Alla ricerca di un impero

dicembre 2025

di Paolo Repetto, 8 dicembre 2025

Per valutare la qualità della vita in un luogo, sia esso una nazione o una singola città, si sommano e si incrociano diversi criteri, che vanno dal tasso di istruzione a quelli di occupazione o di criminalità, dal reddito pro-capite all’aspettativa di vita, dalla qualità dell’aria e dell’acqua all’efficienza dei trasporti: ma alla fine le graduatorie che ne risultano vedono nelle primissime posizioni sempre gli stessi nomi. Ora, è evidente che queste valutazioni possono essere considerate “oggettive” solo fino ad un certo punto, perché il peso e la rilevanza dei vari parametri dipendono da chi le graduatorie le stila, e qui entrano in gioco un sacco di interessi, (dagli operatori turistici alle compagnie di bandiera, agli enti promozionali, persino alle pressioni politiche, ecc…); ma soprattutto perché sono espresse a partire da un particolare punto di vista (nella fattispecie, quello del modello culturale “occidentale”).

Al netto di tutte le obiezioni “politicamente corrette”, dobbiamo comunque ammettere che offrono un quadro abbastanza realistico della situazione, senz’altro più attendibile di quello che possiamo trarne soggettivamente da visite in genere frettolose (e compiute magari in condizioni non ideali di salute o di compagnia, o disturbate da inconvenienti di varia natura). Anche se poi il quadro di cui conserviamo il ricordo, e che trasmettiamo ad altri nel racconto delle nostre esperienze, è proprio quest’ultimo.

Verrebbe però da chiedersi a chi e a cosa servano queste graduatorie. Io credo rispondano alla sempre crescente necessità del mondo moderno di sterilizzare, amalgamare e ricondurre tutto entro tassonomie matematiche (per ogni singolo fattore di valutazione è assegnato un punteggio, e il risultato è una sommatoria), oggi si direbbe algoritmiche, tali da consentire la pianificazione e il controllo di ogni attività: e naturalmente, per ricaduta, a influenzare ad esempio le nostre scelte di viaggio. Ma non possiamo negare che siano anche specchi nei quali si riflette in definitiva la natura umana più profonda: perché seppure di norma pensiamo di essere attratti da ciò che trasmette emozioni forti, dal “sublime” romantico per intenderci, in realtà quel sublime lo apprezziamo solo come gli spettatori di lucreziana memoria che dalla riva assistono a un naufragio. Non è più tempo di avventurieri, ma di turisti. Per questo finiamo poi per preferire in genere mete “sicure”, che garantiscano un certo livello di ordine, di tranquillità e di razionalità; per questo difficilmente prendiamo in considerazione Haiti o Mogadiscio, che di emozioni ne riservano a bizzeffe; e per questo, tra l’altro, ci indispettiamo e recriminiamo quando ai primi posti nelle graduatorie di merito non troviamo menzionata alcuna città italiana.

Al di là di tutto ciò, comunque, ciascuno di noi, in base al suo carattere e alle sue esperienze, elabora più o meno consapevolmente un suo sistema di valutazione, i cui criteri potranno mutare col trascorrere dell’età e con l’accumulo delle occasioni di incontro e di confronto, oltre che degli acciacchi, ma che sostanzialmente lo accompagnerà per tutta la vita.

Io, ad esempio, sono sempre stato propenso almeno in teoria alle esperienze più tranquille: anche se di fatto più per sbadataggine e superficialità che per averle veramente cercate, ho poi finito per viverne sin troppe del primo tipo. E ho adottato per le mie valutazioni della qualità della vita e dei livelli di civiltà (si, sono politicamente molto scorretto) alcuni peculiarissimi criteri, meno freddi di quelli numerici e in qualche caso altrettanto o più significativi. Sono criteri diciamo così “turistici”, desunti in genere da soggiorni brevi, ma che un’idea di massima la possono dare.

Vediamoli. Se c’è qualcosa che parrebbe non offrire elementi per una gerarchizzazione, questa sono gli aeroporti e in genere tutti i non-luoghi, dagli autogrill ai grandi magazzini. In linea di massima differiscono solo per le dimensioni, e anche se oltre un certo livello la “quantità” diventa necessariamente “qualità” la funzione di transito veloce cui assolvono (a meno di rimanerci intrappolati come Tom Hanks in The Terminal) li rende in qualche modo ai nostri occhi identici. Ma se con gli occhi non seguiamo soltanto le indicazioni per l’uscita o quelle per l’imbarco le cose non stanno proprio così.

Gli aeroporti, ad esempio, sono il tramite per eccellenza e il simbolo stesso della globalizzazione seriale. Eppure anche già al loro interno qualche sfumatura di differenza la si può cogliere, a partire dalla maggiore o minore pulizia delle toilettes, e prima ancora, dalla facilità di reperirle. Quello delle toilettes è un mio chiodo fisso. Il grado di civiltà di un paese lo puoi già intendere alzando gli occhi in qualsiasi via o piazza, ma persino in prossimità di spiagge o scogliere deserte, come accade nel Devon, o nei villaggi più sperduti: se scorgi subito l’indicazione con l’omino e la damina stilizzati il livello è molto alto.

A Vienna poi, perché lì sono sbarcato più recentemente e proprio lì voglio portarvi, nella segnaletica compare anche un terzo pittogramma, quello che indica il terzo sesso (lo riferisco per informazione, non perché abbia a mio giudizio una particolare rilevanza: in realtà non ho capito bene a che serva, le sezioni interne essendo sempre due).

Per raggiungere le toilettes, o subito dopo, ci sono le scale mobili. Un altro modo per percepire al volo la qualità della vita di un luogo è scendere o salire le scale mobili. Capisco che un integralista dell’efficienza fisica possa disdegnarle, ma uno psicologo sociale in pectore come me, soprattutto se parecchio avanti con gli anni, non può farsi di questi problemi: e poi ormai sono molti gli snodi in cui le scale normali nemmeno esistono.

Comunque: arrivando da una giornata trascorsa a Milano, dove avevo rischiato più di una volta di essere travolto da gente che le saliva o scendeva di corsa, neanche avesse la polizia alle calcagna, e sembrava non aver ancora introiettata l’idea che sono quelle a doversi muovere, ho trovato all’aeroporto austriaco (così come poi ovunque nella città) una grande compostezza; nessuno che smaniasse per farsi largo o ti guardasse storto se ingombravi col bagaglio o non ti tenevi rigorosamente appiccicato alla fiancata scorrevole destra. Ne ho immediatamente ricavato l’impressione di una vita meno frenetica, più rilassata e ordinata. Mi sono anche dato una spiegazione del fatto che le scale siano quasi verticali, cosa che in un primo momento mi aveva lasciato perplesso: con quella inclinazione a salirle di corsa ti becchi un infarto, se le scendi a precipizio rischi seriamente di volare di sotto (l’altra spiegazione, più banale, sarebbe che stratificate ad imbuto fino a trenta o cinquanta metri sottoterra occupano molto meno spazio). Mi hanno ricordato l’equivalente inglese delle nostre strade statali e provinciali: piste a doppio scorrimento ma a carreggiata unica, larghe giusto poco più di un’auto e chiuse lateralmente non da cunette ma da muretti a secco, senza alcuna indicazione di limiti di velocità: quelli li impone il buon senso – che sembra funzionare, e si capisce il perché.

Dall’aeroporto le prime scale danno accesso direttamente alle linee ferroviarie, scendendo ancora conducono a quelle della metropolitana. E qui, per le une e per le altre, nuova sorpresa. Non ci sono i tornelli, si accede liberamente a qualsiasi linea. Posso tranquillamente riporre il biglietto acquistato on line. Tutto procede sulla fiducia. La sensazione immediata è che tutti abbiano in tasca, come me, il loro documento di viaggio. Penso comunque che poi, una volta sul treno, ci sarà un controllo. Macché. Non ne ho visto uno in quattro giorni, trascorsi in buona parte a saltare da un vagone all’altro. Anche qui, mi è tornata in mente la scena di quella volta che a Torino, salito su un tram, sono andato immediatamente a obliterare il biglietto. Il click dell’obliteratrice ha richiamato l’attenzione sorpresa e infastidita di tutti gli altri passeggeri: mi guardavano in tralice come fossi un marziano, non con derisione, ma con una malcelata ostilità. Stavo infrangendo una norma consuetudinaria.

Mi chiedo come sia possibile che quella società si regga sulla fiducia, come ci si sia arrivati e se per l’avvenire questo rapporto potrà continuare. Gli austriaci non sono nemmeno luterani o calvinisti, sono cattolici come noi, non si può far risalire alla matrice religiosa il senso del dovere civico: forse li hanno educati a bastonate, o forse semplicemente hanno introiettato un forte senso di responsabilità nei confronti della cosa pubblica perché almeno in passato sono stati bene amministrati. Non credo comunque si tratti di indole, la causa è senz’altro esterna, è culturale, è storica. Probabilmente è la somma di tanti fattori tutti molti lontani dalla mentalità vigente dalle nostre parti, e va al di là della nostra capacità di comprensione.

Intanto, percorrendo sulla linea di superficie il tratto che separa lo scalo aeroportuale da Vienna, sono già immerso nell’Art Nouveau. La rete ferroviaria viennese, oltre ad assicurare un servizio puntuale al secondo, una estrema pulizia e una informazione precisa sulle fermate, costituisce di per sé un’opera architettonica di grande pregio. L’ha curata in ogni dettaglio un architetto “secessionista”, Otto Wagner, che per un ventennio fu sovrintendente alle costruzioni ferroviarie, uniformando nello stile e nei colori stazioni, ponti, ringhiere, tutto ciò insomma che offre un impatto visivo immediato. Può piacere o meno, ma è indubbiamente simbolo della volontà di armonizzare arte e vita quotidiana, di far entrare la prima come elemento costante nella seconda, educando un gusto alla bellezza che deve poi esprimersi in ogni aspetto della quotidianità. Gli integralisti della concezione dell’arte come provocazione non saranno d’accordo, ma per me è una forma alta e dignitosa di resistenza alla pervasione del grigiore e del piattume indotti dalla modernità, senza peraltro sacrificare nulla dell’efficienza.

La ferrovia offre un’anteprima, volutamente pensata e proposta con estrema discrezione, di quel che troverai a breve in città. Non vuole provocare uno shock, ma consentire un pre-riscaldamento delicato, una prima dolce assuefazione al bello diffuso.

Quando accedo alle linee metropolitane ho dunque già inforcato senza accorgermene occhiali diversi. Mi si è abbassata la pressione da viaggio, non stringo più spasmodicamente il manico retrattile del trolley. Appena riemerso dal sottosuolo, poi, con una semplice occhiata buttata in giro durante i quattro passi che mi separavano dall’albergo (perché la copertura offerta dalla rete sotterranea è davvero capillare, non c’è una meta in città che disti più di centocinquanta metri da una stazione), sono confermato nella percezione di un’atmosfera piacevolmente rilassata, desumibile già dalla camminata dei passanti, e ho un primo contatto con spazi verdi diffusi, con strade molto ampie, percorse da un traffico estremamente scorrevole e disciplinato. Tutte cose che concorrono alla sensazione di una estrema “respirabilità”, favorita anche dall’altezza uniforme di costruzioni che si succedono compatte e che non superano mai il quarto o il quinto piano.

Quest’ultima caratteristica soddisfa un’altra mia sindrome particolare: ho bisogno di vedere il cielo senza tenere troppo il naso per aria. Se poi quei palazzi sono anche belli, se mostrano una coerenza architettonica senza stranezze eccessive, se testimoniano una concezione urbanistica che ha resistito alle sirene della iper modernità, si compie la quadratura del cerchio.

Non è la prima volta che visito Vienna, ma l’ultima risale a oltre trent’anni fa, e allora per vari motivi non avevo avuto modo di riflettere su queste cose. C’ero arrivato in macchina, e nei giorni successivi me l’ero percorsa tutta a piedi (all’epoca avevo un’autonomia di quaranta-cinquanta chilometri al giorno, e soprattutto avevo una concezione piuttosto penitenziale del turismo), per cui non avevo mai usato la metropolitana. Le volte precedenti guidavo gite scolastiche, per le quali facevo valere i miei convincimenti odeporici e non avevo nemmeno il tempo di guardarmi attorno o per aria.

Una volta completata la sistemazione logistica mi muovo per un primo approccio esplorativo. So di avere il cielo aperto sopra di me, respiro tranquillo e mi dedico a ciò che mi circonda. Non posso non apprezzare l’eleganza raffinata, mai cafona, dei negozi, la perfetta manutenzione di bellissimi palazzi risalenti a un secolo e mezzo fa, la pulizia di strade e marciapiedi, che non si capisce da chi e quando venga effettuata, la cura delle diffuse aree verdi. Come mi disse una volta Franco Vallosio, reduce da un lungo viaggio in Svizzera: “Vai a sapere quanto sfruttamento c’è dietro tanta pulizia e tanto ordine: ma almeno là l’ordine c’è, mentre da noi c’è solo lo sfruttamento”.

Solo dopo un po’ comincio ad avere la percezione di un’assenza, e mi accorgo che nel panorama manca una componente ormai diffusa in tutte le altre grandi città, da Londra a Parigi e a Milano (ma anche in quelle piccole). Non ci sono in giro homeless. Non ne incontrerò nemmeno nelle escursioni serali. Visti i precedenti (mi riferisco a quanto accadde più di ottant’anni fa) verrebbe da pensar male: ma l’atmosfera non è affatto quella. Non credo li abbiano fatti sparire, penso semplicemente che ci siano luoghi che la notte li ospitano, ma anche di giorno. Questi luoghi esistono anche da noi, e in gran parte d’Europa, ma semplicemente qui funzionano, e chi ne ha bisogno viene convinto con una certa fermezza ad utilizzarli. Può sembrare una concezione che sacrifica al decoro urbano la libertà individuale, da noi senz’altro verrebbe considerata tale, ma in realtà è solo lo smascheramento di un libertarismo peloso, quello per il quale ciascuno può fare ciò che gli pare, dalle nostre parti molto praticato.

Potrei andare avanti per pagine ad elencare i fattori che concorrono alle mie valutazioni, ma credo che quanto ho scritto finora basti a rendere l’idea. In pratica il criterio è molto banale: quando si parla di qualità della vita i numeri non bastano, anche se non guastano: ti dicono quali possibilità sono offerte, non necessariamente quanto e come e con quali esiti vengono colte. Questo è poi affar tuo scoprirlo. E in tal senso nella qualità della vita faccio rientrare anche un altro fattore, difficilmente computabile: la consapevolezza del sostrato storico sul quale si cammina.

Nei pochi giorni che avevo a disposizione ho fatto il pieno di Secessione e di Klimt e di Schiele, ma soprattutto sono riuscito a intravvedere i fantasmi dell’epoca d’oro della città, di quella fetta iniziale del Novecento nella quale Vienna esprimeva, prima come capitale di un impero fondato sulla giustapposizione tra culture diverse, e non sullo scontro, e poi come sopravvissuta nostalgica di tanta grandezza, il meglio della cultura europea: molto più di Parigi, a mio giudizio, perché nella capitale francese erano soprattutto gli stranieri, esuli volontari (come gli anglosassoni) o meno (come italiani, tedeschi o spagnoli), ad esprimerla.

Come per tutti gli altri aspetti, a Vienna anche la vita culturale risulta più discreta. Quando si parla di cultura pre e post primo conflitto mondiale la gran parte delle figure (e dei movimenti) di riferimento nella letteratura (da Karl Kraus, a Schnitzler, a Zweig, a Musil) nella filosofia (da Carnap a Wittgenstein e a Freud), nella musica (da Mahler, a Schönberg, a Berg, a Webern), nelle scienze (da Mach a von Mises, a Gödel), oltre a quelle naturalmente che ho già citate per l’arte, arrivano da lì: ma non sono mai state strombazzate quanto ad esempio il futurismo italiano o il surrealismo francese (provate a chiedere in giro chi conosce la Secessione Viennese, l’Art Nouveau, lo Jugendstil o l’opera architettonica e urbanistica di Otto Wagner) e anche all’epoca non si sono mai esibite in manifesti o manifestazioni spettacolari, ma nella realizzazione di opere. Ancora oggi rimangono essenzialmente patrimonio locale, anche se non mancano di concedersi ogni tanto in prestito allo spaccio dilagante di mostre e convegni e ricorrenze anniversarie.

Qui credo comunque di aver perfettamente capito a cosa si riferiva Benjamin quando parlava di “aura”. Se entri al museo del Belvedere dopo aver attraversato mezza città ti trovi in assoluta continuità con quanto hai visto o percepito sino a quel momento, scendi solo più in profondità. Fuori da quel contesto, dell’opera di Klimt o di Schiele puoi solo ammirare la bellezza esteriore, se ti piace il genere, puoi contemplarla stupito o perplesso, ma non puoi assolutamente comprenderla. E lo stesso vale per i romanzi di Musil e i memoires di Zweig, o per la musica di Mahler e di Berg. Persino la logica di Gödel ha la sua naturale dimora e intelligibilità in quel luogo e in quel tempo.

Più in generale, stante che il contesto storico cui faccio riferimento non va oltre gli anni Trenta del secolo scorso, anche la storia dell’Impero asburgico si distingue per l’essersi mossa quasi in sordina, senza eccessi e senza infamie particolari. In fondo è l’unica istituzione politica dell’Europa occidentale, a parte la Svizzera, a non essersi ritagliata appendici coloniali fuori del continente. Certo, l’Africa e l’Asia degli Asburgo erano nei Balcani, ma il sistema amministrativo consentiva a ben nove diversi popoli soggetti larghe autonomie, e il controllo veniva esercitato con mano leggera. Teniamo presente che nell’ultimo secolo di esistenza l’amministrazione imperiale è stata osteggiata all’interno non da rivendicazioni sociali (non erano tali neppure quelle del 1848) , ma da un montante spirito nazionalistico, quasi sempre alimentato da interessi politici ed economici esterni. In questo senso il modello imperiale asburgico può essere considerato l’ultimo tentativo di tenere assieme almeno una parte di quell’Europa che avrebbe finito nel giro di un trentennio e di due spaventosi conflitti successivi per suicidarsi. Ora, visti i recenti fallimenti degli sforzi per avviare una nuova riunificazione, varrebbe forse la pena di andarsi a rivedere come funzionavano al suo interno le cose, almeno per trarne una qualche ispirazione. Da quello che è il ricordo lasciato in Italia, nelle regioni rimaste sotto il suo diretto dominio fino al 1866, e per quello che è accaduto nei Balcani dopo la disgregazione, direi che ci sarebbe molto da imparare.

Non deve sorprendere allora che prima di rientrare abbia dedicato mezza giornata alla ricerca di una grande carta geopolitica, possibilmente d’epoca, dell’impero austro-ungarico, da affiancare nel mio studio a quella dell’Europa antecedente il 1848. Non l’ho trovata, e quando ho chiesto a un negoziante antiquario particolarmente fornito se dipendesse dal fatto che agli austriaci non interessa il loro passato, mi sono sentito rispondere che, al contrario, come quel tipo di carte gli arrivano spariscono in un baleno. Anche questo significa qualcosa, e non può essere tabellizzato in alcuna graduatoria.

Tirando tutte le somme (in senso figurato, s’intende: ma in fondo anche quelle concrete, delle spese sostenute) si è trattato di una esperienza decisamente positiva. Mi rimane il rimpianto per la carta: nello studio avrebbe ben figurato, e avendola costantemente sotto gli occhi avrei potuto ogni tanto staccare e volare con la mente oltre le Alpi. In Italia mi sarà difficilissimo, se non impossibile, rintracciarne una. Dovrò limitarmi a vedere ogni possibile film ambientato a Vienna, come già faccio per quelli girati in Islanda (ma di questa una bella carta d’antan la possiedo), e gioire ogni volta che mi sembrerà di riconoscere un luogo che ho frequentato, e di poter entrare di soppiatto nell’azione. È l’unico modo, alla mia età, per illudersi di viaggiare ancora da protagonisti.

Sul riordino

luglio 2025

di Paolo Repetto, 21 novembre 2025

Ma bene, andiamo avanti così.
Si comincia facendo il pesto con le noci e si finisce a letto con i consanguinei!
da “Accoglienza ligure”

Quelli che non studiano la storia sono condannati a ripeterla.
E quelli che la studiano sono condannati a vedere come la storia si ripeta
per colpa di coloro che non la studiano.
George Santayana

Ho trascorso l’intera mattinata a mettere ordine in magazzino. In questa stagione la mattinata è lunga, inizia alle 6:30, quindi avevo grandi aspettative. Il risultato però non è all’altezza. Quando a mezzogiorno esco, volgendo indietro un ultimo sguardo per vedere l’effetto, stento a capacitarmi di aver trafficato per sei ore lì dentro, visto che non ho sistemato alcunché e il grande sgombero ha prodotto solo uno striminzito sacchetto di rifiuti.

Il problema è che il magazzino non è un vero magazzino: lo chiamo così per distinguerlo dal garage, ma in realtà è un deposito per tutti gli utensili, metà dei quali fuori uso, un ricovero per mobili che si tarlano in attesa di restauro e per imballaggi e materiali di scarto che “potrebbero sempre tornare utili”, un laboratorio per riparazioni, verniciature, bricolage, fantasiosi assemblaggi. Le pareti sono occupate da scaffalature e da armadi di varia natura, che nelle intenzioni avrebbero dovuto consentire la reperibilità al primo colpo di ciò che vai a cercare, ma nella realtà si sono andati stipando col tempo in maniera tutt’altro che sistematica. Così oggi mi capita quasi sempre di sapere che un dato oggetto ce l’ho, ma non avere la minima idea di dove cercarlo. Purtroppo è quel che comincia a capitarmi anche coi libri, malgrado per questi un certo ordine di collocazione l’abbia mantenuto.

C’è anche un altro settore nel quale inizio a perdere colpi. È quello della manutenzione della memoria. A volte gli amici si meravigliano del fatto che ricordi nomi e situazioni lontani nel tempo, che mi sovvenga di cose che ho vissuto o che ho letto o che ho visto al cinema sessant’anni fa; e aggiungo che mi meraviglio anch’io, soprattutto quando si tratta di roba di poca o nessuna rilevanza (il nome di un autore, di un personaggio, di un attore, il titolo di un film). Questo nel momento stesso in cui ad esempio non rammento il titolo del libro che sto leggendo, o mi accorgo che le pagine lette non mi si stampano affatto in testa.

Sto divagando, ma mica poi troppo. Il tema voleva essere quello dell’ordine, sul quale peraltro ho già scritto, anche recentemente (vedi Essere …). Solo che vorrei trattarlo da un altro punto di vista.

L’ordine di un magazzino, di un’officina, di un laboratorio, così come quello di una biblioteca, o volendo anche di un cervello, dovrebbe essere finalizzato a semplificare l’attività cui in quel luogo o con quello strumento ci si dedica. Non sempre però lo scopo è quello. Spesso l’ordine è fine a stesso, oppure ha una funzione di rappresentanza. In genere comunque è specchio della personalità dell’ordinante. Ne Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta Robert Pirsig identifica due tipologie di officina meccanica, quella “classica” e quella “romantica”.

Nella prima tutti gli strumenti sono ordinatamente disposti in sedi apposite, nella seconda sono buttati a casaccio sul carrello o sul piano di lavoro. Ma non per questo, secondo Pirsig, chi li usa ha maggiore difficoltà a rintracciarli: semplicemente ricorda a memoria dove avrebbe potuto riporli, e li trova subito. A queste due tipologie di meccanici corrispondono anche due diverse tipologie di motociclisti: quelli che apprezzano il vento in faccia e il senso di libertà che la motocicletta ti dona, e non si preoccupano e non hanno conoscenza degli aspetti tecnici; e quelli che invece auscultano le pulsazioni del motore, e godono della sua efficienza, per cui ad esempio hanno cura di regolare la mandata dell’aria quando devono affrontare dislivelli altimetrici importanti. Tutto questo, anche se sembrerebbe entrarci per nulla, è al contrario significativo di atteggiamenti diversi nei confronti della vita: il primo meno responsabile, più “anarchico”, e tutto sommato più egoistico, il secondo più apprensivo e responsabile. Poi c’è il mio, diviso tra la voglia di riordinare il mondo intero e una rassegnata pulsione a lasciare che il mondo si ordini da solo. Per cui passo la vita a riassestare la mia mente, per cercare di conciliare le due spinte opposte e capire quale è innata e quale acquisita.

Qui volevo arrivare. Nel pezzo postato mesi fa sul mettere ordine e sul mio atteggiamento quasi maniacale in proposito, non avevo indagato da dove questo atteggiamento discenda: o forse ho dato l’impressione di considerarla tutta una questione di carattere innato. Beh, non è proprio così. Certamente nella disposizione o meno all’ordine c’è una componente biologica, ma credo che a determinarla siano anche le condizioni ambientali in cui uno cresce. Il che è abbastanza ovvio, c’entrano sia la genetica che l’epigenetica: ma in genere il peso di questi fattori viene equivocato, e chiamato in causa a seconda dei casi per giustificare un comportamento o per stigmatizzarlo. Credo che la questione sia un po’ più complessa.

Intanto so bene che noi umani costituiamo un’anomalia nell’ordine “naturale” delle cose, e che siamo un’anomalia a termine: se credessi in un disegno superiore direi che siamo un esperimento della natura destinato a finir male. Ma so anche che ci siamo, e che per il momento l’esperimento sembra aver avuto successo, vista la velocità con la quale ci moltiplichiamo e abbiamo colonizzato ogni parte della terra. Un successo senza dubbio “quantitativo”, mentre sulla qualità si può ovviamente discutere. Penso dunque che dei due aspetti occorra prendere atto in maniera diversa, convivere con l’esperimento senza darci troppa cura del progetto. Cosa che oggi, a dispetto di quanto può sembrare, non facciamo affatto (ma su questo tornerò dopo).

Veniamo invece all’origine dei diversi atteggiamenti.

In casa mia ho vissuto, per tutto il periodo dell’infanzia e della prima adolescenza, una povertà dignitosa, ma sempre sul filo del rasoio: voglio dire che ogni minima sbandata poteva significare cadere nella miseria. (e qui sarebbe da riflettere su quanto sia cambiato in settant’anni il concetto di povertà, quando ci viene raccontato quotidianamente che sei milioni di italiani, la metà dei quali bambini, vivono sotto la soglia di povertà, ma il novanta per cento, bambini compresi, dispone di un cellulare molto più recente e performante del mio). Questa condizione tuttavia non mi pesava più di tanto. Ne sono diventato consapevole solo a posteriori, quando ho potuto accedere a uno stile di vita meno precario. Allora costituiva la normalità, e quando la rievoco non me ne compiango affatto, ne ho addirittura nostalgia.

Comunque. In quello scenario la possibilità del disordine non era nemmeno concepita: si tirava avanti con lo stretto necessario, non potevamo permetterci di perdere, di trascurare, di sciupare qualcosa. Nessun alimento aveva il tempo di scadere, ogni capo d’abbigliamento aveva una doppia o tripla vita, e anziché nel raccoglitore della Caritas finiva in pezze da rammendo o in stracci per la pulizia. Il raccoglitore d’altra parte non esisteva, e la Caritas credo nemmeno. L’attenzione non c’era alcun bisogno di inculcarmela: avevo davanti agli occhi i comportamenti dei miei genitori, e mi sembrava perfettamente naturale viverla. Anche quando mi confrontavo con situazioni diverse (quasi mai all’interno della nostra piccola comunità: piuttosto coi villeggianti estivi prima, poi con i compagni delle scuole secondarie: con quelli insomma che potevano permettersi di comprare i fumetti e i libri, di mangiare un gelato o bere una gazzosa) me ne facevo una ragione: tirando dritto avremmo forse potuto un giorno permettercelo anche noi.

In effetti col tempo anche la situazione nostra è cambiata, siamo usciti dall’economia di sopravvivenza: ma il mio atteggiamento nei confronti delle cose, e del mondo, è rimasto. Non ho certo atteso le mode mainstream e i guru televisivi dell’ecologia per praticare il riciclo. Ma soprattutto, non ho mai accettato l’idea che il mondo possa essere cambiato col disordine. Anzi, con gli anni e con l’approdo ad una razionalità più matura il legame tra vita ordinata e vita dignitosa nella mia mente si è rafforzato. Questo non significa che abbia poi sempre vissuto un’esistenza tranquilla e ordinata, per alcuni versi è stata disordinatissima: ma il concetto e l’aspirazione di fondo sono rimasti sempre quelli.

Mi chiedo allora: se fossi cresciuto in un’altra famiglia, in un ambiente diverso, sarei stato altrettanto fermo nei miei convincimenti, avrei scoperto comunque il mio imperativo categorico? Malgrado quanto ho detto sinora, tendo a credere di sì: sono in fondo un determinista, quasi un lombrosiano. E mi spiego soprattutto in termini di determinazione genetica la mia intolleranza o quanto meno il mio atteggiamento negativo nei confronti dello spontaneismo e del movimentismo, quando con questi termini si intendano azioni distruttive fini a se stesse, non mirate alla creazione di un ordine nuovo. O quando questo fine diventa solo un pretesto per scaricare frustrazioni, risentimenti, invidie, per cambiare non l’assetto di una società, ma la propria posizione all’interno di quell’assetto.

E tuttavia, ripeto, non sono così sicuro. Porto un esempio. Durante la prima occupazione dell’Università di Genova (nel dicembre ‘67) mi scontrai piuttosto bruscamente con alcuni “compagni” che, da brave “guardie rosse” nostrane, stavano devastando la biblioteca dell’istituto di storia moderna (a loro parere sentina della famigerata “cultura borghese”). Alla fine li costrinsi a rimettere ordinatamente i libri sugli scaffali dai quali erano stati strappati (ero molto “determinato”, anche in questo senso. E, per inciso: fu lì che capii che la mia lotta non era la loro, e che se dai “nemici” dovevo guardarmi io, dovevo farlo poi tanto più nei confronti di quelli che teoricamente avrebbero dovuto essermi amici). Ora, questa può sembrare una situazione estrema, significativa in fondo solo di una particolare contingenza e della mia ipersensibilità di bibliomane: in realtà ha continuato a ripetersi, complice anche una classe intellettuale che i libri li scrive e non ha ritegno a promuoverli in televisione o nei festival come un tempo solo i mobili di Aiazzone, ma “decostruisce” la tradizione culturale da cui discendono e asseconda ruffianamente la bovina ignoranza del proprio pubblico. Continuo a ripetermi, ma ritengo che l’atteggiamento degli odierni “maîtres à penser”, per fortuna effimeri, nei confronti della cultura “borghese” occidentale non sia mai sufficientemente smascherato.

Ebbene, ricordo chiaramente di aver pensato in quell’occasione: “Se li vedesse mia madre – che non avendo mai potuto permettersi di acquistarne uno, ma amando sinceramente la lettura, considerava i libri oggetti sacri – tirerebbe loro il collo come alle galline”. Ho agito io, ma dietro di me c’era un preciso ambiente che si indignava.

Il mio è dunque un atteggiamento complesso, quasi contradditorio. Perché può sembrare che per come lo concepisco io l’ordine comporti in fondo una rinuncia alla libertà. Ma non è affatto così. L’idea di fondo è invece che il massimo possibile di ordine sia la migliore garanzia per il massimo possibile di libertà. La mia libertà di spostarmi da un luogo ad un altro non può essere confusa con la libertà incondizionata di muovermi alla velocità e nella direzione e lungo la traiettoria che più mi aggrada. Questo può valere all’interno di uno spazio disabitato, non certo in un mondo sovraffollato e comunque condiviso con milioni o miliardi di altre persone. Ordine in questo caso significa un minimo comune accordo di reciprocità per cui la mia velocità e la mia traiettoria non interferiscono, non intralciano, non configgono con quelle di altri. È una limitazione, non una privazione di libertà.

Quel che mi si obietta a questo punto è che una società perfettamente ordinata è una società utopica, e come tale immobile, posta fuori dal tempo. Infatti: nessuno ha però parlato di società perfettamente in ordine, primo perché non esiste, non è mai esistita e non esisterà mai, poi perché ogni progresso, ogni cambiamento, non sono una rivolta contro l’ordine, ma evidentemente contro qualcosa che non funziona, quindi che crea disordine. Ogni avanzamento è un ripristino dell’ordine ad un livello più alto.

Ecco: io penso che oggi più che mai dovremmo avere chiaro in mente questo concetto. E invece dalla sinistra, dove mi ostino a collocarmi, ultimamente sentendomi sempre più disagio, l’ordine è visto come un attacco reazionario alle libertà: per cui, ad esempio, le forze dell’ordine, quando cercano di impedire il saccheggio dei supermercati o la distruzione dei beni pubblici come la segnaletica e i contenitori di rifiuti, diventano automaticamente forze del male. E il malinteso è avvallato quando non si prendono le distanze dalle bande di sciagurati che scandendo bovinamente slogan e ammantati di bandiere sempre diverse cercano di mettere il mondo a soqquadro.

Tutta questa tirata non voleva essere altro che una premessa per arrivare a parlare dell’oggi, per enunciare i miei prolegomeni ad ogni futuro scambio di vedute. Spero che un’operazione onesta di pulizia concettuale possa rimuovere qualcuno degli ingombri che rendono faticoso il cammino verso un minimo di “verità” condivisa.

Nelle quotidiane discussioni con gli amici mi trovo sempre a recitare la parte di chi pretende una conoscenza e un’interpretazione “ordinata” della materia di cui si dibatte, e non sopporta le argomentazioni passionali, fondate sulla simpatia e sull’emotività. Questo vale particolarmente per la storia: pur nella consapevolezza che non potremo mai conoscere tutti i fatti, e che quelli che conosciamo ci giungono filtrati da sguardi immancabilmente partigiani, sono convinto si possa arrivare, sia pure con molta approssimazione, a delineare un qualche ordine. Nella mia interpretazione l’ordine non sottende una finalità superiore, uno scopo ultimo: è solo un’ordinata sequenza. Che di per sé parrà non dire molto, ma è a mio parere la condizione necessaria per affrontare qualsiasi argomento. Partendo da ciò che è più attendibilmente documentabile si può infatti procedere a individuare e dipanare il filo. Non dico che si possa pervenire ad una “verità storica”, ma con un po’ di buona volontà, attraverso il confronto e la verifica di tutte le fonti possibili, si può comunque accedere ad un denominatore di lettura comune. E in questo processo non devono avere spazio la passionalità e la simpatia.

È chiaro che quando della storia di cui si è diretti testimoni, o addirittura attori non protagonisti, e di cui si discute (oggi ad esempio della questione ucraina o di quella palestinese) abbiamo una informazione immediata, e soprattutto una rappresentazione anche visiva, l’impatto emotivo è forte, e riesce difficile non assumere atteggiamenti pregiudiziali. Ma anche in questi casi, se ci si sforza un poco si è in grado di capire da dove arrivano le informazioni, e come sono gestite e manipolate, e perché.

Per spiegarmi meglio vado a ripescare nel passato due casi che permettono di esemplificare sia il modo in cui è prodotta, intenzionalmente o a volte magari per semplice omissione, la disinformazione storica, sia il perché mi sembri così importante “fare ordine” nella ricostruzione storica, a partire da quelli che possono sembrare “dettagli” puramente quantitativi.

Il primo riguarda la vicenda della resistenza opposta dai militari italiani all’ordine di resa impartito loro dai tedeschi, sull’isola di Cefalonia, dopo l’armistizio dell’8 settembre. Fino a un paio di decenni fa il numero degli uccisi in combattimento o fucilati dopo la resa era quantificato, sulla base delle frettolose e svogliate inchieste avviate nell’immediato dopoguerra dalla magistratura militare, in circa diecimila, comprensivi di oltre un migliaio di prigionieri annegati per l’affondamento (da parte degli alleati) delle navi che li stavano trasbordando verso l’Italia.

Solo agli inizi del nuovo millennio, a seguito di polemiche che si trascinavano da mezzo secolo, le inchieste sono state riaperte e diversi storici, sia italiani che tedeschi, hanno ricostruito attraverso una documentazione più solida e più ampia tanto i fatti quanto le motivazioni che li determinarono, ridimensionando tra l’altro il numero dei caduti e dei fucilati. Attualmente, a detta di uno studioso serio come Gianni Oliva, “le cifre su Cefalonia sono verosimilmente comprese fra un minimo di 3 500 e un massimo di 5 000”.

Quel che suona incredibile è che per arrivare a queste conclusioni, tutt’altro che precise e definitive, siano occorsi ottant’anni. E più incredibile ancora è che di fronte all’ammissione degli storici che per primi avevano affrontato l’argomento (è il caso di Giorgio Rochat) di essersi fidati di testimonianze poco attendibili, ci sia chi contesta gli ultimi dati in nome di una “sacralità” del sacrificio resistenziale dei nostri militari. Come se rivedere al ribasso le dimensioni dell’eccidio ne sminuisse la tragicità.

Una vicenda molto simile riguarda la narrazione della repressione del brigantaggio nell’Italia postunitaria, e nella fattispecie quella delle “stragi” di Pontelandolfo e Casalduni. Per un secolo e mezzo si è fantasticato di una carneficina con centinaia di vittime, compiuta dall’esercito piemontese per vendicare l’agguato in cui erano stati uccisi quarantacinque bersaglieri. Questa versione era stata fatta propria ad un certo punto da Gramsci e dalla storiografia marxista, nel quadro di uno schema interpretativo decisamente antirisorgimentale (Gramsci scriveva nel 1920: “Fino all’avvento della Sinistra al potere, lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di briganti”).

Qui la comprensione della storia c’entrava poco: si trattava di creare una coscienza di classe fondata sulla divisione netta in buoni e cattivi, in oppressi e oppressori. E bene o male, sia pure immersa nell’oblio rapido che caratterizza tutta la nostra storia più recente, è rimasta quella la versione corrente della vicenda.

La cito perché ultimamente è stata ripescata e amplificata da un gruppo di intellettuali meridionali (i sedicenti neoborbonici, che predicano nostalgie pre-unitarie) che hanno fatto a gara nello sparare cifre esorbitanti (tra i seicento e i novecento trucidati) oltre che nel dare versioni romanzate dei fatti.

Fortunatamente altri storici, anch’essi meridionali, hanno opposto a questo delirio un lavoro di ricerca minuzioso e obiettivo, col risultato che i morti verificati a Pontelandolfo risultano essere tredici, e a Casalduni nessuno (non lo dico io, lo ha confermato il sindaco del paese vittima della repressione, in occasione del centocinquantesimo anniversario dei fatti)

Ora, la questione qui non è quella del ridimensionamento dei numeri: sotto un profilo morale, importa poco che i trucidati fossero diecimila o tremila, seicento o tredici. Fossero stati anche solo trenta a Cefalonia e cinque a Pontelandolfo l’orrore di quanto accaduto non sarebbe minimamente sminuito. Ad essere sminuita invece è la credibilità dei narratori, per cui riesce difficile poi dare credito a qualsiasi altro aspetto della loro versione, e soprattutto alla loro buona fede. Un confronto su questi temi diventa impossibile, fino a quando non si sono accertati con una certa verosimiglianza i dati di fondo, quelli materiali: numero dei morti, effetto delle distruzioni, proporzione delle forze in campo, ecc … Perché questi non sono dati freddi, ma cifre che anche attraverso le loro entità suggeriscono poi le cause, le motivazioni; e soprattutto perché tradiscono abbastanza l’apertamente l’uso che se ne vuol fare.

L’ordine che io esigo si chiama in questo caso chiarezza delle posizioni e correttezza e concretezza delle argomentazioni. Devo sapere che sto parlando con persone che cercano di fare il mio stesso percorso, che vogliono conoscere, e non essere confermate in ciò che già credono di sapere, che non hanno già scelto pregiudizialmente le fonti su cui fare affidamento, ma cercano di orientarsi tra tutte quelle che si ritrovano a disposizione. Esigo interlocutori che non dicano le mie stesse cose, ma parlino la mia stessa lingua. Come posso prendere sul serio, ad esempio, gente che non ha il minimo dubbio sui numeri delle vittime della guerra di Gaza, forniti tutti solo dalla fonte palestinese, mentre quel dubbio lo ha coltivato e continua a coltivarlo sulla possibilità che siano state le stesse autorità statunitensi ad orchestrare l’attacco alle torri gemelle, o quelle israeliane a guidare il raid sanguinario del 7 ottobre? Quando basterebbe ad esempio prendersi la briga di conoscerli, quei numeri, per accorgersi che le due uniche versioni esistenti, quella del Ministero della Salute e quella dell’Ufficio governativo per i media, presentano discrepanze enormi ma cifre finali sorprendentemente uguali (Per chi non abbia il tempo di andarsele a cercare: al giugno 2025 i morti maschi erano per il Ministero della Salute 24.618, le donne 9.790 e i bambini 15.613; per Ufficio per i media ( in pratica, il Ministero per la propaganda) sono invece rispettivamente 19.702, 12.365 e 19.954. Un quarto di maschi in meno, un quarto delle donne e 2.341 bambini in più. Per arrivare nel totale ad una cifra identica: 50.021).

Non è una questione di pignoleria maliziosa. Cosa mi cambiano quei numeri in termini di orrore, di sdegno, delle responsabilità di Netanyahu per la strage, e del popolo che lo ha eletto, e dell’esercito che se ne fa strumento? Niente, naturalmente: stiamo parlando di esseri umani, di decine di migliaia di vite stroncate, e comunque non c’è un limite al di sotto del quale la colpa sia veniale. Ma in termini di credibilità mi cambia, eccome. Comincio col pensare che le cifre siano state manipolate per puntare sull’effetto “innocenza”, sulla sensibilità particolare alla violenza praticata sui più deboli. E posso anche capire il motivo: la propaganda, soprattutto oggi, con le potenzialità offerte da una rete informativa che copre in tempo reale tutto il mondo, vale come arma di guerra quanto i missili e i carri armati.

Ma a questo punto è logico che qualche dubbio possa averlo anche sulla veridicità oggettiva dei numeri, buttati sul piatto per alzare la posta finale, e quindi su una qualche volontà di arrivare ad una soluzione che non contempli il vendicare quei morti facendo sparire completamente Israele. (Questi ultimi dubbi non dovrei nemmeno coltivarli, perché le intenzioni sono state chiaramente espresse in qualsiasi documento delle organizzazioni politiche palestinesi già da ben prima della nascita di Israele stessa).

Sono perplesso riguardo la possibilità di un confronto serio quando vedo che lo sdegno che dovremmo condividere ed esprimere per ogni massacro sembra risvegliarsi solo di fronte ad unica situazione. Non ricordo manifestazioni di piazza contro il massacro dei tibetani da parte dei cinesi (un milione di morti): quelli più informati lo hanno giustificato con la necessità di abbattere un regime sermi-feudale. O contro la pulizia etnica che si sta effettuando in Sudan, che dura da oltre mezzo secolo e che ha provocato oltre mezzo milione di vittime e cinque milioni di profughi; o contro quello che è accaduto in Cecenia, che ancora accade in Nigeria, in Birmania, in Medio oriente, lo sterminio degli Yazidi e dei Curdi, e potrei continuare per un’ora. Non si tratta di uscirne con la scappatoia del famigerato “benaltrismo”, ma al contrario di mantenere nei confronti dell’umanità intera lo stesso calore, di esprimere la stessa solidarietà. Invece la giustificazione dietro la quale si trincera questa freddezza è che certe vicende ci toccano meno, che rimaniamo indifferenti perché si tratta di situazioni lontane. E sarebbe già grave così, ma la verità è che i motivi sono molto più meschini.

Possiamo riscontrarlo anche nella vicenda ucraina. Ogni volta che si cerca di partire dall’unico dato di fatto inoppugnabile, e cioè che esistono un aggressore e un aggredito, scatta il meccanismo pavloviano delle obiezioni: le provocazioni della Nato, il presunto nazismo degli ucraini, la corruzione dilagante nel paese, ecc. Un meccanismo che applicato alla seconda guerra mondiale vedrebbe nei polacchi, rei di avere rioccupato nel precedente dopoguerra le terre che erano state loro sottratte un secolo prima con due successive spartizioni, i veri responsabili dello scoppio del conflitto e dell’aggressione nazista. Che l’Ucraina sia un paese corrotto (ma ne esiste uno che non lo sia?), che abbia fornito quattro divisioni alle SS durante l’ultimo conflitto (ma forse in questo c’entrano un po’ l’Holodomor, il grande terrore del ‘37/’38 e il genocidio dei Tartari di Crimea del ‘44), tutto questo lo so anch’io: ma mi trovo a discutere con gente che i precedenti non li conosce o non vuole prenderli in considerazione, e accusa l’Occidente di fare propaganda attraverso la falsificazione della storia, mentre dà credito all’offensiva di disinformazione intrapresa dalla Russia putiniana, senz’altro più subdola, più agguerrita e senza dubbio meno contrastata e denunciata dall’interno.

Ora, quando esponi le tue perplessità, i tuoi dubbi, le tue contrarietà, ti viene immediatamente ribattuto che dall’altra parte, diciamo da una generica “destra”, che ormai non ha più una connotazione politica e men che mai ideologica, ma comprende un’ampia maggioranza trasversale ai partiti, ai credi e alle classi, la manipolazione della storia e l’uso propagandistico della sua falsificazione sono da sempre lo strumento principe per la conquista o la conservazione del potere. E fin qui ci arrivo anch’io. Ma questo implica che ci si debba adeguare, prendendo per vero tutto ciò che arriva dalla nostra (quale?) parte e dubitando a prescindere di tutto ciò che arriva dagli “altri”? Al contrario: il fatto è che non dobbiamo competere coi nostri antagonisti su un terreno che loro hanno scelto, dove peraltro non toccheremmo palla, ma soprattutto l’adeguarsi a certe modalità rappresenterebbe una sconfitta in partenza. La vera vittoria sta semmai nel non porsi sullo stesso piano, nel tenere un atteggiamento che ci distingua. Che non significa “fare gli strani” o percepirsi élite, ma esigere da noi stessi innanzitutto, e poi dagli altri, una conoscenza conseguita col sudore dei nostri neuroni e un’onestà intellettuale che vale ben più dell’oro, anche se oggi è molto meno quotata.

Questi atteggiamenti li ritrovo però in merito a un sacco di altri temi, da quello del cambiamento climatico a quello dei vaccini, sino a quelli solo apparentemente meno urgenti dell’analfabetismo globale di ritorno o della interpretazione distorta dei diritti: ed è difficile di fronte a certi arroccamenti fondamentalisti evitare la resa, o non cadere a propria volta nella partigianeria. Ciò che mi riporta alla sensazione che avevo espresso all’inizio di questo scritto.

Insomma. Non presumo di avere in mano argomenti validi per suffragare ogni mia convinzione (perché immagino sia chiaro che le mie posizioni le ho – e anche i miei pregiudizi: ma almeno li riconosco e li dichiaro subito, e in questo modo li ripongo in un cassetto); vorrei solo poterne discutere con lucidità, con la massima obiettività possibile e senza condizionamenti emotivi: e magari rivederle, o addirittura, se mi si convince del contrario, prenderne le distanze. Non mi capita spesso, purtroppo. E il rischio è di arrivare a chiedersi se davvero ne vale ancora la pena, se le quattro ore che ho impiegato a scrivere questo pezzo o i dieci minuti che occorrono per leggerlo non siano buttati. Ma per rispondermi subito dopo che è la mia natura “ordinatrice” a impormelo, e che persino mia madre, per una volta, sarebbe d’accordo.

Allora ho deciso. Visto che il mio laboratorio mentale è ancora sottosopra, tornerò a riordinarlo. Nel frattempo però non ci voglio intrusi poco rispettosi. Per entrare, da domani, si bussa, si lasciano fuori le calzature pregiudiziali e si usano le pattine.

La retorica e la “Gramatica”

ritorno nei bagni pubblici di Tokyo

di Paolo Repetto, 26 gennaio 2024

Bah! l’ultima delle cose che intendevo fare era tornare sul film di Wenders. Mi sembra di aver già detto tutto quello che avevo da dire. Un amico mi ha però segnalato una recensione molto negativa di Lorenzo Gramatica (Contro la retorica delle piccole cose, pubblicato su Lucysullacultura.com), specificando che lo condivide: opinione più che legittima, ma che mi fa sentire un po’ tirato per la giacchetta. E allora è forse il caso di qualche chiarimento, perché a me invece la recensione non è piaciuta affatto.

Non m’è piaciuto innanzitutto il tono, o se vogliamo l’intenzione che sta sotto l’articolo.

Gramatica trova irritante, lezioso, falso il film. Ha tutto il diritto di farlo. Ha pagato un biglietto per vederlo, non è rimasto soddisfatto e lo dice apertamente. Ma poi fa di più: smonta il film pezzo per pezzo, e ci offre una lezione su cosa è o dovrebbe essere il cinema e su cosa è o dovrebbe essere la vita. E qui diciamo, tanto per adeguarci subito all’argomento, che la fa un po’ fuori dal vaso. Sembra essersi auto-investito di una missione salvifica, quella di svegliare le anime belle e grulle che si son bevute la favoletta “della vita semplice, dei piccoli gesti, della gioia che c’è nell’accontentarsi”. Ora, io ho visto lo stesso film, e sinceramente riesco solo a immaginare spettatori che per due ore o sono stati presi o si sono addormentati: non credo che avremo una marea di aspiranti ai prossimi concorsi per operatori ecologici municipali (attualmente mi risulta vadano deserti). Sono entrati in sala come me, per assistere a una proiezione, a uno spettacolo, mica sono andati in un ashram o in una sala di meditazione per farsi intortare da un discepolo di Osho. Nessuno degli amici che hanno visto Perfect Days e coi quali l’ho commentato ha manifestato l’intenzione di darsi alla pastorizia o di ritirarsi in un eremo. Ma questo riguarda l’idea generale del ruolo del cinema, sulla quale torneremo.

La retorica e la Gramatica 02 - Perfect Days

Rimaniamo per ora sullo specifico di Perfect Days. Gramatica scrive che il film è, “superficialmente, un elogio della vita semplice, dei piccoli gesti, ecc …”. Ora, l’avverbio messo così, tra due virgole, può voler dire due cose: che il regista tratta l’argomento solo in maniera superficiale, o che sotto la superficie vuol dire altro. Il recensore secondo me lo usa in entrambe le accezioni. Rispetto alla prima mi chiedo dunque: cosa avrebbe dovuto fare Wenders per non rimanere in superficie? Un’inchiesta sui pulitori di cessi di tutto il mondo (tranne naturalmente dell’Italia, perché qui i cessi pubblici non ci sono, e se ci sono non li lava nessuno)? Gramatica ci ha appena comunicato che la commissione era per uno spot pubblicitario, perché “di questi bagni pubblici Tokyo è molto fiera” e “Ci si tiene molto, insomma, a questi bagni” (l’avevamo capito da soli, e aggiungo di mio che anch’io ci tengo molto a trovare bagni così – vedansi i miei criteri di giudizio sulla civiltà di un popolo). Wenders ne ha fatto un film, che sarà pure una furbata per far arrivare il messaggio a miliardi di utenti e in forma più accattivante, ma la ragione sociale del committente è stampata ben visibile per tutta la durata della storia sulla tuta da lavoro del protagonista, per cui non lo si può certo accusare di pubblicità occulta. Da buon maestro del sospetto però Gramatica insiste: “è strano non vedere praticamente mai macchie di piscio in un film dove il protagonista di mestiere è addetto alle pulizie”. In realtà è meno strano di quanto a lui appaia, perché siamo a Tokyo, dove probabilmente ti educano anche a centrare il buco, e dove magari c’è sempre qualcuno che rimedia ai lanci fuori bersaglio, Quindi, via il sorrisetto ironico: sono contento che qualcuno ci tenga a farmi trovare servizi puliti. A Roma non ci tengono, e non auguro a nessuno di averne bisogno (a proposito, non oso nemmeno immaginare lo scandalo di Gramatica davanti alle strade romane senza rifiuti mostrate ne La grande bellezza). Wenders ha fatto dello spot una cosa godibile (almeno per me, ma a quanto pare non sono il solo): pretendevamo ne tirasse fuori un Viaggio al termine della notte?

La retorica e la Gramatica 03 - Perfect DaysE qui subentra la seconda accezione. Cosa non ci ha fatto vedere Wenders gabellandoci la superficie di una vita dolcigna? Eleggendo a protagonista della storia un tipo che “conduce una vita esangue? […] Che non ha moglie, non ha figli, non ha animali da compagnia, non ha affetti stabili? La cui vita “è scandita da azioni che si ripetono identiche o quasi ogni giorno, che sorride benevolo e grato quando la giornata è bella, quando un bambino lo saluta, ecc… Che sorride, sorride e sorride ancora guardando le cose che accadono, e in definitiva della vita è osservatore defilato, perché le cose non accadono a lui, accadono agli altri?”.

Per Gramatica questa è pura malafede: cosa ci viene a raccontare Wenders? “La disciplina! La bellezza delle piccole cose! La felicità che si ottiene attraverso la reiterazione dei gesti e la ricerca del piacere nella quotidianità! I giorni perfetti!” Insomma, “tutto lo stucchevole repertorio di luoghi comuni a cui si ricorre in questi casi?” Ma non sia mai! “La vita non è poetica: è difficile, dura, imprevedibile, dolorosa, buffa, ridicola, insensata, crudele. Non è ordine, è caos; il silenzio è spesso sovrastato da un rumore assordante e dal rovello incessante dei pensieri, a volte angoscianti e ossessivi, altre stupidi o turpi, che facciamo ogni giorno.” Alla faccia del bicarbonato di sodio, avrebbe detto Totò, e si sarebbe toccato. Io che non sono superstizioso non mi tocco, ma mi chiedo cosa non abbia funzionato nella vita di Gramatica. Il quale dice ancora: “Ma chi vorrebbe invecchiare come Hirayama? Come si può invidiare chi trova consolazione e salvezza negli oggetti, chi cerca la bellezza in una foto e non nei rapporti umani sfaccettati e imperfetti […]. Quello dei rapporti umani che non riesce a costruire, per timidezza e incapacità, è uno dei drammi di questo protagonista, anche se il dramma non ci viene presentato come tale. – Hirayama è un uomo solo […] che non sembra avere desideri di alcun tipo. Ha, in alcuni momenti, dei crolli emotivi che dovrebbero suggerire anche al commentatore più distratto e ottimista, che dietro al fondale di sorrisi e sguardi benevoli, si nascondono i calcinacci di una vita irrisolta.” Eh, la Madonna! Vedi un po’ cosa può nascondersi sotto la superficie ipocrita di un’esistenza sdolcinata. Intanto “una metodica, cinica e insincera ricerca dell’approvazione e della commozione dello spettatore”. Per ottenere la quale si ricorre anche “ai mezzucci narrativi. Ad esempio: un ragazzo con disabilità cognitive e un malato di cancro all’ultimo stadio sono due personaggi che compaiono nel film quasi solo per manifestare la loro condizione patologica, funzionale alle prese di coscienza del protagonista”.

Che con me a quanto pare non ha funzionato, perché non mi sono commosso, mi sono divertito. E perché, da paziente oncologico, non penso che per essere onesto un film debba per forza ricavare uno spazio non “funzionale” per disabili o malati terminali, e naturalmente nemmeno per le presenze femminili, o quelle fluide, o quanto altro richiesto dal “politicamente corretto”.

La retorica e la Gramatica 04 - PatersonMa non finisce qui. Perché ora viene fuori la proposta esistenziale alternativa del recensore, quella che avevamo già cominciato ad intravvedere. “Sospetto che la simpatia e la benevolenza che sono state accordate al film, risieda anche in questa mancanza di ambizioni del protagonista, scambiata forse per umiltà.” Perlomeno in un film paragonabile a questo, Paterson di Jim Jarmusch, il protagonista “è un autista di autobus e poeta dilettante, che scopre però di voler ambire alla pubblicazione. In lui si annida un desiderio, sopito, da risvegliare. E oltretutto non è solo: ha una moglie, un cane, degli affetti”.

Ecco dove si voleva arrivare. “Quest’uomo ha scelto davvero di pulire i bagni?” E figuriamoci! “A me Hirayama pare un po’ triste, con un lavoro poco gratificante a cui si dedica con ossessività alienante.” E, diciamolo, neanche solo triste: uno che “passa il sapone, togli la macchia, ma poi quale macchia? In questi bagni di design dove è tutto candido, immacolato, splendente prima ancora che il protagonista si metta al lavoro!” è evidentemente anche un povero sempliciotto. Come noi spettatori, d’altronde, irretiti dalla “retorica un po’ semplicistica delle grandi dimissioni”. Per cui: “C’è qualcosa di vagamente consolatorio nel pensiero che qualcuno non voglia migliorare la propria condizione, scelga di non competere in amore e nel lavoro, a differenza di noi spettatori, che possiamo bearci dell’infelicità di Hirayama perché rifiutiamo di considerarla tale”.

Immagino invece la felicità di Paterson, che scopre di ambire alla pubblicazione, che ha una moglie, desideri sopiti da risvegliare e soprattutto un cane, da portare a spasso nelle mattinate invernali, con il cappottino. Mi corre un brivido lungo la schiena.

La retorica e la Gramatica 05 - Paterson

Qui ci starebbe ora una puntuale confutazione della lettura che Gramatica dà del film e dell’esistenza. Ma l’ho già tirata sin troppo in lungo, e quindi cerco di dare un taglio virandola sull’autobiografico. Anche perché, ripeto, da quella lettura mi sento tirato direttamente in causa.

La retorica e la Gramatica 06 - Perfect DaysIntanto, sul lavoro poco gratificante. Non mi sono mai dedicato alle latrine pubbliche, pur attribuendo loro un grande significato, ma ho dovuto forzatamente occuparmi in più occasioni di ripristinare fognature, e non solo le mie. Il terreno dietro casa ogni tanto va a farsi un giro, e ha la cattiva abitudine di portare con sé le tubazioni. Non c’è verso a trattenerlo. L’ho fatto quindi non per scelta, ma per necessità, vincendo le prime volte lo schifo e abituandomi poi all’idea che si tratti di un lavoro come un altro. Non mi sono divertito come a tirare con l’arco o a giocare a calcio, ma una volta portato a termine il lavoro mi sono sentito gratificato: era una cosa che andava fatta, e possibilmente bene. Anche sapendo, dopo un paio di volte, che poteva diventare routine. Sono il prigioniero di una concezione vetero-borghese del lavoro, un alienato che non si accorge di aggirarsi tra i calcinacci della vecchia facciata?

Poi, sull’ambire alla pubblicazione. Ho avuto la ventura di veder pubblicate le cose che scrivevo attorno ai venticinque anni, tra l’altro presso una casa editrice piuttosto seria. A trenta ho deciso che non era la mia strada: mi impegnava troppo, su un fronte unico, e mi impediva di correre dietro ai miei molteplici e confusi interessi. Da allora continuo a scrivere per me e per pochi amici, giusto quelli che mi stanno leggendo. Mi dà molta soddisfazione, non mi sento affatto irrisolto o frustrato. Anzi, mi reputo fortunato, o meglio ancora, sono sicuro di esserlo, perché ho potuto scegliere, e perché a conti fatti ho scelto bene. Per cinquant’anni mi sono occupato solo di quello che davvero mi interessava, nei tempi e nei modi che ho ritenuto più opportuni, e ho interagito solo con interlocutori dei quali avevo stima. Sono un’anima bella, infarcita di luoghi comuni, sorda al grido di dolore che arriva dalla vita vera?

La vita vera, appunto. Che la vita non sia tutta poesia lo so anch’io. Lo sa chiunque non sia un perfetto idiota. Di lì però a pensare che sia solo dura, imprevedibile, dolorosa, buffa, ridicola, insensata, crudele, e che i nostri pensieri quando non sono angoscianti e ossessivi siano stupidi o turpi, ce ne passa. Posso capire che alcuni, molti addirittura, abbiano seri motivi per non sentirsi particolarmente felici (e Gramatica evidentemente, da quel che scrive, è tra costoro. Altro che Hirayama): ma ritengo anche che molti l’infelicità se la creino e se l’alimentino, mossi da un risentimento sordo che poi, spesso, si manifesta anche in un malinteso “impegno”, contro tutto e contro tutti. Sono coloro che si sentono in costante credito nei confronti della vita. Questo risentimento nasce proprio dal pensare che la vita debba essere competizione sempre, affermazione di sé in ogni ambito, nell’amore come nel lavoro: e allora non è sopportabile vedere qualcuno che quell’ambizione proprio non ce l’ha, che si impegna piuttosto a dare senso a quel che gli passa il convento, a farselo piacere.

Personalmente non mi sono mai sentito in competizione né in amore né sul lavoro. Ho amato e ho lavorato cercando di trarre tutto il piacere e il divertimento possibili dall’una e dall’altra cosa, e non per vincere una qualche gara. Non ho alcuna necessità di cercare consolazioni. E non mi passa nemmeno per l’anticamera del cuore o del cervello di bearmi dell’infelicità di Hirayama, perché davvero non la considero tale. Di più: amo la pulizia e l’ordine, segnatamente in bagno, in qualche caso aziono due volte lo sciacquone. Non ho tutta questa nostalgia delle macchie di piscio che sembra provare Gramatica. Sono un ipocrita, falsamente umile (oltre che ecologicamente scorretto)?

La retorica e la Gramatica 07 - Perfect Days

Ancora, sul ruolo da attribuire al cinema (e quindi sui criteri in base ai quali giudicare un film). Avendo vissuto da infante e da adolescente l’epoca d’oro della cinematografia, quella tra l’immediato dopoguerra e l’avvento della televisione, so per esperienza diretta quanto un film potesse incidere sulla formazione di un ragazzo, ma anche sugli orientamenti di un adulto: uso il congiuntivo remoto perché oggi naturalmente questo potere si è trasferito ad altri media, e il cinema si trascina lungo un viale del post-tramonto, illuminato da luci artificiali. So anche però che il cinema è come la montagna, ci trovi quello che ci porti. Per cui, se lo frequenti con lo spirito giusto può a volte suscitarti una maggiore consapevolezza rispetto alle tristi realtà che ti circondano, ma altre volte può offrirti dei parametri ideali. Ideali, appunto, ai quali guardare laicamente, con la debita attitudine critica. E sufficienti comunque ad aiutarti a capire che abbiamo noi stessi la possibilità e la responsabilità di dare un senso al caos che Gramatica sconsolatamente (non gli piacciono le cose vagamente consolatorie) vede regnare.

A me piacciono i film western. Sono un appassionato di John Wayne e di Clint Eastwood, ma non per questo mi faccio largo a cazzotti o ho mai sfidato qualcuno a duello. Mi hanno solo aiutato a capire che nella vita non ci sono solo interpretazioni, ma fatti; non solo opinioni, ma valori. E che rispettare i valori in cui credi (e magari farlo per quanto possibile con eleganza) è già dare una direzione, e addirittura un senso, alla propria esistenza. Sono un fascista, nemmeno consapevole di esserlo?

Per finire. Penso che i rapporti umani possano essere coltivati anche con il silenzio e la cortesia, che non siano necessariamente inibiti dalla timidezza e dalla discrezione. Lo dice uno che non è né timido né particolarmente riservato, ma intrattiene rapporti sinceri e profondi con persone che sanno camminare leggere su questa terra, e considera questo un privilegio. Ho anche una raccolta cospicua di musicassette anni sessanta, tra le quali quelle degli Animals, di Patti Smith e di Otis Redding: solo che a differenza di Hirayama non ho nemmeno il riproduttore per ascoltarle. E la sera, prima di dormire, addirittura leggo. Sono un disadattato?

E chiudo davvero. Mi accorgo di recitare da sempre un mantra più ripetitivo del rituale giornaliero di Hirayama. Dovrei essermi stancato (probabilmente ho stancato gli altri). E invece no. L’unica cosa che mi stanca è la piccineria di gente che ha risvegliato la propria ambizione, in realtà neppure troppo sopita, e si firma, come il nostro recensore, Editor-in-Chief.

La retorica e la Gramatica 08 - Perfect Days

P.S. (Ti pareva!) Proprio stamane ho avuto necessità di usare i bagni pubblici nel mercatino di Borgo d’Ale. Mi sono divertito comunque, ma mi sono venuti subito in mente Wenders e Gramatica. Se quest’ultimo proprio ci tiene a vedere macchie di piscio, gli do appuntamento per la prossima terza domenica del mese.

Giorni perfetti

di Paolo Repetto, 14 gennaio 2024

Ho visto l’ultimo film di Wim Wenders, Perfect days (da non confondere col quasi omonimo A perfect day diretto nel 2015 da Fernando León de Aranoa). Non sarà una notizia da prima pagina, ma per me che non entravo in una sala cinematografica dallo scorso anno, quando per vedere il film di Moretti avevo interrotto un aventino iniziato ben prima del Covid, si tratta di un avvenimento significativo. Ero convinto (e La grande bellezza prima e Il Sol dell’avvenire poi mi avevano rafforzato nella mia convinzione), che il cinema non avesse più nulla da dire – a tutti in generale ma a me, ex-cinefilo entusiasta, in particolare. Pensavo che, soggetta come tutti gli altri prodotti della modernità all’obsolescenza rapida, la magia coinvolgente del grande schermo si fosse ormai dissolta, avesse esaurito il suo ruolo culturale, senza peraltro riuscire a conservare quello del divertimento (e questo, a dispetto di quanto sto per dire, continuo in linea di massima a pensarlo). Per uscire di casa ho quindi dovuto vincere, oltre la pigrizia senile, anche una giustificatissima diffidenza. Ora però sono contento di averlo fatto.

Perfect days è stato un bel regalo di Natale, assolutamente inaspettato, perché prima di entrare in sala del film sapevo nulla. Non sapevo che aveva già vinto la palma d’oro per il protagonista (ne avrebbe meritate altre sei o sette, dalla fotografia alla colonna sonora) all’ultimo festival di Cannes, che è in corsa per i prossimi Oscar e che viene considerato dai critici il miglior film in assoluto di Wenders. Neppure sapevo che era stato commissionato come documentario da The Nippon Project, per dare visibilità ai ritocchi architettonici e urbanistici operati nella capitale giapponese in occasione delle recenti olimpiadi, e in particolare per evidenziare l’attenzione all’accoglienza e al benessere dei visitatori (leggi: servizi igienici pubblici da fantascienza). Nessuna di queste informazioni mi avrebbe comunque schiodato dalla mia poltrona, anzi: ho un cattivissimo rapporto con i festival, con i premi, con i critici e con le opere realizzate su commissione. In realtà mi sono mosso da casa solo perché sollecitato da una coppia di amici affidabili, coi quali nel caso di una boiata avrei potuto prendermela e massacrare il film: ma in fondo anche perché mi andava di tenere viva una vecchia tradizione natalizia.

Giorni perfetti 02

Dunque ho visto Perfect days, e mi è piaciuto sotto tutti gli aspetti, a partire da quello che è definito lo “specifico filmico”, e che in letteratura sarebbe la “forma”. Vuol dire che per due ore consecutive non ho staccato gli occhi dallo schermo, cercando di fermare ogni fotogramma, perché da tempo non ricordavo immagini così elegantemente pulite. Si tratterà pure di uno spot promozionale per Tokyo (del resto, è nato proprio come tale), e la fotografia nitida e luminosa, sul tipo di quella usata per pubblicizzare le auto di lusso, risponde certamente anche alla destinazione originaria: ma rispetto a ciò che Wenders vuole trasmetterci attraverso l’esilissima traccia di storia che corre sotto (o forse sopra) le immagini, la cosa non crea alcun fastidio. Produce anzi un effetto straniante, di scrittura “sopra le righe”, quella che si addice giusto ad una parabola. E spingono verso questa dimensione atemporale e in qualche misura anche extra-spaziale sia il ritmo di svolgimento dell’azione, che non subisce mai accelerazioni o rallentamenti, sia l’essenzialità degli effetti sonori. Il silenzio ostinato nel quale si muove il protagonista è rotto solo ogni tanto, nei cambi di sequenza, dal brusio regolare del traffico sullo sfondo, oppure da brani pop ultracinquantenni che vengono educatamente proposti, e non sparati, o da spiccioli di conversazione che raccontano più di qualsiasi dialogo serrato.

Insomma, in due ore non ho sofferto la minima sbavatura: nessuna inquadratura superflua, non una immagine ridondante o una presenza o un suono estranei all’economia asettica del racconto. E di rimando, neppure ho percepito in sala un sospiro di noia, un mugugno, la battuta stupida di uno spettatore. Una gioia per gli occhi e per le orecchie. E soprattutto, per la mente.

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Esprimendo un giudizio prima ancora di venire alla sostanza del film ho volutamente invertito l’ordine del discorso. Questo perché intendevo parlare della storia, se così la si può chiamare, prescindendo dal valore artistico. Ma è chiaro che ritengo strettamente connesse le due cose. La storia colpisce perché è ben raccontata, e conferma che a spiegare un concetto vale più una metafora centrata che centinaia di pagine di disquisizione filosofica. Quando si è capito questo, che non stiamo parlando di verosimiglianza ma di una voluta simbolicità, l’immediatezza e la pulizia della narrazione si traducono in un valore etico, e viceversa.

La vicenda è felicemente semplice. Il protagonista è un addetto alla manutenzione e alle pulizie dei gabinetti pubblici di un quartiere di Tokyo. Svolge la sua mansione con estremo scrupolo: non è solo coscienzioso, ma è orgoglioso del suo lavoro, lo sente e lo vive come un servizio doverosamente reso alla comunità. Di questo atteggiamento abbiamo una spiegazione culturale ascrivibile a un sentire sociale diffuso, perché è un giapponese (fosse un italiano, intanto non avrebbe neppure l’opportunità, perché i servizi pubblici in Italia praticamente non esistono: e se pure l’avesse, non la coglierebbe, perché percepirebbe la sua occupazione come umiliante: e se anche fosse animato da buona volontà si scoraggerebbe subito, stanti la maleducazione e la maialaggine degli utenti). Ma c’è anche un’altra condizione, questa strettamente individuale e immaginata ad hoc per consentire alla storia di scorrere lineare e diventare “esemplare”, di diventare appunto metafora. Hirayama è un solitario che la solitudine l’ha scelta, e sa riempirla facendo ricorso a un bagaglio di interessi ridotto ma non leggero (libri, musica, cura delle piante, fotografia): vive in una casetta minuscola ma indipendente, senza condomini e senza vicini chiassosi o invadenti, e si è organizzato le giornate in una routine di gesti che non vengono compiuti in automatico, ma sono assaporati, come il primo caffè del mattino. Si è guadagnato col suo silenzio e la sua presenza discreta il rispetto e la stima delle persone con cui intrattiene quotidianamente i contatti essenziali: si è lasciato alle spalle un tipo di esistenza ben diversa (la sorella con l’autista), ma per quella condizione non prova né nostalgia né risentimento. Insomma, nella sua vita non ci sono interferenze, né familiari (quando ci sono, come nel caso della nipote in fuga da casa, riesce con dolcezza ad attenuarle, ad affrontarle senza lasciar turbare i suoi equilibri) né sentimentali, non sembra avere problemi economici, anche perché vive spartanamente, non nutre ambizioni che possano essere frustrate. Per intenderci, sarebbe l’uomo ideale per i vagheggiatori di grandi utopie. Che detto così, e da me, non parrebbe un gran complimento.

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Eppure, mentre seguivo il film non ho mai avvertito in quel tipo di esistenza un vuoto, l’assenza di calore. Ho piuttosto pensato per un attimo a come avrebbe potuto essere la vita del protagonista se ad attenderlo a casa avesse trovato una moglie e dei figli. Non potevo fare a meno di immaginare che gli avrebbero riversato addosso le loro contrarietà quotidiane, i loro malumori, e nel migliore dei casi un’affettività invadente. Non l’ho invidiato, perché conosco le mie debolezze e perché ho capito subito che si trattava di un esemplare da laboratorio, ma certamente mi ha fatto riflettere su un sacco di cose.

Ciò che credo di avere bene afferrato è che il film non propone un modello di vita radicalmente alternativo a quello attuale, non ne ha alcuna intenzione. Tutto si svolge a Tokyo, una delle metropoli più moderne del pianeta, mica su un’isoletta del Pacifico o in un eremo di montagna. Propone invece una sorta di esperimento in vitro, per il quale era difficile trovare un vitro più appropriato di Tokyo quanto a modernità, razionalità, efficienza e asetticità. Hirayama è il topolino che sopravvive dopo aver ridotto al minimo i suoi bisogni essenziali. Ma non si limita a sopravvivere, vive attingendo benessere da quelle risorse interne che ora ha il tempo di esplorare e gli riempiono i giorni: la meticolosità nei particolari (quando pulisce), la concentrazione sull’efficienza (quando aggiusta), l’attenzione a ciò che lo circonda (quando guida con prudente sicurezza e si guarda attorno ai semafori, o fotografa le piante del parco), la moderazione nei rapporti (quando recupera bambini dispersi senza far piazzate alle madri e senza attendersi riconoscenza, o quando rivede dopo anni la sorella): e poi la pazienza, la discrezione, la comprensione …. Non è un automa ben programmato, ha le sue piccole inoffensive passioni (la musica anni Sessanta, la fotografia analogica) che lo legano a un’epoca presumibilmente meno riservata e che coltiva persino nel rispetto (non maniacale) per una strumentazione obsoleta (il mangianastri). In definitiva, un amore misurato e non esibito per il prossimo, che si traduce in urbanità, e per il proprio lavoro, che si traduce nel piacere di farlo bene, indipendentemente dal fatto che gli altri lo riconoscano.

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Hirayama è il vero anarchico conservatore, come lo erano Orwell e Camus e altri prima di loro che non si sono mai definiti tali, e a differenza di quella torma di imbecilli che rincorrono l’effetto spiazzante dell’apparente contraddizione interna senza avere la minima idea di cosa implichi il termine anarchia e di cosa valga la pena davvero conservare. È un anarchico perché ha ripreso il controllo della sua vita, sottraendolo ai veri poteri forti, quelli del condizionamento quotidiano, e perché mette questa libertà al servizio degli altri, senza sacrificarsi e senza pretendere ad una esemplarità, ma traendone un delicato piacere. È un conservatore, e non un reazionario, perché ha scelto i valori che vale la pena difendere e rispetta le proprie scelte con responsabilità e coerenza, senza farle pesare sugli altri.

Tutto qui: ma sufficiente a farci apparire Hirayama come un alieno. E infatti lo è, anche se sullo sfondo patinato (ma anche freddo) sapientemente fotografato da Wenders il contrasto risulta meno violento. Figuratevelo in un contesto italiano, cessi compresi, dove l’unico suo corrispettivo sino ad oggi espresso veste i panni e le pelli di Mauro Corona. Ora, io non so in che misura Hirayama rispecchi delle caratteristiche del sentire giapponese, la storia mi racconterebbe altro: ma almeno, piazzato lì, come modello per una auspicabile transizione psicologica riesce credibile. In fondo sembra volerci suggerire soltanto che per cambiare davvero registro non sono necessarie grandi rivoluzioni, basta poco: è sufficiente rinunciare senza troppi rimpianti a ciò che non è indispensabile (e che non comprende i film di Wenders e le canzoni di Patti Smith).

In realtà non è poco, è quel tanto sufficiente a rendere questa transizione impensabile: ma potremmo intanto cominciare a scaricarci degli alibi che accampiamo per non cambiare: “non sapevo” e “sapevo, ma non potevo farci nulla”. E ad assumerci almeno la responsabilità di tener puliti i nostri servizi, visto che quelli pubblici qui non ci sono, e di usare quelli, anziché i bordi delle strade. Sarebbe già qualcosa.

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Folletti burloni

di Paolo Repetto, 13 dicembre 2021

Folletti burloni 01L ’immagine d’apertura, che è quella utilizzata come sfondo per la copertina dell’edizione “magnum” di Fenomenologia dello spirito lermese, non riesce forse particolarmente accattivante, ma ha una storia: ed è questa storia a renderla significativa e a connetterla al titolo di quel volume. Provo dunque brevemente a raccontarla.

La cosa risale a una quindicina d’anni fa, proprio in questo periodo. A metà di una mattinata prenatalizia suona alla porta un rappresentante dell’azienda produttrice del Folletto, che balbetta timidamente di accordi presi con Mara per telefono e chiede di poter effettuare una dimostrazione della capacità aspirante del nuovo modello e della praticità delle sue applicazioni. Mara naturalmente se ne è del tutto dimenticata, per cui ci scusiamo e per non fargli perdere altro tempo lo informiamo di non avere in mente alcun acquisto: ma il tizio, un minuto signore di mezza età, privo delle più elementari doti di imbonitore ma animato da tanta voglia di fare, è così convinto della sua missione che non ce la sentiamo di deluderlo: gli consentiamo dunque di ripassare ogni angolo della casa e tutti i materassi. Quando termina è in un bagno di sudore, malgrado si sia in pieno inverno, e ci spiace davvero molto ribadirgli che non cambieremo i nostri piani di spesa. L’omino ripone mestamente tutto lo strumentario sfoderato, si schermisce quando lo invitiamo a pranzare con noi (nel frattempo è arrivato mezzogiorno), ma abbozza un sorriso e, quasi a prendersi una innocua rivincita, all’atto di uscire fa scorrere una pezzuola candida sul battente superiore della porta d’ingresso, ritraendola poi soddisfatto, per mostrarci come la polvere e l’untume si annidino nei punti più impensati. Con lo sporco – dice – non bisogna mai illudersi di avere tutto sotto controllo. Tiè.

Una volta congedato il poveruomo mi ritrovo in mano la pezzuola, prova fumante della nostra colpa: ma mentre sto per gettarla noto come l’impronta grigiastra che vi è stampata sopra disegni un’immagine misteriosa, molto delicata, che può essere letta in tanti modi: io ad esempio ci vedo un busto umano, Mara un ruscello gorgogliante tra le rocce. Stiro allora delicatamente la pezzuola, scovo una cornice vetrata di misura, scrivo con grafia appena decifrabile un nome (Roald Follett), una data e un titolo (Microaspirazioni 2004) sul cartoncino posteriore. Cinque minuti dopo la composizione fa la sua bella figura su un ripiano della libreria.

Caso vuole che la sera stessa siano ospiti a cena una coppia di amici impallati con l’arte, grandi frequentatori di mostre e di cataloghi, sempre molto attenti ad ogni piccola novità, ai quadri, ai disegni, alle statuine, insomma alle cianfrusaglie che ci divertiamo ad alternare sulle pareti o sui ripiani. Il caso in verità c’entra solo fino ad un certo punto, perché il resto lo creo io, avendo in mente proprio la loro visita.

Gli amici trovano dunque una casa tirata a lucido come mai prima, e in attesa di sedere a tavola cominciano come di consueto a guardarsi attorno. Non mi sono sbagliato. Il quadretto fa immediatamente colpo. Dove l’hai scovato, quando, quanto l’hai pagato. Non ricordo ora cosa posso aver raccontato, probabilmente sono riuscito a tenermi molto sul vago: sta di fatto che i due a fine serata se ne vanno riconfermati della mia capacità di scovare le cose più strane e interessanti. Tanto che torneranno alla carica, in seguito, più volte, per avere maggiori informazioni: fino a quando sventatamente Mara rivelerà alla moglie l’arcano.

Ho quasi perso un amico, ma ho avuto la riprova, una volta di più, che è assurdo oggi parlare di arte. Non esiste in realtà un’arte contemporanea. Esiste qualcosa che al pari di tutto il resto, dalla finanza alla politica, e persino allo sport e all’amicizia, rientra in una enorme bolla virtuale, nella quale l’unico criterio vigente è la legge del mercato. Non che avessi bisogno di conferme: in quell’occasione semplicemente mi ha divertito constatare quanto sia facile montare una farsa “artistica”. Ma è proprio questo il problema. Certo, l’amico è un ingenuo, sia pure in buona fede, perché crede nella funzione provocatoria dell’arte (e in quella distributiva del mercato): ma ho visto lunghe file di ingenui come lui soffermarsi pensierosi davanti alle pietre strappate al greto del Piota da mio fratello (vedi Pietre. Arte per fede, non per opere), e, se vogliamo “volare più alto”, intere scolaresche indottrinate da volenterosi insegnanti al cospetto delle “merde d’artista” di Pietro Manzoni. La mia pezzuola sporca potrebbe benissimo essere esposta nel Museo del Novecento accanto a quelle, 0 magari in uno speciale spazio dedicato all’Arte Preterintenzionale, col titolo: Tracce del tempo. Probabilmente incontrerebbe un gradimento maggiore. Se poi qualcuno spiegasse che quelle macchie sono tutto ciò che rimane del trascorrere delle stagioni , delle illusioni degli uomini, della tracotanza tecnologica, beh, allora saremmo al capolavoro assoluto.

Mi rendo conto che rischio di ricascare in argomenti usati a suo tempo da Hitler o da Kruscev per demonizzare le avanguardie: spero però si capisca che sto facendo un ragionamento diverso. Qui non è più un problema di avanguardie, che per antonomasia sono quelle che si mettono a rischio: a rischio oggi non c’è nessuno, se non il buon senso. E nessuno si scandalizza, e se scandalo c’è fa aggio, viene immediatamente monetizzato. Per favore, non raccontiamoci ancora che queste cose hanno un valore di rottura, di denuncia, che creano consapevolezza e inducono a riflettere: l’unico valore che hanno è quello attribuito loro dai galleristi e da tutta la fauna di critici e mezzani che ci campano sopra, gli uni e gli altri tutt’altro che ingenui, ma talmente coinvolti nel raccontarsela a vicenda da finire spesso col crederci davvero. Chiarito questo, poi, non è che si possa fare a meno dell’arte: ma forse il problema sta nell’uso dei termini. Anche ammettendo che non esista un canone universale (e già qui non sarei d’accordo), che tutte le manifestazioni della cultura umana siano soggette ad evoluzione e a a trasformazione, un qualche confine, un qualche parametro occorre ipotizzarlo, se si vuole che l’etichetta abbia ancora un senso. Oppure si stacca l’etichetta, e amen.

Voglio dire che il gesto artistico davvero innovatore, e coraggioso, dovrebbe essere proprio la “ridefinizione” di quell’ambito che un tempo si chiamava Arte: il che non significa, come sta accadendo, aprire i cancelli per lasciar entrare tutto, ma al contrario, chiudere i cancelli e tener fuori tutto quello che dichiaratamente persegue la “destrutturazione” dell’arte. Chiedo solo un po’ di coraggio e di onestà: se vuoi destrutturare l’arte, liberissimo di farlo, ma non mi esibire poi il certificato di cittadinanza artistica per vendere le macerie.

Questo primo passo è necessario, anche se non sufficiente: fuori gli imboscati. Il secondo è più complesso: bisogna decidere se non sarebbe il caso di coniare una terminologia nuova per una fenomenologia dello spirito umano (leggi: rifiuto delle competenze) totalmente inedita. Ma non è certo un problema mio.

A me resta solo da spiegare come mai ho scelto proprio quell’ immagine. È semplicissimo: quell’immagine non ha alcun valore “artistico”, ma la sua storia testimonia perfettamente come si manifesti lo spirito lermese. Che ama l’ordine, ma è capace anche di sdrammatizzare la persistenza di qualche angolo un po’ meno pulito: anzi, di incorniciarlo e di sorriderne.

P.S. Per la cronaca: il quadretto lo possiedo ancora, da allora è rimasto esposto sullo scaffale. E si fa sempre più interessante, perché è un’opera in divenire, che manifesta una tendenza entropica. Dopo tutti questi anni la polvere appiccicata alla tela ha preso a staccarsi e a depositarsi verso il fondo, e l’immagine risulta mano a mano più sbiadita. Funziona come il ritratto di Dorian Gray: col tempo l’immagine tende a svanire, e mi ricorda che è quanto sta accadendo anche a me.

Forse me ne sono accorto troppo tardi. Forse avevo in casa una vera opera d’arte. 

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