Pubblicare?

di Paolo Repetto, 29 ottobre 2025

Un anatema ebraico, pochissimo conosciuto, recita: “Possa il mio nemico pubblicare un libro”. Non è un augurio, anche se lo sembra, né una professione di tolleranza: è una maledizione. Ora, io non so quanto questo detto sia antico o solo vecchio, e ignorando la lingua ebraica non posso che affidarmi alla fedeltà della traduzione nella quale lo conosco: ma so che poter determinare l’epoca in cui è stato coniato sarebbe tutt’altro che indifferente. Nel caso fosse molto antico infatti quel “pubblicare” andrebbe inteso come “scrivere”, piuttosto che diffondere tramite amanuensi in più copie, e per un popolo che è stato definito “il popolo del libro” mi pare un po’ fuori luogo. Anche se è poi vero che il sospetto nei confronti della scrittura era presente pure nella cultura greca (vedi Platone), e che per gli ebrei poteva essere tanto più giustificato, almeno nei confronti della scrittura “profana”, dall’esistenza di un testo sacro dettato da Dio stesso, da considerarsi quindi rispondente a ogni domanda, esauriente ogni dubbio, definitivo (salvo poi darne infinite interpretazioni).

Propendo dunque piuttosto per la seconda ipotesi, che quantomeno rende il concetto più funzionale a ciò di cui intendo parlare. Il problema a mio giudizio non sta infatti nello scrivere, ma proprio nel “pubblicare” (operazione che assume ben altro significato dopo l’introduzione della stampa), ovvero nel divulgare quanto si è scritto. Sono due cose diverse, mi pare ovvio, perché la seconda presuppone la prima – per ora, in attesa degli sviluppi dell’AI – mentre non vale il contrario: e tuttavia quasi sempre nel linguaggio corrente i due verbi vengono usati come sinonimi, mentre tali non sono. La differenza sta innanzi tutto nell’intenzione che muove alla scrittura, e poi nei contenuti e nella destinazione, che comportano scelte particolari nei modi e nei mezzi in cui sarà diffusa.

Voglio dire che, certo, chi scrive lo fa di norma per relazionarsi col presente e per lasciare traccia nel futuro, ma la scrittura può essere utilizzata anche in forma privata, per memorizzare, per chiarirsi le idee e metterle in ordine, per tenere un diario, per accompagnare un gesto o un regalo, oppure per fare arrivare la propria voce ad amici o confidenti, quando magari si diano poche possibilità di frequentazione. Ad esempio: l’uso che ne faccio io in questo momento, sfruttando una tecnologia che mi permette di dialogare facilmente con uno sparuto gruppo di persone che condivide i miei interessi, ovvero le mie domande e i miei dubbi, rappresenta il limite estremo dell’utilizzo “privato”.

Se si va oltre si accede invece ad un’altra dimensione, quella appunto del “pubblicare”, che come il termine suggerisce significa rendere intenzionalmente pubblico il proprio pensiero. E qui entrano in gioco finalità e ambizioni diverse. Io vorrei occuparmi nello specifico del caso di cui l’intenzione è di orientare o influenzare il pensiero altrui, offrendo al maggior numero possibile di sconosciuti delle “risposte”, delle interpretazioni del mondo e della storia che non possono essere controbattute direttamente, come avverrebbe in un colloquio. Nel formato stampa queste risposte assumono un’autorevolezza che è suggerita già visivamente dall’ordine, dalla nitidezza, dall’irreggimentazione delle righe e dei periodi sulla superficie della pagina. Insomma, la parola stampata incute rispetto, e questo consente di esercitare in qualche modo un potere. E anche se i mass media e le nuove tecnologie e modalità comunicative stanno rendendo obsoleta la stampa, credo che per il momento, e almeno per la mia generazione e per quella immediatamente successiva, l’autorevolezza del pensiero sia ancora legata alla divulgazione cartacea.

Naturalmente ci sono anche, e oserei dire soprattutto, altre finalità: quella pura e semplice di ottenere una qualche visibilità, ad esempio, o di trovare un modo per sbarcare il lunario: oppure, un po’ più ambiziosamente, di combinare il tutto e di proporre, alla maniera di Balzac, sia pure attraverso la finzione, un ampio quadro della reale condizione umana. Sarà il tempo poi a decidere della rilevanza e della sopravvivenza di qualsiasi testo, a farne o no “un classico”, o almeno un riferimento che vada oltre il presente.

Ma mi sto perdendo nelle ovvietà. Ciò che intendevo dire è che attualmente tanto la narrativa, più o meno “impegnata”, quanto la saggistica, rientrano allo stesso modo nei circuiti di un “mercato culturale” che ha acquisito una enorme rilevanza sia finanziaria che politica, e rispondono alle sue leggi, in primis a quelle della “spettacolarizzazione” (un mercato culturale in realtà è sempre esistito, ma senz’altro non aveva come caratteristica dominante quella della spettacolarità). Basti pensare ai tour promozionali cui senza alcun ritegno gli autori si sottopongono, compresi gli scienziati e i filosofi, andando a far marchette nei programmi televisivi, intervenendo ai festival o agli altri innumerevoli “eventi” imbanditi per platee di consumatori totalmente passivi e acriticamente fidelizzati, creando quelli che oggi si chiamano podcast, ecc….

Io ritengo esista però anche una terra di nessuno, quella che ospita i libri scritti non per fornire risposte preconfezionate, ma per suscitare domande, alle quali poi il lettore cercherà di rispondere con un percorso tutto suo. Questi sono per me i soli libri meritevoli di essere “pubblicati”, e non è qui il caso di dettagliare i criteri sui quali baso la distinzione. Emergeranno da soli nel prosieguo del discorso.

Vorrei però fosse chiaro che non auspico alcun tipo di censura preventiva o di esclusione o di protezionismo. Quello culturale è l’unico ambito nel quale sposo il libero mercato. D’altro canto ritengo che leggere e scrivere siano, almeno in linea di principio, le attività meno pericolose per sé e nocive per gli altri, e tra le più piacevoli, che un essere umano può svolgere. L’importante per il “consumatore” è avere sempre ben presente che di un “mercato” appunto si tratta, nel quale i banchi e gli scaffali traboccano di prodotti tra i quali può scegliere. Per come la vedo io, però, per poterlo fare è necessario auto-educarsi a un “consumo culturale” consapevole, e farlo per prove ed errori, prendendo le distanze da tutte le azioni “promozionali” di incentivazione alla lettura. Chi deve essere spinto o incentivato, per non dire precettato, a farsi un’idea, non sarà mai capace di scelte proprie.

Esistono dunque i normali prodotti da supermercato, quelli perennemente in offerta, di per sé abbastanza innocui, perché in fondo nessuno ci obbliga ad acquistarli e a leggerli. Ce ne sono invece altri che sempre all’interno di questo mercato si arrogano un ruolo di orientamento del gusto, si propongono come “bio”, garanti della nostra salute spirituale, e ci gratificano vellicando la nostra ambizione a sentirci al passo coi tempi, o anche un pochino avanti: questi, a dispetto della loro più o meno esplicita ambizione a diffondere sempre nuove e definitive “verità”, andrebbero comunque almeno conosciuti, se non altro per prenderne consapevolmente le distanze. E infine ne esistono altri ancora, che negli scaffali vengono confusi con tutto il resto, ma che bisogna imparare a riconoscere come genuini alimenti per la nostra crescita.

In questa ultima tipologia rientrano senz’altro le opere di George Steiner. Steiner è, assieme a Isaiah Berlin, l’ultimo dei veri “maestri” del ‘900. Uno che scrive: “Quello che mi sentirei di sostenere con fervore è questo: la fede (qualsiasi fede, n,d,r), o l’assenza di essa è, o dovrebbe essere, la parte costitutiva più privata, più gelosamente custodita di un essere umano […]. Pubblicizzare svilisce e falsifica irrimediabilmente il proprio credo”.

Proprio da un suo libro, significativamente titolato I libri che non ho scritto (come gli invidio questo titolo, lo avevo in mente da decenni!), arrivano l’anatema di cui sopra e lo stimolo che mi spinge ora a parlarne.

Nel compendio di uno dei saggi mai scritti, ma fatti assaporare al lettore almeno in forma di spuntino, Steiner sintetizza l’opera e il pensiero di Joseph Needham, eccentrico erudito novecentesco, grande sinologo, che mezzo secolo fa viaggiava ancora sulla cresta dell’onda. Io stesso ho sempre riservato all’unico volume che possiedo del suo Scienza e civiltà in Cina (edizione inglese 1954, italiana Einaudi 1981; primo di tre tomi, s’intitola Linee introduttive e costava un patrimonio) una collocazione di prestigio nella mia biblioteca, sezione storia della scienza. Di Needham però, della sua vita, del suo impegno politico, conoscevo quasi nulla.

Steiner invece lo conobbe personalmente, ebbe diverse occasioni di confronto, e pur riconoscendone la sterminata cultura e tributandogli tutti i dovuti meriti non ne traccia un ritratto positivo. A motivare questo giudizio (che a suo tempo ha indotto Steiner a non redigere una biografia dello scienziato britannico per la quale aveva ricevuto dalla sua università un incarico) sono le posizioni pregiudiziali a partire dalle quali Needham affronta qualsiasi argomento. Il suo approccio è infatti sempre rigidamente vincolato all’ortodossia marxista, una ortodossia peraltro non fedele direttamente a Marx, ma alla lettura che di Marx era stata data, e imposta, dal leninismo. Steiner non mette in discussione le competenze scientifiche di Needham, che era in primo luogo un biologo, né la sua capacità di lavorare su un piano multidisciplinare: ma è il dogmatismo di fondo a respingerlo. Non può fare a meno di mettere in rilievo come tanto le competenze scientifiche quanto quelle umanistiche vengano sempre piegate non ad aprire nuove possibilità interpretative dei fatti, ma ad avvalorare una ipotesi iniziale precostituita. E sottolinea come le incursioni in ambiti specialistici sostanzialmente estranei ai suoi abbiano indotto Needham a prendere per oro colato ogni minimo e discutibilissimo indizio, biologico, antropologico, linguistico, architettonico, che sembrasse portare mattoni alla sua ricostruzione della Storia. Ricostruzione che seguiva le linee di un progetto dettato dal clima ideologico postbellico, dal compiersi della decolonizzazione, dagli entusiasmi del terzomondismo.

In pratica Steiner avverte, dietro il meritevole intento di Needham di portare l’occidente a conoscere e apprezzare l’origine extraeuropea di buona parte dei saperi scientifici e delle tecnologie che ne sono discese, il caparbio proposito di forzare l’entità del debito scientifico occidentale nei confronti di un’area che ai suoi tempi era ancora percepita come sottosviluppata, e sullo sfondo quello di capovolgere (non di equilibrare) le posizioni nel rapporto tra le diverse civiltà. La stessa operazione che trent’anni dopo avrebbe ripetuto Martin Bernal con Atena nera, per provare come la cultura greca classica sia assolutamente debitrice di quella africana e mediorientale (cosa di cui peraltro erano ben consapevoli già Pitagora, Erodoto e Platone).

Insomma, il problema di Needham non sta nell’attribuzione di questi contatti e rapporti e finanche di talune priorità, ma nel darne una interpretazione che nemmeno troppo larvatamente colpevolizza l’occidente: nel voler cioè convintamente affermare che in fondo l’occidente non può vantarsi di aver inventato nulla, e che si è limitato a depredare i patrimoni culturali di altre civiltà (come se il valore intrinseco di una conoscenza fosse nella priorità, e non negli sviluppi e nelle applicazioni che ne discendono). E peggio ancora, nel farlo producendo prove documentarie, linguistiche e archeologiche molto abborracciate e in parecchi casi del tutto irrilevanti, quando addirittura non false.

Ora, tutto ciò, per senza nulla togliere al fascino che i lavori di Needham e di Bernal senz’altro emanano, e al rilievo delle ipotesi interpretative che hanno introdotto, dovrebbe però guidare a una giustificata prudenza nell’accettarne il messaggio di fondo. L’assunzione di un altro punto di vista, o del punto di vista altrui, può scuotere e incrinare una lettura della storia consolidatasi sulla narrazione auto-apologetica dei vincitori, ma non necessariamente ne produce una nuova più veritiera. Semmai dovrebbe indurne una più interlocutoria, più possibilista, e non altrettanto assiomatica.

Questo mi porta a una considerazione solo apparentemente marginale, che concerne la differenza tra gli autori “enciclopedici” del Sette/Ottocento e i “tuttologi” imperanti ai giorni nostri. Enciclopedici, per intenderci, erano gli eruditi eclettici come Diderot, Goethe o Alexander von Humbolt, che ambivano a raccogliere in grandi sintesi lo stato delle conoscenze alla loro epoca. Erano curiosi di tutto, e questo li induceva a non dare nulla per scontato, a considerare i saperi di cui erano depositari come punti di partenza. A dispetto dell’ampiezza e della poliedricità delle loro opere, lo scopo che ad esse attribuivano era di indicare possibili percorsi per la ricerca futura, e anche quando fornivano spiegazioni lo facevano nella consapevolezza di produrre delle congetture. Chi avesse la pazienza di leggere oggi il Cosmos di Humboldt, che nel titolo sembra adombrare un’ambizione sterminata, si accorgerebbe che ogni affermazione viene sempre presentata come provvisoria, e che la frase più ricorrente è “Chissà cosa ci riserverà nel futuro la ricerca in questo campo”. E lo stesso scienziato-esploratore non si limitava ad auspicare, ma incoraggiava i giovani naturalisti a ripercorrere i suoi passi, per verificare e al limite contraddire le sue scoperte e le sue intuizioni, e a tale scopo donava loro anche le sue strumentazioni. Ma non è tutto: si accollò personalmente la pubblicazione dell’opera, e dati i costi enormi finì praticamente sul lastrico.

Tra gli enciclopedici e i tuttologi si collocano proprio Needham e Bernal, che esplorano ambiti nuovi, che producono nuove conoscenze relative ai rapporti e agli interscambi tra le civiltà extraeuropee e la nostra, ma non si limitano ad avanzare delle ipotesi, affermano delle tesi. Sono ancora enciclopedici nel senso che sostanziano le loro opere con l’apporto di saperi diversi, anche se padroneggiati con eccessiva disinvoltura, e spesso con molta approssimazione. Sono già tuttologi perché presumono di dare un significato diverso alla storia, affermandone categoricamente non possibilità interpretative inedite ma linee di sviluppo certe e inconfutabili. Non sono tali però a pieno titolo, almeno nel senso che do io al termine, perché ancora non si avvalgono delle più recenti tecnologie e modalità che portano dalla “pubblicazione” alla “pubblicizzazione” di massa. E alla spettacolarizzazione.

Con ciò vengo finalmente al dunque, prendendo tre nomi a caso (in realtà non proprio a caso) tra i più conosciuti oggi dal grande pubblico italiano: Pier Giorgio Odifreddi, Luciano Canfora e Alessandro Barbero. Già il fatto che possa citarli come largamente conosciuti, come “popolari”, la dice lunga: segna la differenza rispetto agli enciclopedici genuini alla Humboldt, conosciuti soltanto da chi li leggeva (ma questo valeva ancora per Needham e Bernal).

Nessuno può negare le competenze matematiche di Odifreddi, meno che mai chi come me nelle scienze matematiche è un asino; ma quando mi ritrovo in mano testi suoi che sconfinano nell’etica o nella politica mi si rizzano i capelli, perché sono trattazioni che non si propongono all’insegna dell’“io la vedo così”, ma a quella del “è così, e ve lo dimostro”. Odifreddi ha nel mirino soprattutto il cristianesimo, e prima ancora l’intera tradizione biblica, che a suo parere ha impresso alla civiltà occidentale, in tutte le sue componenti, il marchio di una distruttiva pulsione al dominio e alla negazione di ogni alterità: ma spinge costantemente la sua critica sino al limite dell’invettiva, e spesso anche oltre, facendo un solo fascio di tradizioni, istituzioni politiche e giuridiche, indirizzi economici, ecc … Col risultato di scorgervi dietro, a tirare le fila, sempre la lunga mano e il modus operandi del capitalismo, nelle sue svariate versioni pre-moderne e poi coloniali, imperialistiche, liberistiche, liberalistiche e pseudo-democratiche. Quello che denuncia, senza arretrare neppure di fronte ad evidenti anacronistiche forzature, è in fondo un progetto di dominio pluto-giudaico che ha informato tutta la storia occidentale, e che sembra ormai ossessionare più le varie sinistre sedicenti rivoluzionarie che le vecchie destre reazionarie.

Discorso appena leggermente diverso si può fare per Canfora e per Barbero, che quanto meno rimangono nell’ambito della loro disciplina: ma la specializzazione disciplinare si è spinta oggi talmente oltre che è difficile concepire una competenza storica estesa dai Neanderthal alla guerra fredda o ai conflitti attualmente in corso.

L’impressione che ho ricavato dalle sempre più frequenti apparizioni di costoro nei salotti televisivi o come conduttori di programmi disegnati a loro immagine, impressione che si riverbera retrospettivamente su tutta la loro opera, è che la storia venga trattata non come terreno di costante esplorazione, ma come pezza d’appoggio per avvallare dogmatiche certezze. Che riguardano, come per Needham e per Bernal, e per Odifreddi, la nefandezza della cultura e della civiltà occidentale e la denuncia di come è andata sviluppandosi. È evidente che qui non siamo a livello dei vari Galimberti o dei nipotini post-moderni di Foucault e di Vattimo: l’operazione che i nostri conducono è assai più sottile e sofisticata, ma il punto d’arrivo è lo stesso.

Si vedano ad esempio il saggio di Barbero sull’impero ottomano e le conferenze che ne ha tratto. È uno stillicidio di confronti che oppongono la tolleranza, la giustizia, l’uguaglianza, la meritocrazia praticate dalla cultura ottomana all’intolleranza, alle diseguaglianze, alla farraginosità giuridica e ai privilegi correnti nella coeva cultura occidentale. Ora, sarà anche vero che ebrei e cristiani erano molto più tollerati nelle terre del Sultano di quanto lo fossero nell’Europa rinascimentale, e che a Costantinopoli non esisteva una aristocrazia del privilegio ereditario, e che le classe dirigente era reclutata senza badare al censo; ma tanto per cominciare il tutto era arbitrariamente gestito da un despota assoluto, che in alcuni casi poteva essere illuminato e in molti altri no, e il cui potere non conosceva limiti o contrappesi, né religiosi, né politici, né giuridici. C’è poi il fatto che le relazioni dei viaggiatori che per cinque secoli hanno attraversato quelle terre (non moltissimi, perché viaggiare lì era estremamente difficile e pericoloso) concordano tutte nella descrizione di un clima di povertà, di sopruso e di violenza, narrano di massacri continui e spoliazioni, nei confronti ad esempio dei Curdi, degli Yazidi, dei Mandei, dei Copti, o delle popolazioni balcaniche o di quelle elleniche. Checché ne dicessero gli ambasciatori veneziani, che vivevano peraltro nel perimetro della corte, ai quali Barbero attinge tutte le testimonianze, la tolleranza era molto più proclamata che praticata. Vigeva invece senz’altro l’uguaglianza, ma nel senso che la violenza arbitraria davvero non faceva sconti a nessuno.

Per capirci meglio. Richiesto nel corso di una intervista che circola sul web di spiegare cosa significa essere di sinistra, Barbero ha risposto che per lui significa vedere una bandiera rossa o una falce e martello e non averne paura, anzi, provare piacere. “Io se vedo un corteo in piazza con le bandiere rosse che protesta mi piace, e quando vedo che la polizia li picchia non mi piace, mentre a tanti borghesi la cosa fa paura o da fastidio, e pensano che la polizia faccia bene a picchiarli. Basta questo, di base, per essere di sinistra”. Il che, pur essendo una semplificazione provocatoriamente voluta, spiega comunque tante cose. Spero almeno non gli dia gioia anche veder bruciare i cassonetti, simbolo del consumismo borghese, o le bandiere, con l’eccezione naturalmente di quella rossa (o di quelle che vanno al momento per la maggiore): oppure le occupazioni delle università e dei licei, dove si fa resistenza antifascista impedendo a chi non è schierato “dalla parte giusta” di prendere la parola. Stiamo parlando di docenti universitari. Se questo è per loro lo stare a sinistra, stiamo freschi. E soprattutto, io dove sono stato fino ad oggi?

Lo stesso vale per il modo in cui Canfora parla della democrazia occidentale, sottintendendo che le sue storture erano già presenti sin dall’origine e si sono semmai amplificate nella versione moderna, contrariamente a quanto la storia ufficiale vorrebbe raccontarci. Tanto da fargli preferire un sistema come quello spartano, non a caso vagamente “comunista” e livellatore (salvo reggersi, né più né meno come quella da lui definita la pseudo-democrazia ateniese, sulla schiavitù), e da indurlo a mostrare un’evidente simpatia per l’odierno modello putiniano, nonché naturalmente un sincero rimpianto per quello staliniano: “Uno statista può essere valutato per quello che ha fatto per il suo Paese. L’opera di Stalin è stata positiva, anche se aspra, per la Russia al contrario di quella di Gorbaciov”.

Siamo insomma di fronte ad un “odio di sé occidentale” che non trova corrispettivo in altre culture. Tutte le altre civiltà hanno mantenuto bene o male nel corso del tempo un’alta considerazione di sé (gran parte dei popoli si attribuiscono in esclusiva lo status di “uomini”, già a partire dai termini con cui si autodenominano, o considerano la loro terra come il centro del mondo): e attribuiscono le cause della loro decadenza, dei loro ritardi (ammesso che li considerino tali), del loro eventuale asservimento, alla protervia dei competitori, a sfortunate congiunture climatiche o al volere di divinità irritate. La negatività occidentale affonda invece le sue radici in un’attitudine autocritica nata già agli albori della modernità (ma volendo se ne potrebbero trovare tracce anche prima: basti pensare a Erodoto, o alla Germania di Tacito): solo che nel XVI secolo con Montaigne questa attitudine si esprimeva in un equilibrato ripensamento delle modalità di confronto con “gli altri”, e successivamente con Montesquieu nella critica delle istituzioni domestiche, tutte cose che rimanevano nell’ambito di ciò che va perfezionato, rivisto, recuperato. È in fondo questo che ha fatto la differenza, permettendo all’Occidente di spezzare i vincoli della tradizione immobilista, di innovare o cancellare istituzioni sclerotizzate, di sperimentare modelli produttivi e rapporti sociali di convivenza del tutto inediti. Con quali risultati non sta a me qui discutere (in realtà su questo sito se ne è già discusso ampiamente): le scorie dell’idea di “progresso” che sino a ieri l’Occidente ha abbracciato sono tante e tali da non consentirmi di esprimere giudizi e proporre scale dei valori. Oltretutto, se mi guardo un po’ attorno e vedo solo opposti fanatismi e l’idiozia al potere quasi ovunque, qualche dubbio sulle nostre scelte non può non sorgermi. Di certo so però che in pochissime altre culture una discussione come questa sarebbe consentita, e vorrei tenermi stretta questa possibilità.

Già in epoca romantica, però, nel mito esotico del buon selvaggio, il saldo del confronto con altri possibili modelli di civiltà diventava negativo, e nel secolo scorso questo confronto si è tradotto in un vero e proprio rifiuto della civiltà e della cultura occidentali, a partire dai suoi presupposti. Un rifiuto tutto “di sinistra”, perché non fa appello alla tradizione, non chiede un ritorno nostalgico ad altri tempi, ma fa tabula rasa del sistema valoriale sul quale l’occidente si è fondato sin dai primordi della storia. Col risultato di approdare a quello che Nietzsche chiamava nichilismo.

Tanto Odifreddi quanto Canfora e Barbero, che a questo rifiuto si associano, non possono però essere propriamente definiti dei nichilisti: portano avanti convintamente le loro teorie sulla deriva occidentale, che fanno risalire di volta in volta a Euclide, a Pericle o a una non meglio definita “borghesia”. Di certo non vanno annoverati tra gli orfani dell’occidente, e non sono tra quelli che ne vaticinano o ne piangono il tramonto: semmai anzi lo auspicano. Ne vogliono disvelare il “marcio”, e pensano che il frutto sia da buttare e che l’albero non sia da potare, ma da capitozzare radicalmente.

Sta di fatto che interpretano il loro radicalismo anti-occidentale come una missione, e questo li spinge ad essere costantemente presenti, sui teleschermi, sui monitor o in libreria. Ho contato in una bibliografia di Canfora, aggiornata al 2024, centotredici volumi pubblicati, una volta e mezza quelli di Simenon su Maigret. In quella di Odifreddi siamo a soli trentasette, su temi che spaziano da Le menzogne di Ulisse a Caro papa ti scrivo, sino a La democrazia non esiste, ma accanto a un profluvio di audiovisivi e di interviste, più di quattrocento partecipazioni a programmi radio e trecento a trasmissioni televisive. Barbero si attesta per ora a quarantotto volumi (ma è giovane e può dare ancora molto), che a questo punto si può dire abbiano un ruolo secondario rispetto all’intensissima attività da star mediatica. Vorranno dire qualcosa questa grafomania e questo delirio di onnipresenza? Questa fame insaziabile di pubblicazioni e di comparsate? Che ci sia dietro la maledizione talmudica?

Cosa c’è dietro non lo so. Sospetto che ad un certo punto le lusinghe del mercato e della popolarità spettacolare mandino in tilt anche menti di indubbio livello, accendendo ambizioni egoistiche che scadono nella piaggeria (si può essere ruffiani in due modi: salendo sulla carrozza dei potenti o assecondando le rabbie più fumose degli “insorgenti”. Non mi risulta che alcuna lezione universitaria o conferenza dei tre sia mai stata contestata o impedita) Ma credo soprattutto che questo “odio di sé” (rivolto però a un “sé” rappresentato da tutti gli altri condomini che abitano la casa occidentale) nasca da una duplice presunzione: quella di aver individuato cosa c’è di marcio in Occidente (a seconda dei casi: un pensiero tutto fondato sulla “ragione calcolante”, una finzione democratica messa in piedi dalle classi dominanti, una narrazione della storia asservita agli interessi imperialistici): e quella di averlo fatto chiamandosi fuori dalla parte guasta del frutto.

Continuo a chiedermi comunque cosa può indurre persone tanto intelligenti a costringersi in una visione e in un uso del loro sapere così preconcetti. Ammettiamo che possano agire la temperie culturale del momento, le esperienze politiche, le ambizioni di cui sopra, tutto ciò che si vuole: ma il conoscere non dovrebbe indurre semmai a staccarsi progressivamente da ogni certezza, a ingolosirsi di ciò che di nuovo può arrivare, a non chiudersi a riccio dietro le interpretazioni dogmatiche. Come si conciliano le due cose?

Azzardo la spiegazione che mi pare più plausibile. Credo che tutto questo nasca dalla paura. Intendo la paura del vuoto che ci si spalanca davanti se appena apriamo gli occhi e usciamo dal recinto di significati che ci siamo costruiti attorno. La paura di affrontare l’assurdità della condizione umana come raccontata ad esempio da Camus, e prima ancora da Leopardi, e su su fino a Lucrezio, di guardarla negli occhi. Non sono molti quelli che reagiscono a questa consapevolezza rassegnandosi non passivamente all’assenza di uno scopo ultimo, e creandosene uno più modestamente temporaneo attraverso l’autodeterminazione etica. Nei più la paura del vuoto e dell’insignificanza induce l’urgenza di “esserci”, o almeno di apparire, e la necessità di aggrapparsi ad una bandiera (possibilmente a quelle prêt-à-porter, e non a quelle che vengono bruciate). Se poi la bandiera la si sventola o la si “indossa” in testa al gruppo, è più facile finire sui teleschermi e reclutare seguaci.

Infatti. Le arringhe dei guru dell’anti-occidentalismo sono subdolamente conformiste e confortanti, perché scodellano ad un pubblico pigro, smarrito e rancoroso verità “certe”, tra l’altro spacciandole come coraggiose “rivelazioni” che smontano le false pseudo-verità precedenti; in realtà non fanno altro che intrupparsi nella corrente revisionistica alla moda. Sembrano chiudere un lungo discorso di ricerca e di smascheramento, ma la loro ricerca era mirata solo a convalidare una visione ideologica pre-costituita.

Alla fine, ad essere verificato mi pare solo l’anatema col quale ho esordito. Continuando a “pubblicare” libri su libri, a ritmi industriali, e a “pubblicizzarli” spudoratamente abbassandosi a tutte le più perverse dinamiche del mercato, gli impavidi dissacratori della menzognera narrazione occidentale finiscono per rivelarsi i peggiori nemici di sé stessi.

P.S.

1. Needham e Bernal non costituiscono casi eccezionali di acquiescenza al dogmatismo marxista. Nella cultura anglosassone, e segnatamente in Inghilterra, furono molti, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, gli intellettuali che fecero propria questa posizione. Si va dagli scienziati, come J. B. S. Haldane, agli storici, come Christopher Hill o Eric Hobsbawm. Ma all’epoca incombeva sull’Europa la minaccia nazi-fascista, e non tutti avevano la tempra di un George Orwell. Per combattere avevano bisogno di indossare una metaforica divisa.

2. É proprio vero che le immagini a volte sono molto più eloquenti di qualsiasi trattazione scritta. Godetevi le icone dei tre moschettieri dell’anti-occidentalismo. Il quarto non è nemmeno uno scudiero, forse un valletto, ma non può essere considerato solo un intruso. In effetti è la testimonianza vivente che qualcosa nella cultura occidentale è andato storto.

3. Qualcuno tra i miei quattro corrispondenti penserà che queste elucubrazioni siano fini a stesse, frutto di una senile involuzione, e che in definitiva non portino a nulla. Su quest’ultima eventualità sono perfettamente d’accordo, ma credo che ogni tanto vadano comunque fatte le pulizie di primavera. Il cervello sarà di lì a poco nuovamente ingombro e disordinato, ma per qualche tempo almeno le idee potranno circolare un po’ più liberamente. In caso contrario, ci ritroveremo di qui a poco ad ammantarci noi stessi di bandiere, o a bruciarle, a recitare slogan, a rovesciare cassonetti. Ad essere cioè incapaci di relazionarci agli altri e alla storia in maniera civile e consapevole. In parole povere, a odiarci.

La ferrea legge del mercato

di Paolo Repetto, 2014

Il mercato è implacabile. Non fa sconti a nessuno.

Me lo conferma un giro estivo tra i banchi di piazza Assunta, dai quali grossi cartelli scritti a mano gridano: tutto a 3 euri, tutto a 5 euri! Tra le signore che frugano nervosamente nel mucchio, dragando improbabili canottiere trasparenti e casacche di finto lino indiano, una si volta, mi guarda e sorride: “Buongiorno professore, come va?”.

È vero, è un’ex-allieva, mi sembra di riconoscerla ma non so metterla a fuoco. Mentre balbetto un: “E tu? Cosa fai di bello?”, che è tutto quel che mi riesce di dire, una ragazzina la tira per la maglia, le mostra un’altra canottiera coi lustrini. “Mia figlia” si scusa. Faccio un cenno, come a dire: “Capisco”, e mi congedo. In realtà non ho capito niente, me ne vado senza sapere chi cavolo fosse.

Solo a metà di via Cairoli, quando ormai non ci pensavo più, arriva il lampo: ecco chi era! Ma non è possibile! L’ho lasciata una ragazzina smilza e simpatica, di quelle che capiscono al volo e sanno dove vogliono arrivare: prometteva faville. La ritrovo vent’anni dopo già imbolsita, con l’aria spenta di chi gira ormai tra i banchi al rimorchio della figlia, e non sembra attendersi altro.

Il mercato è impietoso. Ma, come dicono i teorici del liberismo selvaggio, è indispensabile. Offre un sacco di opportunità. A me offre quella di rispolverare le foto di volti e corpi che avevo messo in archivio, e di ritrovarle ora gualcite, sbiadite, qualche volta deformate, come riflesse in uno specchio da baraccone. Tanto più grottesche quando conservano forti i tratti che mi avevano indotto a scattarle.

Incrocio ad esempio l’ex collega che un tempo illuminava l’aula insegnanti e rendeva care le ore a disposizione, stretta ancora in quei vestitini attillati che allora ne esaltavano la grazia ma che ora raccontano una storia diversa da quella del volto rifatto. Rivedo il tizio col quale gareggiavo al fiume per le traversate in apnea, trascinato innanzi da una pancia straripante e sorridente da un volto paonazzo e un po’ inebetito. O il biondo gigolò che quarant’anni fa sbancava nelle rotonde di paese, e mi aveva soffiato una ragazza cui stavo facendo un pensierino, e adesso gira in tondo, sempre solo, sgusciando tra la gente come se avesse un appuntamento importante, e pare imbalsamato, una statua mobile di cera.

Che malinconia! È normale che il tempo passi, ma riesce difficile accettare che imprima orme così profonde. Vorrei una cosa dolce, una patina lieve che si deposita sulle cose e sulle persone, conferendo loro addirittura il fascino del seppia, e invece mi trovo di fronte a trasformazioni devastanti, a membra, torsi e, ho l’impressione, anche cervelli inflacciditi. E il fastidio aumenta quando balza agli occhi che la foto è ritoccata, quando il ricorso all’artificio è sbandierato, o quando l’immagine dei Kiss copre seni sconfitti dalle leggi newtoniane o addomi a mongolfiera; dal malinconico si scade nel patetico. Infine arriva lo sgomento, quando realizzo che gli altri guardano me e leggono lo stesso processo. Mi chiedo che foto stanno vedendo, se do anch’io l’impressione degli orologi di Dalì, se appaio loro come la caricatura dell’uomo che ero.

A questo punto ho già appreso la prima legge fondamentale del mercato, il cui preambolo recita più o meno così: è inutile guardarsi ogni mattina allo specchio per rintracciare i segni del tempo che passa. Le modificazioni sono impercettibili, impiegano giusto il tempo per permetterti di abituarti e di illuderti. Non valgono nemmeno le rimpatriate con gli ex compagni di scuola, gli incontri a convegni, matrimoni, cerimonie ufficiali, gare di danza latinoamericana, perché in tali occasioni tutti si ingegnano di dare l’immagine migliore di sé, e a volte fanno veri miracoli. Come dice la prima legge, invece, l’unico efficace ed obiettivo strumento di rilevazione della condizione umana è il giro annuale, rigorosamente estivo, sulla piazza del mercato. L’inciso è fondamentale: nelle altre stagioni si è tutti più o meno tappati, se non altro per difendersi dal freddo o dal maltempo, e ci si muove contratti e frettolosi. Si incrociano occhi un po’ meno brillanti, ma i corpi e i visi sfuggono all’analisi. D’estate invece i soggetti si mostrano in piena luce, inermi, rilassati, semivestiti e lieti di esibire i frutti di una settimana al mare e pantaloni arancione al polpaccio.

Questo avvalora la seconda legge, per la quale l’estate al mercato è l’esame finestra del restringersi e dell’infeltrirsi dei sogni, di quelli di ciascuno per la propria vita, come di quello in cui ciascuno ha collocato gli altri. Rivela le macchie e le smagliature prodotte dal tempo. Dice come abbiamo vissuto e come stiamo vivendo. Di alcuni racconta la tenuta e la progressione, di altri, di troppi, racconta la resa. Perché alla fine è questo il punto: non si tratta di negare il tempo, ci mancherebbe altro, si tratta di viverlo con dignità. Questo è ciò che vorresti vedere, e che speri gli altri vedano in te. Si può crescere, e non solo di peso: anzi, si deve crescere. Ciò che dà fastidio è incontrare gente che sembra aver smesso di crescere dall’ultima volta in cui l’hai vista, e che da allora pare essersi limitata ad allargarsi.

Crescere significa imparare a distinguere tra i propri sogni, riporre nell’armadio quattro-stagioni quelli che non possono essere indossati ora, e che forse non lo potranno mai, ma che è giusto tenere a disposizione per eventuali, improbabili occasioni, e coltivare quelli realizzabili nella quotidianità, che hanno comunque bisogno di una cura costante. Significa avere magari progettato a vent’anni di trasferirsi in Canada, e ritrovarsi a quaranta a ristrutturare la casa dei nonni a Trisobbio, e non considerarla una sconfitta: senza tuttavia chiudere per sempre la finestrella sul Canada, almeno per darci ogni tanto un’occhiata. Nel frattempo si può imparare l’inglese.

La terza legge è dunque solo un corollario “tecnico” della seconda: Il mercato è il borsino delle ambizioni, racconta di investimenti, di guadagni e di perdite. Il listino lo fanno non solo i corpi o i volti, ma soprattutto gli atteggiamenti. I segnali sono inequivocabili. Il fatto stesso che qualcuno ti guardi in attesa di essere riconosciuto, invece di venirti incontro sicuro, è già un indicatore significativo: ma ce ne sono infiniti altri.

Se ad esempio rivedi la conoscente che tre anni fa si trascinava avvizzita da una bancarella all’altra, e ti era sembrata parecchio imbarazzata dall’incontro, ora tirata a lucido, pimpante, sicura nel gesto di scegliere tra le magliette e sorridente senza imbarazzi mentre rovista tra l’intimo un po’ cafone, pensi subito che abbia lasciato il marito, o che sia stata lasciata (a medio termine non fa differenza): ha nuovi progetti, si è rimessa anche lei in corsa. Segno positivo. Sta crescendo.

Se invece l’ex compagno di scuola che a diciott’anni invidiavi perché era disinvolto con le ragazze, e che aveva continuato ad aggiornarti a cadenza decennale sulle sue trasferte di lavoro in mezzo mondo, nell’intervista di quattro minuti che ti rilascia con moglie sbuffante ti parla solo di ristoranti per una improbabile rimpatriata di classe, sei di fronte a un tracollo.

Ma un’identica conclusione puoi trarre se si aggira tra i banchi in canotta e pantaloncini da atletica, tirato e abbronzatissimo, la lunga chioma candida raccolta a coda di cavallo, in compagnia di una ragazza che potrebbe essere sua nipote (ma non lo è) e che lo ascolta con lo sguardo assente quando ti magnifica come intellettuale di grido e cerca di tirare il discorso sui comuni trascorsi culturali. Tu mastichi il più educatamente possibile il pezzo di focaccia che avevi appena addentato, che non puoi deglutire pena lo strafogamento e non ti consente nemmeno un sorriso di modestia, e pensi: ma questo, quando cresce? Segno negativo, in gergo tecnico si chiama recessione o, volendo, regressione.

Insomma. Pensavo di concedermi un tranquillo bagno di folla, in attesa di quello pomeridiano al fiume, e mi ritrovo invece a leggere il grafico in discesa delle quotazioni della vita, mia e altrui. E mi è rimasta sullo stomaco anche la focaccia.

Nel risalire in auto, rimpiangendo di non aver dedicato quelle ore al giardinaggio o alla lettura, rifletto allora sulla quarta legge del mercato, che in realtà è precondizione e fondamento delle altre: al mercato non si va per acquistare ciò che serve. Quando hai bisogno davvero di qualcosa ti rivolgi da un’altra parte. Nel mondo del mercato non vige la legge della domanda e dell’offerta. Vige solo quest’ultima, ed è sfacciatamente svincolata dalla prima. La regola vale indistintamente per qualsiasi tipo di fiera, da quella del libro al mercatino dell’usato, dal mercato rionale alle appendici di sagre e feste varie. Quando vaghi tra le bancarelle non stai cercando nulla di specifico, anche se poi, al momento, qualche scusa la inventi. Come potresti altrimenti spiegare il bisogno di una rana di ghisa fermalibri? Stai rispondendo ad una infantile compulsione al possesso, svincolata da ogni considerazione utilitaristica. Ma soprattutto stai rispondendo all’obbligo della revisione periodica, del bilancio sul tuo stato di conservazione o di evoluzione, e questo lo puoi leggere solo negli sguardi, negli atteggiamenti, nei corpi di chi non condivide quotidianamente il tuo percorso. La verità la si incontra solo agli incroci.

Per questo vieni via con qualcosa, il clone della maglietta griffata, il giubbotto senza maniche da cacciatore di cinghiali, o addirittura il coppo decorato a mano, quasi a giustificare il tempo che hai perso. Ma in realtà non il tempo non lo hai perso: lo hai visto anzi in faccia, sin troppo bene, e ora non sai se ti basterà un altro anno per dimenticarne l’espressione.

 

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A lezione di economia (e di didattica)

di Paolo Repetto, 2008

Nelle ultime settimane ho scoperto le borse – anche volendo sarebbe stato difficile ignorarle. In un primo tempo ho seguito lo spettacolo un po’ distrattamente, visto che non avevo mutui accesi e investo solo in libri. Anzi, mi divertivano i tonfi e i rimbalzi, l’idea di quelle bolle di gas che esplodevano e si dissolvevano nel nulla. Ad un certo punto, però, ho iniziato ad avvertire un fastidioso puzzo di strine, e non c’è voluto molto a rendermi conto che emanava dalla mia pelle. Mi stavo scottando anch’io.

Quello che sembrava fuoco di sterpaglie è diventato un incendio vero e proprio, e minaccia tutti, non solo “mutuati” e investitori. Capito questo, non è che si possa poi fare molto: nemmeno quei governi che stanno provando a spegnerlo, o almeno a contenerlo, sembrano ottenere grossi risultati. Per cui continueremo a fare gli spettatori, magari sperando che piova: ma, in quanto spettatori paganti possiamo almeno pretendere di sapere come l’incendio è scoppiato, cercare di capire come si è verificato quel distacco tra economia “reale” ed economia “virtuale” che pare essere all’origine del disastro.

Chi nutre questo desiderio non deve aspettarsi soccorso dalla televisione e dalla stampa. Io non credo alle strategie mirate di disinformazione, almeno in questo caso: penso semplicemente che chi lavora in quei settori non abbia la minima idea in proposito, e nemmeno ritenga sia suo compito averla, e meno che mai trasmetterla agli spettatori e ai lettori. Quindi occorre cercate altrove: qualcosa che aiuta a capire prima o poi si presenta.

A me e agli studenti del “Boccardo” lo spunto è stato offerto pochi giorni fa, in una forma trasversale, diciamo di sponda. Abbiamo assistito ad una lezione sulle “fiere di cambio” tenuta da Claudio Marsilio, docente di storia economica alla Bocconi. Ora, le “fiere di cambio” sono senz’altro un bellissimo argomento, ma potrebbero sembrare un tantino riservate agli specialisti del settore, o agli amanti della storia locale, dal momento che hanno visto protagonista per un lungo periodo proprio la città di Novi. Non lo diresti insomma uno di quei temi che possono tenere incollato alla poltrona un pubblico di profani: e invece la trattazione ha coinvolto anche chi, come me, di storia economica era piuttosto digiuno.

Pur rendendomi conto che è impossibile sintetizzare l’argomento senza scadere nella banalizzazione ci provo comunque, anche perché mi consente di farci sopra un paio di considerazioni, relative tanto al tema quanto al modo in cui è stato trattato. Spero solo che il professor Marsilio non me ne voglia.

Vediamo di inquadrare storicamente la faccenda. Si parte agli inizi del ‘500. È in corso la lotta tra Francia e Spagna per l’egemonia continentale, con il neonato regno iberico innalzato al rango di potenza mondiale dalla scoperta (e dalla conquista) dell’America e dal fatto che il suo sovrano, Carlo V, già erede dei possedimenti asburgici sparsi per mezza Europa, ha ottenuto l’investitura imperiale. Tra i due contendenti sta Genova, dapprima schierata con la Francia, poi, dopo il 1528, sotto la guida di Andrea Doria, con la Spagna. Genova detiene all’epoca il monopolio dei traffici sul Mediterraneo occidentale, traffici che hanno portato le grandi famiglie armatoriali a disporre di ingenti capitali. Di questi capitali ha un enorme bisogno Carlo V, che con la sua politica imperiale ha moltiplicato gli impegni militari e che risulta ormai troppo esposto con i gruppi finanziari tedeschi che gli hanno comprato l’investitura. I capitali genovesi sono quindi spinti naturalmente verso l’imperatore, in prospettiva di una partecipazione di Genova alla gestione dell’oro e dell’argento provenienti dall’America e dell’acquisizione di regimi di monopolio commerciale .

Questo lo scenario. In esso si inseriscono, o meglio, da esso hanno origine, le fiere di cambio. Mi spiego meglio. Con la rinascita economica del Basso Medio Evo si sono diffuse e infittite le grandi fiere commerciali, le fiere “di scambio”. Sono le occasioni di incontro per i mercanti che arrivano da tutta l’Europa, di incrocio delle merci dal settentrione al sud e dall’ovest al levante. A margine di queste fiere c’è una appendice economica. Non si possono trattare gli affari in moneta sonante, per ovvi motivi di sicurezza (mettersi per strada col sacchetto dei denari equivarrebbe a rimanere in mutande dopo mezz’ora) e tutto avviene attraverso “lettere di cambio” emesse sulle piazze più diverse. Chi compra e chi vende lo fa sulla base di un rapporto fiduciario assoluto (beati loro!). In sostanza, io, mercante di Prato, mi reco a Lione per acquistare pizzi; ho con me una lettera di cambio, sottoscritta magari da un grosso importatore che ha vasti rapporti internazionali, nella quale si dice più o meno “accordate fiducia al latore della presente per una somma tot, che vi farete rimborsare da tal dei tali, mio corrispondente di Amsterdam.” Viaggio sicuro, compro e pago con la lettera, che vale come oro zecchino.

Ad un certo punto, però, il volume delle transazioni diviene tale (anche perché alle transazioni commerciali si aggiungono e si sovrappongono quelle finanziarie, rappresentate soprattutto dai prestiti agli ormai affermati stati nazionali) da imporre di tenere fiere apposite, quelle appunto di “cambio”, nelle quali si comprano e si cedono non merci, ma debiti e crediti, quelli testimoniati dalle lettere di cambio. Negli spazi ristretti, ad economia di altissima densità, la necessità di uffici di cambio appositi nei quali possano essere scontate le lettere si avverte già nel ‘400. Bruges ed Anversa, e poi Amsterdam, vedono la nascita delle prime Borse nella zona delle Fiandre. Lo stesso non avviene nell’area mediterranea, un po’ per le resistenze ideologiche della chiesa, un po’ per l’esistenza di una situazione politica molto più frammentata e complessa (Genova, Venezia, Firenze, si propongono come centri finanziari concorrenti). Qui rimane pertanto preferibile organizzare “fiere di cambio”, alle quali convergono operatori economici e finanziari da tutte le parti dell’impero di Carlo V. Queste fiere si tengono in un primo tempo in Francia, nei possedimenti borgognoni degli Asburgo, a Besançon e poi a Lione, poi vengono spostate in Italia, verso la fine del ‘500, e cominciano a moltiplicarsi quando i banchieri fiorentini tentano di sottrarsi all’egemonia genovese e Venezia cerca di contrastarla. Per opportunità logistica, soprattutto per la facilità d’accesso dalla pianura e dal milanese, i genovesi eleggono a città di fiera Novi Ligure. Lo rimarrà per quasi tutto il XVII secolo.

Le fiere in pratica funzionano come una Borsa, che invece di agire in continuità si riunisce ad intervalli regolari. Nel corso di questi incontri, che si svolgono con cadenza trimestrale, durano una decina di giorni e hanno luogo all’interno di palazzi nobiliari, vengono trattate da un gruppo ristretto di operatori (massimo un centinaio), delegati a rappresentanza di diversi gruppi o famiglie, o di intere città, le “quotazioni”, tanto quelle degli stati quanto quelle dei maggiori gruppi commerciali e finanziari, e viene fissato di volta in volta, quale base monetaria delle transazioni, una valuta di riferimento (lo scudo di marche, una moneta immaginaria). Da notare che in queste “fiere” non può assolutamente circolare denaro liquido. Tutto si svolge in maniera molto codificata, con rituali e protocolli ben precisi, e tutto in qualche modo è già virtuale. Non girano merci, non corre moneta.

Ecco, qui sta il salto. È questo il momento (momento che dura un paio di secoli, per intenderci, dai primi del ‘500 fino all’apertura delle vere e proprie Borse, come quella di Londra, nelle quali cominciano ad essere trattate anche le quotazioni “industriali”) in cui una parte dell’economia si smaterializza, diventa “fittizia”: e questo ambito “virtuale” dell’economia si chiama finanza. Ciò, paradossalmente, in coincidenza proprio con l’avvento dell’industria moderna, con un materiale “appesantimento” della produzione.

Questo anello mi mancava. O meglio, mi mancava una percezione così chiara dei passaggi. Adesso mi sembrano scontati, elementari: prima merce per merce, poi merce per denaro, più tardi merce per lettera di cambio, infine lettera di cambio per lettera di cambio, con margini percentuali di guadagno correlati al tempo, alle distanze e al rischio, che con la merce, con il prodotto materiale hanno più niente a che vedere. Insomma, non proprio così facile, ma quasi.

Questo dunque l’argomento dell’incontro. E adesso mi prendo lo spazio per le considerazioni.

Sui fraintendimenti dell’etica. Si fa un gran parlare, in questi tempi, della necessità di tornare ad una finanza “etica”. Ma su cosa poi significhi il termine etica, riferito alla finanza, o più in generale all’economia, c’è parecchia confusione. L’etica è un sistema di regole che discendono da una personale visione della vita (anzi, è quella visione della vita, con annessi i comportamenti che ne conseguono). Potremmo definirla un sistema normativo endogeno: è l’individuo a imporsi le regole, o a scegliere di condividere quelle esistenti. Non va confusa con la morale, che è invece un sistema eteronomo, dettato da un ente superiore ed esterno, sia questo la divinità, o in sua assenza, la società. Nell’ambito della morale la sanzione per chi trasgredisce alle norme viene dall’alto, può essere posticipata (la dannazione eterna, o la damnatio memoriae), a volte appare imperscrutabile: in quello dell’etica significa l’esclusione (o l’autoesclusione) immediata dal gioco. Ogni gioco si basa sulla fiducia reciproca tra i partecipanti, su un patto più o meno sottinteso che riguarda il rispetto di “quelle” specifiche regole: e ha poco a che vedere con la morale. Il poker è un gioco considerato immorale, ma ha un suo codice etico. Se bari, sei fuori. Quindi l’etica si fonda su un rapporto orizzontale, di fiducia, la morale su un rapporto verticale, quello con la giustizia divina.

Applichiamo il tutto al campo economico. Il richiamo a tornare alla finanza etica suppone che un tempo questo settore fosse informato ad un qualche ethos. Non necessariamente ad una concezione morale. Esisteva, semmai, sino al tardo medioevo, una condanna “morale” di tutta quanta la sfera economica, dal momento che tutto ciò che ha a vedere con il fattore economico fondamentale, il guadagno, era tacciato di immoralità. Ma anche l’economia moderna, quella per intenderci che nasce con lo spirito protestante, con lo stato moderno, con la rivoluzione scientifica e le sue ricadute tecnologiche e industriali, con l’individualismo e con la rinnovata concezione del diritto, tanto “morale” non è mai stata. Basti ricordare le condizioni di sfruttamento dalle quali trae da sempre origine il capitale. È stata invece “etica”, almeno per quanto concerne i rapporti orizzontali nel mondo finanziario, che come dicevo sopra erano fondati sulla fiducia. Laddove non è la pura forza a determinare le posizioni nello scambio, deve funzionare un rapporto fiduciario. Su scala piccola, nella transazione a livello di vicini di casa o di compaesani, garante della fiducia è la parola. Venir meno alla parola data significa squalifica sociale, emarginazione, estromissione dal circuito economico. Quindi non si tratta solo di una pressione sociale: il guadagno truffaldino di oggi comporta la completa rovina di domani.

Questo tipo di rapporto ha continuato bene o male a funzionare sino alla metà del secolo scorso, fino a quando gli interlocutori economici sono rimasti delle persone. Alla stretta di mano si è semplicemente sostituita la firma. Non ha più funzionato nel momento in cui gli interlocutori sono diventati anonimi e le strutture finanziarie e commerciali si sono complicate. Non voglio certo riscrivere la storia dell’economia: credo semplicemente che quando il rapporto avviene tra soggetti eticamente deresponsabilizzati, quindi tra o con funzionari di società anonime, che anziché venire estromessi dal gioco in caso di mancato rispetto delle regole sono promossi o liquidati con buonuscite faraoniche, l’etica non c’entri più, quei paletti di salvaguardia che erano il nome, la stima ecc.. saltano come birilli. E infatti. La grande crisi che stiamo attraversando è una crisi di sfiducia. Nessuno ha più fiducia in nessuno, e questo vale a maggior ragione nel campo finanziario, dopo l’infilata di bancarotte che ha caratterizzato gli ultimi anni. Quindi, parlare di ritorno alla finanza etica è assurdo, dal momento che è venuto meno quello che ne era il fondamentale presupposto.

Detto questo, è necessario anche non dimenticare che quello della finanza è un gioco di competizione, e che sul lungo periodo è a somma zero (l’aumento della ricchezza è in realtà solo virtuale, la terra rimane comunque un sistema chiuso). Se qualcuno guadagna qualcun altro perde. Se si guadagna o si perde nel rispetto di certe regole è un gioco; se questo non avviene è una guerra, nella quale può sembrare per un qualche tempo che tutti guadagnino, come è avvenuto recentemente, ma alla fine tutti perdono. Vorrei insomma chiarire che il ritorno ad una finanza “etica”, quand’anche fosse possibile (e si è visto che non lo è) non significherebbe comunque l’approdo ad una finanza “filantropica”, intesa al benessere collettivo, ma solo il ripristino di certe norme che disciplinano la lotta.

Sui buchi della storia. Pur reputandomi un dilettante di discreto livello degli studi storici non avevo un’idea precisa di cosa fossero le fiere di cambio. Retaggio di una preparazione, e quindi di un’ottica, molto “umanistica” e “politica”, e troppo poco economicistica. Non credo di essere l’unico, ma questa non è né una consolazione né una giustificazione. Se davvero le fiere di cambio hanno avuto un’importanza tanto cruciale nel passaggio da una concezione dell’economia ad un’altra – e dopo questa conferenza non ho più dubbi – Novi ha avuto un ruolo importante nell’economia mondiale del XVII secolo, almeno come teatro del gioco. Non si tratta ora di trarne pretesto per un carrozzone revivalistico e anniversaristico o che altro, ma almeno di averne coscienza, da parte dei novesi e non. Spesso sappiamo tutto su Anversa e Bruges, e poi non sappiamo che una fase determinante della partita si è giocata proprio sotto le finestre di casa nostra.

Sui “segreti” della didattica. Ho assistito alla conferenza assieme a quaranta studenti delle quinte aziendali. La conferenza è durata due ore, e per tutte quelle due ore nessuno dei ragazzi ha fiatato, se non per rispondere alle domande di Marsilio. Ora, non si trattava di una performance di Baricco o di Busi o di qualche altro imbonitore televisivo: era una lezione sulle fiere di cambio a Novi nel Seicento, apparentemente quanto di più lontano si possa immaginare dagli interessi e dalla sensibilità di odierni diciottenni. Allora, delle due l’una: o il professor Marsilio ha doti sensazionali di intrattenitore, o i ragazzi sono molto meno storditi di quanto si voglia far credere e di quanto appaiano quando vengono inquadrati o intervistati in tivù. La verità sta, come al solito, nel mezzo, e concerne tanto il modo quanto la sostanza. Claudio Marsilio non si limita a sapere le cose, ma le sa anche proporre, e bene; e questo lo posso dire dall’alto di trentacinque anni spesi, credo non invano, nell’insegnamento. Non salta un passaggio, e ti porterebbe a capire anche se non lo volessi. Questo per quanto concerne il modo.

Quanto al merito, quello di cui Marsilio parla è un argomento alla fin fine sostanziale, pregnante, e reso ancora più tale dal suo rapporto con questo territorio. Un conto è parlare di fiere di cambio a Besançon, che il novanta per cento dei ragazzi, e magari anche qualcuno in più tra i parlamentari, avrebbe difficoltà ad individuare anche sulla carta geografica, un conto è dire che si svolgevano in quel palazzo là, a centocinquanta metri da dove ti trovi adesso. Questo si chiama giocare didatticamente il famoso “rapporto col territorio”.

Infine, su quello che chiedono i ragazzi. La soglia di attenzione dei nostri studenti è giudicata minima: tempi da Zelig, tre o quattro minuti. Stando a questa valutazione occorrerebbe passare dal quadro orario a quello dei quarti d’ora, con durate delle lezioni da messaggio pubblicitario. Non è affatto vero. Lo constato ogni volta che, per necessità ma un po’ anche per nostalgia, ho l’occasione di rientrare in classe per un’ora di supplenza. Se hai qualcosa da trasmettere loro, non importa quanto importante, ma qualcosa in cui credi davvero, lo sentono e ti seguono. Non sono del tutto cloroformizzati dai fiumi di retorica che di norma nelle “Grandi Occasioni” vengono rovesciati loro addosso, non sono completamente inariditi dalla povertà e dallo squallore del dibattito in formato televisivo, non hanno il cervello lobotomizzato dalle cretinate che vengono loro imbandite, a pranzo e a cena, perché si ritiene siano l’unico cibo di cui si nutrono: hanno solo bisogno di incontrare ogni tanto gente seria, alla Marsilio, che crede nel proprio lavoro e non ti lascia alibi per l’ignoranza.

La verità è che ne abbiamo un gran bisogno tutti. Dopo settimane di titoli gridati sui giornali e nei telegiornali, di diagrammi in caduta a picco, di economisti da salotto televisivo, ho capito in una sola lezione da dove arriva la tempesta. Per quanto riguarda le conseguenze sono inerme come prima: ma almeno ho goduto di due ore d’esercizio dell’intelligenza. E non è poco.

 

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Il piacer vano

di Giuseppe Schepis, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996

Nella società contemporanea il mercato sembra essere rimasto l’unico sistema economico possibile. Al centro di esso – protagonista assoluta – la merce. Val la pena allora di tornare ad analizzare l’essenza della regina incontrastata del nostro tempo, rispolverando la teoria marxiana sul feticismo delle merci. Questa, a grandi linee, è nota a tutti, ma anche a rischio di essere pedanti è bene riprenderla brevemente per vedere se si siano verificati cambiamenti economici da quando è stata formulata ad oggi. Si parta dal fatto che la realizzazione di ciò che, in maniera molto generica, possiamo definire merce, è nata dalla necessità di soddisfare i bisogni che la specie umana, lungo la sua evoluzione fisica e culturale, si è trovata ad avere. Questi bisogni – i più svariati – possono essere sia di natura materiale che di natura intellettuale: non faremo da qui in poi differenze di merito dato che l’uomo, animale il cui intelletto è enormemente sviluppato, ha comportamenti appetitivi nei confronti di ambedue le categorie di “cose”.

Un oggetto dunque, qualunque sia la sua natura, ha un certo valore correlato alla sua possibile utilità per i membri della specie umana. Il suo valore è così legato alla capacità di soddisfare delle esigenze, ma si verifica – spesso – che oggetti capaci di uguali prestazioni abbiano un valore di mercato profondamente diverso. Possiamo lambiccarci più e più volte il cervello, senza riuscire a trovare nulla che li differenzi se non il valore di mercato e la complessità produttiva; nasce così il sospetto che queste ultime due grandezze siano strettamente correlate tra di loro e solo minimamente dipendenti dall’oggettivo valore della merce. Ma allora cosa dà alla merce il suo valore di mercato, se non direttamente la sua capacità di soddisfare bisogni come logica imporrebbe, e perché due oggetti con analoghe possibilità di utilizzo devono avere uno un dato valore di mercato e l’altro un valore magari superiore? L’arcano è facilmente risolto: per realizzare il primo occorrono meno ore di lavoro, si hanno minori scarti di lavorazione, necessitano un numero inferiore di Kwh di energia e simili. Il secondo oggetto, quindi, vale più del primo solo perché è stata necessaria alla sua foggia una maggiore quantità di “lavoro di produzione”. Così il feticcio del lavoro speso nella produzione diventa una delle qualità dell’oggetto e lo segue nel suo viaggio attraverso il mercato. Così la merce viene caricata di un significato sociale che nulla ha più a che vedere con il reale valore legato all’utilizzo e che esiste solo all’interno della società stessa. Senza le convenzioni sociali borghesi questo secondo valore sparirebbe di colpo, non essendo intrinseco agli oggetti. È già stato detto da voce ben più autorevole dei danni provocati dal verificarsi di questo, di come così l’uomo diventi funzionale ai bisogni della produzione e non viceversa – come sarebbe auspicabile e logico – la produzione funzionale al soddisfacimento dei bisogni umani. Si aggiunga che esiste un altro aspetto: il valore feticistico spesso riesce a nasconderci le qualità reali delle cose; il primo, che è semplicemente involucro, ci nasconde ormai l’essenza, aggiungendo inganno ad inganno e facendo sì che non si riesca nemmeno a cogliere appieno i benefici che un oggetto – fisico o intellettuale – può darci.

Tutto questo è reso poi ancora più devastante dal fatto che, massimamente nella società contemporanea, oltre ai bisogni reali se ne manifestano altri indotti dal sistema – che così tenta di autoalimentarsi – sempre in quantità crescente. Così la pubblicità veicolata in tutti i mezzi di comunicazione di massa è come ossigeno per il mercato: lo vivifica arrivando ad ogni cellula elementare (il cosiddetto consumatore), fino a far prosperare questo tumore maligno che con le sue metastasi sta sostituendo completamente quelle che dovrebbero essere le cellule sane – ben differenti – di un organismo degno del nome di società umana. È bene sottolineare che anche le risorse economiche spese nel pubblicizzare un prodotto diventano, schizzofreneticamente, valore feticistico aggiunto di questo.

Forse se riuscissimo a togliere le lenti deformanti che il mercato ci ha messo davanti agli occhi, apprezzando così solo l’essenza di ciò che ci circonda, potremmo arrestare il moto dell’ingranaggio in cui siamo presi e da cui rischiamo di essere dilaniati; spinti verso l’autodistruzione da un sistema per sua natura non regolato, rischiamo di far scomparire la nostra civiltà e di arrecare seri danni al pianeta che ci ospita.

Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni.
GIACOMO LEOPARDI

 

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