L’estate tra i ghiacci

di Paolo Repetto, 4 ottobre 2021    [1]

Allora. Siamo campioni del mondo anche nella pesca d’altura al tonno rosso, e stracciamo gli inglesi persino nel cricket. L’estate del 2021 rimarrà negli annali per i successi colti dagli azzurri in ogni immaginabile disciplina sportiva, olimpica, paralimpica e post-olimpica. Sono piovute tante medaglie che se fossero tutte d’oro massiccio, anziché placcate, avrebbero sanato il debito pubblico.

Purtroppo però non è piovuto altro: la trascorsa stagione sarà ricordata principalmente per una siccità che ha portato alle stelle i prezzi delle verdure e spinto nel panico i vegani (già si sussurra di un complotto dei padroni del clima), e per gli incendi che hanno carbonizzato mezza penisola, mandando in fumo i residui di un patrimonio boschivo già al lumicino. A tutto questo, al contrario che per le medaglie, il cui favoloso raccolto difficilmente si ripeterà, dovremo purtroppo abituarci. Anzi, direi che già ci siamo abituati.

Nel frattempo sono rimasto vittima anch’io dell’arsura estiva, assieme ai kiwi, ai cocomeri e al granoturco. Per mesi non c’è stato verso di buttare giù quattro righe. In questo caso il danno culturale oggettivo non è grave, e infatti nessuno giustamente se n’è accorto: ma per me la cosa stava diventando seria, perché ho vissuto la perdurante afasia come se la vita avesse cessato di riservarmi sorprese, le piccole scoperte che poi mi divertivo a condividere con gli amici. Fino a pochi giorni fa, il bilancio di uno sguardo indietro era che di questa estate non mi sarebbe rimasto nulla (o peggio: che avesse definitivamente certificato l’avvio di una stagione di decadenza).

E invece no. Per fortuna (almeno, per la mia) non è così. È bastato scrollarmi di dosso per un attimo il torpore da afa e distrarmi dai segnali di resa che il corpo mi invia per rendermi conto che anche in mezzo alle stoppie bruciacchiate si può raccogliere qualcosa. L’ho fatto, e ora provo a raccontarlo, accorgendomi tra l’altro che è già scattato l’effetto ciliegia (una tira l’altra, come sa bene Salvini), e che rischio addirittura di appesantire il bagaglio. Credo che sarà opportuno cavalcare l’onda dei ricordi in almeno un paio di puntate, per non esserne travolto.

Dunque, cominciamo. Nei giorni della canicola più arrabbiata, attorno alla metà di agosto, ho cercato refrigerio in un libro che sembrava scritto ad hoc: L’Idea di Nord di Peter Davidson. In effetti il saggio onora diligentemente la promessa del titolo: esplora cioè il posto occupato nell’immaginario antico e moderno dall’idea di un nord favoloso, misterioso, minaccioso. Dell’impero dei ghiacci, insomma, che nell’immaginario mio è entrato prepotentemente da subito, da quando bambino vedevo all’orizzonte le Alpi innevate e leggevo La regina delle nevi di Andersen o Lo zio di Svezia. Nel libro ho trovato molte cose che conoscevo, il che non manca mai di gratificarmi, ma moltissime di più che invece ignoravo: e me ne sono venute non rivelazioni epocali ma senz’altro alcune suggestioni che potrebbero essere considerate “leggere”, di quelle che non ti cambiano il modo di guardare alla vita ma lo insaporiscono (stavo per dire che sono le uniche possibilità che abbiamo di darle autonomamente un senso, perché per il resto siamo condizionati dalla natura, dal caso e dalle risposte altrui. È un po’ forte, ma sostanzialmente è vero).

L'estate tra i ghiacci 02

Ad esempio: nella sua analisi delle immagini letterarie Davidson cita il prodigioso fenomeno nel quale si imbatte Pantagruele nel corso di una delle sue avventure, mentre sta navigando nel mare del Nord, oltre il circolo polare artico.

Il gigante e i suoi compagni cominciano a percepire ad un certo punto rumori di fondo e voci che sembrano parlare nell’aria, dapprima flebili, poi sempre più distinti, senza che ci sia alcuno in vista. Sono naturalmente spaventati, ma il pilota della barca su cui viaggiano offre loro una strabiliante spiegazione:

— Non vi spaventate di nulla, Signore, rispose il pilota. Qui è il confine del Mar Glaciale, sul quale al principio dell’inverno scorso fu combattuta grossa e cruda battaglia tra gli Arimaspii e i Nefelibati. Le parole e le grida degli uomini e delle donne, il cozzo delle mazze, l’urto dell’armature e delle bardature, i nitriti dei cavalli e ogni altro fracasso del combattimento gelarono allora per aria. Ora, passato il rigore dell’inverno, sopravvenendo la serenità e il tepore del buon tempo, essi fondono e sono uditi.
— Per Dio, così dev’essere! disse Panurgo. Ma non si potrebbe vederne qualcuna? Mi ricordo aver letto che a piè della montagna dove Mosè ricevette la legge degli Ebrei, il popolo vedeva le voci sensibilmente.
— Ecco, ecco, disse Pantagruele, vedetene qui che non sono ancora sgelate. E ci gettò sul ponte parole gelate a piene mani, che sembravano confetti perlati di colori diversi. Tra esse vedemmo parole di gola, di sinopia, d’azzurro, di sabbia e d’oro. E stando un po’ tra le mani si riscaldavano e fondevano come neve, talché le sentivamo realmente; ma non le comprendevano, ché erano in lingua barbara. Un confetto tuttavia, abbastanza grosso, che Fra Gianni aveva riscaldato fra le mani, scoppiò come fanno le castagne gettate sulle bragie senza essere castrate, e ci fece trasalire di paura. — Fu a suo tempo, un colpo di falconetto, disse Fra Gianni. Panurgo ne chiese ancora a Pantagruele, ma questi gli rispose che dar parole era costume d’innamorati.
— Vendetemene dunque, disse Panurgo.
— Vender parole: costume d’avvocati, rispose Pantagruele. Vi venderò silenzio piuttosto, come talvolta ne vende Demostene mediante la sua argentangina.
Ciononostante ne gettò sul ponte tre o quattro manate. Fra le quali vidi parole pungenti, parole sanguinose, che, disse il pilota, talora ritornavano là dond’erano partite, ma colla gola tagliata, parole orribili, e altre assai disgustose a vedere. E fondendosi insieme udimmo: hen, hen, hen, hen, his, tic, torc; lorgn, brededen, brededoc, frr, frrr, frrr, bu, bu, bu, bu, bu, bu, bu, tracc, tracc, trr, trr, trr, trrr, trrrrrr! On, on, on, on, on, uuuuon! got, magot e non so quali altre parole barbare. Egli diceva che erano grida d’assalto e nitriti di cavalli nell’ora dell’attacco; poi ne udimmo altre grosse che sgelando davano suono, talune come di tamburi o pifferi, altre come di buccine e trombe.
Ci divertimmo assai, credetelo. Io volevo mettere in conserva nell’olio qualche parola di gola, come si conserva la neve e il ghiaccio, e dentro feltro ben pulito. Ma Pantagruele non volle, dicendo esser follia conservare ciò di cui non v’è mai difetto e che si ha sempre sottomano, come sono le parole di gola fra tutti i buoni e allegri pantagruelisti.

L'estate tra i ghiacci 03Non ricordavo l’episodio (è difficile ricordare qualcosa nel mare magnum di stramberie che farcisce il capolavoro di Rabelais: o forse non ero mai arrivato a leggerlo), e Davidson vi fa giusto un cenno, per cui sono immediatamente andato a verificare. È così che ho pescato questa perla.

Parole e suoni ibernati. È un’immagine fantastica. Parole e suoni che arrivano dal passato, e scongelano al ritorno della primavera o a contatto col calore delle mani. Che vincono insomma le leggi del tempo, e in qualche misura lo fermano. Rabelais era davvero geniale, e la sua trovata non era affatto peregrina: anche senza metterle sott’olio come propone il narratore, gli uomini hanno trovato il modo di conservare le parole. Ci sono riusciti dapprima con la scrittura, con un processo che potremmo definire di trasposizione sensoriale e di essicazione, poi conservandole in tutta la loro pienezza espressiva, attraverso la registrazione magnetica.

Quando leggiamo un libro, quando ascoltiamo una voce o un brano musicale registrati, noi scongeliamo le parole e i suoni, vinciamo, sia pure momentaneamente, sul tempo. Sarà anche una vittoria effimera, ma sono comunque soddisfazioni.

Il Nord però riserva altre sorprese. In un altro punto, parlando de Il senso di Smilla per la neve, Davidson fa notare come la seconda parte del romanzo ricalchi pari pari un’avventura di Tintin, quella dell’albo L’Isola Misteriosa. Sarò anche malato, ma sono queste le cose che mi mandano in pressione. È seguito l’immediato ripescaggio di Smilla (e, naturalmente, di Tintin). Non era però Smilla ad intrigarmi davvero, ma il suo autore, Peter Høeg. All’epoca in cui Høeg inaugurava la moda del triller nordico, negli anni novanta, mi ero letto anche I quasi adatti, che mi era piaciuto moltissimo, e La storia dei sogni danesi, che invece mi aveva lasciato perplesso. Non certo per il tema. Il romanzo tratta infatti dell’archetipo di tutte le utopie, il sogno della cancellazione del tempo. Nel racconto questo sogno viene perseguito e persino apparentemente realizzato nel XVI secolo da un aristocratico danese seguace di Paracelso, che isola dal resto del mondo se stesso, la sua famiglia e le sue proprietà, bandisce tutti gli orologi e semplicemente ignora il passare dei giorni, dei mesi, degli anni, fino ad arrivare a dimenticarsene. La diga eretta ad esclusione del tempo regge per secoli, fino a quando un outsider non la incrina e avvia il processo di disgregazione, per cui il muro crolla e il tempo torna a trascorrere inesorabile.

Quando lessi il libro, più di vent’anni fa, mi diede l’impressione di un tentativo in sostanza poco riuscito, a dispetto dell’assunto e di pagine bellissime: mi ero perso in un gioco di metafore che mi pareva eccessivo. Ora mi rendo conto che quel sogno, e persino le modalità della sua realizzazione (le mura altissime erette attorno alla proprietà, l’isolamento totale nei confronti dell’esterno), li ho ritrovati recentemente, ma senza realizzare la connessione, nella vicenda di Charles Waterton (cfr. L’inventore dei capelli a spazzola). Sono dunque tentato di rileggerlo, magari rimandando a possibili e purtroppo probabili recrudescenze del Covid, con le conseguenti quarantene.

L'estate tra i ghiacci 04Tintin invece l’ho riletto subito, e sì, sono convinto anch’io che Høeg l’avesse in mente mentre scriveva Smilla. Immagino che io e Høeg abbiamo letto le storie di Hergé più o meno nello stesso periodo (in Italia hanno cominciato a circolare solo verso la fine degli anni Sessanta), ma avendo lui dieci anni di meno. Per me era stato come trovare un riassunto di tutti i sogni dell’infanzia e dell’adolescenza, per lui era il bacino cui attingere per cominciare a sognare. I risultati, infatti, si vedono.

L’isola misteriosa racconta una delle più belle avventure del mini giornalista belga, seconda solo a Tintin in Tibet. E ha innescato la mia ennesima re-immersione in quel mondo assieme straordinariamente reale e fantastico, nel quale la cosiddetta “linea chiara”, il segno grafico che caratterizza il fumetto francofono e quello belga in particolare, proietta scenari e vicende e personaggi assolutamente verosimili, curati nei minimi dettagli, in una dimensione alla quale hanno accesso gli spiriti avventurosi di tutto il globo.

L'estate tra i ghiacci 05A proposito di verosimiglianza. Ho scoperto che l’ispirazione per il personaggio Tintin è arrivata dalla vicenda di un boy scout quindicenne danese, Palle Huld, divenuto famoso a livello internazionale per aver compiuto nel 1928 un viaggio intorno al mondo da solo, come inviato di un giornale. Il berretto, il cappotto e i pantaloni alla zuava che esibisce nella foto sono esattamente gli stessi indossati in genere da Tintin, la cui prima avventura (Tintin au pays des Soviets) uscì esattamente un anno dopo (ed era ambientata nello scenario che fa da sfondo alla foto di Palle).

En passant: cinque anni dopo un altro ragazzo, questi diciottenne, Patrick Leigh Fermor, partiva da Londra per raggiungere a piedi Costantinopoli, da solo, attraversando nell’inverno del ‘33, giusto all’epoca dell’ascesa al potere di Hitler, un mondo germanico e slavo che ancora respirava aria asburgica. Un Tintin giramondo non era quindi affatto così inverosimile, o almeno, era l’incarnazione dei sogni della gioventù dell’epoca.

Non solo di quelli di viaggio. Hergé venne accusato dopo la guerra di personale connivenza con il nazismo, e il suo eroe di essere portatore di una mentalità fascista e di atteggiamenti razzisti (né più né meno come Tex, negli anni Sessanta). Sono accuse che possono arrivare solo da chi il fumetto non lo ha mai amato, e non sa quindi che il significato assunto (e trasmesso) dall’eroe prescinde per il lettore da ogni ideologia e da ogni contingente appartenenza di parte. Tintin incarna il coraggio che ogni adolescente – ma non solo – vorrebbe avere, e il suo coraggio è messo al servizio della giustizia. Che poi questa giustizia possa essere diversamente intesa a seconda delle epoche, delle circostanze e persino delle disposizioni individuali, questo è un altro discorso. E si spera che il giovane non si affidi solo alla lettura di Tintin per approfondirlo.

L'estate tra i ghiacci 06Beninteso. Hergé era davvero un simpatizzante della destra cattolica vallona, scriveva e disegnava per un giornale reazionario, professava idee fasciste e razziste, finanche antisemite, ed era amico del fondatore del fascismo belga, Léon Degrelle. Ma a dispetto del fatto che quest’ultimo abbia scritto (in Tintin mon ami) di essere stato lui l’ispiratore del personaggio, la verità è che come ogni eroe di carta che si rispetti l’intrepido ragazzino ha cominciato a vivere da subito, e già nella mente del suo ideatore, un’esistenza autonoma. Comunque, la situazione che Hergé racconta in Tintin au pays des Soviets non è molto lontana dai resoconti di altri visitatori che si erano recati nell’URSS in quegli stessi anni, partendo dal preconcetto opposto: e gli stereotipi razziali di Tintin au Congo erano quelli correnti in Europa negli anni Trenta, mentre la politica sudamericana descritta in Tintin e i picari, con i suoi caudillos e i sedicenti rivoluzionari, è esattamente quella con la quale la sinistra si è confrontata per anni tra entusiasmi e delusioni, da Castro a Sandino a Maduro, senza mai capirci nulla.

Se una colpa Tintin ha è quella di aver aiutato molti della mia generazione, e di quella precedente, a credere che per riportare un po’ di giustizia in questo mondo fosse sufficiente armarsi di coraggio e di determinazione: ma allora deve spartire la responsabilità con Tex, con Capitan Miki, con i supereroi della Marvel e persino con Corto Maltese, oltre che con i cavalieri solitari o i mucchi selvaggi del cinema western. Io non gliene voglio, né a lui né agli altri: so che non è così, ma mi piace sperare che continueranno a crederci anche le generazioni future.

L'estate tra i ghiacci 07Visto che ci stiamo aggirando in territorio di utopia, e nella provincia semiautonoma del fumetto, una naturale associazione di idee mi fa tornare in mente che in un mercatino estivo ho scovato una copia seminuova del Paperino don Chisciotte, quello disegnato nel 1956 da Pier Lorenzo de Vita (uno dei disegnatori di Pecos Bill, tanto per restare in tema di utopia). Ho l’impressione di averlo letto già all’epoca, anche se Topolino non era tra mie letture fumettistiche preferite, e soprattutto era una pubblicazione cui avevo accesso raramente. Senz’altro l’ho conosciuto dopo, quando mi sono divertito a recuperare tutti i classici della letteratura della Disney, da I promessi paperi alla Paperodissea e alla Paperopoli liberata. Comunque, è una trasposizione in chiave moderna delle avventure dell’hidalgo, che rimane abbastanza fedele al plot originale. Rileggerla ha però suscitato il ricordo di altre immagini, quelle che per prime mi avevano fatto incontrare il cavaliere della Mancia: il Don Chisciotte di Benito Jacovitti, uscito nel 1953 come supplemento a Il Vittorioso. Un po’ come Tintin, Il Vittorioso ha sofferto nelle valutazioni postume l’essere la rivista a fumetti dei circoli cattolici, schierata decisamente sul versante anticomunista: e questo ha fatto sì che se ne siano a lungo misconosciuti i meriti. In realtà, cattolico o meno, Il Vittorioso vantava fior di sceneggiatori e di disegnatori, e ha comunque proposto un modello etico positivo alla generazione dell’immediato secondo dopoguerra, soprattutto negli anni Cinquanta. Uno dei punti di forza del periodico era appunto Jacovitti, che come Hergé si è portato dietro la patente di reazionario, ma alla stessa maniera di Hergé non ha mancato di imporre i suoi personaggi al di là di ogni lettura ideologica, per la loro intrinseca vis comica, da Cocco Bill a Pippo, Pertica e Palla e alla signora Carlomagno.

L'estate tra i ghiacci 08Anche il suo Don Chisciotte era riletto in chiave moderna: si reincarnava in un pronipote del cavaliere e si imbarcava nelle stesse imprese disastrose, solo attualizzate (ad esempio, anziché contro i mulini a vento si lanciava contro i treni): finiva poi però per combattere le mire di un palazzinaro e, proprio in forza dei suoi proclami deliranti, veniva eletto sindaco di una piccola città. Cosa, quest’ultima, davvero molto attuale. Ma, come accadeva per tutti i fumetti di Jacovitti, l’interesse non era tanto nella storia quanto nell’umorismo delle singole vignette, straripanti di particolari assurdi. Per questo la mia non fu all’epoca una vera conoscenza col personaggio: avevo conosciuto il protagonista di una storia di Jacovitti, piuttosto che di quella di Cervantes.

L'estate tra i ghiacci 09Dopo quelle di Jacovitti e di De Vita ci sono state altre innumerevoli trasposizioni del Chisciotte a fumetti: io ricordo solo quella di Lino Landolfi (1968/69), sempre per Il Vittorioso, e quella di Toni Pagot e Gino Gavioli per il Giornalino. La prima, sebbene arrivata molto tardi, quando i fumetti erano ormai diventati per me una passione collezionistica e non esercitavano più una fascinazione etica, mi ha indubbiamente colpito: tra quelle che conosco è la più fedele allo spirito di Cervantes, anche nella regia. Mi aveva stupito a suo tempo la presenza di una parte introduttiva nella quale l’autore, inteso in questo caso proprio come Landolfi (c’è una sua foto) raccontava i propositi dell’opera, e di una sorta di poscritto nel quale era Don Chisciotte stesso a uscire dalla storia e a polemizzare contro le interpretazioni errate della sua figura.

Mi sono chiesto a chi potesse essere rivolta un’operazione del genere, nella quale tra l’altro la caratterizzazione fisica del personaggio era del tutto difforme da quella classica dettata da Cervantes (il Chisciotte di Landolfi ha un gran naso a patata, e un profilo tutt’altro che aquilino): difficile immaginare un pubblico, a meno di pensare che i destinatari fossero proprio i donchisciottomani patologici come me.

Il recupero della versione disneyana mi ha dato anche modo di realizzare che il Don Chisciotte è uno dei pochissimi classici di cui non ho mai posseduto una riduzione per ragazzi. Ho controllato sulle vecchissime liste dei desiderata, quelle che stilavo direttamente sugli elenchi riportati nelle quarte di copertina delle edizioni Carroccio-Aldebaran, dai quali spuntavo ogni nuova acquisizione. Queste riduzioni esistevano, alcune comparivano proprio nelle mie collane di riferimento, ma il Don Chisciotte non l’ho mai selezionato. Si vede che le versioni a fumetti non mi avevano convinto molto.

Qui però, come ho promesso sopra, mi interrompo, perché su Cervantes e sul suo alter ego avrei da dire parecchie cose: me lo riprometto da un pezzo e non voglio bruciarmi l’occasione. Vale la pena riservare loro una puntata apposita. Ma non è finita: l’estate non è stata attraversata solo dal Cavaliere dalla triste figura. Procedendo a ritroso la memoria ha iniziato a snebbiarsi, e ho in serbo tante perle che nemmeno in un romanzo di Salgari. Quindi (continua).

L'estate tra i ghiacci 01[1] Come al solito, il titolo non è originale. L’ho preso in prestito da un libro di Sally Carrigar, edito da Longanesi nel 1956, che possiedo nell’edizione rilegata, con una splendida sovracopertina. È stata una scelta apotropaica, viste le notizie che arrivano dai luoghi in cui il romanzo era ambientato: le acque e le terre che circondano il Polo Nord, l’Alaska, il Mare di Bering e lo stretto omonimo. Oggi, a soli sessant’anni di distanza, i ghiacci la Carrigar non saprebbe quasi più dove trovarli.

La più grande olimpiade dell’era moderna

di Paolo Repetto, 2005

I giochi olimpici più importanti dell’era moderna non furono, come molti pensano, quelli faraonici del 1936 a Berlino, o quelli tragici del 1972 a Monaco. Essi ebbero luogo a Lerma, attorno alla metà di Settembre del 1960.

Era un anno magico. Nencini aveva vinto il Tour, Roncalli aveva aperto il secondo concilio vaticano, Kennedy stava per diventare il nuovo presidente degli Stati Uniti e, ciliegina sulla torta, sino a pochi giorni prima Roma aveva ospitato la XVII edizione ufficiale delle Olimpiadi, che doveva celebrare in un colpo solo il primo centenario dell’unità nazionale, la fine di un dopoguerra da paese sconfitto e l’inizio del boom e del centrosinistra. Sia sul piano agonistico che su quello spettacolare era stata in effetti una manifestazione esaltante; per intenderci, furono i giochi di Berruti, di Wilma Rudolph, di Bikila, di Benvenuti e di Cassius Clay. Gli italiani vinsero in quell’occasione un po’ dovunque, a piedi, a cavallo, in bicicletta o in barca, totalizzando un raccolto di ori e di argenti che non si sarebbe mai più ripetuto. Da paese di morti di fame erano diventati la terza potenza sportiva del mondo.

I giochi di Lerma celebrarono però un’altra cosa: l’arrivo anche da noi della televisione e delle immagini in diretta. Persino per uno come me, che leggeva i giornali (avevo un incarico part-time presso il negozio di alimentari che fungeva anche da edicola e da luogo di distribuzione della posta) e seguiva le radiocronache del pugilato, la televisione significava l’ingresso in un altro mondo. Vedere Berruti che esce dalla curva liscio ed elegante come un figurino, che si lascia alle spalle dei marcantoni di colore grandi il doppio di lui, che vince e centra il record mondiale, era ben altra cosa. Per la prima volta dalle adunate oceaniche d’anteguerra l’intera nazione si era stretta attorno a qualcuno, a un torinese con l’aria e il fisico di un intellettuale sedentario, che metteva però in riga anche i velocisti della superpotenza americana. La televisione aveva consacrato in diretta il riscatto degli eterni perdenti, e anche a Lerma lo avevamo vissuto assiepati a decine davanti ad uno dei due apparecchi televisivi esistenti in paese, quello dell’oratorio. Ora si trattava di celebrare degnamente quel trionfo, e il modo migliore era quello di ripeterlo.

Dell’Olimpiade di Lerma non è rimasta purtroppo alcuna testimonianza iconografica, non ci sono né fotografie né tantomeno filmati: ma io posso lo stesso raccontarvi la storia veritiera di quei giorni, essendone stato insieme testimone, agonista e soprattutto il principale organizzatore. All’epoca andavo per i dodici anni e già avevo alle spalle una discreta carriera di organizzatore sportivo (non solo: ero a capo, sia pure per autoinvestitura, di una delle bande più importanti del paese). Sull’onda dell’entusiasmo per la vittoria di Baldini al mondiale di ciclismo e per l’asfaltatura della via principale avevo promosso due anni prima un giro d’Italia con le grette, suddiviso nelle venti canoniche tappe. Avevo tracciato i percorsi con i gessi presi a prestito dalla scuola elementare e, una volta esauriti questi, con dei pezzi di mattone (le “tappe rosse” dell’ultima settimana). Il giro si snodava dal Poggio alla piazza Roma e ritorno, con puntate nei vicoli non asfaltati per le tappe dolomitiche e due circuiti sullo sterrato per le prove “a cronometro”. Avevo anche stilato un regolamento, che venne più volte modificato, a seconda del peso e del livello di amicizia dei ricorrenti, e nominata una giuria con l’incarico di segnalare le forature (uscita dai limiti del percorso, fermo per un turno) e di tenere il conteggio dei “bilecchi”. Ciascun concorrente doveva inserire nella sua gretta l’immagine di un campione, Anquetil, Gaul, io naturalmente Nencini, utilizzando le figurine che si trovavano nelle primissime confezioni dei fruttini. Per il bilanciamento era consentito solo l’uso dello stucco. Lo svolgimento era stato piuttosto tempestoso, perché i concorrenti erano indisciplinati e contestavano ad ogni piè sospinto le regole, ma arrivammo alla fine, registrando anche il primo caso ufficiale di squalifica per doping (Mario aveva riempito le sue grette di piombo per renderle più stabili nei percorsi veloci).

Mi sono attardato sul mio primo successo organizzativo (ne seguirono altri, ma anche qualche tonfo, come il Tour dell’anno successivo) un po’ perché ci tenevo da un pezzo a raccontarlo, ma soprattutto per dimostrare che non ero arrivato all’Olimpiade impreparato. L’evento fu il frutto di passione ed entusiasmo, ma anche di una certa “professionalità” acquisita con una lunga gavetta, e ancora oggi lo considero il mio capolavoro, perché lo sforzo di realizzazione e di coordinamento fu davvero enorme.

L’idea dei giochi venne a me, ma certo era nell’aria. Dopo i trionfi di Berruti e di Gaiardoni passavamo la giornata a sfidarci sui cento metri e avevamo imparato a resistere per delle mezz’ore in surplace sulla bicicletta. Di lì a decidere di bandire delle gare ufficiali, che raccogliessero tutti i ragazzi del paese e i villeggianti e stabilissero una volta per tutte le gerarchie sportive, il passo era breve. Non mi ci volle molto a convincere gli altri, primo tra tutti Aurelio, complice imprescindibile di qualsivoglia iniziativa. Costituimmo un comitato olimpico, decidemmo le gare da disputarsi, stilammo il calendario delle prove, concordammo le modalità di ammissione e di partecipazione. Onde evitare grane stabilimmo il tetto massimo di età a quattordici anni, per poter includere quei tre o quattro che avevano concluso con noi le elementari pur essendo più anziani, ed escludere quelli che col loro nonnismo avevano sempre cercato, sia a scuola che all’oratorio o nel bosco della Cavalla, di tarpare le ali alla nostra creatività. La ribellione fisica, violenta, sarebbe arrivata solo un paio d’anni dopo, tra l’altro anticipando la contestazione giovanile dei secondi anni sessanta: per il momento era necessario giocare d’astuzia e toglierceli dai piedi, e a tal fine era preziosissima la collaborazione di don Franco, il viceoparroco. Don Franco era un prete giovane, ma aveva una concezione del sacerdozio ispirata più a Guareschi che a Don Milani, e certe dita d’acciaio che mettevano in rispetto qualsiasi bullo. Inoltre possedeva un orologio che segnava anche i secondi, non un vero cronometro, ma insomma, era un prete e ci si poteva fidare. Dopo qualche insistenza e la promessa da parte nostra di presenziare alla prossima novena natalizia accettò anche di fungere da giudice unico di gara, il che era fondamentale, perché metteva fine preventivamente ad ogni possibilità di polemica e a qualsivoglia eventuale turpiloquio. Potevamo aprire i giochi.

Eravamo partiti con grandi ambizioni, ma fu giocoforza ridimensionare di molto il programma. Malgrado la vittoria di D’Inzeo non era possibile contemplare, per ovvi motivi, l’equitazione, anche se Aurelio insisteva che avremmo potuto iscrivere le coppie cavallo-cavaliere che si formavano per le sfide di “lotta in spalletta”. Ci volle del buono a convincerlo che il concorso ippico non si svolgeva nella prateria come la cavalcata di Ombre Rosse, ma su un percorso ad ostacoli. Erano da escludere anche le gare di nuoto e pallanuoto (altro oro per l’Italia), perché alla metà di settembre l’acqua del fiume era già fredda e perché a saper davvero nuotare eravamo si e no in tre. Niente da fare neppure per la scherma, dove in verità l’attrezzatura di fioretti di frassino non mancava, ma sarebbe stato difficile persino per don Franco governare le gare. Idem per la lotta e il pugilato, severamente vietati dai genitori, per il sollevamento pesi e per la ginnastica. Rimaneva insomma solo l’atletica, e quei giorni furono davvero un trionfo della regina degli sport.

Anche limitando così drasticamente il campo, l’organizzazione si rivelò particolarmente complessa. All’epoca gli impegni scolastici iniziavano ad ottobre, ma per molti, me compreso, c’erano quelli lavorativi a casa. Per fortuna quell’anno la vendemmia era in forte ritardo, e concentrando le gare in un programma estremamente fitto potemmo contare su una partecipazione quasi totale. Alcuni problemi tecnici furono risolti brillantemente: le medaglie per la premiazione, ad esempio, le rimediai io, pescando tra quelle portate a casa da mio nonno dal fronte dell’Isonzo, unico bottino di quattro anni di trincea. Non gliene importava granché, e mi aveva già consentito di giocarci, ma ad ogni buon conto preferii prenderle a prestito senza farglielo sapere. Risultarono uno degli elementi essenziali ai fini del rispetto del rituale, e con un cordino di lenza rossa da muratore facevano la loro bella figura. Purtroppo ne avevo solo tre (il nonno non era stato particolarmente valoroso), da usarsi per ogni cerimonia di premiazione e da farsi prontamente restituire, ciò che suscitò qualche rimostranza da parte di concorrenti che non avevano letto il regolamento (anche perché non era mai stato scritto).

L’attrezzatura per il lancio del peso fu procurata da Aurelio, che fornì le bocce di suo zio Giulio, sponsor inconsapevole e tutt’altro che consenziente. Per il disco utilizzammo una selce da calzolaio di mio padre, di quelle che servivano per ribattere le suole, perfettamente circolare e quasi piatta. I ritti per il salto in alto furono ricavati piantando dei chiodi lungo il tronco di due tigli che crescevano paralleli ai bordi dello stradone: l’asticella era uno spago tenuto tirato da due contrappesi di pietra. Ci fu anche un tentativo di praticare l’asta, ma venne abbandonato dopo che Agostino rischiò di finire infilzato dalla canna di bambù che stava usando.

Per le gare di velocità fummo molto agevolati dall’amministrazione provinciale, che durante l’estate aveva asfaltato la circonvallazione. Disponevamo di un rettilineo di quasi quattrocento metri, pianeggiante, con fondo compatto e levigato, perfetto. Il problema era che Berruti aveva vinto i duecento metri uscendo dalla curva, e che all’Olimpico le corsie per quella gara erano disposte in modo da far curvare tutti i concorrenti prima di esplodere sul rettilineo finale: quindi era d’obbligo inserire una curva e far partire i concorrenti distanziati di qualche metro l’uno dall’altro. Si trovò la soluzione fissando l’arrivo nella piazza, allo sbocco della piega che immette nella circonvallazione. Questo significava dover misurare le corsie ad una ad una, e disegnarle con il gesso. La misurazione venne effettuata con la solita lenza da muratore, che fu una delle protagoniste dei giochi (servì, oltre che per misurare le distanze nei lanci, come asticella nell’alto e come segnalatore di fossa nel lungo), anche se poi all’atto dell’attribuzione dell’ordine di partenza ci furono dei problemi, dal momento che tutti volevano quelle più esterne perché consentivano di partire più avanti e di tagliare clamorosamente la curva.

Le cose furono più semplici naturalmente per i cento metri, ma si complicarono poi parecchio per i centodieci-ostacoli. Si dovette ricorrere ad un blitz notturno nel magazzino del negozio di alimentari, dal quale furono prelevate un po’ di cassette da frutta, mentre io fornii dieci ceste da vendemmia. Già così in ciascuna corsia non potemmo mettere più di cinque o sei ostacoli, che si rivelarono in verità più che sufficienti, e dovemmo disputare la gara in notturna, per approfittare di un momento in cui non ci fosse transito (in realtà all’epoca anche durante il giorno si poteva pranzare in mezzo alla strada). Neanche a farlo apposta tutti i perdigiorno motorizzati sembravano essersi dato convegno quella sera nella circonvallazione, e nonostante i posti di blocco disposti in piazza e sul viale per deviare il traffico verso il centro del paese dovremmo sgomberare il terreno di gara più di una volta, per consentire loro di passare. Avevamo appena terminata la gara e rimosso gli ostacoli quando arrivarono i carabinieri, avvertiti da qualche idiota.

Ma arriviamo al dunque, all’aspetto sportivo. Come in ogni olimpiade i momenti magici furono quelli degli sprinter e della maratona. Nei cento metri per arrivare ai cinque finalisti si dovettero disputare quattro batterie e due semifinali. Gareggiò persino mio fratello, che aveva otto anni. Fu un successo organizzativo, ma una delusione nel risultato. Ai primi due posti finirono infatti i due gemelli Parodi, due villeggianti, sia pure oriundi. Il primo indigeno, che era poi Aurelio, dovette accontentarsi del bronzo. Nei duecento ce la cavammo molto meglio. L’oro andò ad Aurelio, al quale la sorte, un po’ aiutata, aveva riservato la corsia più esterna, secondo fu uno dei soliti gemelli e terzo finii addirittura io. Ebbi quindi anche l’onore di premiarmi da solo, dopo aver sedato le contestazioni dell’altro gemello, che sosteneva di aver percorso almeno venti metri in più rispetto agli altri.

La maratona venne disputata nell’ultimo giorno di gare. Il lotto dei partecipanti che avevano aderito si sfoltì di molto quando si seppe che i giri del paese previsti erano cinque anziché due (ogni giro misura circa novecento metri). Nessuno di noi aveva in effetti mai corso, almeno consapevolmente, una distanza del genere. Alla fine partirono in una dozzina. Io li precedevo in bicicletta e Angelo li seguiva con lo stesso mezzo, per controllare che nessuno tagliasse lungo i vicoletti. Al terzo giro i maratoneti erano già ridotti alla metà, e cominciarono a venir fuori i valori effettivi. Lungo la salita che porta al Poggio ci fu l’attacco di Marietto, che fece in testa anche il quarto giro, mettendo sempre più metri tra sé e gli inseguitori. Il dramma, come in tutte le vicende drammatiche che si rispettino, esplose all’ultimo giro. Mario stava scendendo tutto solo lungo via Benedicta, gli mancavano ormai non più di quattrocento metri all’arrivo, tutti discesa e pianura. All’altezza della sua abitazione io, che lo seguivo con una bandierina rossa appesa al manubrio, vidi uscire come una furia dall’ombra del vicolo sua madre: lo arpionò per un braccio, facendogli fare una mezza giravolta e urlandogli in faccia: “Dov’è Brunetta?” Brunetta era la sorellina di Mario, aveva forse tre anni ed era un vero impiastro, perché Mario doveva badarle praticamente tutto il giorno, cosa che gli aveva già impedito di partecipare alle gare di velocità, per le quali era una delle punte di diamante della squadra lermese. Per la maratona, nella quale aveva buone possibilità ed era una garanzia contro l’eventualità di un successo foresto, lo avevo convinto a lasciarla sul viale, affidata ad una ragazzina nostra coetanea che si era offerta, anche se non del tutto spontaneamente, di badarle. Mario ebbe un bel gridare “Vado a prenderla, lasciami andare”. Sentivo lo schiocco delle sberle e non ebbi animo di intervenire, anche perché sapevo che mi sarebbe toccata la mia parte e non avrei risolto nulla; inoltre c’erano i doveri organizzativi che mi aspettavano, l’arrivo e la redazione della classifica. Fu così che la maratona venne vinta da Aurelio, che l’onore lermese venne salvato ma che Mario, novello Dorando Petri, fu privato di una medaglia ampiamente meritata. E non valse nemmeno a consolarlo il fatto che io organizzassi una premiazione speciale ad honorem, anche perché non poté partecipare.

Delle altre gare c’è poco da raccontare, se non che furono guastate da alcuni inconvenienti. La finale del salto in lungo venne interrotta dal proprietario del mucchio di sabbia che usavamo per l’atterraggio, esageratamente alterato perché gliel’avevamo sparsa un po’ in giro, che ci costrinse a ripristinare il mucchio con scopa e badile. Non ci furono vincitori, mentre ci furono strascichi quando andò a lamentarsi da mia madre, che nella specialità scappellotto avrebbe guadagnato senz’altro il podio e si affrettò a ribadirmi quanto ci teneva alla mia reputazione. In quella del peso, invece, l’attrezzo finì direttamente nella scarpata che portava al bosco della Cavalla, e a dispetto persino di una taglia in fumetti messa in palio non ci fu più verso a ritrovarla. Non avevamo calcolato che Bruno, pur più anziano di noi di un solo anno, aveva il fisico di un ventenne e la forza di due, per cui poteva far volare alla boccia un campo da calcio. Naturalmente facemmo subito sparire anche l’altra e lo zio Giulio si arrovellò per tutta la vita sul mistero delle bocce scomparse. Aurelio non ebbe il coraggio di confidarglielo nemmeno da adulto.

Ci fu infine un’appendice comica, quando Claudio P., rientrato in paese a gare concluse, dichiarò non valida tutta l’edizione perché si era svolta in sua assenza. Claudio era un ragazzotto rotondo che portava i piedi a papera, con un’apertura angolare superiore ai centocinquanta gradi. Agganciandogli un paio di pale avrebbe aperto il passo nella neve ad un camion. Era imbattibile soprattutto nell’apnea sottomarina, una specialità alla quale lo allenavamo per tutta l’estate al fiume. Organizzammo seduta stante una ripetizione dei cento metri, che vinse naturalmente con un tempo buono per i cinquemila, e ci deliziò con un ulteriore schetch finale all’atto della premiazione, quando dovetti quasi rompergli un braccio per farmi restituire la medaglia.

Tutto sommato il bilancio sportivo dei giochi fu favorevole ai lermesi, anche al netto di qualche parzialità, che è comunque da mettersi sempre in conto al paese ospitante. Fece uscire i nativi dalla soggezione nei confronti dei cittadini, che in genere millantavano militanze nei pulcini della Sampdoria o del Genoa o frequentazioni di stadi, piscine e palestre. Soprattutto ci rese protagonisti di un evento organizzato e gestito in proprio, insegnandoci che il divertimento vero stava nell’ideare le cose e la vittoria nel condurle a termine. Le medaglie volanti di mio nonno fornivano d’altronde una perfetta metafora della transitorietà del successo. Noi naturalmente tutto questo non lo sapevamo, ma gli sviluppi successivi mi portano a credere che qualcosa di quella lezione sia rimasto, almeno negli animi più sensibili.

La cerimonia ufficiale di chiusura si svolse nell’oratorio, perché nel frattempo erano iniziate le rituali piogge pre-vendemmia. Don Franco ci fece un cazziatone per la scarsa sportività e l’eccessiva litigiosità mostrata dalla gran parte dei partecipanti, ma promise che l’anno successivo l’olimpiade l’avrebbe organizzata lui, e ci sarebbero state anche gare in bicicletta e in acqua. Naturalmente venne trasferito la primavera successiva, e nella storia di Lerma i giochi del ‘60, i miei giochi, sono rimasti unici e indimenticabili.