Pubblicare?

di Paolo Repetto, 29 ottobre 2025

Un anatema ebraico, pochissimo conosciuto, recita: “Possa il mio nemico pubblicare un libro”. Non è un augurio, anche se lo sembra, né una professione di tolleranza: è una maledizione. Ora, io non so quanto questo detto sia antico o solo vecchio, e ignorando la lingua ebraica non posso che affidarmi alla fedeltà della traduzione nella quale lo conosco: ma so che poter determinare l’epoca in cui è stato coniato sarebbe tutt’altro che indifferente. Nel caso fosse molto antico infatti quel “pubblicare” andrebbe inteso come “scrivere”, piuttosto che diffondere tramite amanuensi in più copie, e per un popolo che è stato definito “il popolo del libro” mi pare un po’ fuori luogo. Anche se è poi vero che il sospetto nei confronti della scrittura era presente pure nella cultura greca (vedi Platone), e che per gli ebrei poteva essere tanto più giustificato, almeno nei confronti della scrittura “profana”, dall’esistenza di un testo sacro dettato da Dio stesso, da considerarsi quindi rispondente a ogni domanda, esauriente ogni dubbio, definitivo (salvo poi darne infinite interpretazioni).

Propendo dunque piuttosto per la seconda ipotesi, che quantomeno rende il concetto più funzionale a ciò di cui intendo parlare. Il problema a mio giudizio non sta infatti nello scrivere, ma proprio nel “pubblicare” (operazione che assume ben altro significato dopo l’introduzione della stampa), ovvero nel divulgare quanto si è scritto. Sono due cose diverse, mi pare ovvio, perché la seconda presuppone la prima – per ora, in attesa degli sviluppi dell’AI – mentre non vale il contrario: e tuttavia quasi sempre nel linguaggio corrente i due verbi vengono usati come sinonimi, mentre tali non sono. La differenza sta innanzi tutto nell’intenzione che muove alla scrittura, e poi nei contenuti e nella destinazione, che comportano scelte particolari nei modi e nei mezzi in cui sarà diffusa.

Voglio dire che, certo, chi scrive lo fa di norma per relazionarsi col presente e per lasciare traccia nel futuro, ma la scrittura può essere utilizzata anche in forma privata, per memorizzare, per chiarirsi le idee e metterle in ordine, per tenere un diario, per accompagnare un gesto o un regalo, oppure per fare arrivare la propria voce ad amici o confidenti, quando magari si diano poche possibilità di frequentazione. Ad esempio: l’uso che ne faccio io in questo momento, sfruttando una tecnologia che mi permette di dialogare facilmente con uno sparuto gruppo di persone che condivide i miei interessi, ovvero le mie domande e i miei dubbi, rappresenta il limite estremo dell’utilizzo “privato”.

Se si va oltre si accede invece ad un’altra dimensione, quella appunto del “pubblicare”, che come il termine suggerisce significa rendere intenzionalmente pubblico il proprio pensiero. E qui entrano in gioco finalità e ambizioni diverse. Io vorrei occuparmi nello specifico del caso di cui l’intenzione è di orientare o influenzare il pensiero altrui, offrendo al maggior numero possibile di sconosciuti delle “risposte”, delle interpretazioni del mondo e della storia che non possono essere controbattute direttamente, come avverrebbe in un colloquio. Nel formato stampa queste risposte assumono un’autorevolezza che è suggerita già visivamente dall’ordine, dalla nitidezza, dall’irreggimentazione delle righe e dei periodi sulla superficie della pagina. Insomma, la parola stampata incute rispetto, e questo consente di esercitare in qualche modo un potere. E anche se i mass media e le nuove tecnologie e modalità comunicative stanno rendendo obsoleta la stampa, credo che per il momento, e almeno per la mia generazione e per quella immediatamente successiva, l’autorevolezza del pensiero sia ancora legata alla divulgazione cartacea.

Naturalmente ci sono anche, e oserei dire soprattutto, altre finalità: quella pura e semplice di ottenere una qualche visibilità, ad esempio, o di trovare un modo per sbarcare il lunario: oppure, un po’ più ambiziosamente, di combinare il tutto e di proporre, alla maniera di Balzac, sia pure attraverso la finzione, un ampio quadro della reale condizione umana. Sarà il tempo poi a decidere della rilevanza e della sopravvivenza di qualsiasi testo, a farne o no “un classico”, o almeno un riferimento che vada oltre il presente.

Ma mi sto perdendo nelle ovvietà. Ciò che intendevo dire è che attualmente tanto la narrativa, più o meno “impegnata”, quanto la saggistica, rientrano allo stesso modo nei circuiti di un “mercato culturale” che ha acquisito una enorme rilevanza sia finanziaria che politica, e rispondono alle sue leggi, in primis a quelle della “spettacolarizzazione” (un mercato culturale in realtà è sempre esistito, ma senz’altro non aveva come caratteristica dominante quella della spettacolarità). Basti pensare ai tour promozionali cui senza alcun ritegno gli autori si sottopongono, compresi gli scienziati e i filosofi, andando a far marchette nei programmi televisivi, intervenendo ai festival o agli altri innumerevoli “eventi” imbanditi per platee di consumatori totalmente passivi e acriticamente fidelizzati, creando quelli che oggi si chiamano podcast, ecc….

Io ritengo esista però anche una terra di nessuno, quella che ospita i libri scritti non per fornire risposte preconfezionate, ma per suscitare domande, alle quali poi il lettore cercherà di rispondere con un percorso tutto suo. Questi sono per me i soli libri meritevoli di essere “pubblicati”, e non è qui il caso di dettagliare i criteri sui quali baso la distinzione. Emergeranno da soli nel prosieguo del discorso.

Vorrei però fosse chiaro che non auspico alcun tipo di censura preventiva o di esclusione o di protezionismo. Quello culturale è l’unico ambito nel quale sposo il libero mercato. D’altro canto ritengo che leggere e scrivere siano, almeno in linea di principio, le attività meno pericolose per sé e nocive per gli altri, e tra le più piacevoli, che un essere umano può svolgere. L’importante per il “consumatore” è avere sempre ben presente che di un “mercato” appunto si tratta, nel quale i banchi e gli scaffali traboccano di prodotti tra i quali può scegliere. Per come la vedo io, però, per poterlo fare è necessario auto-educarsi a un “consumo culturale” consapevole, e farlo per prove ed errori, prendendo le distanze da tutte le azioni “promozionali” di incentivazione alla lettura. Chi deve essere spinto o incentivato, per non dire precettato, a farsi un’idea, non sarà mai capace di scelte proprie.

Esistono dunque i normali prodotti da supermercato, quelli perennemente in offerta, di per sé abbastanza innocui, perché in fondo nessuno ci obbliga ad acquistarli e a leggerli. Ce ne sono invece altri che sempre all’interno di questo mercato si arrogano un ruolo di orientamento del gusto, si propongono come “bio”, garanti della nostra salute spirituale, e ci gratificano vellicando la nostra ambizione a sentirci al passo coi tempi, o anche un pochino avanti: questi, a dispetto della loro più o meno esplicita ambizione a diffondere sempre nuove e definitive “verità”, andrebbero comunque almeno conosciuti, se non altro per prenderne consapevolmente le distanze. E infine ne esistono altri ancora, che negli scaffali vengono confusi con tutto il resto, ma che bisogna imparare a riconoscere come genuini alimenti per la nostra crescita.

In questa ultima tipologia rientrano senz’altro le opere di George Steiner. Steiner è, assieme a Isaiah Berlin, l’ultimo dei veri “maestri” del ‘900. Uno che scrive: “Quello che mi sentirei di sostenere con fervore è questo: la fede (qualsiasi fede, n,d,r), o l’assenza di essa è, o dovrebbe essere, la parte costitutiva più privata, più gelosamente custodita di un essere umano […]. Pubblicizzare svilisce e falsifica irrimediabilmente il proprio credo”.

Proprio da un suo libro, significativamente titolato I libri che non ho scritto (come gli invidio questo titolo, lo avevo in mente da decenni!), arrivano l’anatema di cui sopra e lo stimolo che mi spinge ora a parlarne.

Nel compendio di uno dei saggi mai scritti, ma fatti assaporare al lettore almeno in forma di spuntino, Steiner sintetizza l’opera e il pensiero di Joseph Needham, eccentrico erudito novecentesco, grande sinologo, che mezzo secolo fa viaggiava ancora sulla cresta dell’onda. Io stesso ho sempre riservato all’unico volume che possiedo del suo Scienza e civiltà in Cina (edizione inglese 1954, italiana Einaudi 1981; primo di tre tomi, s’intitola Linee introduttive e costava un patrimonio) una collocazione di prestigio nella mia biblioteca, sezione storia della scienza. Di Needham però, della sua vita, del suo impegno politico, conoscevo quasi nulla.

Steiner invece lo conobbe personalmente, ebbe diverse occasioni di confronto, e pur riconoscendone la sterminata cultura e tributandogli tutti i dovuti meriti non ne traccia un ritratto positivo. A motivare questo giudizio (che a suo tempo ha indotto Steiner a non redigere una biografia dello scienziato britannico per la quale aveva ricevuto dalla sua università un incarico) sono le posizioni pregiudiziali a partire dalle quali Needham affronta qualsiasi argomento. Il suo approccio è infatti sempre rigidamente vincolato all’ortodossia marxista, una ortodossia peraltro non fedele direttamente a Marx, ma alla lettura che di Marx era stata data, e imposta, dal leninismo. Steiner non mette in discussione le competenze scientifiche di Needham, che era in primo luogo un biologo, né la sua capacità di lavorare su un piano multidisciplinare: ma è il dogmatismo di fondo a respingerlo. Non può fare a meno di mettere in rilievo come tanto le competenze scientifiche quanto quelle umanistiche vengano sempre piegate non ad aprire nuove possibilità interpretative dei fatti, ma ad avvalorare una ipotesi iniziale precostituita. E sottolinea come le incursioni in ambiti specialistici sostanzialmente estranei ai suoi abbiano indotto Needham a prendere per oro colato ogni minimo e discutibilissimo indizio, biologico, antropologico, linguistico, architettonico, che sembrasse portare mattoni alla sua ricostruzione della Storia. Ricostruzione che seguiva le linee di un progetto dettato dal clima ideologico postbellico, dal compiersi della decolonizzazione, dagli entusiasmi del terzomondismo.

In pratica Steiner avverte, dietro il meritevole intento di Needham di portare l’occidente a conoscere e apprezzare l’origine extraeuropea di buona parte dei saperi scientifici e delle tecnologie che ne sono discese, il caparbio proposito di forzare l’entità del debito scientifico occidentale nei confronti di un’area che ai suoi tempi era ancora percepita come sottosviluppata, e sullo sfondo quello di capovolgere (non di equilibrare) le posizioni nel rapporto tra le diverse civiltà. La stessa operazione che trent’anni dopo avrebbe ripetuto Martin Bernal con Atena nera, per provare come la cultura greca classica sia assolutamente debitrice di quella africana e mediorientale (cosa di cui peraltro erano ben consapevoli già Pitagora, Erodoto e Platone).

Insomma, il problema di Needham non sta nell’attribuzione di questi contatti e rapporti e finanche di talune priorità, ma nel darne una interpretazione che nemmeno troppo larvatamente colpevolizza l’occidente: nel voler cioè convintamente affermare che in fondo l’occidente non può vantarsi di aver inventato nulla, e che si è limitato a depredare i patrimoni culturali di altre civiltà (come se il valore intrinseco di una conoscenza fosse nella priorità, e non negli sviluppi e nelle applicazioni che ne discendono). E peggio ancora, nel farlo producendo prove documentarie, linguistiche e archeologiche molto abborracciate e in parecchi casi del tutto irrilevanti, quando addirittura non false.

Ora, tutto ciò, per senza nulla togliere al fascino che i lavori di Needham e di Bernal senz’altro emanano, e al rilievo delle ipotesi interpretative che hanno introdotto, dovrebbe però guidare a una giustificata prudenza nell’accettarne il messaggio di fondo. L’assunzione di un altro punto di vista, o del punto di vista altrui, può scuotere e incrinare una lettura della storia consolidatasi sulla narrazione auto-apologetica dei vincitori, ma non necessariamente ne produce una nuova più veritiera. Semmai dovrebbe indurne una più interlocutoria, più possibilista, e non altrettanto assiomatica.

Questo mi porta a una considerazione solo apparentemente marginale, che concerne la differenza tra gli autori “enciclopedici” del Sette/Ottocento e i “tuttologi” imperanti ai giorni nostri. Enciclopedici, per intenderci, erano gli eruditi eclettici come Diderot, Goethe o Alexander von Humbolt, che ambivano a raccogliere in grandi sintesi lo stato delle conoscenze alla loro epoca. Erano curiosi di tutto, e questo li induceva a non dare nulla per scontato, a considerare i saperi di cui erano depositari come punti di partenza. A dispetto dell’ampiezza e della poliedricità delle loro opere, lo scopo che ad esse attribuivano era di indicare possibili percorsi per la ricerca futura, e anche quando fornivano spiegazioni lo facevano nella consapevolezza di produrre delle congetture. Chi avesse la pazienza di leggere oggi il Cosmos di Humboldt, che nel titolo sembra adombrare un’ambizione sterminata, si accorgerebbe che ogni affermazione viene sempre presentata come provvisoria, e che la frase più ricorrente è “Chissà cosa ci riserverà nel futuro la ricerca in questo campo”. E lo stesso scienziato-esploratore non si limitava ad auspicare, ma incoraggiava i giovani naturalisti a ripercorrere i suoi passi, per verificare e al limite contraddire le sue scoperte e le sue intuizioni, e a tale scopo donava loro anche le sue strumentazioni. Ma non è tutto: si accollò personalmente la pubblicazione dell’opera, e dati i costi enormi finì praticamente sul lastrico.

Tra gli enciclopedici e i tuttologi si collocano proprio Needham e Bernal, che esplorano ambiti nuovi, che producono nuove conoscenze relative ai rapporti e agli interscambi tra le civiltà extraeuropee e la nostra, ma non si limitano ad avanzare delle ipotesi, affermano delle tesi. Sono ancora enciclopedici nel senso che sostanziano le loro opere con l’apporto di saperi diversi, anche se padroneggiati con eccessiva disinvoltura, e spesso con molta approssimazione. Sono già tuttologi perché presumono di dare un significato diverso alla storia, affermandone categoricamente non possibilità interpretative inedite ma linee di sviluppo certe e inconfutabili. Non sono tali però a pieno titolo, almeno nel senso che do io al termine, perché ancora non si avvalgono delle più recenti tecnologie e modalità che portano dalla “pubblicazione” alla “pubblicizzazione” di massa. E alla spettacolarizzazione.

Con ciò vengo finalmente al dunque, prendendo tre nomi a caso (in realtà non proprio a caso) tra i più conosciuti oggi dal grande pubblico italiano: Pier Giorgio Odifreddi, Luciano Canfora e Alessandro Barbero. Già il fatto che possa citarli come largamente conosciuti, come “popolari”, la dice lunga: segna la differenza rispetto agli enciclopedici genuini alla Humboldt, conosciuti soltanto da chi li leggeva (ma questo valeva ancora per Needham e Bernal).

Nessuno può negare le competenze matematiche di Odifreddi, meno che mai chi come me nelle scienze matematiche è un asino; ma quando mi ritrovo in mano testi suoi che sconfinano nell’etica o nella politica mi si rizzano i capelli, perché sono trattazioni che non si propongono all’insegna dell’“io la vedo così”, ma a quella del “è così, e ve lo dimostro”. Odifreddi ha nel mirino soprattutto il cristianesimo, e prima ancora l’intera tradizione biblica, che a suo parere ha impresso alla civiltà occidentale, in tutte le sue componenti, il marchio di una distruttiva pulsione al dominio e alla negazione di ogni alterità: ma spinge costantemente la sua critica sino al limite dell’invettiva, e spesso anche oltre, facendo un solo fascio di tradizioni, istituzioni politiche e giuridiche, indirizzi economici, ecc … Col risultato di scorgervi dietro, a tirare le fila, sempre la lunga mano e il modus operandi del capitalismo, nelle sue svariate versioni pre-moderne e poi coloniali, imperialistiche, liberistiche, liberalistiche e pseudo-democratiche. Quello che denuncia, senza arretrare neppure di fronte ad evidenti anacronistiche forzature, è in fondo un progetto di dominio pluto-giudaico che ha informato tutta la storia occidentale, e che sembra ormai ossessionare più le varie sinistre sedicenti rivoluzionarie che le vecchie destre reazionarie.

Discorso appena leggermente diverso si può fare per Canfora e per Barbero, che quanto meno rimangono nell’ambito della loro disciplina: ma la specializzazione disciplinare si è spinta oggi talmente oltre che è difficile concepire una competenza storica estesa dai Neanderthal alla guerra fredda o ai conflitti attualmente in corso.

L’impressione che ho ricavato dalle sempre più frequenti apparizioni di costoro nei salotti televisivi o come conduttori di programmi disegnati a loro immagine, impressione che si riverbera retrospettivamente su tutta la loro opera, è che la storia venga trattata non come terreno di costante esplorazione, ma come pezza d’appoggio per avvallare dogmatiche certezze. Che riguardano, come per Needham e per Bernal, e per Odifreddi, la nefandezza della cultura e della civiltà occidentale e la denuncia di come è andata sviluppandosi. È evidente che qui non siamo a livello dei vari Galimberti o dei nipotini post-moderni di Foucault e di Vattimo: l’operazione che i nostri conducono è assai più sottile e sofisticata, ma il punto d’arrivo è lo stesso.

Si vedano ad esempio il saggio di Barbero sull’impero ottomano e le conferenze che ne ha tratto. È uno stillicidio di confronti che oppongono la tolleranza, la giustizia, l’uguaglianza, la meritocrazia praticate dalla cultura ottomana all’intolleranza, alle diseguaglianze, alla farraginosità giuridica e ai privilegi correnti nella coeva cultura occidentale. Ora, sarà anche vero che ebrei e cristiani erano molto più tollerati nelle terre del Sultano di quanto lo fossero nell’Europa rinascimentale, e che a Costantinopoli non esisteva una aristocrazia del privilegio ereditario, e che le classe dirigente era reclutata senza badare al censo; ma tanto per cominciare il tutto era arbitrariamente gestito da un despota assoluto, che in alcuni casi poteva essere illuminato e in molti altri no, e il cui potere non conosceva limiti o contrappesi, né religiosi, né politici, né giuridici. C’è poi il fatto che le relazioni dei viaggiatori che per cinque secoli hanno attraversato quelle terre (non moltissimi, perché viaggiare lì era estremamente difficile e pericoloso) concordano tutte nella descrizione di un clima di povertà, di sopruso e di violenza, narrano di massacri continui e spoliazioni, nei confronti ad esempio dei Curdi, degli Yazidi, dei Mandei, dei Copti, o delle popolazioni balcaniche o di quelle elleniche. Checché ne dicessero gli ambasciatori veneziani, che vivevano peraltro nel perimetro della corte, ai quali Barbero attinge tutte le testimonianze, la tolleranza era molto più proclamata che praticata. Vigeva invece senz’altro l’uguaglianza, ma nel senso che la violenza arbitraria davvero non faceva sconti a nessuno.

Per capirci meglio. Richiesto nel corso di una intervista che circola sul web di spiegare cosa significa essere di sinistra, Barbero ha risposto che per lui significa vedere una bandiera rossa o una falce e martello e non averne paura, anzi, provare piacere. “Io se vedo un corteo in piazza con le bandiere rosse che protesta mi piace, e quando vedo che la polizia li picchia non mi piace, mentre a tanti borghesi la cosa fa paura o da fastidio, e pensano che la polizia faccia bene a picchiarli. Basta questo, di base, per essere di sinistra”. Il che, pur essendo una semplificazione provocatoriamente voluta, spiega comunque tante cose. Spero almeno non gli dia gioia anche veder bruciare i cassonetti, simbolo del consumismo borghese, o le bandiere, con l’eccezione naturalmente di quella rossa (o di quelle che vanno al momento per la maggiore): oppure le occupazioni delle università e dei licei, dove si fa resistenza antifascista impedendo a chi non è schierato “dalla parte giusta” di prendere la parola. Stiamo parlando di docenti universitari. Se questo è per loro lo stare a sinistra, stiamo freschi. E soprattutto, io dove sono stato fino ad oggi?

Lo stesso vale per il modo in cui Canfora parla della democrazia occidentale, sottintendendo che le sue storture erano già presenti sin dall’origine e si sono semmai amplificate nella versione moderna, contrariamente a quanto la storia ufficiale vorrebbe raccontarci. Tanto da fargli preferire un sistema come quello spartano, non a caso vagamente “comunista” e livellatore (salvo reggersi, né più né meno come quella da lui definita la pseudo-democrazia ateniese, sulla schiavitù), e da indurlo a mostrare un’evidente simpatia per l’odierno modello putiniano, nonché naturalmente un sincero rimpianto per quello staliniano: “Uno statista può essere valutato per quello che ha fatto per il suo Paese. L’opera di Stalin è stata positiva, anche se aspra, per la Russia al contrario di quella di Gorbaciov”.

Siamo insomma di fronte ad un “odio di sé occidentale” che non trova corrispettivo in altre culture. Tutte le altre civiltà hanno mantenuto bene o male nel corso del tempo un’alta considerazione di sé (gran parte dei popoli si attribuiscono in esclusiva lo status di “uomini”, già a partire dai termini con cui si autodenominano, o considerano la loro terra come il centro del mondo): e attribuiscono le cause della loro decadenza, dei loro ritardi (ammesso che li considerino tali), del loro eventuale asservimento, alla protervia dei competitori, a sfortunate congiunture climatiche o al volere di divinità irritate. La negatività occidentale affonda invece le sue radici in un’attitudine autocritica nata già agli albori della modernità (ma volendo se ne potrebbero trovare tracce anche prima: basti pensare a Erodoto, o alla Germania di Tacito): solo che nel XVI secolo con Montaigne questa attitudine si esprimeva in un equilibrato ripensamento delle modalità di confronto con “gli altri”, e successivamente con Montesquieu nella critica delle istituzioni domestiche, tutte cose che rimanevano nell’ambito di ciò che va perfezionato, rivisto, recuperato. È in fondo questo che ha fatto la differenza, permettendo all’Occidente di spezzare i vincoli della tradizione immobilista, di innovare o cancellare istituzioni sclerotizzate, di sperimentare modelli produttivi e rapporti sociali di convivenza del tutto inediti. Con quali risultati non sta a me qui discutere (in realtà su questo sito se ne è già discusso ampiamente): le scorie dell’idea di “progresso” che sino a ieri l’Occidente ha abbracciato sono tante e tali da non consentirmi di esprimere giudizi e proporre scale dei valori. Oltretutto, se mi guardo un po’ attorno e vedo solo opposti fanatismi e l’idiozia al potere quasi ovunque, qualche dubbio sulle nostre scelte non può non sorgermi. Di certo so però che in pochissime altre culture una discussione come questa sarebbe consentita, e vorrei tenermi stretta questa possibilità.

Già in epoca romantica, però, nel mito esotico del buon selvaggio, il saldo del confronto con altri possibili modelli di civiltà diventava negativo, e nel secolo scorso questo confronto si è tradotto in un vero e proprio rifiuto della civiltà e della cultura occidentali, a partire dai suoi presupposti. Un rifiuto tutto “di sinistra”, perché non fa appello alla tradizione, non chiede un ritorno nostalgico ad altri tempi, ma fa tabula rasa del sistema valoriale sul quale l’occidente si è fondato sin dai primordi della storia. Col risultato di approdare a quello che Nietzsche chiamava nichilismo.

Tanto Odifreddi quanto Canfora e Barbero, che a questo rifiuto si associano, non possono però essere propriamente definiti dei nichilisti: portano avanti convintamente le loro teorie sulla deriva occidentale, che fanno risalire di volta in volta a Euclide, a Pericle o a una non meglio definita “borghesia”. Di certo non vanno annoverati tra gli orfani dell’occidente, e non sono tra quelli che ne vaticinano o ne piangono il tramonto: semmai anzi lo auspicano. Ne vogliono disvelare il “marcio”, e pensano che il frutto sia da buttare e che l’albero non sia da potare, ma da capitozzare radicalmente.

Sta di fatto che interpretano il loro radicalismo anti-occidentale come una missione, e questo li spinge ad essere costantemente presenti, sui teleschermi, sui monitor o in libreria. Ho contato in una bibliografia di Canfora, aggiornata al 2024, centotredici volumi pubblicati, una volta e mezza quelli di Simenon su Maigret. In quella di Odifreddi siamo a soli trentasette, su temi che spaziano da Le menzogne di Ulisse a Caro papa ti scrivo, sino a La democrazia non esiste, ma accanto a un profluvio di audiovisivi e di interviste, più di quattrocento partecipazioni a programmi radio e trecento a trasmissioni televisive. Barbero si attesta per ora a quarantotto volumi (ma è giovane e può dare ancora molto), che a questo punto si può dire abbiano un ruolo secondario rispetto all’intensissima attività da star mediatica. Vorranno dire qualcosa questa grafomania e questo delirio di onnipresenza? Questa fame insaziabile di pubblicazioni e di comparsate? Che ci sia dietro la maledizione talmudica?

Cosa c’è dietro non lo so. Sospetto che ad un certo punto le lusinghe del mercato e della popolarità spettacolare mandino in tilt anche menti di indubbio livello, accendendo ambizioni egoistiche che scadono nella piaggeria (si può essere ruffiani in due modi: salendo sulla carrozza dei potenti o assecondando le rabbie più fumose degli “insorgenti”. Non mi risulta che alcuna lezione universitaria o conferenza dei tre sia mai stata contestata o impedita) Ma credo soprattutto che questo “odio di sé” (rivolto però a un “sé” rappresentato da tutti gli altri condomini che abitano la casa occidentale) nasca da una duplice presunzione: quella di aver individuato cosa c’è di marcio in Occidente (a seconda dei casi: un pensiero tutto fondato sulla “ragione calcolante”, una finzione democratica messa in piedi dalle classi dominanti, una narrazione della storia asservita agli interessi imperialistici): e quella di averlo fatto chiamandosi fuori dalla parte guasta del frutto.

Continuo a chiedermi comunque cosa può indurre persone tanto intelligenti a costringersi in una visione e in un uso del loro sapere così preconcetti. Ammettiamo che possano agire la temperie culturale del momento, le esperienze politiche, le ambizioni di cui sopra, tutto ciò che si vuole: ma il conoscere non dovrebbe indurre semmai a staccarsi progressivamente da ogni certezza, a ingolosirsi di ciò che di nuovo può arrivare, a non chiudersi a riccio dietro le interpretazioni dogmatiche. Come si conciliano le due cose?

Azzardo la spiegazione che mi pare più plausibile. Credo che tutto questo nasca dalla paura. Intendo la paura del vuoto che ci si spalanca davanti se appena apriamo gli occhi e usciamo dal recinto di significati che ci siamo costruiti attorno. La paura di affrontare l’assurdità della condizione umana come raccontata ad esempio da Camus, e prima ancora da Leopardi, e su su fino a Lucrezio, di guardarla negli occhi. Non sono molti quelli che reagiscono a questa consapevolezza rassegnandosi non passivamente all’assenza di uno scopo ultimo, e creandosene uno più modestamente temporaneo attraverso l’autodeterminazione etica. Nei più la paura del vuoto e dell’insignificanza induce l’urgenza di “esserci”, o almeno di apparire, e la necessità di aggrapparsi ad una bandiera (possibilmente a quelle prêt-à-porter, e non a quelle che vengono bruciate). Se poi la bandiera la si sventola o la si “indossa” in testa al gruppo, è più facile finire sui teleschermi e reclutare seguaci.

Infatti. Le arringhe dei guru dell’anti-occidentalismo sono subdolamente conformiste e confortanti, perché scodellano ad un pubblico pigro, smarrito e rancoroso verità “certe”, tra l’altro spacciandole come coraggiose “rivelazioni” che smontano le false pseudo-verità precedenti; in realtà non fanno altro che intrupparsi nella corrente revisionistica alla moda. Sembrano chiudere un lungo discorso di ricerca e di smascheramento, ma la loro ricerca era mirata solo a convalidare una visione ideologica pre-costituita.

Alla fine, ad essere verificato mi pare solo l’anatema col quale ho esordito. Continuando a “pubblicare” libri su libri, a ritmi industriali, e a “pubblicizzarli” spudoratamente abbassandosi a tutte le più perverse dinamiche del mercato, gli impavidi dissacratori della menzognera narrazione occidentale finiscono per rivelarsi i peggiori nemici di sé stessi.

P.S.

1. Needham e Bernal non costituiscono casi eccezionali di acquiescenza al dogmatismo marxista. Nella cultura anglosassone, e segnatamente in Inghilterra, furono molti, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, gli intellettuali che fecero propria questa posizione. Si va dagli scienziati, come J. B. S. Haldane, agli storici, come Christopher Hill o Eric Hobsbawm. Ma all’epoca incombeva sull’Europa la minaccia nazi-fascista, e non tutti avevano la tempra di un George Orwell. Per combattere avevano bisogno di indossare una metaforica divisa.

2. É proprio vero che le immagini a volte sono molto più eloquenti di qualsiasi trattazione scritta. Godetevi le icone dei tre moschettieri dell’anti-occidentalismo. Il quarto non è nemmeno uno scudiero, forse un valletto, ma non può essere considerato solo un intruso. In effetti è la testimonianza vivente che qualcosa nella cultura occidentale è andato storto.

3. Qualcuno tra i miei quattro corrispondenti penserà che queste elucubrazioni siano fini a stesse, frutto di una senile involuzione, e che in definitiva non portino a nulla. Su quest’ultima eventualità sono perfettamente d’accordo, ma credo che ogni tanto vadano comunque fatte le pulizie di primavera. Il cervello sarà di lì a poco nuovamente ingombro e disordinato, ma per qualche tempo almeno le idee potranno circolare un po’ più liberamente. In caso contrario, ci ritroveremo di qui a poco ad ammantarci noi stessi di bandiere, o a bruciarle, a recitare slogan, a rovesciare cassonetti. Ad essere cioè incapaci di relazionarci agli altri e alla storia in maniera civile e consapevole. In parole povere, a odiarci.

Il fenomeno vago della postverità

di Giuseppe Rinaldi, 20 giugno 2025

Negli interventi postati su questo sito compare sempre più spesso il richiamo alla “verità”. Non è un caso. È un’insistenza voluta. Questo non perché si stia abbracciando un qualche credo fondamentalista, o si vogliano rincorrere le “offerte culturali” del mese, che traboccano non di sconti ma di concetti dati per scontati, primo tra tutti, guarda caso, quello di post-verità. La nostra è semmai è una controfferta: vorremmo difendere l’idea che una convivenza civile non possa prescindere da una quota sia pur minima di verità condivisa, intesa quest’ultima non come scolpita su marmo in lettere maiuscole – “LA VERITÀ” sulle origini e sui destini del mondo – ma come lo sforzo di comprendere e descrivere nella maniera più oggettiva possibile l’andamento delle cose nel mondo. Se rifiutiamo che i nostri rapporti con ciò e con chi ci circonda debbano e possano essere improntati a questa idea, allora apriamo la porta appunto alla post-verità: cioè al nuovo fondamentalismo relativista.

Ci sembra dunque più che opportuno riproporre il saggio scritto da Beppe Rinaldi sette anni orsono sul fenomeno della post-verità e pubblicato sul sito “Finestre rotte” il 5 aprile 2018. In tempi di intelligenza artificiale e di rincitrullimento di quella naturale sette anni equivalgono a secoli, ma nel saggio c’era già tutto il necessario per capire quella che oggi appare una inarrestabile deriva. E soprattutto c’era – e c’è ancora, e vale anzi più che mai –, proprio per la profondità e la lucidità e l’accuratezza che sempre distinguono le riflessioni di Rinaldi, l’esempio concreto di come a tale deriva si possa malgrado tutto opporre una dignitosa resistenza. Senza sventolare o bruciare bandiere, senza scandire slogan insulsi, senza inscenare pietose pantomime per le strade o nelle aule parlamentari: semplicemente perseverando nella volontà di conoscere, e quindi di pensare con la propria testa, e insistendo a credere nella possibilità di condividere e di confrontare delle idee, anziché delle ideologie (o peggio, delle imposture o delle stronzate).

Leggetevi allora queste pagine con la calma e l’attenzione che meritano: magari non accederete all’empireo della Verità, ma ne uscirete senz’altro vaccinati contro la post-verità.

Paolo Repetto

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1. Da qualche tempo[1] le fake-news sono all’ordine del giorno. La loro diffusione sta preoccupando alquanto il mondo della informazione e quello della politica, i governi e perfino le grandi multinazionali dei social media. C’è solo da essere soddisfatti poiché, finalmente, il grande pubblico sembra abbia compreso che le fake sono una cosa seria e che possono rappresentare un enorme pericolo. Si sta diffondendo, a quanto pare, la consapevolezza che, in una società minimamente civile, non possiamo fare a meno della verità. Una modica quantità di verità sembra sempre più costituire un bene primario cui non possiamo rinunciare. Non resta che sperare che non sia già stato ampiamente superato il punto di non ritorno. In realtà, il caso delle fake-news è solo uno degli aspetti – forse quello più appariscente ma non certo il più importante – di un fenomeno assai più generale e cioè della diffusione della menzogna, e di una serie di suoi nuovi derivati, nelle interazioni sociali, nello spazio pubblico della comunicazione e, soprattutto, nell’ambito della politica nazionale e internazionale. Si tratta di un fenomeno che ha cominciato a essere segnalato intorno agli anni Novanta del secolo scorso e che è cresciuto progressivamente fino ai nostri giorni.

2. In campo culturale, e particolarmente in campo filosofico, l’allarme circa la diffusione di prodotti menzogneri è vecchio ormai di almeno due o tre decenni. Tra l’inizio degli anni Novanta e il nuovo secolo avevano cominciato a comparire varie reazioni critiche nei confronti della diffusione di certi prodotti subculturali, strettamente legati all’affermazione presso il grande pubblico del postmodernismo.[2] Nel 1997 Sokal e Bricmont pubblicarono un loro famoso saggio contro le imposture intellettuali[3](fashionable nonsense)in cui furono messe alla berlina le disinvolture argomentative di alcuni famosi intellettuali postmoderni per lo più francesi (Lacan, Kristeva, Irigaray, Latour, Baudrillard, Deleuze, Guattari, Virilio) e in cui si faceva un resoconto dettagliato della cosiddetta burla di Sokal che aveva contribuito a smascherare un certo ambiente postmoderno nordamericano.

Sokal e Bricmont erano entrambi professori di fisica, rispettivamente a New York e a Lovanio. Ecco il resoconto della burla, attraverso la penna dei diretti protagonisti: «[…] uno di noi, Sokal, decise di tentare un esperimento non ortodosso […]: sottopose a una rivista culturale americana alla moda, Social Text, una parodia del genere di articoli che abbiamo visto proliferare negli ultimi anni, per vedere se l’avrebbero pubblicata. L’articolo, intitolato «Trasgredire le frontiere, verso un’ermeneutica trasformativa della gravità quantistica», è pieno di assurdità e di palesi non sequitur. Inoltre propone una forma estrema di relativismo cognitivo: dopo aver messo in ridicolo il “dogma” superato secondo cui “esista un mondo esterno, le cui proprietà sono indipendenti da ogni essere umano in quanto individuo, e in definitiva dall’umanità intera”, afferma categoricamente che “la ‘realtà’ fisica, non meno che la ‘realtà’ sociale, è in fin dei conti una costruzione sociale e linguistica”. Attraverso una serie di salti logici sbalorditivi, arriva alla conclusione che “il π di Euclide e la G di Newton, un tempo considerati costanti ed universali, vengono ora percepiti nella loro ineluttabile storicità […]”. Il resto dell’ articolo è dello stesso tono. Ciò nonostante l’articolo fu pubblicato in un numero speciale di Social Text […]. La beffa fu immediatamente svelata dallo stesso Sokal, suscitando un diluvio di reazioni […]».[4] Tutto ciò avveniva nel 1996. Possiamo considerare da parte nostra che, in generale, stupidaggini alla moda ci siano sempre state ma è abbastanza significativo il fatto che il loro primo massiccio sdoganamento e il loro primo debutto nei circoli della cultura alta sia avvenuto proprio all’interno del mondo stesso degli intellettuali, il quale deve, evidentemente, aver subito qualche trasformazione profonda.

3. L’allarme circa la diffusione di contenuti menzogneri non ha riguardato solo il campo della produzione intellettuale. Nel 2005 il filosofo nordamericano Harry Frankfurt pubblicò un libretto intitolato Bullshit, ovverossia, tradotto in italiano, Stronzate.[5] Così esordiva l’Autore: «Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio contributo. Tendiamo però a dare per scontata questa situazione. […] non abbiamo una chiara consapevolezza di cosa sono le stronzate, del perché ce ne siano così tante in giro, o di quale funzione svolgano. […] In altre parole, non abbiamo una teoria».[6]Il contenuto del libretto era già comparso come articolo nel 1986, tuttavia il successo di pubblico si ebbe nel 2005, quando l’articolo fu pubblicato nella veste di libro, in un contesto dove ormai l’attenzione al problema era piuttosto alta. Con il suo intervento Frankfurt intendeva richiamare l’attenzione su un certo nuovo tipo di contenuti fasulli, poco seri, decisamente fastidiosi e invadenti, che avevano preso a diffondersi sempre più nell’ambito comunicativo e che minacciavano di sommergere qualsiasi altra espressione. Va detto che il libretto di Frankfurt era più che altro un pamphlet dal tono ironico e dissacrante e quindi non presentava, in effetti, alcuna teoria approfondita sul fenomeno in oggetto. Esso ebbe tuttavia il merito colpire nel segno.

Secondo Frankfurt, cercando di ricavare una definizione sintetica dalla sua trattazione,[7] il bullshit sarebbe all’incirca un prodotto linguistico grezzo e sommario che fornisce una rappresentazione non adeguata, insignificante o futile della realtà. Il carattere distintivo del bullshit sarebbe costituito proprio dalla sua totale mancanza di aderenza nei confronti della realtà. All’alba del nuovo secolo, Frankfurt suonava dunque un campanello di allarme, evidenziando un fenomeno di degrado del discorso pubblico che tutti avevano ormai sotto il naso. In effetti, già allora era ben presente la sensazione di essere sommersi da una marea di insulsaggini incontrollate e incontrollabili. Quella di Frankfurt poteva sembrare una boutade, invece gli sviluppi successivi avrebbero finito per superare ogni pessimistica immaginazione.

4. Più o meno nello stesso periodo, cominciava a emergere la sensazione che si stesse diffondendo, presso il vasto pubblico, un atteggiamento di sempre maggior tolleranza verso la menzogna. Il grido di allarme in proposito fu lanciato da Ralph Keyes, nel suo volume Post-Truth Era. Dishonesty and Deception in Contemporary Life, uscito nel 2004. Lo studio di Keyes ha segnato, a quanto pare,la prima comparsa del termine post-truth nella titolazione di un libro. Keyes si occupava del fenomeno – com’era allora percepito – della sempre maggior diffusione della menzogna nella vita quotidiana e nella sfera pubblica. L’Autore contrapponeva la situazione tradizionale, nella quale verità e menzogna erano chiaramente contrapposte e in cui la menzogna era per lo più esecrata e andava incontro alla pubblica disapprovazione, a una nuova situazione in cui tra verità e menzogna erano collocate infinite sfumature, in cui la menzogna stava diventando un comportamento sempre più diffuso e sempre meno censurato dalla disapprovazione sociale. Si era dunque di fronte, secondo l’Autore, a un netto cambiamento di segno che coinvolgeva in profondità le relazioni interpersonali e la comunicazione sociale. L’epoca della postverità (post-truth era) sarebbe dunque – secondo l’Autore – una nuova epoca in cui le relazioni interpersonali sarebbero state sempre più caratterizzate dallo sdoganamento della menzogna, accompagnato strettamente dalla diffusione della disonestà. Anche Keyes non produceva alcuna elaborata teoria in merito, tuttavia nel suo libro, dallo stile peraltro piuttosto giornalistico, l’Autore snocciolava una casistica impressionante di fatti e fatterelli che testimoniavano di una sempre maggior indifferenza nei confronti della verità ormai diffusa in tutti i settori della società contemporanea.

5. Il termine post-truth ha poi avuto sempre più diffusione, segno evidente della sua capacità di individuare e contraddistinguere un nuovo fenomeno. Prova ne è che l’Oxford English Dictionary ha deciso di eleggere post-truth come “parola dell’anno” del 2016. Consultando qualche autorevole dizionario possiamo vedere meglio il significato attuale del termine, per come si sta consolidando. Il Collins, alla voce post-truth, recita: «Di, o relativo a, una cultura in cui il ricorso alle emozioni tende a prevalere a discapito dei fatti e delle argomentazioni logiche». Secondo gli Oxford Dictionaries: «Denotante, o relativo a, circostanze in cui i fatti oggettivi, nella configurazione della pubblica opinione, sono meno influenti degli appelli alle emozioni e alle credenze personali». Il Cambridge Dictionary riporta: «Relativo a una situazione in cui le persone sono più propense ad accettare una argomentazione basata sulle proprie emozioni o credenze piuttosto che una basata sui fatti». Tutte le definizioni, come si può ben vedere, segnalano una sorta di antitesi tra un approccio emotivo del tutto soggettivistico e il riconoscimento oggettivo dei fatti. Pongono cioè una contrapposizione tra un atteggiamento di realismo e la mancanza di realismo o l’irrealismo.

Su Wikipedia[8] si può trovare un tentativo di sintesi che costituisce quasi una definizione organica: «Il termine post-verità, […] indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o a una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza. Nella post-verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi concreta della effettiva veridicità dei fatti raccontati: in una discussione caratterizzata da “post-verità”, i fatti oggettivi – chiaramente accertati – sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli ad emozioni e convinzioni personali».[9] La definizione pare del tutto pertinente, anche se, a nostro giudizio, avrebbe bisogno di un’estensione di campo, in aderenza a un fatto ora più che mai evidente: la postverità non concerne solo le discussioni, com’è suggerito, ma coinvolge ormai ogni tipo di comunicazione che sia scambiata nel mondo sociale, e quindi, indirettamente, le stesse relazioni sociali che ne derivano.

6. Il prefisso post davanti a truth ha, più o meno, il significato di un oltre.[10] Si noti che il termine post-truth è considerato nel mondo anglosassone come un aggettivo. La traduzione in italiano con “postverità” lo trasforma in un sostantivo, rendendolo così un concetto astratto. A nostro giudizio poteva andar meglio una traduzione con il costrutto oltre – vero, che può essere usato sia come aggettivo sia come sostantivo, e che porta con sé una vaga assonanza nicciana che non guasta. Pur non intendendo produrre alcuna innovazione terminologica, proverò in questo scritto a usare ogni tanto questo termine, cercando così di esplorare la possibilità di un suo uso efficace.

Sul piano del contenuto, il concetto sta a sottolineare una sorta di oltre passa mento della istanza della verità nella sfera delle comunicazioni e delle relazioni sociali, fino al punto dal determinarne la sua totale perdita di importanza. Nel mondo della postverità, o dell’oltre-vero, la verità sembra essere diventata, insomma, una cosa superflua, una cosa che non è alla nostra portata o una questione che non ci riguarda più. Il termine oltre-vero non si riferisce dunque a particolari contenuti falsi (per i quali esistono già altri termini, come i già citati fake-news o bullshit) ma a una particolare modalità di considerare le questioni di verità che pare si stia instaurando presso il vasto pubblico. Il che può configurarsi come un atteggiamento pratico, soprattutto da parte del grande pubblico oppure come una disposizione teorica, soprattutto da parte degli intellettuali, degli opinion leader e simili.

7. La sensazione dunque è che con l’oltre-vero non ci troviamo più di fronte alla nozione tradizionale della menzogna[11] bensì di fronte a qualcosa di costitutivamente diverso. Secondo Frankfurt – è questa una delle sue argomentazioni più costanti – le stronzate (bullshit)non sarebbero propriamente menzogne. La menzogna classica implica per lo più che chi la proferisce abbia la nozione di quale sia la verità e implica un’esplicita intenzione di occultare la verità. Afferma infatti a un certo punto Frankfurt: «È impossibile che una persona menta se non crede di conoscere la verità. Ebbene, produrre stronzate non richiede questa convinzione».[12] La stronzata, come definita da Frankfurt, è invece semplicemente indifferente alla verità e proprio in ciò sta la sua principale inadeguatezza nei confronti della realtà. In ciò sta anche la spiegazione della sua estrema diffusione, della relativa tolleranza con cui è accolta e, in fin dei conti, del suo grande successo. Frankfurt ci ha fornito qui la chiave per una conclusione di qualche rilievo: in una post-truth era che sia giunta a piena maturazione non ci sarebbero più menzogne, ci sarebbero solo stronzate. Nella postverità non c’è più tendenzialmente il caso classico di chi, conoscendo la verità, la neghi consapevolmente per scopi disonesti. Nella post truth era nessuno più pretende di conoscere la verità, semplicemente non c’è più alcun commitment per la verità. Forse proprio per questo i mentitori – anche quelli classici – sono sempre più frequentemente assimilati a simpatici intrattenitori, cioè a bullshit artist.[13]

8. L’atteggiamento di crescente irrilevanza verso la verità non poteva non influenzare il mondo dell’informazione. Parallelamente alle imposture intellettuali e al bullshit, sono salite all’attenzione del pubblico le fake-news, di cui abbiamo già accennato. La definizione di fake-news è decisamente più circoscritta e meno controversa. Recita Wikipedia:[14] «Il termine inglese fake-news (in italiano notizie false) indica notizie redatte con informazioni inventate, ingannevoli o distorte, rese pubbliche con il deliberato intento di disinformare o diffondere bufale attraverso i mezzi di informazione. Tradizionalmente a veicolare le fake news sono i grandi media, ovvero le televisioni e le più importanti testate giornalistiche. Tuttavia con l’avvento di Internet, soprattutto per mezzo dei media sociali, aumentando in generale la diffusione delle notizie, è aumentata proporzionalmente per logica conseguenza anche la diffusione di notizie false».

Se le fake sembra abbiano avuto la loro lontana origine nel campo della più classica produzione di menzogne, è chiaro che il passaggio delle fake-news dagli ambiti più tradizionali dei grandi media a quelli della rete sta creando le condizioni per una sovrapposizione sempre più ampia tra le fake e il bullshit, fino a una sorta di vera e propria transizione dalla menzogna classica verso il bullshit. Anche i mezzi di informazione – indipendentemente da casi di ricorso a menzogne classiche – sembrano sempre meno sensibili alla verità e sempre più propensi a diffondere contenuti dal basso valore veritativo che siano però dotati di una forte attrattiva per il pubblico. Strettamente connesso alle fake-news è il mondo delle bufale, delle dicerie, dei rumor che spesso costituiscono il contenuto delle fake stesse. Anche in questo caso si tratta di fenomeni che pur essendo sempre esistiti, hanno assunto una loro visibilità ed efficacia in conseguenza dello sviluppo della rete. In Susstein 2009 si trova uno studio sui loro meccanismi di diffusione. Su argomenti analoghi e sulla psicosociologia delle credenze si può consultare Bronner 2003.

9. Infine, la diffusione dell’indifferenza nei confronti della verità non poteva che coinvolgere in maniera rilevante anche e soprattutto il mondo della politica. Almeno dal 2010 è in uso, nei paesi anglosassoni, il termine post-truth politics. Anche in questo caso la traduzione comporta qualche difficoltà. Alla lettera potrebbe andare bene politica post veritiera, oppure, se vogliamo, possiamo usare la nostra locuzione politica oltre-vera. Sulla scorta di Ferraris 2017, che usa postverità come sostantivo e postruista come aggettivo, potrebbe andar bene politica postruista.

Citiamo da Wikipedia anglofona: «La post-truth politics (denominata anche post-factual politicse post-reality politics) è una cultura politica in cui il dibattito è largamente caratterizzato da appelli alle emozioni del tutto disconnessi dai dettagli effettivi delle varie politiche, e dalla continua ripetizione delle parole d’ordine, le cui confutazioni fattuali sono del tutto ignorate. La post-truth politics è differente dalla tradizionale contestazione e falsificazione della verità in quanto consiste nel trattare la verità come una cosa di secondaria importanza. Sebbene questo fenomeno sia stato descritto come un problema nuovo, c’è la possibilità che esso faccia parte da tempo della vita politica, ma che sia stato poco visibile prima dell’avvento di internet e dei suoi relativi cambiamenti sociali».

La politica postruista (o oltre-vera) è dunque una politica che, seguendo l’andazzo generale, è diventata indifferente alle questioni di verità, non tiene conto dei fatti, non tiene conto della realtà delle cose. Una politica, insomma, che fa a meno della verità. La politica postruista costituisce così la curvatura che la politica assume quando questa sia collocata entro il quadro della postverità, sia sul piano pratico sia su quello teorico. Poiché la politica postruista è una politica che si sviluppa sul terreno della postverità, essa tende a fare liberamente largo uso di imposture, fake e bullshit. Come casi esemplari di politica postruista sono state spesso citate la campagna per la brexit e quella per la prima elezione di Trump alla Casa Bianca nel 2016. La campagna condotta, con successo, da Trump nel 2024 non fa che confermare l’esemplarità del caso.

10. Come si vede dalla rassegna che abbiamo presentato, siamo in presenza, a quanto pare, di fenomeni nuovi, per molti versi inaspettati, che stanno assumendo un peso di rilievo nella vita delle nostre società. Si tratta di fenomeni di non facile definizione e che sembrano tuttavia avere per lo meno qualche somiglianza di famiglia.[15]Oltretutto, la terminologia relativa a questo campo è ancora in fase di formazione, vi si possono trovare usi e definizioni alquanto sovrapponibili ma anche alquanto diversificati. Quel che è certo comunque è che tutte queste novità linguistiche e concettuali segnalano, direttamente o indirettamente, la consistenza e la pervasività del fenomeno che stiamo cercando di circoscrivere e rappresentare.

Volendo utilizzare una metafora intuitiva, tanto per stipulare con il lettore una convenzione provvisoria, propongo di immaginare un gigantesco iceberg che galleggia in mare: le imposture intellettuali (fashionable nonsense), le fake-news e la politica postruista sarebbero l’equivalente della punta dell’iceberg. Sarebbero cioè la parte più visibile che corrisponde a ciò che il vasto pubblico ha cominciato appena a scorgere. Il bullshit, data la genericità della sua definizione, costituirebbe l’iceberg nella sua totalità, che notoriamente è molto più grande della parte emersa e, proprio per questo, molto più pericoloso. La postverità, o il mondo dell’oltre-vero, sarebbe il mare dove galleggia tranquillamente il bullshit, sia per la parte emersa che per quella sommersa. Secondo questa immagine, le imposture intellettuali, le fake-news e la politica postruista si potrebbero considerare come tipi specifici di bullshit, cioè per così dire specie di stronzate specializzate, avendo tutte in comune la caratteristica minimale di non prendere sul serio la verità e la realtà.[16] Va da sé che, in questo quadro, viene a essere sempre più trascurabile la menzogna classica, la quale – pur non essendo certamente sparita – sembra divenuta meno importante, perché nel mare dell’oltre-vero – come s’è detto – nessuno più pretende di sapere una qualche verità e di volerla intenzionalmente celare.

Dopo avere delineato sommariamente, in termini descrittivi, i fenomeni che ci interessano e le relative nomenclature, cercheremo, in quel che segue, di esplorare alcuni aspetti dell’inquietante paesaggio glaciale di fronte al quale ci troviamo e con il quale ci dovremo sempre più confrontare nel prossimo futuro.

11. Se la posterità (o l’oltre-vero) è il mare che tiene a galla il bullshite tutto il resto, è il caso allora di comprendere meglio di che cosa si tratti. La postverità, in estrema sintesi, può essere ricondotta al consolidamento e alla diffusione presso il vasto pubblico di una convinzione, di ordine pratico e teorico, secondo cui in molte situazioni la verità è trascurabile. Questa convinzione implica che ci possono essere tante verità, che possiamo fare a meno di una nozione condivisa di verità e che, quindi, non abbiamo più alcun interesse a fare sforzi e a impiegare risorse per accertare la verità e per dire la verità. In altre parole, ormai ci sono soltanto dei punti di vista, collocati tutti sullo stesso piano, che ciascuno accoglie o rifiuta in base a disposizioni e scelte del tutto personali, o anche in base al momento. Il tutto però – si badi bene – è supportato da un’ulteriore sottile connotazione di ordine morale, secondo la quale è inevitabile, o addirittura giusto, che sia così e secondo la quale, così facendo, possiamo cavarcela tranquillamente o, addirittura, vivere decisamente meglio di prima. Meglio di quando ci trovavamo sotto l’assillo della verità. Insomma, la condizione della postverità può essere vissuta come un fatto positivo o addirittura come una liberazione. Si badi bene che chi pratica e condivide l’oltre-vero non necessariamente deve esserne compiutamente consapevole. Basta fare quello che fanno tutti, quel che è considerato del tutto normale. Provando ad addentrarci ulteriormente nei meandri della postverità, per comodità di analisi, distingueremo ora un ambito pratico e un ambito teorico, anche se nella realtà i due aspetti sono strettamente intrecciati e correlati.

11.1. Per quel che concerne l’ambito pratico, sembra dunque assodato che in molte situazioni, la verità non sia più considerata come un imperativo capace di qualificare il nostro comportamento e di dirigere le nostre scelte. Si tratta di un mero fatto, sotto gli occhi di tutti. Affermava Keyes già nel 2004: «Anche se ci sono sempre stati dei mentitori, le menzogne di solito sono state dette con esitazione, un pizzico di ansietà, un po’ di colpa, una qualche vergogna, almeno qualche imbarazzo. Ora, intelligenti come siamo, abbiamo tirato fuori degli stratagemmi per manomettere la verità tanto che possiamo dissimulare senza sentirci in colpa. Questo lo chiamo post-vero. Noi viviamo in una era post-vera (post-truth era). La postverità esiste in una zona grigia dell’etica. Ci permette di dissimulare senza che ci dobbiamo considerare disonesti. Quando il nostro comportamento confligge con i nostri valori, la cosa più facile che possiamo fare è di rivedere i nostri valori. Pochi di noi sono disposti a pensare di se stessi di essere immorali e tanto meno attribuire ad altri qualcosa di simile, così ricorriamo ad approcci alternativi alla moralità. Si pensi a questi approcci come a una sorta di alt ethics [etica alternativa]. Questo termine si riferisce a sistemi etici nei quali dissimulare è considerato positivo, non necessariamente sbagliato, a volte non effettivamente “disonesto” nel senso negativo della parola. Anche se noi raccontiamo più menzogne che mai, nessuno vuole essere considerato un mentitore».[17]

Insomma, è come se noi, in pratica, tenessimo costantemente spalancata una zona grigia entro la quale la definizione di vero e falso è tenuta continuamente in sospensione, tanto che la questione della verità non ha più alcuna rilevanza agli effetti delle nostre scelte e dei nostri comportamenti. Siamo sempre più ambigui e ci aspettiamo continuamente di trovarci di fronte all’ambiguità. L’indifferenza verso la verità, nel suo lato pratico, pare così avere perso il carattere minaccioso della figura del mentitore, di colui che conoscendo una verità la celava per ingannare. Pare anzi assumere una connotazione positiva, poiché pare capace di oliare adeguatamente la macchina delle relazioni sociali. Non badare troppo alla verità risparmia un sacco di fastidi e permette di essere sempre perfettamente adeguati.

11.2. Si noti che un atteggiamento oltre-vero nell’ambito pratico è possibile solo in un contesto nel quale sia indebolita la nozione stessa della autenticità individuale. Il problema di fronte a cui si trovano costantemente gli individui oltre-veri non è più quello di presentarsi agli altri nella propria autenticità quanto quello di apparire in modo adeguato alla situazione in cui si trovano. Nello sforzo di essere aderenti a ciascuna situazione, i singoli individui sono sempre più disincentivati allo sforzo di definire una propria autenticità personale stabile e permanente. Ciò ingenera identità fluttuanti che curano soltanto la rappresentazione contestuale da mettere in scena. Insomma, sempre meno autentici e sempre più teatranti. Solo in una simile prospettiva la menzogna può essere derubricata a peccato veniale o anche considerata come una sottile arte di buona condotta, come nel caso del già citato bullshit artist. Con la postverità cade l’interesse per una definizione stabile del self e quindi un interesse per l’autenticità della rappresentazione di sé presso gli altri. Poiché si deve mettere in scena una rappresentazione adeguata e poiché il contesto muta velocemente, allora il bullshit può rappresentare uno strumento di lavoro del tutto ammissibile, anzi una materia prima indispensabile – nello spirito rortyano di essere ironici, tolleranti e socievoli.[18]

11.3. La diffusione dell’indifferenza nei confronti della verità oltre al suo lato pratico ha naturalmente anche il suo lato teorico. La perdita di importanza della verità in campo pratico è del tutto parallela con la convinzione che la verità non esista, e viceversa. Non ci stiamo occupando qui della questione filosofica della negazione della verità, vecchia quanto la filosofia occidentale.[19] Ci occupiamo piuttosto di un fatto conclamato ed esplicito, cioè della convinzione oggi diffusa ovunque – dagli intellettuali ai politici, fino alle casalinghe – secondo cui in fin dei conti non c’è alcuna questione di verità di cui valga la pena di occuparsi.

11.4. Questa idea strampalata,[20] per quanto se ne sa, ha presumibilmente avuto origine nell’ambito dei movimenti radicali degli anni Sessanta. Fu proprio in quell’ambito che cominciarono a diffondersi, a livello di massa, sull’onda della popolarità delle filosofie del sospetto,[21] due orientamenti strettamente imparentati con l’oltre-vero, e cioè il relativismo[22]e, soprattutto, il politically correct.[23] Si trattava, in origine, dell’applicazione di un egualitarismo radicale al linguaggio, alle relazioni sociali e ai fenomeni culturali. Siccome la verità era generalmente considerata come un’imposizione del potere (come ad es. in Michel Foucault) allora non restava che considerare come altamente sospetta e pericolosa qualunque pretesa veritativa e riconoscere radicalmente la pluralità dei punti di vista. Ciò trovava ampie applicazioni soprattutto nel campo del discorso, ma anche nei campi relativi ai rapporti tra i sessi o alle questioni etniche. Ben presto però tutte le nozioni cardine elaborate dalla modernità, come la razionalità, la logica, le grammatiche e le enciclopedie, la scienza, la tecnologia, gli apparati giuridici e istituzionali, furono sottoposte a una critica erosiva, spesso vandalica, che mirava a smascherare il potere ovunque nascosto, a imporre la neutralità terminologica e a riconoscere la molteplicità dei punti di vista.

11.5. Proprio a partire dal relativismo e dal politically correct, nel volgere di pochi anni, ha preso forma e si è diffusa presso il vasto pubblico, anche e soprattutto come una moda, la filosofia postmoderna che ha costituito una specie di pastiche sincretico – di carattere cinico, anarcoide e antimoderno – di tutte le filosofie che nell’ambito dei movimenti si erano connotate contro. Il postmoderno si è scagliato contro tutti i sistemi consolidati di verità e ha proclamato la fine delle grandi narrazioni. Al posto del pensiero forte (quello che pretenderebbe di veicolare una qualche verità) è stato esaltato il pensiero debole ed è stato dato l’addio alla verità.[24]

Sui rapporti tra il postmoderno e la postverità (o oltre-vero) è stato scritto alquanto e ci sarebbe molto da dire.[25] Abbiamo già citato le imposture intellettuali e la burla di Sokal che era diretta proprio contro la filosofia postmoderna. Per brevità, mi limiterò a un breve montaggio di alcuni passi di Maurizio Ferraris, che è intervenuto ancora recentemente sulla questione nel suo libretto intitolato Postverità e altri enigmi.[26] L’Autore sottolinea il peso che ha avuto il postmodernismo nello screditamento della verità anche e soprattutto a livello del grande pubblico. Si domanda Ferraris: «Da dove viene la postverità? Una volta tanto, dalla filosofia. […] La postverità è un frutto, magari degenere, del postmoderno».[27] E continua: «[…] quella che si chiama «postverità» non è che la popolarizzazione del principio capitale del postmoderno (ossia la versione più radicale dell’ermeneutica), quello appunto secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni»».[28] E ancora: «[…] la postverità è l’inflazione, la diffusione e la liberalizzazione del postmoderno fuori dalle aule universitarie e dalle biblioteche, e che ha come esito l’assolutismo della ragione del più forte».[29] Più precisamente: «L’ultima fase [del postmoderno ndr] […] corrisponde alla popolarizzazione delle idee postmoderne, che escono dalle accademie e, con l’aiuto decisivo dei media, si trasformano dapprima nel populismo (in cui esiste ancora un rapporto verticale tra governanti e governati garantito dalla televisione) e poi nella postverità (in cui il rapporto diviene orizzontale, visto che governanti e governati si servono dei medesimi social media)».[30] E ancora, tanto per finire: «[…] la continuità fra postmoderno, populismo e postverità è diretta».[31]

11.6. Se questa piccola ricostruzione ha qualche fondamento, allora l’antipatia per la verità, che sta con ogni evidenza alle origini della post-truth era, è dunque storicamente connessa, in forma ovviamente del tutto scorretta, all’antipatia per il potere, per tutte le limitazioni e per i vincoli di ogni sorta. Essa corrisponde a un momento intenso di autoesaltazione dei soggetti i quali pare abbiano preso a considerare se stessi come il centro del mondo. In filosofia – come bene ha spiegato Ferraris – questo atteggiamento è tipicamente costituito e supportato dalle filosofie trascendentali, attraverso l’idea cioè che il soggetto strutturi il mondo attraverso gli schemi della sua mente.[32] Più ampiamente, a livello culturale, questo atteggiamento è stato tipico di tutti i romanticismi. In proposito, così ha sintetizzato Isaiah Berlin: «I fondamenti essenziali del Romanticismo sono i seguenti: la volontà, il fatto che non esiste una struttura delle cose, che ci è possibile plasmare le cose a nostro piacimento – esse pervengono all’essere soltanto per effetto della nostra attività plasmatrice –, e di conseguenza l’opposizione a qualunque concezione che cerchi di rappresentare la realtà come dotata di una forma suscettibile di essere studiata, descritta, appresa, comunicata ad altri, e sotto ogni altro aspetto trattata in un modo scientifico».[33] Insomma, secondo Berlin, anche quando i romantici sembrano profondamente immersi in quel che fanno, essi sono pervicacemente fuori dal mondo, assolutamente indisponibili a venire a patti con la realtà. Si noti che il romanticismo è stato forse la prima forma culturale prodotta da intellettuali a essere ampiamente popolarizzata e ad avere guadagnato una specie di vita autonoma. Molto prima del postmoderno.

12. Perché proprio ora? Si tratta di fenomeni decisamente nuovi oppure si tratta solo di nuove modalità di presentazione di fenomeni vecchi come il mondo? Secondo diversi studiosi, la caduta dell’autorità veritativa cui stiamo assistendo sarebbe stata resa possibile, ingigantita e moltiplicata, da una nuova base materiale (per dirla con Marx) prima sconosciuta, costituita dalle nuove tecnologie dell’informazione. In altri termini, lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione costituirebbe una condizione sufficiente, seppure non necessaria, dell’oltre-vero. In effetti, a guardare bene, le tappe temporali dell’allarme circa la diffusione della famiglia delle nuove menzogne sono all’incirca le stesse che hanno segnato la diffusione delle nuove tecnologie.

Le nuove tecnologie, seguendo Ferraris,[34] hanno agito, a quanto pare, attraverso una duplice modalità. In primo luogo, la rivoluzione delle nuove tecnologie ha messo a disposizione di ogni singolo individuo la possibilità di memorizzare, elaborare e diffondere una quantità enorme d’informazione. Ancora nel caso dei primi media, l’informazione era distribuita a senso unico da centri e agenzie specializzate verso il pubblico. Oggi ogni singolo è diventato un’agenzia di produzione e diffusione. In secondo luogo, nello stesso tempo, è aumentato decisamente il ruolo della informazione nella costituzione intrinseca del mondo sociale.[35] In particolare si è reso sempre più tangibile il ruolo delle iscrizioni e dei documenti nella vita quotidiana e nella strutturazione stessa delle istituzioni. Ferraris, per concettualizzare queste trasformazioni, ha parlato di una rivoluzione documediale.

Secondo Ferraris: «[…] la rivoluzione documediale è l’unione tra la forza di costruzione immanente alla documentalità e la forza di diffusione e mobilitazione che si attua nel momento in cui ogni ricettore di informazioni può essere un produttore, o almeno un trasmettitore, di informazioni e di idee».[36] La documedialità ormai diffusa sta così permettendo una strutturazione completamente nuova dello spazio comunicativo, rendendo così possibile – sebbene non sia una conseguenza necessaria – anche il mondo della postverità. Così ha sintetizzato Ferraris con una formula davvero icastica: «L’ideologia che anima la postverità è l’atomismo di milioni di persone convinte di aver ragione non insieme (come credevano, sbagliando, le chiese ideologiche del secolo scorso) ma da sole».[37]

Le nuove tecnologie sembra dunque abbiano così reso possibile – magari anche solo come effetto secondario – una indifferenza di massa nei confronti della verità e della realtà.

13. Il carattere peculiare della nuova situazione è chela verità, da fatto pubblico e sempre soggetto a qualche tipo di controllo autoritativo – qual era stata finora prevalentemente – tende sempre più a diventare un fatto privato che tuttavia è costantemente ed egotisticamente sbandierato in pubblico da chiunque. Ciascuno è diventato imprenditore della propria verità. Questa nuova situazione contrasta profondamente con un’imposizione che si è sempre accompagnata alla nozione tradizionale della verità e cioè con l’obbligo morale di dire la verità o, per lo meno, di tener conto della verità. I greci avevano elaborato in proposito il concetto della parresia,[38] su cui ha riflettuto l’ultimo Foucault. Socrate non può evitare di dire la verità ai suoi concittadini. Oggi Socrate avrebbe il suo blog e, a parte i suoi follower, sarebbe perfettamente ignorato da tutti. Al posto della parresia pubblica, divenuta impossibile, abbiamo oggi l’impulso a pubblicare i nostri preziosi punti di vista, anche se già svalutati in partenza dalla loro convivenza con i punti di vista di milioni di altri soggetti.

Volendo usare una semplificazione, è come se l’indebolimento e la crisi delle grandi narrazioni collettive – fenomeno che è stato ampiamente sottolineato proprio dal postmodernismo – avesse lasciato il posto a una moltitudine di micro narrazioni private riguardanti i campi più disparati e che ciascuno ora è in grado, per quel che può, di costruire, di mantenere e diffondere a suo uso e consumo. Ognuno prende per veri i propri deliri e li mette in rete, alla ricerca di qualcun altro disposto a condividerli, con la probabilità, sorprendentemente alta, di trovare un gran numero di follower. Analizzare e smentire ciascuno di questi infiniti deliri sarebbe ormai un compito improbo per qualsiasi autorità che abbia in mentre di provvedere a qualche tipo di controllo e certificazione. Il volume enorme di pretese verità e narrazioni che si rendono ogni giorno disponibili non fa altro che produrre una sorte di meccanismo di inflazione. Troppe verità in giro non possono che andare soggette a una svalutazione. Così la zona grigia tra il vero e il falso si è dilatata mostruosamente, come aveva già suggerito Keyes.

14. Questa trasformazione non resta confinata ai singoli individui. La postverità tende sempre più a caratterizzare lo spazio comunicativo e il fatto più rilevante è che si appresta inavvertitamente a prendere il posto dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica in Occidente – secondo il classico studio di Habermas[39]– è nata con la libertà di pensiero e con la diffusione dei primi mezzi di comunicazione, come le gazzette e i servizi postali, e dei primi luoghi di incontro, come caffè e teatri.[40] I singoli soggetti s’informavano, s’incontravano, discutevano e alla fine opinavano, esprimevano cioè un’opinione più o meno meditata intorno a importanti questioni pubbliche. L’opinione pubblica (che pure non sempre aveva ragione) contribuiva comunque – nel sistema democratico – all’elaborazione di credenze condivise, all’identificazione del bene comune e alla formazione della volontà generale. Sappiamo bene che la nozione dell’opinione pubblica habermasiana è stata sottoposta a molte critiche. Spesso ne sono stati identificati i limiti. Lo stesso Habermas aveva parlato, quando ancora il fenomeno era poco avvertito, di una crisi della opinione pubblica. Molti studi relativi alle trasformazioni delle democrazie contemporanee si sono focalizzati sulle trasformazioni o sui limiti della opinione pubblica. Tuttavia resta pur sempre il fatto che una opinione pubblica matura costituisce uno dei pilastri essenziali delle democrazie.

Accade così che, al posto della vecchia opinione pubblica, plurale e variegata, fatta di molteplici incontri faccia a faccia che avvenivano ancora in spazi fisici e grazie a oggetti fisici, oggi si va sostituendo il mare della nostra metafora, ossia un unico spazio virtuale indifferenziato, di dimensioni globali, dove ogni individuo – divenuto centro di elaborazione e diffusione di informazione – rovescia i suoi contenuti e valuta i contenuti altrui con risposte che si mantengono – come si è detto – per lo più a livello espressivo ed emotivo, e che non hanno mai alcuna validazione, alcun confronto effettivo con la realtà. Uno spazio in continua ebollizione, dove tuttavia non si giunge mai ad alcuna conclusione, alcun accordo, dove anzi si scatenano sovrapposizioni continue, dove c’è continua concorrenza o dove ci si ignora bellamente. Si tratta di uno spazio in cui gli universali della comunicazione[41] sono costantemente violati o stravolti. Si tratta tuttavia di uno spazio che è in grado di condizionare in modo imprevedibile le risposte, le scelte e i comportamenti di un pubblico enorme. In questa alterazione radicale delle caratteristiche della tradizionale opinione pubblica sta proprio la radice dei fenomeni più eclatanti della postverità e cioè della invasione delle imposture intellettuali, delle fake-news e della politica postruista.

15. Il mondo della postverità – è il caso di ricordarlo esplicitamente –è decisamente antitetico ai fondamenti del processo politico democratico. La nozione roussoviana della democrazia implicava che i cittadini dovessero stabilire un’agenda comune, dovessero entrare in un confronto razionale tra loro e che, alla fine, dovessero giungere a deliberare intorno al bene comune. E che la deliberazione della maggioranza dovesse essere accettata dalle minoranze, poiché tutti sarebbero stati tenuti a sottomettersi alla regola della maggioranza. Per fare questo occorreva comunque che si condividessero gli universali della comunicazione, ad esempio l’esigenza di argomentare, di fornire delle prove, di non fraintendere, di non screditare l’interlocutore. Nella post-truth era non c’è più nulla di tutto questo. Nessuno è più tenuto ad argomentare, ad ascoltare, a confutare o a consentire, non ci sono più universali comuni che sottintendano alla comunicazione. Non si cerca più una verità comune perché si è già convinti che una verità comune non c’è, e che non è neppure così importante che ce ne sia una. I criteri di scelta di ciascuno sono imperscrutabili e comunque del tutto fluidi. Gelosamente privati. O al più condivisi momentaneamente in ambiti ristretti. I gruppi dei follower si fanno e si disfanno con grande rapidità, non discutono esaurientemente di nulla, non deliberano su nulla, al più usano una logica binaria del tipo likedislike. L’unica cosa implicita che è sempre presente è la richiesta a tutto il mondo del riconoscimento del proprio punto di vista, del proprio ego. Questa nuova situazione non può che spingere i sistemi democratici verso il populismo.[42]

16. Abbiamo rilevato come le nuove tecnologie dell’informazione abbiano costituito per lo meno la condizione sufficiente – seppure non necessaria – per lo sviluppo del mondo dell’oltre–vero. Tuttavia è assai problematico individuare quale sia esattamente la connessione tra i due fenomeni e su questo punto anche tra gli studiosi sussistono molte divergenze. Per capire meglio la questione dobbiamo approfondire la questione del rapporto tra tecnologia e cultura.

16.1. Sugli effetti culturali delle tecnologie, il riferimento più tradizionale va a McLuhan e alla scuola di Toronto. Secondo questo orientamento, le tecnologie della comunicazione sono delle vere e proprie estensioni del self e gli esseri umani tendono a costruire il proprio self in funzione delle tecnologie comunicative di cui dispongono, nella loro società e nella loro epoca storica. Gli studiosi della scuola di Toronto hanno distinto all’incirca tre fasi fondamentali nel rapporto tra l’uomo e la tecnologia. La prima fase sarebbe quella dell’oralità primaria. È questa la condizione delle società che non conoscono la scrittura e che devono organizzare tutto il loro patrimonio culturale intorno all’oralità. Esempio tipico di questa condizione è la cultura omerica, cui corrispondeva un ben preciso tipo di organizzazione del self. A questa prima fase segue la seconda, che corrisponde all’introduzione della scrittura e – dopo molti secoli – all’introduzione della stampa a caratteri mobili. Secondo McLuhan la modernità sarebbe stata possibile solo grazie all’invenzione della stampa, a partire dalla quale si sono sviluppati la Riforma e il pensiero scientifico moderno. Questa seconda fase, assai lunga e variamente definita, sarebbe culminata con lo sviluppo dell’individualità moderna, cioè con il self del cosiddetto uomo gutemberghiano. Si tratta di un self articolato e complesso che è strutturato in forma argomentativa, dotato di un ordine rigoroso, esattamente come un libro stampato.

Solo nella seconda metà del Novecento alcune invenzioni (il telefono, la radio, la televisione) avrebbero spodestato il libro stampato e avrebbero reso possibile la formazione del self per altre vie, recuperando gli aspetti visivi e auditivi della comunicazione. Si sarebbe così giunti alla cosiddetta terza fase, che comporterebbe un indebolimento del carattere gutemberghiano del self e a una sorta di recupero di funzionalità tipiche dell’antica oralità prescritturale. Questa fase è stata definita come oralità secondaria o oralità di ritorno. McLuhan ha caratterizzato questa come la fase del villaggio globale, reso appunto possibile dai media, il cui prototipi erano la radio e la televisione. Nell’ambito della scuola di Toronto naturalmente gli ultimi sviluppi legati alla rete e ai social media sono stati considerati come una conferma della interpretazione di McLuhan.

16.2. Non mancano ai giorni nostri studi specifici sugli effetti a vasto raggio delle nuove tecnologie sul self e sulla cultura. In molti casi i risultati sono effettivamente allarmanti. Un caso è quello di Nicholas Carr che ha pubblicato nel 2010 uno studio dal titolo Internet ci rende stupidi?[43]L’Autore ha ripreso le tesi di McLuhan e le ha messe a confronto con i più recenti risultati delle neuroscienze. Ebbene, le tesi dello studioso canadese sono uscite decisamente corroborate e meglio chiarite nei dettagli applicativi. Nello studio di Carr si mostra, con dovizia di basi empiriche, come il nostro cervello sia eminentemente plastico e come le nuove tecnologie siano in grado di cambiare profondamente – in termini fisici – le nostre stesse connessioni e strutture cerebrali e il nostro apparato cognitivo. In particolare, poi, gli studi di Dehaene[44] sulla lettura – ripresi da Carr – hanno mostrato in maniera inequivocabile come gli alfabetizzati abbiano dovuto costruire, nel loro sviluppo, delle particolari strutture cerebrali per essere messi in grado di leggere correntemente. Ha affermato Carr: «La Rete può a buon diritto essere considerata la più potente tecnologia di alterazione della mente mai diventata di uso comune, con la sola eccezione dell’alfabeto e dei sistemi numerici; perlomeno, è la più potente arrivata dopo il libro».[45] L’autore ha lanciato di conseguenza un allarme rispetto alla dipendenza che s’instaura nei confronti delle nuove tecnologie e rispetto all’obsolescenza degli strumenti della cultura – come il libro – cui è stato legato lo sviluppo degli ultimi secoli. Tutto ciò costituirebbe una minaccia molto seria per il pensiero articolato e complesso.

16.3. Non tutti gli studiosi concordano con le teorie della scuola di Toronto. In effetti, se non ci si vuol impegnare con una teoria complessa come quella di McLuhan, per tutta la famiglia di fenomeni connessi all’oltre-vero è disponibile una spiegazione più elementare, la quale insiste sulla sproporzione che è venuta a determinarsi tra la potenza estrema dello strumento reso disponibile dal progresso tecnologico e i limiti (l’animalità, la stupidità o l’imbecillità) dell’utilizzatore medio. Un po’ come nel caso della bomba atomica.

Ferraris, ad esempio, non concorda con le tesi della scuola di Toronto. Secondo Ferraris non sussisterebbe il fenomeno del ritorno a una qualche sorta di oralità secondaria e la nostra civiltà continua a essere, a pieno titolo, una civiltà della scrittura. Pochi anni fa l’Autore aveva scritto un libro per mostrare che il telefonino – data la sua capacità di fondere insieme testo, suono e immagini – costituisce uno sviluppo della fase gutemberghiana, una sua compiuta realizzazione e non certo la sua crisi.[46] Ferraris quindi è stato indotto ad attribuire l’avvento della postverità soprattutto al cattivo influsso di una cattiva filosofia e cioè – come abbiamo già visto – alla filosofia postmoderna. L’avvento della post-truth era sarebbe stato determinato da una scelta colpevole, sia da parte di certi intellettuali sia da parte del grande pubblico che si è lasciato abbindolare. Il tutto non può che tradursi in una condanna morale. Un giudizio assai tranchant nei confronti della tendenza diffusa a sottovalutare le questioni di verità è stato in effetti dato da Ferraris, tra il serio e il faceto, in termini di accusa di imbecillità. Dice Ferraris: «Definisco […] categorialmente o transcategorialmente, l’imbecillità come cecità, indifferenza o ostilità ai valori cognitivi, che dunque come tale è una colpa».[47] Sembra tuttavia che l’indignazione morale non possa esser sufficiente a contrastare quello che pare stia diventando un vero e proprio fenomeno di massa. Anche se Ferraris pare sostenere che l’imbecillità umana sia una costante e che, talvolta, possa giocare anche un ruolo positivo nello sviluppo dello spirito umano.

Anche Umberto Eco aveva sostenuto qualcosa di simile. È il caso di ricordare la sua famosa affermazione: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli […] Prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».[48]Secondo Eco, dunque, la stessa potenza delle nuove tecnologie stava rendendo possibile la riproduzione e diffusione ovunque della spazzatura subculturale. Alle origini del fenomeno ci sarebbe sempre il contrasto tra la potenza dello strumento e la costitutiva stupidità umana che sarebbe da considerarsi, sul piano storico, più o meno come un elemento invariante.

16.4. Altri studiosi hanno segnalato, in forme diverse, sempre a partire dagli anni Novanta, la realtà di un progressivo degrado culturale a livello di massa, che costituirebbe una netta inversione di tendenza rispetto al periodo precedente. Il linguista Tullio De Mauro ha spesso richiamato l’attenzione sull’analfabetismo funzionale di una parte rilevantissima della popolazione italiana, a cui l’istruzione di massa, promossa in tutta la seconda metà del Novecento, pare non abbia posto gran che rimedio.[49] Le statistiche in questo senso sono, in effetti, sempre più preoccupanti e, in termini funzionali, non si nota alcun miglioramento.

Va segnalato anche – quasi profetico nel nostro contesto – il grido di allarme di Sartori nel suo famoso libretto Homo Videns che è del 1997.[50] Sartori fin da allora si era particolarmente interessato al destino dell’homo politicus, che egli vedeva lentamente trasformarsi in homo videns, una specie di bambino mai cresciuto che non è più in grado di ragionare. Seguendo in un certo qual modo McLuhan, Sartori ha messo l’accento sulla differenza fondamentale tra vedere e pensare e sul «[…] prevalere del visibile sull’intelligibile che porta a un vedere senza capire».[51] Afferma Sartori: “[…] tutto il sapere dell’homo sapiens si sviluppa nella sfera di un mundus intelligibilis (di concetti, di concepimenti mentali) che non è in alcun modo il mundus sensibilis, il mondo percepito dai nostri sensi. E il punto è questo: che la televisione inverte il progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia nell’ictu oculi, in un ritorno al puro e semplice vedere. La televisione produce immagini e cancella i concetti: ma così atrofizza la nostra capacità astraente e con essa tutta la nostra capacità di capire. […] L’idea, scriveva Kant è «un concetto necessario della ragione al quale non può essere dato nei sensi nessun oggetto adeguato”».[52]

Va segnalato che il sottotitolo del libro di Sartori era Televisione e post-pensiero. Il post-pensiero cui accenna Sartori sembra del tutto analogo alla post-verità di cui abbiamo lungamente discusso. Così si esprime, infatti, Sartori, riferendosi al nuovo tipo umano derivante dalla prevalenza dell’immagine sul pensiero: «Il loro non è un genuino anti-pensiero, un attacco dimostrato o dimostrabile al pensare logico-razionale; è più semplicemente una perdita di pensiero, una banale caduta nella incapacità di articolare idee chiare e distinte».[53]Anche in questo caso possiamo parlare di una sopravvenuta irrilevanza del pensiero logico – razionale in una situazione in cui le immagini paiono esaurire il nostro rapporto con la realtà. Sartori si mostrava ben consapevole del fatto che la politica democratica era strettamente legata al pensiero argomentativo e che la progressiva prevalenza di media non-argomentativi avrebbero determinato un grave pericolo per la democrazia.

Anche il linguista Raffaele Simone in diversi suoi scritti ha ripreso, in un certo senso, alcuni aspetti delle tesi di McLuhan. Egli tuttavia – più che sviluppare un’articolata teoria dell’oralità secondaria – si è limitato a costatare, attraverso osservazioni empiriche del fenomeno linguistico, che i nuovi media e la rete inibiscono certi modelli culturali dove la testualità è ricca a favore di certi altri ove la testualità è più superficiale ed elementare. Il che rappresenta un ovvio indebolimento dell’uomo gutemberghiano. Si è limitato inoltre a far notare che sussiste il rischio di un grave impoverimento del pensiero. Non a caso il sottotitolo del suo libro del 2000 suona: «Forme di sapere che stiamo perdendo». Darò qualche spazio, nel prossimo paragrafo, alle tesi di Simone, non perché le ritenga del tutto risolutive, ma poiché mi paiono descrivere in maniera appropriata alcuni dati di fatto difficilmente confutabili e oltremodo preoccupanti cui ci troviamo di fronte.

17. Nel suo studio intitolato La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo[54]Simone ha condotto, dal punto di vista del linguista, un’interessante analisi sul fenomeno del cambiamento del self in relazione alle mutazioni dello spazio comunicativo. Poiché il self è in gran parte un costrutto linguistico, è del tutto lecito pensare che il tipo di linguaggio che usiamo e in cui siamo costantemente immersi contribuisca alla strutturazione dello stesso self.

17.1. Come premessa, è di grande interesse una sua nota metodologica relativa alla possibilità di individuare e circoscrivere dei fenomeni che sono per loro natura sfuggenti e che hanno attinenza con le lente trasformazioni culturali e sociali. L’Autore li ha chiamati fenomeni vaghi. Afferma Simone in proposito: «[…] il mondo del simbolico è ricco di quelli che […] ho suggerito di chiamare “fenomeni vaghi” […]. Si tratta di fenomeni di cui tutti avvertiamo la presenza, che ci colpiscono a volte con un’evidenza quasi insopportabile, contro i quali possiamo reagire perfino con fastidio, perché ci irritano o semplicemente ci disorientano – ma che non si lasciano ridurre a cifre, tabelle e trend, non affiorano sotto forma di dati palpabili e obiettivi. Spesso non si lasciano neanche indicare con un nome preciso – anzi, quando li trattiamo in questo modo, si limitano a sparire silenziosamente».[55] È evidente che molti dei fenomeni che abbiamo descritto a proposito della postverità sembrano possedere proprio le caratteristiche dei fenomeni vaghi.

17.2. Simone, nel suo studio, ha cercato dunque di individuare e circoscrivere un fenomeno vago come il cambiamento che sta avvenendo nella struttura del self delle giovani generazioni. Basandosi su osservazioni empiriche sul mondo giovanile e sul confronto tra le generazioni, ha introdotto un’interessante distinzione tra culture proposizionali e culture non proposizionali. Egli osserva che: «[…] negli ultimi decenni del secolo XX, le generazioni giovani hanno adottato usanze comunicative totalmente diverse da quelle dei loro genitori (e più ancora dei loro nonni)».[56] Per comprendere adeguatamente queste trasformazioni: «Distinguerò […] due modelli di uso del linguaggio: uno che chiamerò proposizionale, l’altro che chiamerò non-proposizionale.[…] La pratica proposizionale è tipica di chi ritiene che l’esperienza, se è rilevante, debba essere espressa in parole – anzi, più propriamente, in parole organizzate in proposizioni – e che queste proposizioni siano tanto più significative quanto più sono interrelate tra di loro, formano cioè testi in senso stretto, tenuti insieme da tutte le restrizioni proprie di questo tipo di struttura».[57] Simone sta parlando qui di scrittura. È il caso di ricordare che per definizione: «Nella teoria della letteratura, un testo è qualsiasi oggetto che può essere «letto»».[58] Questo significa che il carattere testuale dell’uso proposizionale non può che derivare dalla familiarità con il testo scritto. L’uso proposizionale del linguaggio è dunque tipicamente gutemberghiano. Afferma Simone che: «[…] l’atteggiamento proposizionale rispetta massime tacite come «sii analitico, sii referenziale, sii strutturato, sii gerarchico». Questi requisiti sono strettamente collegati tra loro, anzi possono essere visti come facce della stessa realtà».[59] Queste massime sono chiamate dall’Autore Massime della Lucidità. Si evoca qui il criterio cartesiano del chiaro e distinto.

17.3. All’inverso, secondo Simone, le caratteristiche dell’atteggiamento non – proposizionale sarebbero le seguenti:«[…] a) è generico, perché non scompone il contenuto del pensiero in elementi distinti, ma si limita ad evocarlo globalmente, lasciandolo inanalizzato e indistinto; b) è vago dal punto di vista referenziale, in quanto non designa individui, ma solo categorie generali indifferenziate; c) per conseguenza non dà nomi alle cose, ma allude, usando “parole generali”, entro le quali si può includere quello che si vuole, così facendo conto su una conoscenza globale condivisa, nella quale i singoli oggetti non hanno nome, e quindi non è necessario nemmeno indicarli specificatamente; d) rifiuta la struttura, sia quella gerarchica dei componenti, sia quella sintattica e testuale, oppure usa strutture estremamente semplici; non usa gerarchia alcuna tra le informazioni che presenta, lasciando all’interlocutore il compito di crearsene una».[60] La conseguenza è che: «Questo orientamento si ispira quindi a una sorta di generale Massima di Fusione. Per effetto di questa, tutto si presenta in una massa indistinta, tutto è in tutto, e analizzare, gerarchizzare e strutturare è inutile o illecito. L’analisi sciupa la percezione e la ricchezza dell’esperienza. […] È costante l’allusione ai rischi del classificare, del distinguere, del separare – proprio le operazioni che […] stanno alla base dell’atteggiamento proposizionale».[61] La Massima di Fusione insomma è quella che governa le conversazioni quotidiane in ambiti familiari, o al più quella che sta alla base di certe esperienze e filosofie di orientamento irrazionalistico, come ad esempio il romanticismo o la gnosi. Per certi aspetti può richiamare il globalismo della visione del mondo infantile.

Dunque le culture non proposizionali non è che mettano da parte il linguaggio scritto, non è che tornino alla oralità primaria. Semplicemente non usano le migliori potenzialità del testo scritto e si limitano a usare la scrittura in termini riduttivi accanto e insieme ad altri elementi mediali. Insomma, quello che Sartori chiamava pensiero è qui ridotto alle sue forme più elementari.

17.4. Questa differenza nell’uso linguistico, secondo Simone, struttura diversamente il self, genera diversi orientamenti culturali e ha un valore decisamente generale: «Non c’è dubbio che quella che chiamiamo globalmente civiltà occidentale (termine generico, che include non solo determinazioni politiche come il concetto di democrazia, di persona, di libertà personale, ma anche determinazioni discorsive come quelle di ragione, di discorso, di analisi, di scienza, di spirito critico, e così via) sia di tipo proposizionale».[62] Come si può ben comprendere, quelle citate da Simone sono le caratteristiche della civiltà occidentale che sono culminate nella classica visione della modernità. È abbastanza ovvio concludere che l’indifferenza alla verità, di cui ci siamo a lungo occupati in questo stesso articolo, possa trovarsi agevolmente dalla parte della cultura della Grande Fusione piuttosto che dalla parte della cultura della Lucidità. Si noti che le caratteristiche della cultura proposizionale, che sono anche quelle della modernità, sono quelle stesse caratteristiche delle grandi narrazioni (tra cui la scienza) di cui il postmoderno ha dichiarato l’oltrepassamento. Quasi tutte le definizioni della postverità insistono – come s’è ben visto – sulla dominante emotiva che tende a sostituire l’attenzione per la verità e per la realtà. Anche nel caso del populismo – espressione politica per eccellenza dell’oltre-vero – sembra essere presente una dominante decisamente emotiva, oltre a una chiara tendenza a non fare i conti con la realtà. Anche il bullshit artist è un intrattenitore di successo proprio grazie ai meccanismi non proposizionali della Grande Fusione.

Trattandosi di fenomeni vaghi, nell’ accezione di Simone, occorre ovviamente guardarsi dall’istituzione di relazioni causali univoche e dirette tra le nuove tecnologie e le diverse manifestazioni della postverità. Le nuove tecnologie con ogni probabilità rappresentano soltanto la condizione sufficiente che ha reso possibile la diffusione della cultura della Grande Fusione e della postverità. Le nuove tecnologie, di per sé, possono ugualmente alimentare entrambi gli usi del linguaggio, entrambe le culture, sia quella della Lucidità sia quella della Grande Fusione. Perché allora a livello di massa pare stia di gran lunga prevalendo la Fusione sulla Lucidità?

Le ragioni generali di questo trend non sono difficili da spiegare. La testualità articolata e complessa (e tutte le sue implicazioni, tra cui il pensiero argomentativo e la razionalità) non è spontanea, deve essere conseguita attraverso una disciplina. È un greve fardello che si sovrappone – per dirla con Recalcati – all’anarchia del desiderio. Abbiamo visto che secondo Dehaene per accedere alla lettura occorre costruire e mantenere dei veri e propri circuiti cerebrali che hanno anche dei risvolti fisici. In termini foucaultiani, la testualità poi è sempre stata considerata come espressione del potere. Rappresenta una sottomissione. La Grande Fusione da questo punto di vista rappresenta invece la liberazione dal fardello del testo. Lo svincolamento dal potere nascosto associato alla scrittura e alle grandi narrazioni. I postmoderni, in molte delle loro manifestazioni, hanno solo e sempre predicato la Grande Fusione contro la Lucidità.

Le nuove tecnologie non sono dunque soltanto veicolo di modernità, permettono anche di sfuggire facilmente al fardello della modernità e permettono indubbiamente di liberare il desiderio. Insomma, invece di alfabetizzarsi e disciplinare il self, invece di strutturare il self come un testo organico e rigoroso, invece di diventare compiutamente uomini del libro,si può passare il tempo a contemplare suoni e immagini. Si può diventare molto social. Si può aspirare a diventare bullshitter professionali. Mentre l’interazione con il libro lascia le sue tracce e ci cambia profondamente, l’interazione con le nuove tecnologie più che altro non fa che rispecchiare quel che già siamo. Secondo la legge di Dember, ciascuno di noi tende a scegliere gli stimoli che hanno il nostro stesso livello di complessità interna.[63] Parafrasando Ferraris, se siamo imbecilli, useremo le tecnologie da imbecilli. Ha senz’altro ragione Ferraris quando ci ricorda che il telefonino è una macchina per scrivere[64] e quindi rappresenta uno sviluppo nobile della scrittura e della stampa a caratteri mobili. Tuttavia, di fatto, è prevalentemente utilizzato per produrre e scambiare il bullshit che ci invade da ogni parte. La tecnologia è accondiscendente ai nostri peggiori difetti, ci permette anche questo suo uso degradato, ma se così facciamo, in effetti, è solo colpa nostra.

17.5. Cerchiamo, avviandoci a concludere, di riprendere le fila del nostro discorso. Abbiamo preso il via da una serie disparata di fenomeni connessi alla svalutazione della verità che si sono progressivamente imposti alla nostra attenzione, che all’incirca sono emersi tutti nello stesso periodo e che possiedono indubbiamente una certa somiglianza di famiglia. Di qui la nostra metafora dell’iceberg. Secondariamente abbiamo osservato come tutti questi fenomeni siano connessi alle nuove tecnologie, se non altro in termini di condizioni sufficienti. Senza le nuove tecnologie questi fenomeni non sarebbero diventati così tangibili e preoccupanti. In terzo luogo ci siamo domandati se i nostri fenomeni, nella loro relazione con le nuove tecnologie, non costituissero altrettante facce diverse di uno stesso fenomeno unitario ben definibile e spiegabile. Siamo andati in altre parole in cerca di una teoria.

Abbiamo qui incontrato una gamma di spiegazioni non del tutto univoche. La teoria più semplice consiste nell’invocare una sproporzione tra la potenza degli strumenti oggi resi disponibili e l’insipienza umana. Nel caso della postverità ci troveremmo così semplicemente di fronte all’espressione dell’imbecillità umana elevata alla nona potenza. Il pericolo in questo caso è che la maggioranza così caratterizzata finisca per prendere il potere (se non lo ha già fatto). La teoria più complessa postula invece che le nuove tecnologie stiano per così dire agendo dall’interno, stiano producendo cioè una serie di trasformazioni profonde a livello culturale e soprattutto a livello del self. In tal caso, sarebbero queste trasformazioni profonde a rendere possibili i fenomeni ben visibili di cui ci siamo occupati, dalla politica postruista alle fake news, fino ai populismi. Di queste trasformazioni profonde avremmo poca consapevolezza poiché – con il linguaggio di Simone – esse costituirebbero dei fenomeni vaghi, molto evidenti nelle loro manifestazioni particolari ma costitutivamente alquanto sfuggenti. Il pericolo qui è quello di una minaccia che si accumula dentro di noi, di una lenta trasformazione dei nostri simili, fino a renderli irriconoscibili, più o meno come nel film L’invasione degli ultracorpi.

Possiamo in estrema sintesi scegliere tra due macro alternative: a) quel che succede oggi alla verità è soprattutto frutto della costitutiva imbecillità umana oggi esaltata dalla potenza delle nuove tecnologie, oppure b) quel che sta succedendo oggi alla verità è frutto di una mutazione antropologica, effetto delle nuove tecnologie stesse, che ci sta cambiando profondamente in peggio, a nostra insaputa, anzi, con il nostro concorso. Dalla padella nella brace. Può darsi che l’avvento della documedialità – siamo appena all’inizio -possa costituire la base materiale per una nuova maturazione individuale, la possibilità davvero per tutti di un salto nella terra della testualità più ricca, e quindi la possibilità effettiva di realizzazione di una vera modernità, per la quale però – come s’è visto – occorrerebbe rimettere al centro la verità. Le potenzialità forse ci sarebbero. Oppure può darsi – come sembra piuttosto stia accadendo, quale che ne sia la spiegazione – che il mare dell’oltre-vero finisca per seppellire definitivamente la verità e la modernità, annegandoci nel bullshit e consegnandoci a un nuovo medioevo populista.

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The Post-Truth Era.Dishonesty and Deception in Contemporary Life, St. Martin’s Press, NewYork.

1990Habermas, Jürgen
Strukturwandel der Öffentlichkeit. Untersuchungen zu einer Kategorie der bürgerlichen Gesellschaft, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main.Tr. it.: Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari, 2002. [1962]

2007Marconi, Diego
Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino.

1995Searle, John R.
The Construction of Social Reality, Free Press, Chicago.Tr. it.: La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino, 2006.

1997Sartori, Giovanni
Homo videns. Televisione e post – pensiero, Laterza, Bari.

2000Simone, Raffaele
La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, Bari.

1997Sokal, Alan&Bricmont, Jean
Impostures intellectuelles, Odile Jacob, Paris.Tr. it.: Imposture intellettuali, Garzanti, Milano,1999.

2009Susstein, Cass
On Rumors: How Falsehoods Spread, Why We Believe Them, What Can Be Done, Allen Lane.Tr. it.: Voci, gossip e false dicerie. Come si diffondono, perché ci crediamo come possiamo difenderci, Feltrinelli, Milano, 2010.

1983Vattimo, Gianni&Rovatti, Pier Aldo (a cura di)
Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano.

2009Vattimo, Gianni
Addio alla verità, Meltemi, Roma.


Note

[1] Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nell’aprile del 2018. Poiché l’argomento non ha cessato di essere di estrema attualità, ho avuto l’occasione di apportarvi diversi aggiornamenti. La versione che qui presento è un ulteriore aggiornamento realizzato nel giugno 2025, in seguito all’interesse a ripubblicarlo manifestato dagli amici del blog Viandanti delle nebbie. Preciso di non avere usato, nella redazione del testo, alcuno strumento di intelligenza artificiale.

[2] Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo cominciarono a comparire diversi contributi critici contro il relativismo e contro il postmodernismo che era stato la prospettiva filosofica imperante nei due decenni precedenti. Si vedano, ad esempio, Jervis 2005, Boghossian 2006 e Marconi 2007.

[3] Cfr. Sokal & Bricmont 1997. Nella versione francese compare la dizione impostures intellectuelles, mentre nella versione in inglese nel titolo compare la dizione fashionable nonsense, traducibile con stupidaggini alla moda o sciocchezze di moda.

[4] Cfr. Sokal & Bricmont 1997: 15-16.

[5] Il termine bullshit – altresì rendibile con svariati sinonimi, come balle, fesserie, cazzate, puttanate – viene comunemente tradotto in italiano con stronzate. Il libretto è stato pubblicato in italiano col titolo di Stronzate. Un saggio filosofico. Cfr. Frankfurt 2005.

[6] Cfr. Frankfurt 2005: 11.

[7] Cfr. il mio articolo Finestre rotte: “Stronzate”, un concetto sempre più attuale pubblicato sul blog Finestrerotte il 2/7/2015.

[8]Si noti che la stessa Wikipedia, per certi aspetti, potrebbe essere un prodotto della postverità. La qualità delle definizioni di Wikipedia è assai variegata e un attento controllo è sempre necessario.

[9] Si veda Wikipedia in italiano, alla voce rispettiva. Wikipedia in inglese fornisce la stessa definizione.

[10] Così spiegano gli Oxford Dictionaries: «The compound word post-truth exemplifies an expansion in the meaning of the prefix post- that has become increasingly prominent in recent years. Rather than simply referring to the time after a specified situation or event – as in post-war or post-match – the prefixin post-truth has a meaning more like ‘belonging to a time in which the specified concept has become unimportant or irrelevant’». Cfr. https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016.

[11] Sulla nozione logica e filosofica di menzogna, vedi D’Agostini 2012.

[12] H. G. Frankfurt (2005: 53).

[13] Cfr. Frankfurt 2005: 51. Bullshit artist potrebbe essere reso con il nostro termine contaballe.Una sorta di contaballe specialista e professionale.

[14] La citazione contiene un mio piccolo aggiustamento, visto il carattere cooperativo di Wikipedia.

[15] La nozione di somiglianza di famiglia risale al filosofo Ludwig Wittgenstein.

[16] So bene che non tutti gli studiosi concorderebbero con queste mie semplificazioni. Solo per brevità seguo la definizione di Frankfurt, per il quale bullshit è una categoria generale. Secondo Ferraris, ad esempio, il bullshit costituirebbe una categoria più specifica, assieme a numerose altre. Si veda Ferraris 2017, prima dissertazione.

[17] Cfr. Keyes 2005: Post-Truthfulness. La traduzione è nostra.

[18] L’allusione ovviamente va al filosofo nord americano Richard Rorty, neopragmatista e postmoderno.

[19] Si veda D’Agostini 2002.

[20] Per una confutazione della tesi VNE secondo cuila verità non esiste si veda D’Agostini 2002.

[21] Paul Ricoeur ha definito come filosofie del sospetto le filosofie di Marx, Nietzsche e Freud. Si tratta di filosofie che condividono l’ipotesi che oltre alle apparenze esista un’altra verità più autentica. Questo modo di pensare ormai popolarizzato ha favorito, nell’era della rete, la proliferazione delle cosiddette verità alternative che spesso non sono altro che bullshit.

[22] So bene che esistono diversi tipi di relativismo. Qui non posso che semplificare per brevità.

[23] È curioso che il politically correct abbia conosciuto una ampia diffusione all’inizio degli anni Novanta.

[24] Cfr. Vattimo & Rovatti 1983 e Vattimo 2009.

[25] Per chi fosse interessato, segnalo il mio articolo Il tramonto annunciato dei profeti del nulla pubblicato sul blog Finestrerotte in data 18/3/2015. Cfr. Finestre rotte: Il tramonto annunciato dei profeti del nulla.

[26] Cfr. Ferraris 2017.

[27] Cfr. Ferraris 2017: 19.

[28] Cfr. Ferraris 2017: 21.

[29] Cfr. Ferraris 2017: 11.

[30] Cfr. Ferraris 2017: 27.

[31] Cfr. Ferraris 2017: 48.

[32] Cfr. Ferraris 2004 e Ferraris 2012.

[33] Cfr. Berlin 1965: 195.

[34] Cfr. la seconda dissertazione in Ferraris 2017.

[35] Su questo punto si veda Searle 1995.

[36] Cfr. Ferraris 2017: 69.

[37] Cfr. Ferraris 2017: 113.

[38]Cfr. Foucault 1983.

[39]Cfr. Habermas 1990 [1962].

[40] Si veda Habermas 1990[1962].

[41] Sugli universali della comunicazione si veda sempre il contributo di Habermas.

[42] Segnalo in proposito il mio saggio: I soggetti del populismo, pubblicato sul mio blog Finestrerotte il 23/3/2017. Cfr. Finestre rotte: I soggetti del populismo .

[43] Cfr. Carr 2010. Lo studio originale è del 2010 ed è stato pubblicato in Italia l’anno successivo.

[44] Cfr. Dehaene 2007.

[45] Cfr. Carr 2010: 144.

[46] Cfr. Ferraris 2007 [2005].

[47] Cfr. Ferraris 2016.

[48] Cfr. http://www.huffingtonpost.it/2015/06/11/umberto-eco-internet-parola-agli-imbecilli_n_7559082.html

[49] Si veda ad esempio De Mauro 2010.

[50] Cfr. Sartori 1997.

[51] Cfr. Sartori 1997: XI.

[52] Cfr. Sartori 1997: 22.

[53] Cfr. Sartori 1997: 111.

[54] Cfr. Simone 2000.

[55] Cfr. Simone 2000: 125.

[56] Cfr. Simone 2000: 127.

[57] Cfr. Simone 2000: 128-129.

[58] La definizione proviene da Wikipedia (in inglese).

[59] Cfr. Simone 2000: 129-130.

[60] Cfr. Simone 2000: 129-130.

[61] Cfr. Simone 2000: 130-133.

[62] Cfr. Simone 2000: 135.

[63]Cfr. Dember & Earl 1957.

[64] Cfr. Ferraris 2007 [2005].

Interstizi

di Paolo Repetto, 30 gennaio 2017, a Lucia Barba

Si sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto. Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere.
René Daumal, Il Monte Analogo, pp. 36

Carissima Lucia,
ricordi la chilometrica mail che ti ho inviato qualche mese fa, quella in cui si parlava di Maffesoli e dei deliri post-moderni? Speravi avessi dimenticato la promessa di tornarci su? Devo deluderti. Invecchiando si incarognisce, nel senso che non si butta nulla che abbia comportato un qualche investimento di tempo. Io poi, da buon contadino che ha allevato con gli avanzi di cucina galline e conigli e maiali, proprio non sopporto di sprecare neppure una riga o un pensiero. Ho continuato a rimuginare su quei temi (questo si, un bello spreco!) e ho poi finalmente deciso di riprenderli in maniera meno disordinata. Ci ho visto addirittura la possibilità di redigere una sorta di testamento spirituale, salvo poi perdermi nella mia stessa logorrea, senza approdare ad alcuna disposizione.
In realtà sentivo da un pezzo la voglia di completare un percorso che va avanti ormai da almeno quarant’anni, e che si è sviluppato con andirivieni tra diversi periodi storici, a partire dallo studio sulle origini della mentalità scientifica (Da Pico a Bacone), lungo quelli sull’immaginario medioevale (Paura e meraviglia nell’Occidente medioevale) e sugli eretici (Il fascino indiscreto degli eretici),attraverso le scoperte geografiche e l’espansionismo europeo (In capo al mondo), fino ad arrivare a quello sulle origini remote della diversità occidentale (La vera storia della guerra di Troia).
Messo così, il tutto, compreso questo sproloquio finale, acquista un senso. Io perlomeno, sia pure tardivamente, ho cominciato a intravvederlo. Naturalmente quel senso non ha che fare con la meta, che sappiamo sin troppo bene quale essere, e giustamente ce ne scordiamo subito: sta invece tutto nel percorso stesso, per usare una banalità diffusa, che in questo caso è forse un po’ meno banale. Non ho raccontato la storia delle idee, come parrebbe voler far credere l’intestazione di questa collana di volumetti, ma le mie idee sulla storia.
Il testamento quindi già esiste, ed è sparso in migliaia di pagine. Temo di esserne l’unico beneficiario: non lascio nulla, ma mi sono divertito un mondo a scriverlo.

INTERSTIZI
Un’Arcadia post-moderna?
L’Occidente alla sbarra
Razionalizzare il mondo
Il peccato originale: la scienza
La redenzione razionale
Utopia e reincanto
Il meno peggio dei mondi possibili
Un’etica della responsabile armonia
L’utopia nelle crepe
Bibliografia

APPENDICI
1a. Ragione e razionalità
1b. Ragione e ragionevolezza
1c. Miti o valori?
2. Le astuzie della decostruzione
3. Cattive compagnie
Bibliografia

Interstizi

Tenete per voi il vostro Byron
che commemora le disgrazie degli uomini.
Io verserò lacrime d’orgoglio
leggendo l’orario delle ferrovie
K. Chesterton

a Lucia Barba, ottobre 2016

Carissima,
senti questa: ci riguarda da vicino. Tu ancora non lo sai, e io stesso ne sono venuto a conoscenza solo qualche giorno fa, ma stiamo vivendo un’utopia interstiziale. Suona come una malattia, un’ulcera duodenale o un’artrite reumatoide, invece è una condizione spirituale: è il vivere un’utopia “liquida”, che “permea il presente, riempiendo ogni spazio possibile”, “un’utopia di nicchia”. Lo scrive Michel Maffesoli[1] e c’è da credergli, perché è un sociologo, nonché un filosofo, con patente da Tir.

Dici che non sembra grave? Che anzi, dovrei rallegrarmene? Mica tanto: mi girano invece parecchio le scatole. Ti spiego. Tu ed io corrispondiamo da anni, abbiamo creato una complicità che non ignora l’esistenza di Trump e dell’ISIS, e nel nostro piccolo di Renzi e Grillo e Salvini, oppure, stringendo al microcosmo che ci è più prossimo, quella dei deficienti che scaricano immondizie in ogni prato e accendono fuochi in ogni bosco: insomma, sappiamo benissimo che mondo c’è là fuori, ma cerchiamo di fare, di pensare, di comportarci nei limiti del possibile come se la maggioranza non fosse costituita da idioti o da delinquenti. Non crediamo nelle “magnifiche sorti e progressive” e neppure nel sol dell’avvenire (a ragion veduta, direi). Nutriamo forti dubbi che le cose possano migliorare in futuro, siamo anzi piuttosto convinti del contrario.

Ma riteniamo che tutto questo non ci esima dal rispettare la condizione di autoconsapevolezza e di dignità alla quale bene o male l’umanità (o almeno, una parte) è pervenuta, sia pure per caso, senza disegni provvidenziali o senza ragioni astute a giustificarla. Ottemperiamo in sostanza ad un imperativo etico (ed estetico), vissuto naturalmente, senza forzature e senza penitenze, e questo ci porta ad opporre una forma di resistenza, non passiva ma nemmeno armata, se non di ironia.

Non siamo soli: è una resistenza condivisa da altri, alcuni che ci corrispondono e moltissimi che non conosciamo, che tutti assieme formano una rete, come quelle tese sotto gli equilibristi, di protezione, non di contenzione: sottile al punto da essere invisibile, ma non per questo meno rassicurante, e comunque non soffocante. È davvero la nostra piccola utopia.

E andrebbe bene così. Ma no. Immancabilmente arriva chi ci disegna attorno una cornice e ci piazza sotto un’etichetta. A quanto pare non è consentito limitarsi a godere delle amicizie, gioire delle sorprese quotidiane offerte dalla natura, qualche volta persino dagli umani, e farlo senza tante didascalie a piè pagina. Occorre farsi inquadrare, identificare e validare, per essere poi inseriti nello schedario.

La mia potrebbe sembrarti una reazione paranoide. In fondo, dirai, che male c’è? Mica devi rendere conto a Maffesoli. Puoi vivere gli anni che ti rimangono continuando tranquillamente come prima: anzi, fallo senz’altro. Maffesoli si limita a constatare l’esistenza di un fenomeno, a descriverlo e a spiegarne le ragioni. Se ti ci riconosci significa che ha visto giusto, in caso contrario non è un problema tuo.

Io penso invece che lo sia. Quel codice a barre che Maffesoli vuole stamparmi sul fondoschiena prude come un’indicazione di scadenza. Quando uno ti spiega che quella che stai vivendo è un’utopia fast food, di pronto consumo e di corto respiro, che permea il presente riempiendo ogni spazio possibile e fungendo da “ammortizzatore spirituale” dell’incertezza, ti sta suggerendo che alla fin fine non è poi diversa da quella di chi si rifugia direttamente nello smartphone o nel mondo parallelo di Uomini e donne o nella devozione a Padre Pio (anzi, a dirla tutta, lascia intendere che sia molto più patetica). Fa insomma di ogni erba un fascio. Ora, non pretendo una considerazione particolare per la nostra utopia: anzi, non ne vorrei proprio nessuna, di considerazione: ma nemmeno accetto che venga banalizzata e gettata nel mucchio delle erbe buone solo per essere bruciate.

Forse do troppo per scontato il mio atteggiamento nei confronti del mondo: ho sempre pensato fosse frutto di un ordinario buon senso, piuttosto che di un condizionamento culturale. E lo penso ancora. Il risultato è però che in questo modo faccio poi fatica a comprendere come altri possano arrivare a convinzioni e ad atteggiamenti così diversi dai miei, e sono indotto a liquidare a mio modo la faccenda, rifiutando di perdere tempo. Vale invece la pena essere un po’ meno snob (come diresti tu) e confrontarsi con questa differenza, se non altro per fare ogni tanto un tagliando di aggiornamento. Non è la prima volta infatti che affronto questo tema: ho già motivato, vent’anni fa – in Come (non) si diventa postmoderni – la mia distanza dalle posizioni di Vattimo, e sono vergine di servo encomio. Ma l’ho fatto in maniera piuttosto naive. Maffesoli mi offre ora un nuovo assist: cercherò di approfittarne per spiegarmi meglio, ma più ancora per chiarire a me stesso in cosa davvero confido. Quanto a te, puoi salutarmi a questo punto, e stai pur certa che non ti perderesti nulla di importante; oppure puoi cercare di seguirmi sino a quando la pazienza ti regge. In questo caso mettiti comoda, perché sarà un giro largo.

Un’Arcadia post-moderna?

Procediamo con ordine. Intanto, chi è Michel Maffesoli. A quanto mi risulta è l’ultimo socio-filosofo francese a rivendicare la qualifica di “postmodernista” (uso questa dicitura, anziché quella di post-moderno, perché post-moderni proprio secondo questa corrente di pensiero siamo tutti quanti, mentre post-modernisti sono coloro che interpretano tale condizione come un salto di qualità). Oggi in effetti la postmodernità non va più di moda, e si preferiscono definizioni più sfumate, come “modernità liquida”, “tarda modernità”, “esiti ultimi della modernità” o cose simili: ma che gli esiti siano ultimi o postumi cambia poco, perché il quadro della situazione che ne viene fuori rimane lo stesso. Ovvero, semplificando all’osso: siamo di fronte all’implosione delle società occidentali, del modello sociale e delle forme politiche (il liberalismo? la democrazia?) che hanno contraddistinto la parabola della modernità. È la fine di un’era e della civiltà che l’ha caratterizzata. Capisco che non è un bel quadro, ma non si può negare che le cose stiano davvero così. Viviamo quotidianamente sulla nostra pelle la crisi delle istituzioni, tutte quante, sociali e politiche, nazionali e sovranazionali, i collassi economici, le guerre di religione, il populismo galoppante, le migrazioni di massa, ecc…, anche quando ci illudiamo di esserne per il momento solo sfiorati.

Sull’esistenza dei sintomi siamo tutti d’accordo. Il mio problema nasce invece dalla lettura delle cause, dalla diagnosi e dalle conseguenti prescrizioni. Secondo l’interpretazione che ne danno i post-modernisti l’implosione sarebbe frutto di un vizio congenito alla cultura occidentale, ovvero dell’abuso della ragione. L’uso esclusivo e totalizzante della ragione avrebbe portato a creare una serie di miti (progresso, giustizia sociale, ecc…), a dar vita a ideologie fondate sulla redenzione collettiva (politiche, sociali, economiche) e di conseguenza, dopo il tragico naufragio di queste ultime, a precipitare l’umanità in un nichilismo devastante. Si imporrebbe pertanto la necessità di una svolta, della transizione ad un pensiero più “debole”, libero dalla tirannia delle certezze, delle ideologie, dei “valori forti”, non costretto entro gli schemi della razionalità. Questa in sintesi è l’idea di “condizione post-moderna” dalla quale Maffesoli prende le mosse.

Più avanti cercherò di evidenziare meglio i passaggi attraverso i quali ci arriva. Prima vediamo invece cosa ci racconta. Da buon sociologo parte dal basso, analizzando i fenomeni apparentemente più marginali, quelli che di norma non godono (forse dovrei dire ‘non godevano’) di una attenzione scientifica: i rituali del consumo, dello sport, della musica e i modi della comunicazione di massa. Focalizza pertanto l’attenzione su centri commerciali, stadi, televisione, nuovi media. Ora, vista la scelta, sarebbe logico diagnosticasse una deriva demenziale generalizzata e inarrestabile, una cosa come l’avvelenamento da piombo per i romani del tardo impero. Invece no. A suo parere i nuovi media stanno incubando forme di aggregazione, di socialità, di comunicazione che possono lasciarci sconcertati, ma che in realtà sono tutt’altro che inediti: sono modelli di comunità (anzi, di community) arcaici che semplicemente riemergono, attualizzati ad un nuovo contesto, dalla discarica dei rifiuti storici alla quale la modernità li aveva conferiti. Siamo in presenza di una ri-tribalizzazione e di un neo-nomadismo, cosa di cui peraltro ci eravamo accorti anche noi, senza focalizzarci più di tanto, soltanto guardandoci attorno e constatando sbigottiti il proliferare di piercing e tatuaggi. Solo che questi termini non assumono per Maffesoli alcuna valenza negativa, perché si inseriscono in quello che definisce il reincanto del mondo (usando una terminologia e una immagine nietzschiana).

In pratica, dice, se fino ad oggi la tecnica asservita alla ragione “ragionante” (fredda, calcolatrice, matematica e omologante) aveva disincantato il mondo, le nuove tecnologie, quelle stesse protesi, come computer, iPad, cellulati e assimilati, che a noi paiono il veicolo primo dell’alienazione globalizzata, sono invece funzionali alla ragione “sensibile”, ovvero all’emozionalità, e producono il reincanto. La razionalità utilitaristica che ha prevalso nella modernità entra in crisi di fronte al proliferare di immagini, segni e oggetti che essa stessa ha prodotto, e del loro interfacciarsi: paradossalmente sono proprio questi segni e oggetti, sfuggiti al controllo, a creare o identificare oggi gli spazi per nuove forme di socialità.

Gli spazi, appunto. La nuova (o antica) cultura che sta emergendo rigetta la logica del tempo, che aveva informato la modernità (il cui mito portante, il progresso, può distendersi solo nel tempo) e adotta quella dello spazio. In un senso molto fisico, concreto: ha bisogno di individuare continuamente nuovi spazi per momenti effimeri di aggregazione e di confronto. Spazi per il radicamento e spazi per il nomadismo. Spazi reali e spazi virtuali. È una cultura tutta orizzontale, viaggia in superfice, mentre quella precedente era verticale e permeava e colonizzava il profondo. Ci si aggrega in luoghi che suscitino emozioni, sia pure effimere, a prescindere da ogni contenuto di senso, e non attorno ad una idea (di qui appunto lo stadio, la discoteca, la piazza per il flash mob, le strade per la manifestazione, i social network, Lucca per il cosplay, ecc…). In sostanza, i luoghi comunitari (la chiesa, la piazza, ecc…) consacrati un tempo ai valori “forti” (la religione, la democrazia, …) seguono la sorte dei valori stessi, sono sostituiti da quelli di intrattenimento della cultura di massa. Il reincanto del mondo non implica una sua ri-sacralizzazione.

Questo cambiamento, dice Maffesoli, noi tardo-moderni lo viviamo con angoscia: associamo il nuovo alla catastrofe, all’apocalisse. Anche in questo ha ragione. In effetti, se appena alzo dai miei piedi lo sguardo vedo ragazzini tredicenni che si ubriacano ogni sabato sera per vivere in coma etilico il resto della settimana, sessantenni che rischiano la vita ogni giorno in palestra per la tartaruga addominale, mentecatti che vanno a litigare con la moglie in tivù, o che saltano il passaggio e l’ammazzano direttamente, idioti che si sfidano in automobile per le vie cittadine, e poi rave party e applausi ai funerali, e mi chiedo dove stiamo andando a finire.

Ma forse è solo perché lo faccio con occhio ancora “disincantato”. Per Maffesoli invece tutto questo è il necessario preludio “alla rivelazione delle cose, vale a dire alla capacità di fare emergere il profondo, l’essenziale, spazzando via le rigide costruzioni che con il tempo hanno occultato l’originario, l’essere nella sua essenza”, al “ritorno alle energie vitali, produttrici di cultura e di umanità”. La paventata apocalisse non è che il processo di fondazione di un nuovo universo di simboli, di una cultura pervasa da spirito dionisiaco, che aprirà la gabbia grigia del produttivismo moderno per fare spazio (letteralmente) a un mondo più gioioso, giocoso e creativo.

Scivolando sempre più nel côté filosofico, Maffesoli ripropone anche l’antitesi cultura/civiltà, ma in una lettura quasi diametralmente rovesciata rispetto a quella data da Norbert Elias. “Quando una civiltà ha raggiunto il suo massimo splendore – dice – sente, nello stesso tempo, il bisogno di recuperare le sue radici, di ritornare cultura. La civiltà è il modo di sprecare, o meglio di dilapidare il tesoro culturale. La cultura è il fondo che garantisce la vita sociale permettendo che, al di là di ogni vicissitudine quotidiana, perduri l’essere insieme originario ed essenziale”. Un essere, secondo Maffesoli, capace di ritrovare se stesso, di liberarsi dai vincoli di una civilizzazione nei quali non si riconosce più, nel nome di un bisogno nomade di avventura, di sete d’infinito e di scoperta.

Insomma, la cultura “originaria” è quella in cui l’emozione prevale sulla ragione, e l’uomo, non più proiettato nel futuro, vive in un eterno presente (che, bontà sua, è insieme euforico e tragico). “Le forme di socialità emergenti, con tutto l’accento che pongono sull’immaginario e sul desiderio dell’effimero, sono altrettante matrici di un nuovo ordine etico frammentato quanto solido nelle sue singole componenti. Di fronte allo sradicamento, alla solitudine, all’alienazione di un mondo organizzato da altri, l’individuo reagisce riscoprendo la comunità. Dalla frantumazione crescente della società nasce una sua autonomia rinvigorita. Fino a ieri confinato nei ruoli sociali predefiniti – lavoro, famiglia, ecc. – il soggetto sperimenta oggi più che mai un affrancamento dal normativo. L’immaginario, il piacere, il sogno diventano forme di dissoluzione dei vincoli. Egli fluisce e circola, errante sulla scia casuale delle sue pulsioni, dei suoi gusti. All’ideologia del progresso fondata sull’individuo atomizzato si sostituisce un universo di riti, giochi e immaginari la cui etica è quella del tragico. La società, finalmente creativa e libera dal modello matematico, si apre ad una nuova conoscenza erotica”. Non c’era da dubitarne.

Mi pare sufficiente. Posso fermarmi qui e provare a riassumere. Emersione del profondo, bisogno nomade di avventura, desiderio dell’effimero, liberazione nell’immaginario, nel piacere e nel sogno, essere che fluisce sulla scia delle sue pulsioni, società creativa e, naturalmente, conoscenza erotica. Non hai una leggera impressione di dejà vu? A me tutte queste cose non suonano affatto nuove. Datano da almeno due secoli: ma soprattutto mi ricordano parole e concetti che circolavano (in una accezione “estetizzante”) un secolo fa, che ho letto in Nietzsche e in Klages, che ho poi risentito da Marcuse e da Norman Brown nei tardi anni sessanta (ricordi Aquarius, e la luna che entra nella settima casa, e la pace che guida i pianeti, e l’amore che guida le stelle – ma almeno nel video c’era Rachel Welch e ti veniva voglia di crederle), e ho ritrovato in quelli novanta, in pieno trionfo della new age, nella versione proposta da Vattimo, che auspicava “una esperienza fabulizzata della realtà”, in quella politica avanzata da Marco Revelli, che indicava a esempio di socialità futura le comunità degli zingari (forse ispirato da Claudio Lolli), e infine in quella leggera, ma decisamente più aggiornata e persuasiva, di Baricco che, non so quanto influenzato da Maffesoli stesso, voleva convincerci, ne I barbari, che non sta succedendo nulla di strano.

Non voglio dire che si tratti solo di una minestra più volte riscaldata, è evidente che esprime un disagio reale e crescente nei confronti del modo di produzione e di vita capitalistico-consumistico: ma alla fine, cioè oggi, ne vien fuori un minestrone olandese alla Jerome, nel quale si buttano tutti gli ingredienti raccolti per strada[2]. Un minestrone dal retrogusto fastidiosamente acido. Quella che George Steiner chiama “nostalgia dell’assoluto” qui si è rovesciata e impoverita in una sorta di nostalgia del dissoluto, o del dissolto: sempre di una sorta di paradiso perduto si parla, di innocenza originaria, ma l’idea di innocenza che Maffesoli persegue somiglia molto più all’incoscienza.

Non so che stadi o centri commerciali o banlieues frequenti Maffesoli, a quali social sia collegato, ma certo l’ottimismo non gli difetta. A me è bastato vivere nella scuola degli ultimi due decenni per avere un’immagine del tutto diversa. Il dionisiaco non bussa nemmeno alla porta, entra direttamente, esce quando gli pare, si stravacca sfinito sul banco e comincia a smanettare sullo smart-phone, se glielo consenti (e se non glielo consenti ti ritrovi tra i piedi un dionisiaco padre, o peggio, una madre baccante, che contestano l’autoritarismo). Fuori non cambia molto: se è del tipo tranquillo il dionisiaco rimarrà incollato allo smartphone in metropolitana, in palestra, al bar, nell’intimità con la sua ragazza: se è agitato rovescerà cassonetti e brucerà auto, imbratterà monumenti appena restaurati, canterà e salterà in coro con altri dementi allo stadio o si sballerà in un rave party. Possiamo chiamarlo come vogliamo, ma è di questo che stiamo parlando. Quanto al ruolo ri-socializzante dei nuovi media, ne abbiamo esempi significativi nel bullismo cibernetico o nel fenomeno grillino. Aprono alla rivelazione delle cose? Fanno riscoprire la comunità? L’ affiliazione a bande o a tribù, come le chiama Maffesoli, rinvigorisce l’autonomia dell’individuo? Mi riesce dura cogliere nel populismo mediatico, nel delirio di autorappresentazione che si consuma in rete o nelle gang metropolitane gli indizi di una nuova socialità, giocosa e creativa, o dell’emergere del profondo. A meno che per profondo non si voglia intendere la natura animale, nella versione pre-umana.

Va bene, dirai: e tuttavia, ancora, perché prendersela tanto? Non solo queste litanie le abbiamo già sentite, ma sono di casa ormai persino nei salotti televisivi nostrani, cantate da monaci che predicano l’agape e da filosofi con bandana. Sono diventate un rumore di fondo, più fastidioso che pericoloso.

Temo che non sia proprio così. Siamo di fronte a qualcosa di diverso. Maffesoli non è un pirla a gettone come i nostri Morelli o Galimberti (pur arrivando in sostanza alle stesse conclusioni: “Bisogna dar spazio all’avventura, al sogno, alla fantasia, alle cose nuove” recita la quarta di copertina dell’ultima profezia di Morelli), non fonda scuole ayurvediche, anche se i salotti televisivi li frequenta volentieri pure lui. Gode di un credito scientifico, pesca da Simmel, da De Certeau e da Foucault, è citato nei manuali di sociologia, lo trovi dovunque come il prezzemolo. E comunque, il quadro che dipinge come sociologo è senz’altro realistico. Mi preoccupa invece come filosofo. La sua visione arcadica del futuro conferma una deriva il cui peso è certamente enfatizzato dall’eco mediatica (certi argomenti sono perfettamente congeniali al chiacchiericcio a ruota libera) ma proprio per questo non va sottovalutata. Si stanno moltiplicando i pensatori col pedigree, post-moderni o no, che rifiutano, come avrebbe detto Vico, di “riflettere con mente pura” e preferiscono “avvertire con animo perturbato e commosso”.

In verità questi non-pensatori ci sono sempre stati, e hanno sempre fatto danni: nel passato però la loro influenza non era mai diretta e si esercitava, causa l’analfabetismo delle masse, entro una cerchia più ristretta. L’odierno analfabetismo di ritorno, invece, che pure è altrettanto diffuso, non costituisce più un ostacolo, perché i nuovi media lo saltano a piè pari e arrivano direttamente ad un uditorio enorme che aspetta solo di essere imbeccato. Certo, alla stragrande maggioranza frega ben poco del pensiero dei post-modernisti (o di chiunque altro), e se provasse a leggerne i libri non ci capirebbe un accidente: ma l’adeguamento ai tempi, ai modi e alle forme del linguaggio televisivo o di quello della rete, in pratica la riduzione del pensiero a slogan, fa sì che esso circoli in una confezione adatta al consumo veloce e all’assimilazione acritica. Il sapore è quello del McDonald, il saldo nutrizionale è altrettanto negativo, ma è a questa dieta che palati e stomaci si stanno assuefacendo.

Quello del linguaggio non è un problema secondario. Orwell mostra in 1984 come proprio sulla falsificazione del linguaggio si regga ogni regime. Ha in mente quello nazista e quello sovietico, ma è chiaro che il discorso può essere esteso anche a quelli “democratici”. Ora, il paradosso dei post-moderni, che vorrebbero appunto smascherare le falsificazioni prodotte dalla società liberal-capitalistica, è che “decostruendo” il linguaggio, caricandolo di sospetti, spogliandolo di valori “forti” di riferimento, si impelagano in una complicazione linguistica (hai provato a leggere Deleuze?) che alla fine copre solo un vuoto di significati. Operano in maniera opposta a quella dei regimi, ma ottengono gli stessi risultati, perché poi, dalla nuvola di polvere concettuale che sollevano, emergono come si è visto le solite quattro banalità. Al contrario, se qualcosa davvero può rivelarsi eversivo nei confronti di un regime, è proprio la difesa di un linguaggio chiaro, ricco e significativo, che poggi i piedi sulla concretezza per reggere la libera circolazione delle idee.

E non è tutto qui. Mentre il post-pensiero spara a zero sulla ragione, c’è chi la raccatta dal cassonetto per riciclarla ad usi tutt’altro che razionali. Tarik Ramadan, docente oxfordiano (su una cattedra finanziata dal Quatar, cosa che la dice lunga), nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani, tiene conferenze sulla fondamentale importanza dell’Illuminismo: sostiene che essendo Dio luce, ciò che illumina le menti non può che essere una sua emanazione. Il razionalismo imperante nel secolo dei Lumi ha in fondo emancipato gli occidentali dalla soggezione alla legge biblica, preparando le loro menti ad accogliere quella coranica. Il futuro vedrà il trionfo della nuova razionalità islamica. Ramadan, per inciso, non ha problemi a legittimare la lapidazione (delle donne) in caso di adulterio, è un antisemita professo e condivide le ragioni del terrorismo. Ma ha capito benissimo quali sono oggi i punti deboli e le contraddizioni del pensiero occidentale, e si fa giustamente gioco dell’estenuato senso di colpa che ci spinge verso un rassegnato “abbandono”.

Di questo, credo, dovremmo preoccuparci.

  

L’Occidente alla sbarra

Infatti. Mi preoccupo perché da un lato vedo che la parabola del “post-moderno” come categoria filosofica è agli sgoccioli, ma dall’altro constato che le sue derive e le metastasi pullulate nel frattempo in ogni settore e ad ogni livello culturale permangono ben vive[3]. E si corre anzi il rischio, venendo a mancare la possibilità di tracciarne la genealogia, di non riuscire più ad arginarle e combatterle. Per questo mi sembra utile tornare allo scenario di partenza, a quella che negli ultimi trenta e passa anni è stata qualificata come la “condizione postmoderna”. Occorre partire di lì, dall’interpretazione che si è data di questo scenario.

Dunque. Abbiamo visto che alla radice del disagio vissuto dai contemporanei c’è per i post-modernisti la “razionalizzazione” del mondo. Ritengono, con buona pace di Goya, che a generare i mostri, ovvero le “ideologie”, che vanno dall’illuminismo al liberalismo, dall’idealismo al marxismo, tutte accomunate da una visione storicistica del mondo e dal mito del progresso (sul marxismo, e così sul fascismo, ci sono posizioni sfumate e contrastanti, ma l’uno e l’altro sono ricondotti comunque a variabili della ideologia madre) non sia stato il sonno della ragione, che è anzi rimasta sin troppo sveglia, ma l’uso che si è fatto di quest’ultima come lente unica e indiscussa per leggere la natura e interpretare la società e la storia[4]. I mostri creati dall’occhiale razionalistico sarebbero appunto dei “miti”, delle narrazioni o costruzioni mentali, come le chiama Lyotard, alla cui origine stanno fondamentalmente due assunti, l’uno conseguente l’altro. Il primo è la presunzione che il mondo sia conoscibile nella sua oggettività solo attraverso l’intelletto e, quel che più conta, sia anche perfettibile. L’altro è la pretesa che solo il pensiero occidentale sia detentore di questo livello di conoscenza e della capacità di tradurla in una prassi efficace. Risultato: fiducia in un potenziale illimitato della mente “razionale” e certezza di un progressivo sviluppo dell’umanità. Il che però, a sua volta, suppone una concezione negativa della natura umana originaria e una funzione repressiva e addomesticatrice della cultura.

Contro la prima presunzione, quella razionalistica, i postmodernisti mettono in atto la “decostruzione”: smantellano cioè i miti attraverso l’ermeneutica, partendo dalle affermazioni di Nietzsche per cui “non esistono fatti, ma solo interpretazioni” e “sono i nostri bisogni che creano il modo: i nostri istinti e i loro pro e contro”. Questo comporta, oltre allo spiazzamento conoscitivo (perché non solo non esiste una verità, ma nemmeno la verità), un ribaltamento etico: se sono i nostri bisogni a creare il mondo è al desiderio, alle emozioni, anziché all’intelligenza, che dobbiamo affidarci nelle nostre scelte. Quanto poi alla perfettibilità, ovvero al progresso, nemmeno a parlarne. Non esistendo verità assolute, non ci sono parametri sui quali traguardare e valutare un cammino di crescita.

È una posizione, lo abbiamo già visto, per niente originale. Alle spalle c’è Nietzsche, ma nella lettura che ne ha dato Heidegger. Per quest’ultimo tutta la storia occidentale è stata segnata – naturalmente in negativo – dall’aristotelismo e dalla logica deduttiva. Ciò ha comportato il dispotismo della scienza e la sempre più invadente affermazione della tecnica, e ha generato alla fine, come abbiamo visto, un nichilistico sconforto. Heidegger peraltro sta alle spalle – o almeno al fianco – anche di altri critici della modernità, dei francofortesi (Adorno, Horkeimer, Marcuse) o, per rimanere in Italia, di Emanuele Severino.

Con una differenza. Severino fa risalire l’errore “originario” ancora più addietro, a quando la “solare” visione parmenidea del mondo cedette a quella platonica (“abbandonando il sentiero del giorno per seguire quello della notte”), mentre gli anti-moderni militanti hanno nel mirino appunto la “modernità”, gli ultimi cinque secoli, e ne individuano i momenti chiave nel cartesianesimo[5]), ma soprattutto nel kantismo. La “rivoluzione copernicana” di Kant è da essi considerata il vero spartiacque per la completa realizzazione della modernità. La loro crociata è quindi, prima ancora che anti-razionalistica, antilluministica: è con l’Illuminismo che la ragione diventa “misura di tutte le cose”.

Il fatto è che ai detrattori della modernità preme innanzitutto mettere sotto accusa il modello occidentale: e l’Occidente cui si riferiscono è quello degli ultimi cinque secoli, quello divenuto vincente attraverso la rivoluzione scientifica e quella industriale, e dominante con l’espansionismo, coloniale prima e imperialistico poi. Citando per tutti Vattimo: “la civiltà occidentale ha dato luogo … a un mondo dove progresso tecnologico, sfruttamento, dominio di classe, progressivo esaurimento delle risorse del pianeta appaiono inestricabilmente connessi”. Per produrre questo scempio l’Occidente avrebbe costruito e imposto un suo paradigma scientifico-ideologico, avvalorando una visione deterministica dei comportamenti umani e creando, attraverso la “razionalizzazione” delle conoscenze e dei rapporti, una gabbia di contenzione della nostra animalità[6]. Fino ad arrivare, da ultimo, ad identificare il mondo proprio con la gabbia che lo imprigiona, con l’involucro razionale entro il quale è stato incartato. Il fine che gli antimoderni si prefiggono è proprio aprire la gabbia, strappare l’involucro demolendo l’impianto ideologico che gli sta dietro. Come intendano farlo, andremo ora a vederlo.

Per intanto, però, a dimostrazione di quanto dicevo sopra, del fatto cioè che queste cose non rimangono sospese nell’empireo della filosofia e neppure si esauriscono nelle comparsate da salotto, sappi che la gran parte delle università americane ha praticamente bandito da anni dai programmi di insegnamento i corsi sulla civiltà occidentale, con la motivazione della scorrettezza politica (sarebbero “oggettivamente di destra” e potrebbero offendere tutte quelle minoranze che di tale civiltà sono state vittime).

Siamo al punto che nello stesso momento in cui Oxford apre le porte ai soldi del Quatar e a Tarik Ramadan, Yale rifiuta un finanziamento da decine di milioni di dollari per riattivare quei corsi.

Non c’è da meravigliarsi. Lo schieramento antimodernista è infatti incredibilmente ampio e articolato, perché il dibattito che si svolge ai piani alti della filosofia ha, come sempre, motivazioni e ricadute che toccano più in generale le idee sui possibili modelli di rapporto tra gli uomini. A scorrere l’elenco degli inquisitori ci si rende conto che la crociata accomuna trasversalmente vecchie fedi politiche e religiose e nuovi radicalismi, che in apparenza non avrebbero nulla da spartire: su questo terreno si muovono fianco a fianco la destra e la sinistra più estreme, i fondamentalismi religiosi (tutti, non solo quello islamico), gli integralismi alla moda (ambientalista, animalista, vegano, ecc …), il complottismo, i cultori delle “scienze tradizionali”, i vari populismi anti-sistema. Un gradino appena sotto i maîtres à penser che ho già citato, i riferimenti spaziano da Guénon e da Evola a Chomsky, dagli esoterici agli antagonisti di professione. La citazione di Vattimo potrebbe essere attribuita a ciascuno di costoro senza cambiarne una virgola.

Sia pure a gradi diversi di parentela, il DNA è dunque quello. Certo, è difficile pensare che Calderoli o Di Battista abbiano letto Derrida, ma la loro stessa presenza sulla scena politica è frutto anche della “decostruzione”, che quando scende al pianterreno e si traduce in aforismi da supermercato crea effetti devastanti. La povertà di idee e le passioni elementari non attendono che di coagularsi nella identificazione di un qualche responsabile del disordine del mondo: e possibilmente non vago e astratto come la “modernità”, ma in carne ed ossa.

Degli esiti “complottistici” della decostruzione sanno infatti qualcosa gli ebrei, che non a caso sentono nuovamente fischiare le orecchie. Perché alla fine, dietro tutta la cultura occidentale moderna, e dietro le istituzioni che ne sono espressione, i post-modernisti scorgono naturalmente la lunga mano della “plutocrazia giudaica”.

Qualche tempo fa notavamo come negli ultimi vent’anni sia tornato allo scoperto il vecchio antisemitismo di pancia, quello che si manifesta beceramente negli oltraggi ai cimiteri ma anche sotto le specie “politicamente corrette” dell’antisionismo, della militanza filo-palestinese: bene, questo è solo il gradino più basso della banalizzazione di un pensiero anti-modernista per il quale il vero “mostro” in fondo non sono le ideologie, ma il modello occidentale nel suo assieme (e il liberalismo – considerato di diretta ascendenza ebraica – nello specifico). Se affermo, come fa ad esempio Galimberti, che l’Occidente “è la terra che ha ospitato l’oblio dell’Essere, ovvero lo smarrimento del suo senso” e che pertanto la sua sorte è il nichilismo e il suo destino è il tramonto; per cui, “prendere coscienza dell’oblio dell’Essere significa vedere crollare quanto è stato costruito nella sua dimenticanza: Dio e il mondo”; e che questo Dio va inteso naturalmente come il Dio biblico, unico dal quale e in antagonismo al quale poteva svilupparsi una totale autonomia della coscienza umana, fino ad abbracciare la concezione meccanicistica che sta a fondamento della modernità: bene, sto solo ripetendo con un giro più largo e ipocrita quello che diceva Hitler, ovvero che la coscienza è una invenzione degli ebrei (il che in qualche misura è vero, ma certamente a non nel senso che gli veniva dato dal nazismo[7]). E lascio la porta aperta al sospetto che dietro questa invenzione ci sia un progetto occulto dei Savi di Sion.

Ma è un discorso che ci porterebbe troppo lontano.

Razionalizzare il mondo

È opportuno invece dettagliare meglio le accuse che i post-modernisti o gli anti-modernisti muovono alla cultura occidentale degli ultimi cinquecento anni.

Come abbiamo visto, l’imputazione più generica è di aver usato lo strumento della ragione per impadronirsi del mondo e sfruttarlo, e di aver legittimato questo dominio postulando una naturale convergenza tra sapere e potere (vedi Francesco Bacone). Ovvero, di avere attuato una “razionalizzazione del mondo”, intesa sia come modalità conoscitiva ed esplicativa che come condizione e modello per agire su di esso, per modificarlo e addomesticarlo.

Cosa significa però “razionalizzare il mondo”? Nella interpretazione antimoderna significa in primo luogo ridurne la lettura alle sole operazioni compatibili con quanto la mente umana è in grado di dominare: ovvero, costringere il reale negli schemi totalizzanti dell’unità e della storicità ed escludere il molteplice, tutto ciò che non trova spiegazione entro questi schemi. In definitiva, si suppone che esista una logica interna al tutto, e che tutto ciò che esiste o accade sia sempre spiegabile in termini razionali, e solo in essi. È quanto Hegel aveva lapidariamente riassunto in “Tutto ciò che è razionale è reale; e ciò che reale è razionale”.

In termini generali, è vero: l’impostazione della cultura occidentale nell’età moderna è stata tendenzialmente proprio questa. Salvo però il fatto che il pensiero razionale ha iniziato sin da subito a sviluppare dall’interno degli anticorpi critici, a mettersi in discussione. E che comunque questa attitudine si era manifestata ben prima dell’avvento della modernità. Era già insita infatti nella “differenza” ellenica, addirittura da prima del “so di non sapere” di Socrate. Era adombrata nelle tempestose vicende del mito[8].

Col termine logos i Greci indicavano tanto la relazione, il legame, la proporzione, la misura, (ciò insomma che concerne le proprietà dell’oggetto conosciuto) quanto la ragion d’essere, la causa, la spiegazione (ciò che invece compete all’attività razionale del soggetto conoscente). Per loro, tuttavia, la funzione del logos era rimasta quasi puramente esplicativa: serviva a capire come funzionano le cose, non a intervenire per modificarne il corso. La visione ciclica del tempo, che prevede che il cosmo torni periodicamente allo stato originario, li induceva a non impegnarsi più di tanto in una attività di conoscenza che non fosse eminentemente contemplativa: e soprattutto non avevano motivazioni economiche sufficientemente urgenti per indirizzare il pensiero scientifico verso un utilizzo strumentale. Questo atteggiamento ha continuato poi a valere anche nel mondo cristiano, a dispetto del fatto che la redenzione avesse interrotto il ciclo e disteso il tempo lungo una retta di attesa tra due eventi unici: per il cristianesimo la spiegazione del mondo e della storia non va cercata, ma è offerta tramite una rivelazione.

La reductio ad rationem, intesa nel suo significato più concreto, non più come semplice individuazione di una linea di razionalità nel mondo naturale, ma come “creazione” di un mondo più razionale, come intervento performante sulla natura, è stata avviata invece dal pensiero umanistico. È quanto ho cercato di raccontare in “Da Pico a Bacone. Le radici umanistiche della rivoluzione scientifica[9]: l’attesa si secolarizza, si traduce in aspettativa per un futuro preso in mano dagli uomini. Come di norma accade (è avvenuto lo stesso, ad esempio, proprio per il post-moderno), questa aspettativa trova la prima concreta espressione nella sfera artistica, passando in questo caso per l’adozione della prospettiva. La visione prospettica pone l’osservante fuori dal quadro, e da questa posizione egli “domina” la scena, la coglie come un assieme unitario, la riordina secondo criteri quantitativi (volumi, geometrie) e la include entro linee che convergono all’infinito. L’architettura e la pittura del Quattrocento indicano ed esemplificano perfettamente le condizioni per fondare una oggettività della scienza e per la tracciabilità della storia. Così come, al contrario, le arti del Novecento (astrattismo, informale, concettuale, ecc…) testimoniano del dissolversi di questa oggettività.

Il passaggio successivo è stato quello della rivoluzione scientifica, e qui entriamo ormai nel pieno della modernità (e nel merito dell’accusa mossa dai post-modernisti). Bacone, Cartesio e Galileo hanno gettato le fondamenta per una visione meccanicistica del mondo naturale: Hobbes l’ha poi trasferita ai rapporti interumani, postulando che la società sia una costruzione artificiale (un meccanismo, quindi, anziché un organismo) e che il potere abbia una natura contrattualistica, fondata sulla somma delle convenienze individuali. Dopo di lui gli illuministi settecenteschi e i positivisti dell’Ottocento hanno fatto dello studio “scientifico” della società un obiettivo prioritario.

“Razionalizzare” significa infatti, in seconda battuta, applicare il parametro razionale non solo come condizione del conoscere ma anche come misura dell’efficienza e della bontà, o della utilità, dell’agire: quindi adottare quell’attitudine che chiamiamo, in genere con un po’ di sufficienza, “pragmatismo”. È quanto fa, ad esempio, con largo anticipo Machiavelli[10]. La ratio si esprime in questo caso come cinica contabilità politica, (ratio est computatio, dirà Hobbes). Qualche decennio prima, nei Libri della famiglia, Leon Battista Alberti l’aveva già chiamata a organizzare le attività economiche, introducendo il computo di fattori come il tempo-valore, che in precedenza non venivano considerati.

Un esempio riassume tutto il processo storico della razionalizzazione: quella delle coordinate geografiche. A partire dal ‘500 il globo è stato coperto con un reticolo di linee immaginarie, che dovevano costituire originariamente un riferimento per gli spostamenti marittimi. In breve però queste linee sono diventate più reali di quelle orografiche, hanno costruito una gabbia che ridisegna e spartisce gli spazi (pensa ai confini degli stati coloniali, ad esempio, o prima ancora alla raja, che già alla fine del ‘400 doveva dividere i possedimenti portoghesi da quelli spagnoli), e che oggi, con l’introduzione dei fusi orari, imprigiona e disciplina anche il tempo.

Le maglie di questa rete si sono poi via via infittite dopo che le linee ideali hanno potuto essere tracciate su carte attendibili, redatte con criteri “razionali”, ovvero dai primi dell’Ottocento. Di pari passo sono cresciute sia la disponibilità di mezzi tecnici che le motivazioni economiche, ed è partita la corsa a rendere queste linee sempre più reali, dapprima con le rotte navali, poi con i trafori ferroviari e autostradali, infine con le rotte aeree. Ecco, la rete ferroviaria e quella aerea compendiano perfettamente la transustanziazione del pensiero razionale (la distanza minore tra due punti è la linea retta, ergo minor tempo, minori costi, ecc…) in “razionalizzazione” del territorio.

È insomma accaduto che uno strumento proprio della ragione (nel nostro caso la capacità di immaginare delle coordinate per definire degli spazi o di individuare percorsi non obbligati dalla configurazione del territorio) e funzionale al metodo scientifico, quindi applicabile alla geografia e più in generale alle scienze naturali, è stato trasferito nell’ambito delle scienze umane (nella politica e nell’economia). Questo tipo di sconfinamento è diventato più frequente e scontato mano a mano che si imponeva una conoscenza “geometrizzante” del mondo: in parallelo si affermava infatti la spinta a “razionalizzare” il potere, il dominio, l’economia, la società, e di lì a poco tutta la sfera esistenziale individuale, controllando e pilotando anche desideri ed emozioni.

Imboccando questa strada, secondo i post-modernisti, la ragione ha fatto compiere un salto qualitativo alle sue pretese: intanto si è appropriata in esclusiva di un terreno che avrebbe dovuto condividere con altre modalità conoscitive, non razionali; poi è passata dalla ricerca del logos, della coerenza interna al reale, a quella del senso, ovvero dalla descrizione del mondo alla sua interpretazione. Anziché limitarsi ad interrogare ha insomma costruito anche le risposte, e lo ha fatto naturalmente a propria immagine e somiglianza. Di conseguenza ha favorito l’atomizzazione sociale, perché ha cancellato quei legami comunitari che non erano “matematicamente” controllabili e li ha sostituti con la cultura del diritto, che definisce dei margini di autonomia individuale e consente di quantificare gli spazi e organizzare meccanicamente i rapporti.

Il risultato è che il mondo, inevitabilmente, è stato letto sempre più come il “regno della quantità”: il che comporta dissezionare un organismo e ricomporne i pezzi nei modi della organizzazione, secondo la misura umana. Ovvero separazione, omologazione e appiattimento.

Ora, su questa analisi del percorso della cultura occidentale, fatta salva qualche sfumatura, mi trovo fondamentalmente d’accordo: non solo, condivido in linea di massima anche la fotografia della contemporaneità scattata da Maffesoli, almeno fino a quando non comincia a interpretarla. Ho riportato al condizionale le argomentazioni degli anti-modernisti non per mettere in dubbio l’attendibilità della ricostruzione storica, ma per mantenere distinta la mia interpretazione. Il processo di geometrizzazione del mondo e della vita di cui parlano c’è effettivamente stato, è tuttora in corso e non se lo sono inventati loro e neppure Heidegger. Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche, ciascuno a suo modo, già lo denunciavano. Volendo si può andare più a ritroso ancora, senz’altro sino a Pascal (che infatti parlava di esprit de gèomètrie). E lo stesso vale per lo sfruttamento coloniale, per le forme del dominio, per il disastro ambientale: sono temi che mi appassionano da sempre, e che ho la presunzione di conoscere non superficialmente.

Ma non è questo il punto. Il punto è: l’esistenza di questo processo ci rivela che l’uso distorto o improprio della ragione era già intrinseco alle premesse stesse? Vale a dire: l’impostazione razionale delle conoscenze sfocia necessariamente in una pretesa previsionale, quella per cui conoscendo i meccanismi, le “leggi”, mi illudo di poter dirigere, pianificare, programmare la realtà? E anche la realtà sociale, oltre a quella naturale? E addirittura la sfera emozionale? Ovvero, per andare al sodo: una simile impostazione produce necessariamente delle ‘ideologie’? Qui è il nodo. Perché un conto è chiamare al banco la ragione, ciò che significa ritenere che il difetto stia già nel manico, un altro conto è criticarne l’uso, o meglio ancora, l’abuso.

Il peccato originale: la scienza

Per i post-modernisti, naturalmente, è valida la prima imputazione. Contestano tanto il monopolio dell’interpretazione che la modernità ha riservato ad un uso specifico della ragione, quello “calcolante” e pragmatico (peraltro questo uso è etimologicamente già implicito nella ragione stessa: la ratio latina indicava infatti originariamente la capacità di calcolo), quanto l’applicazione impropria che ne ha poi fatto. Sostengono in pratica che da quando la lettura razionale del mondo, che suppone un osservatore “esterno” e freddo, si è sostituita a quella emozionale, che supponeva invece un coinvolgimento partecipe, è stato avviato un processo di disumanizzazione degli umani e di snaturamento del mondo stesso.

Resta però tutto da dimostrare che la linea retta da essi tracciata tra cause ed effetti, semplificando il percorso in una uguaglianza transitiva per la quale razionalità uguale scienza uguale utilitarismo uguale catastrofe, abbia un qualche fondamento.

A me questa linea pare in realtà semplicistica, più che semplificatoria, perché non tiene affatto conto delle variabili contingenti (quelle la cui somma è in definitiva la storia) e delle infinite incognite rappresentate dalla miriade di individui che entrano in gioco ad ogni passaggio. Ma soprattutto perché parte dall’assioma che la ragione “ragionante” non si sia limitata a esondare rovinosamente lungo il corso del tempo dal proprio letto, ma il danno lo abbia fatto a monte. In base a questo assioma la ragione avrebbe impoverito le possibilità di conoscenza già alla fonte, imponendo proprio attraverso le scienze un modello conoscitivo unico, arido, disumanizzante. La definizione del paradigma razionale scientifico sarebbe avvenuta a spese di ogni altra forma di sapere, e una volta affermatosi questo paradigma avrebbe pervaso tutto, apparati istituzionali, politici, religiosi, poteri economici, modelli produttivi, forme della comunicazione, annullando le differenze, omologando i comportamenti, imponendo una concezione prettamente utilitaristica ed economicistica della vita, rompendo le solidarietà originarie e atomizzando i rapporti sociali. Questo intende Maffesoli quando distingue la ragione ragionante da una ragione sensibile, vale a dire da un esercizio del pensiero che non esclude il portato delle passioni e delle emozioni (Il cuore ha delle ragioni …, ancora Pascal).

Le cose però non sono così semplici. Dovremmo porci alcune domande – ma seriamente, e prosaicamente, senza abbandonarci a visioni favolistiche e misticheggianti.

Dovremmo in primo luogo chiederci se per lo studio della natura esistono delle alternative al modello “scientifico” occidentale. Intendo alternative efficaci. Certo, dipende da cosa si vuol conoscere, e a che scopo. Se si parte dal presupposto che la natura non debba essere indagata, ma semplicemente “vissuta”, o che la conoscenza possa rimanere solo contemplativa, il discorso è già chiuso. Ci sono un sacco di ashram pronti ad accoglierci, con pacchetto completo, albergo e aereo compresi. Se vogliamo però essere seri, dobbiamo ammettere che per il genere homo non è mai stato così, la conoscenza non è mai stata fine a se stessa, né per quegli antenati o cugini che hanno preceduto il sapiens né, tantomeno, per quelli più prossimi, gli antichi e i pre-moderni. In realtà ogni conoscenza è già di per sé una forma di dominio: lo stesso “nominare” un oggetto costituisce una presa di possesso, come ben sapevano tremila anni fa gli autori della Genesi. Sostenendo che il modello scientifico occidentale è un portato della rivoluzione “borghese”, e che produce una conoscenza finalizzata solo al dominio e agli interessi del capitale, si vuole invece affermare la possibilità alternativa di conoscenze “dolci”, disinteressate, non invasive nei confronti della natura e non condizionanti nei confronti degli uomini, e comunque efficaci.

Ora, un approccio conoscitivo che presenti tutte assieme queste caratteristiche non esiste. Quelli di cui abbiamo una testimonianza storica, praticati sino a ieri non solo fuori dall’occidente ma anche al suo interno, o quelli che vengono periodicamente riproposti o importati anche oggi, fondati su percorsi di tipo mistico o iniziatico o empatico (e qui si spazia da Evola e Rudolf Steiner per i più introdotti, sino a Osho e a Tiziano Terzani per quelli di bocca buona), non danno alcuna risposta di una qualche efficacia alle esigenze del mondo moderno. Anche le pratiche basate su una tradizione sapienziale consolidata, come ad esempio l’agopuntura, dopo essere state gabellate per un certo periodo in occidente come la panacea anti-farmacologica di tutti i mali, sono oggi ricondotte entro i loro limiti, e vengono prese in considerazione al più per la cura dei reumatismi. Non parliamo poi delle incredibili bufale della chirurgia filippina a mani nude, delle pomate “biologiche” antitumorali e delle varie cure omeopatiche.

A meno che non si voglia girare la frittata, e sostenere che il problema sono semmai proprio le esigenze artificialmente indotte dalla modernità. Ovvero che i bisogni cui le conoscenze alternative non sanno dare risposta sono falsi bisogni, o sono conseguenza appunto dello “snaturamento” dell’uomo e del mondo. È ciò che ad esempio sostiene Konrad Lorenz, partendo ne Gli otto peccati capitali del mondo moderno dalla denuncia dell’aumento esponenziale della popolazione mondiale e dal conseguente deterioramento del suo patrimonio genetico, per arrivare a sostenere una larvata forma di eugenetica. Lorenz parla di una involuzione degenerativa della specie umana, provocata proprio dagli argini culturali opposti alla selezione, che porterà all’estinzione la specie stessa. Non è affatto un post-modernista, ma ha il coraggio di sviluppare sino in fondo un’argomentazione che i detrattori della modernità usano invece in maniera ambigua e reticente. Perché delle due l’una: se si ritiene che la “cultura” non debba interferire e alterare i meccanismi selettivi dell’evoluzione, non si può poi accusare di aridità e freddezza e utilitarismo la civiltà moderna, che con la medicina in effetti si oppone a questi meccanismi, e sostenere magari che questa opposizione è finalizzata solo ad avere più malati o più consumatori da sfruttare. Altrimenti si finisce davvero in un delirio “complottista”.

Le cose non cambiano anche se ci limitiamo a considerare le conoscenze sotto un profilo puramente teorico (che, ripeto, in realtà non esiste, perché qualsiasi tipo di conoscenza ha comunque una qualche finalità e una qualche applicazione pratica). Prendiamo il caso delle scienze naturali, quelle che almeno in apparenza presentano uno statuto conoscitivo meno immediatamente performante. È verosimile che la formulazione settecentesca delle tassonomie naturalistiche di Linneo e di Buffon sia stata condizionata dall’incrocio di esigenze politiche ed economiche, e che a loro volta queste tassonomie abbiano poi influenzato i commerci internazionali[11]: vanno quindi interpretate per quel sono, non il racconto veridico del mondo ma dei modelli convenzionali per leggerlo, adottati per finalità pratiche.

Almeno in questo senso però hanno funzionato: hanno consentito di elaborare criteri di rapporto e, perché no, anche di utilizzo. Che la cicuta e la belladonna fossero velenose lo sapevano anche i nostri antenati, ma che da quei veleni si potessero trarre dei farmaci lo hanno svelato le scienze. Allo stesso modo in cui le scienze hanno salvato la pelle ad un sacco di gatti neri o di poveri cristi additati come “untori”. E se è vero che le culture non occidentali (e non “borghesi”) hanno elaborato forme alternative di classificazione, molto spesso i loro criteri ricordano quelli riassunti da Borges[12] quando, riferendosi ad una fantomatica enciclopedia cinese, dice: “È scritto che gli animali si dividono in (a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, ecc …, fino a (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche”. Queste cose aprono scenari suggestivi, ma di ciò che è davvero importante sapere degli animali o delle piante o dei minerali (se davvero siano pericolosi i gatti neri, ad esempio) ci fanno conoscere quasi nulla. Ha un bel dire Foucault che “il fascino esotico di un altro pensiero suggerisce il limite del nostro”. Il fascino esotico senz’altro rimane, ma a me suggerisce al contrario che i limiti del nostro pensiero siano spostati molto più in là.

Le fughe verso forme di sapere empatiche e “dolci” nascono dalla difficoltà, o dal rifiuto, di capire che alla base delle svolte epocali, quelle che hanno davvero segnato (e distinto) il cammino dell’umanità, ci sono scelte dettate da un “calcolo” biologico. Penso ad esempio alla rivoluzione agricola. Alcuni studiosi sostengono che quel passo abbia decisamente abbassato la qualità della vita degli umani, che come cacciatori-raccoglitori dovevano lavorare molto meno, potevano contare su una varietà alimentare più ampia ed avevano meno ragioni per perpetrare o subire violenza. In base alle prove documentali che abbiamo in mano è un’ipotesi valida quanto un’altra[13]. Ma se anche fosse fondata non dimostrerebbe affatto che la prima grande “razionalizzazione” dei comportamenti economici abbia alterato il corso naturale, col risultato di una sorta di cacciata dall’Eden. Ciò che vale per i singoli individui non vale allo stesso modo per la specie, che “ragiona” in termini di successo riproduttivo: e in questo senso la vita stanziale e la domesticazione delle piante hanno significato la possibilità di mettere al mondo e di mantenere più figli, quale che fosse poi il loro destino. Voglio dire che in noi, come in tutte le altre specie, animali e vegetali, agisce per natura una funzione “calcolante”, e che la razionalizzazione ne rappresenta semmai un parziale superamento: la ragione è la briglia imposta all’istinto, quella che consente agli umani, e solo a loro, di scegliere i mezzi e regolare la velocità. Ma la direzione e il percorso, che lo vogliamo o meno, sono per la gran parte già scritti nei nostri geni.

Non raccontiamoci dunque che il valore o la bontà di una pratica non si misurano in termini “quantitativi” di controllo o di efficacia (l’etica assoluta di Kant non si riferiva a questo). Lo studio delle società pre-moderne, occidentali o no, ci dice che al più possono variare gli strumenti per esercitarlo, questo controllo, ma le finalità non cambiano. Torniamo nel campo della medicina. Anziché ad un farmaco di tipo chimico si può pensare di ricorrere ad una pozione, ad un incantesimo, a un sacrificio, a una formula magica, a una preghiera o a un mantra, ma lo scopo rimane lo stesso: è quello di alterare, frenare o eliminare un processo naturale. Allo stesso modo, è vero che dietro il farmaco “moderno” c’è l’industria farmaceutica, e che una buona metà delle malattie odierne in realtà esistono, o sono trattate, solo in funzione del mercato della salute; ma è altrettanto vero che dietro i rimedi alternativi ci sono sempre stati chiese, sette e sfruttamento della superstizione o della dabbenaggine: e che oggi prospera un collaudato business della medicina “naturale”. Quindi questi rimedi non garantiscono affatto una minore soggezione e dipendenza rispetto alle diverse forme di potere che sempre, in qualche modo, ne discendono e li controllano. E comunque, non esistono pozioni o formule in grado di riattaccare un braccio amputato, o di bloccare un infarto.

Se il problema è conoscere la natura delle cose per poter agire sulle cose stesse (e per il genere homo, la si metta come si vuole, il problema è quello), al momento la forma di conoscenza più profonda e più affidabile rimane quella sviluppata dalla cultura occidentale. Che si è affermata nei confronti delle altre non per prepotenza imperialistica, ma semplicemente perché più efficace.

Bollando la scienza come pura espressione dell’utilitarismo “borghese” se ne negano invece anche applicazioni e risultati che sono palesemente positivi, senz’altro in termini di successo della specie, ma direi anche per la qualità della vita degli individui. È il caso dell’attuale polemica contro le vaccinazioni. È innegabile che grazie a questa profilassi ceppi virali che ancora sessant’anni fa erano devastanti, come quelli della poliomielite o della tubercolosi, sono stati stroncati. Che avremmo dovuto fare? Tenerceli? Lasciar fare alla natura il suo corso, come sostiene Lorenz, anziché adottare rimedi “borghesi”? Ho frequentato le elementari assieme a due ragazzini poliomielitici e certe stupidaggini non le voglio neppure sentire. E allora, se la scelta non è questa, non ci piove: le pratiche ritenute più naturali, antroposofiche, omeopatiche, ayurvediche, olistiche, vegane, sciamaniche che siano, rappresenteranno indubbiamente il “molteplice”, ma non hanno alcuna efficacia nei confronti di questi aggressori. E lo sanno benissimo anche i naturisti, tanto che recentemente, al primo sospetto di focolai di meningite, si è verificata una corsa mai vista alle vaccinazioni.

Lo stesso discorso vale per la legittimità dei metodi di ricerca. Non metto in dubbio che l’uso degli animali per lo studio delle malattie e dei loro possibili rimedi, o gli interventi a livello genetico, si prestino alla distorsione delle finalità e all’abuso dei mezzi: ma anche in questo caso ho la convinzione che nello spostare il tiro dai possibili effetti alla causa si sia corretto malamente l’alzo, tanto da arrivare a colpire direttamente la razionalità. L’idea di scimmie o topi sottoposti ad esperimenti nei laboratori non mi sorride affatto, e mi auguro che per il futuro si trovino alternative valide: ma per il momento non ne vedo, e mi pare assurda la richiesta di sospendere pratiche alle quali sono legate le uniche speranze di nostri simili in difficoltà. Soprattutto mi sembra pretestuoso usare questo argomento per attribuire alla ragione “moderna” l’invenzione e il monopolio della crudeltà contro le altre specie, e del loro sterminio.

La sola comparsa del sapiens, ben prima della rivoluzione agricola e di Parmenide e di Platone, provocò nel volgere di poche migliaia di anni un’estinzione di specie animali paragonabile a quella dei dinosauri (per non parlare del genocidio intraspecifico, quello che ha spazzato via le altre famiglie del genere homo). Allo stesso modo i sacrifici animali apotropaici (nonché quelli umani), gli sgozzamenti rituali, le carneficine in occasione di esequie reali o i processi intentati a povere bestie sospettate di poteri malefici erano (e sono) diffusi in culture che col razionalismo e la modernità avevano ben poco da spartire. È vero piuttosto il contrario: e cioè che la sensibilità odierna nei confronti di questi temi è frutto di una impostazione più razionale delle conoscenze, che ha portato alla presa d’atto della nostra appartenenza in toto al mondo animale, della nostra parentela stretta con le specie affini.

Tornerò più oltre sul fatto che persino questa nuova attitudine, quando sfugge al controllo della ragione, produce mostri (mi riferisco naturalmente all’integralismo animalista). Ciò che mi preme chiarire adesso, in buona sostanza, è che l’intreccio tra interessi economici o politici e sviluppo della scienza moderna sta sotto gli occhi di tutti, ma questo non delegittima affatto la scienza, e tanto meno la razionalità che la informa. Dovrebbe semmai indurci a riflettere su come siano nate e come abbiano agito queste complicità: scopriremmo che le loro motivazioni e i loro scopi con la razionalità hanno ben poco a che vedere. Il fatto ad esempio che l’evoluzionismo sia stato piegato anche ad una interpretazione razzista, lontana anni luce dagli intenti di chi ne ha formulata la teoria ad oggi più coerente, non ne inficia assolutamente la credibilità e il valore: e la storia stessa del darwinismo dimostra che alla lunga è la corretta interpretazione scientifica ad affermarsi.

La redenzione razionale

Io credo in un “fondamentalismo laico illuminista”, che concerne il metodo, non le teorie o le ipotesi. Queste possono variare, ma l’approccio razionale scientifico, ovvero la convinzione che possiamo avere una conoscenza oggettiva del mondo esterno nell’ambito naturale (in altri ambiti, quello sociale, ad esempio, o quello politico, la musica cambia), non è negoziabile. E sono convinto che la razionalità abbia una sua necessaria coerenza, un sistema immunitario che si attiva e reagisce contro gli attacchi virali esterni e le degenerazioni interne. È a partire da questa evidenza che bisognerebbe discutere, anziché rigettare l’intero sistema: esattamente il contrario di ciò che fanno gli anti-moderni.

A loro parere, infatti, la razionalità scientifica, modificando sempre più velocemente il senso della realtà, non solo con le sue “scoperte” ma soprattutto con le sue ricadute tecnologiche, produce uno sfaldamento sociale e uno spaesamento esistenziale che si traducono alla fine in nichilismo. Ed essendo la scienza espressione necessaria e necessitante della ragione, il difetto va sanato all’origine, negando a quest’ultima ogni validità conoscitiva e ogni autorevolezza precettiva.

Mettono insomma in discussione una peculiarità dell’uomo che a seconda dei punti di vista può essere considerata diabolica o divina, ma è comunque innegabile. Non è possibile prescinderne, soprattutto alla luce di quanto detto sopra: che cioè la razionalità nasce da una istintiva funzione di calcolo propria di ogni specie, ma supera questo determinismo per diventare, attraverso la facoltà di scelta, lo strumento della singolarità umana: lo strumento della libertà (o almeno, di quel margine di autonomia decisionale che la natura ci consente).

È proprio la libertà a consentire alla cultura razionale di rilevare le reali o presunte criticità dei suoi stessi presupposti. Questo i critici della modernità rifiutano di vederlo. Anzi, ritengono che la riflessione operata dalla ragione su se stessa, sui propri strumenti e limiti e ambiti di funzionamento (Kant, per intenderci) sia complice, se non artefice, dell’asservimento e dell’annichilimento dell’uomo. Paradossalmente il criticismo kantiano viene considerato, a partire da Stirner, l’origine di tutte le sciagure indotte dalla modernità. A svelare il trucco e a portare a compimento il “disincanto” del mondo sarebbe proprio la coscienza (razionale) di come la razionalità funziona: col risultato di produrre un atteggiamento che Nietzsche definisce “nichilismo alla moda di Pietroburgo”, un nichilismo cioè angosciato e pavido, che cerca disperatamente di supplire alla caduta dei vecchi valori inventandosene altri.

In sostanza ai moderni, che già erano stati privati delle certezze della fede dalla rivoluzione scientifica, una volta accertata da Kant l’impossibilità di conoscere alcunché dell’Essere non sarebbe rimasto che rivolgersi alla razionalità stessa per chiederle di dare un senso all’esistenza (attraverso la storia, il progresso, ecc …). Nel farlo hanno rinunciato più o meno consapevolmente a quei margini di incanto, di mistero che costituivano le aree franche dall’angoscia di fronte alla morte e alle altre miserie della condizione umana. Quando poi questo senso non è arrivato, o si è rivelato una costruzione metafisica, allora tutto si è sfarinato nella incertezza, si è liquefatto, per l’assenza di verità cui aggrapparsi e di valori cui conformarsi. Il che ha equivalso poi a rinunciare a decidere, a scegliere. Ha equivalso ad arrendersi al nulla.

Quando parlavo di semplicismo mi riferivo proprio a questa rappresentazione da tragedia greca. E comunque, quel che in positivo gli antimoderni oppongono all’incertezza rasenta il comico, non fosse che gli esiti possono essere tragici. La ragione è accusata di lasciare gli uomini orfani di senso, una volta che le ideologie da lei stessa indotte sono naufragate alla prova dei fatti. Quindi, con una operazione che più concettualistica non potrebbe essere, i decostruzionisti provvedono a rimuovere le macerie ideologiche per liberare spazi nuovi alla creatività spontanea, da gestire non razionalmente ma emotivamente. Tutto questo, tradotto in quotidianità, dopo un paio di semplicissimi passaggi suona come una apologia del permissivismo: ragazzi, vedete un po’ voi, seguite l’onda delle vostre pulsioni. Che è ciò che poi fanno ultimamente, con agghiacciante regolarità, mariti e amanti fedifraghi o traditi, e figli troppo pressati dalle famiglie. Al momento non riesco a scorgere altre applicazioni delle fumose aperture all’istintualità predicate da Maffesoli e da Vattimo: e questo rafforza la mia convinzione che il post-modernismo alimenti quella stessa deresponsabilizzazione dell’individuo che imputa alla cultura della modernità. Per questo, continuando ad abusare della tua pazienza, mi spingo ancora avanti.

Utopia e reincanto

Non considero ovviamente Lyotard e Derrida e tutta la compagnia postmoderna responsabili di quella che dal mio punto di vista è una corsa allo sfascio culturale e civile (e per Maffesoli è invece un ritorno alle energie vitali). Voglio dire, del montare degli integralismi di ogni tipo, della violenza di genere, delle guerre per bande, ecc…[14] Le forze in gioco sono ben altre, assai più potenti della filosofia. Penso però che gli intellettuali, i filosofi in particolare, siano qualcosa di più che semplici testimoni della storia. Non hanno in mano le artiglierie, non premono il bottone per sganciare le bombe, ma in qualche modo danno le coordinate, orientano i sistemi di puntamento, oppure offrono le pezze d’appoggio con le quali giustificare qualsiasi deriva. I casi di Oxford e di Yale stanno lì a dimostrarlo.

Lo hanno sempre fatto, prima ancora di Platone, hanno sempre cercato di correggere il passo dell’umanità, di indirizzarlo, lavorando alle spalle della politica e dell’economia, il più delle volte marciando controcorrente, o in anticipo, perché ne coglievano con uno sguardo dall’alto le contraddizioni e i pericoli. Raramente sono stati dei semplici certificatori dell’esistente, ma anche quando questo è avvenuto avevano in mente un parametro ideale. Diciamo che tutti i filosofi sono, per un verso o per l’altro, degli utopisti. Se fossero dei realisti si darebbero alla politica spicciola.

Il motivo per cui ne stanno alla larga è che, paradossalmente, non hanno alcuna fiducia negli uomini. Le Utopie più famose, quelle con la maiuscola, non interstiziali, a partire dalla repubblica di Platone (che a dire il vero con la politica ci ha anche provato), hanno come oggetto non gli uomini ma l’Umanità. In esse la palingenesi, la redenzione, la rivoluzione sono affidate al volere divino o alle leggi della storia, col tramite, in entrambi i casi, di guide “illuminate”: e sono la condizione necessaria, non la possibile conseguenza, di un cambiamento degli uomini. Il senso all’esistenza umana, quella dei singoli, degli individui, dovrà arrivare dall’alto: lo daranno la Repubblica appunto, il Paradiso, la Storia, lo Spirito assoluto, la Società senza classi, ecc… Per creare le condizioni di questo avvento le Utopie classiche, letterarie o tragicamente concrete, a partire da quella di Thomas More fino a quella di Pol Pot, ricorrono in genere all’espediente dell’isola: l’esperimento sociale può essere condotto solo nel totale isolamento nei confronti dell’esterno, ad evitare contaminazioni, ma soprattutto per chiudere ogni via di fuga alle cavie riluttanti. Si salta geograficamente in un altrove, o temporalmente in un’altra epoca, perché con ogni evidenza nel qui ed ora non ci si crede. E una volta instaurata la società perfetta, nulla dovrà più cambiare. L’idea di fondo è quella di fermare il tempo (o la coscienza del tempo) per abitare lo spazio (in questo caso, uno spazio non aperto). E guarda caso, è la stessa dalla quale muove l’anti-utopia postmoderna. Dove si vada a parare per questa strada lo abbiamo già visto.

Non esistono però, e per fortuna, solo le Utopie originate dalla sfiducia negli uomini. Forzando magari un po’ il termine, e scrivendolo con la minuscola, si scopre che è possibile immaginare un cambiamento che muova dal basso e dal singolo. Nel linguaggio filosofico potremmo dire che questo tipo di aspettativa risponde a un modello utopico, mentre quello della grande redenzione collettiva si aggrappa ad un sogno utopistico. Nel primo caso l’idea è quella del perseguimento di una trasformazione lenta ma continua, il cui orizzonte si sposta sempre un po’ più in là: nel secondo c’è la pretesa di realizzare, di norma con un colpo di mano, un modello di società che, in quanto perfetto, non dovrà più cambiare.

Maiuscole o minuscole, le utopie hanno dimora comunque solo nel mondo moderno (prima possiamo parlare di millenarismi o di aspettative escatologiche), perché solo in esso si è osato tradurre la comprensione delle leggi naturali in azione concreta: si è pensato cioè che l’uomo potesse cambiare il mondo. La differenza sta nel fatto che il modello utopico non nasce da un disincanto maldigerito nei confronti delle potenzialità dell’uomo, ma dalla realistica consapevolezza dei suoi limiti: e questa non costituisce un approdo rassegnato, ma il punto di partenza per assegnare all’uomo un posto nella natura e ridisegnare un senso alla sua esistenza. Un senso che parta dall’uomo stesso, dalla sua differenza, e non gli arrivi dall’esterno.

Il modello utopico confida dunque nella capacità dell’uomo, dei singoli uomini, degli individui, di riscattare la propria apparente insignificanza rispetto all’eternità del tempo e all’infinità dello spazio attraverso la cultura. Può essere declinato in varie sfumature, ma accomuna tutti coloro che esercitano la critica delle storture sociali passandone ogni aspetto al vaglio della razionalità. Si chiamino Steiner, Berlin o Timpanaro, tanto per rimanere nella cerchia dei miei santini, e siano riconducibili al pensiero liberale, a quello anarchico o a quello marxista, esprimono comunque una identica convinzione di base: la critica deve essere razionale, e la cultura che abilita ad esercitarla deve essere frutto di una conquista individuale, non di una pentecostale rivelazione scesa dal cielo o dalle labbra di un guru.

L’anti-utopia prospettata dai post-moderni è invece una creatura ibrida: prevede che il cambiamento avvenga sì dal basso, ma non sia guidato dalle singole coscienze accresciute, bensì dalle “nuove forme di comunità”: quelle che abbiamo visto in Maffesoli. Questo cambiamento non appare finalizzato a qualcosa di definitivo, e neppure suppone, nemmeno a livello di intenzioni, dei parametri di risultato, se non una molto vaga “liberazione”; ma anche se in apparenza non contempla una “fine della storia”, in realtà la decreta nel momento stesso in cui rifiuta la ricerca di nuove proiezioni “in avanti” dell’umanità. È un modello che non tiene conto del “legno storto” nel quale sono intagliati gli uomini, e nemmeno ne dà per scontata l’immaturità, come avviene di regola nelle grandi Utopie: rispolvera piuttosto il mito del “buon selvaggio”, sia pure in una versione a venire, e indica in una disposizione originaria creativa e dionisiaca il riferimento per una nuova socialità non oppressiva. Potrebbe essere considerato un utopismo escapista (alla Rousseau, per intenderci, contrapposto a quello urbano, razionalista e scientifico-tecnologico di Bacone); senonché ha poi una strana concezione della equilibrata armonia da ricostituire tra l’uomo e la natura, dal momento che individua gli strumenti di fuga proprio nelle tecnologie più avanzate.

La dissacrazione, o decostruzione, dei miti della modernità operata dai post-moderni si risolve dunque nel ritorno a quelli antichi, pre-biblici o addirittura pre-olimpici (non a caso, tra i suoi derivati c’è anche la riscoperta del paganesimo), trasferiti in una situazione da day after. È una singolare riproposta del conflitto natura-cultura, che riattualizza una millenaria diatriba sulla natura umana. Da un lato la linea che va da Esiodo a Hobbes, passando per Platone e per Tucidide, e che secondo l’accusa è quella dominante nel mondo moderno, per la quale gli uomini sono originariamente lupi gli uni agli altri, in sostanza delle bestie che vanno guidate col morso (ma lo dice anche Dante): dall’altra quella che in qualche modo passa per Aristotele (l’uomo è un animale politico) e per Pico della Mirandola, convinti della natura fondamentalmente positiva dell’uomo, e trova poi una espressione polemica in Rousseau, per il quale sono state le istituzioni, quelle politiche e quelle economiche, a corromperne la natura innocente.

I post-modernisti non hanno dubbi. Nella loro analisi le scienze naturali e le scienze umane, a partire dal Cinquecento, hanno congiurato ad accreditare un’idea negativa dell’uomo che giustificasse le disuguaglianze, le sofferenze, le ingiustizie, e soprattutto la proprietà privata, il potere dello stato e un modello produttivo che produce soltanto alienazione, attraverso lo sfruttamento e la coazione al consumo. Di qui il convincimento che per procedere ad una liberazione vera occorra scalzare questa idea alle radici, dimostrarne l’inconsistenza, ciò che è possibile solo facendo tabula rasa della razionalità, mettendone a nudo il vizio d’origine, dimostrando che l’oggettività è un trucco e riconducendo il tutto su un piano meramente linguistico.

Solo in questo modo l’uomo nuovo maffesoliano potrà emanciparsi, sottraendosi a costrizioni, pressioni, regole, mascherate da quel sistema dei diritti più o meno “naturali” che la razionalità ha elaborato a scudo del capitalismo e del dominio borghese. Ma se la ricerca dell’oggettività è impossibile, o è uno strumento della dominazione, la risposta è una logica “pluralista”, che apre poi la strada al relativismo etico.

Non si tratta dello stesso atto di fiducia nell’uomo espresso da Aristotele e da Pico: perché quelli in realtà chiamavano l’uomo a costruirsi, lo accreditavano di un potenziale che andava però sviluppato, mentre qui si parla di qualcosa che evidentemente, se non fosse tarpato e soffocato dal grande inganno razionale, agli uomini apparterrebbe già, sarebbe loro dato in dotazione dalla natura. Devono solo fluire sulla scia delle loro pulsioni e dei loro gusti. La libertà si riconquista nel disordine.

Il problema è che alla radice della critica post-moderna sta, come dicevo, la stessa aporia su cui si fondano le ideologie utopistiche, comprese quelle imputate alla modernità. È il mancato riconoscimento della responsabilità che il singolo deve assumersi, sia in positivo, per crescere, sia in negativo, se rifiuta di usare gli strumenti che ha a disposizione per farlo, o li usa scorrettamente. A dispetto dell’accento posto continuamente da Maffesoli sulla “reazione” dell’individuo, i postmoderni continuano a scaricare all’esterno (in questo caso sulla “cultura”, nell’età delle ideologie sulla “società”, prima ancora erano le potenze maligne o il Fato) una responsabilità che è invece individuale. Perpetuano una tradizione sociologica tutta orientata sullo studio dei condizionamenti sociali, a mostrare quanto il peso delle strutture economiche, politiche e culturali possa schiacciare la libertà del soggetto. Certo, viviamo all’interno di una rete di rapporti, e una società è l’insieme definito dalla cultura nella quale gli individui si riconoscono, o alla quale comunque temporalmente e spazialmente appartengono. E questa cultura condiziona l’individuo sotto ogni aspetto. Ma ciò non toglie che i singoli vadano tenuti responsabili dell’uso che ne fanno, dell’interpretazione che danno dei loro rapporti reciproci e di quello col mondo. Che se la siano conquistati o che l’abbiano acquisita per un errore di duplicazione dei cromosomi, agli uomini è data un’autonomia di scelta. Il loro comportamento non è la pura somma delle costrizioni sociali. Entro questo margine di autonomia stanno la razionalità e i suoi calcoli, le emozioni e il loro controllo, la sensibilità. C’è la valutazione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto.

Il male non è mai banale: è frutto di una scelta singola sbagliata, o di una non scelta, che è sbagliata comunque. Non è stata la razionalità a produrre Auschwitz, ma il suo uso distorto, l’applicazione di criteri razionali ad una demenziale volontà di potenza, da parte di alcuni, e la non opposizione a questo stravolgimento da parte dei più. Non mi si possono tirare in ballo Goethe o Beethoven per darne una spiegazione. Le pezze d’appoggio per giustificare qualsiasi nefandezza si possono trovare ovunque, e proprio le religioni, grandi o piccole che siano, stanno lì da millenni a testimoniarlo: ma dire che gli orrori del Novecento sono stati lo sbocco naturale della presunzione razionalistica è solo un modo per non accettare la realtà di una natura umana “originaria” tutt’altro che giocosa e innocente (a prescindere dal fatto che a leggerla senza paraocchi tutta la storia, e segnatamente quella pre-moderna, e quella non occidentale, è una tabella di orrori).

Al contrario, la razionalità è sempre stata consapevole di un suo possibile utilizzo improprio. Kant l’aveva già chiaramente detto parlando di legno storto dell’umanità. Mi torna in mente il confronto tra Antoine Spire e George Steiner di cui ho parlato in Sottolineature. Da una parte c’è chi, evidentemente sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda di Maffesoli, coglie nella musica metal, nei tatuaggi, nei graffiti metropolitani o nelle mandrie che affollano gli stadi e le mostre gli indizi di una nuova cultura, dall’altra chi guardando realisticamente al degrado vuole continuare a sperare che a dispetto di tutto, di Auschwitz ma anche della musica metal o dei postmoderni, non venga buttato quel busto ortopedico che la “vecchia” cultura – illuministica, borghese, scientifica, chiamiamola un po’ come vogliamo – costituisce.

Mi identifico totalmente in quest’ultima posizione. Penso che quando gli uomini si comportano come bestie, o peggio, ciò non dipenda dall’essere diventati troppo razionali ma, al contrario, dal fatto che la stragrande maggioranza non ha raggiunto il traguardo dell’uscita dalla minorità. E questo non perché l’asticella da superare sia troppo alta, e vada abbassata, o peggio ancora rimossa, ma perché ha paura di ciò che c’è dall’altra parte, che il tappeto su cui andrà a ricadere sia troppo duro, che la responsabilità da assumere sia troppo pesante. La cultura “borghese”, con tutte le sue pecche e strumentalizzazioni e strategie di distrazione, queste cose ce le ha comunque messe davanti. Nietzsche e Schopenhauer e lo stesso Heidegger non hanno filosofato in India, alla Mecca o nelle isole Tonga: ne sono figli, magari ribelli, e come tali magari capaci di dire ogni tanto verità spiacevoli, ma la paghetta hanno continuato a riceverla da casa. Lamentarsi perché queste verità non ci piacciono e cambiare canale per non sentirle mi sembra una reazione puerile.

Un’etica “razionalista” è l’unico atteggiamento conseguente. Non mancano, e lo abbiamo visto, gli esempi di una attitudine dignitosa, tutt’altro che nichilistica, di fronte al nulla disvelato: li troviamo lungo tutto il percorso culturale dell’Occidente, senza bisogno di andare a cercarli nelle fughe dal mondo offerte dalle culture alternative. Leopardi e Camus, per citare altri nomi che mi sono cari, sono lì a dimostrare proprio con l’eccezionalità della loro esperienza come la vecchia e vituperata cultura razionale possa produrre anche un “nichilismo reattivo”. E allora, anziché rigettarla, è semmai da spingere perché questa cultura venga fatta propria da chi non l’ha abbracciata, e digerita da chi si limita a masticarla per rinfrescarsi l’alito. Certo, la cultura razionale è fatica, è disciplina: ma una fatica già in sé gioiosa, come quella di chi arrampica per salire una montagna, o compone L’Infinito, o scrive La Peste.

Il futuro immaginato (e caldeggiato) da Maffesoli implica invece il ripudio di quel processo di razionalizzazione e di responsabilizzazione che ha segnato tutta la storia dell’umanità, ma che a suo giudizio sembra aver costruito solo una sorta di inferno terreno, nel quale trionfano sradicamento, alienazione, solitudine, atomizzazione, repressione. Per fare posto a che? A “un universo di riti, giochi e immaginari la cui etica è quella del tragico”. Nel quale il soggetto sperimenta oggi più che mai un affrancamento dal normativo. Beh, direi che quanto ad affrancamento dal normativo ci siamo già portati parecchio avanti, soprattutto in Italia. In questo senso potremmo proporci come l’esempio realizzato della società post-moderna. Ma l’affrancamento dal normativo, una volta applicato alla realtà sociale, non dissolve i ruoli sociali predefiniti (era dal medioevo che non si verificava una cristallizzazione dei ruoli e dei ceti sociali paragonabile a quella degli ultimi trent’anni, con cariche e professioni che paiono essere tornati ereditari): diventa piuttosto un liberi tutti all’interno del quale sono sempre i piccoli, i deboli, le scorze d’uovo, a “stare sotto”.

Nemmeno credo che la dissoluzione delle vecchie regole sociali, l’apertura della gabbia nella quale secondo Maffesoli era imprigionato il soggetto, conduca in automatico all’avvento di una nuova socialità creativa. Anche se il termine viene usato con le dovute virgolette – a dire che si tratta di altro da quello politico novecentesco – qui si parla di “spontaneismo”. La nuova comunità cui si riferisce Maffesoli si fonda sull’idea che la proliferazione spontanea delle reti sociali “virtuali” produca un’intelligenza collettiva necessariamente efficace. E torno a chiedermi: ma dove vive? Si guarda attorno, prova ogni tanto a dare uno sguardo a ciò che davvero accade in rete, o per strada?

Il meno peggio dei mondi possibili

Sino ad ora ho parlato in termini molto teorici di responsabilità personale, individuale: per esemplificare concretamente non posso però che buttarla, come al solito, sul personale. Sulla mia insofferenza per la lettura post-modernista del presente (e naturalmente, del passato e del futuro) pesa senza dubbio una personalissima idiosincrasia: quando sento questi discorsi fiuto immediatamente odore di “garantiti”. È uno degli aspetti della “sindrome di San Francesco” di cui ti ho spesso parlato: solo i ricchi possono scegliere di diventare volontariamente poveri. Non c’entra, bada bene, la condizione sociale, o c’entra relativamente. Certo, c’è gente che non ha mai dovuto combattere per conquistarsi qualcosa, e quindi non ha idea del valore di ciò che vuole buttare, perché esso sta appunto nella fatica e nella soddisfazione della conquista. Ma io nei garantiti faccio rientrare anche coloro che hanno potuto vivere solo per se stessi, scegliere senza farsi condizionare dalla sorte di chi stava loro attorno. L’ho sempre avvertita questa distanza: a scuola prima, all’Università nel Sessantotto, e continuo ad avvertirla anche oggi. È quella che separa chi vive sentendosi sempre in credito con la vita e con l’umanità, da chi ritiene di avere dei doveri nei confronti dell’una e dell’altra.

Maffesoli ed io abitiamo nella stessa parte del mondo: siamo quasi coetanei, quindi abbiamo attraversato anche la stessa fettina di storia. Ma a leggerlo non si direbbe. Anch’io non credo di essere un Candido, vedo come lui tutte le contraddizioni e le storture della civiltà occidentale, non ho nemmeno atteso i postmoderni per rendermi conto del vicolo cieco nel quale ci sta conducendo l’autonomizzazione della tecnica e dove ci ha già condotto quella della finanza: penso quindi sia mio dovere continuare ad oppormi in qualche modo a queste derive, e nel mio piccolo credo sino ad oggi di averlo fatto: ma so anche che altrove, pure al netto dei danni della colonizzazione e di quelli della globalizzazione, è molto peggio. E che prima lo è stato per tutti.

Per questo non tollero i denigratori da diporto del mondo e della storia occidentali, quelli superficialmente indottrinati dai diversi catechismi, marxista, cattolico, terzomondista, pseudo-buddista, induista, a pensare che l’occidente (e l’occidente sono sempre genericamente gli altri) sia all’origine di ogni nefandezza: quelli che visitano luoghi e culture altre sempre con l’attitudine del pellegrinaggio, e rifiutano lo sforzo di vedere anche ciò che sta sotto i loro occhi, e di pensare con la propria testa. Che vanno in estasi di fronte a mondi nei quali non sarebbero mai sopravvissuti, e schifano quello in cui è consentito loro di rientrare dopo la vacanza intelligente.

Non sopporto quindi, e anche questo lo sai da un pezzo, quell’altra sindrome che Pascal Bruckner ha definito “il singhiozzo dell’uomo bianco”, che induce a liquidare il problema del disordine del mondo con l’attribuirne tutte le responsabilità alla civiltà occidentale, e a colpire nel mucchio delegittimandone ogni presupposto. È una sindrome oggi più che mai diffusa, anche dopo il tramonto delle ubriacature terzomondiste, e si manifesta come un peloso senso di colpa, fondato su improbabili esotismi da noia intellettuale più che su una reale coscienza storica, che pregiudica ogni tentativo di valutare le situazioni con un po’ di buon senso. L’occidentalizzazione del mondo c’è stata, è stata cruenta, ha portato lo sfruttamento a livelli esponenziali: ma ha dato contestualmente vita, dall’interno, ad una critica e ad una opposizione serrata. Da de Las Casas in poi, a partire dai primissimi anni successivi alle grandi scoperte geografiche, il numero di coloro che denunciavano la schiavizzazione e lo sterminio dei popoli colonizzati è stato grandissimo, e a dispetto delle apparenze le loro voci non si sono perse nel deserto: hanno scosso nel profondo le coscienze occidentali, tanto appunto da determinare quel senso di colpa cui accennavo sopra. Non mi risulta che altre culture abbiano sviluppato lo stesso tipo di reazione. Gengis Khan e Tamerlano sono eroi indiscussi per le popolazioni mongole e turche, così come lo sono Saladino per l’Islam o Shaka Zulu per i neri sudafricani: mentre per contro Cortès e Pizzarro sono considerati poco più che dei banditi. Eppure, quanto a efferatezza e a mancanza di scrupoli avevano tutto da imparare dai primi.

Lo stesso vale per lo schiavismo: già a partire dal Settecento ha cominciato a fiorire tutta una letteratura dell’abolizionismo, e oggi le opere storiche sull’argomento non si contano più, mentre non mi risulta ne esista una sullo schiavismo arabo, che ha interessato un numero almeno doppio di disgraziati, scritta da un arabo. E per quanto concerne i genocidi, è sufficiente vedere quanta contrizione provino i turchi odierni per quello degli armeni. D’altro canto, lo stesso Vattimo sa benissimo che può esprimere impunemente tutto il suo sprezzo per la cultura occidentale solo perché ne è figlio: ad altre latitudini non solo non potrebbe farlo, ma avrebbe difficoltà anche a sopravvivere. Saranno considerazioni banali, ma sono incontestabili: così come è incontestabile che questa coscienza della negatività del proprio operato, che appartiene solo all’Occidente, nasce proprio da considerazioni razionali, e non da una positiva emotività o empatia.

Questo per la giustizia storica. Quanto all’esperienza privata, a differenza evidentemente di Maffesoli io ho vissuto bene sia la mia epoca che la mia appartenenza culturale. Non è stato difficile: negli ultimi settant’anni l’occidente è riuscito ad evitarsi, almeno al suo interno, le guerre (lo so, le ha portate altrove: ma quando le faceva qui era peggio). Soprattutto non mi sono sentito né costretto in ruoli, né alienato dal lavoro. Ho fatto cose che mi piacevano, che non erano andare in giro in barca per i Caraibi o giocare al casinò, ma insegnare, e farlo il meglio possibile. Gli strumenti per lavorare bene non li ho trovati in casa né per strada: me li sono procurati con uno studio a volte matto, ma mai disperato, perché sono riuscito a farmi piacere persino la matematica. In questo modo, e con questa disposizione, non ho nemmeno avuto la sensazione di lavorare: e lavori ne ho fatti molti, senza dubbio molti più che Maffesoli. Capisco che la mia condizione non sia la stessa della gran parte dell’umanità: ma secoli fa, prima del trionfo della cultura razionale, o fossi nato altrove, non ci sarebbe stata nemmeno la mia. Faccio dunque parte di coloro che in questa cultura ci credono, e non perché lobotomizzati dal mito del progresso o dalle ideologie egualitarie, ma perché molto prosaicamente ringraziano il cielo di aver vissuto oggi e non cento anni fa o nella comunità originaria. E ritengono che questa cultura occorra senz’altro migliorarla, che ne vadano corretti gli aspetti “disumanizzanti”, ma che prima di tutto sia importante difenderla.

Un’etica della responsabile armonia

Qui volevo arrivare. Mi va molto bene l’etica della responsabilità proposta da Hans Jonas: agisci in modo che la conseguenza delle tue azioni sia compatibile con la sopravvivenza della vita umana sulla terra. Ma il primo passo in questa direzione è quello di rendere grazie per l’esistenza di questa vita. Ovvero, rendersi conto che agire eticamente è facile, a dispetto di tutte le giustificazioni prodotte per non farlo. È sufficiente intendere la responsabilità per quel che deve essere, non un peso imposto, ma una scelta sia etica che estetica: fare bene, nei limiti delle nostre capacità, e possibilmente anche un filo oltre, quello che le circostanze ci portano a fare, è decisamente più gratificante del farlo male e svogliatamente. Volenti o nolenti abbiamo in testa un ordine del mondo, un’idea di armonia, che corrisponde poi alla nozione del bello. Il sillogismo qui lo faccio io: l’ordine è razionalità, l’ordine è bello, ergo, la razionalità è sentimento del bello. Il disordine può anche romanticamente attirarci, ma solo perché ci turba e ci offre una occasione per agire, per rimettere a posto le cose (altrimenti che ci staremmo a fare?). È l’equilibrio a darci serenità. Il secondo passo sarà quindi vedere cosa non funziona, e perché, e prendere atto che su alcuni aspetti non possiamo fare nulla per migliorare la situazione, ma per altri si. E il terzo sarà salvaguardare le condizioni perché questa vita sopravviva: ovvero lasciare il mondo, se non migliore, almeno non peggiore di come lo abbiamo trovato.

Allora, anziché rassegnarci a vedere andare in malora l’edificio, cerchiamo di distinguere tra ciò che è elemento di struttura, funzionale e necessario ad un convivere civile, e quelle che sono superfetazioni. C’è una sola cosa che può aiutarci a operare questa distinzione, e non sono né i sentimenti né le emozioni: è la cultura. Non parlo naturalmente di quella pappina precotta e incartata che si spaccia alla luce del sole nei festival della mente, nelle mostre-evento, in televisione o in libreria, ma della cultura vera, quella per cui ti dai da fare a cercare gli ingredienti e ti ingegni poi a cucinarli, e ne trai alla fine vero nutrimento. Una cultura che non può essere che storica (nel senso di storicamente fondata): e questa è una merce che invece tira pochissimo, non ha quasi più quotazione. Guarda caso, uno dei saggi di maggior successo attualmente sugli scaffali si intitola Abbiamo ancora bisogno della storia? (e la domanda se la pone seriamente, perché la storia è accusata di riportare tutto all’Europa e al suo passato). Eccome se ne abbiamo bisogno, di guardare indietro: non per evocare con nostalgia il mondo che abbiamo perduto, ma per capire com’è che siamo arrivati sin qui, e come potremmo proseguire.

Invece sento ripetere il ritornello che dobbiamo guardare avanti senza alcuna paura del cambiamento, delle novità. Questo si (altro paradosso) che è tipicamente moderno: pensare che la novità costituisca un valore di per sé. Perché non dovremmo averne paura? Perché, dice Maffesoli, quello che non riusciamo a capire, che ci spaventa, è al contrario una opportunità. E quando ti dicono così, devi aspettarti la fregatura. I Greci, quando mandavano i loro ragazzi a morire in battaglia, dicevano che muore giovane chi è caro agli dei. Il modo migliore per recuperare l’essenza degli esseri umani è a quanto pare quello di sacrificarne un po’ (e infatti, diversi popoli hanno preso la cosa alla lettera). È una opportunità per chi? Per chi verrà dopo di noi? O per chi quelle offerte dal moderno le ha già sfruttate tutte? Ma coloro che hanno appena raggiunto un minimo di sicurezza oggi, o quelli che di opportunità non ne hanno avuta ancora alcuna? Che vuoi che siano i disagi – dice Maffesoli –, le paure, ma anche le sofferenze, le distruzioni, che attendono individui “intellettualmente pigri, incapaci di cogliere il pensiero nel suo flusso vitale, adagiati nell’ordine e nell’inerzia dei buoni sentimenti”, di fronte all’emergere dell’essenziale, del profondo? Non dobbiamo averne paura.

Non ho certo paura per me. Mal che vada, la mia parte l’ho già vissuta. Ce l’ho per chi rimane, per le generazioni dei miei figli e dei miei nipoti: vivranno un universo di riti, giochi e immaginari? Ne dubito. Temo che il reincanto di cui Maffesoli si compiace sarà solo quello prodotto dagli stupefacenti, naturali, chimici e, sempre di più, mediatici. Che l’affrancamento dalla tirannia del razionale conduca solo alla schiavitù del virtuale. Ma temo soprattutto per coloro che, sfuggendo all’alienazione di un mondo creato da altri, in quello disorganizzato che si fonda sul desiderio dell’effimero difficilmente potranno fluire e circolare, erranti sulla scia casuale delle loro pulsioni. Anche i disabili?

Quanto alla “comunità”, non ho problemi. Solo, la intendo nell’accezione olivettiana (il moderno ha saputo creare anche modelli positivi di comunità, e il fatto che siano risultati perdenti non significa che non debbano essere riproposti), e non in quella di Facebook o di Tarik Ramadan. E neppure nella confusa e ambigua formulazione che passa sotto il nome di “comunitarismo”. Ritengo che di ogni termine vadano tenute ben presenti tutte le valenze, quelle potenziali e quelle storicamente già sperimentate, e ricordo che il modello “comunitario” era un chiodo fisso di Walter Darrè, il ministro nazista dell’agricoltura e del Sangue e suolo. Se il sogno è poi quello di un ritorno al modello di comunità pre-moderno, grazie mille, lo lascio ad altri. In qualche modo gli ultimi scorci di quella comunità li ho conosciuti. Sono cresciuto in un paesino nel quale sessant’anni fa non era ancora arrivata la rivoluzione tecnologica, dove si arava col bue, si prendeva l’acqua dai pozzi, non c’erano telefoni o televisori, e alla cascina che mio nonno aveva a mezzadria nemmeno l’elettricità, e dove i rapporti di proprietà e quelli sociali erano né più né meno quelli medioevali, con l’ottanta per cento dei terreni nelle mani di tre proprietari. Di quell’epoca mi è rimasto certamente un ricordo bellissimo, una nostalgia struggente: ma dell’epoca appunto, che era quella della mia infanzia, non di quel mondo. In esso non c’era soltanto una dignitosa povertà, come quella in cui viveva la mia famiglia: il confine con la miseria era labilissimo, bastava un nonnulla per finirci dentro, e per quanto rassegnati ad un certo fatalismo si viveva costantemente in ansia per un domani legato alla peronospera o alla grandine, senza alcuno scudo. La solidarietà tra poveri era molto più rara di quanto ci si racconti, e anche quando c’era non era comunque sufficiente a garantire nessuno. Era un mondo molto più simile a quello descritto dal Verga o da Gorkij che a quello tolstoiano: in esso l’ingiustizia sociale era sistema, e non poteva creare che timore e servilismo nei confronti dei potenti e cattiveria nei confronti dei più deboli e degli indifesi. Sgombriamo per favore il campo dalle favole. Kant parla di legno storto con tono bonario, ma non scherza affatto: per quanto perso nei cieli della filosofia, sapeva evidentemente guardarsi attorno meglio di Maffesoli.

Ripeto: l’anelito ad una ricostituzione della “comunità”, in opposizione all’odierna società, non può tranquillamente sacrificare tutti coloro che bene o male qualche garanzia di sopravvivenza, o qualche speranza in una esistenza più dignitosa, in questa società pur arida e irrazionale l’hanno conquistata. Certo, sono molti di più quelli che questa garanzia non ce l’hanno ancora, e non è affatto sicuro che l’avranno mai. Ma è sicuro invece che non ne avranno comunque in una comunità ludica e giocosa, dedita al flash mob, allo smatphone, al rave party e all’arte di strada. Siamo alle solite: le grandi ideologie sono morte, il pensiero deideologizzato le ha sepolte, ma sotto le macerie sono destinati a rimanere sempre le “persone”, gli individui. È un hegelismo di ritorno: la storia conferma la sua astuzia.

L’utopia nelle crepe

È ora di tornare finalmente là da dove siamo partiti, alla nostra piccola utopia, e dunque al perché la definizione di Maffesoli mi abbia tanto irritato. Parlavo di un rapporto che senza tante virgolette può essere definito di amicizia. In fondo non mi interessa nemmeno sapere se l’amicizia esiste al di là di tutte le determinazioni storiche: sono convinto di si, perché l’ho sperimentata e credo in assoluto che possa esistere. Certamente poi ne dò la mia interpretazione, la vivo alla mia maniera.

Ne abbiamo già discusso. Credo in una forte componente “chimica” dei sentimenti, ma questo non significa ridurli al determinismo biologico. La componente chimica può valere, anzi, vale senz’altro per emozioni poco ragionevoli come l’amore, ma l’amicizia suppone un alto livello di affinità intellettuale, che non si misura sulla consonanza degli interessi o sulla qualità e quantità delle conoscenze, ma sulla disposizione di fondo nei confronti della vita (anche questa, comunque, una certo tasso di determinazione biologica ce l’ha). Voglio dire che non amo tutti gli umani solo perché sono umani. Sarebbe troppo, e sarebbe poco serio. Invece li rispetto e li considero in linea di principio tutti potenziali destinatari della mia amicizia o della mia stima: quanto poi a concederle, è tutt’altro discorso. Subentra la “sensazione a pelle”, che non dipende da un “sesto senso” ormonale, ma dal cogliere nell’altro un atteggiamento nei confronti della vita compatibile col mio.

Diffido di chi è costantemente mosso dal risentimento, dal vittimismo, di chi si ritiene sempre in arretrato nella riscossione della sua parte. E questo, se ti guardi un po’ attorno, restringe parecchio il campo. Dubito che chi vive in credito perenne possa investire qualcosa di sé in un sentimento disinteressato. Ho persino una sgradevole impressione di codardia, anche fisica.

Diffido peraltro allo stesso modo di chi predica un amore universale e incondizionato, perché ho constatato che, a dispetto del coraggio e delle buone intenzioni, difficilmente riesce a praticare quello quotidiano, concreto. Ama un’astratta idea di uomo, alla quale, per quanto ampia e aperta, non corrispondono mai le persone singole: e corre il rischio, normale nei grandi utopisti, di voler conformare queste ultime a quell’idea.

In sostanza, penso che l’amicizia nasca da un bisogno emozionale, istintuale, ma sia governata poi dalla ragionevolezza. Chi non sa applicare quest’ultima nei rapporti non può conoscerne la vera essenza. Questo ne fa un “valore”, perché mentre ci gratifica ci educa all’incontro e al confronto con gli altri, ci abitua ad una dolce disciplina dei sentimenti.

Bene, dirai: ma questo dove ci porta? Porta al fatto che Maffesoli considera le reti di “amicizie” che si stanno costruendo sui social come una ennesima manifestazione/declinazione “culturale” di quel valore. Non sembra pensare che si tratti di qualcosa di totalmente altro: ritiene sia solo qualcosa di diverso. E qui, capisci, proprio non ci siamo. È la stessa logica in base alla quale si può dire che il centro commerciale è la nuova agorà. Ora, i francesi sono specialisti in queste operazioni di “normalizzazione” della novità: per dire, hanno fatto una rivoluzione devastante, che ha spazzato via tutto un vecchio mondo, e usavano termini come tribuno del popolo e console per definire le nuove istituzioni. Maffesoli dice giustamente che anche allora c’era chi paventava l’irruzione dei barbari, l’apocalisse, e poi di mondo ne è nato un altro. Ne è nato uno anche dopo la seconda guerra mondiale, e immagino che anch’esso sia stato preceduto da molti timori, senz’altro da quello degli ebrei che il mondo nuovo non hanno poi potuto vederlo. Per chi questi timori li aveva l’apocalisse c’è stata davvero.

Ecco: mi identifico anche in costoro. Mi frega assai di sapere che le cose sono sempre andate così, e che se non fossero andate così non ci sarebbe la storia, e che persino in natura tutte le cose nascono dalla morte delle precedenti. Penso che tanto in natura come nella storia non sia difficile leggere alcuni elementi essenziali di continuità, e che in mezzo all’infinità di cose che vorrei vedere cambiare alcune le vorrei invece salvaguardare e trasmettere così come le conosco e le ho ricevute da chi è venuto prima: e anche quelle che non mi piacciono le vorrei vedere cambiare in un certo modo. Per farla breve, non condivido il rassegnato ottimismo di Maffesoli, che pensa che comunque il cambiamento sarà quello, e tanto vale accettarlo e dire che va bene così, e attrezzarci semmai a governarlo. No. Il cambiamento senz’altro ci sarà, è anzi già in stato avanzato, anche se credo e spero che non arriverò a vederne gli esiti più clamorosi: ma quello che vedo adesso mi piace sempre meno.

Nemmeno mi va di inchinarmi all’ineluttabilità della storia. Potrei farlo se non pensassi che il mondo ha molto da perdere, nell’accettare questo cambiamento. Se mi sentissi schiacciato, costretto, vincolato, schiavo del materialismo e della filosofia dell’utile. Non mi sento nulla di tutto questo. Magari non mi piace tutto quel che ho attorno, ma se guardo indietro non posso non meravigliarmi per quanto gli uomini sono riusciti a fare, per quanto mi hanno concesso di poter capire e imparare oggi. Ripeto, non ho nemmeno bisogno di tornare indietro molto, mi bastano gli anni della mia vita per poter ricordare com’era mezzo secolo fa il mondo e quante diverse opportunità questa società mi ha offerto. Vorrei che fosse altrettanto per gli altri. Non è quindi vero che rimanga nulla su cui costruire un’utopia per il futuro. Maffesoli confonde la difesa di un mondo senz’altro “virtuale”, ma che è comunque proiezione di una speranza nelle potenzialità positive dagli uomini, con la resa ad una virtualità totalmente artificiosa, falsa, che degli uomini vellica invece tutto il peggio: e quando dice che queste sono tutte “utopie” spalmate sul presente dice una stupidaggine.

Credo che noi si sia in fondo testimoni dell’esistenza e della possibilità di sopravvivenza di qualcosa di diverso rispetto a quanto offre oggi il megastore. Più o meno consciamente speriamo nella esemplarità, dopo che abbiamo imparato a diffidare del proselitismo predicatorio, e anche quando cerchiamo di convincerci che stiamo guardando solo a noi stessi sappiamo perfettamente che non è così. Una testimonianza “esemplare” ha senso solo se proiettata nel futuro, sulle generazioni successive: e conserva il suo valore solo fino a quando riesce a sottrarsi al gioco, a mantenere una sua freschezza artigianale. Se viene risucchiata e confusa nel novero delle offerte usa e getta, lo voglia o meno diventa come tutto il resto.

È fatta. Non confidavo più di arrivare in fondo, e preferisco non immaginare cosa ne pensavi tu. Ho speso cinquanta pagine per cose che si potevano dire in meno di quattro, e non sono affatto sicuro di avere adesso le idee molto più chiare: ma almeno ci ho provato. Spero solo che il tour de force cui ti ho sottoposto non abbia incrinato la nostra utopia (ma ridiamo valore alle parole: la nostra amicizia). Grazie per questa, e per la tua pazienza.

A presto, Paolo

Bibliografia

P.S. A proposito di sintesi. L’ultimo libro di Maffesoli tradotto in italiano è intitolato “Le virtù del silenzio”. Ti trascrivo la nota editoriale perché è un capolavoro. «Nei momenti di difficoltà la realtà diviene sfuggente e il coro dei ben pensanti prova a districare la complessità del sociale attraverso discorsi astratti e razionali. Michel Maffesoli, invece, invita il lettore a riconciliarsi con il silenzio, abbandonandosi al mistero. Le parole non sono in grado di cogliere il reale, perché esso è fatto della potenza dei sogni, di fantasmagorie, di fantasie. Il reale è sfuggente, ineffabile e giunge a conoscibilità solamente quando prende corpo negli oggetti del quotidiano, nel “divino sociale”. Attraverso la sua analisi erudita, l’autore tenta di comprendere il ritorno del “sacrale”, ovvero del bisogno collettivo di una comunione emozionale, della condivisione e della scomparsa nell’Altro: l’altro della comunità, del cosmo, della deità». (la sottolineatura è mia)

Per uno che negli ultimi quindici anni ha pubblicato quindici libri (mi limito a quelli usciti in Italia) il silenzio mi sembra una bella sfida!

Se poi volessi toccare con mano (non sono consigli di lettura: buona parte di questi libri non li ho letti, un terzo li ho mollati dopo venti pagine), ecco alcune opere di Michel Maffesoli:

Il tempo delle tribù (1988) – Guerini 2004
Il mistero della congiunzione (1999) – SEAM 2000
L’elogio della ragione sensibile (1999) – SEAM 2000
La contemplazione del mondo (1999) – Costa &Nolan 1996
Del nomadismo (2000) – Franco Angeli 2000
L’istante eterno (2003) – Sossella 2003
La parte del diavolo (2003) – Sossella 2003
Note sulla postmodernità (2005) – Lupetti 2005
Reliance (2007) – Mimesis 2007
Fenomenologia dell’immaginario (2009) – Armando 2009
Icone d’oggi (2009) – Sellerio 2009
La trasfigurazione del politico (2009) – Bevivinum 2012
Apocalisse (2010) – Ipermedium 2010
Matrimonium. Breve trattato di Ecosofia (2012) – Bevivinum 2012
Le virtù del silenzio (2016) – Mimesis 2016

Appendici

Rivedendo la prima versione di questa torrenziale missiva mi sono reso conto di aver creato un effetto collo di bottiglia, per cui il mio ragionamento esce a fiotti, si disperde in tanti rivoli e fluisce con difficolta. Nel tentativo di renderlo un po’ meno farraginoso ho allora potato le pagine di un sacco di ripetizioni e di quelle parti che più vistosamente portavano a spasso il discorso. Non a sufficienza, come avrai constatato: ma non ho avuto cuore per un ulteriore passaggio.

Anzi, proprio per la coazione al riciclo che arriva dai miei geni campagnoli ho conservato una parte dei tralci potati, e un paio te li regalo: superflui o addirittura di ostacolo per la vita del tronco, possono risultare utili, sia pure per una brevissima fiammata, in una lettura autonoma.

Itaca ti sia sempre nella mente
La tua sorte ti segua a quell’approdo…
Ma non precipitare il tuo cammino
Meglio che duri anni, che tu vecchio
Approdi finalmente all’isoletta…
Itaca t’ha donato il più bel viaggio
Senza di lei non ti mettevi in via.
Costantino Kavafis, Itaca

Anche se bella, l’isola è deserta
E le impronte stampate sulle rive
Sono tutte dirette verso il mare.
Da qui si può fuggire solo via
E immergersi per sempre nell’abisso
Wislawa Szymborska. Utopia

Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di nuovo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Dalla barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Giacomo Leopardi, La Ginestra, vv 72-77

 

1a. Ragione e razionalità

Nel testo ho ripetuto sino alla noia cosa non funziona, a mio giudizio, nel castello delle accuse mosse alla ragione. Penso sia però il caso di chiarire, a rischio di scadere nell’ovvio, cosa intendo quando parlo di razionalità. Non essendo né un filosofo né un cognitivista andrò molto a spanne, tenendomi a quel poco che dovrebbe essere evidente a tutti.

Per come la vedo, la ragione è solo una facoltà di esercizio del pensiero universalmente condivisa dagli umani. Chi più, chi meno, ragioniamo tutti (anche se non si direbbe). Questa facoltà è direttamente connessa allo sviluppo della capacità linguistica. A differenza di tutti gli altri animali, che comunicano tra loro ma si trasmettono solo informazioni elementari, gli umani sono in grado di comporre, a partire da un numero limitato di suoni (o di segnali visivi), un’infinità di discorsi significativi, che non riguardano solo la realtà oggettiva, ma si allargano a quella presunta, a quella possibile, a quella immaginata. Sono in grado di scambiarsi informazioni non solo sugli oggetti, ma sui simboli, e non solo informazioni, ma opinioni. Proprio il prevalere della funzione simbolica rispetto a quella prettamente denotativa/informativa è ciò che noi chiamiamo storia.

Prevengo l’obiezione: questa è una schematizzazione molto parziale. É verosimile ipotizzare, infatti, una sorta di relativismo linguistico. Gli uomini non entrano in rapporto ovunque con gli stessi aspetti della natura, e quindi sviluppano modalità percettive e strutture linguistiche e lessicali differenti: con la conseguenza, visto che il linguaggio influenza il modello cognitivo, di maturare visioni del mondo le più svariate. Voglio dire, in parole semplici, che un pigmeo della foresta, un beduino e un esquimese per rapportarsi agli ambienti in cui vivono sono forzati ad utilizzare in percentuale diversa i vari sensi: quindi non solo riceveranno input diversi, ma li riceveranno attraverso canali differenti, e li rielaboreranno in sistemi simbolici dissimili. Il che, al fine di definire uno standard comune di razionalità, non è un problema indifferente. Comunque, senza ricadere nella disputa tra Platone e Gorgia, un elemento comune c’è, ed è proprio quello che a me interessa.

La funzione razionale, al di là di ciò che produce, viaggia sempre in due direzioni: da un lato raccoglie, cataloga, elabora e immagazzina nella mente le informazioni contenute o rappresentate dai suoni o dai segni in ingresso (se si tratta di sensazioni olfattive o tattili le traduce), dall’altro mette in ordine questi suoni e questi segni (queste informazioni) in uscita, affinché la loro successione esprima un significato. Compie in entrambi i momenti un’operazione “aritmetica”, nella quale il risultato è superiore alla semplice somma (positiva o negativa) degli addendi, in quanto dipende dalla collocazione, dal posizionamento degli stessi. Lo stesso suono o lo stesso odore, a seconda del momento e della situazione, possono indurre curiosità, piacere o terrore. Allo stesso modo, una parola, un gesto o un’espressione del viso possono comunicare in diversi contesti messaggi opposti. In entrambi i casi viene eseguita una comparazione con la somma delle precedenti esperienze e una valutazione dei possibili atteggiamenti da assumere. Nel secondo, quando l’interlocutore è un essere umano, questa operazione è già di grado complesso, perché suppone la sua capacità di decodificare i segnali, e non di reagire semplicemente al messaggio sensoriale. Suppone che l’altro sia in grado di farsi un’opinione, ovvero di fare a sua volta i suoi conti. Insisto su tutto questo per ricordare che la ragione nasce “calcolante”, è quella la sua natura, e non le può essere imputata: ma anche che il gioco che noi chiamiamo cultura si svolge proprio entro quel margine di valore che una particolare collocazione aggiunge alle parole (o ai segni).

Il meccanismo vale per ogni tipo di conoscenza. La differenza la fanno i materiali e i contesti rispetto ai quali si attiva il ragionamento. Le conoscenze scientifiche riguardano oggetti reali, o almeno, partono da quelli: quelle che potremmo chiamare sociali o relazionali riguardano istituzioni, idee, convenzioni, ovvero cose totalmente create da noi, che non sono date in natura, ma esistono solo perché noi le pensiamo esistenti.

È evidente che nei due diversi ambiti la ragione non può muoversi allo stesso modo. Infatti, a seconda del campo d’azione si esprimerà come razionalità quando informa le scelte gnoseologiche, le modalità del conoscere, e come ragionevolezza quando si applica a quelle etiche, alle modalità dell’agire. Si potrebbe dire, con molta approssimazione, che nel primo caso prevale l’uso quantitativo della ragione, nel secondo quello qualitativo.

Ciò non significa che la razionalità sia oggettiva e la ragionevolezza soggettiva. Significa soltanto che l’una ci organizza delle conoscenze in un sistema coerente, creando delle inferenze logiche, l’altra ci suggerisce come spenderle nella maniera più efficace. Come kantiano ortodosso non penso affatto che la razionalità abbia la presunzione di cogliere il mondo nella sua essenza (né tantomeno l’io e Dio); ha piuttosto la coscienza di interpretarlo secondo schemi (forme, categorie, ecc…) propri della mente del soggetto. Questi schemi non sono arbitrari, perché comuni a tutti gli uomini, ma possono essere variamente combinati: dalle diverse combinazioni nascono come abbiamo visto differenti culture, spirituali e materiali. È inevitabile che quando differenti culture vengono a contatto, o viene intrapreso un progetto di uniformazione all’interno di una di esse (cosa che si è verificata da sempre nella storia, ma in maniera particolare e particolarmente intensa nella seconda metà dell’ultimo millennio), si proceda a delle esclusioni: un sapere unificato non può che partire dal rifiuto dei molteplici saperi tradizionali precedenti, dalla loro cancellazione, a volte anche violenta (si pensi a ciò che è accaduto nel Seicento, proprio mentre la mentalità scientifica stava esordendo: cancellazione della cultura popolare, caccia alle streghe, cristianizzazione dei popoli americani, ecc…). Questo parrebbe avvalorare il quadro dipinto dai post-modernisti: ma proprio perché la ragione è in grado di riflettere su se stessa e sui propri limiti, gli schemi razionali col tempo anziché irrigidirsi acquistano elasticità. Non sono gabbie di contenzione del pensiero, ma lo scheletro che lo sorregge, mentre nervi e muscoli sono dati dalla volontà e dalla capacità empatica e immaginativa.

Tutto sommato la faccenda sino ad ora ha funzionato: malattie gravissime sono state debellate, mandiamo sonde spaziali su Marte (lasciamo stare che poi precipitino: comunque ci arrivano), scrivo queste considerazioni su un computer anziché inciderle su una tavoletta d’argilla o una lastra di pietra, ecc… Sono dati incontestabili. Che poi queste cose non siano sufficienti a riempire di senso la vita, è un altro discorso, questo sì legato ad una presunzione: a quella che un senso debba esserci. Ma tale presunzione, ripeto, non è affatto intrinseca alla razionalità. Conoscere il “come” le cose accadono non implica affatto capire il “perché”, e neppure il volerlo capire. Quando subentra questa volontà, per una indebita enfatizzazione del principio di causalità (questo Kant lo ha detto chiaramente), si finisce nel campo della fede e delle “Verità” definitive, e si parla di un’altra cosa. Certo, esistono anche forme di fideismo indotte dalla ragione, ma allo stesso modo in cui esistono quelle religiose, frutto dalle stesse debolezze umane (fondamentalmente, la paura e la superstizione).

Al contrario, la razionalità di cui io parlo non pretende di giungere alla Verità. Semplicemente perché già la conosce, e ne è addirittura figlia, in quanto generata dalla consapevolezza della morte (ma si potrebbe anche invertire il rapporto: razionalità e consapevolezza sono come l’uovo e la gallina). Semmai dalla Verità riparte, per ricostruire non dico un senso, ma almeno un mondo a misura umana (per chi avesse qualche dubbio sulla presa d’atto della reale condizione umana è sufficiente rileggere Foscolo o Leopardi, senza arrancare dietro Heidegger). Cerca di farlo attraverso la conoscenza scientifica, perché malgrado già si conosca il finale siamo giustamente curiosi della trama, e solo in questo significato possiamo parlare di una approssimazione alla verità: ma lo fa anche perché questa conoscenza ha delle ricadute pratiche, qui e ora, che almeno alleviano lo sgomento creato da quella consapevolezza. Ne ha pure di negative, certamente, e di contradditorie: ad esempio la creazione di strumenti di morte sempre più sofisticati: ma questo dipende dalla razionalità o da un’attitudine pre-razionale, e non solo umana?

La razionalità non è comunque tout court la scienza: è lo strumento che ne permette l’esistenza e lo sviluppo. Al più si può dire che dovrebbe anche esercitare su quest’ultima un controllo efficace, e che non sempre lo fa: ma questo non accade per una congenita disposizione maligna del razionalismo. Il problema è piuttosto che ogni tanto (molto spesso) anche la ragione si prende una vacanza.

Questa coscienza razionale, che da un lato produce la conoscenza scientifica, ma dall’altro la legge alla luce della finitezza umana, sfocia necessariamente nel relativismo? Anche in questo caso bisogna intenderci sull’uso dei termini: e visto che ormai l’accezione comune di “relativismo” è quella negativa, quella per cui una cosa vale l’altra e non esiste una scala di valori, mi sembra di poter affermare che una coscienza razionale non produce nulla di tutto ciò. Nell’ambito scientifico si deve parlare piuttosto di un “razionalismo critico”: a differenza del criticismo kantiano, che sottopone ad esame gli strumenti e i meccanismi della ragione, questo concerne invece i risultati, tanto le teorie quanto le singole nuove acquisizioni scientifiche, e per esso nessuna conoscenza è mai definitiva. Ciò non significa che una conoscenza valga l’altra: significa semplicemente che ciò che oggi funziona, produce risultati, consente di ipotizzare convincenti spiegazioni dei fenomeni, ha comunque un valore provvisorio, può e anzi deve essere continuamente verificato (Popper dice “falsificato”) e, appena possibile, superato. Il relativismo non c’entra un accidente, e la deriva relativistica, che in effetti c’è, ed è anche diffusa, nasce proprio da una interpretazione “emozionale”, tutt’altro che razionale.

 

1b. Ragione e ragionevolezza

Il che ci porta alle scelte etiche. Se applicati fuori dal campo strettamente scientifico, la critica kantiana della ragione pura e il razionalismo critico conducono inevitabilmente al nichilismo? Sarei tentato di chiuderla subito affermando che si tratta di un falso problema: puoi usare un rasoio per farti la barba o per tagliare la gola a qualcuno, e il problema evidentemente non sta nel rasoio, che non ha una sua vocazione maligna a recidere carotidi. Ma qui la materia è ancora più delicata della pelle delle guance, il rasoio non può essere sostituito dall’accetta. Nell’ambito socio-relazionale la ragione deve adattarsi a domini dello spirito che non sono matematizzabili. Non ha a che fare con una realtà oggettiva e tendenzialmente immutabile, ma con le idee che popolano lo spazio di libertà che l’uomo si è conquistato: con qualcosa cioè di volatile, di incerto, di sfuggente. Deve dunque esprimersi come ragionevolezza. La ragionevolezza è la capacità di mediare tra “ragioni” diverse, o meglio, diversamente usate, di evitare o di attutire lo scontro e di trovare i punti in comune dai quali partire per una composizione. Non è tuttavia la ricerca di una mediazione a ogni costo: la ragionevolezza non prescinde dalla razionalità, ne è solo la versione elasticizzata: perché i punti di confronto possano essere individuati è necessario consentire su una base minima. Se questa base non c’è, la ragione calcolante non può che prenderne atto e valutare le opzioni praticabili col minor danno. Farsi cioè machiavellica razionalità. A livello di politica internazionale, ad esempio, posso applicare la ragionevolezza nei rapporti tra le aree in via di sviluppo e quelle già sviluppate, ma con l’ISIS mi conviene fare bene i miei conti; a livello nazionale, funziona tra le istanze espresse da forze politiche diverse, ma non nei confronti di un populismo mediatico che non è più governabile; nei rapporti interindividuali, tra individui che professino magari differenti concezioni della vita, ma della vita abbiano in comune il rispetto.

Nella sfera etico-relazionale non bastano dunque le buone intenzioni, così come non è sufficiente il calcolo dei costi e dei ricavi, o della linea più breve tra due punti. La ragionevolezza è una razionalità che calza suole di gomma, per muoversi con la sensibilità e la duttilità richieste dalla materia in gioco: diversamente può fare disastri. Non bisogna però confondere i guai generati da una sua applicazione non opportuna con quelli originati da un guasto del meccanismo. Per i post-moderni tutto l’impianto del sistema capitalistico, modi di produzione, imprescindibilità dal profitto, incentivazione gonfiata dei consumi, deriva finanziaria, offre l’esempio di dove va a parare la razionalità “calcolante” quando non è temperata dalla “sensibilità” (e questa è la versione soft: per alcuni l’esito invece è comunque quello). In realtà non è nemmeno così. Qui la razionalità non c’entra affatto. Se il valore “virtuale” del capitale finanziario circolante è centinaia di volte superiore a quello della produzione effettiva, e quindi non ha più alcun rapporto con ciò per cui era nato e con la realtà di merci, impianti, scambi materiali, ecc…, ciò è frutto di una deriva irrazionale, non l’esito scontato della razionalità. Allo stesso modo, per stare a cose a noi più prossime, quella che ipotizza fantascientifici tunnel da un versante all’altro dell’Appennino per muovere merci che nemmeno ci sono non è la ragione economica, ma una spudorata volontà speculativa. Non rientra nella “razionalizzazione” dell’economia, ma al contrario, è il prodotto di una deregulation incontrollata.

Per applicazione non opportuna si deve intendere invece il fare la cosa giusta nel momento, nella situazione o nel modo sbagliati. Che può avere conseguenze egualmente devastanti, ma non dipende da un automatismo negativo della ragione. Rientra nel margine di libertà guadagnato agli uomini dalla cultura, quindi può accadere o meno, è frutto di una scelta. Scavare un pozzo nel deserto per consentire un minimo di agricoltura a popolazioni stremate, come ha fatto qualche anno fa un progetto di cooperazione italiano, di per sé è un’ottima cosa. Se però la trivellazione va a intercettare l’unica falda acquifera che alimenta una decina di pozzi nel raggio di cento chilometri, diventa una sciagura. In questo caso non era né irrazionale né speculativa l’intenzione, ma si è dimostrata assurda la scelta di tradurla in realtà in quel luogo.

Ciò che volevo dire con questi due esempi è che il problema non sta mai in un eccesso di razionalità, ma piuttosto nella sua negazione (il tunnel inutile) o nel suo incompleto esercizio. Non si può certo dire che la “ragione sensibile” difettasse nel progetto di cooperazione, ma non è poi stata supportata da un uso adeguato di quella “calcolante”.

Insomma: se nel mondo scientifico esistono delle leggi che descrivono o spiegano i fenomeni naturali, per permetterci di usarli o di difenderci, in quello non scientifico le leggi non spiegano i fenomeni, ma cercano di favorirli o di arginarli. Nascono da esigenze di volta in volta diverse, hanno quindi una validità relativa, temporanea. Non avendo a che fare con un mondo oggettivo, la ragionevolezza diventa impegno soggettivo. Diventa responsabilità individuale. Obbligo di “fare uso pubblico della propria ragione”, come dice Kant.

E non è nemmeno vero che una impostazione razionale conduca necessariamente ad una considerazione egoistica dei rapporti. Per un Hobbes che ritiene che l’uomo lasciato in balìa di se stesso non vada oltre il calcolo del proprio interesse personale, persino uno poco tenero con la ragione come Hume (“La ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni, e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di obbedire e di servire ad esse”), per il quale la vita senza l’ordine sociale e una rigida gerarchia era “solitaria, povera, sgradevole, brutale e breve”, ammette che gli uomini siano anche capaci di gesti e sentimenti che non possono essere spiegati con alcun tipo vantaggio perso¬nale. Non a caso è un maestro di Kant.

Hume non accenna alla ragionevolezza, anzi, sembra escluderne ogni partecipazione al sentimento morale: ma alla fin fine è di questo che parla. Attribuisce alla “simpatia” i nostri comportamenti altruistici, e la simpatia è dettata da una passione, peraltro egoistica. Ma a differenza di Hobbes ritiene che in ciascun individuo agisca una funzione di calcolo che opera a un livello superiore rispetto agli appetiti animaleschi, che tiene conto del contagio del piacere e del dolore (se vedo una persona che soffre, soffro anch’io). Non è anche questo fare “uso pubblico” della ragione? A Kant sarà sufficiente togliere il condizionale (se…, devi) per fondare un’etica assoluta dettata dalla ragione.

Quando si parla di ragionevolezza (a differenza che della razionalità) si può dare l’impressione di cercare rifugio in un termine tanto vago da comprendere tutto, ovvero nulla. Invece il termine ha un significato preciso, talmente preciso da essere assunto come principio nella giurisprudenza (addirittura nella nostra costituzione, riprendendo dal diritto anglosassone). Indica la capacità dell’agire con equilibrio, col famoso buon senso. In altre parole, di adeguare ai fini che si perseguono le azioni che si compiono, tenendo conto che tali azioni in qualche modo vanno sempre a toccare anche gli altri. Questo è l’unico parametro possibile nei nostri comportamenti: agire in maniera tale che il conseguimento dei nostri fini non arrechi danno ad altri (uso volutamente danno, inteso come qualcosa che è in qualche modo oggettivamente valutabile, e non offesa, che è una variabile soggettiva, dipendente dall’umore, dal carattere, dalla cultura altrui).

Il confine tra la razionalità e la ragionevolezza, se pure esiste, è naturalmente molto sfumato. Non è dettato dal prevalere dell’intenzionalità sulla necessità, e nemmeno separa due sfere d’azione totalmente distinte. Guidare mantenendo la propria destra, anche se non ha a che vedere con una qualche realtà o necessità naturale, “oggettiva”, ma è frutto di una convenzione (tanto che in una parte del mondo vige quella opposta), attiene alla razionalità: ha uno scopo eminentemente pratico, serve a far scorrere il traffico, a evitare ingorghi e incidenti. Guidare con attenzione e prudenza attiene invece alla ragionevolezza. Si sceglie questo comportamento sulla base di valutazioni razionali, ma anche e soprattutto per una sensibilità nei confronti dell’incolumità altrui, oltre che per propria. A dispetto del suo prevalente significato “strumentale”, quello della ragionevolezza non è infatti un valore ‘freddo’. È l’ingrediente fondamentale di una convivenza civile, ma sta anche alla base di rapporti che vadano ben al di là della reciproca tolleranza, che si fondino sul rispetto, che possano arrivare alla stima. Di cose, per intenderci, come l’amicizia.

1c. Miti o valori?

E qui devo ulteriormente chiarire, sempre che mi riesca. Nella fretta di liberarsi delle scorie del passato, i postmoderni tendono ad accomunare le idealità squisitamente “storiche” (l’uguaglianza, ad esempio, o l’affermazione della individualità – e naturalmente i miti loro sottesi, il primato della ragione, il progresso, lo sviluppo) – che sono un prodotto “culturale”, in quanto legate a determinate epoche e civiltà (sostanzialmente, a quella occidentale moderna), e che, a loro giudizio, hanno dato luogo alle ideologie, con quei valori che hanno invece una radice “naturale”, e che quindi civiltà e ed epoche le attraversano e le superano senza problemi. Sentimenti appunto, come l’amicizia, o anche virtù come il coraggio: nati da impulsi egoistici alla sopravvivenza o alla continuità della specie, e solo successivamente “coltivati” in funzione sociale. In questo modo buttano non solo l’acqua e il bambino, ma anche la bacinella. I valori di cui parlo non sono infatti il prodotto di specifiche culture, aristocratiche o borghesi, nomadi o stanziali, ma sono addirittura presenti, almeno come attitudini, nelle società animali. Di culturale ci sono poi gli abiti dei quali sono stati nelle diverse epoche rivestiti, ma c’è soprattutto – e questo è l’importante – il fatto che i nostri sentimenti, a differenza delle emozioni, vedono interagire il fattore ormonale della risposta istintiva, o emotiva, con quello “razionale”, inteso appunto come ragionevolezza. Voglio dire che i valori non li ereditiamo col patrimonio genetico in maniera acritica, e neppure sono fondati sulla anarchia dei sentimenti, ma passano al vaglio di un giudizio di ragionevolezza e in base ad esso sono riconosciuti come “giusti”, e declinati di conseguenza. Tradotto in soldoni: così come il coraggio non può essere misurato con l’incoscienza (se mi tuffo dalla finestra dell’albergo direttamente nella piscina non sono coraggioso, sono un idiota), ma è la capacità di fare scelte, magari rischiose, in vista di un bene non prettamente egoistico (sono coraggioso se mi butto tra le onde per salvare uno che sta annegando), allo stesso modo l’amicizia si misura con la capacità di mantenere il rapporto su un binario di ragionevole franchezza e di desiderio del vero bene dell’altro. Cosa che appunto impone delle scelte, anch’esse a volte dolorose. Amico non è chi mi asseconda sempre, ma chi sa mettermi di fronte ai miei sbagli senza rinfacciarmeli, col solo intento di correggerli. E questo lo può fare solo ragionando, e inducendomi a ragionare.

Dunque, anche la correlazione ipotizzata dai postmoderni tra razionalismo e nichilismo non regge. Non è affatto vero che la razionalizzazione spazzi via tutti i valori. In quanto ragionevolezza, invece, crea le condizioni perché questi diventino, o si conservino, veramente tali.

L’approssimazione concettuale (e, paradossalmente, linguistica) dei post-modernisti non è cosa da poco: confonde le carte e cambia davvero tutto. Un conto è venirci a dire che è tramontato il mito della giustizia sociale, o quello del progresso infinito: altro è cercare di convincerci che anche l’amicizia, così come la conosciamo, non è che un prodotto specifico della modernità occidentale, in scadenza come tutti gli altri. L’amicizia, con tutto ciò che comporta in termini di lealtà, fedeltà e reciproco rispetto, non l’abbiamo inventata noi moderni: esiste da quando esiste una coscienza di sé e del mondo, come ci raccontano le letterature degli ultimi tremila anni. Achille e Patroclo, Oreste e Pilade, oppure Gilgamesh ed Enkidu, o Davide e Gionata, se vogliamo spaziare anche oltre la cultura occidentale. Persino Emanuele Severino sarebbe d’accordo. Certo, sono cambiati i modelli sociali, da aristocratica e fondata sul cameratismo si è trasformata in legame civile, ma ha continuato ad essere intesa come un rapporto paritario, fondato sul reciproco rispetto, sulla lealtà, la stima e la fiducia. Voglio credere che tali valori resisteranno per almeno altrettanti secoli, sia pure declinati in contesti diversi, e che teoricamente non sarebbe neppure necessaria alcuna resistenza per salvaguardarli. A meno che anche la coscienza di sé e del mondo che crediamo di aver conseguito non sia essa stessa in toto un autoinganno, o un inganno della “civiltà”, come appunto Maffesoli sembra suggerire.

2. Le astuzie della decostruzione

Per evitare che il mio sforzo di chiarimento diventasse più confuso di quanto già è, ho cercato di concentrarmi sulle questioni di merito. Ormai però sono lanciato, e vorrei segnalarti anche un paio di aspetti che riguardano apparentemente il metodo, ma in realtà sono parte integrante dell’impianto concettuale di fondo del post-modernismo. Si tratta di piccoli trucchi formali, tutt’altro che innocenti, che complicano e al tempo stesso svuotano di senso il discorso.

Partiamo da un vezzo particolarmente irritante, che condensa maliziosamente (e semplicisticamente) nell’uso tipografico una disposizione concettuale, e che avrai senz’altro già rilevato: quello di virgolettare il maggior numero possibile di termini, a significare appunto che quelle parole non coincidono con realtà oggettive o con significati universalmente condivisi, ma suppongono svariate possibili interpretazioni, che cambiano a seconda dei contesti storici e sociali e degli angoli prospettici. É un vezzo che ha contagiato anche i post-moderni non dichiarati (prova a leggere i primi libri di Marco Revelli, o di Magris): ma l’origine è quella. Maurizio Ferraris lo ha ha messo alla berlina nel suo Manifesto del Nuovo Realismo, del quale tornerò a parlare. (Potresti obiettare che ci indulgo anch’io: è vero, ma lo faccio solo quando uso i termini come citazioni, nel significati che sono loro attribuiti da altri. E poi, via, a volte, se non si eccede, torna comodo)

Un altro dei prodotti di risulta della decostruzione consiste nella banalizzazione linguistica: pensa all’uso che si è fatto in questi giorni del termine genio per Dario Fo, o di eroe per Totti e per gli altri protagonisti sui campi di calcio; oppure a quello di una parola come amicizia sui social. La banalizzazione è veicolata dai media, soprattutto dall’uso pubblicitario, che gioca su pochi termini forti, capaci di attizzare, anche e preferibilmente a sproposito, l’immaginazione: ma ha origine dalla sottrazione di significato agli oggetti, alle idee, o dalla sua moltiplicazione incontrollata.

Ancora, sempre per restare a casa nostra, c’è l’impiego di termini inglesi per dire altra cosa dai loro corrispettivi italiani: community ad esempio, ha un significato molto più vago che non comunità, perché prescinde dalle possibili identificazioni storiche di questa ultima e, pur mantenendone l’eco nel suono, si presta a significare tutt’altro. Come sopra, l’uso è apparentemente solo un vezzo da linguaggio internettiano o aziendale: ma c’è un livello oltre il quale diventa ambiguo. Marca un confine, che può essere generazionale se segnato dai termini tecnici in uso per le strumentazioni informatiche, o da quelli del gergo del divertimento, oppure di status, quando a tracciarlo sia la nuova terminologia economica, politica o sociologica. E questo confine sta lì a dirti che al di qua sei un sopravvissuto del moderno, e hai le ore contate.

In altri casi la banalizzazione è molto più sottile. Nel testo ho fatto cenno ad esempio al “comunitarismo”, ovvero alla filosofia anti-individualistica, anti-liberalistica e, naturalmente, anti-capitalistica che ha come bersaglio primo il concetto “neutralistico” della giustizia borghese. L’accusa mossa dai comunitaristi al liberalismo è di esigere dall’individuo lo svuotamento, lo spogliarsi di tutto ciò che lo caratterizza in quante tale, per confrontarsi con gli altri sulla base solo della fredda razionalità. Ora, questa è una lettura per alcuni versi corretta, ma indubbiamente molto riduttiva del liberalismo: tanto da far passare per una “dottrina” (con le virgolette) quella che è la semplice rivendicazione di condizioni di base, di regole chiare che consentano un leale gioco dei rapporti. La fredda razionalità è il metal detector che dovrebbe garantire contro la detenzione di armi. A portare calore nei rapporti saranno poi gli individui, se ne sono capaci, e non gli abiti culturali che indossano.

C’è infine la corsa, oggi più che mai aperta, visto che non va più di moda la stravaganza postmoderna (nel senso che è diventata – negli aspetti più deteriori – quotidianità), ad appropriarsi di tutto ciò che era rimasto sino ad ora escluso perché considerato insignificante, ovvio, e ad applicarci un marchio doc. Faccio un altro esempio. Ultimamente va per la maggiore il filosofo tedesco Hartmut Rosa, che ha introdotto in filosofia il concetto di risonanza. Anche qui, il termine evoca subito lussazioni o menischi, mentre nell’accezione di Rosa significa semplicemente capacità di ascoltare gli altri (in opposizione a dissonanza) e di confrontarsi con essi (a differenza di consonanza, che implica invece un accordo acritico). Hai capito? Questo ha scritto un libro di ottocentotrenta pagine, il doppio di quelle usate da Dawkins per dimostrare l’inesistenza di Dio, per dirci che magari, se mentre parliamo ci guardassimo negli occhi e non nella telecamera reale o immaginaria che ormai ci segue ovunque, ci capiremmo e ci relazioneremmo meglio. Non dirmi che è scontato, perché che si tratta invece di una riduzione ad personam della teoria dell’agire comunicativo di Habermas, e vuoi mettere!

Sembrerebbe, a prima vista, una voglia di normalità: e forse, anzi, probabilmente, lo è anche. Ma è una normalità piegata immediatamente alla trascrizione teatrale. Nella società dello spettacolo nulla può rimanere fuori dalla scena. Il problema diventa, allora, al di là della rilevanza o meno dei protagonisti, l’impianto scenico stesso. L’asserzione di Mc Luhan, per cui il medium è il messaggio, si rivela più che mai valida. Pensa a tutto il barnum di festival della filosofia, della mente, della letteratura, della scienza. Sarebbe intanto da capire di chi è veramente l’esigenza, se dei divulganti o degli spettatori (altro che risonanza), e comunque la radice di divulgazione è la stessa che per volgarizzazione: ovvero, prendere contenuti alti e ridurli alla portata di tutti, semplificandoli ma soprattutto, in sostanza, sterilizzandoli. Che è una pratica già di per sé ipocrita, perché non mira ad alzare il livello di consapevolezza del “volgo”, cosa che può avvenire solo educandolo allo sforzo necessario per conoscere, per sapere, per capire di più, ma asseconda proprio quella pigrizia intellettuale che lo stesso Maffesoli stigmatizza. Non è nemmeno vero che sia giustificata dalla necessità di far intravvedere gli oggetti possibili e auspicabili della conoscenza, perché così come arrivano ad essere proposti non sono nemmeno più tali.

La proposta di contenuti alti ha per forza di cose un risvolto etico. Lo dovrebbe avere tanto più in una operazione di divulgazione, perché rivolta ad un pubblico che non si attende mattoncini lego per giochi concettuali ma indicazioni pratiche di comportamento. Ora, questi risvolti, di norma, sono piuttosto duri da assorbire: pensa ad esempio all’etica kantiana. Il gioco migliore è allora di far pensare a chi riceve queste indicazioni di esserne già in possesso, perché il ricevente cerca in realtà rassicurazioni, piuttosto che nuove strade. Se la rassicurazione sul fatto che i suoi comportamenti sono già in qualche modo “filosoficamente corretti” gli arriva da un luminare, in un festival di filosofia, è come facesse apporre un bollo di certificazione. Magari comprerà anche il libro di ottocento pagine, che non leggerà mai, ma lo farà consacrare dall’autografo.

Più immediata e totale ancora è naturalmente la banalizzazione quando i contenuti sono proposti in contesti o attraverso supporti o media divulgativi che di per sé, senza tanti infingimenti, sono nati per ottundere. Un discorso sui valori fondamentali intervallato dalla pubblicità della carta igienica o dell’auto di lusso, che segue o precede il servizio sui nuovi cagnolini dei reali inglesi, non solo non apre a consapevolezza, ma si pone allo stesso livello. Viene metabolizzato dallo stomaco onnivoro della “cultura” dell’immagine, e ridotto alla stessa qualità e consistenza.

3. Cattive compagnie

Quando sostieni una tua tesi provi sempre a verificare se ci siano potenziali alleati, capaci di fornirti argomentazioni che non avevi considerato o di rafforzare quelle che avanzi. In questo caso non avevo che da scegliere, perché il fastidio che provo per i post-modernisti è abbastanza condiviso, in un arco di posizioni molto diverse tra loro, che vanno da Alain de Benoist ad Habermas. Ho potuto però verificare che non sempre chi il post-moderno lo combatte è molto più credibile dei suoi bersagli. Ti faccio un paio di esempi.

Il primo è rappresentato da Michel Onfray, altro enfant prodige della scuola francese. Onfray in teoria avrebbe tutti i numeri giusti, a partire da un’intelligenza caustica e debordante: in pratica però ne ha sin troppi, al punto che non si capisce affatto da che parte tiri. A conti fatti lo distinguono dai post-modernisti solo alcune sfumature, ma a quelle ci tiene. Si professa anticapitalista, antiliberale, anticomunista, e in positivo post-anarchico ed edonista. Già questo biglietto da visita dovrebbe indurre a non prenderlo troppo sul serio, ma anche nel suo caso la rilevanza mediatica non va trascurata. È una vera star, passa in televisione più tempo di Cacciari e non si tira indietro di fronte a nessun tema (lui stesso si è definito un “ateo di servizio”, che nella sua interpretazione non significa un utile idiota, ma quello che deve sporcarsi le mani con i media e nel dibattito pubblico per contrastare l’oscurantismo).

Fosse solo questo, ripeto, non varrebbe nemmeno la pena parlarne. Ma c’è dell’altro. Ci sono tratti della sua personalità e del suo incasinatissimo pensiero che meritano attenzione. Intanto arriva dal basso, da un’infanzia che ha conosciuto l’orfanotrofio e il lavoro manuale (anche se è durato poco), e la cultura se l’è guadagnata tutta, e per questo la tiene da conto. Poi prende le mosse da Camus, anziché da Sartre (ha scritto una corposa biografia intellettuale del primo, che a dispetto del narcisismo – per cui diventa un’autobiografia, un po’ come quelle di Citati – è ricca di intuizioni brillanti): e già partire di lì è come fare il settebello a scopa. Infine ha una formazione di base di stampo vetero-anarchico, che nulla ha a che vedere con lo pseudo anarchismo da centri sociali vellicato da Maffesoli: il che significa ulteriore rispetto per il patrimonio culturale che ha alle spalle, anche quando ne combatte certi esiti. Certo, se poi scendiamo nel dettaglio delle sue idee c’è da mettersi le mani nei capelli. Ma anche qui, devo ammettere che su molte cose è di una lucidità e di una schiettezza indiscutibili. Come quando ad esempio parla, ne La politica del ribelle, della sinistra del ressentiment: quella che “non abbraccia i valori che si richiamano alla vita, i valori positivi, ma pende piuttosto per i valori negativi, cioè non vuole che i poveri diventino ricchi ma vuole che i ricchi diventino poveri. Questa sinistra del risentimento non si richiama tanto alla fratellanza, alla solidarietà, alla felicità del più grande numero possibile di cittadini, ma preferisce sbattere i ricchi in galera, metterli alla gogna, nei campi di concentramento o di rieducazione. Questo tipo di sinistra è la sinistra marxista-leninista, la sinistra maoista, la sinistra stalinista, la sinistra di Robespierre, una sinistra che, di fatto, vuole vendicarsi, vuole vendicarsi dell’ordine del mondo”. Salvo poi identificare anche lui la sinistra libertaria, quella che dovrebbe cercare la felicità per tutti, in una sinistra dionisiaca, sia pure un po’ diversa da quella di Maffesoli, perché non rigetta né il sapere scientifico né lo stesso capitalismo, a patto che sia “libertario” anziché “liberale”. La stessa schiettezza usa nei confronti delle risorgenze religiose, dell’Islam in particolare: ma non fa sconti nemmeno al cristianesimo, tanto da scrivere un Trattato di ateologia per sostenere che fino a quando non si saranno spazzati via i fondamenti di ogni teologia non si potrà dare corso ad alcun progetto di nuova etica laica (ma ne propone immediatamente uno lui stesso, improntato all’edonismo). Insomma, hai capito il personaggio: un guitto di genio.

Ora, lasciando perdere le altre confusioni e contraddizioni, e rimanendo su quello che sembra essere il suo impegno più serio, la costruzione di un’etica laica, credo che questa insistenza su una rivendicazione forte delle ragioni dell’ateismo, in risposta proprio alla risorgenza delle fedi, finisca per fare il gioco dell’avversario. Quando dedichi alla professione dell’ateismo un Trattato che esce contemporaneamente alla Storia dell’ateismo di George Minois, alle quasi cinquecento pagine dedicate da Richard Dawkins a dimostrare che Dio non esiste e a quelle di Dennett, di Pievani, di Oddifreddi a spiegare che non è un problema e se ne può fare benissimo a meno (oltre naturalmente ai numeri speciali di Micro-Mega), la frittata è fatta. Non si era parlato tanto di Dio negli ultimi duecento anni.

Come avrai capito, Onfray per certi versi mi è persino simpatico. Ma lo ritengo altrettanto pericoloso di Maffesoli, perché “brucia” nella sua bulimia un sacco di argomentazioni e di idee che andrebbero invece trattate con maggiore cura, e mescolandole nel calderone le rende inoffensive. E questo è uno degli aspetti più caratteristici e insidiosi del postmodernismo.

L’altro modello è nostrano, in qualche modo dovrebbe riuscire di segno diametralmente opposto, nel senso che professa di ricondurre il discorso su un piano più realistico e serio, ed è rappresentato da personaggi come il già citato Maurizio Ferraris. Ferraris porta avanti ormai da un sacco di tempo una diatriba filosofica che lo ha visto opporsi ai nipotini nostrani di Lyotard e ai figli di Vattimo, e che è sfociata in un Manifesto del Nuovo Realismo, o NeoRealismo. L’operazione in sé è più che lodevole. È anche, come Onfray, come Maffesoli, come tutti, uno che si presta spesso e volentieri alla divulgazione (ricordi il suo Filosofia per dame?). E questo può non piacere, ma non sarebbe grave se la divulgazione servisse anche a liquidare un po’ di quell’aura sacrale che continua a tenere sospeso per aria il pensiero. Invece non è affatto così. Mi spiego. Nel Manifesto del Nuovo Realismo Ferraris demolisce senza tanti complimenti tutto l’impianto ermeneutico del postmoderno. Richiama al fatto che la realtà esiste indipendentemente dalle nostre interpretazioni, e che semmai vanno distinti gli ambiti in cui se ne parla. Santissime parole, da condividersi in pieno. Il problema è che questo discorso lo fa discendere da un modello di pensiero “Realista” che etichetta come Nuovo.

Ora, avrai notato che ho ripetuto le maiuscole del titolo del suo manifesto. Ti ho appena parlato di quei vezzi che sembrano in apparenza innocui, anche un po’ patetici, ma in realtà sono significativi, e come tali irritanti. In particolare dell’uso delle virgolette. Bene, nel suo Manifesto Ferraris lo mette alla berlina: solo che dopo aver irriso quello postmoderno del “virgolettato”, cade nel vezzo eterno del “maiuscolato”, che persegue l’effetto opposto, quello di una consacrazione anziché di una dissacrazione, ma funziona allo stesso modo. E gioca banalmente con l’appeal del “nuovo”, come nelle pubblicità degli shampoo.

Per cosa lo usa? Per ribadire ciò che è ovvio: che una pantofola è innanzitutto una pantofola, prima e al di là di tutti i significati che posso attribuirle se sono un orientale o un occidentale, un ricco o un povero, un cane o una tarma. E fa bene: ma che bisogno c’è di chiamarlo Nuovo Realismo, con tanto di doppia maiuscola, se non quello di imbottigliare aria e venderla al mercatino del biologico?

 

Bibliografia

A questo punto devo integrare anche la bibliografia. Ti segnalo allora alcune opere di Michel Onfray (circa un decimo del totale):
L’arte di gioire. Per un materialismo edonista – Fazi, 2009.
La scultura di sé. Per una morale estetica – Fazi, 2007
La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione – Ponte alle Grazie, 1997/1998
Teoria del corpo amoroso. Per un’erotica solare – Fazi, 2006
Trattato di ateologia. Fisica della metafisica – Fazi, 2005
La potenza di esistere. Manifesto edonista – Ponte alle Grazie, 2006/2009.
Filosofia del viaggio – Ponte alle Grazie, 2010
Controstoria della filosofia (9 vol) – Fazi, 2006-2013

Le più conosciute di Maurizio Ferraris
Filosofia per dame – Guanda, 2011
Bentornata Realtà. Il Nuovo Realismo in discussione – Einaudi, 2012
Manifesto del Nuovo Realismo – Laterza 2012

e quelle del suo bersaglio, Gianni Vattimo
Le avventure della differenza – Garzanti, 1980
Il pensiero debole – Feltrinelli, 1983 (assieme a P. A. Rovatti)
La fine della modernità – Garzanti, 1985
Oltre l’interpretazione – Laterza, 1994
Credere di credere – Garzanti, 1996

Infine, per il nuovo Ateismo
Telmo Pievani, Creazione senza Dio – Einaudi, 2006,
Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) – Longanesi, 2007
Eugenio Lecaldano, Un’etica senza Dio – Laterza, 2006
Georges Minois, Storia dell’ateismo – Editori Riuniti, 2000
Daniel Dennett, Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale – Cortina, 2007
Richard Dawkins, L’illusione di Dio – Mondadori, 2007.

NOTE

[1] (cfr. “La Lettura”, n. 252 del 25/9, pag 9, ‘Modernità addio’)

[2] La ricetta più gettonata è quella che spazia da Schopenhauer al Marx dei Manoscritti (dove parla di “infanzia sociale dell’umanità, quando l’umanità si espande in completa bellezza”), da Spengler a Freud, e naturalmente Nietzsche e Martin H. e la scuola di Francoforte. Ultimamente viene insaporita da una spruzzata di Alain de Benoist.

[3] Il tramonto del post-modernismo è al centro di un dibattito ospitato dall’Almanacco di Filosofia 2016 di MicroMega (“Ritorno alla realtà o fughe metafisiche?”). Ti confesso comunque che del dibattito in sé mi interessa ben poco, perché al solito vola alto e non prende in considerazione le ricadute spicciole, i danni collaterali, materiali e irrimediabili, provocati dalla guerra delle idee.

[4] L’interpretazione della didascalia apposta all’acquaforte di Goya è in realtà controversa. Il termine sueño in spagnolo significa sia sonno che sogno. Adottando questo secondo significato avremmo “Il sogno della ragione genera mostri”, in questo caso perfettamente in linea con la lettura post-modernista.

[5] Al quale oppongono il pensiero di Spinoza, tutt’altro che irrazionalista, ma adattato convenientemente alla bisogna.

[6] Questa convinzione accomuna tutto il fronte postmodernista, ma è rilanciata ed esplicitata con molta convinzione soprattutto da una frangia estremista dell’antropologia, segnatamente da Marshall Sahlins, che in “Un grosso sbaglio” legge tutta la storia della cultura occidentale come un progressivo asservimento all’ideologia del dominio.

[7] Su questo tema è illuminante (e definitiva) l’analisi di George Steiner (cfr. La nostalgia dell’assoluto).

[8] Per le origini di questa differenza rimando a “La vera storia della guerra di Troia”, Viandanti delle Nebbie, 2016

[9] Viandanti delle Nebbie, 2008

[10] Raccontando le difficoltà dei fiorentini a tenere sotto controllo Pistoia, commenta che se avessero eliminato subito, a freddo, quattro o cinque capi delle fazioni in lotta in quella città si sarebbero evitati un centinaio di morti un anno dopo.

[11] Per gli intrecci tra scienza ed economia, e in particolare per la rilevanza economica della botanica nel ‘700, sono utili e divertenti testi come Cacciatori di piante, di Tyler White, o La confraternita dei giardinieri di Andrea Wulf.

[12] Ne L’idioma analitico di John Wilkins (in Altre inquisizioni).

[13] Anche se le recenti scoperte in Europa e in Africa di fosse comuni risalenti al paleolitico superiore, piene di corpi brutalmente martirizzati, compresi quelli di donne e bambini, sollevano multi dubbi sul carattere pacifico delle società pre-agricole.

[14] Anche perché proprio Lyotard e Derrida, quando si sono resi conto di dove andavano a parare i loro esegeti, hanno preso velocemente le distanze, proponendo in definitiva un ritorno a Kant e un rilancio dell’Illuminismo. Il danno, comunque, era già fatto.

Come (non) si diventa postmoderni

di Paolo Repetto, 2003

Scoprire di essere speciali procura sempre una certa ebbrezza. Ne ho conferma dalla lettura un articolo su Wess Hardin. Era un ragazzo tosto: quando gli misero in mano una pistola, e si rese conto di possedere il dito più veloce del West, divenne euforico, sfidò e fece secchi quarantun avversari prima che lo calmassero a fucilate. Mi viene in mente che anch’io ho provato di recente una sensazione analoga, pur nella diversità delle situazioni. Alla prima lettura di un saggio di Vattimo ho infatti scoperto, non senza un certo compiacimento, la mia peculiarità: sono postmoderno. Ma l’ho presa più bassa di Hardin, anche perché alla fin fine non ho ben capito se essere postmoderno sia un privilegio o una disgrazia. Ho capito però che postmoderni, così come veloci con la pistola, non si diventa: si nasce.

Ho letto dunque Vattimo, e mi sono ritrovato postmoderno. E pensare che ho sempre creduto che il mio fastidio per la modernità e le sue forme venisse da una pre-modernità, dall’essere cioè di gusti e di temperamento un po’ antiquati, e che il mio tempo fosse quanto meno l’Ottocento. Invece ero già oltre, avevo un piede nel ventunesimo secolo. Di lì, probabilmente, il mio equilibrio instabile.

Vediamo di spiegarci. Ne La fine della modernità Vattimo identifica e sintetizza quelli che a suo parere sono gli aspetti costitutivi, le direttrici fondamentali di pensiero che hanno caratterizzato la modernità, e mostra come in questa fine di secolo le idee-madri abbiano lasciato il posto ad una costellazione, meglio ancora ad una vera e propria nebulosa di attitudini interpretative del mondo, della sua storia e del suo significato, tutte altrettanto dignitose e rigorose, ma soprattutto consapevolmente provvisorie.

Gli elementi caratterizzanti la modernità erano, secondo il filosofo torinese:

  • l’interpretazione della storia come processo di emancipazione dell’umanità (dalle leggi di natura, dalla precarietà e dal bisogno, dallo stato ferino)
  • la conseguente identificazione del destino dell’uomo nel dominio sulla natura
  • la valorizzazione del sapere unicamente come strumento di questo dominio (da cui la priorità assoluta accordata ai saperi tecnico-scientifici)
  • la tendenza ad un pensiero unitario e totalizzante (molte certezze, riconducibili ad una sola verità) e ad elaborare visioni onnicomprensive del mondo (da quelle filosofiche – idealismo – a quelle politiche – marxismo, ecc…)
  • la propensione a identificare il nuovo con ciò che è migliore, e il passato con ciò che è superato

A connotare invece il pensiero postmoderno sarebbero:

  • sfiducia nei macro-saperi, la loro sostituzione con saperi deboli e instabili
  • il rifiuto dell’enfasi del nuovo
  • la rinuncia a concepire la storia come un processo universale e necessario
  • il rifiuto di concepire la ragione come ragione tecnico-scientifica
  • la scelta di privilegiare il paradigma della molteplicità rispetto a quello dell’unità

Nei limiti di una sintesi, i punti essenziali dell’analisi di Vattimo sono questi, e mi sembrano cogliere appieno l’essenza del cambiamento di attitudine. Ho considerato dunque gli elementi del primo gruppo, e non ho avuto dubbi: non mi riconoscevo in nessuno. La storia come emancipazione progressiva? Ma emancipazione da che? Tutta la vicenda umana, tutte le culture, tutte le civiltà si sono sviluppate a partire dalla coscienza della morte, e nel segno –  o nel sogno – di un suo superamento (della morte o, almeno, della coscienza di essa). Non ho affatto l’impressione che ce ne siamo liberati: semmai, è vero il contrario. E se anche vogliamo metterla sul piano dei puri bisogni materiali, della pura sopravvivenza fisica, emancipazione di chi? C’è molta differenza tra la vita di un pastore kirghiso o etiope di oggi e quella di quattromila anni fa? Due terzi dell’umanità soffrono la fame, e la sopravvivenza non l’hanno garantita neppure temporaneamente: e il futuro si prospetta solo peggiore.

Quanto al domino sulla natura, basta guardarsi attorno. Deserti che avanzano, effetti serra, buchi nell’ozono, epidemie, alluvioni, terremoti, ecc… Quale dominio? Siamo formiche alla mercé di ogni piede o zampa o asteroide di passaggio, di ogni raffica di vento. Le briglie che ci illudiamo di aver messo alle forze naturali continuano ad allentarsi, ed ogni volta che queste ultime decidono di riprendere il proprio corso i costi risultano più alti. Non è nemmeno necessario sottoscrivere certo integralismo ambientalista – quello per intenderci che contrappone la “civile” consapevolezza ecologica dell’occidentale garantito alla miope disperazione dell’abitante del terzo e del quarto mondo – per rendersi conto che la strategia di domesticazione della natura ha da un pezzo lasciato campo al progetto di una cancellazione e sostituzione di quest’ultima con una natura seconda, pensata e spalmata sul globo a misura del modello produttivo. E questo rimette automaticamente in discussione non solo la priorità, ma lo status stesso dei saperi tecnico-scientifici, la loro intrinsecità ad un disegno di crescita illimitata, che ne condiziona o meglio ne detta i protocolli.

Per quanto concerne il sapere totalizzante, poi, l’impressione è che ogni certezza in più allontani e confonda la percezione di una verità di fondo. Ogni nuova conoscenza è un tassello nella costruzione di un mistero, si tratti di biologia, di astronomia, di storia. E ciò vale in maggior misura da quando hanno iniziato a rivendicare spazio altre voci, altre culture, che propongono modelli e direzioni investigativi e interpretativi diametralmente diversi e insinuano il dubbio anche in quelle verità che consideravamo acquisite. Dopo secoli di cancellazione dei saperi alternativi, di uniformazione dei parametri, di riconduzione ad un modello unitario ed universalistico del conoscere e dell’agire, scientifico o storico o politico che fosse, ci si accorge che per far tornare i conti si stava barando. I rigidi schemi della razionalizzazione si sono rivelati gabbie troppo strette per un mondo così vivace e multiforme.

Per quel che mi riguarda, dunque, modernità zero. Pur senza essere un nostalgico del passato, non ho difficoltà ad ammettere che da ogni novità mi aspetto di norma una perdita, anziché un guadagno. Non ho fiducia nei macro-saperi, non ci penso nemmeno a concepire la storia come processo universale e necessario, non etichetto la razionalità, colgo il molteplice, il diverso, piuttosto che l’unità. Appartengo decisamente nel secondo gruppo, ho concluso: sono, e sono sempre stato, un postmoderno, da prima ancora che i sintomi e il virus della postmodernità fossero identificati.

Oggi, tuttavia, l’articolo su Hardin mi ha induce a strane riflessioni, che nulla hanno a che vedere con la velocità nell’estrarre e nello sparare: mi spinge piuttosto a tornare sul saggio di Vattimo, e riconsiderare la genuinità della mia appartenenza alla condizione postmoderna.

Qualcosa non quadra. In effetti mi era sembrato fin troppo facile trovarmi d’accordo, e dubito sempre, per natura, del troppo facile. Ora ho avuto un po’ di tempo per ruminare quel che ho letto, e decido di scendere più in profondità. Per esempio: è poi così vero che sono contro il pensiero totalizzante? In effetti posso dire che mi nutro di dubbi ( ma forse si era già capito ). Tuttavia alcune certezze le ho. Non riguardano i saperi, ma i doveri. Ho le certezze dei doveri. Sui diritti sono un po’ più lasco. Ad esempio: ho la certezza che se si sottoscrive un patto, una convenzione di qualsiasi genere, occorre essere seri con gli impegni assunti: oppure li si rifiuta in partenza. Non mi piace l’interpretazione all’italiana, che lascia margini per il ripensamento, che giustifica gli aggiustamenti e gli sganciamenti. In sostanza, ritengo che il dubbio sia il lievito del conoscere, ma finisca per essere un tarlo nel sentire. Deve riguardare la disposizione gnoseologica, non l’atteggiamento etico. Tradotto in termini spiccioli, la coscienza di non essere detentori di alcuna verità non ci esime dal tracciare e dal difendere qualche linea essenziale di comportamento.

Questo mi porta anche a ripensare il paradigma della molteplicità. Sono d’accordo sul fatto che ogni cultura abbia una sua dignità e le sue brave radici e ragioni storiche, e che debba essere salvaguardata e capita e rispettata (il che non significa pensare che l’una vale l’altra, e che ciascuno deve tenersi la sua, e buonanotte). Ma ritengo anche che dal momento che le tante culture di questo globo non si fronteggiano più a distanza, ma vengono oggi costantemente a contatto e a confronto, sia più che mai necessaria la stipula di un patto di convivenza. Il problema non è quello di conciliare usi alimentari (mangiare i piselli con la forchetta o col cucchiaio) o modelli di abbigliamento, o altre differenze esteriori, ma quello di far convivere forme e concezioni di vita diverse. Se vado in Inghilterra viaggio sulla sinistra, e non c’è santo che tenga. Stramaledico gli inglesi e la loro spocchia, ma mi adeguo. Così, pur rispettando l’attaccamento di ogni etnia alle proprie tradizioni, il diritto di preservare la propria cultura, le proprie credenze ecc…, ho dei problemi ad accettare che un Sumburu trasferitosi nel mio condominio faccia rullare per tutta la notte il suo tamburo, come giustamente faceva negli altipiani deserti del Kenia per tenere lontane le belve dagli armenti. Al di là dei paradossi, e del fatto che non accetto nemmeno il televisore sparato a tutto volume dal burino nostrano, è lui, nel caso in cui le sue tradizioni confliggano con le mie, a doversi adeguare. Può anche sembrare un atteggiamento supponente e semplicistico, dal momento che per secoli noi occidentali siamo andati a casa d’altri a imporre le nostre regole e i nostri stili di vita, oltre che i nostri interessi: ma non credo che l’ansia di riparare in qualche modo a tutte le soperchierie perpetrate debba farci dimenticare che quel che è accaduto negli ultimi cinque secoli si era già verificato (sia pure in scala minore, ma solo per motivi tecnici) in tutti i tempi e in tutti continenti, da quando gli spazi che separavano i popoli si sono ristretti, e che ogni nuovo vincitore, laddove e per quanto gli è stato possibile, ha imposto le sue leggi. Non è quindi rovesciando le parti che si risolve il problema, e nemmeno abbracciando acriticamente il sogno di una società multiculturale completamente aperta. Sappiamo fin troppo bene dove conduce l’idea del libero mercato. L’unica soluzione che vedo praticabile, almeno in una fase di transizione come l’attuale, è quella della reciprocità: mi adeguo alle regole e agli usi della casa in cui entro, e chiedo che gli altri facciano lo stesso nella mia.

Ciò significa non privilegiare il paradigma della molteplicità? A me pare piuttosto di difenderlo dalle interpretazioni troppo enfatiche, quelle che vogliono conciliare la difesa delle diversità con l’esaltazione del meticciato culturale, e le cui contraddizioni naufragano sulle scogliere della realtà di fatto. È qui che avverto più radicale e, lo confesso, più spiazzante la mia distonia rispetto all’attitudine post-moderna: più che una rinuncia alle idee forti quest’ultima mi sembra una rinuncia tout court ad assumersi la responsabilità di pensare. Io ritengo sia invece il caso di riflettere sulla trasformazione in atto con un po’ più di lucidità, semplicemente risalendo alla valenza originaria del concetto di cultura e partendo dai pochissimi punti fermi che le nostre conoscenze, moderne o post-moderne che siano, ci consentono di individuare.

Noi umani siamo prima di tutto degli animali, sia pure un po’ speciali, e la nostra eccezionalità nasce da una debolezza biologica. Siamo animali non specializzati, biologicamente poco attrezzati, quindi leghiamo la nostra sopravvivenza all’acquisizione di molta “cultura” ambientale. Nasciamo infatti prematuri, prima cioè che il nostro cervello sia pervenuto al completo sviluppo, abbia fissato le strutture comportamentali ereditate attraverso il corredo genetico. Ciò implica che la nostra memoria di base, quella strutturale, rimanga aperta a lungo all’assorbimento di input esterni, ambientali, che agiscono a livello formativo, e non solo informativo. Ci “formiamo” quindi letteralmente, oltre che sulla base del patrimonio cromosomico, anche attraverso l’acquisizione di modelli culturali che sono quelli specifici di un certo spazio e di un certo tempo. Assorbiamo cioè quel kit culturale che ci serve per la risposta ad un ambiente sociale particolare, così come le specializzazioni genetiche (dal colore della pelle al taglio degli occhi, ecc…) sono funzionali all’ambiente naturale. Ora, questo meccanismo ha funzionato fino a ieri in maniera abbastanza semplice (!) ed efficace (lo dimostra il successo umano nella dispersione sulla terra), ma rischia oggi di incepparsi di fronte all’accelerazione esponenziale impressa alle trasformazioni. La “cultura” indispensabile alla sopravvivenza, pur rinnovandosi in un processo costante di aggiornamento rispetto alle ineluttabili mutazioni naturali e storiche, conservava nel passato una sua specificità, sia perché relativa ad un’area limitata, sia perché i cambiamenti erano in genere di piccola entità e diluiti nel tempo. Oggi invece, di fronte a trasformazioni radicali e istantanee, di portata globale, e ad una interazione sempre più ravvicinata con culture diverse, essa risulta costantemente inadeguata, soggetta ad una rapidissima obsolescenza e ad un’uniformazione su standard al tempo stesso depauperanti (perché non consentono più di elaborare risposte specifiche di adattamento) ed eccessivamente complessi. La domanda è questa: il nostro cervello è in grado di assorbire schemi e modelli comportamentali sempre più ipertrofici e, soprattutto, sempre meno agganciati ad un correlativo genetico e ambientale? Ovvero: “stimoli eccessivamente contraddittori, in successione troppo accelerata, in che modo e in che misura possono essere assimilati? Multiculturalità – dobbiamo avere il coraggio di chiedercelo – non significherà in fondo, e prima di tutto per ragioni biologiche (e non etniche, sia chiaro), nessuna cultura?(autocitazione)

E con questo, credo di essermi giocato buona parte delle credenziali di post-moderno. Ma non è finita. Passiamo al rapporto col “nuovo”. Non si tratta, a mio giudizio, soltanto di rifiutarne l’enfatizzazione. Quella che mi sembra caratterizzare la nostra epoca è un’accettazione indiscriminata e passiva della novità, nel bene e nel male, come ci si trovasse sempre di fronte a qualcosa di ineluttabile. Certamente il nuovo è ineluttabile, anzi, la ricerca costante e cosciente dell’innovazione è proprio ciò che caratterizza la condizione umana, che la fa differire da quella degli altri animali e che sostanzia l’evoluzione culturale (anche quella naturale, certamente, altrimenti non ci sarebbe evoluzione: ma in questo caso la novità arriva casualmente, non è cercata). Ma non è detto, proprio perché si tratta del frutto di una azione volontaria e cosciente, nella quale entra in ballo l’opzionalità, che la scelta debba andare sempre e necessariamente in direzione del nuovo. La tendenza post-moderna sembra invece quella ad inglobare, fagocitare tutto, magari a denti alti. Io sono un po’ in ritardo a livello evolutivo, ho una digestione difficile. Mi riesce ad esempio indigesta la celebrazione delle nuove tecnologie multimediali come capisaldi ineliminabili e fondanti, nella nostra era, della democrazia. Ineliminabili, purtroppo, credo lo siano davvero: ma quanto al ruolo di democratizzazione, al potenziale di partecipazione politica e sociale che dovrebbero indurre, nutro qualcosa di più che delle perplessità. Sono fermamente convinto che sortiscano invece l’effetto opposto, quello da un lato di creare una dipendenza sempre più disarmata e acritica nei confronti del potere, e dall’altro di disperdere e zittire in una confusione inverosimile di voci e di segnali e di contatti ogni già debole vagito di dissenso. L’opinione di Vattimo è che occorra impadronirsi delle nuove tecnologie, dei nuovi strumentari informativi e formativi, per impedirne la gestione monopolistica da parte dei poteri forti: e fin qui non posso non essere d’accordo. Ma non lo seguo più quando mostra di credere che il problema stia nell’uso positivo o negativo dei media, e non nella loro intrinseca natura (riproponendo la favoletta della neutralità della scienza e della tecnica), o addirittura che l’evoluzione di questi ultimi sia sfuggita al controllo del totalitarismo pseudo-democratico del capitale, finendo per nutrirgli una serpe in seno. Temo che queste siano solo pie illusioni, nel senso letterale, cioè dettate da una sorta di “pietas” nei confronti dell’umanità e dell’angoscia intrinseca alla sua condizione.

La stessa pietas porta Vattimo a riconsiderare e a rivalutare il ruolo delle religioni, e ad aprire un dialogo con le loro rappresentanze istituzionalizzate. In sostanza, una volta presa ufficialmente coscienza, con Nietzche e con Heidegger, della tragica insignificanza dell’esistenza umana, il pensiero occidentale si è trovato di fronte ad un vuoto di senso che non è in grado di colmare, rispetto al quale non trova risposte che non attengano ad una individualissima e stoica dignità. È chiaro che tali risposte sono riservate a pochi, e che a rigor di logica non si tratta nemmeno di risposte, ma soltanto di rese incondizionate ad una brutale realtà, riscattate talvolta da atteggiamenti lucidamente coraggiosi. Ed è altrettanto evidente che alla stragrande maggioranza dell’umanità non possono essere chiesti questo coraggio e questa lucidità, che nascono solo da una fortunata quanto rara combinazione di attitudine psicologica e di strumenti culturali adeguati. A questo punto, dice Vattimo, ben vengano le religioni: se esiste una coscienza morale diffusa, se valgono dei principi che consentono la convivenza più o meno pacifica degli umani sulla terra, poco importa che gli stessi siano stati indotti attraverso timori o credenze superstiziose e siano tenuti in vita da promesse escatologiche o da minacce di dannazione. Le religioni danno la risposta che gli uomini vogliono sentire, quella che esorcizza la morte, o negandola o caricando in qualche modo di senso la vita: questa risposta li tranquillizza e li dispone ad accettare delle regole, cioè sostanzialmente dei vincoli, delle limitazioni, che stanno alla base della socialità. Non fa una grinza, ed è senz’altro vero che la secolarizzazione, una volta esauriti i palliativi delle grandi ideologie sociali e politiche, sta lasciando emergere i suoi limiti e i suoi rischi; così come è vero che questi ultimi sono aggravati, invece che attenuati, dalla nuova ondata di religiosità “spontanea” che sfugge al controllo delle chiese tradizionali.

Il problema nasce però al momento di trarre da queste constatazioni delle conseguenze. Se parto dal presupposto che la risposta religiosa sia una bugia consolatoria, posso poi intraprendere un dialogo alla pari con chi considero, bene o male, un bugiardo? So che in certi casi gli interlocutori non te li puoi scegliere, e che Vattimo dialoga con i teologi ufficiali perché altrimenti la sua voce non avrebbe alcuna risonanza nell’ecumene religiosa: ma quel che mi chiedo è se questo dialogo sia poi necessario. Anche a voler prescindere dai ruoli di potere, dalle guerre sante, dalle inquisizioni, dal bieco sfruttamento dell’ignoranza superstiziosa, cosa c’è da dirsi, se non che ciascuno deve essere libero di scegliere a chi porre le domande e deve accordare a ciascuna risposta, se non egual credito, una eguale dignità? Il che è l’ultima cosa che ogni confessione religiosa accetta di sentir dire. L’impressione continua ad essere quella di un “integralismo della tolleranza”, che si manifesta in positivo nella difesa programmatica della differenza, della pluralità di voci, del multiculturalismo, ma che a furia di andare “oltre” ogni moderna categorizzazione (destra-sinistra, conservatorismo-progressismo, razionale-irrazionale, ecc..) finisce per patire in negativo l’assenza di riferimenti orientativi.

Ora, io sono molto confuso, e di punti di riferimento ne ho davvero pochi: ma non mi va di spacciare una confusione per una condizione. So di essere confuso proprio perché vorrei avere le idee un po’ più chiare; e questo, a dispetto delle apparenze, non è molto post-moderno. Non lo è nemmeno il fatto che non considero sempre positivo il concetto di tolleranza, o meglio, l’interpretazione corrente che se ne dà. Non mi piace “tollerare”, e meno che mai sono disponibile a farlo con chi non dà prova di reciprocità, così come mal sopporto l’idea di “essere tollerato”. Voglio capire, e pretendo di essere capito. Questo atteggiamento non mi garantisce un grande spazio relazionale nel mondo, ma quello che ho mi basta ed avanza. Non ho bisogno di navigare su Internet e di mettermi in contatto con i Lapponi per scambiare opinioni. Mi manca quasi il tempo per farlo con i vicini di casa, o con chi vive con me, e questo sarebbe davvero più importante. So che un discorso del genere appare semplicistico, che le cose nella vita sono ben più complesse e che non si scansa la complessità fingendo di ignorarla: ma non credo nemmeno che la soluzione sia quella di abituare il nostro stomaco a ingollare di tutto in nome del pluralismo alimentare, o la nostra mente a nutrirsi delle “visioni del mondo” moltiplicate (?) dai media di cui Vattimo è ghiotto.

Cosa rimane allora della mia post-modernità? Ben poco, direi. L’ho impallinata io stesso, e confesso di essermi divertito a farlo. Tra l’altro, mentre scrivevo questo sproloquio avevo di fronte il busto di Leopardi e la foto di Hardin, ed ho avuto per un attimo l’impressione che entrambi mi sorridessero.

 

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