Ernesto De Martino, il nichilismo e noi

con postfazione 2025

di Giuseppe Rinaldi, 12 novembre 2025

Il breve saggio di Beppe Rinaldi che proponiamo non avrebbe bisogno, come del resto gli altri qui comparsi in precedenza, di alcuna presentazione: è già tutto lì. Ma io, che sono incorreggibile, ne approfitto una volta di più per ribadire il concetto che sta alla base dell’esistenza di questo sito: e cioè che l’informazione, la cultura, ogni forma di conoscenza, così come ogni altro mezzo di sopravvivenza, bisogna guadagnarseli. Nella fattispecie, leggendo il testo con la dovuta attenzione, e là dove rispetto a qualche nome, a qualche opera o a qualche movimento non si abbiano i necessari riferimenti, andando a recuperarli. Magari facendo anche un po’ di fatica (la fatica non è una maledizione divina, ma il modo naturale per tutte le specie animali di stare al mondo): che è anche quanto Rinaldi sostiene quale antidoto al nichilismo.

Con questo credo di rispondere a qualche nostro lettore (avete letto bene, qualcuno c’è) che lamenta una marcata discrepanza tra gli argomenti trattati nel sito, nonché nel modo di trattarli. Ora, il concetto è che, si parli di fumetti, di cinema, di scampagnate, di viaggi o di libri di viaggio, oppure si affrontino tematiche più complesse, inerenti la filosofia, la sociologia, la scienza e i suoi derivati tecnologici, a tenere assieme il tutto, e anzi, a spiegare come il tutto si tenga assieme, c’è sempre la volontà di rendere partecipe chi ci segue: intendendo la partecipazione nella valenza più letterale, attiva. Non siamo al ristorante, ma ad una cena tra amici, una volta si sarebbe detto ad un “convivio”, e tutti devono fare del loro meglio: che si traduce nel cercare di farsi capire il più possibile da parte di chi scrive, e nello sforzarsi di capire il più possibile da parte di chi legge. E magari di scrivere a sua volta, se qualcosa non lo convince.

Qui non si dispensa cultura, non si offrono frutti maturi, e neppure si ha la pretesa di insegnare a coltivare l’intelletto: saremmo già felici se riuscissimo a trasmettere lo stimolo a farlo. (P. R.)

1. In un volume[1] collettaneo di Ernesto de Martino, intitolato Furore, simbolo, valore, si trova un breve articolo intitolato Furore in Svezia, che contribuisce al titolo stesso della raccolta. Il furore cui si fa riferimento è un episodio accaduto nel 1956, durante il capodanno, nel centro di Stoccolma: cinquemila adolescenti abbigliati con giubbe di cuoio si erano scatenati e avevano tenuto la strada, molestando i passanti, rovesciando automobili, frantumando le vetrine ed erigendo barricate. Si ebbero scontri violenti con la polizia, si contarono numerosi feriti e molti arresti. Fenomeni analoghi, seppure di minore intensità, si erano ripetuti in quel periodo, nel fine settimana, nel centro di Stoccolma e in altre città svedesi. Il lettore odierno non fa alcuna fatica ad andare con la memoria a episodi analoghi, anche ben più gravi, accaduti nei tempi successivi, fino ad oggi, sia nel nostro paese sia altrove. Si tratta di episodi violenti che si caratterizzano per la loro apparente assoluta mancanza di senso.

2. Già de Martino osservava: «Si tratta di pure e semplici esplosioni di aggressività senza premeditazione e senza organizzazione, senza capo e senza scopo. Gli episodi di violenza non insorgono per qualche cosa e contro qualcuno: inesplicabilmente, come per un richiamo misterioso, gruppi di adolescenti e di giovani, dai quindici ai vent’anni, senza conoscersi tra loro e nulla avendo in comune tranne l’età, formano banda temporanea ed entrano in furore distruttivo. […] Questi ribelli senza causa non si propongono rapina o vendetta nel senso comune di queste parole: sono mossi da un impulso di annientamento delle persone e delle cose, vogliono ridurre in cenere il mondo, far sfoggio della loro potenza di eversione. Nessun legame interpersonale nasce da tali tempestosi assembramenti, da queste orge di furore: le bande temporanee si sciolgono così come si sono formate, senza lasciare traccia di rapporti oltre la scarica distruttiva»[2].

3. Naturalmente già all’epoca in cui scriveva De Martino erano stati avanzati vari tentativi di spiegazione di questi fenomeni. Egli sottolineava tuttavia la non esaustività delle spiegazioni economiche (i giovani in questione non condividevano la stessa condizione sociale, non si trovavano cioè in situazioni sociali ed economiche particolarmente critiche), come pure delle spiegazioni incentrate sull’eccesso di benessere svedese, oppure sulla solitudine delle alte latitudini dovuta ai ritmi naturali della giornata (freddo, mancanza di luce) e invocava l’esigenza di ricorrere al contributo dell’etnologia e della storia delle religioni per comprendere meglio il fenomeno: «Dal punto di vista dell’etnologia e della storia delle religioni il capodanno di Stoccolma e altri episodi affini perdono il loro carattere più preoccupante di assoluta eccezionalità e si manifestano come un pericolo che tutte le epoche e tutte le civiltà hanno dovuto fronteggiare, con maggiore o minore successo. Questo pericolo è l’angoscioso essere afferrati dalla nostalgia del non-umano, è l’impulso a lasciar spegnere il lume della coscienza vigilante e ad annientare quanto, nell’uomo e intorno all’uomo, testimonia a favore dell’umanità e della storia. […] L’etnologia e la storia delle religioni confermano largamente la tesi secondo cui una delle funzioni fondamentali della civiltà consiste nel controllo e nella risoluzione di ciò che Freud chiamò “istinto di morte”, cioè l’abdicazione della persona come centro di decisione e di scelta secondo valori, la tendenza a cancellare dall’esistenza quanto esiste, la cieca tentazione della eversione e del caos, la nostalgia del nulla»[3].

4. Insomma, de Martino ipotizzava una specie di patologia, propria dell’animale culturale, che consiste giusto nel disancoramento dalla propria cultura (che de Martino considerava un artefatto storico) o, se si preferisce, nel disancoramento dal proprio Mondo, e nella conseguente messa in opera di comportamenti distruttivi nei suoi stessi confronti. In seguito al venir meno del legame con la cultura, che dà forma alla storicità delle varie comunità e che dunque così contribuisce a definire i comportamenti e le identità dei singoli, si spalancherebbe l’abisso primordiale dell’assoluto negativo.

Questa condizione, si badi bene, non ha nulla a che fare con l’istinto meccanico dell’animale, regolato e selezionato per secoli dall’evoluzione, che non ha nulla di distruttivo, ma è una situazione potenziale specifica degli umani, nel cui orizzonte culturale può prendere forma qualunque aberrazione distruttiva, contro qualsiasi cosa abbia un significato culturale compiuto, in termini di limitazione, di coerenza, di convenzione, di durata. Ciò può implicare la distruzione di qualsiasi cosa sia comunemente considerata come dotata di valore. Invece di realizzare se stessi in termini costruttivi, attraverso le diverse forme valoriali che la cultura mette a disposizione, si cerca di costruire e mantenere una propria momentanea identità attraverso la distruzione, più o meno sistematica, del prodotto culturale storico che una società è riuscita a mettere insieme.

Non si tratta dunque di una manifestazione culturale nuova, una qualche forma di cultura critica radicale o alternativa, il tentativo di criticare un qualche valore che istituisce un particolare mondo dell’esserci, ma di un gesto distruttivo nei confronti di quello che c’è, di ciò che è condiviso dalla gran parte dei membri di una società. Si tratta di un gesto semplicemente regressivo che evoca modalità infantili e/o primitive di rapporto con l’oggetto e con gli altri.

5. Questa possibilità, insita nell’animale culturale, si scontrava con l’ottimismo storicistico, professato dallo stesso De Martino, secondo il quale, la storia sarebbe il campo della realizzazione costruttiva, o dell’ethos del trascendimento – come egli si esprimeva attraverso il suo linguaggio fenomenologico esistenzialistico. Il furore è dunque un comportamento del tutto possibile per l’animale uomo, un comportamento attraverso il quale l’uomo non riconosce più il proprio stesso patrimonio culturale e lo vandalizza e devasta. Un comportamento determinato da una sorta di affermazione di sé attraverso la produzione del caos, attraverso lo scoperchiamento del nulla, il bisogno di mostrare il nulla che abita sotto la sovrastruttura culturale, di vanificare come illegittimo qualsiasi ordine di valore instaurato. Insomma, la disgregazione al posto della realizzazione costruttiva.

6. De Martino osservava, nel suo articolo, che nelle società arcaiche e nelle civiltà del mondo antico l’abisso primordiale che inevitabilmente si rivela quando viene meno l’identificazione basilare con la propria cultura era ben noto. Esso era considerato come qualcosa di molto pericoloso, tanto che veniva circoscritto e ritualizzato. Egli fa l’esempio del capodanno babilonese, oppure dei Saturnali romani, oppure ancora delle tradizioni carnevalesche.

Così racconta de Martino: «Nel capodanno babilonese il rito disfaceva il tempo trascorso nell’anno spirante, cancellava per così dire la storia che si era accumulata, ed esprimeva un regresso all’epoca mitica delle origini, quando il caos dominava e il cosmo non era ancora stato fondato. In rapporto a questo schema tecnico il rito comportava aspetti di distruzione e di annientamento dell’ordine sociale vigente, come l’umiliazione e l’abbassamento della stessa potenza regale, la simbolica trasformazione degli schiavi in padroni, la violenta eliminazione dei mali fisici e morali contratti nel corso dell’anno spirante, e infine la instaurazione dell’indistinzione originaria del caos. Ma il rito includeva anche l’opposto momento della reintegrazione dell’ordine, e del ripristino dei valori sociali e morali: veniva infatti rappresentata la lotta dell’eroe Marduk contro il mostro marino Tiamat, con la vittoria finale dell’eroe e la fondazione primordiale del cosmo. In tal modo lo schema mitico – rituale del capodanno babilonese consentiva all’impulso di morte di manifestarsi attraverso eversioni e inversioni annientatrici dell’ordine vigente: ma gli impulsi distruttivi non erano fatti valere sul piano realistico, ma su quello simbolico del rito, e soprattutto la vicenda riceveva il suo senso dalla ripetizione del dramma della creazione e della reintegrazione di un ordine nuovo senza macchia, uscito per la prima volta dal caos»[4].

Carattere comune di questi espedienti di manipolazione del nulla e di reintegrazione del significato, di questi artefatti culturali di morte e rinascita, sono la durata circoscritta nel tempo, la cancellazione temporanea dei ruoli e delle barriere sociali, lo scatenamento emozionale, il sacrificio o la distruzione di qualche entità simbolica, la narrazione di miti legati alla questione dell’ordine e del disordine, la reintegrazione dell’ordine. Insomma, si tratta di un modo per evocare l’abisso senza farsene travolgere, un modo per circoscriverlo e per produrre una reintegrazione culturale.

7. In mancanza di una capacità diffusa di reintegrazione, può sopravvenire il fascino del nulla, il nichilismo. Così De Martino aveva interpretato la crisi culturale del periodo del secondo dopoguerra. «È da tempo che una cupa invidia del nulla, una sinistra tentazione da crepuscolo degli dèi dilaga nel mondo moderno come una forza che non trova adeguati modelli di risoluzione culturale, e che non si disciplina in un alveo di deflusso e di arginamento socialmente accettabile e moralmente conciliabile con la coscienza dei valori umani faticosamente conquistata nel corso della millenaria storia di Occidente»[5].

8. De Martino dunque ci avverte che le culture, tutte le culture, anche le più complesse, sono estremamente fragili, che la connessione che si stabilisce tra i corpi biologici e il patrimonio culturale che vien costantemente elaborato e accumulato è estremamente labile, che la cultura, la quale ha il compito di dirigere attraverso i propri valori il comportamento umano, è in fondo un costrutto artificiale, un prodotto non necessario della storia, che avrebbe potuto essere completamente diverso da quello che ci ritroviamo. Si tratta di una forma di rappresentazione o, se si preferisce, addirittura di una illusione, come direbbero volentieri diversi filosofi continentali. Ammesso che così sia, si tratta tuttavia di un’illusione necessaria, poiché quello che siamo in quanto umani è esattamente il costrutto culturale che siamo in grado di produrre e di mantenere, senza farci troppo ammaliare dal fascino dell’abisso.

Postfazione 2025

1. Lo scritto antropologico di Ernesto De Martino, che ho testé presentato e analizzato, ha ben poco a che fare con la tradizione continentale che si è occupata del nichilismo in quanto categoria filosofica. Mi riferisco alla tradizione che ha tra i suoi esponenti principali Nietzsche ed Heidegger, seguiti da una schiera di epigoni. Dato che De Martino, nel suo saggio sul nichilismo, ha preso le mosse dalle manifestazioni del disagio giovanile degli anni Cinquanta, ho pensato di metterlo a confronto con Umberto Galimberti, un rispettabile seguace di Nietzsche e Heidegger, che ha trattato anch’egli della tematica del rapporto tra il nichilismo e i giovani. Credo che il raffronto possa risultare piuttosto utile, anche al fine di chiarire alcuni concetti fondamentali riguardanti il ruolo delle marche emotive e del simbolismo nella costruzione della coscienza collettiva e dell’ordine morale della società. Ciò mi permetterà, indirettamente, di distinguere tra quel che è la teoria sociale, invero oggi piuttosto misconosciuta, e quel che sono certe favole filosofiche che sono invece piuttosto di moda.

2. De L’ospite inquietante[6] – che porta come sottotitolo Il nichilismo e i giovani – di Galimberti mi sono occupato fin dal 2007, quando il volume è uscito. Questo perché lo scritto possiede almeno due livelli di lettura. Il primo è quello dell’instant book sui problemi della condizione giovanile, dove si compiono diverse analisi e considerazioni a partire dai fatti di cronaca e dalla ricognizione di vari elementi empirici relativi al disagio e alla violenza giovanile[7]. A quell’epoca era questo il livello che mi aveva soprattutto interessato, poiché ero allora impegnato in una ricerca sociologica sui giovani. Il secondo livello di lettura, quello più sottile e forse più sfuggente, riguarda invece proprio la questione filosofica del nichilismo. Nell’impianto del saggio di Galimberti, il concetto teorico filosofico del nichilismo – com’è stato elaborato da Nietzsche e Heidegger – viene ampiamente utilizzato in termini esplicativi per dar ragione del disagio giovanile e per proporre addirittura una soluzione che dovrebbe condurre oltre il nichilismo. Qui, indubbiamente, la filosofia si fa antropologia, sociologia, psicologia e soprattutto tecnica terapeutica per curare i mali del mondo. Più volte, nel suo scritto, Galimberti manifesta una certa sufficienza nei confronti delle scienze umane che – in quanto scienze – sarebbero incapaci di fare effettivamente fronte ai problemi dei quali si occupano. Più efficace sarebbe, appunto, la filosofia, almeno quella che intende Galimberti. Questo secondo piano di lettura è quello di cui mi occuperò in questa sede.

3. Non mi occuperò quindi della questione effettiva del disagio giovanile e/o della violenza insita in taluni comportamenti giovanili, argomenti di cui comunque è pervaso il libro di Galimberti, a proposito dei quali va comunque riconosciuto che egli è in grado di fare una miriade di osservazioni senz’altro intelligenti e interessanti. Mi occuperò piuttosto della teoria filosofica sottostante e quindi, indirettamente, dell’annosa questione dell’uso possibile delle teorie filosofiche a fini terapeutici. Vedremo purtroppo come la terapia proposta da Galimberti finisca per costituire essa stessa una delle cause, forse la più importante, della malattia che egli intende curare.

4. Dati i miei scopi, del saggio di Galimberti esaminerò qui soprattutto l’introduzione e le conclusioni. Fin dalle prime battute, Galimberti propone la sua versione del nichilismo: «[…] i giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive ed orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui»[8].

Galimberti dice con chiarezza che il disagio di cui parla è di natura culturale: «E questo perché se l’uomo, come dice Goethe, è un essere volto alla costruzione di senso (Sinngebung), nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde il disagio non è più psicologico, ma culturale. E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un’implosione culturale di cui i giovani, parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato, sono le prime vittime»[9].

5. Insomma, abbiamo ormai una catastrofe culturale alle spalle e la condizione odierna dei giovani sarebbe soltanto una conseguente manifestazione di quanto è già accaduto. Se questo fosse vero, ogni questione di rimedi sarebbe fuor discussione: «Se il disagio giovanile non ha origine psicologica ma culturale, inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura, sia nella versione religiosa perché Dio è davvero morto, sia nella versione illuminista perché non sembra che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini, se non in quella formula ridotta della “ragione strumentale” che garantisce il progresso tecnico, ma non un ampliamento dell’orizzonte di senso per la latitanza del pensiero e l’aridità del sentimento. Le pagine di questo libro non indicano un rimedio di facile ed immediata attuazione. E già questa ammissione di impotenza la dice lunga sulla natura del disagio che, lo ripeto, non è esistenziale ma culturale»[10].

Mi permetto di osservare en passant che le teorie che individuano nella storia un qualche peccato originale funzionano tutte più o meno così. Si tratta anzitutto di individuare dove e quando è avvenuto il fattaccio che a tutt’oggi ci condiziona da vicino e ci impedisce di essere quel che vorremmo o dovremmo essere. Dopo avere fatto con sicurezza la diagnosi, si tratterebbe allora di cercare un rimedio, a proposito del quale, tuttavia, si può essere anche piuttosto vaghi e possibilisti. Ci si può anche limitare a evocare vaghe speranze. Ad aspettare qualche forma di salvazione. O a concludere che non c’è più niente da fare.

6. Nel caso di Galimberti e del nichilismo, la diagnosi è piuttosto precisa: in estrema sintesi è tutta colpa della ricerca esasperata di un senso, la quale ricerca è in corso non da ieri, ma fin dagli inizi della tradizione giudaico cristiana. Più o meno, si tratterebbe di un problema che sussiste fin dagli albori della civiltà, o fin dalla creazione biblica, per quelli che la considerano seriamente.

Nonostante il fatto che la questione, messa così, assuma decisamente una prospettiva epocale cosmico storica, Galimberti, con un guizzo creativo, prospetta comunque il suo rimedio: «E se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per dirla in greco, del proprio “daimon” che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco “eudaimonia”? In questo caso il nichilismo, pur nella desertificazione di senso che porta con sé, può segnalare che a giustificare l’esistenza non è tanto il reperimento di un senso vagheggiato più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre effettive capacità, quanto l’arte del vivere (téchne tou biou) come dicevano i Greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità (gnothi seauton, conosci te stesso) e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà métron). Questo spostamento dalla cultura cristiana a quella greca potrebbe indurre nei giovani quella gioiosa curiosità di scoprire se stessi e trovar senso in questa scoperta che, adeguatamente sostenuta e coltivata, può approdare a quell’espansione della vita a cui per natura tende la giovinezza e la sua potenza creativ[11].

7. Galimberti avanza dunque l’ipotesi (invero piuttosto azzardata) che la ricerca del senso (che secondo lui è caratteristica specifica non degli umani in generale bensì della tradizione culturale giudaico cristiana) potrebbe essere la causa principale stessa del disagio nichilistico, non solo dei giovani attuali, a questo punto, ma dell’intero Occidente. Stiamo male proprio perché siamo costantemente alla ricerca del senso. Il nichilismo che ci attanaglia sarebbe solo la conseguenza estrema della nostra malata ricerca del senso. L’interpretazione di Galimberti qui segue ovviamente Nietzsche più o meno alla lettera.

In alternativa alla prosaica ricerca del senso, destinata a non avere alcuna soddisfazione, destinata anzi a generare proprio il nichilismo, Galimberti propone un ritorno ai Greci. La cosa suona, a prima vista, davvero un poco bizzarra, poiché, per la maggior parte delle persone appena un po’ acculturate, la tradizione giudaico cristiana, è nota proprio per avere incorporato la cultura greca. Dunque la perniciosa “ricerca esasperata di senso” si sarebbe manifestata fin da subito anche e soprattutto presso i Greci. Del resto, la filosofia occidentale, nella comune accezione, si è sempre occupata della ricerca del senso. Fin dai filosofi presocratici.

8. Ma allora, cosa vuol dire Galimberti? Di quali Greci sta parlando? Galimberti è piuttosto ambiguo, poiché parla di un non ben precisato daimon che i giovani dovrebbero imparare a scoprire dentro di sé e a coltivare. Cosa è l’arte del vivere di cui parla? Come dobbiamo intendere lo gnothi seauton? Apparentemente, il discorso di Galimberti sembrerebbe essere di tipo socratico, ma allora non avrebbe senso contrapporlo così decisamente alla cultura giudaico cristiana. In realtà Galimberti ha in mente una ben precisa interpretazione anti cristiana (e antisocratica) della cultura dei Greci, cioè quell’interpretazione alquanto discutibile che ha origine nella romantica Nascita della tragedia di Nietzsche e che poi si è sviluppata, attraverso la filosofia continentale successiva, in Heidegger e nei suoi epigoni[12]. Il recupero del daimon interiore, la pratica dell’arte di vivere, la condanna della ricerca del senso, fanno più che altro riferimento a Dioniso, che per Nietzsche era l’antagonista per eccellenza di Socrate. Il lato alternativo alla cultura greca ufficiale.

9. Solo sotto la luce nera di Dioniso si comprendono, nel fraseggio di Galimberti, “la gioiosa curiosità di scoprire se stessi”, l’ “espansione della vita” e la “potenza creativa” della giovinezza. L’unico elemento, tra quelli citati, che sarebbe estraneo al dionisiaco è il katà métron, che è senz’altro una concessione al socratismo. Qualsiasi misura, infatti, implica, di già, la definizione di un qualche senso. Forse si tratta di un’allusione a quello che, secondo Nietzsche, sarebbe stato il breve momento miracoloso della sintesi tragica tra apollineo e dionisiaco. Galimberti recupererà, nel seguito delle sue argomentazioni, proprio i tratti salienti di una analoga sintesi, o avvento di una condizione di equilibrio instabile, che egli ritrova nelle nozioni da lui proposte del nomadismo e dell’etica del viandante. Cioè, di un pensiero e di un’etica capaci di operare senza alcun punto fisso di riferimento.

Noi nel nostro piccolo avevamo sempre pensato, invece, che coloro che son colpiti dal nichilismo avessero per lo meno bisogno, per uscirne, di qualche punto fisso di riferimento. O al più rimpiangessero di non averne uno. Come ognun vede, quella di Galimberti costituisce un’indicazione piuttosto paradossale, e cioè di procedere a un alleggerimento della cultura, proprio in un’epoca nella quale avremmo decisamente bisogno di più cultura. Un invito a lasciar andare via anche quel poco di senso che c’è rimasto, convinti che l’epoca del senso sia ormai irrimediabilmente finita e, soprattutto, convinti che nel flusso del pensiero e dell’etica nomade staremo tutti senz’altro meglio.

10. Si tratta dunque, secondo Galimberti, di sostituire, alla ricerca considerata ormai vana e superata del senso della vita, una nuova nozione – che a noi parrebbe invero più romantica che greca – della vita come arte totale. Non tuttavia di un’arte meccanica si tratta, e neanche intellettuale, bensì di un’arte intesa come espressione di sé, ove soltanto si potrebbe realizzare il miracoloso equilibrio nomade tra daimon e métron. C’è un punto che a mio modesto avviso va precisato. Tutti coloro che fanno proposte simili, che credono fortemente nella vita come espressione, tendono a dare per scontato di aver dentro una incomparabile ricchezza nascosta, che stia lì, solo ad aspettare di venir fuori. Si tratta solo di togliere via gli impedimenti. In una versione democratica di queste teorie, tutti sarebbero egualmente ricchi di queste mirabili risorse interiori, dunque ci sarebbe abbondanza di speranza per tutti.

Per cui siamo spinti a concludere che la proposta terapeutico – culturale di Galimberti, proprio per i suoi presupposti, non può che risultare del tutto inconsistente. A chi manifesta o denuncia, più o meno consapevolmente, di avere il vuoto dentro, Galimberti sembra prescrivere qualcosa come: «Esprimi quello che hai dentro». O, peggio: «Diventa quello che sei». Quello che hai dentro, oppure quello che sei allo stato originario – a meno che tu non pensi di essere un Dio – altro non è se non il coacervo magmatico delle emozioni, l’istinto di branco dell’animale, il complesso disparato di tutti gli impulsi grezzi, come questi sono prima che siano resi consapevoli ed educati in un contesto culturale qualsiasi. Il risultato di simili prescrizioni, un effetto perverso vero e proprio, non può essere allora altro che proprio il furore di cui parlava De Martino. La terapia culturale proposta da Galimberti potrebbe alimentare e aggravare la malattia culturale stessa che invece egli intenderebbe curare.

11. La strada proposta da Ernesto De Martino è decisamente un’altra. Il nichilismo, lo sprofondamento nel nulla, è un pericolo esistenziale cui è continuamente esposto l’animale culturale umano. Questo accade perché sotto la coperta della cultura – la sola che ci rende quel che siamo – c’è solo la nostra natura animale, positiva e pregevole fin che si vuole, ma pur sempre animale. Quando, per qualche motivo estrinseco, si affloscia l’orizzonte di senso che ci viene dalla cultura – allora perdiamo la storicità, perdiamo cioè il fine, perdiamo il senso dei valori, il senso del nostro impegno nella società e il senso della nostra prassi nella storia. Perdiamo la nostra stessa individualità. Non sappiamo più donde veniamo, chi siamo, dove andiamo. È questo un rischio costante cui l’animale uomo è da sempre sottoposto, poiché esso è – appunto – l’animale culturale per eccellenza. Occorre allora esser consapevoli di questa specifica condizione umana e procedere, di conseguenza, a un’opera costante di reintegrazione, cioè a una opera di manutenzione dei rapporti che intercorrono tra la nostra parte culturale e sociale (quella che è stata definita come l’altro generalizzato[13]) e la nostra parte animale (la natura di cui facciamo indissolubilmente parte).

12. Questa manutenzione dei rapporti tra natura e cultura, dice De Martino, non può limitarsi a essere di tipo meramente individuale, perché andando a scavare nella carne della nostra natura individuale, troveremo sempre e soltanto lo stesso nulla che vi trovano tutti. O, se vogliamo, potremmo trovare quelle poche cose elementari che l’evoluzione ha fatto per noi[14]. La manutenzione del rapporto natura/ cultura non è dunque un fatto privato e personale, deve invece passare necessariamente attraverso i rituali collettivi della cultura stessa. La reintegrazione non può che avvenire attraverso la dimensione simbolica, che è sempre culturale e collettiva, anche quando viene interiorizzata dai singoli. Anche quando ce ne dimentichiamo.

13. L’emersione del vuoto nelle nostre vite, cosa che talvolta ineluttabilmente avviene, non è dovuta all’ospite inquietante di Galimberti, nato dalla tracotanza assiologica giudaico cristiana risalente a svariati secoli or sono. È dovuta alla nostra fortuita e sopravvenuta incapacità nell’uso dei rituali collettivi di reintegrazione a livello simbolico[15]. De Martino, riferendosi alle società semplici, parla in tali casi di cerimonie tribali, parla del carnevale o dei Saturnali. Trasferendo tuttavia l’equivalente di questi rituali nella nostra società occidentale, complessa e tecnologica, i problemi si complicano. Perché cose come il rischio della presenza e la perdita della storicità assumono aspetti del tutto nuovi e imprevisti. E di enorme portata. E così, oggi, l’esigenza dei rituali di reintegrazione si presenta in forma allargata e totalmente nuova. Rispetto alle società primitive, i problemi che abbiamo oggi hanno a che fare in gran parte con l’affievolimento (o la complicazione) dei rituali collettivi in presenza, quelli che chiamiamo face to face. Sono questi i rituali della vita quotidiana di cui ha ampiamente trattato l’interazionismo simbolico. E questi hanno a che fare, anche e soprattutto, con varie forme di sconnessione, nella nostra esperienza, tra le marche simboliche e le marche emotive. È bene ricordare che le marche emotive sono proprio quelle che – dentro di noi – regolano il rapporto tra natura (il corpo) e cultura (il simbolismo collettivo).

14. È da notare che la sconnessione tra l’emotivo e il simbolico si presta a essere molto più frequente in una società complessa piuttosto che in una società semplice. Nelle società semplici difficilmente si sfugge alla mobilitazione delle emozioni intorno al patrimonio simbolico riconosciuto immediatamente da tutti a livello locale. Nelle società complesse, invece, il simbolismo acquista un volume e una autonomia enormi e così può accadere che la dimensione emozionale, collettiva e individuale, venga facilmente sconnessa, oppure possa anche trovare una moltitudine di connessioni improprie.

Basti ricordare come l’isolamento forzato del covid abbia fatto scoprire, a una moltitudine di studenti, solitamente distratti da mille cose, l’essenzialità del rapporto in presenza con gli insegnanti e con la propria classe. Basti ricordare che, di fronte alla crescita degli episodi di violenza tra i giovani, da più parti si richiede l’adozione di una sorta di educazione affettiva, obbligatoria e gestita dalla scuola pubblica. Oppure si ricordi la devastazione operata dagli smartphone, nell’ambito dei rapporti face to face, nei confronti di intere nuove generazioni, come è stato comprovato dagli ormai celebri lavori di Twenge e Haidt. Oppure, ancora, si pensi ai danni colossali per la democrazia causati dal progressivo affievolimento dei rituali formali e informali della partecipazione politica. Ma va notata anche la comparsa di nuovi rituali collettivi decisamente perniciosi – che si servono magari anche delle nuove tecnologie – come quelli del razzismo o del populismo, o di movimenti demenziali come QAnon.

15. Si tratta allora di prendere consapevolezza, di comprendere fino in fondo, anche nel dettaglio delle micro interazioni, come avvenga effettivamente la sempre avventurosa e mai garantita costruzione dei legami sociali e culturali, quei legami che – soltanto loro – sono in grado di tenere a bada il nichilismo, cioè il vuoto di senso. Come avvenga la costituzione stessa della società come entità morale (il termine è di Durkheim). E quali siano invece le forze disgregatrici cui le società vecchie e nuove, sono sottoposte. Le risposte dell’antropologia culturale, della psicologia sociale, della sociologia e della linguistica sono ormai abbastanza chiare e convergenti. Sulla linea di De Martino, disponiamo oggi di una tradizione teorica che comprende figure decisive come Durkheim, Mauss, GH Mead, Merton, Geertz, Goffman, Douglas, Collins, solo per citarne alcune. Abbiamo dunque ormai un’ampia disponibilità di elementi di teoria sociale con cui possiamo effettivamente affrontare i problemi della costruzione del senso, della solidarietà sociale e delle identità collettive. Evitando accuratamente i danni dei deragliamenti nichilisti alla Galimberti. Qui, per esser questa una postfazione, non mi posso dilungare oltre. Se ci sarà qualche interesse, avrò modo eventualmente di tornare su queste tematiche.

OPERE CITATE

1962 De Martino, Ernesto, Furore, simbolo, valore, Feltrinelli, Milano.

2007 Galimberti, Umberto, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano.


[1] Il suggerimento di procedere alla pubblicazione di questo saggio è nato nell’ambito di una discussione, presso Città Futura, ove era emersa l’esigenza di meglio comprendere i fenomeni, sempre più dilaganti e preoccupanti, del disagio individuale, della aggressività e della violenza. Spero che, con tutti i suoi limiti, esso possa fornire un qualche utile contributo. Questo saggio è stato da me originariamente pubblicato sul sito Finestre rotte il 14/10/2012, con il titolo de L’illusione necessaria. Ha poi subito alcuni rimaneggiamenti, fino alla versione che qui presento, con una nuova titolazione, meno metaforica e più aderente al contenuto. Alla nuova versione mi è sembrato utile aggiungere una postfazione, relativamente ampia, che ha come principale oggetto il confronto tra la nozione del nichilismo demartiniano con quella, opposta, del nichilismo filosofico, come trattato nell’ambito della tradizione nicciano – heideggeriana. In questo confronto mi sono servito del saggio L’ospite inquietante di Umberto Galimberti. In calce, ho inserito qualche breve considerazione sui rituali collettivi di reintegrazione come sono oggi concepiti e concepibili nell’ambito delle scienze umane. Nella scrittura non ho utilizzato strumenti di AI.

[2] De Martino, 1962: 225-226.

[3] De Martino, 1962: 227.

[4] De Martino, 1962: 228.

[5] De Martino, 1962: 231.

[6] Cfr. Galimberti 2007.

[7] All’epoca, l’opinione pubblica era stata scossa dai famosi lanci di sassi dal cavalcavia, azione altrettanto priva di senso delle devastazioni di Stoccolma di cui parla De Martino.

[8] Cfr. Galimberti 2007: 11.

[9] Cfr. Galimberti 2007: 12.

[10] Cfr. Galimberti 2007: 13.

[11] Cfr. Galimberti 2007: 14. Le traslitterazioni dal greco sono di Galimberti stesso.

[12] Che questo sia esattamente ciò che ha in mente Galimberti è piuttosto inequivocabile. Soltanto per brevità evito di esaminare, per filo e per segno, tutto il testo, del quale peraltro ho prodotto una ampia schedatura. A testimoniare dell’ispirazione nicciana in questo testo sta il fatto – dettaglio curioso ma significativo – che il penultimo capitolo sia dedicato alle emozioni e alla musica.

[13] Si tratta di un concetto elaborato nell’ambito dell’interazionismo simbolico.

[14] L’uomo, proprio perché è destinato evolutivamente ad avere necessariamente una cultura, è solo debolmente determinato e vincolato dal patrimonio istintivo genetico.

[15] Durkheim, nel suo noto saggio sul Suicidio, ha introdotto la nozione di anomia, che non cessa di essere discussa e utilizzata, seppure con modifiche e aggiornamenti.

Pubblicare?

di Paolo Repetto, 29 ottobre 2025

Un anatema ebraico, pochissimo conosciuto, recita: “Possa il mio nemico pubblicare un libro”. Non è un augurio, anche se lo sembra, né una professione di tolleranza: è una maledizione. Ora, io non so quanto questo detto sia antico o solo vecchio, e ignorando la lingua ebraica non posso che affidarmi alla fedeltà della traduzione nella quale lo conosco: ma so che poter determinare l’epoca in cui è stato coniato sarebbe tutt’altro che indifferente. Nel caso fosse molto antico infatti quel “pubblicare” andrebbe inteso come “scrivere”, piuttosto che diffondere tramite amanuensi in più copie, e per un popolo che è stato definito “il popolo del libro” mi pare un po’ fuori luogo. Anche se è poi vero che il sospetto nei confronti della scrittura era presente pure nella cultura greca (vedi Platone), e che per gli ebrei poteva essere tanto più giustificato, almeno nei confronti della scrittura “profana”, dall’esistenza di un testo sacro dettato da Dio stesso, da considerarsi quindi rispondente a ogni domanda, esauriente ogni dubbio, definitivo (salvo poi darne infinite interpretazioni).

Propendo dunque piuttosto per la seconda ipotesi, che quantomeno rende il concetto più funzionale a ciò di cui intendo parlare. Il problema a mio giudizio non sta infatti nello scrivere, ma proprio nel “pubblicare” (operazione che assume ben altro significato dopo l’introduzione della stampa), ovvero nel divulgare quanto si è scritto. Sono due cose diverse, mi pare ovvio, perché la seconda presuppone la prima – per ora, in attesa degli sviluppi dell’AI – mentre non vale il contrario: e tuttavia quasi sempre nel linguaggio corrente i due verbi vengono usati come sinonimi, mentre tali non sono. La differenza sta innanzi tutto nell’intenzione che muove alla scrittura, e poi nei contenuti e nella destinazione, che comportano scelte particolari nei modi e nei mezzi in cui sarà diffusa.

Voglio dire che, certo, chi scrive lo fa di norma per relazionarsi col presente e per lasciare traccia nel futuro, ma la scrittura può essere utilizzata anche in forma privata, per memorizzare, per chiarirsi le idee e metterle in ordine, per tenere un diario, per accompagnare un gesto o un regalo, oppure per fare arrivare la propria voce ad amici o confidenti, quando magari si diano poche possibilità di frequentazione. Ad esempio: l’uso che ne faccio io in questo momento, sfruttando una tecnologia che mi permette di dialogare facilmente con uno sparuto gruppo di persone che condivide i miei interessi, ovvero le mie domande e i miei dubbi, rappresenta il limite estremo dell’utilizzo “privato”.

Se si va oltre si accede invece ad un’altra dimensione, quella appunto del “pubblicare”, che come il termine suggerisce significa rendere intenzionalmente pubblico il proprio pensiero. E qui entrano in gioco finalità e ambizioni diverse. Io vorrei occuparmi nello specifico del caso di cui l’intenzione è di orientare o influenzare il pensiero altrui, offrendo al maggior numero possibile di sconosciuti delle “risposte”, delle interpretazioni del mondo e della storia che non possono essere controbattute direttamente, come avverrebbe in un colloquio. Nel formato stampa queste risposte assumono un’autorevolezza che è suggerita già visivamente dall’ordine, dalla nitidezza, dall’irreggimentazione delle righe e dei periodi sulla superficie della pagina. Insomma, la parola stampata incute rispetto, e questo consente di esercitare in qualche modo un potere. E anche se i mass media e le nuove tecnologie e modalità comunicative stanno rendendo obsoleta la stampa, credo che per il momento, e almeno per la mia generazione e per quella immediatamente successiva, l’autorevolezza del pensiero sia ancora legata alla divulgazione cartacea.

Naturalmente ci sono anche, e oserei dire soprattutto, altre finalità: quella pura e semplice di ottenere una qualche visibilità, ad esempio, o di trovare un modo per sbarcare il lunario: oppure, un po’ più ambiziosamente, di combinare il tutto e di proporre, alla maniera di Balzac, sia pure attraverso la finzione, un ampio quadro della reale condizione umana. Sarà il tempo poi a decidere della rilevanza e della sopravvivenza di qualsiasi testo, a farne o no “un classico”, o almeno un riferimento che vada oltre il presente.

Ma mi sto perdendo nelle ovvietà. Ciò che intendevo dire è che attualmente tanto la narrativa, più o meno “impegnata”, quanto la saggistica, rientrano allo stesso modo nei circuiti di un “mercato culturale” che ha acquisito una enorme rilevanza sia finanziaria che politica, e rispondono alle sue leggi, in primis a quelle della “spettacolarizzazione” (un mercato culturale in realtà è sempre esistito, ma senz’altro non aveva come caratteristica dominante quella della spettacolarità). Basti pensare ai tour promozionali cui senza alcun ritegno gli autori si sottopongono, compresi gli scienziati e i filosofi, andando a far marchette nei programmi televisivi, intervenendo ai festival o agli altri innumerevoli “eventi” imbanditi per platee di consumatori totalmente passivi e acriticamente fidelizzati, creando quelli che oggi si chiamano podcast, ecc….

Io ritengo esista però anche una terra di nessuno, quella che ospita i libri scritti non per fornire risposte preconfezionate, ma per suscitare domande, alle quali poi il lettore cercherà di rispondere con un percorso tutto suo. Questi sono per me i soli libri meritevoli di essere “pubblicati”, e non è qui il caso di dettagliare i criteri sui quali baso la distinzione. Emergeranno da soli nel prosieguo del discorso.

Vorrei però fosse chiaro che non auspico alcun tipo di censura preventiva o di esclusione o di protezionismo. Quello culturale è l’unico ambito nel quale sposo il libero mercato. D’altro canto ritengo che leggere e scrivere siano, almeno in linea di principio, le attività meno pericolose per sé e nocive per gli altri, e tra le più piacevoli, che un essere umano può svolgere. L’importante per il “consumatore” è avere sempre ben presente che di un “mercato” appunto si tratta, nel quale i banchi e gli scaffali traboccano di prodotti tra i quali può scegliere. Per come la vedo io, però, per poterlo fare è necessario auto-educarsi a un “consumo culturale” consapevole, e farlo per prove ed errori, prendendo le distanze da tutte le azioni “promozionali” di incentivazione alla lettura. Chi deve essere spinto o incentivato, per non dire precettato, a farsi un’idea, non sarà mai capace di scelte proprie.

Esistono dunque i normali prodotti da supermercato, quelli perennemente in offerta, di per sé abbastanza innocui, perché in fondo nessuno ci obbliga ad acquistarli e a leggerli. Ce ne sono invece altri che sempre all’interno di questo mercato si arrogano un ruolo di orientamento del gusto, si propongono come “bio”, garanti della nostra salute spirituale, e ci gratificano vellicando la nostra ambizione a sentirci al passo coi tempi, o anche un pochino avanti: questi, a dispetto della loro più o meno esplicita ambizione a diffondere sempre nuove e definitive “verità”, andrebbero comunque almeno conosciuti, se non altro per prenderne consapevolmente le distanze. E infine ne esistono altri ancora, che negli scaffali vengono confusi con tutto il resto, ma che bisogna imparare a riconoscere come genuini alimenti per la nostra crescita.

In questa ultima tipologia rientrano senz’altro le opere di George Steiner. Steiner è, assieme a Isaiah Berlin, l’ultimo dei veri “maestri” del ‘900. Uno che scrive: “Quello che mi sentirei di sostenere con fervore è questo: la fede (qualsiasi fede, n,d,r), o l’assenza di essa è, o dovrebbe essere, la parte costitutiva più privata, più gelosamente custodita di un essere umano […]. Pubblicizzare svilisce e falsifica irrimediabilmente il proprio credo”.

Proprio da un suo libro, significativamente titolato I libri che non ho scritto (come gli invidio questo titolo, lo avevo in mente da decenni!), arrivano l’anatema di cui sopra e lo stimolo che mi spinge ora a parlarne.

Nel compendio di uno dei saggi mai scritti, ma fatti assaporare al lettore almeno in forma di spuntino, Steiner sintetizza l’opera e il pensiero di Joseph Needham, eccentrico erudito novecentesco, grande sinologo, che mezzo secolo fa viaggiava ancora sulla cresta dell’onda. Io stesso ho sempre riservato all’unico volume che possiedo del suo Scienza e civiltà in Cina (edizione inglese 1954, italiana Einaudi 1981; primo di tre tomi, s’intitola Linee introduttive e costava un patrimonio) una collocazione di prestigio nella mia biblioteca, sezione storia della scienza. Di Needham però, della sua vita, del suo impegno politico, conoscevo quasi nulla.

Steiner invece lo conobbe personalmente, ebbe diverse occasioni di confronto, e pur riconoscendone la sterminata cultura e tributandogli tutti i dovuti meriti non ne traccia un ritratto positivo. A motivare questo giudizio (che a suo tempo ha indotto Steiner a non redigere una biografia dello scienziato britannico per la quale aveva ricevuto dalla sua università un incarico) sono le posizioni pregiudiziali a partire dalle quali Needham affronta qualsiasi argomento. Il suo approccio è infatti sempre rigidamente vincolato all’ortodossia marxista, una ortodossia peraltro non fedele direttamente a Marx, ma alla lettura che di Marx era stata data, e imposta, dal leninismo. Steiner non mette in discussione le competenze scientifiche di Needham, che era in primo luogo un biologo, né la sua capacità di lavorare su un piano multidisciplinare: ma è il dogmatismo di fondo a respingerlo. Non può fare a meno di mettere in rilievo come tanto le competenze scientifiche quanto quelle umanistiche vengano sempre piegate non ad aprire nuove possibilità interpretative dei fatti, ma ad avvalorare una ipotesi iniziale precostituita. E sottolinea come le incursioni in ambiti specialistici sostanzialmente estranei ai suoi abbiano indotto Needham a prendere per oro colato ogni minimo e discutibilissimo indizio, biologico, antropologico, linguistico, architettonico, che sembrasse portare mattoni alla sua ricostruzione della Storia. Ricostruzione che seguiva le linee di un progetto dettato dal clima ideologico postbellico, dal compiersi della decolonizzazione, dagli entusiasmi del terzomondismo.

In pratica Steiner avverte, dietro il meritevole intento di Needham di portare l’occidente a conoscere e apprezzare l’origine extraeuropea di buona parte dei saperi scientifici e delle tecnologie che ne sono discese, il caparbio proposito di forzare l’entità del debito scientifico occidentale nei confronti di un’area che ai suoi tempi era ancora percepita come sottosviluppata, e sullo sfondo quello di capovolgere (non di equilibrare) le posizioni nel rapporto tra le diverse civiltà. La stessa operazione che trent’anni dopo avrebbe ripetuto Martin Bernal con Atena nera, per provare come la cultura greca classica sia assolutamente debitrice di quella africana e mediorientale (cosa di cui peraltro erano ben consapevoli già Pitagora, Erodoto e Platone).

Insomma, il problema di Needham non sta nell’attribuzione di questi contatti e rapporti e finanche di talune priorità, ma nel darne una interpretazione che nemmeno troppo larvatamente colpevolizza l’occidente: nel voler cioè convintamente affermare che in fondo l’occidente non può vantarsi di aver inventato nulla, e che si è limitato a depredare i patrimoni culturali di altre civiltà (come se il valore intrinseco di una conoscenza fosse nella priorità, e non negli sviluppi e nelle applicazioni che ne discendono). E peggio ancora, nel farlo producendo prove documentarie, linguistiche e archeologiche molto abborracciate e in parecchi casi del tutto irrilevanti, quando addirittura non false.

Ora, tutto ciò, per senza nulla togliere al fascino che i lavori di Needham e di Bernal senz’altro emanano, e al rilievo delle ipotesi interpretative che hanno introdotto, dovrebbe però guidare a una giustificata prudenza nell’accettarne il messaggio di fondo. L’assunzione di un altro punto di vista, o del punto di vista altrui, può scuotere e incrinare una lettura della storia consolidatasi sulla narrazione auto-apologetica dei vincitori, ma non necessariamente ne produce una nuova più veritiera. Semmai dovrebbe indurne una più interlocutoria, più possibilista, e non altrettanto assiomatica.

Questo mi porta a una considerazione solo apparentemente marginale, che concerne la differenza tra gli autori “enciclopedici” del Sette/Ottocento e i “tuttologi” imperanti ai giorni nostri. Enciclopedici, per intenderci, erano gli eruditi eclettici come Diderot, Goethe o Alexander von Humbolt, che ambivano a raccogliere in grandi sintesi lo stato delle conoscenze alla loro epoca. Erano curiosi di tutto, e questo li induceva a non dare nulla per scontato, a considerare i saperi di cui erano depositari come punti di partenza. A dispetto dell’ampiezza e della poliedricità delle loro opere, lo scopo che ad esse attribuivano era di indicare possibili percorsi per la ricerca futura, e anche quando fornivano spiegazioni lo facevano nella consapevolezza di produrre delle congetture. Chi avesse la pazienza di leggere oggi il Cosmos di Humboldt, che nel titolo sembra adombrare un’ambizione sterminata, si accorgerebbe che ogni affermazione viene sempre presentata come provvisoria, e che la frase più ricorrente è “Chissà cosa ci riserverà nel futuro la ricerca in questo campo”. E lo stesso scienziato-esploratore non si limitava ad auspicare, ma incoraggiava i giovani naturalisti a ripercorrere i suoi passi, per verificare e al limite contraddire le sue scoperte e le sue intuizioni, e a tale scopo donava loro anche le sue strumentazioni. Ma non è tutto: si accollò personalmente la pubblicazione dell’opera, e dati i costi enormi finì praticamente sul lastrico.

Tra gli enciclopedici e i tuttologi si collocano proprio Needham e Bernal, che esplorano ambiti nuovi, che producono nuove conoscenze relative ai rapporti e agli interscambi tra le civiltà extraeuropee e la nostra, ma non si limitano ad avanzare delle ipotesi, affermano delle tesi. Sono ancora enciclopedici nel senso che sostanziano le loro opere con l’apporto di saperi diversi, anche se padroneggiati con eccessiva disinvoltura, e spesso con molta approssimazione. Sono già tuttologi perché presumono di dare un significato diverso alla storia, affermandone categoricamente non possibilità interpretative inedite ma linee di sviluppo certe e inconfutabili. Non sono tali però a pieno titolo, almeno nel senso che do io al termine, perché ancora non si avvalgono delle più recenti tecnologie e modalità che portano dalla “pubblicazione” alla “pubblicizzazione” di massa. E alla spettacolarizzazione.

Con ciò vengo finalmente al dunque, prendendo tre nomi a caso (in realtà non proprio a caso) tra i più conosciuti oggi dal grande pubblico italiano: Pier Giorgio Odifreddi, Luciano Canfora e Alessandro Barbero. Già il fatto che possa citarli come largamente conosciuti, come “popolari”, la dice lunga: segna la differenza rispetto agli enciclopedici genuini alla Humboldt, conosciuti soltanto da chi li leggeva (ma questo valeva ancora per Needham e Bernal).

Nessuno può negare le competenze matematiche di Odifreddi, meno che mai chi come me nelle scienze matematiche è un asino; ma quando mi ritrovo in mano testi suoi che sconfinano nell’etica o nella politica mi si rizzano i capelli, perché sono trattazioni che non si propongono all’insegna dell’“io la vedo così”, ma a quella del “è così, e ve lo dimostro”. Odifreddi ha nel mirino soprattutto il cristianesimo, e prima ancora l’intera tradizione biblica, che a suo parere ha impresso alla civiltà occidentale, in tutte le sue componenti, il marchio di una distruttiva pulsione al dominio e alla negazione di ogni alterità: ma spinge costantemente la sua critica sino al limite dell’invettiva, e spesso anche oltre, facendo un solo fascio di tradizioni, istituzioni politiche e giuridiche, indirizzi economici, ecc … Col risultato di scorgervi dietro, a tirare le fila, sempre la lunga mano e il modus operandi del capitalismo, nelle sue svariate versioni pre-moderne e poi coloniali, imperialistiche, liberistiche, liberalistiche e pseudo-democratiche. Quello che denuncia, senza arretrare neppure di fronte ad evidenti anacronistiche forzature, è in fondo un progetto di dominio pluto-giudaico che ha informato tutta la storia occidentale, e che sembra ormai ossessionare più le varie sinistre sedicenti rivoluzionarie che le vecchie destre reazionarie.

Discorso appena leggermente diverso si può fare per Canfora e per Barbero, che quanto meno rimangono nell’ambito della loro disciplina: ma la specializzazione disciplinare si è spinta oggi talmente oltre che è difficile concepire una competenza storica estesa dai Neanderthal alla guerra fredda o ai conflitti attualmente in corso.

L’impressione che ho ricavato dalle sempre più frequenti apparizioni di costoro nei salotti televisivi o come conduttori di programmi disegnati a loro immagine, impressione che si riverbera retrospettivamente su tutta la loro opera, è che la storia venga trattata non come terreno di costante esplorazione, ma come pezza d’appoggio per avvallare dogmatiche certezze. Che riguardano, come per Needham e per Bernal, e per Odifreddi, la nefandezza della cultura e della civiltà occidentale e la denuncia di come è andata sviluppandosi. È evidente che qui non siamo a livello dei vari Galimberti o dei nipotini post-moderni di Foucault e di Vattimo: l’operazione che i nostri conducono è assai più sottile e sofisticata, ma il punto d’arrivo è lo stesso.

Si vedano ad esempio il saggio di Barbero sull’impero ottomano e le conferenze che ne ha tratto. È uno stillicidio di confronti che oppongono la tolleranza, la giustizia, l’uguaglianza, la meritocrazia praticate dalla cultura ottomana all’intolleranza, alle diseguaglianze, alla farraginosità giuridica e ai privilegi correnti nella coeva cultura occidentale. Ora, sarà anche vero che ebrei e cristiani erano molto più tollerati nelle terre del Sultano di quanto lo fossero nell’Europa rinascimentale, e che a Costantinopoli non esisteva una aristocrazia del privilegio ereditario, e che le classe dirigente era reclutata senza badare al censo; ma tanto per cominciare il tutto era arbitrariamente gestito da un despota assoluto, che in alcuni casi poteva essere illuminato e in molti altri no, e il cui potere non conosceva limiti o contrappesi, né religiosi, né politici, né giuridici. C’è poi il fatto che le relazioni dei viaggiatori che per cinque secoli hanno attraversato quelle terre (non moltissimi, perché viaggiare lì era estremamente difficile e pericoloso) concordano tutte nella descrizione di un clima di povertà, di sopruso e di violenza, narrano di massacri continui e spoliazioni, nei confronti ad esempio dei Curdi, degli Yazidi, dei Mandei, dei Copti, o delle popolazioni balcaniche o di quelle elleniche. Checché ne dicessero gli ambasciatori veneziani, che vivevano peraltro nel perimetro della corte, ai quali Barbero attinge tutte le testimonianze, la tolleranza era molto più proclamata che praticata. Vigeva invece senz’altro l’uguaglianza, ma nel senso che la violenza arbitraria davvero non faceva sconti a nessuno.

Per capirci meglio. Richiesto nel corso di una intervista che circola sul web di spiegare cosa significa essere di sinistra, Barbero ha risposto che per lui significa vedere una bandiera rossa o una falce e martello e non averne paura, anzi, provare piacere. “Io se vedo un corteo in piazza con le bandiere rosse che protesta mi piace, e quando vedo che la polizia li picchia non mi piace, mentre a tanti borghesi la cosa fa paura o da fastidio, e pensano che la polizia faccia bene a picchiarli. Basta questo, di base, per essere di sinistra”. Il che, pur essendo una semplificazione provocatoriamente voluta, spiega comunque tante cose. Spero almeno non gli dia gioia anche veder bruciare i cassonetti, simbolo del consumismo borghese, o le bandiere, con l’eccezione naturalmente di quella rossa (o di quelle che vanno al momento per la maggiore): oppure le occupazioni delle università e dei licei, dove si fa resistenza antifascista impedendo a chi non è schierato “dalla parte giusta” di prendere la parola. Stiamo parlando di docenti universitari. Se questo è per loro lo stare a sinistra, stiamo freschi. E soprattutto, io dove sono stato fino ad oggi?

Lo stesso vale per il modo in cui Canfora parla della democrazia occidentale, sottintendendo che le sue storture erano già presenti sin dall’origine e si sono semmai amplificate nella versione moderna, contrariamente a quanto la storia ufficiale vorrebbe raccontarci. Tanto da fargli preferire un sistema come quello spartano, non a caso vagamente “comunista” e livellatore (salvo reggersi, né più né meno come quella da lui definita la pseudo-democrazia ateniese, sulla schiavitù), e da indurlo a mostrare un’evidente simpatia per l’odierno modello putiniano, nonché naturalmente un sincero rimpianto per quello staliniano: “Uno statista può essere valutato per quello che ha fatto per il suo Paese. L’opera di Stalin è stata positiva, anche se aspra, per la Russia al contrario di quella di Gorbaciov”.

Siamo insomma di fronte ad un “odio di sé occidentale” che non trova corrispettivo in altre culture. Tutte le altre civiltà hanno mantenuto bene o male nel corso del tempo un’alta considerazione di sé (gran parte dei popoli si attribuiscono in esclusiva lo status di “uomini”, già a partire dai termini con cui si autodenominano, o considerano la loro terra come il centro del mondo): e attribuiscono le cause della loro decadenza, dei loro ritardi (ammesso che li considerino tali), del loro eventuale asservimento, alla protervia dei competitori, a sfortunate congiunture climatiche o al volere di divinità irritate. La negatività occidentale affonda invece le sue radici in un’attitudine autocritica nata già agli albori della modernità (ma volendo se ne potrebbero trovare tracce anche prima: basti pensare a Erodoto, o alla Germania di Tacito): solo che nel XVI secolo con Montaigne questa attitudine si esprimeva in un equilibrato ripensamento delle modalità di confronto con “gli altri”, e successivamente con Montesquieu nella critica delle istituzioni domestiche, tutte cose che rimanevano nell’ambito di ciò che va perfezionato, rivisto, recuperato. È in fondo questo che ha fatto la differenza, permettendo all’Occidente di spezzare i vincoli della tradizione immobilista, di innovare o cancellare istituzioni sclerotizzate, di sperimentare modelli produttivi e rapporti sociali di convivenza del tutto inediti. Con quali risultati non sta a me qui discutere (in realtà su questo sito se ne è già discusso ampiamente): le scorie dell’idea di “progresso” che sino a ieri l’Occidente ha abbracciato sono tante e tali da non consentirmi di esprimere giudizi e proporre scale dei valori. Oltretutto, se mi guardo un po’ attorno e vedo solo opposti fanatismi e l’idiozia al potere quasi ovunque, qualche dubbio sulle nostre scelte non può non sorgermi. Di certo so però che in pochissime altre culture una discussione come questa sarebbe consentita, e vorrei tenermi stretta questa possibilità.

Già in epoca romantica, però, nel mito esotico del buon selvaggio, il saldo del confronto con altri possibili modelli di civiltà diventava negativo, e nel secolo scorso questo confronto si è tradotto in un vero e proprio rifiuto della civiltà e della cultura occidentali, a partire dai suoi presupposti. Un rifiuto tutto “di sinistra”, perché non fa appello alla tradizione, non chiede un ritorno nostalgico ad altri tempi, ma fa tabula rasa del sistema valoriale sul quale l’occidente si è fondato sin dai primordi della storia. Col risultato di approdare a quello che Nietzsche chiamava nichilismo.

Tanto Odifreddi quanto Canfora e Barbero, che a questo rifiuto si associano, non possono però essere propriamente definiti dei nichilisti: portano avanti convintamente le loro teorie sulla deriva occidentale, che fanno risalire di volta in volta a Euclide, a Pericle o a una non meglio definita “borghesia”. Di certo non vanno annoverati tra gli orfani dell’occidente, e non sono tra quelli che ne vaticinano o ne piangono il tramonto: semmai anzi lo auspicano. Ne vogliono disvelare il “marcio”, e pensano che il frutto sia da buttare e che l’albero non sia da potare, ma da capitozzare radicalmente.

Sta di fatto che interpretano il loro radicalismo anti-occidentale come una missione, e questo li spinge ad essere costantemente presenti, sui teleschermi, sui monitor o in libreria. Ho contato in una bibliografia di Canfora, aggiornata al 2024, centotredici volumi pubblicati, una volta e mezza quelli di Simenon su Maigret. In quella di Odifreddi siamo a soli trentasette, su temi che spaziano da Le menzogne di Ulisse a Caro papa ti scrivo, sino a La democrazia non esiste, ma accanto a un profluvio di audiovisivi e di interviste, più di quattrocento partecipazioni a programmi radio e trecento a trasmissioni televisive. Barbero si attesta per ora a quarantotto volumi (ma è giovane e può dare ancora molto), che a questo punto si può dire abbiano un ruolo secondario rispetto all’intensissima attività da star mediatica. Vorranno dire qualcosa questa grafomania e questo delirio di onnipresenza? Questa fame insaziabile di pubblicazioni e di comparsate? Che ci sia dietro la maledizione talmudica?

Cosa c’è dietro non lo so. Sospetto che ad un certo punto le lusinghe del mercato e della popolarità spettacolare mandino in tilt anche menti di indubbio livello, accendendo ambizioni egoistiche che scadono nella piaggeria (si può essere ruffiani in due modi: salendo sulla carrozza dei potenti o assecondando le rabbie più fumose degli “insorgenti”. Non mi risulta che alcuna lezione universitaria o conferenza dei tre sia mai stata contestata o impedita) Ma credo soprattutto che questo “odio di sé” (rivolto però a un “sé” rappresentato da tutti gli altri condomini che abitano la casa occidentale) nasca da una duplice presunzione: quella di aver individuato cosa c’è di marcio in Occidente (a seconda dei casi: un pensiero tutto fondato sulla “ragione calcolante”, una finzione democratica messa in piedi dalle classi dominanti, una narrazione della storia asservita agli interessi imperialistici): e quella di averlo fatto chiamandosi fuori dalla parte guasta del frutto.

Continuo a chiedermi comunque cosa può indurre persone tanto intelligenti a costringersi in una visione e in un uso del loro sapere così preconcetti. Ammettiamo che possano agire la temperie culturale del momento, le esperienze politiche, le ambizioni di cui sopra, tutto ciò che si vuole: ma il conoscere non dovrebbe indurre semmai a staccarsi progressivamente da ogni certezza, a ingolosirsi di ciò che di nuovo può arrivare, a non chiudersi a riccio dietro le interpretazioni dogmatiche. Come si conciliano le due cose?

Azzardo la spiegazione che mi pare più plausibile. Credo che tutto questo nasca dalla paura. Intendo la paura del vuoto che ci si spalanca davanti se appena apriamo gli occhi e usciamo dal recinto di significati che ci siamo costruiti attorno. La paura di affrontare l’assurdità della condizione umana come raccontata ad esempio da Camus, e prima ancora da Leopardi, e su su fino a Lucrezio, di guardarla negli occhi. Non sono molti quelli che reagiscono a questa consapevolezza rassegnandosi non passivamente all’assenza di uno scopo ultimo, e creandosene uno più modestamente temporaneo attraverso l’autodeterminazione etica. Nei più la paura del vuoto e dell’insignificanza induce l’urgenza di “esserci”, o almeno di apparire, e la necessità di aggrapparsi ad una bandiera (possibilmente a quelle prêt-à-porter, e non a quelle che vengono bruciate). Se poi la bandiera la si sventola o la si “indossa” in testa al gruppo, è più facile finire sui teleschermi e reclutare seguaci.

Infatti. Le arringhe dei guru dell’anti-occidentalismo sono subdolamente conformiste e confortanti, perché scodellano ad un pubblico pigro, smarrito e rancoroso verità “certe”, tra l’altro spacciandole come coraggiose “rivelazioni” che smontano le false pseudo-verità precedenti; in realtà non fanno altro che intrupparsi nella corrente revisionistica alla moda. Sembrano chiudere un lungo discorso di ricerca e di smascheramento, ma la loro ricerca era mirata solo a convalidare una visione ideologica pre-costituita.

Alla fine, ad essere verificato mi pare solo l’anatema col quale ho esordito. Continuando a “pubblicare” libri su libri, a ritmi industriali, e a “pubblicizzarli” spudoratamente abbassandosi a tutte le più perverse dinamiche del mercato, gli impavidi dissacratori della menzognera narrazione occidentale finiscono per rivelarsi i peggiori nemici di sé stessi.

P.S.

1. Needham e Bernal non costituiscono casi eccezionali di acquiescenza al dogmatismo marxista. Nella cultura anglosassone, e segnatamente in Inghilterra, furono molti, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, gli intellettuali che fecero propria questa posizione. Si va dagli scienziati, come J. B. S. Haldane, agli storici, come Christopher Hill o Eric Hobsbawm. Ma all’epoca incombeva sull’Europa la minaccia nazi-fascista, e non tutti avevano la tempra di un George Orwell. Per combattere avevano bisogno di indossare una metaforica divisa.

2. É proprio vero che le immagini a volte sono molto più eloquenti di qualsiasi trattazione scritta. Godetevi le icone dei tre moschettieri dell’anti-occidentalismo. Il quarto non è nemmeno uno scudiero, forse un valletto, ma non può essere considerato solo un intruso. In effetti è la testimonianza vivente che qualcosa nella cultura occidentale è andato storto.

3. Qualcuno tra i miei quattro corrispondenti penserà che queste elucubrazioni siano fini a stesse, frutto di una senile involuzione, e che in definitiva non portino a nulla. Su quest’ultima eventualità sono perfettamente d’accordo, ma credo che ogni tanto vadano comunque fatte le pulizie di primavera. Il cervello sarà di lì a poco nuovamente ingombro e disordinato, ma per qualche tempo almeno le idee potranno circolare un po’ più liberamente. In caso contrario, ci ritroveremo di qui a poco ad ammantarci noi stessi di bandiere, o a bruciarle, a recitare slogan, a rovesciare cassonetti. Ad essere cioè incapaci di relazionarci agli altri e alla storia in maniera civile e consapevole. In parole povere, a odiarci.

Nei momenti di malumore

di Paolo Repetto, 20 agosto 2025

In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “bella promessa” a quella di “solito stronzo”. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro”.
Alberto Arbasino

Allora: è stato ripubblicato Venerati maestri di Edmondo Berselli. Per chi non lo avesse ancora letto, o addirittura non sappia chi era Berselli, è un’occasione da non perdere. Ma anche per chi già lo conosce la rilettura rimane comunque uno spasso, e soprattutto rinnova la convinzione che il giornalismo e la professione intellettuale siano qualcosa di diverso da quello che oggi conosciamo. La nuova edizione esce per i tipi di Quodlibet, e arriva a quasi vent’anni dalla prima (di Mondadori). Personalmente ne sono strafelice, e vedremo poi il perché, ma come aspirante da una vita al ruolo di editore mi chiedo se sotto un profilo prettamente commerciale sia un’operazione azzeccata.

Voglio dire: avrà ancora un mercato? Questo non perché dubiti del valore dell’opera, della sua eccezionalità documentaria e anche linguistica: sono anzi convinto che Berselli meriti di figurare nella top ten (o only ten) degli autori italiani dell’ultimo mezzo secolo meritevoli di essere letti e ricordati. Ma da chi potrà essere letto, oggi? Quelli che erano in grado di apprezzarne l’intelligenza, e più ancora il sarcasmo, il libro ce l’hanno da quel dì: quelli che vengono ora e che verranno domani, a parte una sparutissima minoranza, avranno enormi difficoltà a orientarsi nella gimkana di Berselli, che fa riferimenti a protagonisti e vicende di ieri e dell’altro ieri, già messi in soffitta dall’urgenza di concentrare l’attenzione sul presente di stamattina; e probabilmente non avranno neppure le gambe per stargli dietro, abituati come sono a letture non più impegnative di un tweet o di un post.

Comunque, onore alla casa editrice e al suo coraggio. Spero di essere smentito e che la nuova edizione conosca un successo pari a quello della precedente. Almeno non dovrò più preoccuparmi di scovarne copie nei mercatini per regalarle agli amici più giovani. Fornirò solo indicazioni per l’acquisto.

Qualcosa va detto però anche del libro. Non di cosa parla, naturalmente, perché non è materia che si possa riassumere: mi limiterò a dare un’idea di come lo fa. Avete presente l’Ulisse di Joyce? Non dico se l’avete letto, perché non conosco nessuno, me compreso, che sia davvero arrivato sino in fondo. Ma ci avete almeno provato? Ebbene, Berselli procede un po’ allo stesso modo, saltando in apparenza continuamente di palo in frasca, in realtà srotolando la bobina di un unico film, un documentario concitatissimo e affollato costruito attraverso una galleria di ritratti, di scorci ambientali, di baracconi culturali tenuti in piedi da complicità tutt’altro che amicali, fondate anzi sulle invidie e sul livore.

I “venerati maestri” sono per Berselli gli intoccabili della cultura del secondo Novecento (e del primissimo spicchio del nuovo secolo). Ce n’è per tutti, e i ritratti che si susseguono nella galleria sono tratteggiati passando di volta in volta dall’ironia benevola nei confronti di alcuni al sarcasmo feroce per i più, con un criterio che Berselli stesso confessa, e anzi rivendica, come totalmente umorale: “Nei momenti di malumore, sempre più frequenti, io confesso che non mi piace nulla. Non mi piace un romanzo, non mi piace un film, la musica, la televisione, non mi piace praticamente niente di quanto viene prodotto in Italia”. Tuttavia questo criterio non fa mai scadere il racconto nell’invettiva: il quadro che ne viene fuori è una tavola alla Jacovitti, una somma di “mostruosità” quotidiane trattate con irriverente schiettezza, col gusto del pettegolezzo sapido, ma senza mai indulgere ad un atteggiamento inquisitorio. Siamo fatti così, dice Berselli, io compreso: solo che il malumore mi fa vedere le cose più lucidamente, e mi spinge a non accettarle supinamente.

Al contrario, l’atteggiamento della “classe intellettuale” è sempre ipocritamente compiacente: “Noi sappiamo che tutti loro, là fuori, stanno trastullandosi con forme inferiori dell’arte e della cultura, con figurine di un album infantile: ma dall’alto della nostra superiorità mostriamo un volto che si degna di manifestare una specie di simpatia intellettuale, di comprensione, quasi di affetto. Quel sentimento di benevolenza che si rivolge di solito ai parenti non troppo stretti, che si incontrano ai matrimoni o ai funerali: una compiacenza volonterosa quanto distratta, senza un vero coinvolgimento psicologico e affettivo, tanto si sa che ci si ritroverà solo fra quattro o cinque anni, e si rifarà la solita manfrina”.

Berselli si chiede: “[…] come è stato possibile che abbiamo accettato il diktat di un paternalismo critico così ignobile, un peccato di gusto talmente colpevole da risultare senza remissione, un’ipocrisia generale tanto inqualificabile?” E si dà anche la risposta, chiara e perfettamente condivisibile.

Il qualcosa che non va è il conformismo diffuso, l’ovvio dei popoli, il velluto di ipocrisia collettiva che sembra aver coperto con una specie di indiscusso canone artistico, intellettuale e spettacolare, l’Italia contemporanea, in ragione del quale tutti sono ‘d’accordo con tutti, e nessuno obietta mai niente. In privato si parla male di tutti, e si fanno sghignazzate sui grandi capolavori che vengono proposti dai media e sui protagonisti santificati dallo stereotipo; in pubblico, e cioè sui mass media e nelle occasioni ufficiali, ci si guarda bene dall’incrinare anche solo con un graffio il luogo comune e l’oleografia”.

Tanto per non fare nomi: “Erano i tempi in cui andava moltissimo Bertold Brecht, nella particolare mediazione socialista di Giorgio Streheler, e all’Italia intera venivano inflitti drammi brechtiani a iosa, che dovevano piacere a tutti e in effetti a tutti piacevano, o almeno tutti dicevano che gli piacevano, specie quando c’era Milva la rossa … E con Brecht eravamo ancora sul versante colto, quasi accademico. Se si voleva eccedere nella sofferenza e nella cultura, un gradino oltre l’impegno, nello spazio ideale della tortura, c’erano Luciano Berio e Luigi Nono, comminati e inflitti nel segno della grande avanzata culturale di massa”.

Nel paginone jacovittiano alcune figure si stagliano e giganteggiano in negativo; ma non è neanche così, il negativo ha comunque una sua consistenza, mentre di questi Berselli mette a nudo soprattutto l’inconsistenza, l’aria fritta di cui si nutrono e che spacciano alle cerchie dei loro cultori. i[…] come ha fatto Bernardo Bertolucci, raccontare il Novecento in un film di molte ore, talmente ideologico e balordo sul piano storico che a vederlo allora Arbasino scrisse sulla Repubblica un articolo allegramente distruttivo, intitolato L’epica nel pollaio, e a vederlo adesso viene voglia di menarlo.

Insomma, si va di questo passo. Sul red carpet si avvicendano scrittori, registi, musicisti, critici, editori e filosofi, messi allegramente e perfidamente a nudo nel corso della sfilata. Senza, ripeto, che mai si avverta sentore di acidità. Comunque, tutto questo potrete scoprirlo da soli, leggendo il libro: o almeno provarci, come con l’Ulisse.

Quanto a me, confesso che la mia segnalazione non è imparziale. È più umorale ancora, se possibile, del “falò di conformismi, complessi di superiorità, idee sbagliate, revisioni arrischiate, pensieri forti divenuti deboli” acceso da Berselli. Quando ho letto per la prima volta Venerati maestri mi sono quasi commosso: non mi sembrava vero, non ero dunque così solo come di norma mi sentivo nel mettere in dubbio il talento di Bertolucci, o di Nanni Moretti (scritto sempre così, nome e cognome, perché ci sono altri Moretti tristemente famosi, e perché ormai è diventato un marchio, una griffe); o quando davo in escandescenze durante la proiezione de La vita è bella, e bollavo come emerite cagate le Lontananze Nostalgiche di Luigi Nono (per tacere delle composizioni per chiodo e lamiera) e i Circles di Luciano Berio; oppure ascoltavo le canzoni di Bennato o di Fabrizio De André rifiutandomi di leggerci “messaggi”, iniziatici o anarchici che si voglia, e avvertivo sintomi violenti di orticaria al solo sentir nominare i vari Alberoni e Galimberti e Cacciari, tutta la tribù insomma dei filosofi e dei sociologi “sedentari”, con residenza abituale nei salotti televisivi. “[…] L’altro barbuto, Umberto Galimberti, è uno dei filosofi che riscuotono maggiore successo con le donne, con punte incontrollabili di misticismo e di estasi anche tra le razionalissime professoresse democratiche, soprattutto quando nelle conferenze accenna con ispirata espressione oracolare a sconosciute essenze del pensiero greco […]. Qui Cacciari e Galimberti sono due ombre in un racconto di eventi impalpabili, di evanescenze in cui la Mitteleuropa incontra i mari azzurri dell’a Grecia antica, e l’immancabile Lucio Battisti sullo sfondo canta per le zitelle o mare nero mare nero mare ne […]. Li unisce una certa koiné, dice chi sa.

Mi ha solo un po’ sorpreso non trovare nel mucchio Agamben e Severino: ma non si può pretendere tutto; e poi i due in effetti hanno mantenuto sempre un atteggiamento “pubblico” molto più riservato. A sputtanarli ci pensavano già i loro discepoli.

Insomma, Berselli dice quello che tutti sanno (e per tutti intendo tutti coloro che avrebbero i requisiti per leggere il suo libro, compresi in buona parte quelli che vi compaiono come protagonisti) ma fingono di non sapere, per convenienza o connivenza, o si rifiutano di saperlo per una forma di soggezione culturale (in parte astutamente indotta, in parte supinamente accettata, o addirittura voluta, perché scarica in fondo della responsabilità di scelte e giudizi individuali): dice cioè che in una società fondata sulle leggi di mercato anche quella che chiamiamo cultura ne rispecchia le logiche: che tutto il Barnum di eventi grandi e piccoli, dai festival cinematografici a quelli letterari e storici e scientifici, alle mostre che ormai girano in tour come i cantanti, alle prime della Scala, ai convegni commemorativi, fino alle marchette autopromozionali televisive o alla presentazione di libri nelle sagre paesane, sono tasselli di uno stesso spettacolo, messo in piedi non per divertirci o istruirci, ma per indurci al consumo della “merce culturale”.

Per cui editori, galleristi, agenti. “operatori culturali”, non si limitano a vellicare i gusti del pubblico, ma li creano, li orientano, e impongono i loro criteri di valore, le loro “scoperte” o “riscoperte”: ogni minima onda da brezza di mare viene ingigantita dall’enfasi mediatica a mareggiata o a tsunami, capace di sconvolgere e risvegliare le coscienze, e loro la cavalcano come surfer provetti. Il racconto che Berselli fa delle “svolte culturali” pilotate prima da Einaudi e poi da Adelphi è tanto spassoso quanto circostanziato: “È così che nasce Adelphi, da una costola di Einaudi, perché ad un certo punto l’ala razionalista prima si insospettisce e poi si infuria al pensiero che l’ala irrazionalista … tenti il colpo gobbo delle opere di Nietzsche, E che cazzo! […] Adesso lo dicono tutti che Siddharta è una cretinata. Ma in quel momento immenso […] fu quello che si dice uno shock cognitivo.” E in questo gioco scrittori, artisti, musicisti, “intellettuali” a vario titolo, accettano un ruolo di manovalanza per partecipare almeno in parte alla divisione degli utili, e se la raccontano tra di loro, finendo poi prendersi sul serio e crederci essi stessi, e si recensiscono e redigono vicendevoli “coccodrilli”. Ogni loro opera o scritto o parola insuffla aria nella bolla di sapone a loro immagine creata dall’industria culturale.

Mi si obietta: ma è sempre stato così. Mica vero. Senza dubbio già le tragedie di Eschilo così come gli affreschi di Giotto e i concerti di Bach avevano una valenza promozionale, erano orientate da una committenza: ma almeno portavano messaggi comprensibili a tutti, che come tali potevano anche essere contestati e rifiutati, e non conoscenze “esoteriche”, cifrate, da accettarsi a scatola chiusa in nome di una presunta autorevolezza “autoriale”: e poi, se quelle opere sono rimaste, se le ammiriamo ancora oggi, è perché la valenza promozionale l’hanno di gran lunga trascesa. Anche le consorterie degli artisti e degli intellettuali già esistevano, ma questi si davano apertamente addosso, come faceva Aristofane nei confronti dei suoi colleghi, colpendo con quell’ironia che è lo strumento critico più valido ed efficace (e che Berselli risfodera: “[…] a tutti noi, chi scrive e chi legge, quando la fede se ne va, per evitare le trappole della superstizione non resta che il gesto eccentrico, il tocco marginale, lo scarto inatteso dell’ironia”). La logica non era quella del mercato, della concorrenza, dei numeri delle vendite, del successo delle esibizioni, delle recensioni: secondo questa logica Leopardi sarebbe uscito immediatamente di scena.

Berselli mi mancherà. Per fortuna posso rileggermi gli altri suoi libri, a cominciare da Sinistrati, con lo stesso gusto della prima volta. Non ho aspettato le ristampe, me li sono procurati tutti per tempo. Il problema è però che di questo passo, nella (quasi?) totale assenza di eredi in grado di tramandarne la lezione, Berselli rischia di essere imbalsamato come l’ennesimo “venerato maestro”, esposto in un piccolo mausoleo frequentato solo da vecchi stronzi nostalgici come me.

Devo sperare solo in qualche “giovane promessa”, ma l’orizzonte appare sconsolatamente deserto.