini): pesa l’idea di non poterlo fare, di non essere nella condizione di decidere anche per cose piccolissime e apparentemente insignificanti. Pesa l’assenza di una qualsiasi possibilità di progettare il proprio tempo.

In questo mese ho avuto l’opportunità di mettere mano ad un sacco di cose che avevo lasciato indietro, ai libri che avevo raccolto proprio in vista di eventualità drammatiche simili (ma a questa specifica non avevo mai pensato, mi ero fermato a fratture multiple alle gambe o a lungodegenze), eppure non sono riuscito a concludere alcunché. È come se avessi già accettato l’idea che avrò un futuro, per quel che ne rimane, assolutamente vuoto, e che devo lasciarmi indietro qualcosa per riempirlo.

Passiamo adesso da quel che provo dentro a quello che mi vedo attorno.

Quando esco a fare la spesa, o anche solo per un breve giro attorno all’isolato, per non perdere l’uso delle gambe, vedo persone sempre più distanziate e sempre più protette. Nei giri a vuoto non incontro praticamente nessuno, ma le rare volte che incrocio qualche altro passante, in automatico ci spostiamo sui lati opposti della strada.

È già un riflesso condizionato, che in realtà non ha alcun valore profilattico, ma è diventato immediatamente istintivo. Mi chiedo se riusciremo a liberarcene una volta che l’incubo sia cessato (sempre che cessi). Temo di no: che rimarrà per il futuro un’ombra su tutte le situazioni di prossimità con gli altri.

Vedo anche che a dispetto di questi comportamenti, enfaticamente celebrati come virtuosi, mentre invece sono dettati da una comunque giustificata paura, la sottovalutazione del fenomeno da parte di molti non è rientrata. Ha solo cambiato motivazione. Prima era dettata nei più dall’ignoranza, in alcuni da una effettiva esperienza nel campo, che induceva a proiettare quanto accade in un panorama sanitario già da sempre inquietante, anche se sottaciuto, e in altri ancora da una inguaribile tendenza a scorgere ovunque indizi di complotto e attentati alla democrazia (vi suggerisco di leggere gli interventi in proposito di Giorgio Agamben comparsi a partire dalla fine di febbraio su “Il manifesto”. Tra l’altro, avrete per una volta l’occasione di capire di cosa sta parlando, mentre lui paradossalmente non l’ha capito affatto).

Ora, per gli ignoranti purtroppo non c’è vaccino: probabilmente molti sono passati nel giro di questi giorni dalla sottovalutazione all’allarmismo esasperato e inconcludente. Per chi ha delle competenze, la cosa è più complessa, perché in effetti il balletto delle cifre, la confusione tra valori assoluti e valori percentuali, il mancato coordinamento stesso tra i vari organismi che dovrebbero gestire la cosa e che si fanno invece la guerra, anche attraverso le cifre, impedisce obiettivamente di avventurarsi in analisi e giudizi. Forse varrà la pena attendere che l’emergenza si plachi, per riflettere con mente più sgombra. Purché però nel frattempo non si tenda a ridurre l’effetto del virus a un “colpo di grazia” inferto a gente destinata comunque a morire. Siamo tutti destinati a morire, ma non siamo molto ansiosi che la pratica sia sbrigata più velocemente.

Quanto ai “complottisti” (e ci faccio rientrare tutti quelli che insorgono contro un presunto progetto di aggressione alle libertà democratiche), quel punto di vista – riassumibile nel “ne muoiono tanti tutti i giorni per altre malattie, indotte dal sistema e dal suo modo di produzione, e nessuno se ne allarma: quindi è evidente che questa è una epidemia inventata per far passare leggi e provvedimenti liberticidi” – lo hanno assunto da subito. Anche qui rimando ad una intervista, che ho letto proprio oggi, rilasciata tal Francesco Benozzo, docente universitario, sul sito Libri e parole.

Confesso la mia ignoranza: non sapevo che Benozzo fosse un “poeta-filologo e musicista, candidato dal 2015 al Nobel per la letteratura, autore di centinaia di pubblicazioni, direttore di tre riviste scientifiche internazionali, membro di comitati scientifici di gruppi di ricerca internazionali (e qui giù sigle e acronimi tipo: IDA: Immagini e Deformazioni dell’Altro – n.d.r) e molto altro ancora. Dirò di più: non sapevo neppure che Benozzo esistesse, non mi è mai capitata tra le mani una delle centinaia di pubblicazioni che lo segnalano per il Nobel – eppure sono uno che di roba ne fa passare.

Comunque: dopo averci informato che lui vive (beato!) in mezzo a un bosco nel Trentino, e che quindi dei divieti se ne fa un baffo (che sia un sodale di Mauro Corona?) e che sta lavorando ad un poema dal titolo Màelvalstal. Poema sulla creazione dei mondi (dal che si desume che stavolta il Nobel non glielo toglie nessuno – a meno che mi candidi anch’io. Ci sto pensando), il professor Benozzo ci rivela che siamo tutti marionette inconsapevoli, vale a dire una massa di coglioni, che si stanno facendo infinocchiare, con la scusa di una epidemia inventata, dagli sgherri del sistema. E porta a convalida della sua tesi l’apprezzamento di Noam Chomsky (ti pareva che il grande vecchio potesse una volta tacere!), di cui è intimo e col quale quotidianamente corrisponde.

Il problema in questo caso non è se l’epidemia esiste o meno. Il problema è che esiste gente come Benozzo (lo dico a prescindere da questa sua esternazione e in nome di quella libertà di parola che lui vede già come strangolata – “chi non la pensa come i medici ufficiali viene denunciato, se è un medico viene invece radiato” (sic) – La mia, comunque, si rassicuri, non è una fatwah: è solo un’amara constatazione), gente piena di sé e pronta a pontificare su qualsivoglia argomento, soprattutto su quelli nei quali a dispetto delle riviste internazionali che dirige o cui collabora non ha alcuna competenza (Benozzo a quanto pare di capire è un docente di Filologia), pur di esibirsi e di far sapere che esiste. Al che, si potrebbe obiettare, c’è comunque rimedio: di personaggi così ce n’è a bizzeffe, i social li hanno moltiplicati, o ne hanno moltiplicata la visibilità: basta non dar loro spazio, non fare da cassa di risonanza (al contrario di quanto in effetti sto facendo). Ma il fatto è che quelli come Benozzo girano per le università – sono piene di nipotini di Agamben – e fanno la ruota davanti a ragazzotti sprovveduti, che avrebbero bisogno di essere guidati a un po’ di conoscenza, se non dai “grandi maestri” presso i quali Benozzo si è abbeverato, almeno da persone di buon senso e di onesta umiltà intellettuale. Non solo: bruciano nel falò delle loro vanità e dei loro vaniloqui anche quegli argomenti seri che si potrebbero riservare, con un po’ di intelligenza, a un dopo-crisi davvero costruttivo, per quanto lontano e improbabile. La riorganizzazione della sanità, le spese militari, l’uso politico della scienza e il monopolio che le è conferito sulla verità, ecc …

Ecco. Vedete quanto poco basta a cambiarti la prospettiva, a smuovere le acque, in questi frangenti calamitosi e forzatamente cheti. Avevo in mente una serie di altre riflessioni sulla vita al tempo del virus, ma per oggi l’ho tirata già sin troppo in lungo e rimando quindi a una prossima missiva. Soprattutto, però, ero convinto di non riuscire più a formulare alcun progetto, mentre me ne ritrovo uno già pronto tra le mani. In realtà è la continuazione di un impegno che sto portando avanti nel mio piccolo da tempo: quello di stigmatizzare la cialtronaggine, di qualsiasi tipo e su qualsiasi versante si annidi. Il virus a quanto parte invece di sedarla l’ha scatenata, e il clamore ha risvegliato la marmotta che è in me. Non ho visto la mia ombra, stamattina (anche perché non sono uscito). E allora, pur consapevoli che i cialtroni sono legione, bardiamo Ronzinante e buttiamoci nella mischia. Per questa volta, se c’è qualche donchisciotte libero, sono anche disposto a fare Sancho Panza.

 

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Relazione di Spagna

di Paolo Repetto, 22 agosto 2019

Avevo promesso agli amici una relazione veridica sulla mia scappata in terra ispanica, ed eccomi sollecito all’appuntamento. La butto giù così, a caldo (è proprio il caso di dirlo, date le temperature di Madrid), cercando di non disperdere le impressioni e le suggestioni che si sono affastellate in questi giorni roventi. Non sarà quindi una cosa ordinata e sistematica, buona per le guide EDT (del resto, non credo si aspettino alcunché del genere), ma una zuppa leggera e fredda – un gazpacho, tanto per entrare in tema, tanto sale e poche vitamine. Mi sono imposto però un minimo di traccia: parlerò prima di quel che ho visto e poi di quel che ho fatto.

Con una premessa: in pratica questo è stato il mio primo vero – per quanto breve e circoscritto ad un’area molto limitata – soggiorno in Spagna. Avevo toccato il suolo spagnolo un paio di altre volte, l’ultimo pochi anni fa, con incursioni brevissime, e non ne avevo tratto alcuna impressione. O meglio, nell’occasione più recente ero scappato via di corsa, dicendomi, alla maniera di Obelix: “Sono matti questi spagnoli”. Arrivavo da un giro nella zona catara, dai paesini pacifici e addormentati dei Pirenei francesi, e appena attraversato il confine mi sono trovato in mezzo a ruspe, cantieri, pavimentazioni e asfaltature a tappeto, in ogni angolo. Dava la sensazione di un furore demolitorio febbrile, nel tentativo di recuperare il tanto tempo perso tra guerra civile e franchismo, ma senza alcun criterio o rispetto conservativo del passato: in buona sostanza, quel poco che avevo visto non mi era piaciuto affatto. Quanto agli spagnoli in genere, ne avevo un’immagine un po’ stereotipa, condizionata dalle reminiscenze manzoniane, dagli orrori della Conquista e dallo strapotere calcistico: per il resto, non dico flamenco e paella, ma quasi (di alcune ragazze spagnole, invece, conservo da sempre un ottimo ricordo).

Insomma, appena approdato a Madrid l’impressione di attivismo frenetico si è rinnovata: cantieri ovunque, lavori in corso in ogni quartiere. Ma con una differenza: intanto i cantieri una volta aperti vengono poi anche chiusi, a differenza che a casa nostra, nel senso che le cose viaggiano, e a ritmi cinesi. La più alta concentrazione di martelli pneumatici e perforatrici per chilometro quadrato mai vista, inizio lavori alle sette del mattino e sospensione in tarda serata, con l’accorgimento però di creare il minor disagio possibile alla viabilità dei residenti e ai flaneurs come me. Poi, i risultati si vedono: i palazzi del sei e del settecento paiono costruiti ieri, le facciate tutte riportate a nuovo, e non solo nel centro della città, ma ovunque. Gli spagnoli sembrano avere in orrore la patina del tempo, e detto così potrebbe dare l’idea di una città posticcia, di un enorme outlet turistico, ma l’effetto non è quello. Anzi, dopo un primo sconcerto ti accorgi che il risultato è una personalità specifica e forte: una città con un grande passato, che lo mostra tirato a lucido e proiettato nel futuro. L’esatto contrario di quel che accade, ad esempio, per Roma. Anche un passatista come me, nostalgico dell’ancient time, deve ammettere che gli spagnoli hanno centrato gli interventi. I viali sono magnifici, gli stili architettonici dei palazzi che li costeggiano sono perfettamente amalgamati, anche quando la “rivisitazione” è stata più pesante, nelle vie interne sono conservate tutte le vecchie insegne, le vetrine e i rivestimenti caratteristici, ma tutto è ripulito e restaurato, le piazze sono luoghi di vita e di incontro e non enormi parcheggi, il traffico è scorrevole, la metropolitana ti porta ovunque, non c’è una buca nei marciapiedi. Ho visto quel che vorrei vedere quando giro per l’Italia, e non trovo mai. La mia non è esterofilia: semmai, al contrario, è eccesso di amore per il mio paese, e disappunto nel vederlo così ridotto.

Ma scendiamo più nel particolare, alle cose cui ostinatamente bado quando mi muovo fuori d’Italia, o che mi si impongono, e rappresentano i criteri coi quali misuro la temperatura civile di un luogo. Anche qui, vira tutto al positivo. Non ho visto, o quasi, escrementi di cani per le strade. A dire il vero ho visto anche pochi cani. Dal che si desume che gli spagnoli sono poco inclini alla moda animalista che da noi furoreggia, oppure che sono più responsabili e ripuliscono accuratamente. Opterei per la prima ipotesi. Ho trovato, inoltre, servizi igienici pubblici pulitissimi (e gratuiti) in tutte le piazze, nei musei, nei giardini e in ogni luogo che ho visitato: il che, soprattutto per gli amanti un po’ attempati, come me, del latte al cioccolato e della birra, ha la sua importanza. Nessuno ha poi tirato a fregarmi sui prezzi e mi è stato rilasciato sempre ed ovunque, nei bar, nei negozi, nei ristoranti, lo scontrino fiscale. Ho trascorso diverse serate bighellonando attorno a quello che è l’ombelico di Madrid, la Puerta del Sol, ascoltando rapito i concertini di un fantastico sestetto d’archi che si esibiva per strada, ma soprattutto ammirando lo spettacolo della folla che scendeva compostamente o risaliva verso la piazza da sette grandi vie laterali, e non ho sentito una volta qualcuno alzare la voce, malgrado la metà almeno dei turisti fosse italiana, e per la maggioranza romana. Segno che la città stessa induce ad una fruizione pacifica, discreta, rispettosa anche coloro che di norma hanno comportamenti diversi. C’è in giro molta polizia (la stazione della metropolitana di Puerta del Sol è stata teatro dell’attentato del 2004), ma è una presenza tutt’altro che invadente. Gli ambulanti abusivi sono provvisti di teli a chiusura rapida, per facilitare le fughe repentine, ma in realtà sembra siano tollerati o addirittura ignorati dagli agenti: credo che la pantomima del fuggi fuggi che scatta alla comparsa di una loro auto faccia parte delle attrattive turistiche, perché non una volta ho visto l’auto fermarsi e gli agenti scendere. E ho anche notato che ci sono pochissimi mendicanti, a smentire l’immagine che della città davano gli scrittori spagnoli fino a tutto l’800. Ancora, ho mangiato bene, e molto, ovunque, a prezzi più che onesti, esattamente quelli dichiarati nei menù esposti, ho ritrovato intatto lo zainetto che avevo dimenticato in trattoria e sono stato pazientemente e cortesemente assistito a più riprese dagli addetti di fronte ad ogni operazione di prelievo, versamento o acquisto automatizzato, che per me costituiscono ostacoli quasi insormontabili. Cose che possono apparire normalissime, ma nella mia quotidiana battaglia in patria non lo sono affatto. Infine, fondamentale, ho avuto accesso gratuito a tutti, sottolineo tutti, i musei della città, semplicemente esibendo il documento d’identità con su scritto Dirigente scolastico (in qualche caso non ne ho avuto neppure bisogno, perché nei festivi l’ingresso è gratuito). Da noi non sono considerati validi neppure gli attestati specifici rilasciati dalle scuole.

Ora, magari sono stato fortunato, o magari sono altri i parametri di giudizio da adottare: ma per quel che mi riguarda Madrid (e così anche le altre due città che ho visitato) è promossa a pieni voti.

Veniamo ora a quel che ho fatto, che non è poi granché diverso da quel che fanno tutti i turisti. Ho appunto visitato tutti i possibili musei, a partire dal Prado, ma ho trovato eccezionale, per come è strutturato e per quel che offre, soprattutto il Thyssen-Bornemisza. Vi sono ospitate, tra l’altro, alcune tele stupende dei miei negletti paesaggisti nordamericani, Bierstadt, Church e Cole, e persino di George Catlin (non una delle loro opere è presente nei musei italiani). Al Prado la sala dedicata a Jeronimus Bosch vale da sola il viaggio sino a Madrid. Al contrario, al Reina Sophia faceva un po’ specie vedere la folla accalcarsi ad ammirare “Guernica” (che, diciamolo, al di là del valore ideologico è un grande falso, furbescamente costruito) e ignorare completamente le opere di Tanguy e di Magritte. Dal momento che a me interessano più i visitatori che le opere, e che ero in grado di cogliere solo i commenti degli italiani, limitati in genere alle lamentele per la lunga coda sotto il sole giaguaro del primo pomeriggio, non ne ho ricavato un gran campionario. Solo, all’uscita della sedicesima sala dei pittori novecentisti spagnoli, un: “A Marià, m’hai fatto rostì n’ora là fori, pe’ ste du’ palle!”

Ho fatto naturalmente anche la cosa più turistica che si possa immaginare, quella che ho sempre pensato riservata ai giapponesi. Ho preso il bus che fa il giro della città, quello col piano superiore scoperto, e non me ne sono pentito affatto. Col biglietto giornaliero si può scendere a ciascuna delle fermate previste e risalire sul mezzo successivo (ne transita uno ogni dieci minuti), e la cosa è estesa anche al circuito esterno, che porta nelle zone più periferiche. In questo modo ho potuto constatare come la pulizia e il risanamento abbiano toccato o stiano toccando ogni parte della città. Sono stati operati interventi ciclopici, per destinare ad esempio al verde pubblico immense aree in pieno degrado, che un tempo accoglievano attività produttive ormai obsolete. Ma il verde non manca nemmeno al centro della città: il parco del Retiro mi ha consentito di difendermi egregiamente dal solleone nei pomeriggi più torridi, in mezzo ad un silenzio vivo, animato.

Non mi sono comunque limitato alle visite d’obbligo. Avevo in mente alcune mete ben precise. Sono dunque andato in traccia di Cervantes: ho visto la casa in cui ha abitato nell’ultimo periodo (in Calle Cervantes, naturalmente: tra l’altro, una parte dell’edificio è in vendita, e mi sono informato sul prezzo), ho visitato la sua tomba nel convento delle Trinitarie Scalze (una delusione: una lastra marmorea recentissima, con su una breve frase del poeta e per il resto completamente spoglia, che fa a pugni con l’arredo pesantemente ma coerentemente barocco grondante dalle pareti e dal soffitto della chiesa), ho mangiato (bene) nel ristorante Cervantes (che chissà perché si spaccia per ristorante italiano – il cuoco è cinese, il padrone spagnolo, il cameriere sudamericano) e ho cercato libri antichi (troppo cari per le mie tasche) nella libreria Cervantes y Compañia (comunque, un gioiellino). Forse, dopo questa immersione, mi deciderò a rileggere come si deve il Don Chisciotte. Nella stessa via è nato ed ha abitato per tutta la vita anche Lope de Vega, che a quanto pare se la passava bene, perché la casa è piccola ma molto carina, e ha mantenuto tutti i tratti originari: i due comunque non si sopportavano, e immagino che, abitando a brevissima distanza, abbiano dovuto fare salti mortali per non incontrarsi. Lope mi è caro, come si suol dire, “di sponda”, per la traduzione e la messa in scena di molte sue opere da parte di Camus. Rileggendolo con gli occhiali camusiani ho scoperto un autore incredibilmente attuale, ma di una modernità che sta agli antipodi di quella del Chisciotte. Ho anche cercato e trovato, ma non visitato, la casa di Ortega y Gasset. La mappatura dei luoghi nei quali i nostri autori preferiti hanno trascorso la loro esistenza, specie se erano sedentari e abitudinari come Ortega e Lope, non è l’attività puramente collezionistica e gratuita che potrebbe sembrare: l’orientamento delle loro finestre spiega al contrario moltissimo di come vedevano il mondo. Ad esempio, Ortega y Gasset abitava proprio di fronte all’ingresso principale del parco del Retiro, di quello cioè che, complici le giornate torride, mi è sembrato un vero e proprio eden: e deve aver assistito con angoscia alla sua crescente appropriazione e magari indisciplinata frequentazione da parte dei borghesi e dei proletari massificati nel periodo tra le due guerre. Dalle sue finestre assisteva alla progressiva “dissacrazione del mondo”, non temperata da una crescita di istruzione e quindi della capacità individuale di responsabilizzarsi. Per questo ne “La ribellione delle masse” prefigura l’avvento prossimo del populismo fascista e anche quello più remoto, quello al quale stiamo assistendo, del populismo mediatico “democratico”.

Non c’è però solo Madrid, di cui pure, anche dopo una permanenza di una sola settimana, rimarrebbe molto altro da dire. Ho visitato, con blitz giornalieri, le due città più vicine alla capitale, Toledo al sud e Segovia al nord, attraversando per arrivarci un paesaggio lunare (soprattutto nel viaggio verso Toledo): brullo, piatto, bruciato completamente dal sole. Mi sono chiesto come potessero sopravviverci le pecore di cui il cavaliere della Mancha fa strage, nella totale assenza di un solo arbusto o filo d’erba verdeggiante. E ho anche visto, ai margini dell’autostrada, le scorie di un boom che per qualche anno, a cavallo tra i due millenni, deve avere dato alla testa agli spagnoli: intere aree commerciali e industriali abbandonate, capannoni tirati su in tutta fretta quindici o venti anni fa e già vuoti e fatiscenti, che in prospettiva non saranno neppure rimangiati dalla vegetazione perché vegetazione non ce n’è, e che avviliscono ulteriormente con la loro bruttura e il loro messaggio di precarietà un panorama già di per sé desolante.

Tanto più sorprendente è dunque trovare quasi all’improvviso, in un simile ambiente, piccole città che conservano intatta tutta la loro bellezza storica e architettonica, e che investono sul turismo senza lasciarsene, almeno per il momento, deturpare. Segovia, in particolare, ha attivato tutti i miei sensori alla bellezza, resi ancora più acuti proprio dallo squallore sofferto durante il viaggio. C’è un acquedotto romano perfettamente integro, che sovrasta di trenta metri l’ingresso della città e unisce per una lunghezza di oltre settecento i due versanti della valle. È costruito con blocchi di granito posati a secco, che si reggono a incastro, e sta lì da duemila anni, mentre i nostri ponti autostradali crollano dopo nemmeno mezzo secolo: per cento generazioni, quelle di coloro che vivevano alla sua ombra o che lo scorgevano di lontano, ha simboleggiato tanto la grandezza del passato quanto la sicurezza di una continuità nel futuro; anche perché fino ad un paio di decenni fa è rimasto attivo, continuando a rifornire d’acqua metà della cittadinanza.

Un discorso analogo vale per la cattedrale, o per l’incredibile Alcazar, ma anche per qualsiasi altra vestigia dell’altrieri, chiese, palazzi nobiliari o case borghesi, botteghe artigianali. Mentre ne ammiri il disegno o la semplicità elegante o la ricchezza non puoi non pensare alle sofferenze di tutti coloro che queste cose le hanno costruite, alle fatiche che sono costate, alle ingiustizie di cui sono impastate le mura, i pilastri e le colonne; ma hai l’impressione che un sia pur minimo riscatto di tutto ciò arrivi proprio dalla loro durata, dalla sfida vittoriosa al tempo e dalla testimonianza di un gusto del bello che ancora ci affascina ma che non siamo più in grado di coltivare concretamente.

Queste considerazioni valgono naturalmente per ogni luogo che abbia mantenuto ben visibile il suo rapporto con la storia, quindi non sono applicabili solo alla Spagna. Ma la mia impressione è che in terra spagnola questo rapporto sia davvero ancora pulsante, sia molto più intensamente e genuinamente sentito che dalle nostre parti. E che non si traduca dunque solo in un feroce campanilismo interno o in atteggiamenti sciovinisti nei confronti dell’esterno. Non so per quanto tempo ancora gli spagnoli riusciranno a gestirlo positivamente, senza scadere nelle caricature rozze e ideologiche dietro le quali altrove si nasconde la realtà dell’uniformazione culturale. Al momento, visto che anche a prezzo di una lunga “marginalità” storica hanno conservato quasi intatte e, sia pure per necessità, bene o male funzionali le loro vestigia storiche, sembrano ancora capaci di difendersi. È un’impressione a pelle, ripeto, limitata a una porzione molto piccola e probabilmente molto particolare del paese. Ma è sufficiente a farmi pensare che la Spagna sia un paese molto vivibile (sempre che i suoi abitanti si diano in tempo una calmata).

Da ultimo, aggiungo un paio di digressioni estemporanee, che non hanno a che vedere con lo specifico spagnolo, quanto piuttosto con l’occasione creata dal viaggio.

Mi era già capitato molte altre volte di cogliere in mezzo alla folla delle fisionomie famigliari, ma a Madrid il riconoscimento da casuale è diventato ad un certo punto intenzionale, scatenando un vero e proprio gioco di ricerca. Tutto ha avuto inizio quando ho incrociato in una calle un tizio che somigliava come una goccia d’acqua ad un mio conoscente di Montaldeo. Stavo per avvicinarmi e salutarlo, ma mi sono trattenuto all’ultimo momento, quando anche lui ha incrociato me e non ha dato segno di riconoscermi. Ancora sotto l’impressione di quella straordinaria epifania, nemmeno un’ora dopo ho incontrato su un passaggio pedonale il sosia quasi perfetto di un altro conoscente. Non l’ho salutato ma mi sono bloccato a metà dell’attraversamento, a vederlo allontanarsi di schiena, rischiando di farmi investire da un automobilista impaziente. Di lì è partita, ed è andata avanti anche nei giorni appresso, una serie di altre quasi-agnizioni, favorite ormai dal fatto che in tutti i volti che incrociavo cercavo le possibili somiglianze.

Per fortuna il gioco non si è fermato lì. Sarebbe stato piuttosto stupido. Mi ha portato invece a riflettere sul senso e sull’origine di queste somiglianze, con un percorso altrettanto strampalato, ma che penso valga la pena ricostruire sommariamente. Si dice che ciascuno di noi abbia in qualche parte del mondo almeno un sosia. A me pare una bufala colossale, ma è anche vero che su sette miliardi di persone, o su due se escludiamo gialli, neri, andini e ed esquimesi, qualcuno che ci somigli parecchio potrebbe ben esserci. Non ha dunque senso sperare (o temere, a seconda dei caratteri) di incontrare un sosia, mentre è interessante definire tutta una serie di particolari tipologie morfologiche, che possono essere anche trasversali rispetto al colore o ai caratteri specifici che in genere connotano un’etnia.

Senza tirarla troppo per le lunghe: i “tipi” fisici individuati dalle varie scuole fisiognomiche, da Aristotele a Lombroso, passando per Giovanbattista della Porta e Lavater, in effetti esistono. Sono senz’altro da rigettare le correlazioni dirette tra l’aspetto esteriore e le qualità dell’anima, o il carattere, se vogliamo metterla giù in termini laici, soprattutto quelle individuate dalla deriva pseudo-scientifica lombrosiana o ipotizzate a supporto dell’ideologia razzista, ma non si può nemmeno escludere che le successive ricombinazioni genetiche agiscano entro uno spettro vastissimo, e pur tuttavia limitato. In altre parole, sono convinto che la determinazione genetica di alcuni caratteri fisici (alto, basso, esile, massiccio, ecc…) combinandosi con le condizioni ambientali (naturali, sociali e culturali), determini o favorisca l’assunzione di comportamenti o modelli di pensiero simili. E che ciascuno di noi sia dotato di sensori “naturali” per il riconoscimento di tali caratteri, se sa dare loro ascolto.

Questo con Madrid non c’entra niente, ma a me trasmette una certa sicurezza. Ho l’impressione di sapere “a pelle”, anche a migliaia di chilometri di distanza dalla nicchia dei miei rapporti consueti, con chi ho o potrei avere a che fare. E devo dire che in genere la cosa funziona. A Madrid, ad esempio, ha sempre funzionato.

Infine, un passaggio al volo. Anzi, all’imbarco per il volo. Al momento della prenotazione del biglietto le compagnie offrono la possibilità di accedere, per una decina di euro in più, alla priority di imbarco: tradotto, sali prima sull’aereo. Dal momento che i posti sono comunque già assegnati (e non in base alla priority), e che allo sbarco l’uscita è vincolata unicamente alla distanza dal portellone, l’unico vantaggio è appunto quello di imbarcarsi con qualche minuto d’anticipo. Al Gate 20 dell’imbarco per Bergamo la fila della priority era sei volte più lunga di quella dei viaggiatori “ordinari”: col risultato che tra gli ultimi della priority, che avevano pagato dieci euro in più, e gli ultimi della fila normale non è trascorso nemmeno un minuto, sempre ammettendo che stiparsi uno o dieci minuti prima in quella scatola di sardine comporti un qualche vantaggio. Mi è venuto in mente l’episodio del cancelliere Ferrer: E tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guardare da quella parte donde s’annunziava l’inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano né più né meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant’è, tutti s’alzavano. E ho pensato che quando gli irriducibili come me saranno ridotti a meno del dieci per cento, la compagnia dovrà abolire la possibilità di accesso ordinario e inventare qualche nuova forma di priorità.

Insomma, sono andato a Madrid in cerca di Cervantes, e sulla via del ritorno ho ritrovato Manzoni. Se si spegne la tivù, anche in Italia è rimasto qualcosa di buono.


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Beato chi lasciò presto il festino

Variazioni intorno alla figura del viandante

di Marcello Furiani da Sottotiro review n. 5, novembre 1996

1.

Il viaggio, luogo privilegiato dell’immaginario mitico e romanzesco, si manifesta essenzialmente in due forme classiche: il viaggio come prova, percorso doveroso per l’eroe alla conquista di una meta, e il viaggio come educazione, come conoscenza e crescita che preventiva il ritorno in qualità di momento finale.

Via, via dagli uomini e dalle città
verso il bosco selvatico e le dune
alla silenziosa selvatichezza
dove l’anima non deve reprimere la sua musica
per timore che non ne trovi
un’eco nella mente degli altri.
PERCY B. SHELLEY

Ci imbattiamo poi in un terzo modello di viaggio, nel quale gli obiettivi si allentano, i profitti restano più impliciti, racchiusi nel momento e nel gesto stesso del viaggiare: mi riferisco al vagabondaggio in tutte le sue forme, dal ramigare all’errare, ad un movimento erratico in cui la linea che unisce due punti non è quella retta (cioè la più economica e la meno speculativa), ad uno spostamento che non ha necessariamente nemmeno il fine di unire due punti. Il viaggio come erranza, divagazione, deriva.

Questa idea del viaggio è la più “moderna” e quindi ha una storia più recente delle precedenti. Ma prima di ripercorrere, senza presunzione di esaustività, la figura del viandante attraverso personaggi letterari, vediamo di definirla più precisamente.

Il viandante non possiede una casa: si sposta di città in città, di villaggio in villaggio, dorme dove accade, talora viene ospitato. Pur essendo una figura che si situa ai margini, non è un antisociale. Spesso è un giovane, piacevole e attraente, non di rado sa suonare o cantare, intreccia nei suoi brevi soggiorni piccole storie d’amore, è capace talora di parole profonde e illuminate. Ma tutto ciò dura poco, perché il viandante riparte mimando col suo continuo allontanarsi la parvenza delle cose, il doppio effimero di qualcos’altro che si sottrae e si dilegua, l’inespugnabilità di ciò che egli stesso vagheggia. Ogni luogo lo soffoca, ogni luogo è un luogo sbagliato che tradisce e consuma: il viandante è alla ricerca infinita del luogo che non c’è, cioè dell’utopia.

Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due? 
BRUCE CHATWIN

Nel Lieder einer fahrenden gesellen (I canti di un giramondo) di Gustaf Mahler il protagonista procede al passo di una marcia funebre nel viaggio verso “l’estrema provincia della memoria”: l’assenza di una patria, di una heimat è quindi anche la morte, il luogo definitivo.

Il viandante sa che ogni cosa finisce e se decidesse di fermarsi non sarebbe per sempre: per ciò riparte. Nel finale del Eugenio Oneghin di Puskin l’autore prende congedo dal proprio personaggio esprimendo il desiderio di tutti i viandanti: “Beato chi lasciò presto il festino / della vita e il boccale pien di vino / non vuotò fino in fondo, chi ha saputo / staccarsi dal romanzo suo più caro / come da Oneghin ora io mi separo”.

Nella letteratura ci si inbatte spesso nella figura del viandante, o flaneur o wanderer; soprattutto la letteratura romantica è abitata da questo personaggio, confermando che l’anima romantica è un’anima nostalgica, inqueta, notturna, inappagata, che iterativamente vagheggia qualcosa che sta al di là dell’immediatamente sensibile. Il viandante ha in se l’inesausta smania e l’inestinguibile struggimento per l’altrove, la romantica sehnsucht, quella che Rousseau chiama una fitta del cuore verso un’altra forma di godimento e di possesso. Tutto ciò cambia il movimento in un errare senza sosta, privato di un risolutivo nostos: come osserva Nietzsche in Umano, troppo umano il ritorno si addice al viaggiatore diretto ad una destinazione, non al viandante che non conosce meta e configura il compimento del proprio destino nella provvisorietà e nell’instabilità.

2.

La Storia di un fannullone di Joseph Von Eichendorff è un’alternativa alla realtà, non un’evasione dalla storia, è la nostalgia di una dimensione umana integra e libera, non un superamento del passato.

La poesia è nella vita feriale e diretta; non c’è l’inquietudine per un ‘oltre’ inconseguibile: solo l’appagamento di ogni battito del fluire della vita in un’identificazione dello spirito con il respiro cosmico, altrettanto umano quanto i tormenti e gli affanni delle anime del Romanticismo. Tutto è epifania, eppure il dolore si comprende presente, per nulla soffocato da un ottuso ottimismo o da una furia trionfalistica; lo si indovina come l’altra faccia della gioia e ciò dà credito, più di ogni altro pensiero, alla possibilità di sentirsi in corrispondenza con il vivere in tutta la sua apparente semplicità. Ciò accade a differenza, per esempio, delle pagine di Hans Christian Andersen, delicate ed idilliche, nelle quali – si veda la novella “Compagno di viaggio” – la figura del viandante puro di cuore e nomade nell’anima si muove in una natura stilizzata e priva di profondità, senza altezze e senza ombre, colorata ma inodore. Il viandante di Andersen rimuove il dolore e la tragedia, avvolto e annebbiato in una visione cristiana dell’esistenza diluita da un ottimismo filisteo e semplicistico.

Intorno non si vedeva anima viva e non si sentiva rumore. Per altro, vagabondare a quel modo era bellissimo.
JOSEPH VON EICHENDORFF

In Eichendorff il fascino del vagabondo in continua fuga, inesausto nella capacità di cantare e di essere felice, è nel ritrovare passo dopo passo lo stereotipo previsto e puntualmente mai disatteso: ciò che realisticamente è l’imprevedibile corrisponde con l’estremo prevedibile della fantasia; ogni elemento del proprio immaginario d’avventura trova spazio nella sue pagine.

I personaggi di Robert Walser sono viandanti che si aggirano per il mondo, osservano la vita, si mimetizzano svestendosi della coscienza, volgono la propria attenzione a fuggevoli dettagli apparentemente trascurabili, non si concedono a nulla in fedeltà ad una condizione d’assenza. Vivono in un eterno presente, sognano una vita come attesa, vigilia di promesse senza modello né costrutto. Nel loro ritirarsi perpetuano infinitamente il congedo, annullati in una nozione del tempo estremamente incerta e indeterminata, quasi per una volontà di perdersi in qualcosa che trascende.

La condizione del viandante disposto ad ogni esperienza non entra in contraddizione con questa modalità, in quanto la libertà per i personaggi walseriani è predisposizione a non legarsi, a non entrare in contatto con alcunché abbia una forma definita: è un’immobilità che si nega al gesto che spartisce il mondo.

Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io mi imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto. 
ROBERT WALSER

Eppure di quale leggerezza e di quale profondità sono capaci le figure di Walser. Il loro sguardo è lieve e acuto, come quello di chi, non mettendo in gioco se stesso, coglie la bellezza gratuita del mondo e contemporaneamente lo osserva con ironia per quello che è nel suo orrore, nei suoi rapporti di forza, nella morte che è propria delle strutture e dei rapporti sociali irrigiditi.

Ma i suoi viandanti, lievi, trasparenti e fatalisti non sono dei rivoluzionari: non cambiano e non vogliono cambiare nulla, non hanno altra aspirazione che condurre una vita vagabonda, alla periferia di cose e persone con le quali si trastullano senza farsi toccare, quasi che non vi sia nulla oltre la loro superficie, che il loro statuto ontologico sia la loro stessa inconsistenza.

Il vagabondare senza meta fissa è un topos della poesia lirica dal pre al post romanticismo, al punto che ancora nel 1885 Gustav Mahler intendeva il viandante come personaggio del suo ciclo di Lieder Lieder eines fahrenden gesellen, in termini che si adattono altrettanto bene alla Winterreise schubertiana e ad altre centinaia di composizioni poetico-musicali. Nella maggioranza dei casi il Viandante – che diventa il Solitario – esercita il proprio sentimento della natura su fioriti paesaggi primaverili e boschi lussureggianti, donde il contrasto tra la solitudine interiore dell’io e il circostante trionfo della vita e della bellezza. Ma nei Lieder di Mahler e di Schubert la meditazione sul senso dell’esistenza, sulla immutabile presenza della morte, si svolge sullo sfondo di una natura livida e cupa e per ciò stesso partecipe: l’osservazione della natura è il parallelo dell’indagine sullo spirito. Si respira uno stato di vita sospesa, congelata, immobile – assai simile a certi dipinti di Caspar David Friedrich – dove il pensiero del viandante si riduce a rimuginazione ossessiva di ferite narcisistiche e grandiose fantasie compensatorie.

Il viandante diventa straniero al mondo ed erra sospinto da una condanna senza colpa, portatore di un’immedicabile ferita al cuore, che lo trascina verso la distruzione, simbolo ingigantito dell’uomo romantico in preda ai suoi sentimenti, dello straniero senza casa sulla terra gelata, del fuggitivo dal mondo, escluso dalla compagnia degli uomini con cui non ha più sentimenti in comune, dalla forza sovverchiante e autodistruttiva delle sue emozioni. Non c’è scampo all’inesorabilità del lungo cammino verso la morte – dalla quale per altro il viandante si sente attratto – espresso sia con doloroso realismo, sia con un espressionismo visionario.

Walter Benjamin ricorda anche Knut Hamsun come un altro autore capace di creare la figura del fannullone perdigiorno, randagio e sbandato. Versione moderna e tragica, il viandante di Hamsun incarna vitalità, durezza, pietà, nichilismo e protesta: è un distruttore e contemporaneamente un lacerato capace di rilevare l’irrazionalità dell’esistere, con il gesto altero del personaggio epico, frugando impietosamente nella miseria materiale e spirituale dell’uomo moderno. Ma finisce per esserne accecato e cerca nella fuga dai legami sociali l’immediatezza della vita non contaminata dalle idee; si muove spinto da una sprezzante ribellione che ne fa, paradossalmente e inconsapevolmente, un intellettuale modernissimo e anticipatore, nell’alienazione e nella perdita, del nuovo.

Il percorso del viandante di Hamsun conduce alla nevrastenia: fugge davanti alle patologie della società moderna fraintendendo la modernità come patologia, rimanendone vittima e tanto più irreversibilmente condizionato dai legami sociali quanto più si illude di affrancarsene. Ondeggiando tra la brama di un inattuabile assoluto sovratemporale e un compiaciuto sguardo alla caducità di ogni cosa, tentando di avversare il senso univoco delle ideologie con l’informe indefinitezza delle cose e della natura, che pur resta sempre irreparabilmente lontana, approda all’anti-ideologia. La sua ribellione s’irrigidisce in un nichilismo che non ha altri approdi se non quelli di una tendenza regressiva e di un atteggiamento reazionario.

Il viandante dei romanzi di Hamsun, crudele e tenero, sprezzante e fragile, compiaciuto del disordine del mondo, è un inconscio alla deriva che si tutela dalla realtà esterna con vomiti di parole e sequele di gesti provocatori e stonati, è l’io psicologico borghese disgregato, riluttante nel prendere coscienza che il suo destino è solo la vana forma di una vita errabonda, segnata dalla sconfitta e avvilita dall’ostinazione al disprezzo.

Nelle pagine scritte da Walter Benjamin il flaneur si muove come figura di passaggio, che attraversa una sorta di altrove, di sconosciuta città in un orizzonte all’imbrunire, immagine incerta e dubbia, sostanzialmente tragica. Sospeso nel tempo e nello spazio, è sicuramente straniero alla folla, talmente estreneo ai suoi ritmi da apparire in netto contrasto con il processo produttivo.

La città è uno sterminato panorama, quasi il luogo di una rappresentazione teatrale, che desta nel viandante una primitiva curiosità che i suoi occhi alieni e pacificanti cercano di soddisfare. Fondamentalmente è un ozioso, di un’inoperosità che è soprattutto irresolutezza: predominando in lui il dubbio, tutto diventa possibile anche se irrealizzabile.

Può essere permesso ad un vagabondo di disporre degli ultimi istanti come più gli piace?
KNUT HAMSUN

Eppure quanta nostalgia percorre ogni suo passo: ma il flaneur non possiede un passato né una memoria personale: la sua è nostalgia di una vita anteriore, del tempo dell’infanzia. Il viandante è in Benjamin una figura senza tempo e senza storia, il cui motivo di desistere consiste nel “dare un’anima” alla città altrimenti amorfa. In effetti nella Parigi fantastica disegnata da Benjamin pesa come un sasso il vuoto di un’assenza, al di là dell’alacrità delle occupazioni dei suoi abitanti, dominati in sostanza dalla ripetitività del culto che celebrano, quello che l’autore chiamerà culto della merce. Il flaneur benjaminiano è in una comunità immobile e inaccessibile alle novità l’esule che incarna inconsapevolmente la totalità dell’esperienza originaria, l’unico l’uomo a cui sia stata data in sorte l’inattività, in virtù della sua capacità di sognare.

L’utopia di Benjamin, uomo senza patria, è di tornare a ciò che è spezzato, di ridare vita alle cose morte, ma ciò dissimula il desiderio di tornare nelle tenebre, nell’abbandono del non essere, di riavvolgersi verso la propria origine.

La purezza del viandante lo rende impotente di fronte al mondo, da cui per altro nemmeno viene riconosciuto nella sua condizione di estraneità. Ma la sua stessa speranza di non avere una meta, di non arrivare, è la vana illusione di restare nell’infanzia dell’uomo e di non approdare a quello che Benjamin chiama l’“uomo-sandwich”, diventando egli stesso merce venduta al mercato, identificato con il valore di scambio, a proprio agio ormai nell’essere ritenuto vendibile.

Il flaneur oscilla tra queste due inconsistenze: l’estraneità più radicale e la contestualizzazione più omologante che lo prosciuga da ogni parvenza di identità. Può solo, nel suo continuo movimento che simula l’immobilità, mostrarci quanto sfolgorante, fantastico, eccessivo e fragile sia il fiore dell’utopia.

Il tempo presente è il tempo della disperazione, il tempo dell’Ebreo Errante.
SOREN KIERKEGAARD

L’erranza, la tragica volubilità nello spazio, nell’esperienza e nel tempo è specificità che descrive non di meno la figura dell’Ebreo Errante, è la sostanza dell’espiazione per chi non ha compreso e riconosciuto il Messia, con la contraddittoria valenza di seduzione e di maledizione che il rapporto con il sacro implica.

Il mito dell’Ebreo Errante è come pochi altri un mito incompiuto, variamente rappresentato e interpretato nel corso dei secoli, attraverso diversi generi (dalla prosa alla poesia, dalla pittura al folclore) e difformi registri (dal comico al tragico, dal dolente al farsesco). Se il mito popolare fa dell’Ebreo Errante un personaggio per racconti popolari, ballate di menestrelli, melodrammi, balletti, opere liriche e romanzi d’appendice (basti ricordare L’Ebreo errante di Eugéne Sue, in cui l’eroe diventa una metafora del popolo sfruttato e l’errare un’allegoria della fatica del lavoro), sono i poeti, i prosatori, i filosofi e i pittori a costruire su questa figura il mito letterario.

Ripercorrere le tappe della rappresentazione di un mito significa anche attraversare la storia delle idee: così si passa dal viator medioevale che testimonia la verità, investito di una maledizione inemendabile, alla riabilitazione del philosophe illuminista, in cui l’erranza diviene memoria del tempo del mondo, diventa una condizione privilegiata da cui distinguere e tradurre i mali che angustiano la società contemporanea dell’autore. Parallelamente alla figura del viaggiatore ed esploratore, nel ‘700 prese forma anche un Ebreo Errante avventuriero, imbroglione, impostore e baro da cui discende il personaggio inquieto e malinconico che appare fugacemente ne Il monaco di Matthew G. Lewis, in cui, tra l’altro, assistiamo ad una delle prime commistioni del mito dell’Ebreo Errante con quello del Faust. Questa contaminazione, figlia dell’epoca dell’occultismo e dell’esorcismo, fu determinante nella metamorfosi dell’Errante da testimone delle verità cristiane a personaggio dedito alla stregoneria.

L’Errante diventa in seguito l’incarnazione dell’inquietudine e della disperazione romantica: il gusto per il primitivo, per i miti popolari e cristiani, la predilezione per il trascendente e le problematiche religiose tipici della spiritualità romantica si accordano ad un personaggio il cui destino è eccezionalmente unico e tragico, il cui passato è oscuro e ambiguo, la cui colpa suscita orrore e perplessità, il cui desiderio è eternamente inappagato e la cui attrazione verso la morte è il riscatto dal dolore e dalla afflizione.

Mitigando la figura dell’Ebreo Errante della sua singolarità ebraica i romantici acuiscono positivamente le facoltà del mito: la loro sensibilità avverte dolorosamente i caratteri di esilio, di solitudine, di scacco e di disperazione dell’errante e li traduce in veggenza e saggezza, accentuandone l’anima di déraciné e maturandone gli aspetti di ribelle che predilige la libertà dell’inferno alla schiavitù del cielo, figura debitrice del Satana di John Milton.

Il mito continua, trascinando le proprie ambiguità e le proprie contraddizioni, ma ricavando vitalità dalla propria leggenda, come gli Ebrei Erranti di Marc Chagall che volano sopra Vitéck, poiché il viaggio è eterno come l’inferno cristiano.

Nel dipinto di Caspar David Friedrich Viandante sul mare di nebbia del 1818 l’immagine transita dalla più diretta vicinanza alla più radicale lontananza: questa distonia dello sguardo traduce la frattura fra l’uomo e l’assoluto. Ma questa misura tragica si dissimula in una contemplazione idillica, pur trasparendo come in filigrana un irreparabile struggimento per distanze impenetrabili, per lontananze inconseguibili. Il viandante di Friedrich esprime il proprio scacco attraverso l’opposizione di una dimensione interna e di uno spazio esterno che si toccano senza penetrarsi, dando forma ad una sensazione di vertigine e di smarrimento.

Vuoi avermi con te, ma quell’io che ti piace non desidera stare con te. Devo essere solo e sapere che sono solo per poter veder e sentire pienamente la natura. 
CASPAR DAVID FRIEDRICH

Esso è evidentemente una figura di passaggio, colta nell’attimo in cui si è temporaneamente fermata e, fermandosi, misura la propria condizione di estraneità al paesaggio nella sola possibilità di contemplazione, nella propria impotenza a divenire una cosa con esso. Raffigurato di spalle – come moltissime figure di Friedrich – il solitario déraciné trasmette, oltre al mistero del proprio sguardo negato, la vulnerabilità di chi è visto a sua insaputa. Il viandante guarda in avanti, pur escluso dallo spazio sconfinato cui non appartiene, in un cupo desiderio di qualcosa che non accade: per altro il tempo del viandante è un tempo sospeso, immobile, raggelato nell’“hic et nunc” d’un eterno presente, che pur suggerisce l’inarrestabilità della dissoluzione, cioè la morte. Ma la sua anima non si appaga né si placa in una compiaciuta contemplazione della natura.

Il personaggio non ci narra una storia o una vicenda ma, attraverso la propria agghiacciata solitudine e il confine che impietosamente la racchiude, esprime con asciutto dolore l’impossibilità della mente di comprendere (in senso etimologico) l’infinito e la coscienza dell’inafferrabilità del mondo nella sua essenza, tragicamente percorsa da un disperato anelito ad un’osmosi con l’assoluto e la totalità.

Non c’è quiete né casa nel destino di Holden Caulfield, protagonista di The Catcher in the rye (Il giovane Holden) di J. D. Salinger, e di Dean Moriarty, personaggio di On the road (Sulla strada) di J. Kerouac; soggetti la cui condizione si definisce con il loro vagare incessante, sono tra i più famosi prototipi di erranti della letteratura americana.

Ciò che li muove sembra essere una sorta di esigenza esterna alla propria volontà e alla propria consapevolezza, nonostante il rifiuto dei valori della società a loro contemporanea, la profonda frattura con l’America borghese e benpensante e l’innocenza, la superiorità morale, l’esaltazione dell’individuo che non si uniforma ai preconcetti di una società sempre più corrotta e decadente.

Essi vagano senza trovare la loro patria, quasi dovessero scontare una colpa commessa dall’America nei confronti di se stessa e che consiste nel tradimento di quelle promesse e di quella fede nell’uomo e nelle sue possibilità che avevano fatto sognare scrittori come Ralph W. Emerson e Walt Whitman.

Per i personaggi di Salinger e Kerouac spostarsi continuamente significa, oltre il rifiuto d’ogni forma di tirannia e di prevaricazione, entrare in contatto con elementi essenziali della vita. La loro crescita avviene al di fuori, o più precisamente in polemica con la società: dal linguaggio che utilizzano – estraneo al consorzio perbenista, fasullo e convenzionale – al più volte dichiarato rispetto della verità, al punto di non omettere nulla nel racconto, dai lati più seducenti ai più miserevoli e sordidi, tutto denuncia il tentativo di muoversi al di fuori dei canoni narrativi tradizionali.

Queste narrazioni, quasi diari di viaggio in cui si scruta nel proprio animo alla ricerca della propria identità – una sorta di percorso iniziatico sostanzialmente individuale – sono l’espressione di un disperato desiderio di totalità e di appagamento.

Solo affidando alla scrittura le ragioni profonde del proprio errare spirituale e metafisico i personaggi di Salinger e Kerouac diventano i simboli del tormento interiore, dell’alienazione e dell’inquietudine esistenziale di chi si sente destinato alla precarietà, senza poter trovare qualcosa cui aggrapparsi, senza pace né patria, senza una figura cui affidare i propri turbamenti e i propri dubbi.

La sorte umana è il distacco da ogni luogo e casa ove sostammo.
ERNST JUNGER

Il viandante è, in ogni sua sembianza, il custode dell’utopia, è un soggetto mitico che non utilizza le proprie potenzialità a fini costruttivi: Per questo incarna lo spirito di ribellione, la libertà dell’individuo, la sua dignità elementare e la trasgressione antiproduttivistica.

Ciò avviene in un continuo movimento, che vuol dire anche impossibilità di fermarsi, e soprattutto, rifiuto di raccogliere i frutti. C’è qualcosa per cui la drammatica leggerezza del viandante, la sua fuga dal mondo, la sua vulnerabilità e la sua protervia hanno un che di sacrificale: ciò sta nella sua mancanza. Egli si muove eternamente per cercare qualcosa che non troverà e che forse in fondo non gli preme trovare. In ogni modo, nel momento in cui trovasse ciò che cerca, abbandonerebbe la sua condizione di errante.

Il suo fascino consiste nell’impulso spirituale che lo porta sempre oltre, sempre altrove, ma l’eterno vagare, in qualche misura, corrisponde ad una sostanziale immobilità, ad un andare sempre verso lo stesso luogo o verso nessun luogo, che è il luogo dell’esilio. Così se il viandante addita ciò che potrebbe essere, in contraddizione con ciò che invece è, in realtà non assume mai una forma stabile e compiuta, abbozza ma non conclude, considerando anzi le forme irrigidite e compiute come un irrevocabile indizio di morte.

Il viandante è “l’uomo senza religio”, ossia si nega ai legami familiari e sociali, non possiede casa né patria e, sempre errando, si sottrae ad ogni inalterabile codice morale. Prototipo della protesta romantica contro la pianificazione borghese del mondo, che confina il soggetto nella misura della sua funzione sociale, egli vuole solo vivere, respingendo ogni limite alle potenzialità della vita, per quanto ipotetiche, e rifugge da ruoli, legami, impegni predefiniti che ne imprigionano l’esistenza.

Nell’anima del viandante s’agita una profonda inquietudine, mascherata da uno struggente sogno d’armonia: egli è il figliol prodigo che si nega al perdono paterno, è Caino che si fregia del marchio d’inavvicinabilità impresso sulla fronte, è il nomade guerriero che mitizza l’ethos maschile della lotta e della fraternità d’armi in spregio alla tentazione del sesso e della pietà incarnati dalla donna, è l’antitesi della risolta e responsabile certezza dell’Ulisse omerico. Appartiene ad un’odissea senza Itaca, ben più moderno del viandante dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis, in cui il viaggio prevede il ritorno come momento finale dopo che tutte le esperienze, i dolori affrontati e vinti nel cammino sono integrati ed elaborati dalla sua individualità, in cui tutto si ricompone e si riconcilia nell’armonia di un’identità ritrovata.

Oggi questa totalità umana e poetica ci ferisce di nostalgia, ma non ci compete né ci appartiene: da Musil in avanti – in cui l’uomo è un insieme di qualità senza un centro che le unifichi – il viandante procede in un’odissea senza fine né ritorno, ben lontana dal rassicurante movimento circolare che preserva ed itera l’ordine immutabile delle cose, come nell’Ulisse di Joyce, nelle cui pagine questa legge garantisce senso e assetto nella salvaguardia del soggetto individuale.

Il viandante moderno – come un Don Chisciotte errante in un mondo abbandonato dai significati e dai valori, come un Achab maledetto ed escluso dalla Natura che rimpiange – non ritorna a casa confortato nella sua identità, ma si dispende straniero a se stesso, senza più libertà di riconoscersi, in una realtà spezzata e precaria dove solo la nostalgia (nel senso etimologico del doloroso desiderio di tornare), similmente ad una lingua segreta, può conferire la piena comprensione del sentimento di un’odissea senza ritorno, di un esilio dell’anima tra sforzi d’identità e sofferenze senza riscatto.

 

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Barangain

di Fabrizio Rinaldi, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996

La rivista che stai leggendo è nata per concretizzare le tante discussioni su idee, esperienze, letture che accomunano gli autori. Spesso abbiamo parlato di libri, consigliandoceli a vicenda, affrontando pure la questione del rapporto che abbiamo con essi. Tenterò qui di delineare un percorso che attraversi le principali tappe (o tematiche) che chi ama il libro ha prima o poi affrontato.

Poiché il paradiso del mondo di là è incerto, ma vi è effettivamente un cielo su questa terra, un cielo nel quale abitiamo quando leggiamo un buon libro.   CHRISTOPHER MORLEY

Prima ancora di aver superato l’infanzia, il bambino è costretto ad incatenare i propri occhi a quelle strisce di caratteri apparentemente senza senso. Non comprende il motivo per cui, invece di andare a tirare calci ad un pallone, deve stare lì a balbettare parole semplici, ma che vanno ricavate da quegli scarabocchi sulla carta (“perché devo leggere ma-ti-ta quando posso più facilmente disegnare una matita?”).

L’amore per i libri non è immediato, anzi per nascere ha bisogno di un lungo periodo di incubazione. Nessuno, neppure colui che diverrà bibliofilo incallito, può affermare di aver trovato piacere a leggere durante i primi anni scolastici.

Presto però il neo-lettore si rende conto che dietro al semplice (fino ad un certo punto) esercizio vocale di scansione delle sillabe c’è ben altro. Pian piano prende coscienza che ha tra le mani un nuovo gioco, paragonabile ai Lego, con il quale ha l’opportunità di crearsi un mondo tutto suo. Qui i mattoni sono le parole, e per capire la “costruzione” queste vanno lette in un certo ordine, che la maestra chiama “periodi”.

Con quella di leggere cresce anche la capacità di scrivere e il paragone con i Lego si completa: ora anche il ragazzino è in grado di fare delle costruzioni con le parole. Ma questo appartiene ad un altro mondo, quello dello scrivere.

A questo punto della crescita del novello lettore possono intervenire due eventi: il primo è il rifiuto della parola scritta, il secondo una simpatia che con gli anni diverrà vero e proprio amore.

Il ragazzo che comincia a leggere è spinto a farlo essenzialmente dalla sua curiosità verso piccoli eventi, spesso insignificanti. Questa prerogativa è insita nel bambino, ma in genere va scemando col divenire adulti. Solo in chi legge assiduamente, e non solamente la Gazzetta dello Sport o consimili, questa curiosità ancestrale rimane, e viene soddisfatta dalla ricerca che il lettore fa all’interno e all’esterno del libro stesso.

Cominciando ad indagare il rapporto che il lettore abituale instaura con l’oggetto della lettura, ci rendiamo conto che quest’ultimo offre solamente lo sfondo delle vicende narrate (l’autore lo si potrebbe paragonare, nel mondo del cinema, al soggettista o al sceneggiatore); i primi piani, i particolari sono a completa discrezione del lettore. Al ragazzo che passa dai soldatini al libro viene aperta una finestrella in un mondo tutto da scoprire, in cui diviene comparsa, protagonista e regista, separatamente o contemporaneamente.

[…] abbandonandomi alla più cara delle mie abitudini: l’arbitrio della conversazione. Alle mie spalle sento il riposo della mia biblioteca.      XAVIER DE MAISTRE

Ciò segue la differenza con quanto invece offre la “scatola ipnotica”, la quale ci presenta un prodotto preconfezionato, che inibisce i nostri desideri e le nostre passioni, appiattendo ogni personale emozione, e propinandone altre omologate. La distinzione tra chi preferisce leggere e chi si bea dei programmi idioti che sforna la televisione sta nel fatto che il primo è ancora cosciente della propria esistenza, ha una propria autonomia intellettiva; il secondo non sa più sognare, lascia che altri siano i protagonisti della sua esistenza.

Il libro consente a chi lo scopre una fuga nella fantasia, la creazione di un universo totalmente a misura del lettore. C’è chi preferisce immedesimarsi nei personaggi di Dickens, respirando l’atmosfera ottocentesca di Londra; oppure percorrere in lungo e il largo con Holden la New York di J. D. Salinger; o, ancora, seguire la fuga vera e propria che Bruce Chatwin ha eletto a sistema di vita.

Marguerite Yourcenar scriveva: “La lettura è una specie di porta d’ingresso su altri secoli, altri Paesi, su moltitudini di esseri più numerosi di quanti ne incontreremo nella vita, talvolta su un’idea che trasformerà la nostra, su un concetto che ci renderà un po’ migliori o almeno un po’ meno ignoranti di ieri”.

Chi è assalito dalla mania (malattia?) di leggere è soggetto a richiudersi nel proprio mondo dove il libro è un facile compagno di gioco. La lettura comporta conseguentemente un isolamento dalla società. Presto il “malato” si scontra con l’impossibilità di conciliare l’intensità dei sentimenti che trova nei libri con la pochezza della quotidianità. Si rende conto che il mondo anarchico di Bakunin è del tutto, e soprattutto, utopico (per questo a noi piace tanto!), che l’amore assoluto di Dante per Beatrice è irraggiungibile, che non esiste l’amicizia perfetta descritta ne “L’amico ritrovato” di Fred Uhlman, nella realtà questa se ne va senza tragiche separazioni, semplicemente scivola via.

La troppa immedesimazione nei personaggi letterari può portare a ragionare e a comportarsi come loro (vedi Don Chisciotte). Nel libro ci si rifugia dalle brutture della società, perché lì gli omicidi, gli amori e le disgrazie hanno un senso, una logica, una continuità; cosa che la realtà non sembra possedere: qui regna il caos, tutto pare non avere autore.

Luciano Canfora ne “Libro e Libertà” scrive: “Don Chisciotte che, a furia di leggere, entra nel mondo dei suoi libri e ragiona come se fosse egli stesso un soggetto di quei libri e addirittura vive come quei personaggi, è una creazione inquietante, che incombe, per così dire, come esito possibile sul mondo dei lettori”.

Tutti i giorni affrontiamo il compito di essere lettori di un libro che non ha trama e di cui non capiamo i perché, ma è il nostro mondo e dobbiamo accettarlo come tale, magari cercare di modificarlo, ma partendo comunque dal presupposto che questo è quello reale. Difficilmente torneremo sui nostri passi, quindi compito di ogni lettore è quello di chiudere il libro rifugio, con una trama, un inizio ed una fine, per affrontare i fogli sparsi di tutti i giorni. Tutti i lettori corrono il rischio di combattere contro mulini a vento se non si adoperano a filtrare ciò che contiene il libro e trarne utili appigli per la loro “sopravvivenza quotidiana”, in modo da trovare un compromesso tra la vita reale e quella utopica. Chi legge spera di trovare nel libro una possibile soluzione ai problemi di tutti i giorni: questo però non deve impedirgli di prendere coscienza del fatto che nessun testo, nessun consiglio che questo può dare, sarà determinante nelle scelte della sua vita. Essi testimoniano solo che i nostri crucci, le nostre debolezze, i nostri mal d’animo sono comuni a moltissime persone, compreso l’autore. È un’amara consolazione, ma questo ci fa sentire meno soli.

Coloro che amano il libro, leggendo ne “Il Nome della Rosa” la descrizione del momento in cui Guglielmo da Baskerville entra nella biblioteca del monastero, hanno provato invidia per la realizzazione di un sogno comune a molti: entrare in un mondo nel quale non esistono altro che scaffali zeppi di codici antichi e pergamene, dove l’aria è satura di polvere, il silenzio è quello del culto e della reverenza per la parola scritta. Molti infatti potrebbero fare proprie le parole di Jorge Luis Borges, uno che di biblioteche se ne intendeva parecchio: “Mi sono sempre immaginato il Paradiso come una specie di biblioteca”. All’interno della labirintica torre, il protagonista mette finalmente le mani su un testo che si credeva non esistesse: il “secondo libro della Poetica di Aristotele”. In fondo tutti coloro che amano leggere cercano quel volume, dal quale trasse risposte alle loro domande.

La mia libreria era un ducato abbastanza vasto.    WILLIAM SHAKESPEARE

Il libro lo si deve considerare anche come un oggetto fine a se stesso. Il piacere di possederlo, sentirlo al tatto, ammirare l’iconografia, il tipo di carattere, la rilegatura e l’odore delle pagine vecchie di molti anni, vissuti in segreti scaffali, sono risvolti che chi ama il libro non sottovaluta. Naturalmente questo deve risultare di secondaria importanza rispetto al contenuto, ma ha una sua significativa valenza.

Edmondo De Amicis diceva: “L’amore dei libri è fonte, per se solo, di mille piaceri vivissimi, piaceri della vista, del tatto, dell’odorato. Certi libri, si gode a palparli, a lisciarli, a sfogliarli, a fiutarli”.

Oggi si discute tanto di Internet, di multimedia, di molti libri a cui poter accedere tramite un semplice CD-ROM; tutti dicono che presto il libro si estinguerà. Personalmente non lo credo affatto. Il libro per la sua funzionalità è molto più avanzato del computer. Molto più pratico, più economico e non ha bisogno della spina per essere letto.

L’importanza di possedere un libro sta proprio nel fatto che è lì nella libreria personale, a portata di mano quando lo si vuole leggere, rileggere, spulciare, scoprire; oppure lo si può lasciare lì per anni, magari non leggerlo mai, ma sapere che c’è. Un buon libro può rimanere a “decantare” per anni in una polverosa biblioteca prima che lo si affronti, ma quando questo accade ci compiacciamo del fatto di aver avuto l’accortezza di acquistarlo, e magari aver atteso tanto tempo prima di affrontarlo.

Capita pure che mentre cerchiamo un testo ci rendiamo conto che non si trova nello scaffale sul quale dovrebbe essere. Divenendo sempre più nervosi cerchiamo negli interstizi più oscuri della libreria, ad un certo punto lo sgomento ci assale: lo abbiamo prestato!

Il bibliofilo spesso è in conflitto con due sentimenti apparentemente inconciliabili: il primo la gelosia dei propri testi e la loro conservazione, l’altro il desiderio di condividere con qualcuno le sensazioni che questi hanno suscitato in lui. Il prestito oculato, quello limitato a compagni di lettura accuratamente selezionati, concilia i due opposti. Con questo gesto si trasmettono sentimenti ed emozioni che altrimenti sarebbero difficilmente comunicabili. È pure un modo per dare una continuità a noi stessi. Possedere libri, far partecipi altri della lettura di questi, da l’illusione di realizzare un sogno che da secoli l’uomo insegue: l’immortalità. Avere l’opportunità di scegliere i libri da includere nella propria collezione, arrivando quindi alla realizzazione di una biblioteca che ci caratterizza, diventa la concretizzazione di un risvolto fisico che per sua natura non ha nulla di concreto: l’anima.

Non esistono in un libro risposte a domande come: chi siamo, dove stiamo andando, ma le si possono trovare in una biblioteca costruita con accuratezza; i libri stessi diventano le risposte. In ciascuno di essi troviamo esperienze di vita, enigmi, pensieri che sono i nostri. La lettura crea dei punti di riferimento della nostra vita. Una sintesi della letteratura mondiale e temporale crea nella coscienza del lettore un modello originario, primordiale ed immutabile dei rapporti umani: l’Amicizia, la Morte, la Solitudine, l’Amore, il Patriottismo, l’Esilio, ecc. Questi modelli sono gli obiettivi da raggiungere che ogni lettore si prefigge per poter avere le risposte che desidera, per poter soddisfare la sua sete di sapere.

Esistono pure libri che hanno fornito modelli ideali di comportamento e di pensiero, o hanno indotto il tentativo di renderli concreti. Penso ad esempio al fenomeno della beat generation, diffusosi dopo la divulgazione di testi come “Sulla strada” di J. Kerouac. Oppure, andando indietro nel tempo, a ciò che avvenne nel ‘600, quando fu pubblicato il manifesto “Fama Fraternitatis”, che creò il mito dei Rosacroce. Nessuno può affermare con sicurezza che essi esistessero prima di allora, ma dopo sicuramente sì. Il libro trasmise ai lettori del tempo un messaggio di integrità morale, impregnato di esoterismo, a cui molti fecero riferimento come modello organizzativo e politico.

La letteratura in generale ha dei presupposti utopici. Essa è rivolta sempre e comunque al lettore del presente come a quello del futuro. Il fatto è che da millenni l’uomo continua a scrivere, e a divulgare ciò che ha scritto, sempre sugli stessi argomenti: l’amore, la morte, la vita, l’odio, l’amicizia. A differenza delle scienze nelle quali una nuova scoperta in un certo qual modo soppianta quella precedente, la letteratura rimane immutabile nel tempo. È un eterno interrogativo, alla ricerca di una risposta che non potrà mai essere definitiva.

Per concludere vorrei spiegare il significato del titolo. È tratto dal libro “L’uomo che portava felicità” di Jürg Federspiel. È la storia di un ussaro che instancabilmente cerca un paese di nome Barangain. Il luogo è quello dove vengono realizzate tutte le sue aspettative, come dice lui stesso nelle ultime righe del racconto: “Cerco un paese, un paese come il mio. Ho tutto il tempo al mondo, per trovarlo. Tutto il tempo al mondo”.

Pure noi Viandanti delle Nebbie cerchiamo quel paese; non importa se alla fine non lo raggiungeremo, quel che conta è insistere nella sua ricerca. Il nostro Barangain è un luogo dove si concretizzano i nostri sogni, le nostre utopie, dove incontriamo personaggi fantastici e reali, che in una qualche maniera ci appartengono. Un posto dove si possa discutere di letteratura con Calvino, di poesia con Leopardi. Viaggiare nello spazio e nel tempo con Corto Maltese. Apprendere il coraggio, l’onore e la cavalleria da Don Chisciotte e Re Artù. Studiare il Medioevo, le eresie e l’Inquisizione con chi l’ha subita, come il Gran Maestro Templare De Molay. Ubriacarci con Bukowski. Sognare con Valentina (va bene anche se qualcuno è sconcio). Entrare nella biblioteca dell’Abbazia con Gugliemo da Baskerville e Jorge Luis Borges. Amare Madame Bovary.

Meglio questi sogni che quelli a 12 pollici. Quindi lasciateci cercare il nostro Barangain e non rompete con la pubblicità!

Collezione di licheni bottone

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