Centouno motivi (e altrettanti modi) per salire il Tobbio

di Paolo Repetto, 29 giugno 2018, da sguardistorti n. 03 – luglio 2018

Del Tobbio ho scritto già innumerevoli volte, ma forse l’ho dato sempre per scontato. Ora, scontato in una qualche misura lo è, per me che lo scorgo in ogni stagione dalle finestre dello studio e della camera da letto, e anche per chi, se pure non lo ha quotidianamente presente, lo ha frequentato abbastanza da iscriverlo nella geografia della propria mente: ma non lo è per chi non lo ha ancora salito, o lo ha solo intravisto di lontano, o addirittura non lo ha visto mai. E allora, mi sono detto stamattina, bisogna provvedere.

La voglia di scrivere questo pezzo mi è venuta mentre stavo salendo in perfetta solitudine, in una splendida giornata di sole, a parecchi mesi dall’ultima ascensione. Una volta non era così, andavo almeno una volta la settimana, era diventato quasi un rituale. Ho smesso quando mi sono accorto che rischiava di diventare davvero tale, che cominciavo a sentirlo più come un dovere che come un piacere, e che questo era l’esatto contrario di un sano rapporto col monte. Non ho dovuto sforzarmi molto. Le gambe avevano preso a marcare la fatica della salita, le ginocchia a soffrire le percussioni della discesa. Ora ci torno solo quando sono veramente ispirato, e neppure sempre, perché ai conti con le gambe e le ginocchia si sono sommati quelli più generici con l’età, e il disavanzo cresce a ritmi da debito italiano.

Dunque, pensavo: i dati essenziali li fornisce già il catalogo redatto per la mostra 51 vedute del monte Tobbio, venti e passa anni fa. Ci sono le motivazioni degli appassionati, dall’ottocento ad oggi, un sacco di immagini che mostrano la montagna in tutti gli abiti stagionali, le statistiche, i percorsi possibili, la fauna, la flora, persino una breve storia della chiesetta e del rifugio. Cosa manca, allora? Oggettivamente non manca nulla, dagli aficionados il Tobbio è stato studiato e descritto quanto l’Everest dai collezionisti di ottomila: ma soggettivamente, per quanto riguarda il mio personalissimo rapporto col monte, manca una sintesi che metta assieme tutti i tasselli di cui parlavo sopra: e che offra a me motivo di chiudere una volta per sempre la frequentazione scritta. Non quella fisica, naturalmente.

Non posso quindi prescindere da quanto sul Tobbio ho già detto. E dal momento che l’età non pesa solo sulle gambe, ma induce anche una certa pigrizia nella scrittura, mi torna comodo riproporre integralmente in apertura un “ritratto” abbozzato appunto venti anni fa. Ormai lo faccio spesso, pur sapendo che quando si scade nell’autocitazione si evidenzia una perdita di freschezza: ma il fatto è che non mi piace ripetere le stesse cose, anche perché senz’altro lo farei peggio. Il brano si intitola “Dalla vetta”, ed è comparso nella raccolta “Appunti per una riforma della filosofia yamabushi”.

 

“A chi gli chiedeva perché si ostinasse a voler salire l’Everest, George Mallory rispondeva: perché è lì. Fatte le debite proporzioni, la risposta di Mallory spiega perfettamente il rapporto che un sacco di persone, me compreso, hanno col Tobbio. Ti vien voglia di salire sul Tobbio perché è lì, incontestabilmente. Non puoi fare a meno di vederlo, ovunque tu sia nel raggio di una cinquantina di chilometri. Ogni volta che torni verso casa è la prima sagoma che scorgi, inconfondibile. Sai di essere sulla strada giusta. Lo rivedi e ti chiedi: chissà come sarà, lassù. Ti viene voglia di salirci, lassù, di andare a vedere com’è. E se anche ci sei stato la settimana prima, o due giorni prima, ti vien voglia lo stesso, perché sai che domani sarà diverso, sarà diverso il tempo, sarai diverso tu, saranno altri quelli che incontrerai in cima o lungo il sentiero. Tutto qui. Non ho mai trovato una pepita d’oro tra le rocce del Tobbio, né il colpo di fulmine nel rifugio, e neppure sono stato illuminato sulla direttissima. Ho trovato quello che ci portavo, entusiasmo qualche volta, rabbia qualche altra, speranze, delusioni. Non le ho scaricate lì, da buon ecologista, ma stranamente nella discesa ero più leggero. Sapevo di aver fatto la cosa giusta, una volta tanto.

La sacralità di una montagna non è proporzionale alle sue dimensioni, alla sua altitudine o alla sua inaccessibilità, ma piuttosto al significato che essa riveste per le popolazioni che vivono alla sua ombra o nel raggio della sua visibilità, o per gli individui che la salgono. In questo senso, sempre avendo chiare le proporzioni, e con un po’ di ironia, la sacralità del Tobbio non ha nulla da invidiare a quella del Kailas, del Fuji o del Meru. Il difetto di esotismo è pienamente compensato dalla paterna confidenza, mista al senso di rispetto, che spira dai suoi costoni. Il Tobbio è diverso, è speciale, e la sua diversità è avvertita da sempre, tanto da aver rivestito di un’aura di leggenda una vetta accessibile e modesta.

L’eccezionalità del Tobbio è legata ad un particolare rapporto tra la sua morfologia e la sua collocazione. La conformazione vagamente piramidale e l’escursione altimetrica tra le pendici e la vetta gli conferiscono un’estesa visibilità, pur in mezzo ad altre formazioni di altitudine pari o addirittura superiore. E il suo stagliarsi nitido, sulla direttrice ideale che raccorda il mare alla pianura dell’oltregiogo, lo ha eletto a riferimento geografico, meteorologico e simbolico per eccellenza per le popolazioni di entrambi i versanti dell’Appennino.

La riconoscibilità è la prima caratteristica del Tobbio, forse la principale, ma non è l’unica. Ribaltando il punto di osservazione, trasferendolo a fianco della chiesetta sommitale, si gode di un panorama a trecentosessanta gradi che bordeggia il mar Ligure, in certe giornate eccezionali partendo dalla Corsica, sale lungo la cresta delle Marittime, incrocia il Monviso, si allarga al Bianco e al Rosa, e si stempera nelle Retiche, fino al Bernina. Un vero ombelico del mondo, o almeno di questa piccola fetta. Per un fortunato gioco di cortine naturali non si scorgono di lassù le cicatrici e le croste lasciate dall’uomo sulla pelle della terra, cave, autostrade, discariche, gallerie, e anche il peso della sua stupidità appare per un momento ridimensionato. Realizzi che il Tobbio è lì da prima che la nostra specie potesse scorgerlo, e ci sarà ancora quando non potrà più farlo.

Ma soprattutto ti sorprendi a pensare che altri, un paio d’ore o un paio di secoli prima, hanno visto ciò che tu stai vedendo, e senz’altro hanno provata la stessa emozione, perché diversamente non si sarebbero presa la briga di salire. Ed è questo, probabilmente, che ti fa scendere più leggero”.

 

L’essenziale c’è già tutto, e mi rendo conto che avrei potuto benissimo riproporre semplicemente il pezzo e chiuderla lì, evitando la ridondanza. Ma la salita di stamattina è stata lunga, l’ho presa piuttosto bassa: in compenso ho avuto tanto tempo per riflettere, per riesumare episodi, aneddoti, sensazioni che non voglio nuovamente perdere, e che tenterò di riversare in queste pagine. Quindi tengo come testo base della mia dichiarazione d’amore per il Tobbio quello di vent’anni fa, mentre il resto, ciò che andrò ad aggiungere, sono solo postille e corollari.

Il primo motivo che cito nella professione di fede è di carattere ontologico. Il Tobbio merita di essere salito perché esiste, e perché è fatto in un certo modo. Tutte le alture dei dintorni meritano senz’altro uno sforzo per cavalcarle: ma nessuna offre la stesse gratificazioni. Con la sua conformazione, che lo fa sembrare una montagna vera, o almeno è in linea con l’idea che abbiamo sin da piccoli di una montagna, il Tobbio sembra sfidarti. Lo si vede spuntare un po’ dovunque: incombe da vicino sui laghi della Lavagnina, si staglia dietro le prime colline dalla piana della Caraffa, e più remoto dai contrafforti collinari alle spalle di Ovada. Insomma, non si può fare a meno di vederlo, fermo lì, che aspetta. Ti aspetta.

Immaginate quale sfida sia stata per me che, ripeto, me lo trovavo di fronte nel nitore dell’alba ad ogni risveglio e illuminato da una luce rosacea ad ogni tramonto. Eppure, il primo tentativo di salirlo fu un disastro. L’occasione era quella di un breve campeggio alle Capanne di Marcarolo, con il viceparroco (lo stesso che fece da arbitro alle olimpiadi lermesi) e una decina di amici. La ricordo come un’esperienza orribile, perché assieme a mio fratello, che non aveva più di sette o otto anni, dormimmo per due notti in una tenda a telo unico senza pavimento, con una sola coperta in due. Credo sia stata l’unica volta in vita nostra in cui ci siamo abbracciati, per cercare di combattere il freddo. Quando affrontammo la salita non avevamo la minima idea del sentiero (eravamo sul versante del ponte Nespolo). Attaccammo i contrafforti in ordine sparso e nel giro di dieci minuti eravamo già dispersi lungo tutto il costone. A metà, forse anche prima, io e Gianni rinunciammo. Non fummo gli unici: arrivarono in vetta solo in tre, compreso il viceparroco, e mi chiedo ancora oggi come abbiamo fatto a ritrovarci tutti, a fine pomeriggio, in riva al Gorzente.

Prima di arrivare ad una salita vera trascorsero altri dieci anni. Questa volta ero con una ragazza, e fu subito passione. Ma per la montagna. Quella della gita al Tobbio da proporre alle fanciulle con cui flirtavo divenne una consuetudine. Non c’erano secondi fini, pensavo davvero di offrire loro un’esperienza eccezionale: ma inconsciamente ne avevo fatto una sorta di test di compatibilità. Devo ammettere che risultò fin troppo selettivo. Ricordo che una delle ragazze, ancora stravolta dall’acqua e dal vento che avevamo beccato sulla cima, mi disse che davvero era stata un’esperienza eccezionale, ma che la considerava anche irripetibile: e mi diede il benservito.

Andò meglio con i miei studenti. Fin dai primi anni di insegnamento propagandai la gita al Tobbio come sacrificio propiziatorio per l’esame di maturità, da replicarsi in caso di esito positivo come rito di ringraziamento. Avevo anche cominciato a capire che ad alcuni, non solo alle ragazze, la scarsa abitudine alla fatica poteva creare qualche difficoltà, e ad affinare le mie doti di motivatore. Tanto che ad un certo punto furono gli studenti stessi a chiedere di ripetere il rito, o di anticiparlo anche ai primi anni di corso. Col tempo poi, e con la loro uscita dalla scuola, il Tobbio divenne l’occasione per cementare sentimenti veri d’amicizia. I Viandanti sono nati lungo i suoi costoloni.

La terza fase fu quella familiare. Emiliano salì in vetta a sei anni in meno di un’ora, percorrendo da primo tutto il sentiero. Non fu immediatamente contagiato dalla mia malattia, e attese parecchio prima di tornarci: ma da quando a sua volta è padre ha riscoperto il valore unificante di quelle salite, e mio nipote vanta senz’altro tra i suoi coetanei il maggior numero di ascensioni. Di Chiara ho una bella foto davanti al rifugio: a meno di tre anni aveva fatto metà del percorso sulle proprie gambe. Elisa lasciò secco un amico continuando a girare come una trottola attorno al rifugio, dopo aver macinato, anche lei attorno ai quattro/cinque anni, tutta la salita. E dieci anni dopo ha annichilito me quando, a un certo punto del sentiero, mi ha detto: “Beh, io adesso vado”, e mi ha lasciato a guardarla svanire rapidamente in alto.

Ma non c’erano solo i famigliari. Sono moltissime le persone che ho accompagnato in cima. Andavo orgoglioso di essere considerato un esperto dei sentieri e delle condizioni ottimali di salita. Mi piaceva anche il fatto che, diversamente da quanto accadeva con gli studenti e con i famigliari, rispetto ai quali esisteva comunque un (motivato) sospetto di coercizione, in questo caso i postulanti si rivolgessero a me spontaneamente. Non provavo quindi sensi di colpa nel vederli magari arrancare, ma sentivo solo la responsabilità di far loro adeguatamente apprezzare ciò che stavano facendo.

Alcune di quelle spedizioni sono rimaste memorabili, nel senso che ancora oggi trovo ogni tanto qualcuno me le ricorda. Di una salita notturna prenatalizia, lungo il sentiero completamente innevato, rammento la fila delle luci, nel buio totale, qualche tornante più in basso. In quell’occasione ci eravamo muniti di lanterne vere anziché di torce elettriche, e le vedevo avanzare lente, là in fondo, mentre con altri due sherpa carichi di legna e di cibarie guadagnavo il rifugio, per accendere la stufa. Un’immagine da antica fiaba.

Nel corso di un’altra escursione la figlia di una coppia di amici si slogò malamente una caviglia. Eravamo più prossimi alla vetta che alla base, per cui decisi di caricarmela sulle spalle e portarla in cima. Per fortuna, anche se aveva ormai superata l’adolescenza, non pesava più di cinquanta chili. La parte difficile venne però al ritorno, quando dovetti scendere al buio, con la povera ragazza appollaiata sulle mie spalle, cercando di non catapultarla di lassù sulle pietre del sentiero. L’ho poi incontrata dopo trent’anni, naturalmente senza riconoscerla, mentre lei mi aveva identificato subito: e ho scoperto che quell’episodio era ancora impresso nella sua memoria, ricordava particolari che a me riuscivano completamente nuovi e aveva persino epicizzato una vicenda in realtà solo un po’ faticosa.

L’impresa vera però, quella di cui vado giustamente fiero, è stata di portare in vetta al Tobbio la mia vicina di casa, l’ex-fornaia Pina. Nel periodo in cui frequentavo settimanalmente la montagna la trovavo ogni volta, al rientro, a chiedermi dal suo terrazzino notizie sul percorso, e a rammaricarsi di non essere mai salita al Tobbio, anzi, di non averlo nemmeno visto da vicino. E io continuavo a ripeterle che non è mai troppo tardi, fino a quando decisi, prima che lo diventasse davvero, di prenderla in parola. Alla cosa ostavano sia la stazza, oltre il quintale, sia l’età, non più giovanissima, ma riuscii a convincere anche i suoi familiari (e fu questa la parte più difficile). Avrei dovuto filmare quella salita. In poco più di tre ore Pina, un po’ tirata dal marito, un po’ spinta dai figli, un po’ arringata e stimolata dal sottoscritto, arrivò in vetta. Aveva superato ogni limite umano di fatica, era stravolta ma raggiante. Quando la sedemmo in macchina dopo altre tre ore di discesa confessò che a quel punto avrebbe potuto tranquillamente anche morire. Invece è ancora viva e vegeta, e ha raccontato la sua salita al Tobbio a mezza provincia, prendendosi il gusto maligno di rimproverare a chi mai ci ha provato: “Ma come, se sono andata su persino io!”.

 

Nelle salite di cui ho parlato sino ad ora la motivazione più forte era quella del proselitismo: far conoscere a più persone possibile il piacere che quella montagna può offrire, senz’altro per gli spettacoli naturali che ti squaderna davanti, ma soprattutto per la fatica che impone per conquistarli: studenti, famigliari, semplici conoscenti, sono sempre scesi con la coscienza di avere ottenuto una vittoria, non sulla montagna, ma su se stessi.

Salendo con gli amici, invece, gli stimoli sono completamente diversi. Non devi convincere o rassicurare o spronare nessuno, puoi abbandonarti al piacere della conversazione, dello scherzo, magari, perché no, anche dell’assoluto silenzio, quando ti rendi conto che le parole guasterebbero l’atmosfera. In questo caso si può anche arrischiare la novità, la ricerca di qualche passaggio inedito e più complesso. Un anno abbiamo risalito con Fabio praticamente tutti i canaloni, da ogni versante, scoprendo che anche il Tobbio può riservare scariche di adrenalina. Arrampicando lungo una cascatella ghiacciata finii di sotto, in una conca d’acqua sufficiente ad infradiciarmi tutto, e dovetti praticamente correre sino alla vetta per accendere la stufa e scongelare gli indumenti che indossavo. Con Giuseppe siamo invece saliti un giorno in cui ghiacciava anche il respiro, rischiando di volar via sul verglass ad ogni passo. Con Franco poi credo di aver davvero sperimentato ogni possibile versione del Tobbio, con qualche incursione anche nel paranormale.

Messa così sembra però che io sia sempre salito in compagnia. È vero il contrario. Almeno i due terzi delle mie ascensioni si sono svolte in solitaria. Salire il Tobbio è bello comunque, e con la compagnia giusta può diventare addirittura esaltante, perché la cadenza lenta del passo favorisce lo scorrere di riflessioni, osservazioni, domande, ecc. Ma il monte stesso si rivela un ottimo interlocutore quando lo avvicini da solo.

Le ascensioni solitarie sono anzi quelle che rispondono al più vasto spettro di motivazioni. A volte, come stamattina, è lo splendore della giornata a farti decidere. Pensi: se è bello qui, chissà come deve essere lassù. In altri casi la cosa parte da dentro, hai una motivazione petrarchesca (“Solo e pensoso …”), un bisogno di solitudine mesta, oppure, al contrario, celebri con la salita una qualche gioia, quasi a volerla condividere con il più discreto degli ascoltatori. Talvolta, soprattutto ultimamente, è l’espediente per fare un bagno nei ricordi: ogni pietra del sentiero può suscitarne uno. Ma i motivi possono essere anche più prosaici: io uso spesso il Tobbio come termometro del mio stato di salute, e l’effettuare una buona salita ha anche un effetto terapeutico, tanto sul fisico che sul morale.

Non mancano naturalmente anche le motivazioni agonistiche, meno confessabili per uno che vuol passare per una persona seria, e quindi da soddisfare in segretezza. Per un certo periodo mi ero incaponito ad effettuare salita e discesa in cinquanta minuti, (che non è poi un grande exploit: Sergio, il figlio di Franco, impiegherebbe la metà del tempo – ma Sergio appartiene a un’altra razza, era un fuoriquota già a dieci anni) e ho trattato il Tobbio come un avversario, cercandone i punti deboli, forzando i passaggi, studiando le linee di percorrenza più dirette. Alla lunga com’era logico ha vinto lui, ma alla sua maniera magnanima, facendomi riscoprire i veri piaceri della salita. Ci siamo immediatamente riconciliati.

Un significato diverso bisogna però riconoscere ad altri tipi di performance alle quali il Tobbio ti induce, non sportive ma, come si dice oggi, di survival. Se sali dopo una nevicata che ha coperto con una coltre di due metri anche gli sparuti pini della fascia bassa, sprofondando ad ogni passo e impiegandoci magari quattro ore, conosci una montagna completamente diversa. Lo stesso accade per una salita compiuta in immersione totale nella nebbia più fitta, che rende irriconoscibili anche i riferimenti più evidenti, quei passaggi che hai compiuto centinaia di volte. Non temi di esserti perso, sai benissimo che volgendoti in discesa da qualche parte comunque finirai, in un rituale o su una strada, ma il non riconoscere le cose note ti inquieta, mina le tue certezze di avere comunque in mano la situazione: e d’altra parte ti fa intravvedere, proprio perché nasconde quelle reali, le altre infinite possibilità d’essere del paesaggio.

Ciò che più ti sorprende, però, è trovare anche in situazioni un po’ esasperate altri con la tua stessa motivazione. L’ennesima conferma che il Tobbio è anche un luogo privilegiato di incontri. È privilegiato perché difficilmente ci trovi degli imbecilli. L’imbecille di norma non ama una fatica che gli appare del tutto gratuita, quindi preferisce rimanere a valle. E comunque, mal che vada, se anche ce lo trovi difficilmente è a suo agio; la stanchezza un po’ lo inibisce, l’ambiente non si presta all’esercizio della stupidità e anche gli interlocutori sono poco disponibili a tollerarla.

Esiste invece, al contrario, una sorta di comunità di frequentanti, i puri, i “sublimi maestri perfetti” della tradizione catara, che magari si sono incrociati solo un paio di volte, ma rimangono in costante contatto spirituale, anche attraverso il diario di vetta. Ogni volta che salgo vado a verificare l’ultima presenza di Michele Magnone, che invariabilmente risale al giorno prima o al giorno stesso. Michele lascia pochissimi segni, ma inconfondibili: temperatura, situazione meteorologica, vento. Nessun commento. Sale tutti i giorni, con qualsiasi condizione atmosferica, da un paio di decenni. Un’assenza di quindici giorni, qualche anno fa, era giustificata da un’escursione nel gruppo del Monviso. Si era preso una vacanza. Michele ha stracciato tutti i record, ma non cerca affatto un posto nel Guinnes dei primati, altrimenti sarebbe appagato da un pezzo. Nemmeno aspira ad un ruolo di guru, o ad una visibilità conferita dalla stranezza, anche se suo malgrado ha delle fans che gli chiedono il selfie. Il Tobbio gli è proprio entrato in vena, e un po’ di merito, o di responsabilità, a seconda dei punti di vista, ce l’ho anch’io, perché è con me che ha cominciato a salire, mezzo secolo fa.

L’incontro non lo cerchi, ma sotto sotto te lo aspetti. Rappresenta un valore aggiuntivo. Non solo perché è sempre possibile, a volte sorprendente, a volte commovente, ma per come avviene. Non senti la rarefazione dell’aria, lungo i sentieri o sulla vetta, in fondo sono solo poco più di mille metri: ma agisce una rarefazione del linguaggio. Gesti e parole si riducono a quelli essenziali, come accade in alta montagna, senza però che a dettarli sia alcuna urgenza o difficoltà. In sostanza, non c’è spazio per sparare palle o cretinate, ma ce n’è a sufficienza per comunicare in maniera sentita e spontanea, sia con i vecchi conoscenti che con gli sconosciuti. Non ricordo di essere mai sceso pensando “Ma che razza di idioti!”, cosa che invece mi accade troppo spesso in pianura.

La community funziona a volte in maniera sorprendente. Un giorno, approdato in vetta in mezzo a una tormenta di neve, ho trovato nel rifugio un gruppo ligure stretto attorno alla stufa. Al momento della presentazione ho colto delle espressioni di stupore, fino a che una delle escursioniste mi ha chiesto: “Ma è quel Paolo Repetto?” Mi sono fatto spiegare la cosa ed è venuto fuori che il mio nome era abbastanza conosciuto nei club tobbistici d’oltre-appennino, non fosse altro per l’iniziativa di recupero del rifugio portata avanti col CAI di Ovada, ma che le mie attività ascensionali erano confuse con quello di un omonimo ovadese, un bravissimo e sfortunato ragazzo che per un certo periodo venne a sfogare le sue crisi sentimentali sul Tobbio, salendo persino tre volte in un giorno e lasciando sul quaderno di vetta delle poesie di Baudelaire e di Mallarmé. Si era pertanto diffusa in quel di Voltri la voce che mi fossi bevuto il cervello, e quando ho chiarito la faccenda mi sono parsi tutti riconfortati.

Penso però a questo punto di aver postillato sin troppo, e di doverci dare un taglio. Riassumo quindi, molto sinteticamente, poche altre banalissime considerazioni.

Uno dei motivi più evidenti che giustificano la diffusa devozione per il Tobbio è che si tratta di un monte per tutte le stagioni. L’ideale sarebbe salirlo almeno quattro volte l’anno, in condizioni climatiche diverse, per coglierne almeno in parte la gamma di sfumature, sensazioni, colori, suoni, odori. E di ripetere l’operazione tutti gli anni, per cogliere anche le variazioni nostre, e gli umori, stagionali e non. È l’esatto contrario della terapia del lettino dello psicanalista: costa molto meno e risulta senz’altro più efficace.

Un altro motivo sta nel fatto che si tratta comunque, se si rispettano i sentieri e non si lasciano in giro immondizie, della pratica meno devastante oggi possibile nei confronti della natura. Non si inquina l’aria, non si erode nulla, non si tagliano alberi e non si disturbano animali. Questo naturalmente vale per una pratica corretta. A scoraggiare quelle scorrette dovremmo quindi impegnarci, con l’esempio ma non solo, tutti quanti. Se invadono anche questo spazio (“loro”, fuoristradisti, pubblicitari, antennisti, logistici, ennevalichisti, valorizzatori del territorio, il futuro insomma) non ci rimane più nulla.

Un ultimo riguarda il fatto che salendo sul Tobbio si ripete un gesto possibile tale e quale dieci o venti o centomila anni fa, e che spero possa essere ancora compiuto tra altri diecimila. Le condizioni sono più o meno le stesse, la maggiore funzionalità odierna dell’equipaggiamento è compensata dalla minore abitudine a camminare o a sopportare le temperature. Non so se i primi sapiens fossero interessati a salire le montagne, avevano disponibile per le loro esplorazioni tutto un mondo più comodo e più ricco di opportunità per la sopravvivenza. Se qualcuno però lo ha fatto è quello di cui ho visto stampata l’ombra, stamattina, contro il muro esterno del rifugio. Non c’era nessun altro, ma non ero solo.

Non poteva essere che lui.


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Una dose di pensiero divergente

di Fabrizio Rinaldi, 30 aprile 2018

I “coccodrilli” si scrivono in attesa che qualche grossa personalità del circuito culturale o mediatico si decida a schiattare. In genere vi si assemblano episodi e aneddoti più o meno rilevanti della vita del morituro, ma soprattutto sviolinate, così da essere pronti per la pubblicazione un istante dopo la morte.
Questo evidentemente non è un coccodrillo. Innanzitutto il protagonista sta benissimo, e poi si tiene volentieri lontano dagli “eventi” e dal cicaleccio intellettuale che impazza sulle riviste e sui teleschermi e non ci tiene alle sviolinate. Preferisce una vita ritirata in un paesino sperduto nell’appennino, evitando inutili protagonismi, razionando con parsimonia i contatti umani, per lasciar spazio al lavoro delle braccia nel suo frutteto e del pensiero nella sua testa, zeppi entrambi di sterpaglie da estirpare, governare e contenere.
Questo scritto vuol essere dunque solo un augurio di lunga vita ad un amico che ha incrociato le strade di molti pellegrini del pensiero, accompagnandoli lungo i più diversi sentieri, da quello scolastico a quelli che portano al Tobbio, passando magari per le mostre di pittori sconosciuti – non a lui! – o per i libri di autori ignorati o dimenticati.
L’altro giorno sono andato a trovarlo. Era al Capanno, intento a piazzare i pali per un pergolato su cui dovrebbe crescere la vite canadese e a riutilizzare vecchie travi per farne le panchine su cui siederà, all’ombra, a chiacchierare con i selezionati amici che andranno a trovarlo.
La “C” maiuscola il Capanno l’ha conquistata di diritto perché, dopo sua la costruzione in solitaria da parte del protagonista, è diventato un luogo ove da anni si consumano pranzi frugali, si conciliano il cibo, la parola e il giusto silenzio, si beve del buon vino e si tenta di fare chiarezza nelle idee e nelle azioni.
Il Capanno è un “gompa”, un “buen ritiro”: lì è possibile disciplinare il moto perpetuo e disordinato delle idee con la lenta concretezza imposta dalla terra, alla quale, per avere dei frutti, è necessario inchinarsi.
La stessa perseveranza che mette nelle faccende manuali Paolo la impiega per governare le idee che gli fioriscono nella mente: è tutto un lavorio di ragionamenti, di approfondimenti e di riflessioni che richiedono poi un impegno certosino di sforbiciatura e limatura, per arrivare a quel pensiero ordinato che vuole traspaia dalle sue parole. Forse quando termina di scrivere uno dei suoi “Quaderni dei Viandanti” prova la stessa sensazione che avrà assaporato suo nonno in vigna, dopo una giornata nei campi, quando stanco ma appagato per il lavoro meticoloso e accurato si sedeva sotto una vite e si fumava una sigaretta, soddisfatto anche dell’aspetto estetico di ciò che aveva realizzato.
Nell’ora che ho trascorso con lui mi ha snocciolato tutta una serie di nuovi progetti, passando dal pergolato al pezzo che vorrebbe scrivere su Leopardi e l’Islanda, dal tetto da sistemare alle considerazioni sul cibo e la scrittura, un piano di lavoro che terrebbe occupato chiunque per i prossimi dieci anni. Non importa quando troverà il tempo per dedicarsi a tutte queste cose, magari alcune le tralascerà per buttarsi su altri progetti: non ha fretta e non deve dimostrare nulla, sa che non è necessario e sarebbe superfluo.
Non smette invece, e credo non lo farà mai, di individuare sempre nuovi lavori – manuali o intellettuali, su un piano di pari dignità – che gli consentano di continuare il suo viaggio e di soddisfare la sua curiosità, mai appagata e rivolta in tutte le direzioni. Si tratti di libri (scovati in qualche mercatino) su esploratori che nessuno ricorda più, o di possibili migliorie da realizzare attorno al Capanno, oppure d’inseguire autori, ai più sconosciuti, che lo stimolino a pensare, a Paolo preme la continua ricerca di ciò che non conosce. E vuole anche renderne partecipi gli altri.
La complessità del percorso e i ragionamenti che lo scandiscono si traducono negli scritti in nitidezza di concetto, in chiarezza di parole e in un’inappuntabile logica. Chi legge viene accompagnato per mano a capire dove si vuol arrivare.
Non so se tra i suoi progetti ci sia pure quello di scrivere poesie (probabilmente no). Ma forse tutto ciò che ha scritto (e scriverà) è un unico testo poetico: ragionamenti, scelte e ripensamenti sono armonizzati in versi liberi di filosofia e di biologia, raccolti in odi che cantano la storia comune come pure la Storia con la maiuscola, racchiusi in sonetti che raccontano viaggi nell’immaginario.
E a proposito: durante il nostro ultimo incontro ha accennato ad un viaggio che intende fare ripercorrendo l’Appennino fino ad arrivare in Sicilia. Non è stato necessario accennare a “La leggenda dei monti naviganti” di Paolo Rumiz, perché era del tutto superfluo. Magari ne rifarà solamente un pezzo, e farà un viaggio sicuramente differente, alla maniera del Viandante, ma con lo stesso spirito che mosse Rumiz quando percorse la colonna vertebrale dell’Italia: scoprire paesi e climax in via d’estinzione.
Sono certo che pure a lui sia venuto in mente quel libro quando ha iniziato a progettare quel viaggio, ma non ho ritenuto necessario accennare esplicitamente al quel volume. La comprensione tra due persone che reciprocamente si stimano non ha bisogno di parole. Il non detto vale più di ciò che è esplicitato.
Coloro che hanno la sua fiducia sono vicini ai suoi valori e al suo modo di concepire un’esistenza dignitosa e moralmente accettabile. Sono a volte su linee temporali differenti – anche molto –, ma hanno un vissuto, un’impostazione di pensiero simile ai suoi. Paolo ha scelto queste persone per coltivare assieme a loro il sistema di valori da cui sono nati i Viandanti delle Nebbie.
Nel farlo non ha cercato proseliti, ma ha aiutato gli altri a ragionare con la propria testa. Non gli interessa convincere, ma confrontarsi, e ciò è possibile solo con un pensiero divergente rispetto al suo.
Credo che le visite a Paolo siano ormai quasi un rito. Se ne sente il bisogno dopo un po’ di privazione, per avere la personale dose di LSD di pensiero. Da ogni incontro sgorga una valanga di idee costruttive, e cambia la percezione dell’agire quotidiano. Si fa un pieno di stimoli che possono tradursi in altri scritti dei Viandanti, o semplicemente ti permettono una visione differente della realtà.
Le dosi di Paolo creano dipendenza? Sì, perché alimentano la voglia di un pensiero divergente. E questo è un bisogno che in molti sentiamo, una necessità quasi vitale per sfuggire all’omologazione.
Se ne potrebbe fare a meno? Certo, prima o poi avverrà. Ma rimarrà chi ha vissuto con lui questo tempo, e le cose che ha scritto alimenteranno ancora altre discussioni, magari in generazioni nuove, nei figli e nei nipoti dei Viandanti di oggi.
Sono sicuro che se Paolo potesse raccoglierli sotto il pergolato del Capanno riuscirebbe ad imporre anche a loro di essere seri, di ragionare con la propria testa, e magari a chiarire loro un po’ le idee, come di frequente succede oggi a noi.

Collezione di licheni bottone

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Quando guardo il Viandante …

di Fabrizio Rinaldi, 19 maggio 2017,

… sto ad osservare.

Quando i Viandanti iniziarono a camminare insieme, m’immedesimavo nella figura del nostro simbolo come colui che guarda il proprio futuro con paure e speranze, ma sicuramente con tanta voglia di attraversarlo quel bosco che, scendendo dalla roccia, m’attendeva nella nebbia, per poi risalire sulla vetta del Tobbio.

Nel bosco i rovi delle personali esperienze lavorative e sentimentali m’avrebbero scorticato la pelle, ma mi resero per lo più un viandante del pensiero e meno del cammino.

La fortuna, o forse un’intrinseca sicurezza nella modalità di incedere lungo il sentiero, mi ha concesso di incontrare anche alberi che hanno fornito il giusto legno per costruirmi il bastone che m’accompagna: un legno flessibile e chiaro. Ad un certo punto ho piantato nel terreno quel legno e sono nate le mie due betulle: a rispuntare tra la nebbia della vallata e risalire quel crinale del Tobbio che si vede all’orizzonte, mai avrei immaginato che non sarei stato solo, ma lo avrei fatto con moglie e figlie. Mai!

… sto ad ascoltare.

Quando ora ripenso al quel Viandante, mi scopro a soffermarmi su ciò a cui presta attenzione con l’orecchio, ancor più che su ciò che vede.

Per lavoro ascolto parole dette e sottese dei miei collaboratori cercando di dipanare problematiche educative, organizzative e di relazione.

Per contrasto e desiderio di una libertà di pensiero, ricerco orizzonti relazionali dove non debba intendere e intepretare frasi e azioni, ma sentire il rumore del bosco o – ancor più difficile da individuare – il suono del silenzio: quello raro che si ritrova tra amici veri e che ci accompagna durante le nostre ormai sporadiche camminate insieme. Quel silenzio che non è mai d’imbarazzo, ma di comunione di pensiero o che si deposita tra un racconto e l’altro, pensando alle riflessioni dette e cercandone un’altra da condividere.

Oppure cerco il silenzio come esperienza personale che aiuta a dipanare e convivere quotidianamente con il mancato raggiungimento degli orizzonti previsti, ad esempio quelli che ci eravamo dati all’inizio dell’avventura con Viandanti.

Mi godo questo attimo di solitudine e assenza di rumori e suoni, prima che l’inquadratura s’allarghi e accolga anche le sagome delle mie bambine che ansimando dalla stanchezza per raggiungermi, ridono di me per il vestito e il bastone da damerino.

Collezione di licheni bottone

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I figli del deserto

Prospettive e retrospettive
Dialoghi a distanza con Edoardo Ferrarese

di Paolo Repetto, 2 maggio 2017

Carissimo Dario,

mi sa che abbiamo aperto una rubrica molto privata. Potremmo intitolarla “Il contrappunto”, oppure “Universi paralleli”. L’idea mi diverte, e soprattutto mi offre qualche motivazione a scrivere in un periodo di assoluta siccità. Non che scrivere sia obbligatorio, altrimenti non sarebbe un piacere, ma non mi rimane molto altro, e non vorrei perdere anche questo vizio.

Temo però a questo punto che le mie recensioni al recensore viaggeranno un po’ tutte sulla stessa falsariga. Saranno viziate dalla non comparabilità dei gusti e delle esperienze. Tanto per riagganciarci al tema della volta scorsa, la velocità delle trasformazioni avvenute nell’ultimo mezzo secolo mi ha sbalzato fuori dal treno, e ora sto seduto al bordo della massicciata a vederlo passare, poco curioso persino della direzione (il che non significa che non mi piaccia veder passare i treni).

Cerco di spiegarmi. I testi di Edoardo li leggo sulla web page di “L’uomo con la valigia”, e prevedendo ormai che mi chiederai un parere li leggo su due livelli. Al primo livello cerco di immaginare la platea dei lettori, e di immedesimarmi in loro, per quanto possibile, perché ho idea che siano tutti più giovani di me. Sono convinto che in quelle righe si riconoscano, e in questo senso anche il nuovo pezzo di Edoardo è perfetto. Non solo il ragazzo ha stoffa, ma sa scrivere in totale e sorprendente sintonia con l’oggetto della sua scrittura. In fondo Salvatores è un regista della generazione precedente, racconta un mondo e delle persone diversi dal suo e dai suoi coetanei. E invece Edoardo ti fa cogliere il sapore di Marrakesh Express senza dirti quasi nulla degli ingredienti, cosa tutt’altro che facile. C’è persino un po’ di effetto “virato seppia”, una sorta di salsa di soia che conferisce “esotismo”, sia ambientale che temporale. Quindi, tanto di cappello.

Poi passo al secondo livello (in realtà il procedimento è inverso, ma fa lo stesso). Leggo per me. Trovo che il pezzo è un ottimo saggio di bella scrittura. Ma tutto finisce lì. Il fatto è che non mi stupisce. Ora, io non penso come Giovanbattista Marino che sia “del poeta il fin la meraviglia”, o almeno, non lo penso nel senso che intendeva lui. Penso però che “il fin” debba essere quello di inocularti un piccolo tarlo. Il pezzo di Edoardo in effetti mi ha fatto riflettere, ma nella stessa direzione di quello della volta scorsa. Mi ha fatto riflettere sulla distanza che passa tra un settantenne e un ventenne (potrebbe essere probabilmente la stessa anche con un cinquantenne) rispetto a un tema come quello dell’amicizia. Mi riferisco ad una percezione indotta non dall’età, perché credo che l’amicizia non abbia età, ma dal senso che alla parola dà una diversa epoca. Dubito tuttavia che chi ha meno anni di me abbia la stessa reazione. Immagino che l’idea che solo il viaggio e la fuga possano cementare un’amicizia sia moneta corrente nella società liquida. E in questo senso sarebbe davvero assurdo pretendere da Edoardo qualcosa di diverso.

Qui è necessario un inciso. Non amo molto i film di Salvatores. Mi sembrano solo la versione intelligente di quelli di Boldi e De Sica (la versione intermedia è quella di Muccino senior). Non mi piacciono i personaggi che racconta e i rapporti che ipotizza tra questi personaggi. Soprattutto quando questi rapporti prendono il nome di amicizia. Intendiamoci, non che i personaggi e le dinamiche che intercorrono tra di loro non siano realistici, anzi, è forse proprio per questo che non mi piacciono. Salvatores racconta a mio giudizio realisticamente un mondo di fasulli (gli stessi che nella versione splatter o in quella patetica sono narrati dai Vanzina o da Muccino). Gente che ha bisogno di andare in Marocco, di creare situazioni artificiali ed effimere, di condividere esperienze estreme per tenere in vita un’amicizia che a quanto pare non è affatto tale, altrimenti non avrebbe problemi a sopravvivere anche nel Basso Monferrato. Che crede di riempire un contenitore vuoto con scherzi idioti, ripicche, partite di pallone improvvisate in ogni dove. Li rappresenta come un branco di idioti, ma mira a raccogliere attorno a loro complicità e simpatia. Se fai mente locale, da almeno tre decenni il cinema italiano gioca su questi registri.

Non amo dunque i film di Salvatores non perché siano anche loro fasulli, ma perché sono lo specchio veritiero di una generazione lasciata allo sbando in un deserto di valori (ecco semmai una simbologia efficace, credo del tutto involontaria, da cogliere nel film) da quella precedente, la mia (e qui però mi chiamo fuori: durante un dibattito, ad uno che se ne era uscito con “chi non si è mai fatto raccomandare scagli la prima pietra” ho tirato una bottiglietta, vuota, di plastica – pietre sul tavolo non ce n’erano. Non mi ha nemmeno denunciato).

Edoardo appartiene alla generazione ancora successiva, che dell’amicizia conosce la versione circolante su Facebook. È più che giusto che guardi ai quattro aspiranti beduini e alle loro disavventure come ad un mondo fascinoso e perduto. Soprattutto dopo che per mezzo secolo uno stuolo di maîtres à penser, intellettuali, cineasti, santoni, filosofi, hanno sparato a zero sui valori e sulle idealità e hanno inneggiato al pensiero debole. Ecco, se qualcuno personifica gli esiti della debolezza del pensiero “quando la vita adulta ha ormai portato via ogni sprazzo di ingenuità” a giustificarla, quelli sono proprio gli eroi di Salvatores. A dispetto di ogni catarsi finale. Se avrò occasione farò conoscere un giorno ad Edoardo un amico col quale durante questo ultimo mezzo secolo ho condiviso la montagna, ma anche e soprattutto la quotidianità del lavoro (in Ovada, uscita autostrada A26), che rivedo si e no un paio di volte l’anno, magari per una modesta salita al Tobbio, ed è come lo vedessi tutti i giorni, che stimo incondizionatamente, anche se non sempre le nostre opinioni convergono. Non ricordo che siamo mai stati assieme fuori d’Italia, se non forse per qualche gita scolastica. Abbiamo soccorso solo studenti affaticati o qualche escursionista in panne. Ma ad entrambi il mondo sembra più bello, e sarebbe comunque accettabile, anche solo perché lo abita l’altro.

Ciao Dario. Scusa la prolissità, ma te la sei cercata. A presto.

 

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Di spalle e con lo zaino

di Paolo Repetto, 2015 e e l’Album “A spasso con Pietro“ 

Ogni volta che salgo il Tobbio trovo un pezzo di Pietro Jannon. Non ossa o brandelli di equipaggiamento, ché purtroppo non è morto dove gli sarebbe piaciuto, ma spezzoni di memoria, fotogrammi di sentieri percorsi assieme. È capitato anche ieri, quando a metà percorso mia figlia, senza nemmeno allungare troppo, mi ha lasciato ad ammirarne le spalle e il passo deciso e a meditare mesto sul trascorrere del tempo. Ero chiaramente orgoglioso di lei, ma non nascondo che ero anche un po’ avvilito, sia pure considerando il mezzo secolo che ci separa.

È proprio lì che all’improvviso, per una qualche recondita associazione d’idee, certamente non giustificata dal cielo terso e dal sole tiepido, mi sono rivisto salire nella nebbia di un umidissimo novembre di trent’anni fa.

Negli anni eroici del CAI ovadese per un intero autunno ci ritrovammo ogni sabato, nel primo pomeriggio, al valico degli Eremiti, per trasferire in vetta sabbia, calce, cemento, taniche d’acqua, latte di impermeabilizzante per il tetto del rifugio. Ciascuno si caricava in base alle sue forze e alla sua buona volontà: qualcuno aveva anche in più una motivazione “sportiva”. Come sempre, tra me e Pietro si era ingaggiata una tacita gara: caricavamo lo zaino con una latta ed un sacchetto di sabbia, per un peso dai trenta ai trentacinque chili. Pietro però aveva scovato per l’occasione delle staffe di ferro, che non si capiva bene a cosa potessero servire e che in effetti poi non servirono a nulla, ma facevano comunque zavorra e fugavano ogni dubbio su chi portasse il carico maggiore. Si partiva in una lunga colonna, che dopo dieci minuti era già sgranata, e si saliva per il versante orientale, la via “classica”. Tutti, ma non Pietro. Non ho mai capito che percorso seguisse. Riusciva sempre a rimanere in coda e dopo i primi trecento metri era scomparso. Non credo intendesse accorciare, perché con trenta chili sulle spalle la direttissima è altamente sconsigliata, e comunque in genere arrivava contemporaneamente a noi. Solo, faceva un’altra strada.

Ecco, quando prima ho parlato di sentieri percorsi assieme mi sono allargato un po’ troppo. Potevi percorrere lo stesso sentiero, raggiungere lo stesso rifugio, ma non eri mai completamente “assieme” a Jannon. Diciamo che manteneva le distanze, e non solo in senso metaforico. Senza alcuno snobismo, per carità: ma aveva bisogno di uno spazio suo. Possibilmente tanto.

Come camminatore, Pietro mi pativa. Non fisicamente, perché era due volte più forte di me, ma perché io avevo capito certe sue manie, certi suoi punti scoperti, e mi divertivo a spiazzarlo, a scombinargli i programmi, a stargli sul collo, ciò che lo costringeva a dimostrare qualcosa anche quando non aveva granché voglia e non era il caso: e dal momento che il gioco lo conducevo io, a volte si imponeva degli sforzi inutili. Credo che per certi versi fosse persino un po’ in soggezione.

Fino a quel giorno, quando, deposto il carico e cambiata la maglietta fradicia, ho buttato lì: Quasi quasi, torno giù di corsa e faccio un altro viaggio. Gli altri mi hanno mandato giustamente a stendere, ma Pietro no. Si è rimesso la camicia a quadri e senza battere ciglio mi ha fregato: Dai, che se ci muoviamo siamo nuovamente qui prima di notte.

In effetti è andata così. Per stargli dietro quella volta ho dovuto mordere le rocce, perché davvero a metà salita non ne avevo più. Una volta in cima, dove per fortuna ci attendeva la stufa ancora accesa, ci siamo seduti uno di fronte all’altro, aspettando che arrivassero anche le nostre anime. Poi lui ha alzato gli occhi, mi ha guardato serio ed ha sbottato: Dì, ma noi due, saremo furbi?

Credo di aver riso per cinque minuti di seguito senza potermi trattenere, tanto ero stanco: e anche lui era scoppiato in una risata liberatoria. L’ho visto ridere così poche altre volte, e devo dire che rideva bene (io bado molto a queste cose: c’è gente che non sa nemmeno ridere).

E adesso capisco anche l’associazione d’idee. Io in fondo Pietro lo ricordo così: di spalle e con lo zaino. Mi pare giusto, perché tutti lo abbiamo sempre visto così, e non solo mentre salivamo Tobbio, ma anche quando lo incrociavamo al Posta, in libreria o al mercatino. C’era immancabilmente un impegno che lo chiamava da un’altra parte, una cornice, un libro, un pezzo di lamiera raccattato per strada che urgeva di essere portato altrove.

Mi manca, Pietro. Ci sono persone che toccano la tua vita apparentemente solo di striscio, camminano ai suoi margini: però ti ci abitui, sono un riferimento, sai che se ti giri le trovi là. Anche se nel suo caso magari sarebbe meglio dire “sono appena passate di là”. Era quello che ti suggerivano le tracce improvvise nella neve fresca, lungo il sentiero degli Eremiti, quando pensavi di essere il primo: o gli amici che lo avevano incontrato un attimo fa in via San Paolo, o la sera precedente al CAI. Poco alla volta questa inafferrabilità era entrata nella sua leggenda, insieme alle sue manie e ad un fisico e un carattere egualmente rocciosi. Per un certo periodo, quando lo conoscevo meno, ho anche pensato che la coltivasse volutamente. Invece era timidezza genuina, o se si vuole amore della solitudine.

Ci si vedeva raramente: per le mostre, per qualche ascensione, per un trekking. Non mi andava di disturbare la sua riservatezza, probabilmente perché il mio riferimento era proprio quello. Non ero mai io a cercarlo. Però sapevo che c’era, con tutte le sue stranezze, eppure solido, affidabile. Forse un po’ lo invidiavo, in positivo. Mi piaceva l’idea che qualcuno sapesse vivere come viveva lui, pur rimanendo consapevole che quello non era il mio stile. Pietro era una delle proiezioni nelle quali ambientavo le mie vite parallele. Probabilmente l’ho anche un po’ coltivato, come personaggio, e sono sicuro che non gli spiacesse quando epicizzavo le sue avventure. Anzi, qui era lui a condurre il gioco, e al ritorno dai suoi viaggi, quando mi telefonava o ci incontravamo in sede, mi buttava lì dei trailers risicatissimi del futuro racconto, che rimandava immancabilmente alla serata delle diapositive. Naturalmente le serate poi non c’erano, perché doveva scegliere tra diecimila scatti per ogni viaggio, e io sono rimasto con frammenti di tête à tête con orsi grizzly, di discese dello Yukon in canoa e di ponti sospesi nelle Ande mai legati in una narrazione coerente.

Ciò che però ci ha avvicinato maggiormente, all’inizio, era il suo lavoro artistico. Per quella che è la mia concezione dell’arte Pietro era un artista vero.

Era geloso delle sue opere. Le mostrava con riluttanza, e se ne staccava ancor più a malincuore. Salvo poi regalarti qualcosa per cui avevi manifestato un interesse particolare, quando sapeva che quell’opera sarebbe andata a vivere bene. Sarà una concezione minimalista, ma è una concezione genuina, così come minimalista e genuino era anche l’approccio materico e segnico di Pietro. Pochi segni, ridotti all’osso, e quindi tanto più significativi ed evidenti. Ho alcune creazioni sue che non scambierei con un Van Gogh, e noto che tutti coloro che le vedono per la prima volta ne rimangono incantati. Non ci sono messaggi nelle sue opere: ci sono delle semplici constatazioni, ma tanto immediate ed evidenti che ti chiedi come hai fatto a non renderti conto prima. Sul piano dell’arte, anziché patirmi, mi cercava invariabilmente. Era sorpreso da quello che vedevo in quadri che teneva ben riposti nel suo studio, nascosti dietro cumuli di tele e compensati e cornici, e che riuscivo ad ammirare solo perché mi infischiavo tranquillamente dei suoi “meglio di no, è roba vecchia”. Li riprendeva, li rigirava e rimirava, poi diceva: “però, magari ritoccando, aggiungendo …”: ma era ben felice quando gli intimavo di non azzardarsi a rimetterci mano. Dopo aver letto la prima presentazione che avevo scritto per una sua mostra mi telefonò la sera e disse semplicemente: “Io … grazie!” Non mi lasciò nemmeno il tempo di rispondergli: prego.

Avrei voluto fosse con noi, ieri. Avrebbe sorriso divertito, a vedermi in affanno dietro Elisa. E poi lo avrebbe raccontato, solo a quelli giusti: “Vedessi la figlia di Paolo. Ci ha mollati a metà salita”. E sarebbe stato orgoglioso, come se la figlia fosse sua.

 

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Wanderers forever

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2014

C’era una volta, tanti e tanti … beh, insomma, una ventina d’anni fa, un gruppo di amici, di quelli messi assieme dalle circostanze della vita e dalle passioni in comune anziché dall’anagrafe, che si ritrovavano sempre più spesso a frugare tra gli scaffali di una caotica libreria ovadese, a camminare lungo i sentieri del Parco di Marcarolo o a cenare in un capanno sperduto nella campagna. Era un’allegra brigata, a metà strada tra il cenacolo intellettuale e la compagnia del calcetto: ma forse, più che a metà, stavano proprio su un’altra strada. A fare da collante non erano infatti bandiere ideologiche o disegni di gloria o snobismi culturali, ma solo un laico piacere di ritrovarsi, di comunicare a qualcuno le proprie sensazioni e scoperte e di partecipare di quelle degli altri. Si parlava a ruota libera di musica e di libri, di politica e di viaggi, di fumetti e di sentieri, si demolivano senza riverenze miti e personaggi della storia o della quotidianità, si raccontavano sempre sul filo del paradosso aneddoti o esperienze di vita e di lavoro. Insomma, si verificava come fosse possibile “qui e ora”, senza attendere redenzioni o rivoluzioni, vivere rapporti umani piacevoli e disinteressati.

Ad un certo punto questi amici decisero di “formalizzare” il sodalizio, dandogli un nome, una sede, un logo, un sito internet e persino uno statuto di fondazione (con tanto di registrazione notarile). Di formale il sodalizio aveva in realtà ben poco: per esservi ammessi non era necessario superare prove iniziatiche, ed erano richiesti pochi e semplici (ma non per questo meno rari) requisiti: una buona dose di ironia e una ancor più cospicua di autoironia, uno stomaco capace di reggere il menù “povero” delle cene ma non Berlusconi e D’Alema, un approccio politicamente scorretto ai problemi ma educato alle persone, gambe allenate a salire il Tobbio e mente aperta a viaggiare tra Ken Parker e Humboldt; infine, era gradita l’appartenenza al genere maschile (nei confronti dell’altro sesso era contemplato un ristretto margine di tolleranza, ma raramente capitava di ricorrervi). Nello statuto non erano previsti ruoli, cariche, prebende, assemblee, codici disciplinari, quote di adesione. C’era solo un impegno reciprocamente assunto alla solidarietà e al rispetto: da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni, la società anarchica perfetta.

A imporre il passaggio dall’informale al “certificato” fu il desiderio di realizzare alcune iniziative, un paio di mostre, una rivista, nate soprattutto per creare pretesti al lavoro in comune e ulteriori occasioni per i ritrovi conviviali. Visti i presupposti, dal punto di vista operativo le cose non cambiarono granché: e in più, come sempre accade, quando il gruppo arrivò ad ufficializzare la sua esistenza il momento maggiormente intenso e genuino di quell’esperienza era già alle spalle.

Non fu quindi la “formalizzazione” a decretare la fine della prima fase del movimento dei Viandanti: semplicemente la vita, quella fuori, li portò uno alla volta ad intraprendere altri percorsi, a costituire altri personalissimi sodalizi. Come è giusto sia, senza rimpianti e con la consapevolezza di avere vissuta un’esperienza singolare e irripetibile.

Ma … se pure quella specifica esperienza è finita, il suo senso e il suo spirito non sono affatto esauriti. Gli elementi di base ci sono ancora tutti. C’è ancora la libreria, il Tobbio e il parco sono sempre là e non si muovono, il capanno è rimasto in piedi, è persino ancora visitabile (e visitato) il vecchio sito web: soprattutto, perdura vitalissima l’amicizia che lega i Viandanti, quelli del nucleo originario e quelli aggregatisi nel frattempo, e continua lo scambio e si è rafforzata la complicità, anche perché la coscienza di aver condiviso qualcosa di speciale, se non di eccezionale, è confermata costantemente dal deludente confronto con le altre esperienze, politiche, culturali, sociali, che è dato fare. Insomma, lo spirito che aveva animato vent’anni fa la conventicola dei cacciatori di sentieri, reali o letterari, aleggia tuttora.

Per questo, senza mettere in cantiere nessuna operazione nostalgia, al solo scopo di facilitare e allargare ulteriormente la condivisione dei materiali vecchi e nuovi prodotti dai Viandanti, si è voluto aggiornare il sito. Il cambiamento interessa, oltre che la grafica, le modalità della fruizione e naturalmente i contenuti, mentre gli intenti e anche gli inquilini sono rimasti praticamente gli stessi. Qualche porta e qualche finestra in più consentono di entrare e uscire più comodamente e di guardare il mondo da prospettive più varie, quindi di individuare nuovi sentieri: che almeno virtualmente potremmo ancora percorrere assieme.

 

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Il segreto di Luca

di Paolo Repetto, maggio 2009, articolo per “Il novese

Lo confesso: non avrei puntato un euro sulle possibilità di Luca di salire al Tobbio. Li avrei dati per persi in partenza, sia Luca che l’euro. Ero anche perplesso sulla sua partecipazione: temevo che si sarebbe inchiodato sulla prima rampa e che di lì non lo avremmo più smosso. E invece …

Invece Luca è salito. Del suo passo, facendosi un po’ trainare, mugugnando e chiedendo ogni cinquanta metri: ”ma quando si arriva?” e scrollando la testa ogni volta che gli si ripeteva: “tra un paio di tornanti”; ma è salito. E una volta in cima era felice come una Pasqua, ha spazzolato un chilo di panini e due litri di aranciata e ha festeggiato con i compagni e con gli insegnanti.

Grande Luca. Grande non certo per la salita del Tobbio in sé, ma perché Luca è un ragazzo diversamente abile, magari studente più assiduo e diligente di molti suoi compagni, magari amicone e pronto a darti il cinque, ma pur sempre un ragazzo “speciale”. E salire il Tobbio è stato per lui come per altri scalare il Monte Bianco: una faticaccia immane, uno sforzo quasi al limite.

Sulla via del ritorno era sfinito, immagino che le gambe gli tremassero per la stanchezza. Quando gli abbiamo chiesto: “allora, vieni anche al prossimo rifugio?” si è fermato, ci ha guardato fissi coi suoi occhietti e ha risposto: ”devo pensarci”. Fantastico. Gli è bastato comunque approdare al punto di raccolta, ritrovare i suoi compagni, per dimenticare ogni pena. È tornato a fare cosca con gli altri, e quando è sceso dal pullman ha salutato: “ci vediamo domattina”.

In verità non c’è nessun segreto di Luca. È tutto molto chiaro e semplice. Luca ha voglia di vivere, di stare in gruppo, di sentirsi amato e considerato e di voler bene agli altri. Le stesse voglie che hanno i suoi compagni Martina e Fabio e tutti gli altri che non senza ipocrisia definiamo “speciali”, e che speciali sono davvero, ma in un senso molto diverso da quello che in questo caso attribuiamo all’aggettivo. Sono speciali perché si accontentano e gioiscono delle cose più semplici e più vere e mantengono, molto più di noi “normodotati”, il rapporto con i valori elementari e genuini dell’esistenza.

Grazie, Luca. per avercelo ricordato.

 

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Dal Tobbio: vista sui classici moderni

di Fabrizio Rinaldi, da Sottotiro review n. 8, gennaio 1998

Ancora una volta Paolo, Schepis ed io ci incamminiamo su per il sentiero del Tobbio. Ormai è un gesto rituale, e salendo provo quel senso di sicurezza che solo un padre severo, ma giusto, sa comunicare. Attorno a noi un cielo terso, l’aria tagliente e le Alpi all’orizzonte.

Quasi automaticamente – forse è un modo per sottrarci alla suggestione del paesaggio – cominciamo a parlare di libri. Il discorso cade sui grandi del passato: sui classici. Mi domando ad alta voce se già è possibile capire chi siano gli odierni Hemingway, Melville, Calvino.

Come al solito Paolo scova una definizione terra terra, ma azzeccata: un classico è quel libro che magari narra la storia della zia dell’autore, ma lo fa’ in modo tale che avrebbe potuto essere compresa e fatta propria dall’uomo primitivo, e potrà esserlo da chi vivrà tra mille anni.

Questo assioma non consentirà di individuare a colpo sicuro coloro che rimarranno nel tempo, ma è comunque un buon parametro per valutare gli infiniti titoli (ogni giorno nuovi) che affollano gli scaffali delle librerie; titoli che inducono una gran confusione e soprattutto, anche nel lettore più attento, di una colpevole ignoranza, perché magari non si sono letti i libri di De Crescenzo, o di altri autori della stessa risma.

D’altro canto, afferma Schepis, e a ragione, il periodo che stiamo prendendo in considerazione – gli ultimi trent’anni – è troppo breve e troppo recente. Intanto non è detto che ogni quarto di secolo debba produrre dei classici, e poi solo il tempo potrà dire quali autori finiranno nel dimenticatoio e quali nei “Meridiani” della Mondadori, consacrati come “classici” e inseriti nelle antologie scolastiche.

Questo fatto delle antologie mi porta a chiedermi, considerando che non è possibile aumentarne ulteriormente le pagine (pena la scoliosi nei ragazzi) quali autori e testi saranno sacrificati per lasciare il posto – che so’ – a Busi o a Bevilacqua. Magari le vittime saranno il Foscolo, il Petrarca o il Boccaccio.

Scaccio questi orrendi pensieri fermandomi a guardare l’orizzonte. Il Rosa, il Bianco e il Monviso sembrano a pochi chilometri. In basso, la civiltà: una cappa di smog sopra Torino. A sinistra del Bianco si intravedono nuvole oscure che porteranno la neve.

L’aria che gela il sudore mi induce a riprendere il sentiero. Con le gambe ricominciano a camminare anche i pensieri.

Oggigiorno anche uno come Vespa può permettersi di scrivere un libro all’anno, ma non credo (o almeno lo spero) che tra cinquant’anni qualcuno si ricorderà ancora di lui.

Un tempo lo scrivere era una scelta di vita, era un modo, non sempre facile e conveniente, per comunicare agli altri le proprie idee. Lo scrivere era sacrificio e riscatto sia economico, che ideologico, fisico e mentale. Economico, perché non esistevano, o non venivano rispettati, i diritti d’autore, e comunque nessuno vendeva milioni di copie. Ideologico, perché un libro inviso al potere poteva, ad esempio, finire bruciato, talvolta con l’autore stesso. Fisico e mentale, perché un conto è scrivere il testo con una penna d’oca, correggere, ricorreggere, riscrivere e magari correggere ancora; un conto è scrivere al computer, tagliare, incollare, ma mai riprendere di sana pianta il testo e riscriverlo completamente, quindi ripensarlo in toto. Quindi il computer facilita la scrittura, ma non è il mezzo adatto a produrre “classici”.

Forse un giorno, quando l’uomo sarà saturo di computer, internet, realtà virtuali e tutte quelle diavolerie, riprenderà in mano la penna, ricomincerà a sognare col proprio cervello, e scriverà di sua zia parole destinate a rimanere.

Intanto siamo giunti alla vetta, nel punto di congiunzione tra due realtà apparentemente inconciliabili: i monti delle Alpi a nord e il Mar Ligure a sud. Già, il mare. Quel mare che spesso abita le nostre fantasie quando siamo quassù e guardiamo verso la Madonna della Guardia, ma la nebbia ci impedisce di vedere oltre; o quando siamo laggiù, nella vita quotidiana, e ci rifugiamo idealmente sul Tobbio per ritrovare un breve istante di tranquillità e di sicurezza, nel calmo mare della fantasia che solo un “classico” come Baudelaire può evocare con cognizione di causa:

Uomo libero, sempre avrai caro il mare!

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Sogni e sentieri

di Paolo Repetto, dagli atti di un convegno svoltosi a Tagliolo Monf.to nel 1997

Sono stato invitato ad intervenire a questo convegno come rappresentante di un’associazione che si è costituita recentemente, i “Viandanti delle Nebbie”. Le caratteristiche di questo sodalizio sono piuttosto anomale, e le sue finalità potranno apparire troppo ambiziose e troppo vaghe da questa breve presentazione. Ne sono cosciente, perché risultano difficili anche a me da definire: e me ne accorgo soprattutto in questo momento.

Comunque ci provo, partendo magari da un minimo di identikit degli associati. Al momento non sono più di una decina, quasi tutti giovani d’età, qualcuno, come me, giovane (o immaturo) solo nello spirito. Siamo tutti legati a quest’area, intendo l’area del Parco e dintorni, da un vincolo affettivo, nel senso che siamo nati qui e qui viviamo, e da uno cultural-emotivo, nel senso che da sempre abbiamo provato il desiderio di conoscerla meglio, sia sotto il profilo naturalistico che sotto quello storico, e l’abbiamo quindi percorsa in lungo e in largo, a caccia di torrenti, di sentieri, di cascine, di incontri, di emozioni appunto e di conoscenze. I percorsi comuni, e non solo quelli escursionistici, hanno indotto tra noi una consuetudine che si è ben presto tradotta in amicizia: e l’amicizia si è ulteriormente cementata quando quelli che erano sogni e fantasie individuali hanno trovato un comune denominatore in un “progetto”. Ecco, noi non siamo presenti a questo convegno per portare un contributo di conoscenza scientifica o naturalistica, o di informazione legislativa: siamo qui semplicemente per testimoniare di una (per noi) straordinaria esperienza maturata in comune col tramite dei boschi e dei sentieri del parco, e del progetto di allargarla che ne è scaturito.

Cercherò di essere sintetico: spero di risultare anche chiaro. La frequentazione assidua dell’area del parco ci ha fatto scoprire ed apprezzare un considerevole potenziale di sfruttamento (mi scuso per il termine, ma lo impiego in senso positivo) in funzione escursionistica. Esistono già, o al limite possono essere identificati, percorsi di varie lunghezze, per uno o più giorni, più o meno impegnativi, adatti anche ad escursionisti esigenti (anche in questo campo ci sono i raffinati), e che nulla hanno da invidiare per la bellezza del paesaggio o per interessi naturalistici a quelli celebratissimi del Parco d’Abruzzi o della Selva Nera (per citare quelli di cui si è fatta personale esperienza, e che presentano analogie altimetriche). Questi percorsi debbono soltanto essere strutturati e promossi. Strutturare significa letteralmente predisporre strutture minime di accoglienza, oltre naturalmente a tracciare una segnaletica adeguata: quindi rifugi, punti sosta, capanni per bivacco, aree periferiche per il campeggio o il posteggio delle auto. Il tutto, per intenderci, senza colate ma nemmeno piccole eruzioni di cemento, sfruttando l’esistente, che è molto e giace nell’abbandono, e riducendo al minimo gli interventi (ciò che consente di risparmiare la natura, ma anche i soldi pubblici). Promuovere significa produrre un’informazione adeguata, e per come la vediamo noi “adeguata” ha una valenza ben precisa, perché proprio in questo sta la specificità del progetto.

Ogni parco che si rispetti pone infatti tra le sue finalità quelle di dotarsi di strutture e di pubblicizzarsi. Sin qui niente di nuovo. Il problema nasce quando si deve decidere verso quale tipo di fruizione orientarsi. Senza giri di parole, è un problema economico, che normalmente viene semplificato nei termini “più gente, più soldi, maggiori incentivazioni per i residenti, ecc…”. La logica è in fondo quella della natura come bene di consumo, da mettere democraticamente a disposizione di tutti, sperando in una ricaduta non solo di rifiuti o di scempi o di incendi, ma anche di occupazione. Il che è senz’altro giusto, in parte. Ma noi crediamo si possa porre la questione anche in altro modo, promuovendo e privilegiando ad esempio un afflusso escursionistico invece che turistico (per carità, ci vogliono anche i turisti, i gitanti domenicali con la radiolina per sentire la partita o le bistecche per la braciolata, ma possono essere contenuti, concentrati ai margini dei percorsi asfaltati o in apposite aree attrezzate, magari anche col megaschermo e il baretto). Una frequentazione escursionistica presenta in genere queste caratteristiche: non è distruttiva, seleziona a priori persone che la natura l’amano e la rispettano sul serio, esercita un richiamo molto allargato, che va ben oltre le aree metropolitane limitrofe (non ci spostiamo noi verso la Germania, la Francia, la Scozia, ecc., sulle tracce di sentieri che sono ormai diventati dei classici, e che raccolgono camminatori di tutta l’Europa?) ed ha quindi anche, una volta avviata, un riscontro economico ed occupazionale non indifferente, a fronte di costi di riassetto e di manutenzione minimi. Non sto viaggiando con la fantasia: è sufficiente percorrere qualsiasi sentiero tedesco (lasciamo perdere quelli italiani, non ne vale la pena) per rendersi conto che esiste tutta una micro-economia, ormai ben consolidata, alla quale i residenti nelle zone tutelate si sono di buon grado convertiti, e della quale sono, anche in termini di qualità della vita, ben soddisfatti. Ma c’è un altro aspetto, legato a questo tipo di fruizione, del quale ci preme sottolineare l’importanza. Uno dei mali della nostra società dei quali ci si lamenta più sovente è l’assenza di possibilità, nel senso anche di situazioni materiali, di incontro. Paradossalmente la nostra società di massa impone l’aggregazione, negli stadi, nelle discoteche, nelle code agli uffici pubblici, ma nega gli incontri. Incontrarsi in situazioni sbagliate (quelle appunto prima citate, ed altre peggiori) significa non poter assolutamente comunicare, conoscere, confrontarsi (se non fisicamente, come infatti accade sempre più spesso). Ora, l’incontro nello scenario naturale, nel silenzio di una sosta o nell’intimità di un rifugio, è una delle poche occasioni che ci siano date per rompere il guscio teleindividualistico e schiuderci a rapporti d’amicizia veri e significativi. Se poi ciò accade nei confronti di persone portatrici di altre culture, di altre mentalità, ma comunque a noi accomunate dalla volontà di guadagnarsi, di sudarsi un po’ i piaceri che la natura offre, beh, allora veramente nulla di più si può desiderare.

Il nostro progetto risponde a queste premesse. Intendiamo infatti identificare una rete di sentieri che rendano appetibile la zona del parco per tutti gli escursionisti, italiani e non, creando in tal modo attorno ad essa anche una sorta di rete protettiva, contro quelle volontà di intervento speculativo che non sono mai dome, e spesso si alimentano di ciò stesso che fino ad un attimo prima avevano combattuto e osteggiato. Intendiamo, per quanto ci sarà possibile e consentito, attrezzare questa rete con punti di sosta, che non debbono essere la riproposta alberghiera mimetizzata da agriturismo, ma veri e propri rifugi, ove si possa pernottare, bivaccare, volendo anche dimorare per qualche tempo, se si è alla ricerca di solitudine o si deve smaltire una delusione, a costi estremamente contenuti, escursionistici insomma. E intendiamo fare di questi luoghi dei punti di ritrovo, di appuntamento per chi ama la natura e si ricorda che della natura fanno parte anche gli umani e va in cerca quindi non solo di bei panorami, ma di solide amicizie o almeno di frequentazioni non deprimenti.

Per adesso è un sogno, anche se le coordinate del progetto le abbiamo già tracciate. Può essere che rimanga tale, per nostra incapacità o per cause di forza maggiore. Ma l’idea di fondo, l’ipotesi di lettura del futuro del parco dalla quale siamo partiti dovrebbe rimanere valida, ed essere accolta anche da chi avrà responsabilità amministrative: perché in caso contrario sarà difficile che i nostri figli possano ripercorrere con altrettanto piacere gli stessi sentieri che oggi noi frequentiamo.

 

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Svizzera

di Paolo Repetto, 1997

Siamo seduti sotto il pergolato. Franco è reduce da un giro per la Svizzera, e ne porta evidenti i segni. Esordisce partendo dall’unica cosa che la Svizzera non ha: il mare. Per Franco quello stesso mare che è stato lievito della civiltà occidentale (il Mediterraneo) sembra ora risucchiarla. Un mare morto che esala miasmi di putrescenza, impesta le terre che lo circondano, contamina gli uomini e il loro pensiero. Mi viene in mente l’immagine di un buco nero, che divora la materia circostante. In effetti, vien da pensare ad una implosione, che succede all’esplosione di cinquemila anni fa. Ma cosa accade, in definitiva, attorno a questo mare? Per Franco il problema sta nell’abuso della parola. La parola ha costituito il seme della civiltà, il suo abuso ne determina l’inaridimento e il crollo. I popoli che vivono attorno al mare hanno finito per giocare con le parole, staccandole dal loro significato concreto, attivo, funzionale, per farne strumento di retorica e di autocompiacimento. La parola-lavoro ha lasciato il posto alla parola-divertimento, e questa al bla-bla. Dopo aver svolto un ruolo distruttivo, ma razionalizzante, il discorso non si è assunto la responsabilità della ricostruzione. Si è innamorato di se stesso, ha cominciato a girare a vuoto, libero da ogni peso, volano della frivolezza e, a seguire, della stupidità. Fiumi di parole, deserti di senso: hanno vinto i sofisti, Socrate è stato sconfitto.

Tutto questo, secondo Franco, è constatabile non appena si valichino le Alpi. Al di là hai la sensazione che le parole rispecchino ancora una realtà attiva. Un uso parco del linguaggio ha il suo riscontro nella capacità di realizzare; certo, non è tutto oro, e vai a sapere quali ingiustizie e drammi e soperchierie stanno dietro i giardini di Berna e di Basilea. Ma almeno, i giardini ci sono (aperti al pubblico, gratuiti, ordinati, funzionali, ecc…). Lontani dal mare, protetti dalle sue esalazioni dal baluardo delle Alpi, in questo caso “ben vietate”, gli svizzeri coltivano testardamente il senso del bello, del pulito, e questa non è un’ossessione, ma una dimensione naturalmente, felicemente vissuta. È inutile, è stupido invocare tutti i “contro” che possono essere elencati, che indubbiamente ci sono: sta di fatto che si avverte un’atmosfera ben diversa da quella che quotidianamente viviamo, e che ci soffoca e ci stomaca.

 

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