Riconosciute assenze

s’intravvede, ma non si vede

di Fabrizio Rinaldi, 8 aprile 2018

L’applicazione della tecnologia digitale alle macchine fotografiche e l’uso diffuso di software di fotoritocco hanno semplificato il gesto del fotografare fino a generare una polluzione incontrollata di immagini, per lo più ordinarie, che ci sorbiamo nostro malgrado e che rispondono a un artificioso bisogno indotto dalla modernità: quello della “spettacolarizzazione di sé” e della condivisione in rete della propria squallida quotidianità.

Questa ossessione ha contribuito ad uniformare verso il basso molti aspetti del gesto fotografico, da quelli tecnici relativi al marcato bilanciamento dei colori e ai loro contrasti a quelli contenutistici, relativi alla scelta dei soggetti. Nel novantanove per cento dei casi ad essere ritratto è chi fotografa (selfie), oppure sono familiari, animali domestici, tramonti, edifici, o ancora, “eventi” che si pretendono tali solo perché l’immagine è opportunamente mirata a suscitare una qualche reazione emotiva (per lo più di pancia – o giù di lì).

L’inflazione d’immagini fa si che queste raramente rimangano nella memoria, poiché non suscitano particolari emozioni né in chi le produce, né in chi le guarda. Va così persa una peculiarità fondante del fotografare, ossia l’essere una raffigurazione concreta di un pensiero.

La semplificazione del processo fotografico pone interrogativi a chi, come me, vorrebbe continuare a scattare senza cadere nelle mediocrità del già visto e ambisce a produrre immagini che, almeno a livello personale, trasmettano una qualche tensione emotiva.

Vedere e fotografare, nell’accezione più pura, significa esser consapevole dell’“unicità” di ciò che si sta guardando, che è tale in un tempo concluso, ovvero in quel preciso momento, scegliere di fermare quell’istante e di fissarlo attraverso il mezzo fotografico. Questo gesto richiede una – seppur mediocre – padronanza tecnica, la capacità di mettere a fuoco e isolare il soggetto all’interno dello spazio che occupa, la percezione istintiva della quantità di luce necessaria ad evidenziare ciò che l’obiettivo inquadra, ma soprattutto una buona dose di lucidità e di distacco: ovvero un coinvolgimento emotivo controllato, almeno un po’. È senz’altro necessaria anche una certa presunzione nel riproporre soggetti che quasi sicuramente sono stati fotografati da altri molto più bravi. Basta fare una ricerca in rete per vedere foto davvero belle che fissano quel paesaggio, quel fiore o quello scorcio che ci apprestiamo a fotografare.

Quindi, dobbiamo prevedere nell’equipaggiamento una borraccia piena di presunzione. Ci tornerà utile quando, individuato il soggetto, ci verranno in mente le immagini scattate da fotografi più o meno titolati. Per una frazione di secondo esiteremo prima di schiacciare l’otturatore. Ma a quel punto, bevuto un sorso dalla borraccia, scatteremo la “nostra” foto che regalerà a noi – forse solamente a noi – un briciolo di emozione. Se poi non è paragonabile alle calle di Tina Modotti, ai panorami di Ansel Adams o ai nudi di Man Ray, chi se ne frega!

Piuttosto, una volta premuto l’otturatore avremo l’illusione d’aver fissato quel momento in un’immagine senza tempo: ma non è così.

Anzitutto perché, come detto prima, la memoria diffusa delle immagini è labile e a brevissimo termine, proprio per la quotidiana indigestione che ne facciamo: quindi presto scorderemo quei fotogrammi, che difficilmente si raccomanderanno nella memoria collettiva per una loro intrinseca rilevanza o per le loro qualità estetiche.

C’è poi l’aspetto connesso all’hardware su cui sono conservate le tanto care foto. Il tempo continua a scorrere per noi, ma anche per loro. Apparentemente le immagini rimangono inalterate, ma sia nei file digitali, sia nelle stampe fotografiche è in atto un continuo deterioramento. E a dispetto di ciò che si pensa, se sono immagazzinate in bit il deterioramento sarà ancor più veloce di quello delle fotografie cartacee: si potrebbe guastare l’apparecchio su cui sono conservate, potrebbero esser dimenticate e quindi in un secondo momento cancellate, o, in un continuo copia-incolla, è sufficiente la perdita di qualche “zero” o “uno” per rendere illeggibili i file.

La consapevolezza di questa precarietà, insieme all’importanza che diamo a ciò che viene inquadrato nel mirino della reflex, ci dovrebbero render maggiormente coscienti del “momento fluttuante” che ci accingiamo a fotografare. In questo modo dovrebbe risultare più facile realizzare foto che abbiano una possibilità di rimanere per un po’ nel ricordo, almeno nel nostro.

Quando metto mano alla macchina fotografica mi scopro ad inquadrare per lo più soggetti che escludono la presenza umana. Preferisco soffermarmi sulle tracce riconoscibili del suo passaggio: la sua interazione col territorio, le sue opere, le sue manipolazioni e le sue dimenticanze.

Cerco insomma la “pregnanza” umana che il manufatto, il paesaggio o l’edificio rivelano, che hanno assorbito – magari in tempi antichi – dai loro costruttori. Allora fotografo balconi, finestre, barche dismesse, legni e ferri abituati al lavoro umano, angeli di pietra che sorvegliano gli ingressi, fontane, porte, terrazzamenti e così via, alla ricerca della seduzione di cui l’autore ha impregnato – intenzionalmente o meno – quel manufatto. Oppure perseguo l’incanto inatteso che a volte il degrado e l’abbandono regalano alla materia creata dall’uomo: ad esempio le croste sui muri di vecchie case, sui quali il decadimento fa scaturire la bellezza di una semplice ed autentica disarmonia.

Ho difficoltà invece a fotografare volti: non per superstizione aborigena, ma per la convinzione che ritrarli presupponga un’esposizione del soggetto alla violenza inferta dallo scorrere del tempo e al giudizio estetico – inconscio o meno – di estranei.

C’è poi una personale tensione relativa alle reali intenzioni di chi fotografa e di chi è fotografato: quanto voglio rivelare del soggetto e di me in un’immagine? È un interrogativo rilevante in tutto il mondo fotografico, ma in particolare in quella di ritratto.

Il tempo è impietoso: la foto che ci ritrae oggi pare brutta, ma rivista tra dieci anni potrebbe persino indurci ad affermare che non eravamo male. Per questo i ritratti mi bloccano: hanno qualcosa di maligno, fissano un tempo che si allontana da noi, e ce lo ricordano.

Un’altra domanda che sorge quando guardiamo una nostra foto è: ma è così che mi vedono gli altri? Quesito lecito, che mette in luce la distonia con la nostra corporeità e con lo spazio scenico che occupiamo nella quotidianità.

Lo sguardo diretto sottende una sfida che spesso non voglio sostenere, perché implicitamente mette in discussione anche me. O meglio, riesco a ritrarre la persona solo quando tra me e chi inquadro c’è una rilevanza emotiva. Altrimenti lo scatto finirà in un semplice album familiare, ma di questo abbiamo già parlato.

In ogni gesto del fotografare, ogni volta che la macchina fa clic, c’è una certa violenza, che lo si voglia o no. L’atto stesso di fermare qualcosa è potenzialmente violento, anche se si tratta di una foto molto affettuosa. Io credo nel valore dell’idea indiana secondo cui fotografare una persona equivale a rubarne il volto. C’è una cosa degli aborigeni australiani che mi ha colpito molto: non hanno il permesso di guardare l’immagine di una persona morta. Dunque un morto non dovrà più comparire da nessuna parte, né in un libro, né in una foto. Per questo, quando qualcuno muore, si porta via tutto ciò che potrebbe ricordarlo, ogni sua immagine. Per lo stesso motivo gli aborigeni non amano farsi fotografare: perché sanno che la foto sopravvivrà loro oltre la morte, che ogni foto dura al di là della persona, oltre ogni fenomeno che loro possono cogliere, oltre l’istante in cui è stata scattata. È questo a spaventarli.
WIM WENDERS, Una volta, Contrasto 2015

Sai che non c’è una sola foto di Hillary sull’Everest in quella prima salita del ’53? Hillary aveva l’apparecchio e fotografò Tenzing, il contorno delle montagne intorno, ma non chiese a Tenzing di fargli una fotografia. Non è speciale questo? Hillary era lassù a nome collettivo, era solo un rappresentante della specie umana. Non so se gli venne la tentazione di passare a Tenzing l’obiettivo. So che non lo fece e per me quello scatto mancato è il più bello di tutti, il colpo di umiltà che dà la precedenza all’impresa, non a chi la compie.
NIVES MEROI
da ERRI DE LUCA, Sulla traccia di Nives, Feltrinelli 2016

In fotografia la creazione è un breve istante, un tiro, una risposta, quella di portare l’apparecchio lungo la linea di mira dell’occhio, catturare quello che ci aveva sorpresi nella piccola scatola a buon mercato afferrandolo al volo, senza artifici e senza sbavature. Si fa della pittura ogni volta che si prende una fotografia.
HENRI CARTIER-BRESSON, L’immaginario dal vero, Abscondita 2005

Collezione di licheni bottone

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Fuori garanzia

di Paolo Repetto, dicembre 2017, da sguardistorti n. 01 – gennaio 2018

La settimana scorsa mi sono recato al magazzino di Media Word per far riparare un elettrodomestico in garanzia. Naturalmente non ero riuscito a rintracciare lo scontrino d’acquisto – era già molto che avessi ancora l’elettrodomestico – quindi le speranze di sistemarlo gratis erano decisamente poche. E invece è accaduto il miracolo. Essendo titolare di una tessera, attraverso la matricola sono riusciti a recuperare il giorno d’acquisto e a rifarmi lo scontrino che avvalora la garanzia. Non sono stati veloci come i CSI di New York, che da un ritaglio d’unghia risalgono in trenta secondi all’identità di un assassino, ma insomma, in poco più di un quarto d’ora hanno risolto il problema. Anche perché poi l’elettrodomestico non era guasto: avevo solo attivato contemporaneamente due funzioni incompatibili (si chiedono ancora oggi come ci sia riuscito), mandando in confusione la centralina. Sono uscito comunque contento, perché probabilmente senza garanzia il costo della consulenza sarebbe stato superiore al valore dell’oggetto, acquistato in un’offerta lancio di quelle epocali. Ma ero anche un po’ inquieto, senza capirne il perché. Una volta a casa, e cessato l’effetto della soddisfazione, l’inquietudine è aumentata, mano a mano che ne capivo l’origine. Avevo appena avuto l’ennesima riprova di quanto siamo ormai invischiati nella rete di controllo.

È ancora vivo lo scandalo scoppiato negli USA per le rivelazioni di un militare che ha mostrato come un terzo della popolazione sia soggetto ad un controllo costante e capillare (non so se sia ancora vivo anche il militare). Lo scandalo a mio giudizio sta piuttosto nel fatto che ci si meravigli, che si finga di non averlo mai saputo. In un paese dove senza la carta di credito puoi morire di fame in un supermercato e senza tessera sanitaria puoi crepare dissanguato sui gradini di un ospedale, e dove ogni negozio, da Tiffany alla pizzeria, ti rilascia una tessera a punti, mi sembra difficile non avere il sospetto che la propria vita sia come una vaschetta per pesci rossi, senza il minimo cono d’ombra. E non è certo lo spionaggio governativo quello più efficiente e capillare.

Sto parlando dell’America, ma quel paese è ormai quasi tutto il mondo, compresa l’Italia, sia pure con un leggero ritardo che stiamo velocemente recuperando. Il conto è facile. Siamo sessanta milioni, ma i telefoni portatili in circolazione sono circa ottanta milioni. Lasciando fuori gli infanti, Mirco Marchelli e gli ultracentenari possiamo calcolare che ogni italiano possieda in media un telefonino e mezzo. Ora, il cellulare lascia una traccia ben precisa dei movimenti di chi lo usa, anche quando è spento: è come se ciascuno di noi muovendosi disegnasse una mappa con tanto di coordinate. E non sto parlando del pericolo che vengano intercettate le conversazioni, del quale sinceramente mi importerebbe ben poco, al di là del fatto che continuo a confidare nella approssimazione e nell’incompetenza di chi dovrebbe farlo. Mi riferisco solo al fatto che i movimenti sono tracciati.

In realtà ogni nostra azione produce migliaia di input informativi. Il tom tom, i rilevatori di velocità, le telecamere dei parcheggi e i caselli autostradali raccontano i nostri viaggi, mentre le timbratrici e varie specie di auditel certificano i tempi morti (soprattutto quelli di lavoro). Se paghiamo con la carta di credito rimane traccia di ogni nostro acquisto, e quindi del nostro tenore quantitativo e qualitativo di vita. Se strisciamo le carte fedeltà la mappa si arricchisce e si colora di tutte le nostre preferenze: vengono fuori la dieta, i vizi più o meno innocenti, le debolezze. Se acquistiamo delle medicine o fruiamo di prestazioni mediche, cosa che si può fare solo con la tessera sanitaria, ci sottoponiamo ad un check up ininterrotto, e dichiariamo il nostro stato di salute ad assicuratori, datori di lavoro, consulenti matrimoniali. Tra qualche anno, col sequenziamento del DNA, non avranno più nemmeno bisogno di fare tutta questo fatica. Ma già oggi sono sul mercato dei microprocessori sottocutanei che monitorano costantemente le funzioni vitali e trasmettono i referti ad una centrale di controllo. Tempo qualche anno diverranno obbligatori, come le scatole nere sulle automobili: e con ogni probabilità potranno ricevere anche input in ingresso. Esattamente come previsto cinquant’anni fa da Bruno Bozzetto in Vip, mio fratello superuomo.

Chi è in possesso di questi dati (e sappiamo che praticamente sono disponibili per chiunque, anche quando in teoria sono classificati sensibili e dovrebbero essere tutelati) può incrociarli e ricavarne una radiografia completa della nostra personalità: ad esempio, se siamo conservatori (io vado da trent’anni dallo stesso dentista, dallo stesso parrucchiere e dallo stesso benzinaio, e da cinquanta acquisto solo auto della Fiat) innovatori o gregari, se ci affezioniamo ad un prodotto o cerchiamo la novità, o invece corriamo dietro a ogni offerta. Ma anche senza andare troppo sul sofisticato, i dati più comuni, quelli che compaiono sulla carta d’identità, data di nascita, peso, altezza, stato civile, segni particolari, attivano un’attenzione asfissiante. Dopo la mia visita a Media Word ho cominciato a ricevere per telefono e nella posta elettronica promozioni di stimolatori cerebrali e integratori per la memoria, che vanno ad aggiungersi a quelle di apparecchi acustici e montascale comparse con sempre maggior frequenza dopo il compimento dei sessantacinque anni. Aspetto ora di veder comparire quelle dei pannoloni o delle dentiere.

Questo concerne solo le informazioni che ci vengono carpite più o meno a nostra insaputa. Perché la mecca è invece rappresentata dai social network. Quello che il meccanismo di controllo rileva in modo sommario siamo poi noi a dettagliarlo spontaneamente. Milioni di persone sembrano non aver di meglio da fare che raccontare la loro vita in diretta, candidandosi a ricatti, blandizie e fregature.

Queste cose le sappiamo tutti, ma ci comportiamo tranquillamente come non le sapessimo. E almeno fino ad un certo punto è un atteggiamento comprensibile. In fondo il controllo sociale è sempre esistito: prima delle telecamere c’erano le comari, prima dei social c’erano la piazza e i confessionali. Quanto al tenore di vita e agli acquisti non erano necessarie tessere a punti per renderli visibili. Sono però cambiate le modalità e la forza pervasiva. Il controllo è diventato capillare, non basta più cambiare paese o continente per eluderlo, e allora ci rassegniamo e ci adeguiamo. Eppure, squarci improvvisi di consapevolezza come quello arrivato a me lasciano il segno.

L’inquietudine infatti non se ne è andata. Ho cominciato a innervosirmi per le mail, che continuano ad arrivare malgrado tutti i filtri attivati, a sussultare ogni volta che squilla il telefono, a evitare, se appena possibile, i percorsi autostradali, a pagare solo in contanti. Sto variando anche le abitudini alimentari, per depistare gli invii di degustazioni, e non ho esaurito un buono libri per la Feltrinelli che è lì da mesi e che una volta avrei bruciato in due giorni. Mi sono persino accorto che quando arrivo in un luogo nuovo guardo attorno nervosamente, per individuare eventuali telecamere di sorveglianza. Prima o poi finirò arrestato per atteggiamento sospetto. Insomma, sono stato sfiorato dalla sindrome del complotto, e se non fosse intervenuto qualcosa di nuovo avrei finito per votare cinque stelle.

Per fortuna gli squarci viaggiano a volte anche nella direzione opposta: una cosa banalissima può aprirti ad una angosciante rivelazione, ma una altrettanto banale può aiutarti a reggere quest’ultima e ad ammorbidirla. Così è capitato a me. Ieri sera stavo distrattamente seguendo il telegiornale. Era appena terminata una trasmissione dalla quale avevo appreso che Lenin è morto nel 1951 e che il Danubio sfocia nel mar Baltico, per cui, sapendo che si possono costruire ordigni artigianali con della semplice farina, stavo valutando se fosse il caso di usare o meno il Bimby per miscelarla meglio. Ad un certo punto, dopo la sfilata delle esternazioni di tutto lo schieramento politico, passa la notizia dell’arresto di una gang mafiosa sulla quale le indagini e le intercettazioni erano in corso da cinque anni. Nulla di diverso dal solito, ma nel mio stato di infastidita allerta un campanellino ha squillato. Cinque anni? Con tutti i cellulari, le carte di credito, le tessere-punti che costoro avranno usato, le telecamere in funzione ovunque giorno e notte e i tabulati bancari, i catasti digitalizzati e i controlli incrociati, ci sono voluti cinque anni per incastrare quattro delinquenti che si raccontavano addirittura su Facebook. Ma non era finita. La notizia successiva riguardava un caso di malasanità che se non fosse tragico parrebbe tolto da un film di Totò: ad un malcapitato è stata amputata la gamba sbagliata. Immagino che prima di arrivare sul tavolo operatorio sarà stato sottoposto a decine di esami e radiografie, che la storia della sua gamba malata fosse narrata in centinaia di pagine di referti. Gli hanno tagliata l’altra.

Ho spento il televisore. Ma, cessati l’orrore e lo sgomento iniziali, ho cominciato a combinare tutti quei segnali, grandi e piccoli. Erano indubbiamente allarmanti, eppure su di me hanno avuto un effetto rassicurante. Ho avuto per un attimo perfettamente chiaro il quadro, pauroso ma anche miserabile, della cialtroneria nella quale siamo immersi: e ho realizzato che per quanto capillare sia il controllo e vasta la messe dei dati disponibili, l’imponderabilità dell’agire umano rimane sempre il fattore decisivo. La rete ha delle falle. Ci saranno sempre idioti che per negligenza, per ignoranza, per interesse o per cattiveria pura (esiste anche questa, alla faccia di tutte le teorie sull’origine ambientale dei nostri comportamenti) vanificheranno ogni incrocio di dati, ogni aspettativa di “normalizzazione”. È stato così sempre, e non è affatto scontato che la nuova pervasività del controllo riesca ad eliminare i difetti di funzionamento. In Italia poi, è proprio fuori discussione. È anche vero che gli imbecilli sono di norma funzionali al sistema, che anzi ci campa sopra: ma lo sono fino a quando hanno comportamenti prevedibili, quelli in fondo tollerati o addirittura indotti dal sistema stesso. Se appena vanno un po’ oltre, salta tutto.

Questa, soprattutto per chi è in attesa di essere operato, è una soddisfazione piuttosto magra. È solo però la faccia brutta della medaglia, anche se è l’unica che si vede, come accade per la luna. A volerla immaginare (con una buona dose di fantasia e di ottimismo) ce n’è anche un’altra: se il sistema è vulnerabile dalla non prevedibilità, possono evitare il cablaggio integrale tutti coloro che accettano lo sforzo e la responsabilità di pensare con la propria testa. So che è una tautologia, ma è meno banale di quanto sembri, perché c’è di mezzo lo sforzo, ed è una cosa cui non siamo più molto abituati (soprattutto a quello intellettuale).

Voglio dire, in parole povere, che non basta fare gli strani o gli antagonisti o i barboni per sfuggire alla rete. Bisogna avere in testa una direzione alternativa: ma sia per individuarla che per seguirla occorre dotarsi degli strumenti giusti e di mappe credibili. Al centro di controllo non importa come arrivi dove ti vuol mandare, ma che ci arrivi comunque, e i margini apparenti di libertà che può concederti nella scelta dei modi e dei mezzi sono amplissimi. Il rifiuto, la ribellione e la protesta generiche e generalizzate gli fanno un baffo, sono posizioni assolutamente sterili e spettacolari, buone giusto per l’apertura del telegiornale o per il dibattito che segue. Se ti autoelimini gli risparmi una fatica, se ti spettacolarizzi fai esattamente il suo gioco. Quello che gli crea inciampo è invece l’autonomia di pensiero, e questa la si difende solo attraverso la conoscenza. Parrebbe del tutto scontato, lo avevano capito già duemilacinquecento anni fa i primi filosofi greci, ma oggi, dopo un secolo di sospetti e di attacchi contro ogni forma di sapere razionale e “borghese”, il concetto non va più di moda.

Pensare con sforzo non significa essere un po’ ritardati ma, al contrario, cercare di capire, di indagare, di conoscere con la propria testa, rifiutando le pappe precotte che ci vengono quotidianamente imbandite dalla mensa del sistema, anche (e soprattutto) quelle travestite da ricette alternative o esotiche. E significa poi essere conseguenti con quanto si è capito.

Gli ultimi esami del sangue mi hanno confermato ciò che sospettavo da tempo: non sono allergico a pollini o farine di alcun tipo, ma ad ogni manifestazione di ignoranza. Che è poi un problema, perché questo tipo di allergia non ha una cadenza stagionale e non si può mitigare cambiando alimentazione, ma neppure evitando le autostrade o spegnendo il cellulare. Si può farlo solo adottando una sana e rigida intolleranza nei confronti dell’analfabetismo storico ed etico, della cafonaggine, della becera arroganza degli incompetenti. Naturalmente ciò equivale quasi ad isolarsi o a girare con la mascherina come i giapponesi, perché l’ignoranza non sta nel non conoscere qualcosa, ma nel parlare di cose che non si conoscono: e se un tempo c’era un pudore “intellettuale” che frenava, c’era la paura di dire stupidaggini e di fare delle figuracce, oggi questi tabù sono caduti e tutti viaggiano a ruota libera, fornendo al sistema nuova e crescente energia. Ci sono anche i rischi di effetti collaterali, come in ogni terapia o regime salutistico, e vanno dall’esasperazione del problema alla perdita di elasticità mentale, o alla miopia nell’autovalutazione: ma vale la pena correrli. Non esistono alternative o cure omeopatiche.

Un atteggiamento totalmente conseguente non sposterà il mondo di un millimetro, ma cambierà almeno il mio modo di sentirmi nel mondo. Mi eviterà di perdere tempo con gente che vuole deviare il corso del Danubio e che fa sopravvivere Lenin (in stato semi-vegetativo?) fino al secondo dopoguerra, ma anche, e soprattutto, con chi lo crede vivo ancora oggi, con chi vede complotti massonici e plutogiudaici da ogni parte e con i piazzisti che cercano di vendermi merce politica, culturale, artistica contraffatta. Mentre sto scrivendo queste cose, alla radio (prima rete) sta passando una composizione di Luigi Nono (anno 1964, vendemmia epocale) dedicata al fronte di liberazione vietnamita, considerata tra le sue opere più importanti: gli strumenti sono lastre di rame sfregate con chiodi, immagino arrugginiti, e nastri magnetici, come quelli che avevo io nel Geloso, fatti scorrere manualmente per produrre sibili e scricchiolii. Ci sono anche voci che intervengono a sacramentare in sette o otto lingue diverse in perfetto stile brechtiano, oltre a quella del curatore dell’evento che spiega diligentemente cosa cavolo sta accadendo e perché sia tanto importante. Credo che la cosa andrà avanti per un’ora: non lo so, non mi interessa, perché ho tacitato immediatamente la radio, dicendo tra me e me: “Ma per favore!”

Compiendo questo gesto non sono scomparso dagli schermi radar e non mi sono sottratto alle promozioni e al controllo: ma alla soggezione nei confronti dei falsi idoli del teatrino contemporaneo, a quella si. La prossima mossa però sarà chiudere alla veloce, prima di scoprirmi a mia volta cialtrone e allergico a me stesso. Perché queste incompatibilità non le sistemano nemmeno a Media Word: non rientrano nella garanzia.


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Critica della ragione informatica

di Paolo Repetto, 2013

Le molte ore trascorse davanti al computer per realizzare questo libretto mi hanno costretto a rimeditare il mio rapporto con la tecnologia. Ne sono scaturite alcune elementari considerazioni, che sarà il caso magari di sviluppare e argomentare meglio in altra sede, ma che vorrei già qui proporre come stimolo, per me e per gli amici, a proseguire lungo il cammino intrapreso. Questo lavoro è stato reso possibile da un supporto tecnologico che è ormai alla portata di chiunque, ma che solo dieci anni fa sarebbe apparso (almeno a noi) fantascientifico. In questo frattempo non è caduto solo il muro di Berlino, sono crollate ben altre barriere. Oggi chiunque è in grado, con un po’ di buona volontà, di far circolare le proprie idee in una veste dignitosa. La stampa e l’impaginazione non hanno nulla da invidiare a quelle dell’editoria professionale, e il risultato non è solo l’appagamento di uno sfizio estetico, ma una leggibilità che si traduce in rispetto per il lettore e incentivazione alla lettura.

Non dobbiamo illuderci, naturalmente, che tutto questo non abbia dei costi, e non mi riferisco a quelli materiali per l’acquisto, la gestione e il ricambio degli strumenti. Mi riferisco a due aspetti, due rovesci di medaglia connessi a questa nuova potenzialità. Il primo concerne proprio la qualità del prodotto. Ciò che ciascuno di noi è in grado di produrre oggi ha sì un aspetto dignitoso, ma si tratta di una dignità conquistata con l’omologazione ad uno standard: ogni nostro discorso sembra acquisire credibilità ed autorevolezza nella misura in cui si allinea, almeno nell’incarto della confezione, al linguaggio ufficiale del sistema. La potenziale diversità dei contenuti viene mimetizzata dalla conformità dell’etichetta, e forse davvero già in parte disinnescata dall’atteggiamento, o meglio dal tipo di attenzione, che induce nel lettore. Per capirci, quando ci si trova di fronte a caratteri e forme del tutto simili a quelli con cui viene confezionata ogni velina del sistema si finisce per rapportarsi al testo con attitudine non molto dissimile.

Ma non è tutto. Una forma di condizionamento viene esercitata dalla informatizzazione del testo anche alla fonte, nel momento in cui abbiamo la possibilità di tradurre in tempo reale i nostri concetti nel formato stampa, cioè in qualche modo di ufficializzarli, e di leggerli in una veste che almeno graficamente ha già le caratteristiche del prodotto finito. La sensazione di precarietà, di soggettività, e quindi lo stimolo al ripensamento implicito nella scrittura manuale, vengono meno quando le nostre parole si allineano in perfetto ordine sul monitor, e prefigurano l’impeccabile schieramento sulla pagina: uno schieramento più adatto allo spettacolo della parata che al caos della battaglia, che finisce per condizionare fortemente anche la manovra dei concetti. Paradossalmente, proprio la possibilità di intervenire infinite volte sul testo in tempi brevissimi, di integrarlo e modificarlo senza scomporne l’ordine visivo, possibilità che così bene si attaglia all’andamento spezzato e cumulativo del nostro pensiero, disattiva le barriere critiche e i filtri di una meditata rilettura.

Di questo dobbiamo essere consapevoli. E tuttavia questa consapevolezza non può andare disgiunta da un’altra, quella che la tecnologia primitiva del ciclostyle, rozza ibridazione tra la manualità e la riproduzione a stampa celebrata come alternativa alla sofisticazione degli strumenti del potere, si alimentava in realtà di un falso mito, gratificava solo chi i testi li produceva (se era di bocca buona) ma non ha mai incoraggiato nessuno a leggerli.

La seconda obiezione attiene invece all’aspetto quantitativo. L’enorme massa di prodotti culturali messi in circolazione sia dalle reti sia dalla produzione editoriale personalizzata vanifica in realtà l’apparente democratizzazione comunicativa. Le voci che prima erano escluse dal coro ora si perdono nella infinita folla dei coristi. Forse era davvero più facile trovare un uditorio minimo ma attento quando gli strumenti di cui si disponeva non erano accordati, e il loro suono risaltava proprio per la distonia. E ancora: perché dovrebbe importarci di giungere virtualmente a milioni di interlocutori, quando ciò che abbiamo da comunicare non attiene più alle idealità universali di liberazione ma ad un riscatto quotidiano e singolare dalla miseria dell’esistenza, ed è in verità condivisibile solo con pochi intimi?

Forse tutto questo è vero, e forse il lavoro che sto facendo è solo una povera compensazione di quel che è andato perduto. Ma questa consapevolezza non riesce comunque a rovinarmi il piacere che ne ho tratto e quello che ancora me ne attendo. Ho realizzato un piccolo sogno, governandone ogni passo, decidendone le sequenze, i tempi, il colore e persino il numero e la qualità dei destinatari. Mi è stato possibile grazie ad una particolare tecnologia, e gliene sono grato. Non mi sono arreso alle sirene dell’utopia tecnologica e non mi sono convertito al suo credo: ho semplicemente sfruttato qualcosa che bene o male avevo a disposizione. Ora me ne stacco, e lo lascio lì, spento e inerte. Sino alla prossima volta.

 

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Vent’anni dopo

di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 8, gennaio 1998

Vent’anni. Sembra trascorso un secolo, o addirittura un’era. Rileggo l’articoletto sul goldrakismo e ho l’impressione di fare un salto nella preistoria. Ciò che lì era ironicamente prospettato come futuribile è già il presente, anzi, è già alle nostre spalle. L’incubo si è tradotto in realtà così velocemente che non è stato nemmeno possibile aggiornare i cartoons, adeguarli all’evolvere della situazione. Il vecchio Goldrake continua a sfrecciare sui teleschermi, svenduto alle emittenti minori, ma ha assunto ormai la patina d’epoca dei films di Meliés o della fantascienza d’anteguerra. È maturo per la pensione e per l’antiquariato da fascia notturna di Ghezzi e compagni.

I figli dei nostri pargoletti non girano armati di maglio perforante e non ci ustionano con i laser-giocattolo: semplicemente, inchiodati alla plancia, ci disinseriscono col telecomando, ci smaterializzano staccando la spina o sincronizzandosi altrove. E noi ci aggiriamo raminghi tra i loro paradisi virtuali e il nostro limbo quotidiano, ridotti a ologrammi, muovendoci in scenari a metà strada tra la “normalità” angosciante de “L’invasione degli ultracorpi” e i gironi danteschi di “Blade Runner” o di “Nirvana”.

Tutto è dunque già accaduto; dietro il trascorrere in superficie di prime repubbliche e regimi totalitari, e il permanere di papi viaggiatori, di fedi e costanzi e di massacri integralisti, la vicenda autentica dell’uomo, quella di lungo periodo della sua corporeità e dell’interazione con ciò che lo circonda, è entrata in una nuova fase. Di questa transizione noi siamo stati (siamo) al contempo vittime e protagonisti, ma la repentinità del fenomeno ci ha frastornati, ci ha impedito di averne piena consapevolezza. Attrezzati a gestire il permanente, a misurare il cammino a passi corti e lenti, abbiamo perduto l’equilibrio quando il nastro trasportatore è impazzito e ci ha proiettati violentemente in avanti. Eppure i sintomi di quanto stava avvenendo c’erano. Non ci siamo svegliati scarafaggi all’improvviso, un mattino. La nostra metamorfosi arriva di lontano, ha una storia lunga.

La storia è quella dell’ambiguo rapporto che da sempre gli uomini hanno intrattenuto con l’universo dei propri manufatti, con gli infiniti prodotti, materiali o immateriali, delle più svariate tecnologie, e di come tale rapporto sia degenerato in sudditanza nel corso dell’età moderna e contemporanea. Di come cioè negli ultimi tre secoli gli oggetti frutto di artificio si siano progressivamente emancipati dal controllo umano, costituendosi in seconda natura, sovrapponendosi alla natura originaria e soppiantandola, al punto che oggi per gran parte dell’umanità questa seconda natura è l’unica percepibile. E di come quella che nel mondo occidentale è da tempo una condizione comune si appresti a diventarlo in tutto il globo. Tradotto in polpettine tutto questo significa che da quando mi sono alzato stamani, anzi, da prima ancora di svegliarmi, ho avuto a che fare solo con case, auto, sanitari, elettrodomestici, asfalto, computer, telefono, ecc… Che ho intravisto – fuggevolmente – prati e boschi soltanto perché abito fuori città: ma che alla maggioranza dei miei simili non è data neppure questa opportunità. Significa che ho ascoltato musica e rumori e voci riprodotte dalla radio, che ho parlato con i colleghi non della pioggia che cadeva ma delle previsioni meteo, che ho discusso con gli studenti non di fatti ma delle interpretazioni che ne hanno dato giornali e televisione, e che affido queste mie considerazioni non ad un uditorio paziente ed amico, ma alla tastiera di un computer. Significa in sostanza che per quanto uno si sforzi di difendersi, di evadere in campagna o in Patagonia, e di sottrarsi al rimbambimento multimediale, non può sfuggire alla pervasività di un sistema che è tutt’uno con il suo ambiente di coltura, che è partito scavandosi una nicchia e ha finito per spianare la montagna. Cose trite e ritrite: ma proprio il fatto che appaiano scontate dimostra quanto sia considerato naturale un modo di vivere che di “naturale” non ha più nulla.

Questa, si dirà, è una storia nota: ma nota, a quanto pare, non vuol dire conseguentemente acquisita, in tutte le sue implicazioni economiche, sociali e culturali, quanto piuttosto tumulata negli scaffali delle biblioteche o banalizzata dalle profezie di celestini vari, e terapeuti new age ed ecologisti patinati. Se davvero fossimo coscienti del senso e della reale portata di questa trasformazione ci renderemmo anche conto che i passi compiuti negli ultimi decenni muovono in una direzione ulteriore, quella che dall’interazione con gli oggetti porta all’ibridazione, e che magari varrebbe la pena pensarci su un attimo. Invece, malgrado gli sviluppi più recenti del rapporto uomo-macchina lascino pochi dubbi su dove si andrà a parare, l’inquietudine per le prospettive che si aprono continua a stimolare solo l’immaginario fantascientifico, mentre dove la riflessione pretende ad una dignità filosofica o scientifica sembra trionfare la più beata incoscienza (quando non la malafede). Ma forse è naturale che ciò accada. Nei confronti di un sistema fondato sul divenire incessante e progressivo l’unica forma di riflessione possibile è proprio l’anticipazione visionaria, quali che ne siano le matrici e gli intenti (sia cioè che nasca dai timori per le scelte presenti e ne prospetti esiti catastrofici o angosciosi, sia che tragga spunto invece da una fede incondizionata nella scienza e ne enfatizzi le risposte “vincenti”), È sempre stato così, in fondo, dalla rivoluzione scientifica in poi. Mentre Kant trovava nella razionalità i presupposti per la pace universale e Robespierre quelli per il trionfo dell’uguaglianza, Goethe sentiva l’odore di zolfo e di negromanzia esalato dalla tecnica moderna, e Frankenstein incarnava l’avvenire dell’Idea molto meglio della filosofia di Hegel. Conviene dunque rivolgerci un’altra volta, come vent’anni fa, alla fantascienza, letteraria o cinematografica, d’autore o di dozzina, per ritrovare le tracce del percorso che ha condotto all’attuale “incoscienza” o, peggio, all’accettazione consapevole del post-umano.

 

Se era ancora possibile ironizzare (ma mica poi tanto) sul catechismo biomeccanico predicato da Goldrake e compagni, e ascrivere Hal 9000, il calcolatore paranoico di “Odissea nello spazio”, al filone ormai classico dell’apprendista stregone (mentre in un altro genere ancora rientrano le macchine “animate”, come il “Katerpillar” di Sturgeon o il camion di “Duel”), con lo straordinario “Alien” di Ridley Scott (1979) i termini del problema sono stati spostati decisamente in avanti. L’alieno in questione è un organismo al penultimo stadio del divenire macchina, e quindi perfetto, invincibile e mostruosamente spietato, che si avvale anche della naturale alleanza in funzione anti-uomo di un androide, una macchina a sua volta all’ultimo stadio di evoluzione verso l’organico. Alien, a differenza di Hal 9000, non può essere sconfitto da alcuna superiorità logica o arma tecno-logica o alleanza con il “divino”: sarà battuto solo dal caso, da un comportamento illogico della sua antagonista e, soprattutto, dalla ferrea legge hollywoodiana dell’happy end. Meno sofisticato e metaforico, ma altrettanto indistruttibile e devastante è il cyborg di “Terminator” (1984): ancora un androide (quindi passaggio macchina-uomo) visto in negativo, che ribadisce però la superiorità adattiva, e quindi i rischi di incontrollabilità, del biomeccanico. In “Blade Runner”, però, (1982, ancora di Ridley Scott, da un romanzo di Philip K. Dick) fa già capolino un atteggiamento più possibilista; ai mutanti, androidi umanizzati sino alla composizione cellulare, è concessa in fondo la cittadinanza nel genere umano: Quando poi si tratti di cyborg inversi, cioè di uomini protesizzati, trasformati almeno parzialmente in macchine, i dubbi in genere svaniscono. Dall’uomo bionico al Robocop, cui di organico è rimasto solo il cervello, è tutto un festival di paladini del bene e della giustizia, non più importati da Krypton ma fabbricati in casa, prototipi per una futura commercializzazione in serie.

Posso aver saltato qualche passaggio, ma credo che la morale di fondo sia comunque chiara: se la macchina si umanizza, qualche problema lo può anche dare (e non si vede come non essere d’accordo), mentre se è l’uomo a farsi macchina non gliene può venire che un gran bene. Che è poi la stessa morale rozzamente espressa a suo tempo dai cartoons giapponesi, e più rozzamente ancora da Romiti, e che negli ultimi anni è stata abbracciata con entusiasmo dalla ex-sinistra tradizionale di tutto l’occidente, in fregola di patti sociali e di standard di competitività. Ma le vie del post-umano, se non infinite, sono senz’altro molteplici: e quella più diretta, più recentemente aperta e già più frequentata passa per la “fantascienza dell’interno”, per il cyberpunk (il cui esponente di spicco è William Gibson). Il più aggiornato immaginario fantascientifico si libera della mediazione – in fondo esorcizzante – di alieni e astronavi interplanetarie, e riconduce l’azione sul vecchio pianeta, trasferendola in un futuro prossimo decisamente verosimile, caratterizzato da dinamiche del tutto o molto simili a quelle che noi tutti quotidianamente viviamo. Ma i suoi personaggi si muovono tra i ghetti di metropoli degradate e ingovernabili e una nuova dimensione definita cyberspazio, lo spazio digitale nel quale navigano le informazioni. All’interno di questa realtà virtuale si gioca il confronto tra i controllori della rete e della merce informatica e i ciberpunk, corsari del cyberspazio che utilizzano le loro conoscenze massmediologiche avanzate per sgusciare tra le maglie del sistema o per aggrovigliarle. Per la prima volta la letteratura del futuribile è cronaca romanzata del presente o addirittura del passato prossimo, epica della gesta degli hakers (i pirati del computer) e delle navigazioni ed esplorazioni informatiche. Ed interpreta l’aspettativa di una mutazione antropologica e mentale che in realtà è già operante e pervasiva, e che proprio per questo comincia ad essere fatta propria anche dalla riflessione sociale e politica.

Anche prescindendo dalle farneticanti scorribande tecno-mistiche di scuola statunitense, che non vanno comunque liquidate come espedienti da spettacolo, il cyber-pensiero ha una storia singolare. Affonda paradossalmente le sue radici nella critica di Baudrillard, di Touraine e di altri post-sessantottini alla modernità e al “sistema degli oggetti”, passa per la deriva situazionista dell’appropriazione-smascheramento della tecnica e per le “macchine desideranti” di Deleuze e Guattari, e approda da ultimo alla compiuta teorizzazione del “postumano” come ineludibile e positiva risposta all’avvento della dimensione artificiale. (cfr. Maurizio Terrosi, ne “La filosofia del post-umano”, 1997). Le implicazioni politiche sono immediate. Se in un primo momento l’appropriazione delle abilità informatiche veniva giustificata ai fini di un’azione di disturbo, delle piratesche incursioni in rete degli hakers che consentivano di destrutturare il sistema planetario di informazione-comunicazione e di disvelarne le caratteristiche autoritarie e antidemocratiche, oggi “vi è una speranza, assai diffusa in alcuni settori della nostra società, che le teletecnologie interattive e multimediali possano contribuire ad un drastico spiazzamento del nostro presente modo di intendere e di praticare la democrazia, Si confida che queste tecnologie siano in grado, in sé e per sé, di aprire la strada a una versione diretta, ossia partecipativa, di democrazia”. (Tòmas Maldonado)

 

Siamo quindi alla lettura democratica dell’allacciamento in rete di cervelli e volontà, della dilatazione artificiale delle capacità mentali e interattive; lettura che nasce nella “sinistra” dall’ansia di essere più realista del re, dal timore di trovarsi nelle retrovie in un’epoca nella quale sembra scemare l’importanza del dominio sui corpi (che era strategico per la civiltà industriale) e divenire determinante quello sulle menti. Ciò spiega la relativa indifferenza (o anche la benevola curiosità) con la quale viene vissuta l’invasione tecnologica dei corpi. Il corpo umano, che serviva per produrre merci, diviene meno importante, meno sacro, dal momento che il processo produttivo si basa oggi principalmente sulla trasmissione, sulla accumulazione e sulla gestione di dati, e non sulla produzione materiale. Il piccolo particolare che nei cinque sesti del mondo si stia intensificando il dominio e lo sfruttamento dei corpi per produrre merci materiali a costi irrisori viene considerato ininfluente (e fastidioso e anacronistico riesce chi cerca di rammentarlo).

Anche le implicazioni socioculturali del cyber-pensiero sono eclatanti. I nuovi media vengono considerati per loro natura e struttura “egualitari”, a differenza di quelli più antichi (vedi: libro), che avevano una connotazione classista ed esclusiva. La loro “manipolazione” è aperta a tutti, e il problema concerne non gli strumenti in sé, ma chi li usa e a quale scopo. È il vecchio ritornello della tecnologia “neutrale”, né buona né cattiva, pura possibilità imparzialmente offerta a tutti, che si credeva dimenticato e che viene invece riproposto in un nuovo arrangiamento.

 

Questo è dunque lo stato odierno della “ragione informatica”, e anche da una sintesi confusa e incompleta come quella proposta si può intuire quale sinistra (appunto) piega le cose possano prendere. Vale forse la pena fermarsi un attimo, prendere respiro e cercare di orientarsi tra i fumi turibolari del nuovo credo tecnologico. L’unica cosa su cui non si può non convenire è che è in atto, e in stato già avanzato, una vera e propria mutazione psicofisica dell’uomo, frutto dell’innesto stravolgente del meccanico, o più estesamente, dell’artificiale, sul biologico: è il passaggio dall’umano al post-umano, appunto. Di tale trasformazione noi percepiamo distintamente solo taluni risvolti, di per sé positivi, ma carichi di ambiguità (organi artificiali, protesi, ecc…, intesi per il momento a correggere carenze, malformazioni o mutilazioni, ma passibili domani di ben altro utilizzo); mentre rifiutiamo di cogliere il senso e le implicazioni profonde del fenomeno, e tendiamo a leggerlo come la naturale prosecuzione di un percorso avviatosi migliaia, o forse milioni di anni fa, quando l’uomo ha iniziato a produrre strumenti e manufatti, e a subirne la fascinazione. Ciò che ai più sfugge è che la terza rivoluzione industriale, quella dell’automazione, dell’informatica e della telematica, non si è limitata ad accelerare questo processo, ma ha creato l’humus per l’instaurazione di un rapporto “organico” con gli oggetti, per il salto dal rapporto di utilizzo a quello di simbiosi e, in prospettiva, a quello di sudditanza. Ha creato, cioè, non solo le condizioni ma anche e soprattutto la necessità di un rapido adeguamento dell’essere umano alla trasformazione ambientale.

Ora, il meccanismo delle risposte adattive, quello che i biologi chiamano evoluzione, funziona da quando esiste la vita, e interessa tutte le specie. C’è solo un particolare. Nel caso dell’uomo ha funzionato sin troppo. La specie umana è saltata dal lento carro dell’evoluzione sull’accelerato della civilizzazione, ed ha poi spinto a tavoletta sino a trasformare quest’ultimo in un TGV. Prima si è adattata a tutti gli ambienti, poi ha cominciato ad adattare gli ambienti a sé. E nel fare ciò, nel modificare l’ambiente – inteso nel senso lato dell’insieme di operatività, comunicazione, interrelazione, ecc … – l’uomo è andato talmente oltre da dover ora rimodellare, ri-adattare a quest’ultimo la propria morfologia, intervenendo artificialmente per l’impossibilità di conciliare i tempi lunghissimi del processo evolutivo con quelli frenetici del sistema produttivo (e magari anche per scongiurare esiti imprevisti e non graditi).

Ciò che rende necessaria (e possibile) oggi questa operazione, la chiave che ha aperto le porte del corpo all’invasione tecnologica, è probabilmente da rintracciarsi nell’introduzione di modalità diverse dell’esperienza e dell’uso del tempo. Ogni tecnologia, anche la più semplice o la più primitiva, ha senza dubbio determinato uno sfasamento progressivo tra i ritmi biologici e quelli “culturali”: ma lo stacco decisivo, quello che ha spalancato la forbice, si è verificato allorché alla colonizzazione dello spazio (conquista e trasformazione dell’ambiente) si è sovrapposta quella della dimensione temporale (imprigionamento del tempo in congegni meccanici). L’orologio meccanico ha sostituito la percezione ciclica e naturalmente scandita delle durate (cicli diurni, lunari, stagionali, ecc …) con la loro segmentazione in una sequenza rettilinea, uniforme e ininterrotta Ha trasformato un’esperienza interiore elastica ed individuale, solo occasionalmente intersecata da scadenze collettive (rituali, festività, ecc …) e comunque condivisa, anche in queste occasioni, da gruppi ristretti, in un rigido parametro esterno, misura universale e freddamente oggettiva dell’interagire tra gli umani e del loro rapportarsi produttivo allo spazio e alle cose (cioè degli spostamenti e delle lavorazioni). Ha desacralizzato il tempo, svuotandolo di ogni autonomo significato connesso alla soggettività (quale, ad esempio, il radicamento che consegue all’abitare un luogo per una vita o per generazioni, oppure la traduzione del passato in memoria) per riempirlo di un “valore” assoluto (il tempo-denaro). Lo ha sminuzzato in particelle sempre più infinitesimali per poterne gestire ogni singolo frammento e comprimerne ogni interstizio.

Agli effetti pratici questa coscienza “meccanica” del tempo ha reso possibile l’eliminazione di ogni lasso temporale non produttivo – dai tempi “sacri” del calendario a quelli “morti” nelle lavorazioni – o la riconduzione degli stessi nell’alveo del sistema totalizzante produzione-consumo. Ma ha anche modificato le modalità di percezione e di occupazione dello spazio, nonché la tipologia delle prestazioni richieste all’organismo umano. La corsa al contenimento dei tempi di produzione ha indotto il passaggio alla meccanizzazione e al taylorismo, e successivamente all’automazione. Ne è conseguita una crescita esponenziale del prodotto, che ha portato la progressiva dilatazione dei mercati – sino all’odierna globalità – e la necessità per l’uomo di velocizzare gli spostamenti suoi (anzi, di passare dal viaggio allo spostamento) e delle merci, e di rapportarsi concretamente a distanze sempre più ampie. Ciò ha interessato naturalmente la circolazione di qualsiasi tipo di prodotto, materiale ma anche, e oggi principalmente, culturale.

Le tecnologie della mobilità e quelle della comunicazione hanno dunque ristretto il mondo, comprimendo le prime i tempi di percorrenza dell’intero globo in un arco solare, le seconde riducendoli a zero, consentendo una presenza virtuale in tempo reale. E questi risultati sono gravidi di conseguenze. Per quanto contenuti possano essere infatti i tempi del nostro spostamento, non è possibile occupare fisicamente spazi diversi nello stesso momento: mentre è possibile farlo virtualmente, interagire con essi o controllarli attraverso le protesi comunicative e informazionali. È quanto già quotidianamente accade, ma è soprattutto la nostra condizione futura di “cittadini terminali, handicappati motori superequipaggiati di protesi interattive, di ricettori e sensori” (Paul Virilio) attraverso i quali possono essere controllati contemporaneamente gli spazi esterni della produzione e quelli domestici del consumo. Tale condizione, anche senza necessariamente sfociare nella patologia della perdita di motricità e di coscienza tattile, crea comunque esigenze operative alle quali il vecchio modello naturale non è più in grado di fare fronte: e se in occasione di altre svolte epocali (dalla domesticazione del fuoco e degli animali alla stanzialità, dalla nascita della metallurgia alla rivoluzione agricola, fino alle prime rivoluzioni industriali) l’organismo umano ha potuto trarre da sé le risorse per la risposta, selezionando e potenziando di volta in volta caratteristiche adattive preesistenti, oggi le nuove modalità e le urgenze dell’adeguamento sono tali da indurre una sua capitolazione.

È a questo punto che si pone il discrimine: la linea di confine si fa sempre più sottile e diviene possibile il balzo nel post-umano. Se oggi possiamo scegliere di potenziare o meno le nostre abilità, allacciando i nostri cervelli alle reti telematiche, le nostre voci a quelle telefoniche, i nostri corpi a quelle stradali, o aeree o ferroviarie, il prossimo passo sarà quello dell’allacciamento coatto, della vera e propria in-corporazione dell’apparato tecnologico che medierà i nostri rapporti con gli altri post-umani e con la natura seconda.

Il problema, come si è visto, non concerne nemmeno più la possibilità che ciò avvenga, per certi aspetti è già avvenuto. La prima fase del trasferimento dell’umanità alla dimensione artificiale, quella del condizionamento mediatico, è ormai alle nostre spalle; essa costituisce già il patrimonio culturale di un paio di generazioni, per le quali l’universo delle conoscenze e delle competenze è divenuto meramente virtuale, e la consuetudine con i supporti tecnologici, favorita dai prodigi della miniaturizzazione e quindi dalla portatilità (telefonini, walkmen, computer portatili, ecc…) si è tradotta in dipendenza. Ma anche la seconda fase, quella di attuazione delle biotecnologie e della biomeccanica, è bene avviata: le pionieristiche banche di organi e la fecondazione in vitro sono già rese obsolete dalle potenzialità della clonazione, l’ingegneria genetica consente di selezionare o creare ex-novo caratteri adattivi, la biomeccanica di tradurre in impulsi elettrici gli stimoli nervosi, interfacciando le protesi con i terminali corticali.

Si apre così la strada al terzo stadio, quello che prevede la combinazione delle tecnologie invasive (interventi diretti sul corpo, sostituzione e rigenerazione di organi, potenziatori sensoriali, ecc…) con quelle estensive (che comprendono qualsivoglia protesi, da quelle motorie – dal martello alla macchina utensile computerizzata – a quelle di sussidio alla locomozione e al trasporto, da quelle sensorio-percettive – dagli occhiali al telefono, ai riproduttori di immagini e suoni – fino a quelle intellettive – da ogni forma di linguaggio al computer), e in parallelo, come naturale conseguenza, la totale de-naturalizzazione delle esperienze sensoriali e psichiche, canalizzate verso la natura seconda artificiale o verso la dimensione virtuale non più soltanto dalla persuasione mediatica (esterna) ma da un interfacciamento diretto. Per intanto siamo già al tamagochi, criceto o pesce rosso virtuale, ai caschi per la full immersion nello spazio virtuale, al sesso virtuale, ecc…: non ci vuole molta fantasia per immaginare ulteriori virtualizzazioni). La miniaturizzazione, la concentrazione di energia di lunga durata in microcapsule, la realizzazione o l’utilizzo di materiali sempre più omogenei alle strutture organiche consentirà di inserire direttamente nell’organismo umano protesi di ogni tipo, collegamenti intra-circolatori, recettori e terminali di sensorialità e di sensibilità (e perché no, di sessualità). Per poter rispondere alla moltiplicazione degli stimoli e alla dilatazione degli impegni, ovvero per poter svolgere contemporaneamente attività diverse, i corpi dovranno essere ri-adeguati, attrezzati con artefatti di minimo ingombro e il più possibile celati, per l’appunto in-corporati. È facile ipotizzare, ad esempio, che per ovviare alle restrizioni legislative sull’uso dei telefoni cellulari si arriverà a brevissimo termine all’inserimento di micro-ricevitori permanenti nei padiglioni auricolari, compiendo un ulteriore passo verso la telepatia artificiale. Ed è altrettanto immediato far correre la memoria a certi film fantascientifici anni cinquanta, o al “Mio fratello superuomo” di Bozzetto, che mostravano gli umani collegati attraverso microricettori ad una emittente centrale di controllo.

Non ha più molto senso, dunque, dubitare ancora dell’effettiva comparsa di una mutazione del corpo umano, o meglio del suo declassamento a struttura da controllare e modificare: Si impone invece una riflessione seria sul nostro atteggiamento in proposito. Quello che a me (e spero anche ad altri) parrebbe automatico – anzi, no, naturale –, il rifiuto di ogni invasione protesica non surrogativa o integrativa, ma amplificativa, non limitata cioè a ripristinare la funzionalità corporea ma mirante ad ottimizzare il rapporto di intervento sul o di conoscenza dell’ambiente, non riscuote in generale molte simpatie, e meno che mai, come si è visto, a sinistra. Se il pensiero tradizionale, laico o religioso, è frenato più che dal rispetto del corpo (nei confronti del quale, anzi, la cultura cristiana ha nutrito da sempre un certo disprezzo) dalla connaturata diffidenza per ogni novità o cambiamento (almeno per quelli non riconducibili in qualche modo a ad archetipi), quella progressista non conosce questi timori, né altre reverenze, e preferisce liquidare il rifiuto o la perplessità come patetici atteggiamenti tecnofobi o resistenziali., ai quali va opposta invece un’attitudine aperta e disincantata. Ora, per quanto aperto uno sia non può non rendersi conto che la strategia della liberalizzazione totale dei media e delle reti, quella per intenderci che dovrebbe esaltare i contenuti emancipatori e democratici delle tecnologie informatiche e che viene al momento identificata ad esempio con Internet, è perseguita soprattutto dai grandi monopoli multinazionali, nei quali è difficile sospettare una qualche sollecitudine per il futuro della democrazia. O ancora, che il disincanto nei confronti dell’invasione corporea e mentale non può spingersi sino ad ignorare come le maggiori pressioni in tal senso vengano dall’area del potere economico e politico, che evidentemente ha già messo nel conto le tattiche di gestione del mutamento. Non si tratta qui di riesumare i fantasmi di un complotto capitalistico mondiale, di una diabolica macchinazione ordita da centri di potere occulti; oltre che ridicolo sarebbe anche troppo bello, perché offrirebbe la possibilità di identificare un nemico concreto contro il quale battersi. Si tratta invece di far valere un minimo di buon senso, quello sufficiente a capire che ciò di cui si parla è un fenomeno sfuggito già da tempo al controllo di qualsiasi potentato e ormai autonormativo, un modo di produzione che è diventato sistema globale, nel senso non soltanto che interessa tutto il globo, ma che tende ad inglobare, ad incorporare ogni attività performativa o conoscitiva del reale, e quindi gli organi che la sviluppano, e a rendere il tutto funzionale alla propria perpetuazione. Altro che tecnologia neutrale, da padroneggiare e amare e sottrarre alle voglie dei cattivi. La metafora di Alien qui torna a pennello: il mostro è invincibile, e si alimenta di tutto, anche e principalmente delle nostre abilità e specializzazioni. Ma un buco, un portellone aperto dal quale possa irrompere il caso e risucchiare la minaccia nel vuoto in genere rimane: difendiamolo da noi stessi, dalla nostra presunzione e dalla paura degli spifferi.

 

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Chi sono i Viandanti delle Nebbie

di Paolo Repetto, 30 dicembre 1996

Forse si farebbe prima a dire “cosa” non sono. I “Viandanti” non sono un partito politico, ma oppongono una resistenza politica ad ogni forma di omologazione istupidente; non sono un gruppo sportivo, ma praticano la disciplina sportiva più pura, quella che richiede solo buone gambe, volontà e fantasia; non sono un’agenzia di viaggi, ma promuovono una conoscenza non utilitaristica del territorio; non sono un’associazione ecologica, ma si battono da bravi indigeni per la difesa del “loro” ambiente; non sono un’accademia culturale, ma coltivano ogni manifestazione non istituzionalizzata del sapere; non sono un ordine mendicante, ma rifiutano la logica della mercificazione di ogni idealità.
In breve, non rispondono ai requisiti di visibilità imposti dal dominio dell’insignificanza virtuale. Sono invece un’esperienza, anzi tante, diverse, continue esperienze di (r)esistenza extra-catodica e post-cellulare, cioè di vita degna di questo nome, di amicizie, di letture, di escursioni, di convivi, di scoperte, che non vogliono essere consumate in un arcadico distacco, ma vanno trasmesse nelle forme più semplici, dirette e genuine, attraverso le quali è possibile esprimere sogni, idee ed emozioni, ed invitare gli altri ad esserne partecipi (e non spettatori).

 

Io sono un viandante, uno scalatore, disse egli al proprio cuore; io non amo le pianure e, a quanto pare, non posso starmene a lungo tranquillo. E qualunque destino o esperienza mi tocchi, – in essi sarà sempre un peregrinare e un salire sulle montagne: alla fine non si esperimenta che se stessi.
FRIEDRICH NIETZSCHE

 

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