di Fabrizio Rinaldi, da Sottotiro review n. 8, gennaio 1998
Ancora una volta Paolo, Schepis ed io ci incamminiamo su per il sentiero del Tobbio. Ormai è un gesto rituale, e salendo provo quel senso di sicurezza che solo un padre severo, ma giusto, sa comunicare. Attorno a noi un cielo terso, l’aria tagliente e le Alpi all’orizzonte.
Quasi automaticamente – forse è un modo per sottrarci alla suggestione del paesaggio – cominciamo a parlare di libri. Il discorso cade sui grandi del passato: sui classici. Mi domando ad alta voce se già è possibile capire chi siano gli odierni Hemingway, Melville, Calvino.
Come al solito Paolo scova una definizione terra terra, ma azzeccata: un classico è quel libro che magari narra la storia della zia dell’autore, ma lo fa’ in modo tale che avrebbe potuto essere compresa e fatta propria dall’uomo primitivo, e potrà esserlo da chi vivrà tra mille anni.
Questo assioma non consentirà di individuare a colpo sicuro coloro che rimarranno nel tempo, ma è comunque un buon parametro per valutare gli infiniti titoli (ogni giorno nuovi) che affollano gli scaffali delle librerie; titoli che inducono una gran confusione e soprattutto, anche nel lettore più attento, di una colpevole ignoranza, perché magari non si sono letti i libri di De Crescenzo, o di altri autori della stessa risma.
D’altro canto, afferma Schepis, e a ragione, il periodo che stiamo prendendo in considerazione – gli ultimi trent’anni – è troppo breve e troppo recente. Intanto non è detto che ogni quarto di secolo debba produrre dei classici, e poi solo il tempo potrà dire quali autori finiranno nel dimenticatoio e quali nei “Meridiani” della Mondadori, consacrati come “classici” e inseriti nelle antologie scolastiche.
Questo fatto delle antologie mi porta a chiedermi, considerando che non è possibile aumentarne ulteriormente le pagine (pena la scoliosi nei ragazzi) quali autori e testi saranno sacrificati per lasciare il posto – che so’ – a Busi o a Bevilacqua. Magari le vittime saranno il Foscolo, il Petrarca o il Boccaccio.
Scaccio questi orrendi pensieri fermandomi a guardare l’orizzonte. Il Rosa, il Bianco e il Monviso sembrano a pochi chilometri. In basso, la civiltà: una cappa di smog sopra Torino. A sinistra del Bianco si intravedono nuvole oscure che porteranno la neve.
L’aria che gela il sudore mi induce a riprendere il sentiero. Con le gambe ricominciano a camminare anche i pensieri.
Oggigiorno anche uno come Vespa può permettersi di scrivere un libro all’anno, ma non credo (o almeno lo spero) che tra cinquant’anni qualcuno si ricorderà ancora di lui.
Un tempo lo scrivere era una scelta di vita, era un modo, non sempre facile e conveniente, per comunicare agli altri le proprie idee. Lo scrivere era sacrificio e riscatto sia economico, che ideologico, fisico e mentale. Economico, perché non esistevano, o non venivano rispettati, i diritti d’autore, e comunque nessuno vendeva milioni di copie. Ideologico, perché un libro inviso al potere poteva, ad esempio, finire bruciato, talvolta con l’autore stesso. Fisico e mentale, perché un conto è scrivere il testo con una penna d’oca, correggere, ricorreggere, riscrivere e magari correggere ancora; un conto è scrivere al computer, tagliare, incollare, ma mai riprendere di sana pianta il testo e riscriverlo completamente, quindi ripensarlo in toto. Quindi il computer facilita la scrittura, ma non è il mezzo adatto a produrre “classici”.
Forse un giorno, quando l’uomo sarà saturo di computer, internet, realtà virtuali e tutte quelle diavolerie, riprenderà in mano la penna, ricomincerà a sognare col proprio cervello, e scriverà di sua zia parole destinate a rimanere.
Intanto siamo giunti alla vetta, nel punto di congiunzione tra due realtà apparentemente inconciliabili: i monti delle Alpi a nord e il Mar Ligure a sud. Già, il mare. Quel mare che spesso abita le nostre fantasie quando siamo quassù e guardiamo verso la Madonna della Guardia, ma la nebbia ci impedisce di vedere oltre; o quando siamo laggiù, nella vita quotidiana, e ci rifugiamo idealmente sul Tobbio per ritrovare un breve istante di tranquillità e di sicurezza, nel calmo mare della fantasia che solo un “classico” come Baudelaire può evocare con cognizione di causa:
Uomo libero, sempre avrai caro il mare!