Pubblicare?

di Paolo Repetto, 29 ottobre 2025

Un anatema ebraico, pochissimo conosciuto, recita: “Possa il mio nemico pubblicare un libro”. Non è un augurio, anche se lo sembra, né una professione di tolleranza: è una maledizione. Ora, io non so quanto questo detto sia antico o solo vecchio, e ignorando la lingua ebraica non posso che affidarmi alla fedeltà della traduzione nella quale lo conosco: ma so che poter determinare l’epoca in cui è stato coniato sarebbe tutt’altro che indifferente. Nel caso fosse molto antico infatti quel “pubblicare” andrebbe inteso come “scrivere”, piuttosto che diffondere tramite amanuensi in più copie, e per un popolo che è stato definito “il popolo del libro” mi pare un po’ fuori luogo. Anche se è poi vero che il sospetto nei confronti della scrittura era presente pure nella cultura greca (vedi Platone), e che per gli ebrei poteva essere tanto più giustificato, almeno nei confronti della scrittura “profana”, dall’esistenza di un testo sacro dettato da Dio stesso, da considerarsi quindi rispondente a ogni domanda, esauriente ogni dubbio, definitivo (salvo poi darne infinite interpretazioni).

Propendo dunque piuttosto per la seconda ipotesi, che quantomeno rende il concetto più funzionale a ciò di cui intendo parlare. Il problema a mio giudizio non sta infatti nello scrivere, ma proprio nel “pubblicare” (operazione che assume ben altro significato dopo l’introduzione della stampa), ovvero nel divulgare quanto si è scritto. Sono due cose diverse, mi pare ovvio, perché la seconda presuppone la prima – per ora, in attesa degli sviluppi dell’AI – mentre non vale il contrario: e tuttavia quasi sempre nel linguaggio corrente i due verbi vengono usati come sinonimi, mentre tali non sono. La differenza sta innanzi tutto nell’intenzione che muove alla scrittura, e poi nei contenuti e nella destinazione, che comportano scelte particolari nei modi e nei mezzi in cui sarà diffusa.

Voglio dire che, certo, chi scrive lo fa di norma per relazionarsi col presente e per lasciare traccia nel futuro, ma la scrittura può essere utilizzata anche in forma privata, per memorizzare, per chiarirsi le idee e metterle in ordine, per tenere un diario, per accompagnare un gesto o un regalo, oppure per fare arrivare la propria voce ad amici o confidenti, quando magari si diano poche possibilità di frequentazione. Ad esempio: l’uso che ne faccio io in questo momento, sfruttando una tecnologia che mi permette di dialogare facilmente con uno sparuto gruppo di persone che condivide i miei interessi, ovvero le mie domande e i miei dubbi, rappresenta il limite estremo dell’utilizzo “privato”.

Se si va oltre si accede invece ad un’altra dimensione, quella appunto del “pubblicare”, che come il termine suggerisce significa rendere intenzionalmente pubblico il proprio pensiero. E qui entrano in gioco finalità e ambizioni diverse. Io vorrei occuparmi nello specifico del caso di cui l’intenzione è di orientare o influenzare il pensiero altrui, offrendo al maggior numero possibile di sconosciuti delle “risposte”, delle interpretazioni del mondo e della storia che non possono essere controbattute direttamente, come avverrebbe in un colloquio. Nel formato stampa queste risposte assumono un’autorevolezza che è suggerita già visivamente dall’ordine, dalla nitidezza, dall’irreggimentazione delle righe e dei periodi sulla superficie della pagina. Insomma, la parola stampata incute rispetto, e questo consente di esercitare in qualche modo un potere. E anche se i mass media e le nuove tecnologie e modalità comunicative stanno rendendo obsoleta la stampa, credo che per il momento, e almeno per la mia generazione e per quella immediatamente successiva, l’autorevolezza del pensiero sia ancora legata alla divulgazione cartacea.

Naturalmente ci sono anche, e oserei dire soprattutto, altre finalità: quella pura e semplice di ottenere una qualche visibilità, ad esempio, o di trovare un modo per sbarcare il lunario: oppure, un po’ più ambiziosamente, di combinare il tutto e di proporre, alla maniera di Balzac, sia pure attraverso la finzione, un ampio quadro della reale condizione umana. Sarà il tempo poi a decidere della rilevanza e della sopravvivenza di qualsiasi testo, a farne o no “un classico”, o almeno un riferimento che vada oltre il presente.

Ma mi sto perdendo nelle ovvietà. Ciò che intendevo dire è che attualmente tanto la narrativa, più o meno “impegnata”, quanto la saggistica, rientrano allo stesso modo nei circuiti di un “mercato culturale” che ha acquisito una enorme rilevanza sia finanziaria che politica, e rispondono alle sue leggi, in primis a quelle della “spettacolarizzazione” (un mercato culturale in realtà è sempre esistito, ma senz’altro non aveva come caratteristica dominante quella della spettacolarità). Basti pensare ai tour promozionali cui senza alcun ritegno gli autori si sottopongono, compresi gli scienziati e i filosofi, andando a far marchette nei programmi televisivi, intervenendo ai festival o agli altri innumerevoli “eventi” imbanditi per platee di consumatori totalmente passivi e acriticamente fidelizzati, creando quelli che oggi si chiamano podcast, ecc….

Io ritengo esista però anche una terra di nessuno, quella che ospita i libri scritti non per fornire risposte preconfezionate, ma per suscitare domande, alle quali poi il lettore cercherà di rispondere con un percorso tutto suo. Questi sono per me i soli libri meritevoli di essere “pubblicati”, e non è qui il caso di dettagliare i criteri sui quali baso la distinzione. Emergeranno da soli nel prosieguo del discorso.

Vorrei però fosse chiaro che non auspico alcun tipo di censura preventiva o di esclusione o di protezionismo. Quello culturale è l’unico ambito nel quale sposo il libero mercato. D’altro canto ritengo che leggere e scrivere siano, almeno in linea di principio, le attività meno pericolose per sé e nocive per gli altri, e tra le più piacevoli, che un essere umano può svolgere. L’importante per il “consumatore” è avere sempre ben presente che di un “mercato” appunto si tratta, nel quale i banchi e gli scaffali traboccano di prodotti tra i quali può scegliere. Per come la vedo io, però, per poterlo fare è necessario auto-educarsi a un “consumo culturale” consapevole, e farlo per prove ed errori, prendendo le distanze da tutte le azioni “promozionali” di incentivazione alla lettura. Chi deve essere spinto o incentivato, per non dire precettato, a farsi un’idea, non sarà mai capace di scelte proprie.

Esistono dunque i normali prodotti da supermercato, quelli perennemente in offerta, di per sé abbastanza innocui, perché in fondo nessuno ci obbliga ad acquistarli e a leggerli. Ce ne sono invece altri che sempre all’interno di questo mercato si arrogano un ruolo di orientamento del gusto, si propongono come “bio”, garanti della nostra salute spirituale, e ci gratificano vellicando la nostra ambizione a sentirci al passo coi tempi, o anche un pochino avanti: questi, a dispetto della loro più o meno esplicita ambizione a diffondere sempre nuove e definitive “verità”, andrebbero comunque almeno conosciuti, se non altro per prenderne consapevolmente le distanze. E infine ne esistono altri ancora, che negli scaffali vengono confusi con tutto il resto, ma che bisogna imparare a riconoscere come genuini alimenti per la nostra crescita.

In questa ultima tipologia rientrano senz’altro le opere di George Steiner. Steiner è, assieme a Isaiah Berlin, l’ultimo dei veri “maestri” del ‘900. Uno che scrive: “Quello che mi sentirei di sostenere con fervore è questo: la fede (qualsiasi fede, n,d,r), o l’assenza di essa è, o dovrebbe essere, la parte costitutiva più privata, più gelosamente custodita di un essere umano […]. Pubblicizzare svilisce e falsifica irrimediabilmente il proprio credo”.

Proprio da un suo libro, significativamente titolato I libri che non ho scritto (come gli invidio questo titolo, lo avevo in mente da decenni!), arrivano l’anatema di cui sopra e lo stimolo che mi spinge ora a parlarne.

Nel compendio di uno dei saggi mai scritti, ma fatti assaporare al lettore almeno in forma di spuntino, Steiner sintetizza l’opera e il pensiero di Joseph Needham, eccentrico erudito novecentesco, grande sinologo, che mezzo secolo fa viaggiava ancora sulla cresta dell’onda. Io stesso ho sempre riservato all’unico volume che possiedo del suo Scienza e civiltà in Cina (edizione inglese 1954, italiana Einaudi 1981; primo di tre tomi, s’intitola Linee introduttive e costava un patrimonio) una collocazione di prestigio nella mia biblioteca, sezione storia della scienza. Di Needham però, della sua vita, del suo impegno politico, conoscevo quasi nulla.

Steiner invece lo conobbe personalmente, ebbe diverse occasioni di confronto, e pur riconoscendone la sterminata cultura e tributandogli tutti i dovuti meriti non ne traccia un ritratto positivo. A motivare questo giudizio (che a suo tempo ha indotto Steiner a non redigere una biografia dello scienziato britannico per la quale aveva ricevuto dalla sua università un incarico) sono le posizioni pregiudiziali a partire dalle quali Needham affronta qualsiasi argomento. Il suo approccio è infatti sempre rigidamente vincolato all’ortodossia marxista, una ortodossia peraltro non fedele direttamente a Marx, ma alla lettura che di Marx era stata data, e imposta, dal leninismo. Steiner non mette in discussione le competenze scientifiche di Needham, che era in primo luogo un biologo, né la sua capacità di lavorare su un piano multidisciplinare: ma è il dogmatismo di fondo a respingerlo. Non può fare a meno di mettere in rilievo come tanto le competenze scientifiche quanto quelle umanistiche vengano sempre piegate non ad aprire nuove possibilità interpretative dei fatti, ma ad avvalorare una ipotesi iniziale precostituita. E sottolinea come le incursioni in ambiti specialistici sostanzialmente estranei ai suoi abbiano indotto Needham a prendere per oro colato ogni minimo e discutibilissimo indizio, biologico, antropologico, linguistico, architettonico, che sembrasse portare mattoni alla sua ricostruzione della Storia. Ricostruzione che seguiva le linee di un progetto dettato dal clima ideologico postbellico, dal compiersi della decolonizzazione, dagli entusiasmi del terzomondismo.

In pratica Steiner avverte, dietro il meritevole intento di Needham di portare l’occidente a conoscere e apprezzare l’origine extraeuropea di buona parte dei saperi scientifici e delle tecnologie che ne sono discese, il caparbio proposito di forzare l’entità del debito scientifico occidentale nei confronti di un’area che ai suoi tempi era ancora percepita come sottosviluppata, e sullo sfondo quello di capovolgere (non di equilibrare) le posizioni nel rapporto tra le diverse civiltà. La stessa operazione che trent’anni dopo avrebbe ripetuto Martin Bernal con Atena nera, per provare come la cultura greca classica sia assolutamente debitrice di quella africana e mediorientale (cosa di cui peraltro erano ben consapevoli già Pitagora, Erodoto e Platone).

Insomma, il problema di Needham non sta nell’attribuzione di questi contatti e rapporti e finanche di talune priorità, ma nel darne una interpretazione che nemmeno troppo larvatamente colpevolizza l’occidente: nel voler cioè convintamente affermare che in fondo l’occidente non può vantarsi di aver inventato nulla, e che si è limitato a depredare i patrimoni culturali di altre civiltà (come se il valore intrinseco di una conoscenza fosse nella priorità, e non negli sviluppi e nelle applicazioni che ne discendono). E peggio ancora, nel farlo producendo prove documentarie, linguistiche e archeologiche molto abborracciate e in parecchi casi del tutto irrilevanti, quando addirittura non false.

Ora, tutto ciò, per senza nulla togliere al fascino che i lavori di Needham e di Bernal senz’altro emanano, e al rilievo delle ipotesi interpretative che hanno introdotto, dovrebbe però guidare a una giustificata prudenza nell’accettarne il messaggio di fondo. L’assunzione di un altro punto di vista, o del punto di vista altrui, può scuotere e incrinare una lettura della storia consolidatasi sulla narrazione auto-apologetica dei vincitori, ma non necessariamente ne produce una nuova più veritiera. Semmai dovrebbe indurne una più interlocutoria, più possibilista, e non altrettanto assiomatica.

Questo mi porta a una considerazione solo apparentemente marginale, che concerne la differenza tra gli autori “enciclopedici” del Sette/Ottocento e i “tuttologi” imperanti ai giorni nostri. Enciclopedici, per intenderci, erano gli eruditi eclettici come Diderot, Goethe o Alexander von Humbolt, che ambivano a raccogliere in grandi sintesi lo stato delle conoscenze alla loro epoca. Erano curiosi di tutto, e questo li induceva a non dare nulla per scontato, a considerare i saperi di cui erano depositari come punti di partenza. A dispetto dell’ampiezza e della poliedricità delle loro opere, lo scopo che ad esse attribuivano era di indicare possibili percorsi per la ricerca futura, e anche quando fornivano spiegazioni lo facevano nella consapevolezza di produrre delle congetture. Chi avesse la pazienza di leggere oggi il Cosmos di Humboldt, che nel titolo sembra adombrare un’ambizione sterminata, si accorgerebbe che ogni affermazione viene sempre presentata come provvisoria, e che la frase più ricorrente è “Chissà cosa ci riserverà nel futuro la ricerca in questo campo”. E lo stesso scienziato-esploratore non si limitava ad auspicare, ma incoraggiava i giovani naturalisti a ripercorrere i suoi passi, per verificare e al limite contraddire le sue scoperte e le sue intuizioni, e a tale scopo donava loro anche le sue strumentazioni. Ma non è tutto: si accollò personalmente la pubblicazione dell’opera, e dati i costi enormi finì praticamente sul lastrico.

Tra gli enciclopedici e i tuttologi si collocano proprio Needham e Bernal, che esplorano ambiti nuovi, che producono nuove conoscenze relative ai rapporti e agli interscambi tra le civiltà extraeuropee e la nostra, ma non si limitano ad avanzare delle ipotesi, affermano delle tesi. Sono ancora enciclopedici nel senso che sostanziano le loro opere con l’apporto di saperi diversi, anche se padroneggiati con eccessiva disinvoltura, e spesso con molta approssimazione. Sono già tuttologi perché presumono di dare un significato diverso alla storia, affermandone categoricamente non possibilità interpretative inedite ma linee di sviluppo certe e inconfutabili. Non sono tali però a pieno titolo, almeno nel senso che do io al termine, perché ancora non si avvalgono delle più recenti tecnologie e modalità che portano dalla “pubblicazione” alla “pubblicizzazione” di massa. E alla spettacolarizzazione.

Con ciò vengo finalmente al dunque, prendendo tre nomi a caso (in realtà non proprio a caso) tra i più conosciuti oggi dal grande pubblico italiano: Pier Giorgio Odifreddi, Luciano Canfora e Alessandro Barbero. Già il fatto che possa citarli come largamente conosciuti, come “popolari”, la dice lunga: segna la differenza rispetto agli enciclopedici genuini alla Humboldt, conosciuti soltanto da chi li leggeva (ma questo valeva ancora per Needham e Bernal).

Nessuno può negare le competenze matematiche di Odifreddi, meno che mai chi come me nelle scienze matematiche è un asino; ma quando mi ritrovo in mano testi suoi che sconfinano nell’etica o nella politica mi si rizzano i capelli, perché sono trattazioni che non si propongono all’insegna dell’“io la vedo così”, ma a quella del “è così, e ve lo dimostro”. Odifreddi ha nel mirino soprattutto il cristianesimo, e prima ancora l’intera tradizione biblica, che a suo parere ha impresso alla civiltà occidentale, in tutte le sue componenti, il marchio di una distruttiva pulsione al dominio e alla negazione di ogni alterità: ma spinge costantemente la sua critica sino al limite dell’invettiva, e spesso anche oltre, facendo un solo fascio di tradizioni, istituzioni politiche e giuridiche, indirizzi economici, ecc … Col risultato di scorgervi dietro, a tirare le fila, sempre la lunga mano e il modus operandi del capitalismo, nelle sue svariate versioni pre-moderne e poi coloniali, imperialistiche, liberistiche, liberalistiche e pseudo-democratiche. Quello che denuncia, senza arretrare neppure di fronte ad evidenti anacronistiche forzature, è in fondo un progetto di dominio pluto-giudaico che ha informato tutta la storia occidentale, e che sembra ormai ossessionare più le varie sinistre sedicenti rivoluzionarie che le vecchie destre reazionarie.

Discorso appena leggermente diverso si può fare per Canfora e per Barbero, che quanto meno rimangono nell’ambito della loro disciplina: ma la specializzazione disciplinare si è spinta oggi talmente oltre che è difficile concepire una competenza storica estesa dai Neanderthal alla guerra fredda o ai conflitti attualmente in corso.

L’impressione che ho ricavato dalle sempre più frequenti apparizioni di costoro nei salotti televisivi o come conduttori di programmi disegnati a loro immagine, impressione che si riverbera retrospettivamente su tutta la loro opera, è che la storia venga trattata non come terreno di costante esplorazione, ma come pezza d’appoggio per avvallare dogmatiche certezze. Che riguardano, come per Needham e per Bernal, e per Odifreddi, la nefandezza della cultura e della civiltà occidentale e la denuncia di come è andata sviluppandosi. È evidente che qui non siamo a livello dei vari Galimberti o dei nipotini post-moderni di Foucault e di Vattimo: l’operazione che i nostri conducono è assai più sottile e sofisticata, ma il punto d’arrivo è lo stesso.

Si vedano ad esempio il saggio di Barbero sull’impero ottomano e le conferenze che ne ha tratto. È uno stillicidio di confronti che oppongono la tolleranza, la giustizia, l’uguaglianza, la meritocrazia praticate dalla cultura ottomana all’intolleranza, alle diseguaglianze, alla farraginosità giuridica e ai privilegi correnti nella coeva cultura occidentale. Ora, sarà anche vero che ebrei e cristiani erano molto più tollerati nelle terre del Sultano di quanto lo fossero nell’Europa rinascimentale, e che a Costantinopoli non esisteva una aristocrazia del privilegio ereditario, e che le classe dirigente era reclutata senza badare al censo; ma tanto per cominciare il tutto era arbitrariamente gestito da un despota assoluto, che in alcuni casi poteva essere illuminato e in molti altri no, e il cui potere non conosceva limiti o contrappesi, né religiosi, né politici, né giuridici. C’è poi il fatto che le relazioni dei viaggiatori che per cinque secoli hanno attraversato quelle terre (non moltissimi, perché viaggiare lì era estremamente difficile e pericoloso) concordano tutte nella descrizione di un clima di povertà, di sopruso e di violenza, narrano di massacri continui e spoliazioni, nei confronti ad esempio dei Curdi, degli Yazidi, dei Mandei, dei Copti, o delle popolazioni balcaniche o di quelle elleniche. Checché ne dicessero gli ambasciatori veneziani, che vivevano peraltro nel perimetro della corte, ai quali Barbero attinge tutte le testimonianze, la tolleranza era molto più proclamata che praticata. Vigeva invece senz’altro l’uguaglianza, ma nel senso che la violenza arbitraria davvero non faceva sconti a nessuno.

Per capirci meglio. Richiesto nel corso di una intervista che circola sul web di spiegare cosa significa essere di sinistra, Barbero ha risposto che per lui significa vedere una bandiera rossa o una falce e martello e non averne paura, anzi, provare piacere. “Io se vedo un corteo in piazza con le bandiere rosse che protesta mi piace, e quando vedo che la polizia li picchia non mi piace, mentre a tanti borghesi la cosa fa paura o da fastidio, e pensano che la polizia faccia bene a picchiarli. Basta questo, di base, per essere di sinistra”. Il che, pur essendo una semplificazione provocatoriamente voluta, spiega comunque tante cose. Spero almeno non gli dia gioia anche veder bruciare i cassonetti, simbolo del consumismo borghese, o le bandiere, con l’eccezione naturalmente di quella rossa (o di quelle che vanno al momento per la maggiore): oppure le occupazioni delle università e dei licei, dove si fa resistenza antifascista impedendo a chi non è schierato “dalla parte giusta” di prendere la parola. Stiamo parlando di docenti universitari. Se questo è per loro lo stare a sinistra, stiamo freschi. E soprattutto, io dove sono stato fino ad oggi?

Lo stesso vale per il modo in cui Canfora parla della democrazia occidentale, sottintendendo che le sue storture erano già presenti sin dall’origine e si sono semmai amplificate nella versione moderna, contrariamente a quanto la storia ufficiale vorrebbe raccontarci. Tanto da fargli preferire un sistema come quello spartano, non a caso vagamente “comunista” e livellatore (salvo reggersi, né più né meno come quella da lui definita la pseudo-democrazia ateniese, sulla schiavitù), e da indurlo a mostrare un’evidente simpatia per l’odierno modello putiniano, nonché naturalmente un sincero rimpianto per quello staliniano: “Uno statista può essere valutato per quello che ha fatto per il suo Paese. L’opera di Stalin è stata positiva, anche se aspra, per la Russia al contrario di quella di Gorbaciov”.

Siamo insomma di fronte ad un “odio di sé occidentale” che non trova corrispettivo in altre culture. Tutte le altre civiltà hanno mantenuto bene o male nel corso del tempo un’alta considerazione di sé (gran parte dei popoli si attribuiscono in esclusiva lo status di “uomini”, già a partire dai termini con cui si autodenominano, o considerano la loro terra come il centro del mondo): e attribuiscono le cause della loro decadenza, dei loro ritardi (ammesso che li considerino tali), del loro eventuale asservimento, alla protervia dei competitori, a sfortunate congiunture climatiche o al volere di divinità irritate. La negatività occidentale affonda invece le sue radici in un’attitudine autocritica nata già agli albori della modernità (ma volendo se ne potrebbero trovare tracce anche prima: basti pensare a Erodoto, o alla Germania di Tacito): solo che nel XVI secolo con Montaigne questa attitudine si esprimeva in un equilibrato ripensamento delle modalità di confronto con “gli altri”, e successivamente con Montesquieu nella critica delle istituzioni domestiche, tutte cose che rimanevano nell’ambito di ciò che va perfezionato, rivisto, recuperato. È in fondo questo che ha fatto la differenza, permettendo all’Occidente di spezzare i vincoli della tradizione immobilista, di innovare o cancellare istituzioni sclerotizzate, di sperimentare modelli produttivi e rapporti sociali di convivenza del tutto inediti. Con quali risultati non sta a me qui discutere (in realtà su questo sito se ne è già discusso ampiamente): le scorie dell’idea di “progresso” che sino a ieri l’Occidente ha abbracciato sono tante e tali da non consentirmi di esprimere giudizi e proporre scale dei valori. Oltretutto, se mi guardo un po’ attorno e vedo solo opposti fanatismi e l’idiozia al potere quasi ovunque, qualche dubbio sulle nostre scelte non può non sorgermi. Di certo so però che in pochissime altre culture una discussione come questa sarebbe consentita, e vorrei tenermi stretta questa possibilità.

Già in epoca romantica, però, nel mito esotico del buon selvaggio, il saldo del confronto con altri possibili modelli di civiltà diventava negativo, e nel secolo scorso questo confronto si è tradotto in un vero e proprio rifiuto della civiltà e della cultura occidentali, a partire dai suoi presupposti. Un rifiuto tutto “di sinistra”, perché non fa appello alla tradizione, non chiede un ritorno nostalgico ad altri tempi, ma fa tabula rasa del sistema valoriale sul quale l’occidente si è fondato sin dai primordi della storia. Col risultato di approdare a quello che Nietzsche chiamava nichilismo.

Tanto Odifreddi quanto Canfora e Barbero, che a questo rifiuto si associano, non possono però essere propriamente definiti dei nichilisti: portano avanti convintamente le loro teorie sulla deriva occidentale, che fanno risalire di volta in volta a Euclide, a Pericle o a una non meglio definita “borghesia”. Di certo non vanno annoverati tra gli orfani dell’occidente, e non sono tra quelli che ne vaticinano o ne piangono il tramonto: semmai anzi lo auspicano. Ne vogliono disvelare il “marcio”, e pensano che il frutto sia da buttare e che l’albero non sia da potare, ma da capitozzare radicalmente.

Sta di fatto che interpretano il loro radicalismo anti-occidentale come una missione, e questo li spinge ad essere costantemente presenti, sui teleschermi, sui monitor o in libreria. Ho contato in una bibliografia di Canfora, aggiornata al 2024, centotredici volumi pubblicati, una volta e mezza quelli di Simenon su Maigret. In quella di Odifreddi siamo a soli trentasette, su temi che spaziano da Le menzogne di Ulisse a Caro papa ti scrivo, sino a La democrazia non esiste, ma accanto a un profluvio di audiovisivi e di interviste, più di quattrocento partecipazioni a programmi radio e trecento a trasmissioni televisive. Barbero si attesta per ora a quarantotto volumi (ma è giovane e può dare ancora molto), che a questo punto si può dire abbiano un ruolo secondario rispetto all’intensissima attività da star mediatica. Vorranno dire qualcosa questa grafomania e questo delirio di onnipresenza? Questa fame insaziabile di pubblicazioni e di comparsate? Che ci sia dietro la maledizione talmudica?

Cosa c’è dietro non lo so. Sospetto che ad un certo punto le lusinghe del mercato e della popolarità spettacolare mandino in tilt anche menti di indubbio livello, accendendo ambizioni egoistiche che scadono nella piaggeria (si può essere ruffiani in due modi: salendo sulla carrozza dei potenti o assecondando le rabbie più fumose degli “insorgenti”. Non mi risulta che alcuna lezione universitaria o conferenza dei tre sia mai stata contestata o impedita) Ma credo soprattutto che questo “odio di sé” (rivolto però a un “sé” rappresentato da tutti gli altri condomini che abitano la casa occidentale) nasca da una duplice presunzione: quella di aver individuato cosa c’è di marcio in Occidente (a seconda dei casi: un pensiero tutto fondato sulla “ragione calcolante”, una finzione democratica messa in piedi dalle classi dominanti, una narrazione della storia asservita agli interessi imperialistici): e quella di averlo fatto chiamandosi fuori dalla parte guasta del frutto.

Continuo a chiedermi comunque cosa può indurre persone tanto intelligenti a costringersi in una visione e in un uso del loro sapere così preconcetti. Ammettiamo che possano agire la temperie culturale del momento, le esperienze politiche, le ambizioni di cui sopra, tutto ciò che si vuole: ma il conoscere non dovrebbe indurre semmai a staccarsi progressivamente da ogni certezza, a ingolosirsi di ciò che di nuovo può arrivare, a non chiudersi a riccio dietro le interpretazioni dogmatiche. Come si conciliano le due cose?

Azzardo la spiegazione che mi pare più plausibile. Credo che tutto questo nasca dalla paura. Intendo la paura del vuoto che ci si spalanca davanti se appena apriamo gli occhi e usciamo dal recinto di significati che ci siamo costruiti attorno. La paura di affrontare l’assurdità della condizione umana come raccontata ad esempio da Camus, e prima ancora da Leopardi, e su su fino a Lucrezio, di guardarla negli occhi. Non sono molti quelli che reagiscono a questa consapevolezza rassegnandosi non passivamente all’assenza di uno scopo ultimo, e creandosene uno più modestamente temporaneo attraverso l’autodeterminazione etica. Nei più la paura del vuoto e dell’insignificanza induce l’urgenza di “esserci”, o almeno di apparire, e la necessità di aggrapparsi ad una bandiera (possibilmente a quelle prêt-à-porter, e non a quelle che vengono bruciate). Se poi la bandiera la si sventola o la si “indossa” in testa al gruppo, è più facile finire sui teleschermi e reclutare seguaci.

Infatti. Le arringhe dei guru dell’anti-occidentalismo sono subdolamente conformiste e confortanti, perché scodellano ad un pubblico pigro, smarrito e rancoroso verità “certe”, tra l’altro spacciandole come coraggiose “rivelazioni” che smontano le false pseudo-verità precedenti; in realtà non fanno altro che intrupparsi nella corrente revisionistica alla moda. Sembrano chiudere un lungo discorso di ricerca e di smascheramento, ma la loro ricerca era mirata solo a convalidare una visione ideologica pre-costituita.

Alla fine, ad essere verificato mi pare solo l’anatema col quale ho esordito. Continuando a “pubblicare” libri su libri, a ritmi industriali, e a “pubblicizzarli” spudoratamente abbassandosi a tutte le più perverse dinamiche del mercato, gli impavidi dissacratori della menzognera narrazione occidentale finiscono per rivelarsi i peggiori nemici di sé stessi.

P.S.

1. Needham e Bernal non costituiscono casi eccezionali di acquiescenza al dogmatismo marxista. Nella cultura anglosassone, e segnatamente in Inghilterra, furono molti, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, gli intellettuali che fecero propria questa posizione. Si va dagli scienziati, come J. B. S. Haldane, agli storici, come Christopher Hill o Eric Hobsbawm. Ma all’epoca incombeva sull’Europa la minaccia nazi-fascista, e non tutti avevano la tempra di un George Orwell. Per combattere avevano bisogno di indossare una metaforica divisa.

2. É proprio vero che le immagini a volte sono molto più eloquenti di qualsiasi trattazione scritta. Godetevi le icone dei tre moschettieri dell’anti-occidentalismo. Il quarto non è nemmeno uno scudiero, forse un valletto, ma non può essere considerato solo un intruso. In effetti è la testimonianza vivente che qualcosa nella cultura occidentale è andato storto.

3. Qualcuno tra i miei quattro corrispondenti penserà che queste elucubrazioni siano fini a stesse, frutto di una senile involuzione, e che in definitiva non portino a nulla. Su quest’ultima eventualità sono perfettamente d’accordo, ma credo che ogni tanto vadano comunque fatte le pulizie di primavera. Il cervello sarà di lì a poco nuovamente ingombro e disordinato, ma per qualche tempo almeno le idee potranno circolare un po’ più liberamente. In caso contrario, ci ritroveremo di qui a poco ad ammantarci noi stessi di bandiere, o a bruciarle, a recitare slogan, a rovesciare cassonetti. Ad essere cioè incapaci di relazionarci agli altri e alla storia in maniera civile e consapevole. In parole povere, a odiarci.

Naufragi con telespettatori

di Paolo Repetto, 5 novembre 2022

Suave, mari magno turbantibus Aequora Ventis
e terra magnum alterius spectare Laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse Malis Careas quia cernere suavest.

(È dolce, mentre nel grande mare i venti sconvolgono le acque,
guardare dalla terra la grande fatica di un altro;
non perché il tormento di qualcuno sia un giocondo piacere,
ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia immune.)

La metafora con la quale Lucrezio apre il secondo libro del De rerum natura ha conosciuto una grande fortuna, ed è arrivata a noi con un lungo viaggio attraverso la letteratura (ricordo solo Ariosto e Benjamin, ma quanto a naufragi – i propri – anche Leopardi non scherza), l’arte (ad esempio, “Il Naufragio” di Turner, “Tempesta a Belle-Ile” di Monet, “La grande Onda” di Hokusai), la musica (“La tempesta di mare” di Vivaldi, il primo atto dell’Otello di Verdi, ecc.). In realtà non era tutta farina del sacco di Lucrezio: il suo contemporaneo – e curatore editoriale – Cicerone accenna ad una immagine simile che compariva in una tragedia perduta di Sofocle, anche se il senso non era esattamente lo stesso. Il frammento di Sofocle infatti dice: “Oh quale maggiore piacere può esservi che, toccata la terraferma e sotto un tetto, udire con i sensi assopiti cadere fitta la pioggia”. Lo stesso vale per un paio di versi superstiti del semisconosciuto Archippo: “Com’è dolce guardare il mare dalla terra, non dovendo navigare”. La versione circolante in Grecia già cinque secoli prima è dunque in apparenza meno insensibile alle sofferenze altrui di quella di Lucrezio (in apparenza, perché il poeta latino non voleva affatto esprimere un atteggiamento di egoistica indifferenza): là il naufragio non era neppure nominato, forse per scaramanzia, e comunque a incombere, a costituire una malaugurata possibilità era quello proprio, non l’altrui. Cicerone, che non a caso era un avvocato, portato alle interpretazioni più maliziose, scrive invece (ad Attico) “Desidero contemplare da terra il naufragio di costoro, come disse il tuo amico Sofocle”, chiamando Sofocle a testimoniare e ad avallare con la sua autorevolezza un pensiero che era in realtà molto più prossimo al detto confuciano “Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”.

A me interessa però, al di là delle interpretazioni, l’attualità di quella immagine, che oggi non è più soltanto metaforica. Siamo infatti quotidianamente spettatori, stando al riparo di un tetto e seduti su un comodo divano, di naufragi reali o di altri accidenti che ai naufragi sono apparentabili, sia la natura o siano gli uomini a provocarli: ma lo facciamo con atteggiamento sofocleo, questo si, coi sensi assopiti, intorpiditi dal profluvio di altrui disgrazie che ci viene riversato addosso. E siamo ormai talmente assuefatti da non accorgerci che in mezzo al mare in tempesta ci siamo anche noi, sballottati qua e là dalla potenza della tecnica e più ancora da quella del capitale, e contemporaneamente incapaci di distogliere lo sguardo dal teleschermo, di guardarci attorno senza farci irretire da ogni sorta di illusionisti. Come gli spettatori pirandelliani siamo direttamente coinvolti nella vicenda, ma non abbiamo la minima idea della parte che stiamo recitando.

Naufragi con telespettatori 02

A giocare con le metafore ci si prende gusto: e allora vado fino in fondo. Ce n’è appunto una sulla vita come teatro che a mio giudizio rende a pennello la nostra situazione, ed è riportata da Kierkegaard in Enter-Eller: “In un teatro scoppiò un incendio dietro le quinte. Un clown uscì sul palcoscenico e avvisò il pubblico. Gli spettatori pensarono che si trattasse di uno scherzo e applaudirono. Il clown ripeté l’annuncio, con sempre maggior divertimento dei presenti. È così, immagino, che il mondo finirà distrutto: tra l’ilarità generale dei buontemponi, convinti che sia tutto un gioco”.

È un’immagine perfetta: il mondo che va a fuoco, l’umanità spettatrice che pensa sia una barzelletta, il giornalista-clown che ha talmente abituato gli spettatori al falso o all’inutile da non essere più preso sul serio. (Kierkegaard ce l’aveva a morte coi giornalisti. Scriveva anche: “Se Cristo venisse oggi sulla terra, com’è vero che io vivo, non prenderebbe di mira i sommi sacerdoti, ecc. – ma i giornalisti …”. Aveva capito tutto).

Ma torniamo alla metafora di Lucrezio. In effetti il suo atteggiamento un po’ egoistico lo è: come dice lui stesso, le disgrazie altrui non sono affatto piacevoli, ma ti danno un’idea di quel che ti stai scansando. E questo probabilmente, ai suoi tempi, un po’ di consolazione l’arrecava. Oggi però è molto più difficile pensarci immuni da qualsivoglia pericolo: lo abbiamo già constatato sulla nostra pelle con la recente pandemia, ne abbiamo la riprova oggi con la guerra che è tornata a giocarsi alle porte di casa nostra, cominciamo persino ad accorgerci che i problemi ambientali e i cambiamenti climatici ci toccano tutti indifferentemente. E tuttavia, anche di fronte a quelli che non sono più solo segnali, ma realtà che incidono profondamente sulla nostra esistenza, sembra che la consapevolezza del nostro coinvolgimento sia ancora ben lontana. Ci pensiamo ancora spettatori sulla riva e tiriamo un sospiro di sollievo, come se il carico di disgrazie elargite dagli dei agli uomini rispettasse delle quote fisse, e a noi fosse risparmiato ciò che cade sugli altri.

Naufragi con telespettatori 03

Nel bellissimo libro Davanti al dolore degli altri Susan Sontag cita un piccolo saggio in forma di lettera pubblicato nel 1938 da Virginia Wolf, Le tre ghinee. In questo saggio la Woolf faceva riferimento alle immagini che testimoniavano la distruzione fisica e la carneficina disumana provocate dalla guerra civile spagnola, immagini che le venivano recapitate dal fronte repubblicano quasi quotidianamente. Secondo la Woolf “la macchina bellica ha un genere sessuale”, e quel genere è maschile: la guerra è uno sport praticato dai maschi, per cui la scrittrice confessava di sentirsi quasi impotente. Ma evocando la condivisione delle stesse terribili immagini – “stiamo guardando insieme gli stessi corpi privi di vita, le stesse case in macerie” – riteneva che queste fossero talmente scioccanti da affratellare le persone di buona volontà, da far loro superare ogni divario di genere relativo alla guerra e alla violenza. Credeva insomma che venire a contatto col dolore, sia pure attraverso la sua rappresentazione, non potesse lasciare indifferente nessuno.

La Sontag, che ha scritto il suo libro nel 2003, sessantacinque anni dopo quello della Woolf – sessantacinque anni che hanno visto una guerra mondiale e un continuum interrotto di conflitti locali, guerre civili, azioni terroristiche, a bassa intensità ma ad altissimo numero di vittime – va oltre la diversa percezione di quelle immagini secondo l’angolatura di genere. Il problema sta per lei ancora a monte. Intanto, si chiede, cosa ci motiva veramente a ritrarre la sofferenza e l’orrore? E quali sentimenti suscita nello spettatore la loro “riproduzione”? E quest’ultima è poi davvero possibile, senza che nel trasferimento all’immagine vada persa la verità terribile di quanto è rappresentato? E ancora, come evitare che si crei l’assuefazione, o peggio, un morboso compiacimento davanti a queste rappresentazioni? Il fatto è, dice Sontag, che da una immagine di guerra siamo toccati, ma non ci sentiamo mai direttamente coinvolti: non ci sentiamo investiti di una responsabilità diretta. E al di là del livello di coinvolgimento, l’interpretazione delle immagini diventa una questione soggettiva, e stante la molteplicità degli usi cui esse possono essere piegate diventa anche un atto politico. Tanto più nell’epoca dei social network, nella quale la loro diffusione è sterminata e incontrollata.

Con tutto ciò, scrive la Sontag, le raffigurazioni “indecenti” della sofferenza e della morte violenta hanno un valore pari a quello dell’esperienza diretta. Sono testimonianze che non potremmo acquisire in alcun altro modo, e quindi, a dispetto anche degli effetti di saturazione che il loro moltiplicarsi produce, conservano un forte valore etico.

Naufragi con telespettatori 04

Mi verrebbe spontaneo non essere d’accordo, perché sto pensando all’uso spregiudicato, per non dire turpe, che viene fatto nelle pubblicità televisive delle immagini di bambini denutriti, svantaggiati, malati: ma poi devo ammettere che persino quelle, malgrado il loro intento di creare sensi di colpa da tacitare con le donazioni sia così spudoratamente scoperto, e a dispetto del fastidio col quale le respingiamo, un qualche effetto lo producono: la sofferenza di un altro, la pioggia fitta che cade là fuori, alla fine nel profondo ci toccano.

Perché però allora rimaniamo seduti sul divano, ipnotizzati dal teleschermo, sforzandoci di credere che la distanza di quelle immagini ci garantisca per il momento un po’ di sicurezza (solo qualche anno ancora, per gli anziani come me), o fingendo di accettare fatalisticamente la perdita di ogni disegno per il futuro?

Lo lascio spiegare con un’altra metafora da Hans Blumernberg, l’autore di Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza (dal quale ho evidentemente saccheggiato il titolo di questo intervento e gran parte delle citazioni iniziali). È una prosecuzione e un adattamento all’oggi di quella da cui sono partito.

Quello di Lucrezio è per Blumernberg uno dei due possibili atteggiamenti di fronte al gioco ciclico, incessante e imperscrutabile, della creazione e della distruzione della natura. È l’atteggiamento epicureo di chi dall’alto della sua superiore conoscenza può guardare con distacco agli affanni e i turbamenti altrui, e non esserne travolto.

Il fatto è che ormai ci troviamo a vivere in un’epoca nella quale le rotte salvifiche delle ideologie e delle religioni e i porti sicuri delle filosofie cui approdare sono scomparsi dalle mappe. Oggi annaspiamo costantemente in un mare in tempesta, la nave non regge e dal naufragio possiamo salvarci solo aggrappandoci a una tavola. Per Blumenberg dobbiamo quindi “farci una nave con i resti del naufragio” (è anche il titolo di un capitolo del libro): il tavolame che abbiamo a disposizione è costituito solo dalla scienza: “Si deve costantemente tener conto che si è alla deriva; da lungo tempo non è più questione di navigazione e di rotta, dello sbarco e del porto. Il naufragio ha perduto la sua azione-quadro. Ciò che deve essere detto è: la scienza non fornisce quello che i desideri e le pretese avevano tradotto in aspettative ad essa rivolte; ma quella che essa fornisce, non può essere essenzialmente superato e basta alle esigenze della conservazione della vita. […] Con la teoria della selezione naturale Darwin avrebbe offerto la possibilità, perlomeno di aggirare l’ipotesi di un finalismo immanente della creazione organica. […] La tavola è il massimo che si può pretendere dalla situazione di autoiniziativa immanente dell’uomo tramite la scienza”. (Naufragio con spettatore, pp. 105-06)

A pensarci bene, prescindendo naturalmente da Darwin, non è poi molto diverso da quanto diceva Lucrezio. Per il quale, tra l’altro, già dalla nascita l’uomo si ritrova nella condizione del naufrago: “il bambino, come un naufrago gettato a riva dalle onde infuriate, giace in terra nudo” (De Rerum Natura, V vv. 222 ss) e tutte le forme della natura possono essere paragonate a rottami scagliati sulla riva (“ma – come, quando sono avvenuti molti e grandi naufragi,/ il vasto mare suole gettare qua e là banchi, costole di nave,/antenne, prore, alberi e remi galleggianti,/sì che lungo tutte le spiagge si vedono fluttuare/aplustri e dare ai mortali ammonimento/a volere evitare le insidie del mare infido/ e le violenze e il suo inganno, e a non credergli mai”, De Rerum Natura, II vv. 550 ss)

D’altro canto, a mio parere nemmeno Lucrezio conserva sino in fondo l’imperturbabilità del saggio epicureo: il fatto stesso di scrivere un libro a carattere scientifico-divulgativo implica che sia impegnato a fare luce sul destino dell’uomo, e a farne partecipi gli altri. Insomma, non si trasforma da spettatore in protagonista, ma dimostra che anche chi contempla la realtà non può esimersi dal viverla in prima persona. “La ragione può fare dell’uomo lo spettatore di ciò che egli stesso patisce, facendo sì che domini da ogni parte con lo sguardo la vita nel suo complesso” scriveva Schopenhauer. E Lucrezio in effetti può essere considerato a pieno titolo un poeta della ragione, perché ritiene che attraverso la ragione l’uomo sia in grado di lottare contro il caso e di farsi artefice del suo destino. A dispetto di tutto il suo distacco, “sente” di non essere al sicuro, ma di viaggiare sulla stessa barca con gli altri. E allora, proprio perché “Si salva, probabilmente, non chi contempla la rovina altrui, ma chi soffre e spera insieme agli altri, chi considera fattivamente gli uomini non come individui lontani e indifferenti, bensì come prossimi e fratelli” il suo atteggiamento sfuma nella seconda possibilità, quella di mettersi per mare e di prendere parte emotivamente ed empaticamente alla navigazione.

Mi chiedo solo adesso perché mai mi sono messo a scrivere queste cose. Non era un argomento che urgesse. Ma a volte mi prendono delle strane malinconie. In questo caso è un cerchio che si chiude. In una noterella buttata giù almeno quarant’anni fa, concernente la “genialità”, affermavo che la caratteristica che distingue il genio è la capacità di dire: “Ma cosa volete da me?” É una caratteristica che non ho mai posseduta, e infatti non sono un genio. In tutto questo tempo non ho cambiato idea, e ho anche consolidato la convinzione che la qualità cui davvero ho sempre aspirato, l’ironia, non ha niente a che fare con il genio. Nessuno è meno ironico (e soprattutto, autoironico) di un genio, così come io sono ben lontano dall’atarassia epicurea. Eppure, continuo a pensare che persino Lucrezio, che indubbiamente un genio lo era, non fosse poi così distaccato ed egoista. Ci ha lasciato in dono un’opera che è un capolavoro, ma soprattutto è la tavola giusta cui aggrapparsi: e questo è più che sufficiente a farmelo sentire vicino.

Torna indietro

Il messaggio è stato inviato

Attenzione
Attenzione
Attenzione
Attenzione

Attenzione!