Esuli, infiltrati e vita di bohème

Stefano Oberti e i fuorusciti parigini

di Paolo Repetto, 23 maggio 2025

La memoria crea talvolta connessioni inattese e singolari. Anzi, per la precisione non le crea, ma le scopre, perché erano già lì ad aspettarci nella realtà, in quella storica o in quella naturale. Accende solo la luce. Accade che ci occupiamo di una vicenda, di un ambiente, di un personaggio, e poco a poco esce dall’ombra tutto ciò che sta attorno, si allarga il nostro campo visivo, si schiudono nuove curiosità.

A me è capitato proprio recentemente, mentre scrivevo il pezzo su Andrea Caffi. Fantasticavo come al solito su come sarebbe stato conoscerlo, quando all’improvviso ho realizzato che se Caffi non avrei potuto incontrarlo comunque, non fosse altro per ragioni anagrafiche, ho conosciuto però qualcuno che probabilmente l’aveva incrociato, dal momento che entrambi avevano vissuto come fuorusciti a Parigi negli anni Trenta e avevano frequentato più o meno gli stessi circoli antifascisti. Non ho testimonianze certe di una loro frequentazione diretta, ma le probabilità che ci sia stata mi paiono altissime.

Ora, il motivo che mi ha spinto a scrivere queste righe non è il compiacimento per la possibilità di essere collegato a Caffi da una catena molto corta di relazioni: è invece la curiosità destata dagli sviluppi e dagli esiti diversi di due storie che almeno nella condizione iniziale presentano molte somiglianze. A dimostrazione del fatto che l’ambiente agisce sino a un certo punto, ma è poi l’indole a fare la differenza.

È andata così. Nell’autunno-inverno tra il ‘68 e il ‘69 mi fermai a Genova, dove, oltre a seguire (molto saltuariamente) i corsi universitari e vivere gli ultimi fuochi della contestazione studentesca, avevo trovato un’occupazione part time presso un mobiliere (non in ufficio, camallavo frigoriferi e lavatrici). Alloggiavo in una camera in subaffitto in Castelletto, uno dei quartieri più eleganti della città, scovata da un compagno che aveva un’altra camera nello stesso alloggio. Il costo era irrisorio. Scoprimmo più tardi che potevamo permettercela perché il tizio che ci ospitava non pagava a sua volta l’affitto alla proprietaria.

Il tizio era un signore anziano, alto e corpulento, segnato in viso da diverse cicatrici, simpatico ma decisamente fuori dagli schemi. Si chiamava Stefano Oberti (“dottor” Oberti puntualizzava lui), e vantava un passato interessante. Era infatti stato esule in Francia per più di un decennio, dalla fine degli anni Venti, per sfuggire alla persecuzione dei fascisti. Tra le amicizie che raccontava di avere lì contratto spiccavano quelle col nipote di Nitti e con Rosselli (il futuro Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, lo aveva già conosciuto prima), ma in pratica non era possibile citare qualcuno di quel giro col quale non vantasse confidenza. Sospettavamo che buona parte del suo racconto fossero millanterie, ma al tempo stesso eravamo divertiti dalle stravaganze e dall’assurdità del personaggio. Girava per casa quasi sempre inguainato in un capo unico maglia-mutandoni di lana, di quelli che Terence Hill indossa in Trinità, abbottonato davanti e con lo sportelletto sul fondoschiena, che gli dava una silhouette da orso Yogi. Ad un certo punto ho persino cominciato a invidiargli quella tenuta, perché il riscaldamento era sempre spento.

Oberti seguiva e ci segnalava tutti gli eventi culturali e politici della città, compresi quelli cui non era invitato, ma nei quali riusciva ad infiltrarsi invariabilmente tra gli organizzatori o tra gli ospiti d’onore. Una sera ci chiese di accompagnarlo ad una conferenza alla Terrazza Martini, il luogo più elegante di Genova, in cima ad un grattacielo dal quale si vedeva tutta il golfo. Lo stipammo sulla 500 del mio socio, con l’auto che dalla parte in cui era seduto lui raschiava quasi l’asfalto, e dovemmo anche arrischiare l’ascensore per salire i Trenta piani che portavano alla terrazza. Arrivammo naturalmente a conferenza già iniziata, ma non fu un problema, perché guidati dall’addome perentorio di Oberti ci dirigemmo immediatamente al buffet, imbandito su un lato del salone. Ci fu un mormorio di disapprovazione, che distrasse e irritò anche il conferenziere, ma a quanto pare l’argomento proposto non era granché, perché di lì a breve gli astanti cominciarono ad alzarsi, uno o due alla volta, e a raggiungerci ai tavoli. Avevano visto come noi, e soprattutto Oberti, stavamo spazzolando salatini e beveraggi. Credo sia stata la conferenza più breve di tutta la stagione.

Qualche serata la trascorremmo anche a discorrere di politica col nostro locatore, ma non riuscivamo a cavarne molto, perché lui era impallato con la massoneria e con una statua che avrebbe dovuto essere eretta a Mazzini nel cimitero di Staglieno (dove già peraltro le spoglie del patriota erano raccolte in un mausoleo scavato nella roccia). Ci dettagliava anche sulle annose schermaglie di potere che caratterizzano da sempre gli ambienti massonici, e tanto più quelli di provincia, sui voltafaccia e i tradimenti e su quanto fossero infidi i suoi rivali. Ma l’impegno maggiore era rivolto in quel periodo a raccogliere fondi per il monumento, e a lamentarsi della tirchieria dei genovesi, che a quanto pare non si rivelavano particolarmente entusiasti dell’iniziativa. (All’epoca noi non avevamo dubbi che non se ne sarebbe fatto nulla, ma come vedremo ho dovuto poi ricredermi).

Della sua vita di fuoruscito, oltre ad elencare le conoscenze, non raccontò praticamente nulla: sembrava gli fosse rimasta solo una fortissima ammirazione per le donne francesi (confermata nell’autobiografico Esilio a Parigi, dove almeno tre capitoli sono dedicati alle sue presunte conquiste e alla frequentazione di un postribolo d’alto bordo) e aveva maturato una vera passione per Marie Laforet. Una sera dovemmo scarrozzarlo fino al cinema di una delegazione periferica dove proiettavano Delitto in pieno sole: per tutta la durata del film la Laforet recita in bikini, e in qualche scena anche senza. Ne uscì entusiasta.

Una cosa comunque devo riconoscergliela. Quando gli proposi di assistere assieme a me al Cinema Centrale, la sala più “di sinistra” della Genova dell’epoca, alla proiezione di Ottobre di Eisenstein, mi rispose, anticipando di molto Fantozzi, che non solo era una boiata pazzesca, ma travisava anche rozzamente la verità storica. Non ci misi molto ad arrivare alle stesse conclusioni, ma gli avessi dato ascolto mi sarei risparmiato almeno il penoso dibattito che seguì la proiezione.

Alla fine di marzo purtroppo dovetti lasciare la camera, la campagna aveva bisogno di me. Tornai a Genova solo per dare una manciata di esami a giugno, e non rividi mai più Oberti. Il mio coinquilino mi raccontò poi di altre scorribande in cui era stato coinvolto, ma anche lui l’autunno successivo dovette cambiare sistemazione.

L’impressione che entrambi avevamo maturato era quella di un personaggio simpaticissimo, ma decisamente mitomane e inaffidabile. Infatti mi sorprese, ma non mi meravigliò più di tanto, trovare alla fine degli anni Ottanta il suo nome in capo ad una lista elettorale della Lega Nord. Mi confermò l’immagine di un uomo pronto a cavalcare qualsiasi cavallo, pur di stare in sella, e l’idea che il fuoriuscitismo non raccogliesse soltanto idealisti come Gobetti, Caffi, Chiaromonte, Rosselli e Berneri, ma anche diversi opportunisti e qualche sballato, per tacere del gran numero di infiltrati dalla polizia politica del regime.

Per questo, nel raccontare Caffi mi è tornato immediatamente in mente Oberti. E per questo ho voluto indagare un po’ più a fondo il personaggio, ricavandone una storia sorprendente.

Ciò che ho sin qui raccontato attiene alla mia personalissima memoria. È tutto ciò che posso dire dell’uomo Oberti come io l’ho conosciuto quasi sessant’anni fa, o almeno tutto ciò che mi era parso significativo.

Quanto segue appartiene invece alla Storia, non solo alla sua, ma a quella di un particolare fenomeno in un particolare momento. L’ho desunto confrontando diverse fonti, tutte quelle cui mi è stato possibile attingere, e penso che quanto ne viene fuori si avvicini accettabilmente alla verità dei fatti.

Infine, l’ultima parte di questo scritto ospita delle riflessioni di carattere generale, che niente hanno a che vedere con una valutazione o un giudizio storico. Dalle letture e dalle ricerche che ho fatto sono nate delle impressioni, che non riguardano solo il personaggio Oberti, e che propongo in funzione interlocutoria, sperando che il discorso non si chiuda qui.

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Stefano Oberti nasce a Genova nel 1903. Il padre, Zaccaria, è un massone, repubblicano convinto e anticlericale, imprenditore di un certo successo ma sin da giovanissimo portato a cacciarsi nei guai per le sue idee politiche libertarie (anche lui sarà costretto, dopo l’avvento del fascismo, ad emigrare in Francia, dove rimarrà poi sino alla morte).

Stefano si distingue invece in gioventù soprattutto per le passioni sportive, il canottaggio e il calcio: quest’ultimo lo fa entrare in contatto con Sandro Pertini, presidente della compagine universitaria genovese. Non tarda però a seguire le orme del padre e ad essere iscritto nella lista nera dalle autorità del nuovo regime. Come studente di legge fonda infatti l’Unione goliardica italiana per la libertà, che osteggia la riforma Gentile, e ad un convegno internazionale delle federazioni universitarie tenutosi a Varsavia, nel 1924, attacca decisamente gli altri esponenti della delegazione italiana, già allineati col fascismo. La sua attività politica si intensifica dopo il delitto Matteotti, sino a che, una notte del gennaio 1925, viene aggredito da un gruppo di squadristi che lo bastonano fino a sfigurargli il volto. Nell’immediato non vuole demordere, ma quando alla fine dell’estate successiva gli è ritirato il passaporto capisce che è venuto il momento di cambiare aria ed emigra clandestinamente in Francia.

«A Parigi arrivai a fine settembre 1925. Ben consigliato sul da farsi, presi alloggio in un albergo del Quartiere Latino […]. Presentai domanda alle Autorità francesi per ottenere asilo politico e m’iscrissi all’ “Alliance Française” per perfezionare il mio francese. La Sûreté Nationale fece le sue indagini e tutto risultò a mio favore. […] Poi andai ad abitare […] sulla riva destra della Senna, oltre Passy, presso una signora francese che ospitava un altro studente straniero. Questa signora aveva due figlie […]. Esse mi furono di grande utilità, insegnandomi come dovevo comportarmi con le famiglie parigine, molto restie a legarsi con gli stranieri. […] A noi italiani, tutto sommato, il trapianto in Francia è stato facilitato dalla presenza di una forte comunità di connazionali e dalla benevolenza del Governo francese. Io avevo amici fedeli […]. Un anno dopo fui raggiunto in esilio da mio padre. […] Facevamo colazione assieme e con noi c’erano italiani come il figlio del presidente Nitti, […], francesi e spie italiane di cui ingoiavo la presenza assieme alla pastasciutta e ai sughi all’italiana che cucinavano per noi

Fa a tempo ad incontrare Gobetti poco prima della morte di quest’ultimo e stringe amicizia con l’avvocato siciliano Teocrito Di Giorgio, personaggio che ricomparirà nella sua vita a più riprese: con la gran parte degli altri esuli, invece, e con le diverse formazioni in cui sono raggruppati, entra quasi subito in conflitto. In un libello sollecitamente pubblicato (Episodi della lotta antifascista) ci va giù particolarmente duro: “Qualche mezza dozzina di persone che pretendono di costituire e monopolizzare il fuoruscitismo ufficiale a Parigi sono un’accozzaglia acefala di esseri privi di senso storico, di coraggio personale molto discutibile, di scarsa volontà e iniziativa e quasi totalmente sprovvisti di quello spirito di indipendenza e di sacrificio richiesto dalla grandiosità della lotta”. Al tempo stesso li accusa di offrire dell’Italia all’estero “l’immagine di un Paese immerso nel terrore da un manipolo di bravi […] ciò che significava divenire ancora una volta lo zimbello dell’Europa”.

I suoi atteggiamenti a volte assurdamente intransigenti, spesso sconcertanti, e comunque sempre confusi e dettati da smania di protagonismo, creano non poco imbarazzo nell’ambiente dei fuorusciti; in qualche occasione però tornano utili e sono sfruttati strumentalmente dalle diverse fazioni dell’antifascismo parigino in funzione delle rivalità che più o meno scopertamente allignano (ad esempio, quella tra i togliattiani e tutte le altre). Di fatto comunque Oberti finisce sempre più isolato, se si escludono tre o quattro “seguaci” che gli si associano per calcolo o per spirito gregario, e di conseguenza diventa sempre più insofferente della sua vita di esule e rancoroso nei confronti dei compagni.

Anche sopravvivere materialmente, in questo isolamento, non è facile, a dispetto delle conoscenze di cui può avvalersi tramite il padre. Per un certo periodo sbarca il lunario grazie al denaro che quest’ultimo gli invia dall’Italia. Quando poi questo viene meno comincia a passare per una serie di occupazioni le più diverse, comunque sempre molto precarie: operaio alla Renault, agente di commercio, corrispondente estero, persino comparsa alla Comédie Française . Non è particolarmente portato per il lavoro, mentre è invece attivissimo nella polemica e nelle iniziative di organizzazione: dà vita a gruppi scissionisti all’interno della Concentrazione antifascista, cerca contatti a destra e a sinistra, pubblica opuscoli come Notre bataille dans les Universités et à l’Etranger, avec versions espagnole et italienne. Fino ai primi anni Trenta continua comunque a ruotare nell’ambito dell’organizzazione, e per qualche tempo è in rapporto anche col gruppo di Giustizia e Libertà.

La situazione internazionale sta però evolvendo. Il governo francese comincia a cercare approcci con il fascismo, che nel frattempo ha ammorbidito i toni e le rivendicazioni. Cresce, di qua e di là delle Alpi, il timore per una possibile salita al potere di Hitler, e vengono opportunamente rispolverate le affinità culturali e i possibili interessi comuni. Anche all’interno del mondo dei fuoriusciti le idee non sono chiare: la maggioranza chiaramente è contraria, ma c’è anche chi vede di buon occhio un riavvicinamento pacifico tra i due paesi.

Di questa posizione si fa immediatamente alfiere Oberti, che su iniziativa personale, senza consultare nessuno, si reca ad esporre direttamente al console italiano di Parigi la concordanza d’intenti del suo sparuto gruppo di seguaci con i due governi in riconciliazione, esprimendosi a nome di tutto l’antifascismo. La notizia si diffonde con la pubblicazione di un’intervista rilasciata al quotidiano La République, e la cosa scatena le ire dei dirigenti in esilio, che si affrettano a sconfessare Oberti e lo espellono dal raggruppamento. Ciò non gli impedirà comunque, nel giugno 1933, in occasione dei funerali di Claudio Treves, di sfilare nella processione silenziosa che segue il feretro, al fianco di Emilio Lussu, di Carlo Rosselli, di Raffaele Rossetti e di Camillo Berneri, e accanto a personalità di spicco della sinistra francese.

Nel frattempo però Oberti ha già intrapreso una nuova strada. È stato chiamato da Alberto Giannini, altro bizzarro e sfuggente personaggio e fuoruscito “pentito”, a collaborare alla rivista satirica Il Merlo. Giannini aveva dovuto rifugiarsi in Francia per aver pesantemente satireggiato col suo giornale Il becco giallo il regime fascista, e ha continuato per un certo periodo a farlo riprendendo la pubblicazione oltralpe e introducendola clandestinamente in Italia: ma ad un certo punto i finanziamenti elargiti dai fuorusciti hanno cominciato ad assottigliarsi ed è venuto meno anche il rapporto di fiducia che lo legava a Carlo Rosselli. Fonda allora una nuova testata, finanziata stavolta dal regime stesso, e finisce sul libro paga dell’OVRA, il servizio segreto mussoliniano. Come racconta Gaetano Salvemini parlando del gruppo dei fuoriusciti a Parigi: “Alberto Giannini era il più faceto della compagnia, finché non passò, nel 1934, dalla sera alla mattina, armi e bagagli, nel campo dei fascisti, il più svergognato caso di voltafaccia che io abbia mai visto”.

Non risulta che anche Oberti sia diventato a pieno titolo un informatore, ma senz’altro non gli par vero scrivere articoli denigratori contro esponenti del gruppo che lo ha cacciato, e più in particolare contro quelli del partito socialista in esilio.

Intanto sta già muovendosi per regolarizzare la propria situazione di emigrato presso il Consolato italiano. Tenuto ormai forzatamente fuori dalla politica, da Parigi si trasferisce a Nancy, e si butta assieme al padre in un tentativo di rientrare nell’imprenditoria, che si rivela fallimentare.

A questo punto non gli rimane che rientrare in Italia, approfittando di una serie di condoni e della prescrizione dei reati per i quali era stato condannato in contumacia (la renitenza alla leva e l’espatrio clandestino). Decide per questa soluzione alla fine del 1938, e se la cava a buon mercato, con soli due mesi di effettiva reclusione. Nel maggio del 1940, all’entrata in guerra dell’Italia, è nuovamente un uomo libero.

Nei primi anni del conflitto Oberti risiede a Milano, dove, a quanto lui stesso afferma, svolge un’attività di intermediazione industriale (della quale peraltro non si ha alcun riscontro). L’occasione di tornare alla ribalta gliela offrono paradossalmente la caduta di Mussolini e la successiva nascita della repubblica sociale italiana nel settembre del 1943. Agli inizi dell’anno successivo rivolge al ministro della Cultura Popolare del regime collaborazionista una serie di richieste dal tono perentorio, com’è nel suo stile, proponendosi come custode dell’autentica tradizione mazziniana contro l’opera di oscuramento e di travisamento compiuta dalla monarchia sabauda. È assecondato in questo tentativo delirante da vecchi compari anch’essi ex transfughi, come l’avvocato Di Giorgio, e addirittura da ex acerrimi nemici, come Gian Gaetano Cabella, fascista della prima ora, direttore de Il popolo di Alessandria (una delle più feroci gazzette dei fasci repubblichini), specializzato in falsi (nel 1948 sarà arrestato per aver pubblicato un falso testamento di Mussolini: ma pubblicherà anche un romanzo, Dieci anni a Parigi, ispirato probabilmente proprio alle vicende di Oberti).

Per quanto confuse e velleitarie le sue richieste (il trasferimento di tutto l’archivio mazziniano da Genova in Alessandria, per sottrarlo al pericolo di bombardamenti, e l’apertura di un Istituto di Studi Mazziniani in quest’ultima città, con lui e i suoi sodali naturalmente a dirigerlo) sono in linea con il tentativo del nuovo regime di prendere le distanze dalla monarchia e di dare una legittimità e una continuità storica alla repubblica pescando nel Risorgimento, e trovano udienza. Insomma, si ripete la storia, anche se cambiano gli interlocutori, che ora sono le autorità repubblichine: Oberti è percepito chiaramente anche da queste ultime come uno spostato (nelle informative dell’OVRA sul suo periodo parigino era definito il “ragazzo semipazzo”), tanto più che ormai va a briglia sciolta e affastella un mare di proposte farneticanti per pubblicazioni (una storia d’Italia illustrata per ragazzi), per cerimonie ufficiali celebrative e rievocative (l’inaugurazione di una lapide alla cittadella di Alessandria, dove era stato imprigionato Andrea Vochieri, con tanto di divi del cinema fascista che officiano in costume), per lavori teatrali, sempre su tematiche patriottiche (una storia d’Italia raccontata per quadri scenici). Eppure alle sue stravaganti iniziative si interessano, e le appoggiano e le finanziano, persino un paio di ministri di Salò, oltre alle autorità locali (anch’esse evidentemente in gran confusione). Questo mentre nei dintorni di Genova e di Alessandria il grande rastrellamento nazifascista di primavera porta alla strage della Benedicta e all’arresto e alla deportazione di centinaia di giovani.

Tanto fervore si spegne però nell’estate del ‘44, dopo che un bombardamento su Alessandria ha coinvolto anche la sede del neonato istituto mazziniano. Oberti si eclissa. Di cosa combini da quel momento non ho trovato notizia negli archivi, ma è certo che non collabora con le bande partigiane genovesi, come invece lui stesso sostiene. Riesce poi evidentemente ad attraversare indenne il periodo post-liberazione, così che nel giro di qualche anno torna sulla scena.

Sul dopoguerra e su come la sfanga nei quaranta e passa anni successivi, a parte la breve parentesi di “convivenza” di cui ho raccontato, so soltanto quel che ho potuto trovare spulciando qualche periodico e qualche quotidiano. Frammenti che sono comunque indicativi e mi confermano quel che già all’epoca avevo intuito del personaggio.

Naturalmente Oberti è sempre in rotta con qualcuno. Dal periodico Il pensiero mazziniano (Anno VI, N. 6, 10 Giugno 1951) veniamo a sapere che “A proposito del comunicato inserito nel numero scorso in cronaca da Genova, ove è citato il dott. Stefano Oberti, questi ci scrive per contestare che l’espulsione sua dalla Sezione di Genova dell’A.M.I. (Associazione Mazziniana Italiana) sia stata allargata all’indegnità morale, oltre a quella politica)”. Sarei curioso di sapere a cosa alludeva l’indegnità morale, ma avendo potuto apprezzare da vicino la sua disinvoltura economica l’allargamento dell’accusa non mi stupisce affatto.

Quindici anni dopo la stessa fonte ci fa capire però che il nostro è stato riaccolto, tanto che «Il 7 settembre, a Parigi, l’amico Stefano Oberti di Genova ha deposto sulla tomba di Piero Gobetti un fascio di garofani rossi di Liguria: sui nastri tricolori era la scritta: “A Piero Gobetti e ai duemila combattenti antifascisti morti in esilio”. Si sono voluti ricordare, nel ventennale della Repubblica, quanti all’estero, a fianco dei repubblicani spagnoli e dei resistenti francesi, si sacrificarono per la libertà» (Il pensiero mazziniano, Anno XXI, N. 8-9, 25 settembre 1966. L’iniziativa è commentata anche su La Stampa dell’8 settembre 1966, pag. 7: Commemorati gli esuli italiani morti in Francia durante il fascismo.)

Sempre La Stampa, nella sua edizione serale (Stampa Sera, 20 luglio 1970, pag. 2: Roma deve darci le spoglie di Mameli), qualche anno dopo ci informa che Oberti ha chiesto il trasferimento della salma di Mameli da Roma al Pantheon di tutti gli esuli invitti dell’umanità costruito a Staglieno. E lo ha fatto in qualità di presidente del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio difensori della libertà dei popoli.

Nella stessa veste l’ho trovato menzionato in GRECIA (mensile di informazione della resistenza greca, Anno II, N. 10-11, ottobre 1970, Nel Pantheon degli esuli) in occasione dell’autoimmolazione dello studente Costas Georgakis. «Il nome di Costantino Georgakis è stato inciso nel Pantheon di tutti gli esuli invitti dell’Umanità al Cimitero di Staglieno. La decisione stata comunicata dal presidente del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio difensori della libertà dei popoli, dott. Stefano Oberti, alla fidanzata di Kostas, con una lettera inviata alla Casa dello Studente. Nella lettera tra l’altro, si legge: “Oggi, dopo avér attraversato quasi mezzo secolo di cedimenti e conosciuto tanti traditori, testimonio che Costas Georgakis fu un eroe, perché volle sacrificare soltanto se stesso, sottraendo ogni altra persona a lui cara agli aguzzini di oggi, di domani e di sempre. Lenito il Suo dolore, Ella ritroverà la pace dei giusti; quella che Costas Georgakis ha certamente ritrovata, morendo in esilio senza compromessi con coloro che umiliano oggi la patria di Eschilo, di Socrate e di Platone, ponendola al servizio dell’imperialismo straniero. Se può esserLe di un piccolo conforto, sappia prima di ogni altro, che, per decisione del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio combattendo per la libertà dei popoli, il nome di Costas Georgakis sarà inciso nel Panthéon di tutti gli ‘esuli invitti dell’Umanità, nel cimitero monumentale di Staglieno in Genova, accanto a quello del drammaturgo greco Eschilo, del poeta inglese George Byron e del patriota interalleato italiano Santorre Annibale di Santarosa, morti per la libertà della Grecia”».

È sempre lui. L’enfasi retorica, gli accostamenti peregrini e l’autocelebrazione recriminatoria sono tipicamente suoi. E a quanto pare è anche riuscito a realizzare, nel 1970, il Panthéon di tutti gli esuli invitti dell’Umanità. Segno che qualcuno ha continuato a dargli fiducia. Tanto da riproporlo, dopo quasi altri vent’anni, come capolista in una competizione elettorale.

Contavo di trovare qualche ulteriore notizia nello scritto autobiografico Esilio a Parigi, redatto quando Oberti aveva ormai superato l’ottantina, ma tutto ciò che ne ho ricavato è l’accenno del prefatore a un eccezionale impegno del nostro per la causa del divorzio. Per il resto è una somma piuttosto confusa di ricordi, tra i quali primeggiano quelli dei sughi e delle pastasciutte, o di avventure galanti piuttosto improbabili. Unica notazione interessante: ha lavorato alle officine Renault quasi contemporaneamente a Simone Weil, ma ne ha tratto un’impressione ben più positiva. In compenso, ci ha resistito ancor meno. C’era da aspettarselo.

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Non mi sono soffermato così a lungo su questa vicenda per il suo intreccio con la mia aneddotica personale, o per quella malintesa voglia di un protagonismo tutto di riflesso che sembra essere diventata l’unica modalità di autorealizzazione (l’io c’ero, o l’io l’ho conosciuto, i selfie al funerale del papa o sui luoghi di un incidente o di un delitto, ecc.). L’ho raccontata, come dicevo sopra, perché mi sembra aprire ad alcune considerazioni di carattere più generale.

Il tema immediato cui mi rimanda è quello della memoria, e più specificamente quello della “memoria condivisa”. La memoria non coincide con la Storia (intesa etimologicamente, come narrazione dei fatti), anche se ne è uno strumento indispensabile. È una lettura della Storia alla luce di esperienze personali o collettive, vissute o tramandate, comunque sempre parziali, vuoi nei contenuti, vuoi nel punto di vista. Anche la Storia non ci racconta la verità, sappiamo che generalmente la scrivono i vincitori, ma il suo carattere di “disciplina” impone confronti e riscontri che dovrebbero, col tempo, farci approssimare almeno a grandi linee a quanto è veramente accaduto. Insomma, la Storia ci dovrebbe informare di quanto è successo, la memoria ci dice come è stato vissuto quel che è successo.

Ciò rende decisamente improbabile pensare di arrivare un giorno ad una “memoria condivisa”, mentre avrebbe un senso puntare a scrivere una “Storia” il più possibile condivisa. Quanto alla prima, è più probabile che si arrivi ad una sua perdita, che già incombe con la scomparsa degli ultimi protagonisti o degli ultimi depositari dei loro racconti. Per cui, anziché condivisa credo diverrà una memoria confusa, una nebbia entro la quale tutti i gatti saranno grigi e all’interno della quale ciascuno potrà pescare ciò che più gli conviene, e farsene bandiera (come accade oggi, ma come è accaduto anche per tutta la seconda metà del Novecento).

Il problema dunque sta a monte, proprio nel fatto che si insiste sulla memoria, che per forza di cose è partigiana, e non ci si sforza di ricostruire un po’ più fedelmente la storia. Il che vale allo stesso modo per tutte le parti in causa, ivi compresa la sinistra, così che gli argomenti che potrebbero risultare più scabrosi, che andrebbero ad intaccare alcuni miti sui quali si sono costruite le narrazioni e le rivendicazioni politiche dei diversi schieramenti, vengono accuratamente evitati.

Quanto detto sopra è perfettamente applicabile alla storia del fuoriuscitismo italiano. Dopo il libro di Aldo Garosci (Storia dei fuorusciti, Laterza, 1953) scritto settant’anni fa da uno storico più che serio e onesto, ma coinvolto direttamente nella vicenda e uscitone da pochissimi anni, sembra che a nessuno importi di riprenderla, nemmeno infedelmente. Il libro non è mai più stato ristampato, è rarissimo ed è un miracolo se te lo lasciano consultare nelle biblioteche, sempre che lo si trovi. Non a caso, l’argomento trova poco o zero spazio nei programmi di divulgazione storica che vanno per la maggiore in tivù, i vari Barbero e Cazzullo, ma anche Mieli, Augias and co. Non mi è mai capitato, ad esempio, di sentir rievocare il maggio barcellonese del ‘36 e l’uccisione di Berneri. C’è un tabù che ostacola la ricostruzione “critica” dell’opposizione al fascismo: del tipo, gioca coi fanti, ma lascia stare i santi.

Il risultato di non fare mai seriamente i conti col proprio passato, con la propria storia, è quello di lasciare aperta la strada alla rilettura, naturalmente altrettanto poco obiettiva, che ne daranno gli avversari. La motivazione sottintesa (anche quando in realtà ne esistono altre meno nobili) è che non si vogliono concedere armi alla polemica revisionista: ma il non dire tutta la verità, il coprire le macchie confidando che il tempo le cancelli, non è solo fuorviante, è altresì il miglior regalo che si possa fare a quest’ultima. Perché allunga l’ombra del dubbio anche su ciò che è ormai assodato e incontestabile. È accaduto con i vari punti oscuri della Resistenza stessa, con lo stalinismo togliattiano, persino con il Sessantotto. E tanto più questo vale per ciò di cui mi sto oggi occupando. Sono trascorsi novant’anni, ma sembra non ci sia stato verso di imparare la lezione.

Lo dimostra anche un altro fatto. Alla vicenda dei fuorusciti in Francia la nostra letteratura non ha prestato la minima attenzione. Ci sono alcuni libri di memorie, anche notevoli, alcuni diari, qualche saggio, ma non c’è un’opera letteraria che abbia offerto, ai giovani e ai meno giovani, l’opportunità di incuriosirsi per questa pagina di storia. A vent’anni avevo già letto le descrizioni degli espatriati (volontari) americani, da Hemingway a Miller, o di quelli (forzati) russi come Herzen, o alcune cose di Benjamin, ma non avrei potuto trovare alcun italiano che raccontasse queste cose. E temo che chi ne avrebbe avuto magari le capacità si sia astenuto per timore (fondato, stante l’egemonia che per tutta la seconda metà del secolo la sinistra, ortodossa e non, ha esercitato sulla cultura storica) di apparire sacrilego e di essere immediatamente colpito dall’ostracismo.

Prima di proseguire penso dunque mi convenga ricordare sinteticamente in quale reale scenario si sono svolte le vicende che ho scelto di raccontare (quella di Caffi e quella di Oberti, ma già ne avevo parlato nella storia di Berneri): non credo sia molto conosciuto.

Dopo l’avvento del fascismo (ma anche prima del ‘22) ha inizio la diaspora degli attivisti e degli intellettuali di sinistra presi di mira dal regime, spesso aggrediti anche fisicamente e comunque impediti a svolgere qualsiasi attività, non solo quella politica. La migrazione verso la Francia procede a ondate, aumenta dopo il delitto Matteotti e conosce un ulteriore incremento dopo che nel 1926 vengono emanate le leggi speciali. A metà degli anni Trenta gli aderenti ai movimenti politici antifascisti ospitati in terra francese possono essere valutati in oltre diecimila, e ad essi va aggiunto un numero almeno doppio di simpatizzanti, reclutati direttamente in loco tra i migranti economici. I più attivi e i più organizzati in questo senso sono i comunisti, che lavorano soprattutto attraverso l’UPI (Unione Popolare Italiana) e dispongono anche di un organo di stampa.

Socialisti riformisti e massimalisti, repubblicani, liberali, mazziniani, massoni, ecc… confluiscono invece nella Concentrazione d’azione antifascista, all’interno della quale però ciascun gruppo mantiene la propria autonomia e ampia libertà di azione. Come a dire che poi ciascuno fa un po’ come gli pare.

Gli esuli purtroppo si portano appresso le rivalità che già avevano caratterizzato la sinistra in patria nell’immediato dopoguerra. Lo schieramento antifascista rimane quindi costantemente diviso, sia per divergenze di ordine ideologico, sia per il contrasto di tipo generazionale. Tanto che la maggioranza degli oppositori preferirà il silenzio alla militanza attiva. E le contrapposizioni sono anche accese, risentendo delle continue oscillazioni provocate a metà degli anni Trenta dal mutare delle direttive politiche di Stalin: così che quando si passa dal tacciare di social-fascismo le componenti che non orbitano attorno al bolscevismo ad incoraggiare la costituzione dei “fronti popolari”, e i comunisti entrano a far parte della Concentrazione antifascista, la convivenza si rivela da subito problematica. Ancor più lo sarà verso la fine del decennio, dopo la negativa esperienza spagnola e di fronte ai voltafaccia dell’URSS nei confronti della Germania nazista.

Quale sia l’atmosfera nell’ambiente dei fuorusciti italiani in Francia tra la metà degli anni Venti e la Seconda guerra mondiale lo si evince bene, forse ancor meglio che dal saggio già citato di Garosci, dalle Memorie di un fuoruscito (Feltrinelli, 1960) di Gaetano Salvemini. Rispetto ai compagni d’esilio Salvemini era senza dubbio un privilegiato, visto che i suoi lavori storico-giuridici gli avevano già procurata un notorietà internazionale che gli permetteva di trascorrere molto tempo all’estero, ad esempio negli Stati Uniti e in Inghilterra, con incarichi di insegnamento nelle più prestigiose università o per giri di conferenze; mentre il suo passato di intransigente antifascista della prima ora gli garantiva credibilità e autorevolezza presso tutti i diversi gruppi. Questa condizione gli consentiva d’altro canto un punto di vista più equilibrato rispetto a quello di coloro che al di là dell’antifascismo propugnavano poi specifiche soluzioni politiche o ideologiche (primi tra tutti naturalmente i comunisti, che infatti lo avversarono costantemente).

La sua posizione è perfettamente espressa nel documento di presentazione di Giustizia e Libertà che redasse nel 1932 (ma l’organizzazione era già nata nel 1929). «Giustizie e Libertà è un’organizzazione di lotta rivoluzionaria antifascista in Italia, e raggruppa a questo scopo in Italia gli uomini di tutti i partiti di sinistra, e gli uomini fuori partito, purché di idee democratiche e repubblicane, che sono disposti a mettere a rischio la vita per la lotta rivoluzionaria contro la dittatura fascista […] Questi uomini, che in tutti i partiti e fuori di tutti i partiti formano una esigua minoranza – una vera e propria “compagnia della morte” che si batte nelle trincee più avanzate e più pericolose, non debbono rimanere in gruppi indipendenti. Debbono coordinare i loro sforzi contro il nemico comune. Debbono tenersi affiatati gli uni agli altri. Non hanno tempo e non vogliono discutere quel che sarà l’Italia dopo che la dittatura fascista sarà abbattuta.»

Quanto poco questo intento fosse comune lo si vide proprio in occasione dei diversi atteggiamenti assunti rispetto ai fronti popolari che si avvicendarono nell’Europa occidentale negli anni Trenta. L’interesse di partito veniva sempre anteposto a quello della causa comune.

Ma c’è dell’altro, ed è questo che tengo a mettere in luce. Sempre Salvemini, nelle sue memorie scrive: “La mia persuasione era – ed è tuttora – che su tre cospiratori uno è una spia; il secondo è uno scioccone, che per vanità di parere bene informato, racconta alla spia quanto sa sul terzo; e il terzo e il secondo vanno in galera, grazie al primo. D’altra parte il terzo, se non fa niente per paura dello scioccone e della spia, non andrà in galera, ma non farà niente, cioè lascerà padrone delle acque il nemico”. Ragion per cui: “bisogna correre il rischio di andare in galera, e alla fine andarci. Cioè bisogna obbedire alla legge del proprio temperamento, quanto al resto, sarà quel sarà”.

Cosa ci sta dunque dicendo Salvemini? Innanzitutto che prima di accapigliarsi su quel che sarà il futuro sarebbe bene affrontare il più possibile uniti, e provare a sconfiggere, l’avversario presente. Cosa che a leggere un resoconto sull’atteggiamento dei fuorusciti antifascisti nei due anni precedenti lo scoppio del conflitto c’è da mettersi le mani nei capelli (cfr. Leonardo Rapone, I fuorusciti antifascisti, la Seconda Guerra Mondiale e la Francia). Divisi sino all’ultimo momento e ostinatamente decisi a farsi la guerra, come i capponi di Renzo.

Poi, che anche prescindendo dalle divisioni e dalle contrapposizioni politiche occorre tenere conto di quelle che sono le differenze umane. Che cioè non sono tutti eroi e sinceri paladini della libertà coloro che bazzicano l’opposizione, e che la bontà di una causa e l’eccezionalità della condizione di espatriati politici non è da sola una garanzia di genuinità. Dice cioè ciò che sappiamo tutti (o che dovremmo sapere): le situazioni vanno affrontate con realismo, se vogliamo darci almeno una possibilità di uscirne vincitori. E realismo non significava, nella particolare situazione in cui Salvemini si trovava ad operare, cinismo o spregiudicatezza, ma massima prudenza, discrezione, parsimonia nell’accordare fiducia. Invece “In Parigi nessuno credé necessario preoccuparsi […]. L’ambiente formicolava di spie, ma anche di persone che non capivano la necessità di tenersi in guardia dalle spie”. Persone che alla fine hanno obbedito “alla legge del proprio temperamento”, hanno cioè scelto di correre coerentemente il rischio, ma troppo spesso questa scelta l’hanno pagata cara

Realismo perciò significa anche, se applicato alla rilettura storica di quella vicenda, mettere in evidenza questa debolezza, l’autolesionismo derivante dai facili e malriposti entusiasmi che hanno da sempre caratterizzato la storia della sinistra. Se si rimuovono queste cose per non scalfire l’immagine di eroi e martiri ormai incorniciati in santini (oggi magari in poster), se si imbelletta la realtà per farla coincidere con le proprie ideologie e strategie, si ottiene l’effetto opposto: i valori etici della resistenza ad ogni forma di totalitarismo vengono affidati al mito, così come i suoi protagonisti, e questo significa imbalsamarli in una dimensione che non ha più alcuna valenza di esemplarità, perché troppo lontana dalla realtà.

Prendiamo il caso di Camillo Berneri, che è quello che conosco meglio. Se qualcosa ho amato nella sua personalità, insieme alla schiettezza e al coraggio, è la capacità di prendere atto dei tanti errori commessi per eccessiva fiducia nella lealtà altrui, senza comunque arretrare di un passo nell’impegno. Al tempo stesso però non posso negare che, al netto della fulgida testimonianza di eroismo, la lezione più importante da trarsi dalla sua vicenda sia quella dell’inutilità, oltre che dell’inopportunità, delle azioni “dimostrative” mirate (come recitava ancora il terrorismo degli anni di piombo) a “colpire il cuore dello Stato”. Si può tenere il suo ritratto nello studio, come faccio io, si può opporre la sua lucidità e coerenza, nonché tutta la complessità del pensiero anarchico, all’imbecillità, all’ignoranza e alla riduzione in slogan omeopatici che ne fanno i sedicenti anarco-rivoluzionari odierni, ma si deve avere ben chiaro che su un piano prosaicamente pratico tutto quell’eroismo non ha sortito granché.

Lo stesso realismo andrebbe poi impiegato nella narrazione dell’acquiescenza di quasi tutto il popolo italiano al regime, quella che era già denunciata, prima ancora che la guerra avesse termine, da un altro giovanissimo fuoruscito (questo in Svizzera): «Va anzitutto definito quello che si intende precisamente col termine «fascista» per colpirlo e eliminarlo inesorabilmente come realtà – insieme al vocabolo “antifascista” (troppo generico ormai e ambiguo) – dalla vita italiana. Non è mai esistita una dottrina fascista; sono invece esistiti (e esistono tuttora, ben lungi dal tramontare) una mentalità e un costume fascisti: irridenti – sul piano politico – alle nozioni di libertà, di democrazia, di dignità civile (cose degne dello “stupido diciannovesimo secolo” per gli “uomini nuovi”), e – sul piano morale – alle forme del vivere onesto, prudente, vigilato (“vecchio gioco” per chi voleva forzare gli altri a “vivere pericolosamente”). […] Da allora l’abdicazione è venuta crescendo, la responsabilità allargandosi per cerchi concentrici a masse sempre più vaste fino ad abbracciare la quasi totalità del popolo italiano. La complicità – tolta qualche voce clamorosa – è stata fatta di silenzio e d’assenso». (Ariberto. Mignoli, Epurazione, su Giovane Italia, 10 aprile 1945, n. 5).

Vent’anni prima queste cose le aveva già scritte anche Andrea Caffi, che sull’anelito degli italiani alla libertà (e alla verità) nutriva giustamente i suoi dubbi. E infatti: ancora oggi noi sappiamo tutto su I volenterosi carnefici di Hitler, e quanto alla complicità collettiva del popolo tedesco ci chiediamo se sia vero che “La Germania si che ha fatto i conti col nazismo”, ma su un sincero esame di coscienza nostro ci andiamo cauti. Tanto cauti che a furia di autocompiacerci per l’immagine artificiosa di una gente italica disposta comunque al buono e al bello stiamo già arrivando alla riabilitazione del regime.

C’entra tutto questo con le vicende parallele eppure divergenti (per cui non si incontrerebbero neppure all’infinito) di Caffi e di Oberti? C’entra eccome, perché l’accostamento riguarda solo la condivisione della condizione di fuorusciti, mentre il modo in cui questa condizione è stata vissuta dai due e quello in cui è stata recepita da coloro che l’hanno condivisa con loro mettono a fuoco piuttosto il contrasto.

Senz’altro entrambi viaggiavano in asincrono rispetto ai loro compagni di sventura: ma mentre a questa differenza di ritmo il primo cercava di ovviare con una presenza ferma e tuttavia discreta, non invasiva, anzi piuttosto elitaria, che lo faceva apprezzare da tutti coloro che lo conoscevano, l’altro la differenza la rimarcava costantemente, autoproclamandosi unico genuino custode dei valori dell’antifascismo ed entrando immediatamente in conflitto con tutti. La differenza non concerneva però solo i modi della partecipazione, il primo sempre sottotraccia, nell’ombra, il secondo amante delle celebrazioni, dei rituali, del centro della scena; riguardava anche, e soprattutto, i valori per i quali si battevano. Caffi europeista, cosmopolita, anarchico, Oberti nazionalista sfegatato, cultore del mito della patria e della nazione, legato alle consorterie massoniche, ecc.

Ora, capisco che il parallelo tra i due possa sembrare già in partenza assurdo: in effetti, pur con tutta la divertita simpatia che all’epoca della coabitazione Oberti mi ispirava, mi rendo conto che sto mettendo a confronto due livelli di umanità incomparabili. Caffi era un puro, con tutto ciò che di affascinante, ma anche in qualche misura di escludente, questa disposizione comporta. E infatti si è tenuto, ed è poi stato volutamente confinato, a margine, perché la sua intransigente purezza fissava dei parametri troppo alti. Oberti era un mitomane squinternato, e d’altro canto lui stesso confidava che “i ferri del chirurgo penetratimi mediante incisioni all’interno delle fosse nasali mi hanno scosso la cassa cranica”. Non so quanto i suoi squilibri fossero stati determinati o acuiti dalla bastonatura, sono propenso a pensare che non fosse del tutto in quadra nemmeno prima. Anche se, a scanso di equivoci, rimango convinto che pure in mezzo a tutte le sue palesi contraddizioni Oberti fosse sempre sinceramente convinto della legittimità e bontà del proprio operato (il che poi in molti casi è ancora più grave, ed è un problema comune a tanti apparentemente più coerenti di lui). Ma, ripeto, non è tanto il personaggio in sé ad intrigarmi quanto piuttosto il fatto che per settant’anni qualcuno abbia potuto continuare a prenderlo sul serio.

Li ho accomunati solo perché mi sembrano incarnare significativamente gli estremi dell’ampio spettro di modalità nelle quali la condizione dell’esule, e nella fattispecie dell’esule antifascista, poteva essere declinata. E perché giustificano le domande che Garosci si poneva a caldo nella presentazione del suo tempestivo studio: “Chi sono stati i fuorusciti? Come hanno influito sul destino dell’Italia? Si può porre un problema generale dei fuorusciti, oppure si danno problemi e soluzioni diverse per diversi periodi e personalità?” Domande cui la ricerca storica, della quale Garosci auspicava che la sua Storia fosse solo un punto di partenza, non ha in realtà ancora dato risposte soddisfacenti.

Quanto poi al motivo per cui due vicende e due personaggi ciascuno a suo modo così singolari sono finiti nell’oblio, potrebbe sembrare legato al fatto che in definitiva entrambi, sul piano pratico, hanno combinato poco o nulla. Ma questo, se vogliamo essere sinceri, vale in fondo anche per tutti gli altri loro compagni d’esilio. Io credo invece che il motivo stia per l’uno nel non aver lasciato eredi “istituzionali”, partiti, movimenti, congreghe, che avessero interesse a coltivarne la memoria, magari anche strumentalizzandola; per l’altro in una rimozione mirata a spazzare la polvere sotto il tappeto. Rispetto al quadro che della resistenza degli esiliati si voleva dare, uno ne era fuori, l’altro è stato coperto dal bordo esterno della cornice. A volte la “menzogna utile”. contro la quale si battevano tra i fuorusciti soprattutto Caffi e Chiaromonte, non ha nemmeno bisogno delle “post-verità”, può servirsi altrettanto proficuamente dei silenzi. Nel caso dei miei due protagonisti, poi, l’esclusione dalla memoria e l’assenza di una lettura distintiva non solo dà luogo ad una palese ingiustizia, ma tace una realtà, e quindi non insegna nulla.

Qui volevo arrivare. Ho forzato questo confronto, senza la pretesa di dare il minimo contributo alla ricostruzione della verità storica, semplicemente per offrire un esempio di come la melassa acritica e celebrativa finisca per appiattire o addirittura azzerare i valori, e di quanto sarebbe invece necessario operare delle distinzioni proprio per ristabilire e riaffermare la pregnanza di questi ultimi.

Al di là dei risultati concreti, infatti, rimane comunque l’importanza della testimonianza etica, in positivo o in negativo, che può essere lasciata in eredità, e che tanto più in questi tempi di carestia morale andrebbe recuperata. Proprio per questo il loglio andrebbe separato dal grano, con una ricostruzione documentata di chi ha fatto davvero cosa, e di come, e del perché. Quanto ai nostri, senza scendere ulteriormente nel dettaglio, è evidente che se Caffi apparteneva al novero ristretto di coloro che vivono sentendosi sempre in debito, Oberti è il prototipo, al di là della sua ‘stranezza’, di chi si sente sempre in credito. E tutta la vicenda racconta di come anche nei gruppi più selezionati, addirittura nei gruppi in cui la selezione la fa la sventura, questi ultimi esistono, e non sono pochi, e nella gran parte dei casi sopravvivono e hanno modo di raccontarla alla loro maniera.

Mentre i primi, come testimonia Primo Levi ne I sommersi e i salvati, le rare volte in cui scampano provano quasi rimorso per non avere seguito la sorte di chi è rimasto sul terreno.

vignetta di Mauro Biani, 2024

Riferimenti bibliografici

Per le notizie relative alla vita e alle attività di Oberti sia in Francia che Italia sono debitore soprattutto degli studi (e delle indicazioni) di:
Donato D’Urso, Quando la pietà era morta. Aspetti della guerra civile 1943-1945, Bastogi libri, 2015
Donato D’Urso, Stefano Oberti, in Tuttostoria.net, 29/03/2015

Altre informazioni le ho attinte in:
Emanuela Miniati, La migration antifasciste de la Ligurie à la France dans l’entre-deux-guerres: familles et subjectivité à travers les sources privées (Tesi di dottorato in Storia contemporanea discussa presso Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, Anno accademico 2014-2015)
Emanuela Miniati, Antifascisti liguri in Francia. Caratteristiche e percorsi del fuoriuscissimo regionale, in Percorsi Storici, 1 (2013)

Trattazioni più generali sulla migrazione antifascista in Francia sono in:
M. Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA, Torino. 1999
Aldo Garosci, Storia dei fuorusciti, Laterza, 1953
Leonardo Rapone, I fuorusciti antifascisti, la Seconda Guerra Mondiale e la Francia, in Persée pubbl. dell’École Française de Rome 1986 n. 94 (fa parte del numero tematico: Les Italiens en France de 1914 à 1940)
Gaetano Salvemini, Memorie di un fuoruscito, Feltrinelli, 1960
Fedele Santi, Storia della Concentrazione antifascista, 1927-1934, Feltrinelli, 1976
Fedele Santi, I Repubblicani in esilio nella lotta contro il fascismo (1926-1940), Le Monnier, 1983
Simonetta Tombaccini, Storia dei fuorusciti italiani in Francia, Mursia, 2022

Degli scritti di Oberti ho potuto consultare solo
Esilio a Parigi. 1922-1943 Il ventennio fascista raccontato da un fuoruscito, Lanterna, 1984

Non Ho rintracciato Mazzini perseguitato dai Savoia (Alessandria, 1944), né Episodi della lotta antifascista, mentre presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza, Archivi di Giustizia e Libertà è consultabile Notre bataille dans les Universités et à l’Etranger, avec versions espagnole et italienne (Parigi, 1927?)

Ricominciare da capo


Andrea Caffi, o della socievolezza

di Paolo Repetto, 25 aprile 2025

Introduzione

Una brava persona

Una vita sopra (e dietro) le righe

Amicizia

Socialismo

Stato, popolo, società

Democrazia e libertà

Europeismo

Intellettuali

Verità

Utopia

Straniero

Verso una conclusione

E finalmente ….

Bibliografia

Appendice: Nicola Chiaromonte, Introduzione a Andrea Caffi, Critica della violenza, Bompiani, 1966

Introduzione

Arrivava all’improvviso,
non si sapeva da che parte del mondo,
con gli abiti sgualciti e l’aria di avere un grande appetito.
Scompariva allo stesso modo,
senza che si sapesse perché né per dove.
Da per tutto portava la sua gentilezza,
un’aria d’innocenza,
un enorme fascio di erudizione che slegava
e da cui traeva regali a qualunque richiesta.

Non sono granché espansivo e non amo i superlativi. Il complimento più sentito che arrivo ad esprimere è: “Sei una brava persona”. E nemmeno questo lo spendo spesso, non perché sia particolarmente esigente (insomma, forse solo un po’) ma perché ritengo che anche la stima, come il disprezzo, vada distribuita con parsimonia, per lo stesso motivo: perché sono in molti a meritarseli (non è mia, l’originale è di Chateaubriand). Lo uso quindi solo eccezionalmente, con chi magari ho occasione di frequentare per un breve periodo e la prospettiva di non rivedere più; gli altri, coloro che mi conoscono bene, non hanno bisogno che esterni il mio apprezzamento: voglio credere che lo sentano.

Io ritengo che esistano le “brave persone”, nell’accezione più inclusiva di questa qualifica, così come esistono esseri spregevoli, e che tanto le une che gli altri non siano resi tali dall’ambiente, dai condizionamenti famigliari, dalle circostanze o dallo status sociale. Credo semplicemente che alcuni nascano onesti e ben disposti, e altri no. Le circostanze, i condizionamenti, l’ambiente, stanno tra queste due polarità, spiegano e a volte giustificano molte cose, ma la sostanza rimane quella.

L’essere o meno una brava persona (che vale anche per “intelligente”) è innanzitutto una questione di indole. Lo dico nella consapevolezza di non stare ad uno dei due poli, di stazionare in mezzo: la mia presunzione, o la mia speranza, arriva al massimo a collocarmi leggermente spostato verso quello positivo, piuttosto che verso le carogne.

Per essere una brava persona non necessitano meriti particolari e virtù specifiche: è sufficiente vivere nel costante rispetto degli altri, prestando attenzione a non arrecare loro danno o fastidio, e comprendere le necessità altrui, condividerne sinceramente i problemi e aiutarli, nei limiti delle possibilità e della non invadenza, a risolverli. Nella sostanza, concedere fiducia agli altri ed evitare nei rapporti il sospetto, l’invidia, il rancore e l’egoistica attesa di una gratificazione che non sia quella interiore: gioire dei loro successi e partecipare dei loro dolori. Che, a pensarci bene, non è poco. Comunque, altrove ho definito questo atteggiamento “solidarietà”, usando un termine caro a Camus, e ritengo fosse già una definizione esauriente.

Ora, chiamatelo pure “determinismo genetico”, chiamatelo come volete, ma è quello che penso, e che ho espresso credo abbastanza chiaramente in tutto ciò che ho scritto sino ad oggi, distinguendo semplicemente tra coloro che si sentono sempre in debito con la vita (e con gli altri) e coloro che rivendicano costantemente un credito. Sarà poco confortante ritenere che i nostri comportamenti siano dettati piuttosto dalla natura che dalla nostra cultura, potrà sembrare anche che finisca per deresponsabilizzarci (non per come la vedo io), ma lo ritengo l’unico modo per dare un senso alla nostra vita e organizzare realisticamente la nostra risposta alle disillusioni e alle trappole che ci riserva.

25 aprile 2025

Una brava persona

Andrea Caffi era tra coloro che vivono sentendosi in debito, e che non gestiscono questa attitudine con angoscia, ma con spirito propositivo: che ritengono cioè di doversi dare da fare per migliorare il mondo, ma sempre nel rispetto della dignità e della libertà altrui. Era prima di tutto, e soprattutto, una “brava persona”. Poi era tante altre cose, un intellettuale enciclopedico e raffinato, un poliglotta che parlava sette o otto lingue, un sincero amante della libertà, un conversatore affascinante: ma il motivo per cui ha lasciato in chi lo conobbe un’impronta così forte era innanzitutto il suo modo discreto, schivo ma tutt’altro che scostante, di proporsi.

Per introdurre questo singolare personaggio ho scelto due diverse descrizioni, quella di Prezzolini riportata in esergo e quella fattane da Nicola Chiaromonte, forse il suo migliore amico e maggiore estimatore, nella prefazione a Critica della violenza (Bompiani 1966): Scrive Chiaromonte: «Era, questo, un uomo che più delicato e nobile è difficile immaginare, e certamente rarissimo trovarne: un uomo che tutte le qualità della mente e dell’animo dicevano fatto per essere accolto e onorato nei luoghi più eccelsi di una società ideale, e particolarmente fra gli uomini di pensiero e di cultura; e il quale invece sceglieva deliberatamente la solitudine e l’oscurità, incapace com’era di fare la più piccola concessione quando si trattava non dico della sua integrità morale o delle sue idee, che sarebbe un parlare solenne, ma semplicemente della sua sensibilità. Ogni tentativo, anche il meglio intenzionato, di procurargli una via d’uscita da tale isolamento, e dalle angustie che comportava, rimase inutile fino all’ultimo. Sicché era evidente che non si trattava tanto di riluttanza al compromesso, quanto della volontà di non “inserirsi” in alcun modo in una società che gli dispiaceva profondamente. […] C’era il Caffi eretico, intellettuale la cui visione non si adattava a nessuna prospettiva comunemente accettata e verso il quale solo alcuni pochi individui isolati, o comunque insoddisfatti dei gruppi esistenti e delle idee correnti, potevano sentirsi attratti; e di questi, pochissimi a lungo, perché i sentieri per i quali Caffi trascinava chi lo seguiva erano davvero Holzwege, sentieri non tracciati in anticipo e di cui non si sapeva dove conducessero; dunque stancanti. Dietro questo Caffi eretico e irrequieto c’era lo spirito solitario, assorto in un mondo di pensieri segreti e di operazioni intellettuali addirittura misteriose nel quale raramente, anche nei momenti di maggiore confidenza, si apriva qualche spiraglio».

A sua volta, invece, il ricordo di Prezzolini prosegue così: «Siccome era di un’estrema delicatezza e indipendenza di spirito, non ci si accorgeva delle sue ristrettezze altro che dagli abiti e dallo sguardo con il quale di traverso guardava una tavola apparecchiata quando lo si invitava […]. Aveva un modo di sfuggire ogni curiosità e indagine sulla sua persona che lo rendeva molto simile a quei personaggi dei romanzi russi che rispondono con frasi svagate e allusive alla polizia degli zar».

Si sarà già capito a questo punto che la figura di Caffi non si lascia catturare facilmente. Bisogna più che mai guadagnarsela, andando a leggere, oltre allo scritto di Chiaromonte (che allegherò integralmente a questo pezzo), anche gli altri interventi, i ricordi, le recensioni agli scritti raccolte già diverso tempo fa in due Quaderni pubblicati dalla Biblioteca dei Viandanti (Su Andrea Caffi e Andrea Caffi. Scritti scelti di un socialista libertario che per l’occasione ora rieditiamo, ampliati e aggiornati). Poi, certo, meglio ancora sarebbe accostare direttamente gli scritti di Caffi, che negli ultimi tempi sono divenuti in parte rintracciabili, o affidarsi agli studi a lui dedicati che, dopo un lunghissimo periodo di oblio, cominciano a fiorire (li segnalerò nella bibliografia). Anche così, comunque, non si arriverà mai ad una conoscenza non dico completa, ma nemmeno sufficientemente esaustiva: la sua figura rimarrà sfuggente e misteriosa, perché trovare una vita più disordinatamente ricca è quasi impossibile, ma anche perché più che attraverso gli scritti Caffi testimoniò il suo impegno con un singolarissimo stile di vita, con un magistero di esemplarità socratica («Vivergli vicino era una gran lezione di generosità e di nobiltà», scrive Chiaromonte), che si esplicava soprattutto nelle conversazioni con gli amici (i suoi modelli culturali erano principalmente quelli dell’antica Grecia, del dialogo platonico, e dei salotti pietroburghesi nei quali si raccoglieva l’intelligencija russa nell’Ottocento), o nelle chilometriche lettere che inviava loro. E comunque non si è mai rivelato completamente ad alcuno. Tra l’altro, e anche questo è significativo, possediamo solo tre o quattro suoi ritratti fotografici, tutti molto sfocati, a bassissima definizione. Perfettamente in linea con lo stile del personaggio.

Molti aspetti dell’esistenza di Caffi rimangono dunque oscuri. Si aggiunga che buona parte dei suoi scritti è andata dispersa e infine che la “pietas” amicale ha indotto chi lo conosceva a passare sotto silenzio certi tratti della sua personalità ritenuti, all’epoca, sconvenienti. In altre parole, Caffi era probabilmente omosessuale, e non è un caso che a farne menzione sia Alberto Moravia, che lo aveva conosciuto e ne era diventato amico prima ancora di pubblicare Gli indifferenti, e che in queste cose aveva l’occhio lungo: ma il nostro era così discreto che nessun altro dei suoi conoscenti ha mai toccato questo tasto, e neppure i dossier della polizia fascista e di quella di Vichy ne fanno menzione. Ora, se anche è vero che ciò non sposta di una virgola il senso del suo impegno e la portata del suo ingegno, è presumibile che abbia comunque influito in qualche misura sulle sue scelte culturali e politiche, oltre che sul suo comportamento. Stiamo parlando della prima metà del secolo scorso, di un periodo nel quale la considerazione sociale dell’omosessualità era pessima, e gli intellettuali inglesi della “generazione perduta”, anche quelli più “impegnati”, da Ishewood a Austen, cercavano “autenticità” sulle due sponde del Mediterraneo. Ma Caffi è di un’altra pasta, e credo occorra tenerne conto se davvero si vuole correttamente interpretare e valorizzare il suo pensiero.

Date queste premesse, mi limiterò a sbozzare le linee essenziali (che non sono poche, e corrono tutt’altro che rette) della biografia di Caffi, le vicende e le traversie più significative: quel tanto insomma sufficiente ad offrire un minimo di indicazioni a chi non l’avesse mai sentito nominare. Premetto già che sarà una ridda di incontri, di collaborazioni, di nomi e di titoli, ma questo è ciò che passa la sua agitatissima esistenza. Ed è anche ciò che rende quasi inspiegabile il silenzio che ha poi inghiottito la sua figura, stante che tutte le iniziative culturali e politiche del periodo tra le due guerre, nonché di uno scampolo di quello immediatamente successivo, lo vedono presente, sia pure sempre nello sfondo, di passaggio, con una gamba già in uscita dalla foto.

P.S. nel rileggere questo pezzo ho contato almeno trenta nomi che rappresentano l’élite del pensiero europeo nel primo mezzo secolo del Novecento e che hanno interagito con Caffi. E Caffi non era un cacciatore di autografi o di selfie, al contrario. Tutta questa gente non solo lo ha conosciuto o ha lavorato con lui, ma è rimasta affascinata dalla sua personalità e sbalordita per la vastità e la profondità della sua cultura.

Una vita sopra (e dietro) le righe

Andrea Caffi nasce a Pietroburgo nel 1887, da genitori italiani che lavorano nell’ambiente teatrale e che non sono privi di sensibilità politica oltre che artistica (il nonno paterno, Ippolito Caffi, pittore vedutista, aveva partecipato come garibaldino alle rivoluzioni del ‘48 e all’impresa dei Mille, ed era morto nella battaglia di Lissa). Riceve un’ottima istruzione, della quale si dichiarerà poi grato per tutta la vita, nel Liceo Internazionale di quella città, conosce il pensiero di Proudhon e si appassiona alla vicenda di Aleksandr Herzen e dei populisti russi dell’Ottocento, e ancora giovanissimo aderisce al socialismo, militando nella corrente menscevica. A sedici anni è tra gli organizzatori del sindacato dei tipografi e lavora nella clandestinità al fianco di Kalinin e di Molotov.

Nel 1905 è in prima fila in quella che può essere considerata la prova generale nella rivoluzione russa. Viene più volte arrestato ed è condannato infine a tre anni di carcere; due di questi li sconta nella colonia penale di Jekaterinoslav, rischiando seriamente di lasciarci la pelle per il tifo e per gli stenti. Liberato nel maggio del 1908, inizia per lui un esilio destinato a durare praticamente tutta la vita. Si rifugia come studente universitario a Berlino, dove segue le lezioni di Georg Simmel e stringe amicizia con Antonio Banfi (che così lo ricorderà: «M’era compagno lo spirito più arcangelo e più vivo che mai conobbi, Andrea Caffi, fuggitivo dalla prigionia per i moti del 1905-06, un umanitario ribelle, raffinato e semplice insieme di vita, poliglotta e colto all’estremo, arguto e entusiasta, con cui scrivemmo pagine e pagine sulla cultura europea contemporanea».

In questo periodo viaggia per tutta l’Europa, facendo spesso base a Parigi, dove entra in contatto con le avanguardie artistiche e letterarie di inizio secolo e in una sentita amicizia con Ungaretti. Crea inoltre, con un gruppo di amici, la Jeune Europe, un sodalizio che ha fortissime (e ingenue) ambizioni di rigenerazione della cultura occidentale. Soggiorna anche in Italia, collaborando con Giuseppe Prezzolini e Scipio Slataper e frequentando a Firenze il gruppo della rivista La Voce. E visita, a Rapallo, il grande esule Piotr Kropotkin (che considera «lo spirito più puro del movimento rivoluzionario russo»).

Nel 1914 è sconvolto dallo scoppio della guerra in Europa; eppure, nonostante professi sin da ragazzo il più convinto pacifismo, si arruola volontario nelle legioni internazionali “garibaldine” in Francia. Come spiegherà in seguito a Chiaromonte, che gliene chiede ragione, «in primo luogo, non gli era stato possibile non desiderare la sconfitta del militarismo tedesco e la vittoria della Francia; in secondo luogo, vedendo partire tanti amici incontro alla morte la sola scelta personale ammissibile gli era parsa quella di condividerne il destino; in terzo luogo, di fronte a una guerra che lui, come molti altri in Europa, aveva sentito approssimarsi fatalmente fin dal 1911, e della quale si poteva esser certi che avrebbe messo a ferro e fuoco l’intero continente, non gli era sembrato possibile invocare delle ragioni di principio». Insomma, sicuramente ha anche desiderio di contribuire alla sconfitta del militarismo prussiano, ma soprattutto non intende sottrarsi alla sofferenza e al destino della sua generazione. Senza contare che attorno a lui aleggiava sempre lo spirito del nonno.

Ai primi di settembre prende dunque parte alla battaglia delle Argonne, nel corso della quale viene ferito. Se dobbiamo credere alla testimonianza di Banfi, andava all’assalto senza impugnare un’arma (ma è una cosa raccontatagli da Caffi stesso, sulla quale avrei parecchie perplessità: non che non fosse capace di farlo, ma dubito glielo lasciassero fare). L’anno successivo viene arruolato nell’esercito italiano, ed è nuovamente ferito nel luglio 1915 sul Sabotino, riportando una menomazione che lo tormenterà per tutta la vita. Il resto del conflitto lo trascorre poi a Belluno, come interprete presso il comando della 4ªarmata. All’inizio del 1918 viene trasferito, per la sua conoscenza delle lingue slave, presso un ufficio speciale creato a Berna per fare propaganda fra le nazionalità oppresse dell’impero asburgico.

Dopo il congedo rimane in Italia e avvia una collaborazione con i nascenti circoli europeisti, pubblicando assieme a Umberto Zanotti-Bianco una rivista, La giovane Europa, che vuole denunciare i problemi creati dalle durissime condizioni di pace imposte dai vincitori a Versailles, e chiederne la revisione. L’esperienza dura poco, ma detta già alcune linee di pensiero alle quali Caffi rimarrà fedele sino alla fine dei suoi giorni.

Nell’estate del 1919 è inviato come corrispondente del Corriere della Sera nel Caucaso, dove i crolli dell’impero russo e di quello ottomano hanno lasciato via libera a rivendicazioni e ritorsioni nazionalistiche e a scontri caotici e sanguinosi; si ferma però per qualche mese a Costantinopoli, dove assiste alle convulsioni della nascita del nuovo stato turco e ha anche modo di constatare come le potenze europee trattino con arroganza e sprezzante miopia le aspirazioni dei popoli ex-ottomani.

Di lì, all’inizio dell’anno successivo passa clandestinamente via Odessa in Ucraina, e finisce in un primo momento tra le truppe del generale “bianco” Denikin. Quando queste si ritirano viene finalmente a contatto con i “rossi” e comincia a collaborare con l’amministrazione bolscevica, prima a Kiev e poi a Char’kov.

Il paese è dilaniato dalla guerra civile, tenuto sotto assedio dalle diverse armate controrivoluzionarie arruolate e supportate dall’Intesa, e inizialmente Caffi non vede altra via d’uscita che l’energica dittatura dei bolscevichi, per spietata che sia. Rimane però critico rispetto al progetto di esportare la rivoluzione su scala europea o addirittura mondiale. «Le imitazioni – scrive – sono una povera cosa nella vita dei popoli come in quella delle persone.» A maggio è a Mosca, ospitato da Angelica Balabanoff, ex amante del Mussolini socialista, poi segretaria della Terza Internazionale e introdotta nelle alte sfere del governo rivoluzionario. Qui collabora con istituti culturali – come lo Studio Italiano – promossi dai sostenitori nostrani della rivoluzione (tra questi Prezzolini, Zanotti-Bianco e Odoardo Campa), che intendono propagandare all’esterno i programmi e sostenere all’interno l’azione del nuovo governo, nonché restaurare i rapporti economici tra la Russia e l’Italia interrotti dal blocco commerciale antisovietico che l’Intesa ha decretato. Caffi è convinto che l’impegno più urgente sia quello di una collaborazione economica, prima ancora di quella culturale, per consentire al paese di uscire dall’emergenza e al regime di allentare la stretta.

Nel giro di pochi mesi però la sua valutazione del bolscevismo cambia, e Caffi diventa sempre più insofferente dei metodi che il governo rivoluzionario usa e degli scopi che sembra proporsi. Grazie alla Babalanoff riesce ad infiltrarsi nel servizio stampa del Comintern, e qui intraprende un’opera di contro-informazione, raccogliendo in un bollettino «ritagli di giornali stranieri, tradotti in russo, accuratamente scelti al fine di suscitare il massimo possibile di dubbi nell’animo di un ancora onesto militante della Terza Internazionale». Naturalmente dopo la pubblicazione di una decina di opuscoli la Ceka si accorge della beffa e nell’ottobre del 1920 Caffi viene denunciato come “controrivoluzionario”, arrestato e imprigionato alla Lubianka. Ancora una volta a cavarlo dai guai è la provvidenziale Balabanoff, che lo sottrae all’ultimo momento al plotone d’esecuzione. Ormai è però divento sospetto al nuovo regime: gli è vietata ogni corrispondenza con l’estero e sono sequestrati i suoi (peraltro scarsissimi) beni. Già agli inizi del 1921 scrive a Prezzolini: «Comprenderai come non ti possa scrivere molte cose che dovrei dirti. Mi dispiacerebbe se tu pensasti male di me o se ponessi tutto sul conto di un temperamento irregolare. Quest’anno è stato il più serio della mia vita. Non so quando potrò rivedere l’Europa»; che neanche troppo velatamente è la confessione di un fallimento. È costretto a «disinteressarsi completamente da ogni intrigo, […] essere molto riservato». Lascia Mosca, uscendo «da un continuo incubo, da quasi tre anni di astrazione completa di ogni senso di esistenza personale» all’inizio di giugno del 1923, e con un percorso contorto e difficile, attraverso la Lettonia, la Polonia e l’Austria, arriva a Roma alla fine del mese. Angelica Balabanoff, caduta anche lei in disgrazia, lo ha preceduto di un anno.

Una volta in Italia Caffi ricuce i contatti con Salvemini e con Zanotti-Bianco collaborando prima al quotidiano Il popolo (del partito popolare) e poi dirigendo dall’aprile ‘25 all’ottobre seguente La Vita delle Nazioni. I suoi articoli sulla rivoluzione bolscevica suscitano l’ammirazione di Piero Gobetti e persino di Gramsci, e il suo attivismo politico nei quartieri popolari romani conquista adesioni alla causa socialista. Nel frattempo si occupa di storia bizantina, diventando uno specialista della materia, tanto che sarà chiamato ancora nel 1927 da Gioacchino Volpe a redigere voci di storia dei paesi slavi per l’Enciclopedia Italiana. Nel maggio 1925 è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce, mentre nel corso del 1926 collabora a Quarto Stato di Pietro Nenni e di Carlo Rosselli e alle Ricerche religiose di Ernesto Buonaiuti. Pubblica inoltre su Volontà, una rivista diretta da Vincenzo Torraca, l’articolo Cronaca di dieci giornate, dove ricostruisce nel dettaglio il delitto Matteotti. È significativa la descrizione che dà Francesco Fancello, il redattore della rivista, del primo incontro con Caffi: «Entrò uno spilungone, per accento e aspetto simile ad uno dei tanti intellettuali russi che si erano sparsi per l’Europa dopo la rivoluzione bolscevica: era Caffi. Mi si presentò senza preamboli col suo solo nome e cognome e mi espose il motivo della sua visita. “Ho preparato questo articolo – disse – intitolato Cronache di dieci giornate, che riguarda l’assassinio Matteotti. Penso che potrà interessarvi”. Gli risposi che avrei letto e volentieri pubblicato il pezzo se consono all’indirizzo della Rivista. Poiché eravamo circondati da spie e da agenti provocatori, lo accomiatai senza chiedergli né chi fosse né chi lo avesse a noi indirizzato».

A dispetto di tutte le cautele Caffi è comunque già nel mirino dei fascisti. Tra l’esilio e la clandestinità ha sino ad ora scelto quest’ultima, ma nell’autunno del 1927, per sfuggire al rischio di arresto da parte dell’OVRA, deve rifugiarsi in Francia. Trova in verità una sistemazione ottima, perché è ospitato a Versailles nella villa del principe Caetani, dei cui nipoti diventa precettore, ed è inoltre segretario di redazione della rivista Commerce. Partecipa dunque agli incontri periodici di artisti e scrittori che si ritrovano nella villa, tra cui Paul Valéry, Fernand Léger e Jean Paulhan.

Verso la fine del 1930 però, chiusa anche la collaborazione con la rivista, si trasferisce nel sud della Francia, per stabilirsi poi di lì a poco stabilmente a Parigi. Qui entra subito nel giro dei fuorusciti antifascisti, nonché nei circoli degli esuli russi. Frequenta Modigliani, Saragat, Angelo Tasca e Giuseppe Faravelli, che condividono con lui le riserve nei confronti dell’unità d’azione con i comunisti nei fronti popolari e il rifiuto dello stalinismo. Collabora per un certo periodo con Carlo Rosselli e con Giustizia e Libertà, salvo interrompere poi la collaborazione per dissensi sulla linea del gruppo, sino a rompere definitivamente assieme a Mario Levi, Renzo Giua e Nicola Chiaromonte. Nasce in questo frangente la strettissima amicizia che lo legherà all’intellettuale lucano sino alla morte (e anche oltre, visto il prodigarsi di Chiaromonte per far conoscere postumi la figura e il pensiero di Caffi).

Dopo l’invasione tedesca della Francia si trasferisce a Tolosa, dove opera un gruppo di socialisti italiani fuorusciti, tra i quali Olindo Gorni, e prende contatto con gruppi della resistenza francese. Nel 1944 è arrestato, imprigionato nelle carceri di Vichy e torturato. Ma la scampa anche stavolta.

Nel dopoguerra torna a Parigi, dove diventa amico di Albert Camus e grazie a lui lavora (saltuariamente) presso l’editore Gallimard. Pubblica anche articoli su Politics, la rivista della sinistra radicale anticonformista statunitense diretta da Dwight Macdonald, sulla quale scrivono Chiaromonte – che è ormai il suo tramite, come lo era stato prima Salvemini –, Hannah Arendt, Mary McCarthy e Paul Goodman. A dispetto di tutti questi contatti la sua esistenza continua a svolgersi nella più assoluta precarietà. Di norma non ha in tasca una lira, e quando ce l’ha trova il modo di disfarsene velocemente, magari anteponendo piccole innocenti vanità – ha la fissa dell’acqua di colonia – ai bisogni alimentari più immediati. Alla lunga però la sua salute ne risente, Nel 1955 finisce all’ospedale della Salpetrière, e lì muore in perfetta solitudine, senza disturbare nessuno, così come aveva fatto per tutta la vita. Che può non sembrare tale, ma è un modo elegante per andarsene con dignità e lasciare negli amici una immagine “viva”.

Fin qui la parte “utile”, che spero contribuisca ad allargare a qualche amico la familiarità con la figura di Caffi. Personaggio che riesce intrigante già di per sé, per la sua storia personale, ma va necessariamente letto di conserva con le sue opere. Mi rendo conto di dire una banalità, le opere sono sempre parte essenziale di ogni esistenza, di quella di un intellettuale o di un politico come di quella di un idraulico, ma in questo caso intendo sottolineare come esista una coerenza perfetta e costante tra quel che Caffi ha predicato e come ha razzolato. Non è sempre così (anzi, non lo è quasi mai), per altri vale esattamente il contrario, e anche questo offre una chiave di lettura.

Ciò che segue è invece un tentativo di mettere sinteticamente a fuoco i temi che caratterizzano un complesso percorso intellettuale, seguendo proprio il filo di quella coerenza. Anche se cercherò di farlo con le sue parole, più che di ciò che Caffi ha effettivamente detto parlerò naturalmente di quello che io ci ho trovato: che è davvero molto, e che mi sarebbe servito già tanto tempo fa per schiarirmi un po’ le idee, ma che va assunto (come il Manifesto di Ventotene, tanto per rimanere nell’attualità, del quale il nostro è stato a distanza un ispiratore, ma su molti aspetti del quale non sarebbe stato d’accordo) con la consapevolezza della distanza temporale che è intercorsa. Quindi parlerò (come al solito) molto di me, di quel me che nel suo piccolo vorrebbe sentirsi compagno di spiriti come quello di Caffi, e in qualche modestissima misura depositario del loro insegnamento. Va da sé che tali considerazioni sono meno “utili”, non hanno la pretesa di fornire alcuna “interpretazione autentica”, e che danno per scontata la conoscenza dei testi cui mi riferisco, in assenza della quale sarà difficile coglierne appieno il senso: ma confido possano magari essere di stimolo proprio a recuperare questa conoscenza.

Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte, Tolosa 1947

Amicizia

Quando mi imbatto in personaggi della stoffa di Caffi provo immancabilmente disappunto per non averli incontrati prima. Nel suo caso, come dicevo sopra, non si tratta del rammarico per una mancata consuetudine diretta (è morto quando avevo sette anni, anagraficamente poteva essere mio nonno), ma dell’irritazione per non essere arrivato a conoscenza del suo pensiero, e della sua stessa esistenza, sino a pochi decenni fa. Penso che leggerlo ai tempi della mia prima formazione mi avrebbe risparmiato parecchi giri a vuoto nei meandri delle varie sinistre, e mi è di scarsa consolazione l’essere approdato, con un percorso molto personale e spesso contradditorio, a una particolare consonanza con molte delle sue analisi e delle sue valutazioni e coi suoi convincimenti, lo scoprire che un itinerario abbastanza simile al mio era già stato compiuto, con ben altri esiti, da una mente di quel calibro. Un conto però era percorrere quella strada un secolo fa, come fece Caffi, viaggiare controcorrente nel pieno della bufera della transizione verso un “nuovo ordine” politico, culturale e sociale, denunciare le menzogne e le illusioni dietro le quali si nascondeva, sotto nuove spoglie, l’eterna prosaica lotta per il potere; e almeno in parte lo sarebbe stato ancora sessant’anni fa, quando si era costretti a zigzagare tra le ubriacature ideologiche e il vandalismo decostruzionista che hanno accompagnato la nascita della società post-moderna. Altra cosa è doversi limitare a prendere atto oggi, col senno di poi, delle false piste e delle disillusioni indotte, oltre che dalla mia indubbia ignoranza, dalla malafede (per usare un termine di Chiaromonte) altrui.

L’impressione che Caffi ha lasciato nel cuore e nella testa di chi lo ha frequentato mi dice che mi sono perso davvero molto. Possedeva un’erudizione sterminata, tutt’altro però che esibita e spocchiosa, anzi, messa totalmente al servizio della funzione reciprocamente accrescitiva che attribuiva all’amicizia. Prezzolini racconta: «Era curioso che un uomo sapesse tante cose senza avere accanto una biblioteca personale. Se in una conversazione usciva qualche frase contenente un’inesattezza, si poteva esser sicuri che il giorno dopo si riceveva una lettera di lunghe correzioni e prove. Da giovane, mi accadde di dire qualche corbelleria intorno all’Ucraina, e credo di conservare ancora una lettera di trenta pagine nella quale mi faceva tutta la storia della lingua, della letteratura e della nazione ucraina. Tutto questo, certamente, senza consultare un libro, senza chiedere il parere di nessuno […]». (In realtà, a stesura ultimata di questo scritto ho fortunosamente rintracciato il testo della lettera: le pagine erano probabilmente non più di mezza dozzina – a stampa sono tre – e l’occasione era una recensione frettolosa comparsa su La Voce. Caffi avrebbe apprezzato questa precisazione, e tuttavia ho voluto citare la versione “mitizzante” data da Prezzolini, perché credo che anche questa non gli sarebbe spiaciuta).

È comunque ciò che ci si dovrebbe attendere da un vero amico: e in effetti per Caffi l’amicizia gioca un ruolo assolutamente centrale. Parla spesso di “filia”, riprendendo il termine nell’accezione aristotelica di empatia e di solidarietà reciproca, e intende questo sentimento come il valore fondante e il nerbo vero della socialità. «La realtà […] del tessuto sociale – scrive – consiste unicamente in un sistema di molteplici “azioni reciproche” fra individui con infinite gradazioni di spontaneità. realtà […] Fuori degli individui che vivono insieme e agiscono in rapporti reciproci, non vi è nessuna realtà concreta in quel complesso fenomeno che s’usa riassumere nella parola “società”

La relazione che si stabilisce entro il “gruppo d’amici” così come la immagina Caffi è caratterizzata dalla possibilità per ciascuno di esprimersi in totale libertà e di esercitare il proprio spirito critico, dal rispetto delle singole individualità che in positivo diventa solidarietà: dall’etica del dialogo insomma, che si contrappone all’etica della potenza e della prevaricazione.

Di questo specialissimo rapporto dà un’interpretazione molto efficace Massimo La Torre ne Il profeta muto. Politica e cultura nell’opera di Andrea Caffi. «Caffi si richiama alla philia, all’amicizia, piuttosto che alla fratellanza, alla fraternité della grande rivoluzione. […] La fratellanza si basa sull’assunzione di una natura umana che ci unisce fondamentalmente attraverso il sentimento della compassione. Essa rappresenta pertanto un sentimento generosissimo che si rivolge in maniera indiscriminata verso ogni nostro simile. La fratellanza non sceglie i propri soggetti, essa è per certi versi un dato primitivo dell’esperienza. Non si sceglie un fratello: lo si trova. […] La compassione, la pietà o la solidarietà, che costituiscono il nocciolo della fratellanza, si danno a tutti, anche ai malvagi, se si trovano in stato di bisogno. L’amicizia invece è selettiva. Ci si sceglie l’amico, non lo si trova già dato per una relazione di natura. L’amicizia si instaura tra soggetti che si stimano reciprocamente, e che si scambiano il dono della fiducia. E se la fiducia è tradita, l’amicizia si rompe. […] Mentre la fratellanza presuppone soltanto un’eguaglianza naturale, l’eguale condizione umana – ma può invece tollerare diseguaglianze sociali anche rilevanti – l’amicizia è possibile solo tra soggetti che si riconoscono una pari dignità e si collocano su posizioni di forza grosso modo equivalenti». Per questo «è bidirezionale, dialogica: si dà e si dice, ma ci si aspetta un riscontro, un dire o un dare più o meno equivalente». E ciò fa sì che possa costituire la base per un vero e proprio vincolo sociale e politico.

Proprio da questa centralità dell’amicizia, che si traduce anzitutto in esemplarità, lealtà e coerenza, occorre partire per seguire il filo del discorso di Caffi. Quindi, nell’ordine, semplificando al massimo: viene anzitutto la coscienza individuale (quando esista, naturalmente: e non è detto che la capacità di coltivarla sia propria a tutti), che si esplica e si accresce nel confronto empatico con altre coscienze, creando un rapporto che a sua volta entra in rete con altri sodalizi similmente fondati sulla reciprocità, in una interazione sempre maggiormente estesa (anche se di sempre minore intensità), fino a costituire il tessuto sociale.

Non è una concezione così banale e campata per aria: ribalta il concetto che sta a monte di quasi tutte le ideologie rivoluzionarie, quella marxista in primis, che partono dalla costruzione (più o meno violenta, guidata da “rivoluzionari professionisti” e imposta alle masse) di una società che a sua volta formi o rimodelli le coscienze individuali. Non è lontana dalla “rivoluzione individuale” predicata da Gustav Landauer, e corrisponde grosso modo all’idea di socialità che ho sempre coltivato anch’io, comprensiva sia della consapevolezza di un certo elitarismo e di una valenza fortemente utopica, sia anche di una realistica dose di disincanto, per cui il valore primario rimane quello della socievolezza insito nel rapporto amicale, indipendentemente dal fatto che questa possa poi tradursi in società. Alla luce delle pur scarse esperienze di azione politica che ho maturato non posso che condividere questa impostazione (cfr. Fare le pulci, in Muli, gitanti e cavalieri erranti).

Socialismo

«Se il socialismo oggigiorno non può essere altra cosa che un “apparato” d’azione politica (con stinte o tarlate coperture ideologiche) impegnato – assieme ad altri partiti – nel mesto compito di mantenere più l’apparenza che la sostanza di regimi “democratici” in una Europa sconquassata e imbarbarita, non vale proprio la pena di essere socialista piuttosto che radicale o liberale o magari democratico-cristiano; se invece intendiamo per socialismo la continuazione – con discesa nel popolo – delle grandiose ed audacissime speranze concepite nel Settecento, di attuare una completa emancipazione della ragione umana, sui principii della quale è unicamente possibile fondare la pace, la fraternità, la felicità per tutti – allora dobbiamo cominciare col riconoscere che tutti gli eventi dall’agosto 1914 in poi hanno calpestato, soffocato, deviato questo movimento – e che … bisogna ricominciare da capo

Dovessi però spiegare cosa “concretamente” intende Caffi per socialismo sarei in grossa difficoltà. E in qualche modo lo era anche lui. Intanto perché non amava affatto gli “ismi”, e usa il termine solo nella misura in cui connota una generica disposizione di spirito nei confronti dell’assetto sociale. D’altro canto, ha vissuto dall’interno – molto dall’interno, addirittura tra i muri della Lubianka, in attesa di essere fucilato – l’instaurazione di un “regime socialista”, della “dittatura del proletariato”.

Era esattamente quello che aveva paventato fin dalla sua prima militanza menscevica, e che gli era stato confermato già allo scoppio della Prima guerra mondiale, quando tutti i partiti affiliati alla Seconda Internazionale avevano appoggiato l’interventismo scellerato degli stati nazionali. Era il logico sbocco di una concezione della politica solo apparentemente “rivoluzionaria”, nella realtà mirata essenzialmente alla conquista del potere e all’esercizio del dominio, e come tale intrisa totalmente dalla violenza.

A ben considerare, tuttavia, la spiegazione non sarebbe solo difficile. Sarebbe inutile. Il linguaggio di Caffi è infatti quello di un impolitico, di un radicale intransigente, cosmopolita e aristocratico, senz’altro legato più all’utopismo ottocentesco che alla pragmatica concretezza dei “socialisti reali”.

Per lui ogni forma di organizzazione che non riconosca come fondamentali nozioni quali civiltà, dignità, giustizia, eguaglianza, fratellanza, gentilezza, ha nulla a che vedere col socialismo. Non possono essere fondanti i rapporti economici o quelli di classe, non si può ridurre l’eguaglianza ai soli aspetti della distribuzione quantitativa. «Non sono tanto le letture, i classici del marxismo, o dei revisori di Marx, degli ortodossi o degli eterodossi del marxismo a creare il socialismo. Il socialismo nasce sul campo, dai rapporti di empatia e “filia” che l’individuo riesce a creare con chi si trova di fronte.»

Il criterio che sta alla base del marxismo, il “materialismo storico”, per il quale i rapporti di produzione che costituiscono la struttura economica sono il terreno concreto su cui viene eretta poi una sovrastruttura giuridica e politica, è a suo parere assolutamente riduttivo, riconduce tutto a un razionalismo artificioso. Non tiene conto infatti che la socievolezza «produce motivi d’affetto, di comunione, di dedizione, di gelosia, che hanno poco a che vedere o addirittura contrastano le finalità economiche». In altre parole, a muovere gli uomini non sono solo i criteri razionali del rendimento economico, perseguiti attraverso la ricerca del potere.

Insomma. Caffi non dà mai del socialismo una definizione nei termini squisitamente “politici”, o almeno in quelli dell’accezione “moderna” della politica. Non lo fa volutamente, perché una traduzione in quei termini costituirebbe per lui uno stravolgimento del suo reale significato.

«Ora il socialismo deriva il suo stesso nome, il suo pathos, la sua gloriosa qualifica di “neo-umanesimo”, proprio dal fatto che si è eretto a difesa della “società” contro gli inumani congegni dell’“ordinamento statale” ed ha perseguito la completa emancipazione della società – delle concrete comunità di uomini vivi – dal coercitivo sistema, dove gli uomini non figurano che come numeri, “soggetti”, schede. E se il socialismo abbandona questo motivo dominante, non troverà più argomenti, né morale sostegno per combattere la dittatura comunista.»

Dice piuttosto cosa non è. E la sua concezione la si ritrova diffusa in ogni sua pagina, e in ogni scelta comportamentale. «Oggi, il moltiplicarsi di gruppi di amici, partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per gli stessi valori avrebbe più importanza di qualsiasi macchina di propaganda. Tali gruppi non avrebbero bisogno di regole obbligatorie né di ortodossie ideologiche; non fiderebbero sull’azione collettiva, ma piuttosto sull’iniziativa individuale e sulla solidarietà che può esistere fra amici che si conoscono bene e dei quali nessuno persegue fini di potenza.»

Il suo socialismo è dunque da intendersi in senso etimologico: viene dalla società, che come abbiamo già visto è innanzitutto un insieme di individui, ma che «esiste solo sopra un certo livello di dignità umana. Se vissuta secondo verità e giustizia da individui che si sentano “personalmente responsabili” e assolutamente uguali, impegnati a rispettare l’autonomia sovrana della persona altrui». Ovvero, solo dove vige il rispetto di sé e degli altri.

Il socialismo consiste in definitiva per lui nella organizzazione il meno possibile coercitiva e gerarchizzata di questi rapporti, nel renderli possibili e nello sganciarli dai criteri del “rendimento economico”, per indirizzarli invece alla verità, alla giustizia e all’uguaglianza. Si fonda sulla libera socievolezza, e quindi rifiuta le tendenze autoritarie e l’esercizio della violenza, ma anche le istituzioni in generale. Prima tra tutte, lo Stato.

 

Stato, popolo, società

Lo Stato (che identifica col “governo”) è per Caffi un apparato burocratico e militare messo in piedi ai fini del dominio. Una struttura di potere che tiene in soggezione il “popolo”. Il quale “popolo” non è affatto depositario di quelle particolari virtù morali che troppi letterati romantici o una demagogia d’accatto gli attribuiscono (sagacia, generosità, modestia, dignità, ecc…), di una saggezza «i cui effetti miracolosi si produrrebbero di colpo non appena spezzate le catene del servaggio. L’esistenza di tali catene non è un accidente assurdo […] la loro conservazione e il loro aggravamento millenario non si spiegano senza la complicità essenziale dei prigionieri. […] Dopotutto, molti dei seguaci di Mussolini e di Hitler sono “popolo”». Di per sé il “popolo” è una entità amorfa, per certi versi “responsabile del suo stato di oppressione e sfruttamento”. Con la modernità poi è diventato sempre più “massa”: e a differenza del popolo la massa non ha più, a tenerla unita, un minimo di sentimento di appartenenza ad una comunità, nella quale si condividano almeno riti, credenze, tradizioni, e comunque momenti di sentire collettivi. «È uno stato dei sensi e della volontà nel quale l’individuo rimane fondamentalmente indifferente alla sorte dei suoi simili, con i quali tuttavia si aduna e si aggrega, e con i quali finisce per marciare al passo in formazioni serrate […]. La sua esistenza è inseparabile dal macchinismo in senso stretto, da quegli apparati giganteschi che assoggettano la società a una direzione totalitaria.» Caffi ha qui certo in mente le “adunate oceaniche”.

La trasformazione del popolo in “massa” è correlata ai mutamenti politico-economici intervenuti tra la fine e del settecento e quella dell’Ottocento: “Il fatto apparentemente privo d’importanza “ideologica” e “rivoluzionaria” che fu l’introduzione di uno stato civile tenuto da burocrati secondo metodi ricavati dalla “scienza impassibile” (nuda notazione dei fatti, subordinazione di ogni “qualità” a un ordine quantitativo, legame con la statistica, ecc …) ha tuttavia avuto ripercussioni più considerevoli che non si pensi. Lo stato civile uniforme, democratico, laico, è un particolare necessario di quel rimaneggiamento del regime sociale e dello Stato che ha stabilito l’eguaglianza davanti alla legge, la coscrizione, la potenza in certo senso assoluta e impersonale del denaro, la libertà di esercitare una professione o di cambiare. L’intenzione sembrava essere quella di sopprimere per astrazione o di ignorare radicalmente ogni “qualità intrinseca”, in quell’“unità” i cui caratteri distintivi si esprimevano in grandezze di tempo, di spazio, di volume, di livello, ecc… Il risultato era naturalmente di ribadire la potenza e la supremazia del generale sul particolare, della macchina sociale sull’individuo

Mentre il popolo subisce più o meno passivamente la soggezione, e la massa corre a farsi schedare e irreggimentare, unica ad opporre una resistenza, e quindi soggetta ad una azione maggiormente repressiva, è la “società”. «Conveniamo di chiamare “società” – scrive Caffi – l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei, e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza della libertà nella scelta delle relazioni, nella loro durata e nella loro rottura … uno stile di vita diretto a esaltare la socievolezza, la cortesia, l’amicizia.» E che evidentemente non possono essere inseriti “in questa o in quella colonna di cifre statistiche”.

Ora, dice Caffi, «il socialismo deriva il suo stesso nome, il suo pathos, la sua gloriosa pretesa alla qualifica di “nuovo umanesimo” proprio dal fatto che si è eretto a difesa della “società” contro gli inumani congegni dell’“ordinamento statale”, ed ha perseguito la completa emancipazione della società – delle concrete comunità di uomini vivi – dal coercitivo sistema, dove gli uomini non figurano che come numeri, “soggetti”.».

Quindi: la “società” nasce per aggregazione spontanea e non si organizza gerarchicamente, non si identifica con una particolare classe sociale o con un gruppo economico, non si compromette con il potere e non coltiva ambizioni di dominio. Caffi è consapevole che questo stile di vita presuppone condizioni particolari, e infatti ammette: «la vita di società si realizza ad opera di un ceto emancipato dalla necessità di lavorare e, almeno fino ad un certo punto attaccato alle seduzioni della vita privata, e talvolta anche a quelle della “vita interiore”». E si rende anche conto che queste condizioni sono tutt’altro che la norma, che la “società” dunque risulta particolarmente vulnerabile, per cui necessita di godere di tranquillità politica e sociale, e di bandire ogni forma di violenza.

Ma come può esistere una società nella quale le differenze (e quindi le attitudini, le competenze) dei singoli non si traducano in disuguaglianze?

«Gerarchie veramente sentite e spontaneamente volute esistono certamente, ma non si trovano là dove c’è chi comanda e chi obbedisce, dei capi e una massa, dei privilegiati e dei diseredati. Si trovano nelle comunità autentiche, religiose, politiche o semplicemente sociali che siano, dove l’autorità riconosciuta si esercita nel riconoscimento di un’eguaglianza, di una comunanza o di una fraternità fondamentale».

Le gerarchie nascono spontaneamente quando si danno occasioni nelle quali diventa necessario attribuire a qualcuno un ruolo decisionale, e che questo ruolo qualcuno sia disposto ad assumerselo. Ma sono appunto occasioni, situazioni particolari, e la delega non può diventare sistema.

«C’è un limite chiaro, varcato il quale il “senso di responsabilità”, la forza d’animo per cui si accetta di rispondere personalmente del successo di un’impresa comune di fronte ai compagni impegnati nell’impresa su piede d’eguaglianza e con egual diritto a beneficiare del risultato, muta di carattere e di natura: è il momento in cui si attribuisce a se stessi, in qualità di capo, potere di comando sugli altri, ossia il diritto di servirsene come mezzi per ottenere un certo scopo di cui si vuoi essere il solo a detenere la gloria e i vantaggi. Questo limite coincide in sostanza con la sostituzione della volontà d’efficacia al senso dell’obbligo verso gli altri, considerati come propri eguali, oppure verso coloro dei quali ci si è assunta appunto la responsabilità. Una guida di montagna si preoccuperà di riportare a valle tutto il suo gruppo sano e salvo: per lui, sarà sconfitta bruciante se un incidente grave capiterà sia pure a uno solo della cordata; ma un generale non sarà soddisfatto se non avrà raggiunto l’“obbiettivo prescritto”, magari col sacrifizio di tre quarti dei suoi soldati.»

Tutto ciò ha evidentemente poco a che fare con l’idea della politica che si è affermata nel mondo moderno (ben diversa dalla politeia di cui parlavano i greci), e mette in discussione le forme e i mezzi con i quali può essere esercitato il potere, oltre che l’idea stessa di potere. Ogni forma di potere è una limitazione della libera espressione individuale, unica guida della quale dovrebbe essere il senso di responsabilità. «Quanto meno è formato da individui responsabili tanto più il popolo ha bisogno di essere governato, assoggettato a un potere che non può essere esercitato che con la violenza.» Quindi i rapporti politici non solo non agevolano la crescita dei legami spontanei e creativi tra individui e gruppi, ma anzi, ne rappresentano una vera e propria antitesi, li snaturano e li travisano. Se si vorrà costruire una società in cui possano fiorire socievolezza e fratellanza lo si dovrà fare contro o nonostante la politica.

Di conseguenza Caffi afferma che «l’obiettivo essenziale di una politica socialista, oggi, non potrebbe che essere che la lotta tenace contro la “macchina” dello Stato nazionale, che è diventato l’agente principale, se non unico, dell’oppressione sociale». E si riferisce a quella forma di statualità che ha mostrato la peggiore e più veritiera immagine di sé a partire dal 1914, dalla guerra mondiale, in occasione della quale il suo intrinseco legame con l’esercizio della violenza si è palesemente rivelato, ma che già era andato affermandosi nel corso del XIX secolo con l’adozione del modello Stato-Nazione, quello per intenderci che sfocerà nel culto del “sangue e suolo”. La dissoluzione dell’ancien régime, delle monarchie dinastiche ereditarie, ecc… ha fatto spazio, per adeguare il mondo alle esigenze del nuovo modo di produzione industriale, alla creazione del mito della Nazione, dei suoi sacri confini. Questo ha reso se possibile più sanguinosi i conflitti, che coinvolgono tutta la popolazione e diventano terreno di sperimentazione, di innovazione tecnologica, di stimolo alla produzione industriale.

Quindi: lo stato va scomposto in unità territoriali e sociali subnazionali, in ordine inversamente crescente di responsabilizzazione amministrativa e di partecipazione diretta alla stessa di tutti gli individui. Ma soprattutto gli va sottratto il monopolio del diritto, che non può essere uno per tutti, fissato per sempre, ma frutto di creatività continua e attenta ad ogni specifica situazione.

Democrazia e libertà

Piaccia o meno, gli stati esistono, e con essi occorre confrontarsi. Lo scontro è evidente e inevitabile là dove il potere politico si configura come un’autocrazia; più difficile invece far prendere coscienza della necessità di questa opposizione dove la facciata appare democratica: «I regimi moderni, abusivamente qualificati come “democratici”, sono in realtà una combinazione di “ochlocrazia” (sovranità più apparente che reale di folle senza coesione) con la plutocrazia – regno effettivo delle grosse fortune».

Con queste premesse si capisce come Caffi non possa essere un entusiasta sostenitore della democrazia parlamentare, “borghese”. E meno che mai lo è di quella sedicente “diretta”. L’idea che ha della democrazia non si concilia con alcuno dei sistemi politici esistenti al suo tempo. «La democrazia quale funziona oggi nei grandi Stati moderni non può più essere considerata terreno naturalmente propizio ai progressi del socialismo». Non solo. La storia, e la sua personale esperienza, insegnano che: «se si ammette la delega della “sovranità popolare” sia di un uomo sia di un partito politico, i risultati tipici che offre sinora l’esperienza della storia sono da un lato il cesarismo plebiscitario, dall’altro quella vera (o “nuova”) democrazia che rende ora felici i polacchi, i bulgari, gli jugoslavi».

Quanto alla democrazia diretta: «Scartiamo decisamente l’assurda supposizione che “democrazia” debba significare “popolo governato dal popolo stesso”. Nessuna adunata di popolo (e neppure alcuna assemblea tampoco numerosa) ha mai potuto effettivamente governare, esercitando cioè in concreto i “poteri” (legislativo, esecutivo, giudiziario, ecc…), neppure in una minuscola città greca o in quei cantoni rurali della Svizzera famosi come esempi di democrazia diretta». Questo perché non ha alcuna fiducia particolare nel “popolo”, sempre più sul punto di diventare “massa”.

Insomma, la democrazia è interpretata da Caffi in funzione “difensiva”, più che propositiva: non deve essere intesa come regime di governo, ma piuttosto come regime di diritti: «La realtà della democrazia s’afferma non con la fiducia negli eletti, ma con la possibilità di manifestare efficacemente la propria sfiducia verso di loro, di controllarli ad ogni passo, di limitarli in funzioni strettamente definite». Ciò significa che è necessario difendere la democrazia “formale” (dove formale significa ispirata e fedele agli inderogabili principi di verità – ovvero trasparenza – e di giustizia – ovvero eguaglianza) contro chi è pronto a sacrificarla a quella “sostanziale” (ovvero a quella che si spaccia come realizzata negli stati liberaldemocratici di origine ottocentesca). I principi, al di là della possibilità di tradurli poi in prassi politica, vanno salvaguardati contro ogni snaturamento e compromesso.

È evidente comunque che ritiene attuabile questa difesa solo nei piccoli circoli di “resistenza” contro la macchina burocratica, quelli nei quali identifica la “società”. Della loro libertà la democrazia deve farsi garante: «La sostanza dell’ordinamento democratico sta nella difesa della incolumità personale di ogni cittadino contro qualsiasi arbitrio o eccesso della “potestà coercitiva” e nel raggiungimento di un massimo di uguaglianza, quell’uguaglianza che deve essere estesa a tutti gli uomini, senza mai ammettere alcuna idea di superiorità o inferiorità né tra persone né fra gruppi».

Vedo però a questo punto che sto girando attorno al nodo della questione. Che è: in positivo, come modalità politica e amministrativa quotidiana, la “democrazia” ha qualche chance di funzionare? Confesso che non ho trovato in Caffi indicazioni convinte, se non i riferimenti alle autonomie diffuse, ad una democrazia “locale”, applicabile in ambiti estremamente ristretti. La verità è, a mio parere, che in fondo Caffi, anche senza aver mai avuto esperienza di un’assemblea di condominio, non sia affatto persuaso della possibilità di un esercizio “universale” della democrazia. Almeno nell’immediato, ma anche a breve termine. Ha una sua idea della democrazia, la migliore in assoluto, perché si fonda sul presupposto della partecipazione cosciente e responsabile di tutti i singoli individui, e perché si pone come scopo la verità e la giustizia: ma sa perfettamente che nella realtà quel presupposto non è affatto dato, che la maggioranza degli individui è popolo, o addirittura massa. E allora non rinuncia al suo ideale, lo conserva intatto da compromessi: ma non ne fa una bandiera d’attacco quanto piuttosto un vessillo di resistenza.

Caffi si candida dunque, anche all’interno di un regime “democratico”, a vivere in minoranza. Lo afferma esplicitamente, quando rivendica il ruolo e la dignità delle minoranze. Le minoranze non hanno l’obbligo di cercare di diventare maggioranze. Devono avere coscienza di sé, e del fatto che magari i più possono non condividere le loro proposte e il loro operato. Non devono conquistare il potere, ma condizionarlo, e per quanto possibile svuotarlo.

«I cenacoli di libertini e di enciclopedisti, le piccole “società di atei” di cui parlano volentieri Fielding e Smollett, le Logge massoniche e i “salotti dove si conversava” svolsero una propaganda irresistibile, mettendo in contatto gli spiriti liberi da un capo all’altro d’Europa. Quegli uomini non avevano alcun bisogno di un’organizzazione centrale che prendesse decisioni e applicasse sanzioni in loro nome. Il loro scopo era di trasformare i modi di pensare e i costumi piuttosto che le cose, e perciò la loro opera portò nel mondo un cambiamento reale.»

Può non sembrare tale, ma è un’alternativa molto più realistica del mettersi in concorrenza con chi il potere ce l’ha, a meno di accettare di scendere sul suo stesso piano. Che non prevede il perseguire verità e giustizia. E non salvaguarda la libertà.

Su cosa poi si debba intendere, concretamente, per “libertà” Caffi è molto asciutto: «Dovunque si abbia vita in comune (e dove non si ha vita in comune con gli altri?) la libertà è che mi si lasci in pace il più possibile, sicché io non abbia a scervellarmi sulla famosa scelta fra “libertà astratta” e “libertà concreta”, democrazia “formale” e democrazia “sostanziale”. Se non ho paura di esser svegliato alle sei di mattina dalla NKVD o dalla Gestapo, sono libero; se no, non lo sono, e non c’è altro da dire».

Non si può certo dire che parli senza cognizione di causa.


Europeismo

In opposizione al modello dello Stato-Nazione Caffi propone quello antistatalista di una federazione europea. Lo fa già nei primi anni Venti. È reduce dalla devastante esperienza della guerra e dalla delusione per gli esiti della rivoluzione bolscevica, e assiste da un lato a un riassetto dei confini che non tiene in minimo conto le aspirazioni dei popoli, dall’altro all’esplodere dalle contraddizioni all’interno della sinistra, di quella italiana e di quelle europee, proprio in merito alle valutazioni su quella rivoluzione. Inoltre si è formato sui testi di Pierre-Joseph Proudhon, che rimarranno sempre un suo riferimento, e sul ricordo dell’esperienza dei populisti russi; dagli uni e dall’altro mutua l’idea del federalismo.

Meno significativa, o addirittura quasi nulla, l’influenza esercitata su di lui dai federalisti italiani risorgimentali, quali Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. In effetti la loro concezione del federalismo rimaneva tutta interna al gioco politico e a quello economico. Doveva garantire la convivenza pacifica tra le nazioni. Per Caffi invece il federalismo è l’unico assetto istituzionale che garantisca la libertà degli individui e delle comunità (o, se vogliamo, della società). Permette infatti di abolire il dispotismo dello stato centralizzato, che impone la propria volontà alla società tramite un rapporto che va dall’alto al basso. L’organizzazione deve al contrario nascere dal basso, dalla libera federazione degli individui nei comuni, dei comuni nelle provincie, delle provincie nelle nazioni e infine di queste ultime negli Stati Uniti d’Europa (e magari più tardi del mondo intero).

La sua è una proposta radicale, fondata sul completo superamento dell’idea di “sovranità” nazionale. E tanto più lo diventa dopo che è passato attraverso una seconda guerra fratricida. Nel 1946 in una lettera scrive: «Se vogliamo sul serio salvare la società dalle guerre, dai governi totalitari e da tutte le bestialità che questi due aspetti d’un medesimo fenomeno implicano […] bisogna abbattere al più presto l’idolo della nazione; in particolare l’Europa sarà ridotta allo stato di “giungla” (terreno per tigri e grossi cacciatori) se non si rinuncia radicalmente alle “sovranità nazionali”, agli orgogli e “sacri egoismi” patriottici, alla superstizione della solidarietà etnica in nome della quale bisogna uccidere e morire».

Il che non significa però negare un riconoscimento delle identità nazionali e di un senso del radicamento che risponde alla necessità di riconoscersi in un passato, al bisogno di una identità collettiva. Significa invece che questi bisogni vanno sottratti alle sirene nazionalistiche che suggeriscono vendette e sanguinose rivalse, e vanno incanalati a rendere coscienti gli individui di una possibilità di coesistenza autonoma, e soprattutto di partecipazione diretta al governo della futura entità sovranazionale.

«La nazione come patrimonio culturale (lingua, “memorie comuni”, costumi nella misura della nostra vita planetaria) si deve dissociare da qualsiasi formazione politica, privare completamente d’ogni mezzo di coercizione e suoi “membri” – che tali saranno unicamente per spontanea e revocabile adesione. […] Se per ragioni ovvie conviene che ogni regione abbia un suo autonomo governo, bisogna stabilire fra i vari “paesi” patti non di semplice “amicizia, non aggressione” ecc … – ma di completa “simpolitia” (usando un vocabolo che definiva l’unione per esempio fra Atene e Samo) per cui cioè, senza formalità alcuna, il “cittadino” d’un paese trasferendosi in un altro vi godrà degli identici diritti che gli “indigeni” di quello

Le posizioni di Caffi sul socialismo, sulla politica, sul potere, nonché quelle sulla democrazia, sulla libertà e sulla non violenza, sono destinate a rimanere minoritarie (se non addirittura isolate) nella sinistra italiana dell’epoca, in quella liberal-democratica come in quella socialdemocratica, per non parlare poi di quella “ortodossamente” marxista. La cosa vale tanto più per la sua concezione dell’europeismo, rispetto alla quale anche i ristrettissimi gruppi che immediatamente dopo sia il primo che il secondo conflitto mondiale sembrano imboccare quella direzione rimangono molto tiepidi.

Tale marginalità si è protratta sino ad oggi, al punto che quando si parla dei precursori del pensiero europeista Caffi non viene mai menzionato. Eppure quelle posizioni erano di una rarissima lucidità e conservano oggi una sorprendente attualità. Il suo disegno di una Europa federale pare scritto in questi giorni, e anticipa di un secolo tesi e proposte sulle quali con molta minore lucidità e convinzione, in piena emergenza di sfaldamento dell’Occidente, si sta ora quotidianamente discutendo (non quella di un “riarmo”, naturalmente). Ad esempio, Caffi, quasi solo anche nel ristretto circolo degli europeisti tra le due guerre, vede il rischio comportato da un’unione economica che anticipi quella politica, in ciò andando in controtendenza rispetto a quanto da tre quarti di secolo a questa parte è stato invece fatto.

Non oso immaginare cosa penserebbe oggi al cospetto di un elefante burocratico che dopo una gestazione di settant’anni ha partorito topolini ciechi e rissosi, e che in luogo del senso di comunità ha messo in circolazione solo la moneta unica.

Andrea Caffi e l’amico Gianni, Tolosa 1947

Intellettuali

L’insistenza sulla necessità urgente di adottare una visione federalista, espressa già da Caffi nell’immediato primo dopoguerra e ribadita sino agli ultimi suoi giorni, suona da monito alla classe intellettuale antifascista (quella che dovrebbe esprimere la futura “società”). Gli intellettuali di sinistra debbono darsi una svegliata e non arrendersi, o addirittura crogiolarsi, nella contemplazione delle rovine della civiltà europea (a questo già ci pensa la destra: è di pochi anni dopo Il tramonto dell’Occidente di Spengler). Devono elaborare un progetto di fratellanza sovranazionale, costruire una visione capace di entusiasmare le giovani generazioni, un ideale da offrire loro in alternativa alle parole d’ordine barbariche diffuse dai fascismi; il tutto tenendo sempre ben presente che i fascismi sono solo la manifestazione più eclatante, e certo nell’immediato più pericolosa, di una crisi molto più profonda e diffusa della coscienza europea. Ma deve trattarsi di progetti e visioni che prescindono da ogni calcolo economicistico.

In tal senso va interpretata la riflessione che Caffi fa sul rapporto tra i giovani e il fascismo: «Poco importa loro la meta, di solito così fantastica che ogni tentativo di precisarla finirebbe in delusione: ciò che conta è il temerario cimento, è l’occasione di drammatici sacrifici. Affascina il sogno di “vivere pericolosamente, di poter servire e comandare con tutto impegno” e soprattutto di trovarsi in permanenza “come in guerra”, cioè sbarazzati da tutte le norme e le abitudini del “consorzio civile”». Questo la sinistra dovrebbe avere ben presente, e sbarazzarsi del dogmatismo del “materialismo storico” e delle dispute sulle interpretazioni più o meno autentiche del verbo marxista.

Dovrebbe anche, secondo Caffi, fare i conti con la mitologia risorgimentale. A dispetto della militanza del nonno, è molto critico nei confronti del Risorgimento, soprattutto di Mazzini, ritenendo che proprio la nascita degli stati nazionali, destinati a confrontarsi immediatamente nella logica del potere. violenza, rappresenti oggi l’ostacolo all’unificazione europea, e spieghi la deriva totalitaria.

«Se mi fosse dunque permesso di dare un consiglio, raccomanderei la rinuncia ad ogni conato di collegare il movimento rivoluzionario a cui vorremmo chiamare gli “europei svegli” e le “sacre memorie” del Risorgimento italiano. Anzitutto, perché questo residuo di vanità nazionale è da “mettere in soffitta”. Poi perché nel Risorgimento italiano prevalgono elementi, ai quali i nostri avversari hanno più ragione di attingere che non noialtri, sovversivi senza riguardi.»

Come a dire che il fascismo era già in qualche modo intrinseco al pensiero risorgimentale. Questo giudizio pone fine alla collaborazione con Carlo Rosselli e con il gruppo di Giustizia e Libertà, che danno invece credito al racconto di un Risorgimento popolare.

Non è comunque l’unico motivo di rottura. Caffi è anche contrario a “fronti popolari” che implichino una coabitazione col comunismo staliniano. Significherebbe a suo giudizio svendere per un piatto di lenticchie, tra l’altro guaste, le idealità che devono animare una genuina resistenza ai totalitarismi: a tutti, quale che sia l’etichetta politica dietro la quale si mascherano.

«La rivoluzione che ci libererà dal fascismo – sarà un movimento veramente efficace se allo stesso tempo porterà un più alto tono, un “clima” più fecondo nella vita sociale e nella vita spirituale degli italiani. Inoltre, il fascismo non essendo un problema particolare all’Italia, ma una crisi della società e della coltura europea, è ovvio che per “superarlo” bisogna mettere in campo, “valorizzare” tutte le forze vive e tutta l’esperienza accumulata appunto “nei vari campi dell’attività umana”: giungere cioè ad un modo di concepire e di attuare la giustizia, l’eguaglianza sociale, la libertà dell’uomo e delle associazioni umane, che corrisponda veramente alle esigenze morali, intellettuali, estetiche, religiose, quali l’epoca nostra le ha rivelate o fatte maturare nelle così dette “avanguardie” attraverso le più diverse forme di ricerca della verità.»

Verità

Della verità, appunto. «Il mio terzo principio l’ho attinto dalla lettura di Erodoto che ai giovani persiani si insegnava soprattutto di “dire sempre la verità”. M’è sembrato che l’esperienza della vita confermasse la bontà di tale precetto – e che la furbizia “politica” avesse sempre “le gambe corte”. Se si è potuto augurare che “da persone oneste” si comportassero gli Stati, perché non fare lo stesso augurio per i partiti politici? Può essere qualche volta incomodo e qualche volta ridicolo. Ma pure il ridicolo è sempre stato impavidamente affrontato dagli apostoli d’un movimento veramente grande.»

Caffi individua precocemente un aspetto cruciale del futuro che si va delineando: la manipolazione delle masse operata dal nuovo populismo, di destra o di sinistra, attraverso la falsificazione della “verità”. Sembra intuire addirittura quello che un secolo dopo sarà il fenomeno della post-verità. Oserei dire però che ne ha già conosciuta la concreta esemplificazione nel titolo, nei modi e nei contenuti dell’organo ufficiale dei bolscevichi, la Pravda (la Verità), e questo è stato forse il primo degli aspetti del nuovo regime a disilluderlo. Oggi in Italia ne troverebbe sotto lo stesso titolo una grottesca parodia.

Non è comunque l’unico della sua generazione di libertari a insistere su questo tema, basti pensare ad Ortega y Gasset, o ancor più a Orwell. E non scopre nulla di nuovo: la manipolazione della verità, assieme al ripetersi dei massacri, è una delle costanti della storia e dei rapporti di potere. Di nuovo c’è il fatto che ora il terzo incomodo in questi rapporti, la “società”, gode di una autonomia sufficiente per metterla a nudo. La post-verità tuttavia va oltre la manipolazione: quest’ultima è la narrazione distorta o anche totalmente stravolta dei fatti, ma gira comunque attorno ad essi ed è soggetta a smentite e a revisioni, mentre la prima opera già a partire dall’assunto che la verità sia una questione di secondaria importanza, e i fatti li inventa. Fa leva quindi sull’ignoranza dei riceventi (il popolo, le masse), sulla pigrizia intellettuale di chi non vuole o non ha il coraggio di approfondire (gli intellettuali) e sulla determinazione degli emittenti (il potere, politico ed economico) ad asservire i primi e ad arruolare o mettere a tacere i secondi. E agisce subdolamente su vari piani, banalizzando la realtà dei problemi in slogan che non significano nulla (Via la guerra dalla storia, per citarne uno che ho sentito recentemente e che a Caffi sarebbe magari piaciuto, ma solo sulla bocca di chi la storia la conosce) e offrendo spiegazioni e soluzioni rapide con l’identificazione a tutti i costi di un responsabile, un individuo, un popolo, una classe sociale o economica. Identificare un responsabile è il modo per non considerarsi mai responsabili (in negativo) o per non diventarlo mai (in positivo, nell’accezione nella quale Caffi usa il termine). E in questo la sinistra, quando non è andata a rimorchio della destra, è stata addirittura anticipatrice.

Caffi sogna una società giusta ed equa, fondata sul “vero”. Quindi sulla presunzione che il “vero” esista. Ora, qui non si tratta di arrogarsi l’accesso ad un “vero” filosofico, assoluto: molto più semplicemente chiede sincerità e trasparenza, e le chiede in primo luogo agli intellettuali – chiede loro di raccontare le cose come stanno, come accadono, di non piegare la parola e la ricerca per imporre il proprio punto di vista o quello degli interessi che rappresentano.

In una lettera ad Angelo Tasca, suo compagno d’esilio in Francia, scrive: «Soltanto una cosa mi pare perniciosa, disperante e tale da rendere impossibile una partecipazione anche teorica: è l’assenza di schiettezza. […] intendo per tale assenza ogni sostituzione di idoli o schemi alla immediata visione di realtà umane: qualsiasi sussiego in nome di un “istituto”, d’una bandiera, d’una gerarchia, qualsiasi forma di patriottismo, qualsiasi pretesa di sacrificare il singolo ad una generica “collettività”, di calpestare o mutilare l’espressione personale per raggiungere “effetti di massa”; che da più di vent’anni tutti gli amici marxisti che ho avuto abbiano tacciato come “mentalità anarcoide – estetizzante – intellettualistica – piccolo borghese” questo punto di vista non può controbilanciare l’esperienza troppo sicura degli inevitabili sviluppi cui si va incontro, indulgendo a tali espedienti; sempre ho visto come risultato una degradazione e falsificazione dei migliori intenti ed anche dei migliori uomini. […]

Ecco quel chiamo assenza della schiettezza, causa di continue “delusioni” nel grande sforzo di emancipazione dell’uomo. Ben inteso non l’ascrivo a malvagità connaturata negli individui; è ovvio come tutto un reticolato di circostanze materiali, d’educazione, di inerzie consuete si sovrappongono alle migliori intenzioni di uomini rispettabilissimi. Ma la questione rimane angosciosa: se non si lacera quel reticolato (così se a principio d’ogni iniziativa sociale non si pone come regole assolute: a) di dire sempre la verità e tutta la verità; b) di evitare con sforzo massimo ogni manifestazione o reazione gregaria, ogni “semplificazione ad usum plebi”; c) di sabotare spietatamente ogni “apparecchio”, ogni fissazione di gerarchia, ogni durevole subordinazione dell’uomo a “istituti” o “capi”) sarà sempre fatica di Sisifo la riforma e del regime di proprietà».

Più chiaro di così …

Utopia

«Platone fu condotto a immaginare la Città dove “tutto sarebbe messo in comune” dal disgusto per la politica: non solo per la politica tirannica dei Trenta, alla quale si era trovato mescolato a causa dei suoi legami di famiglia, ma per quella dei loro successori “democratici” responsabili della morte di Socrate. L’esempio di Platone suggerisce che ci sono momenti, nella storia, in cui è ragionevole e lungimirante abbandonare ogni speranza di risultati immediati e massicci.»

A volte Caffi sembrerebbe tentato di seguire questo esempio, di arrendersi al disgusto e alle disillusioni che la politica gli ha provocato e di viaggiare con la mente verso l’isola che non c’è. O meglio, questo è ciò che gli contestano persino molti dei “compagni di strada” coi quali ha condiviso la lotta contro i totalitarismi. Una bravissima persona, una mente fuori del comune, ma una testa piena di sogni e un carattere incapace di venire a patti con la realtà. Il fatto è che la realtà Caffi la conosce benissimo, in genere molto meglio di chi lo taccia di fumisterie: talmente bene che non gli piace per nulla, e per questo vuole cambiarla.

Ha creduto anche lui, in gioventù, nella possibilità di arrivare con la rivoluzione a risultati massicci e immediati: ma quello che ha visto gli ha fatto capire che cambiare non significa mettere tutto sottosopra, favorire la rivalsa di una classe nei confronti di un’altra, ecc …, confidando che la storia faccia il suo corso. Occorre invece “ripartire da zero”, ma avendo ben chiari alcuni inderogabili valori: che devono essere ciò a cui si mira, ma al tempo stesso ciò in base a cui si agisce. Devono cioè ispirare tanto la meta quanto il metodo. Quando si è reso conto che la sua idea del mondo non combaciava col mondo, non era sovrapponibile alla realtà – e di questo si è accorto molto presto – non ha mollato tutto: ha risolto che in fin dei conti la cosa non fosse poi così determinante. Quel che contava era mantenere intatta una linea di pensiero che fornisse non il miraggio di un risultato finale, ma i dettami per il comportamento immediato. Perché era proprio quel comportamento, quel modo di “stare al mondo”, la vera meta. E quella linea di pensiero non può deviare sui compromessi, perché l’esperienza insegna che al di là di coloro che abbracciano le soluzioni compromissorie solo in funzione del proprio interesse, della propria partecipazione al potere, anche gli altri, quelli più sinceri e più puri, nel momento in cui cedono anche di un millimetro sui punti più importanti entrano nella logica del potere e finiscono per sacrificare ad essa i principi.

Questa convinzione fa di lui un “utopista consapevole”, uno che sogna da sveglio, sa di sognare, e proprio per questo col sogno non si trastulla (persino Lenin diceva che occorre essere seri coi propri sogni). Credo che questa consapevolezza gli sia stata dettata, oltre che dalle esperienze dirette, dal clima culturale nel quale era maturato a Pietroburgo, in un ambiente che conservava forte l’impronta dell’illuminismo (tra i suoi riferimenti ci sono Diderot e Condorcet) e al tempo la lezione di Aleksandr Herzen. Caffi infatti non è un sognatore romantico, e nemmeno crede nel progresso. Non dà una lettura evoluzionistica della storia, alla maniera di Spencer, né una finalistica alla maniera di Hegel. Non crede cioè che la società evolva sulla base di leggi proprie o di idealistiche finalità, e nemmeno che sia governata da superiori meccanismi economici. Nasce e si sviluppa in funzione di un bisogno, quello che lui chiama socievolezza, intrinseco alla natura umana.

Questo lo distingue dagli utopisti inconsapevoli. Sa che i sogni male interpretati possono diventare pericolosi, dei veri incubi, tanto quando vengono scambiasti per realtà quanto se si cerca di calarli forzatamente nella realtà. E il fronte sul quale si vede costretto a combattere più tenacemente è proprio quello interno al movimento, e di questo soffre moltissimo:

«Sento un isolamento morale più grave di ogni altro, oggi come oggi ho la certezza assoluta che nessuno di quelli che conosco vorrebbe prendermi a collaborare, diventarmi compagno di ricerche. Non è perché presuntuosamente io creda di arrampicarmi su vette più difficili di altri. È semplicemente il gioco delle combinazioni create dall’esistenza fatta finora da me: non posso entrare in un campo perché ne conosco altri che con questo non hanno né avranno mai punti di contatto. E la sintesi può interessare, appassionare, imporsi come indispensabile a me solo. Le assicuro che niente è così amaro come la coscienza di un “residuo” incomunicabile nei propri sentimenti, nei propri pensieri ogni volta che si avvicina con simpatia, con grande desiderio d’intendersi, uno che combatte in fin dei conti per la stessa meta: la liberazione spirituale degli uomini, il rinnovamento della nostra civiltà tutta.»

È una storia che si ripete, ogni volta che una mente sgombra riesce a inquadrare con sofferta lucidità la condizione umana. Non lo cita mai, ma a me fa venire in mente il Leopardi del venditore di almanacchi e delle passeggere: che fa razionalmente strage delle illusioni, ma sa che le illusioni, se coltivate nella consapevolezza, aiutano a vivere. Caffi va anche oltre: per lui vale la perfetta definizione offerta da Claudio Magris: «L’utopia dà senso alla vita, perché esige, contro ogni verosimiglianza, che la vita abbia un senso».

Straniero

Non è un caso che Caffi sia entrato nelle mie simpatie da subito, dalle prime notizie su di lui che ho trovato tempo fa in una rivista dei primi anni Settanta, dal titolo appunto “Settanta”, oggi totalmente ignorata dai radar pur sensibilissimi della ricerca storica. Ne parlava Nicola Chiaromonte, che lo descriveva come un infaticabile camminatore, e la cosa mi è stata poi confermata dai ricordi di Moravia e di altri amici: «Non prendeva mai né il metro né gli autobus. – scrive quest’ultimo – Una volta si trovava a Montmartre e io gli diedi appuntamento a Montparnasse e attraversò tutta Parigi a piedi, e arrivò a Montparnasse sempre a piedi con il suo passo slogato di cammello. Era un uomo molto alto, aveva un corpo come disossato, appunto come un cammello, dondolante, con gambe infaticabili dove non si sapeva dove stesse la forza, dentro pantaloni che erano fatti così: il ginocchio dei pantaloni stava all’altezza dello stinco, la coscia stava all’altezza del ginocchio e degli enormi scarponi neri».

Caffi era in sostanza un vagabondo, piuttosto che un viandante: ha viaggiato molto, ma quasi mai per scelta. Il più delle volte aveva alle calcagna una qualche polizia. Dopo i vent’anni non ha mai più abitato in una casa propria, ha conosciuto le sistemazioni più precarie, nonché le carceri russe prima e dopo la rivoluzione e quelle francesi durante la Seconda guerra mondiale. Il suo recapito più continuativo fu una minuscola camera in un alberghetto di terza categoria a Parigi, la cui porta era sempre aperta: per lasciare entrare e per poter uscire.

Diceva di sé di aver scelto «un vagabondaggio puramente “recettivo”, attraverso paesi, libri, ambienti sociali, senza appartenere ufficialmente a un corpo organizzato qualunque». Per questo sta benissimo in compagnia con tutti gli spiriti irrequieti ed erranti dai quali da sempre sono intrigato.

Del vagabondo aveva una buona dose di incoscienza, quella di chi vive pensando di non aver nulla da perdere e che lo portava, quale fosse la sua sistemazione, in una istituzione bolscevica o in un ministero fascista, a giocare scherzi al regime, applicando forme di lotta che sarebbero piaciute a Debord e ai situazionisti.

Il termine più adatto per definire questo atteggiamento potrebbe sembrare temerarietà, ma direi che Caffi non era un temerario: semplicemente gli sembrava naturale fare, e dire, tutto quello che gli passava per la testa. Era un uomo libero.

Ma libero nel senso più esteso del termine, che arriva a comprendere anche risvolti che di per sé possono sembrare negativi. Era un uomo libero perché era, e si sentiva, ed era sentito, uno “straniero”.

«Per me – scrive in un’altra lettera del 1946 – il fatto d’essere cresciuto in Russia […] ha avuto un effetto che non rimpiango, benché mi abbia privato di certe gioie probabilmente profonde che può dare la totale communione [sic] con i circostanti: fin dall’“età di ragione” in Russia insistevo gelosamente (talvolta quasi “ringhiosamente”) sulla mia qualità di straniero e d’“occidentale”; più tardi, vivendo in Italia, in Germania, in Francia ecc. – un’indelebile [sic] sfondo di mentalità (o di “visuale”) acquisita in Russia, mi costringeva ad una certa “presa di distanza” rispetto alle mode intellettuali, ai costumi, ai pregiudizi agli entusiasmi del luogo e fra l’altro mi ha sempre impedito di capire una qualsiasi presa di posizione schiettamente “nazionale”. Ciò non andava, come accennavo, senza malinconie: è triste non potere partecipare di tutto cuore a esultanze, speranze ecc. di persone a cui si vuol molto bene e di sentirsi alquanto in disparte nei momenti d’un certo parossismo vitale.»

La tomba di Andrea Caffi – Parigi, Cimitero di Père-Lachaise 

Verso una conclusione

A questo punto ritengo di aver messo sin troppa carne al fuoco, per un intervento che voleva essere solo di semplice segnalazione. Probabilmente ho alzato parecchio fumo e creato una gran confusione. D’altro canto il pensiero di Caffi è così ricco, tocca tanti e tali ambiti, e in maniera così profonda e sorprendentemente anticipatrice, che riesce difficile costringerlo in telegrafici accenni.

Tanto vale allora che rubi ancora un minuto per un paio di considerazioni su temi che magari ho appena sfiorato, o rispetto ai quali nutro qualche perplessità.

La prima concerne il ruolo degli intellettuali. Sono senz’altro d’accordo con Caffi nel rifiuto dell’esistenza della proprietà privata nelle cose dell’intelletto. È un rifiuto che ho maturato da quando ho imparato a scrivere, lo applicavo già ai tempi della scuola e continuo ad applicarlo, per le cose mie e per quelle altrui, ancora oggi. Questo ha nulla a che vedere però col plagio (che è solo un passaggio di proprietà), e nemmeno con la copiatura pura e semplice, che è una pratica disonesta e avvilente per chi la mette in atto. Io parlo, e Caffi lo faceva molto prima di me, di condivisione. Di mettere cioè in circolazione le proprie idee, di renderle gratuitamente disponibili per chiunque sia interessato e voglia farne uso, si spera in modo intelligente, e di poter altrettanto liberamente – e responsabilmente – disporre di quelle altrui. Per capire meglio cosa intendo, basti considerare come funziona questo blog, e prendere ad esempio tutti i materiali di e su Caffi che abbiamo pubblicato sul sito, recuperati da altri siti o su pubblicazioni cartacee e trascritti nella convinzione che Caffi avrebbe senz’altro approvato questa operazione.

Per Caffi infatti il lavoro intellettuale non consiste nello sfornare quelli che oggi sono etichettati come “prodotti immateriali” e marchiati col codice a barre come il burro o il pesce congelato, quanto piuttosto lo sforzo di stimolare la curiosità sul senso del mondo, sui percorsi possibili per indagarlo, di discuterne, di alimentare un confronto ininterrotto. Ma soprattutto: «C’è un valore più intenso, il quale non può tradursi in nulla di materiale, o per un intellettuale magari in conversazioni o in fasci di appunti apparentemente slegati, e che consiste nell’essere in un certo modo, nello stare in un certo modo». La differenza sta tra l’“essere” un intellettuale o il “fare” l’intellettuale. Ed è una differenza sostanziale.

Mi chiedo però quanto valga oggi questo discorso, quello di Caffi e tanto più il mio. Aveva un senso senza dubbio all’epoca sua, lo ha perso in gran parte già nella seconda metà del secolo scorso, quando l’avvento della televisione ha creato poli di riferimento culturale e modalità di conoscenza inediti; non ne ha più alcuno, almeno per quanto concerne l’effettivo impatto sulle scelte dell’opinione pubblica, nell’era di Internet.

Oggi coloro che credono che la terra sia piatta, o cava, o fatta a coppa sono probabilmente molti più di quelli che hanno idea di cosa significhi “rivoluzione copernicana”. E non vale il discorso che anche prima di Copernico, o solo fino a un paio di secoli fa, i terrapiattisti fossero la maggioranza. Era oggettivamente difficile avere notizia di queste cose, e soprattutto la stragrande maggioranza aveva problemi più urgenti di sopravvivenza cui pensare. Ma oggi la possibilità di conoscere c’è, e viene rifiutata e contestata, addirittura adducendo argomentazioni pseudoscientifiche, e non da quattro gatti (in America hanno appena eletto un presidente che si fa paladino di qualsiasi causa antiscientifica). Eppure parrebbero realizzate le condizioni cui faceva riferimento Caffi, l’esistenza di gruppi di persone liberate dall’immediata necessità di guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, del tutto o almeno in parte: mai come oggi un sacco di gente ha avuto la possibilità di vivere senza “lavorare”, senza cioè svolgere un’attività materialmente produttiva. Per Caffi «Gli “interessi” e i rapporti che si sviluppano nelle ore di distacco dalle obbligatorie fatiche produttive o governative formano la trama di una “vita di società”. E, se la prosperità dura alquanto, si differenzia un ceto emancipato dalla necessità di lavorare (e quindi dalla voglia di pregare) e, almeno fino a un certo punto, attaccato alle seduzioni della vita privata, e talvolta anche a quelle della “vita interiore” ed emancipato dall’ambizione di dominare». Ovvero, mentre il popolo non fa altro che “pagare e pregare”, «la vita di società si realizza nelle ore di distacco dalle obbligatorie fatiche produttive o governative».

Ma oggi gli stessi meccanismi che hanno emancipato progressivamente gli individui dalla fatica produttiva e avrebbero dovuto liberarli anche dai timori e dalle incertezze del quotidiano, arrogandosi il monopolio della violenza, hanno completamente disumanizzato l’esistenza e colonizzato la vita di società (vi risparmio tutti i passaggi, perché verrebbe troppo lunga). In questo nuovo contesto – possiamo aggiungere noi, trasportando al presente le intuizioni di Caffi – l’intellettuale ha ceduto il posto all’influencer. Si badi bene: gli influencer esistono da sempre, già all’epoca di san Francesco raccoglievano migliaia di followers: la differenza sta nel fatto che in genere mettevano in circolazione valori, idealità, stili di vita controcorrente, alternativi a quelli religiosi, politici o esistenziali diffusi dal potere, mentre quelli odierni fanno da cassa di risonanza proprio a questi ultimi. San Francesco predicava scelte di povertà mentre si stava affermando una nascente borghesia commerciale, Ferragni and Co insegnano come diventare ricchi, o come sembrarlo.

E gli intellettuali? Sono diventati pura suppellettile. Con questi chiari di luna si sono convertiti rapidamente al mercato: corrono a far marchette in televisione per promuovere i loro libri o i loro film, sottoscrivono manifesti indignati e partecipano a manifestazioni e ad eventi per dimostrare che esistono, ma non influenzano più nessuno e tantomeno tessono la trama di una “vita di società”. Con buona pace dei “fasci di appunti slegati” e della civiltà della conversazione. Caffi questo giustamente non poteva prevederlo, ma la sua stessa continua insistenza sul tema rivela che aveva comunque già ben chiara la deriva. Le sue esortazioni suonano quasi come un rituale esorcistico. E lui sembra voler convincere soprattutto se stesso: «Per quanto ingenuo (o banale) sembri il mio richiamo alla considerazione dell’uomo in carne e ossa, dell’“uomo mio fratello”, dell’uomo sempre superiore ad ogni regola o istituzione, vi è – mi pare sinceramente – l’embrione d’una vera religione; la quale come ogni religione non sarà mai rigorosamente osservata in tutti gli istanti della vita pubblica e privata che da pochi; ma il loro esempio e apostolato potrà fruttare, modificare l’opinione pubblica, stabilire nuovi criteri, penetrare nella “comune mentalità” nelle abitudini sociali».

La cosa buffa è che anch’io, testimone oculare dello sfascio, insisto a volerci credere.

Un’altra considerazione nasce della rilettura di quella Critica della violenza che Caffi redasse nel 1946 e che fu pubblicata su Politics. Nella mia vecchia copia ho trovato diversi periodi sottolineati o annotati a margine, segno che la prima lettura mi aveva parecchio intrigato, e ho vista riconfermata l’impressione che Caffi fosse un pacifista di stampo ben diverso da quello degli odierni sbandieratori di drappi arcobaleno.

Intanto la sua critica della violenza va letta nel particolare contesto in cui Caffi l’ha formulata, in mezzo alle macerie fumanti dell’immediato secondo dopoguerra, avendo ancora negli occhi i massacri, le distruzioni, le persecuzioni di cui era stato non solo spettatore, ma vittima. Era naturale che dopo tanto orrore auspicasse un ripensamento generale sulle cause e sull’uso della violenza, che volesse scorgervi almeno l’occasione per il mondo di invertire decisamente rotta. E che arrivasse a sostenere: «un movimento il quale abbia per scopo di assicurare agli uomini il pane, la libertà e la pace […] deve rinunciare a considerare come utili, o anche possibili, i mezzi della violenza organizzata, e cioè: a) l’insurrezione armata; b) la guerra civile; c) la guerra internazionale (sia pure contro Hitler, […] o Stalin); d) un regime di dittatura o di terrore per consolidare l’ordine nuovo».

Caffi non perviene comunque a questa affermazione sull’onda delle emozioni: essa è invece il naturale esito, e tanto più doveva apparirlo in quel frangente, di un percorso iniziato trent’anni prima, a seguito dell’esperienza del fronte, e sostanziato per tutto il periodo successivo da una analisi serrata delle cause della violenza intraspecifica. Vale a dire che è perfettamente conseguente coi suoi discorsi sullo stato, sulle forme del potere, sul socialismo, ecc …

E ci tiene anche a sottolineare e a distinguere e a difendere questa coerenza: «I governi detti liberali o democratici […] facendo uso abbondante di formole pacifiste ed umanitarie ‒ con l’inveterata convinzione che simili ossequi alla virtù non impegnano a nulla ‒ compromettono l’azione dei sinceri artigiani della pace e della solidarietà umana, i quali per la forzata somiglianza dei concetti da essi profferiti con quelli che adornano le logomachie ufficiali, possono facilmente essere sospettati della medesima malafede o ipocrisia».

Personalmente non condivido la posizione di Caffi, per la ragione che ho esposto all’inizio di questo scritto: perché sono meno fiducioso di lui nella naturale positività della natura umana originaria, e conseguentemente ritengo che non sempre esistano margini “dignitosi” di trattativa (non esistevano all’epoca con Hitler o con Stalin, non esistono oggi con Putin o con Trump). Capisco la necessità di preservare ogni singola vita umana, ma dubito fortemente che trattare con Hitler mantenendo fermo questo punto avrebbe evitato gli stermini compiuti dai nazisti; e penso anche che ci sia un limite minimo della dignità, al di sotto del quale è dubbio che la vita valga la pena essere vissuta (l’ho premesso, non sto al polo positivo).

Non sono d’accordo quindi col pacifismo “integralista” di Caffi (che non ha nulla però da spartire con la fumosità – quando non malafede – degli pseudo-pacifisti nostrani in fregola filo-putiniana), ma comprendo perfettamente le sue ragioni, e sono convinto che andando a leggerlo bene ci si può rendere conto che la sua critica della violenza si differenzia anche dalla Nonviolenza assoluta, quella di matrice religiosa (vedi un san Francesco, o anche Simone Weil, o Gandhi).

«Si tratta dunque di “costumi”, di “cultura”, di “umanità”, e non di principi metafisici o di precetti religiosi. Dall’ateniese che trattava umanamente il suo schiavo alla signora inglese che apostrofava il carrettiere che maltrattava il suo cavallo, la politesse, o refinement, consiste essenzialmente nel bandire ogni violenza. In nome di che? Del “rispetto di sé”, impossibile senza il rispetto degli altri; di una socievolezza che, estendendosi dall’uno all’altro, finisce logicamente col comprendere tutti gli esseri viventi. Alla superficie, si tratta di buona educazione e di “costumi civili”; in profondo, c’è in primo luogo la coscienza della “società” come fatto e come valore, e dunque immancabilmente della “giustizia” nei rapporti sociali, una nozione che – lo si vorrà ammettere– è più fondamentale di qualsiasi dogma religioso o morale.»

Almeno fino al termine del secondo conflitto mondiale non è comunque così integralista da escludere che possano esistere situazioni estreme, nelle quali il ricorso alla violenza si rende necessario come legittima difesa sia individuale che collettiva.

Semmai Caffi sposta la questione da un piano prettamente morale ad uno etico-politico, nel senso che ritiene che il problema vero, quello che dà origine alla pratica della violenza e che va affrontato prioritariamente, sia l’involuzione totalitaristica degli stati; ma cerca poi di scendere anche su quello pratico, sforzandosi di dimostrare con esempi concreti come la scelta della violenza non abbia mai portato a soluzioni positive e definitive.

«È possibile vincere la violenza con la violenza? La questione, in realtà, ne nasconde due molto diverse. La prima è d’ordine empirico: quale probabilità c’è che un’organizzazione di refrattari, uomini liberi e pienamente coscienti dello scopo da raggiungere, disponga delle armi, dell’equipaggiamento, delle capacità tecniche per affrontare gli attuali padroni del mondo con una ragionevole prospettiva di successo? Ma la questione decisiva è l’altra: anche supponendo che si riesca a inquadrare le masse (ribelli, oppure repentinamente convertite a un ideale altamente illuminato della società e della civiltà), a strappare la bomba atomica ai suoi attuali detentori, e infine a impegnare la battaglia, è seriamente credibile che si possa evitare una ricaduta, in circostanze quanto si voglia “rivoluzionarie”, in quelle abitudini barbare, in quegli eccessi della volontà di potenza, e infine nella divisione fra un gregge docile e dei capi imperiosi che l’impiego organizzato della violenza inesorabilmente genera?»

Il che dal mio punto di vista è ingenuamente semplicistico, ma se collegato al quadro di socievolezza universale ipotizzato da Caffi ha senz’altro anche una sua logica.

«Il problema che Platone cerca di risolvere è come si possa concepire una società capace di attingere a un grado supremo di civiltà e, al tempo stesso, di difendersi contro un ambiente barbaro. Il filosofo immagina quindi la sua Città: 1) come un’isola nell’oceano di un’umanità imperfetta, con la quale essa non avrà che dei contatti occasionali; 2) come un luogo dove si sarà una volta per tutte regolato il male inevitabile relegando una parte della popolazione nell’esercizio della violenza, mentre i lavoratori da una parte, i filosofi dall’altra, potranno godere i benefici di un’esistenza pacifica e di costumi gentili. Una tal situazione, e una tal divisione, non hanno nulla di utopico: rappresentano, in sostanza, quella che è stata la condizione di un buon numero di società civilizzate quando la lotta fra le classi non vi s’inaspriva fino a prendervi forme violente.»

Vivesse oggi vedrebbe confermate tutte le sue paure e smentita la sua speranza, non solo in un mondo meno violento, ma in una responsabile e costruttiva reazione dei “filosofi”. E tuttavia, se ho capito qualcosa del personaggio, non cesserebbe di battersi per le sue idee.


E finalmente …

Le pagine risultanti nella redazione finale di questo scritto sono forse nemmeno un terzo di quelle che avevo buttato giù inizialmente. Ho deciso di tagliare drasticamente (e tagliare mi costa sempre, ogni riga è un brandello di pelle), un po’ perché mi sono reso conto che stavo sfidando troppo la capacità di attenzione di qualsivoglia lettore, ma soprattutto per un altro motivo. Per pagare a Caffi quel che ritenevo di dovergli sono innanzitutto andato a riprendere le raccolte degli scritti suoi e di quelli a lui dedicati, raccolte che avevo compilato e postato già parecchi anni fa, nell’intento di aggiornarle e rinnovare la bibliografia. Non avrei mai pensato di trovarmi di fronte a tanto materiale nuovo, in parte pubblicato nel frattempo e in parte sfuggitomi a suo tempo. Leggendo queste cose ho sentito insorgere una sorta di sindrome dell’impostore, perché ho scoperto interventi davvero informati e stimolanti, che colpevolmente ignoravo, e che andavano talmente oltre da rendere del tutto superfluo il mio. Ho provato imbarazzato per l’inadeguatezza della mia presentazione, tanto che ero sul punto di cestinare tutto. Ho risolto poi soltanto di alleggerirlo, così posso fingere con me stesso di essere rimasto nei limiti dell’impegno originario e proporre queste pagine come propedeutiche alle letture ben più serie che invito a fare.

C’era tuttavia ancora un’altra motivazione. L’improvvisa abbondanza di interventi e contributi sulla figura e sul pensiero di Caffi mi ha fatto sospettare l’inizio di un processo di beatificazione, di quelli “usa e getta” che si celebrano molto velocemente oggi. Nella penuria di idee e di precursori ai quali aggrapparsi e nella corsa dell’editoria al fast food culturale ho temuto che Caffi diventasse una delle tante varianti passeggere di pizza destinate a diversificare l’offerta per un trancio d’estate.

Ho poi realizzato che avendo indirizzato la mia ricerca nella direzione Caffi era più che logico incontrare per strada tutti i possibili riferimenti che portavano a lui, e che la mia era solo una forma strana di gelosia che provo nei riguardi degli autori “dimenticati” sui quali rivendico una immeritata prelazione. Mi è capitato con Humboldt, con Seume, con Timpanaro, con un sacco di altri.

Di per sé comunque la scoperta non mi ha depresso, al contrario: mi ha confermato che le cerchie di amici cui faceva costante riferimento Caffi esistono, sia pure in una dimensione “virtuale” che lui non poteva prevedere. «Senza spingersi ad esagerazioni di analogie (che applicate a momenti della storia sono sempre fallaci) – si può dire che oggi – come alla vigilia del “Manifesto Comunista”, come prima della costituzione della Seconda Internazionale – vi è in Europa un numero impressionante di sparuti cenacoli e di “isolati” nei quali nonostante tutto vive la convinzione che “qualche cosa bisogna fare” per combattere l’assurdità dell’attuale “condizione umana”, per muovere le menti e le “volontà di vivere” verso la redenzione (che si desidera totale, anche se la si sa irraggiungibile).»

Tiro dunque finalmente le somme, cercando di spiegare, se ancora non si fosse capito, i motivi del mio entusiasmo per il personaggio Caffi, ma soprattutto per quello che ha significato (e potrebbe ancora significare) il suo pensiero. Non ho alcuna riluttanza a comprenderlo tra i “maestri”, intesi come coloro al cui pensiero devo qualcosa, fermo restando beninteso che non significa che lo abbracci incondizionatamente. Sono “maestri” quelli che mi hanno costretto a pensare, a interrogarmi, a scorgere altre strade rispetto a quelle che stavo percorrendo, e a tenerle poi ben presenti anche quando non avevo ritenuto di intraprenderle. In questo senso Caffi è il più esemplare tra i maestri, proprio perché non pensa affatto di esserlo e non pretende di essere ritenuto tale. È uno spirito talmente indipendente che sarebbe infastidito all’idea di avere degli allievi: la cosa gli avrebbe creato degli obblighi, lo avrebbe volente o nolente condizionato nelle sue scelte di posizione. Voleva avere degli amici, questo sì: spiriti affini al suo, indipendenti come il suo, capaci di confrontarsi sullo stesso piano, e non di accettarne supinamente e devotamente il magistero: in caso contrario non sarebbero stati di alcuna utilità a lui, e nemmeno a se stessi.

Caffi non era un santo, se per santo intendiamo un uomo pervaso dalla moralità del sacrificio e della rinuncia assoluta. Lui stesso avverte che «il santo e l’eroe sono poco socievoli», e che «la società prova disagio non solo di fronte a tutto ciò che sta al disotto d’un certo livello di dignità umana, ma anche al cospetto del “sovrumano”». Io aggiungerei alla lista dei poco socievoli anche il genio, e cito quello che scrivevo quaranta anni fa: «In fondo tutti i grandi geni sono stati degli implacabili egoisti, che sono riusciti (beati loro) a passare sopra le esigenze altrui e i condizionamenti affettivi e sentimentali. Da Cristo a Marx, è tutta una storia di gente che dice a padri, madri, figli, mogli e amanti: ma che volete? E che tutto sommato non ha amici, ma solo discepoli».

Piuttosto, credo gli calzi a pennello la definizione datane da Moravia, che gli fu amico, ma senz’altro non allievo, essendo finito ad incarnare proprio il modello di “intellettuale organico” dal quale Caffi prendeva le distanze: «Forse si potrebbe definire Caffi un eterno studente, nel senso che voleva sempre imparare qualche cosa. Il suo fascino vero era questa curiosità, freschezza […]».

A parte il fascino, è il modo in cui vorrei essere ricordato anch’io.

Quindi: ho proposto la figura di Caffi per come l’ho letta io, senza la pretesa di averne interpretato ed esaurito tutte le sfumature. Ho sottolineato quello che ho riconosciuto, che in qualche modo, spesso molto confusamente, già mi apparteneva, più ancora che quello che ho scoperto e imparato.

E ho cercato per quanto possibile di leggere le sue parole in un contesto che è pur sempre quello di un secolo fa, tenendo presente che erano rivolte a un paio di generazioni entrambe precedenti la mia, che avevano attraversato o stavano attraversando due guerre mondiali e avevano maturato o stavano maturando esperienze completamente diverse dalle nostre.

Insomma, non nego che la figura di Caffi abbia per vari motivi, che stanno al di là del valore del suo pensiero e che ho cercato anche di spiegare, esercitato un certo “fascino”: ma penso di essere riuscito nel complesso a mantenere la giusta distanza per coglierne correttamente le implicazioni.

E allora ciò che viene fuori è questo. Caffi non può essere iscritto nel novero dei rivoluzionari anarchici, né dei bombaroli né dei “gradualisti”: non è l’erede di Bakunin, nel pensiero e meno che mai nel “modo d’essere” (non era certo così disinvolto nello spendere i soldi altrui); è semmai piuttosto vicino nel modo di pensare a un Landauer e a Camillo Berneri, ma con una ricaduta sull’azione pratica ben diversa; non è assolutamente un marxista, in nessuna delle declinazioni possibili del marxismo; non è un riformista, a dispetto della sua amicizia con Salvemini e della stima reciproca che i due si tributavano. È un socialista libertario (e lascio a chi legge scegliere in che ordine disporre i due qualificativi), definizione che non specifica molto e può significare tutto. Senza dubbio è un individualista, che pone in primo piano la libertà individuale, ma al tempo stesso ritiene che ogni individuo ha senso solo nelle relazioni che intrattiene con gli altri, e ha senso profondo solo se queste relazioni si svolgono su un piano di pari dignità e reciproco rispetto.

Insomma: se qualcosa Caffi ci trasmette non è tanto il cosa fare ma il come essere. E si badi, non vuole trasmetterlo, non lo pretende dagli altri, lo chiede e lo impone a se stesso. Questa è una vera lezione di esemplarità. Questo rimane di lui, e mi sembra che già basterebbe.

Personalmente però, per me rappresenta qualcosa di più. Nel leggere i suoi scritti politici, che sulle prime mi erano apparsi utopisticamente ingenui, salvo poi, raffrontati alla realtà di ciò che mi accadeva attorno, rivelarsi profetici e anticipatori, ho avuto costantemente l’impressione di trovarmi davanti a quelle possibilità, a quelle opzioni alternative che la storia ci propone costantemente e che finiscono come macerie ai margini della strada che abbiamo scelto di percorrere, o siamo stati costretti a percorrere per scelte fatte da altri, siano di volta in volta il capitalismo, la tecnica, il populismo, ecc. Ecco, nelle sue pagine mi si presentavano le immagini di come “avrebbe potuto essere”, e capivo che ad un certo punto Caffi, deluso dalle scelte fatte sopra la sua testa ma anche dalla constatazione di non poter uscire dal suo isolamento, abbia deciso di vivere “come se” la sua idea di società fosse non solo possibile, ma anche immediatamente praticabile.

Questo per quanto riguarda le personalissime ragioni del mio interesse. A spiegare invece quello che sembra essersi risvegliato più diffusamente attorno a Caffi, e a chiudere un po’ meno banalmente questa rimpatriata col suo pensiero lascio sia Marco Bresciani (da La rivoluzione perduta. Andrea Caffi e l’Europa del Novecento): «L’orientamento impolitico dell’italo-russo funziona da reagente chimico rispetto all’epoca successiva al 1914, facendo interagire ed esplodere le contraddizioni e le tensioni, i miti e i dilemmi della cultura rivoluzionaria europea. In particolare, Caffi si confrontò con l’esperienza e il mito dell’Unione Sovietica che di quella cultura portava profonde tracce, pur senza identificarsi o esaurirsi con essa. In questo senso, offre un punto d’osservazione privilegiato, che non si codificò nella rigidità del linguaggio marxista-leninista e che non si inquadrò nell’organizzazione comunista. In questa capacità di incarnare il mito rivoluzionario europeo, vivo e vitale al di là del mito sovietico, con tutte le sue molteplici articolazioni, le sue sotterranee diramazioni e le sue contraddittorie implicazioni, sta la ragione dell’interesse storico di Caffi all’inizio del XXI secolo, dopo la fine del “socialismo reale”».

Bibliografia

Testi di Andrea Caffi

Socialismo libertario, a cura di Gino Bianco, Milano, Azione Comune, 1964

Critica della violenza, con prefazione di Nicola Chiaromonte, Bompiani, 1966

Critica della violenza, introduzione di Gino Bianco, e/o, 1995

Scritti politici, a cura di Gino Bianco, La Nuova Italia, 1970

Scritti scelti di un socialista libertario, a cura di Sara Spreafico, con prefazione di Nicola Del Corno, Milano, Biblion, 2009

Cosa sperare? Il carteggio tra Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte (1932-1955), a cura di Marco Bresciani, Napoli, Edizioni Scientifi che Italiane, 2012

Politica e cultura, a cura di Massimo La Torre, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014

L’unità d’Italia. Pro e contro il Risorgimento, a cura di Alberto Castelli, Roma, e/o, 2010 [scritti di: A. Caffi, U. Calosso, N. Chiaromonte, P. Gobetti, A. Gramsci, C. Rosselli, G. Salvemini, F. Venturi]

“Politics” e il nuovo socialismo. Per una critica radicale del marxismo, a cura di Alberto Castelli, Genova-Milano, Marietti, 2012

Testi su Andrea Caffi

Gino Bianco, Un socialista “irregolare”: Andrea Caffi intellettuale e politico d’avanguardia, Cosenza, Lerici, 1977 (Nuova edizione, con il titolo: Gino Bianco Socialismo e libertà. L’avventura umana di Andrea Caffi, Roma, Jouvence, 2006)

Carlo Vallauri, Il socialismo umanitario di Andrea Caffi, Giuffrè, 1973

Gino Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1999

Andrea Caffi: un socialista libertario, Atti del convegno di Bologna (7 novembre 1993), a cura di Gianpiero Landi, Pisa, BFS, 1996

Marco Bresciani, La rivoluzione perduta: Andrea Caffi nell’Europa del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2009

Alberto Castelli, Andrea Caffi. Socialismo e critica della violenza (in L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, a c. di P. P. Poggio, Milano, Jaca Book, 2010

 

Appendice

Nicola Chiaromonte, Introduzione a Andrea Caffi, Critica della violenza, Bompiani, 1966

Parlo di Andrea Caffi come dell’“uomo migliore, e inoltre il più savio e il più giusto” che nel mio tempo io abbia conosciuto. Ne parlo per essergli stato amico durante ventitré anni, dal maggio 1932 quando, a Parigi, Alberto Moravia me lo fece incontrare, al luglio 1955, quando morì nella stessa città, e perché alla sua amicizia devo quel che di meglio posso aver acquistato nel corso della mia vita; ne parlo perché penso che le poche tracce scritte della sua personalità che si sono potute conservare o recuperare meritano di essere conosciute, ma d’altra parte hanno bisogno di essere accompagnate da qualche notizia.

Ma, come sono relativamente pochi, anzi pochissimi, nella gran quantità di schede, note e quaderni da lui lasciati, gli scritti di Caffi abbastanza compiuti per poter essere offerti in lettura a chi non lo conobbe, così sono singolarmente poche e frammentarie le notizie che della sua vita, pur ricchissima di peripezie, d’incontri, di sodalizi, d’amicizie, si possono dare come “obbiettive”. Quelle che ho, le ho raccolte quasi tutte dai suoi discorsi, ma sempre a proposito d’altre cose, mai parlando di sé e dei propri fatti, argomento che egli considerava fastidioso e indiscreto.

Mi trovo dunque, da una parte con gli scritti che qui si pubblicano e con alcune notizie frammentarie, dall’altra con un’immagine prodigiosamente viva dell’uomo: tanto viva da scoraggiare la descrizione, poiché essa ha della vita la caratteristica essenziale, che è il non finito, l’indeciso, l’elusivo.

Come si vedrà in queste pagine, se c’era nella mente di Caffi un’idea centrale attorno alla quale tutte le altre si ordinavano naturalmente, questa era l’idea di socievolezza: la philìa aristotelica, fondamento della vita associata. Ma la socievolezza non era solo un’idea, per Caffi, era anche il tratto saliente della sua personalità.

La socievolezza spontanea e continuamente traboccante, accompagnata da una prodigalità illimitata nel dono di sé, dava all’esistenza di Andrea Caffi una pluralità d’aspetti che finiva per diventare innumerevole. C’era, per esempio, come io lo conobbi, il Caffi italiano amico di Gaetano Salvernini come di Umberto Zanotti-Bianco, di G. A. Borgese e di Giuseppe Ungaretti come di Alberto Moravia, di Umberto Morrà, di Vincenzo Torraca, di Giuseppe Fancello, come poi di Carlo Rosselli e di molti altri uomini dell’emigrazione antifascista a Parigi. Insieme a questo, c’era il Caffi intimamente legato a gruppi e persone della diaspora intellettuale, letteraria e politica russa, e non era certo meno reale dell’italiano. C’era poi il Caffi francese d’elezione, con amicizie e impegni in molti circoli della vita politica e intellettuale francese. Ci fu persino, fra il 1950 e il 1955, attraverso l’incontro con Paolo Emilio Comes, Mario Pedrosa e i loro amici, un Caffi brasiliano.

Ma c’era poi anche il Caffi eretico di tutti questi gruppi, intellettuale la cui visione non si adattava a nessuna prospettiva comunemente accettata e verso il quale solo alcuni pochi individui isolati, o comunque insoddisfatti dei gruppi esistenti e delle idee correnti, potevano sentirsi attratti; e di questi, pochissimi a lungo, perché i sentieri per i quali Caffi trascinava chi lo seguiva erano davvero Holzwege, sentieri non tracciati in anticipo e di cui non si sapeva dove conducessero; dunque stancanti. Dietro questo Caffi eretico e irrequieto c’era lo spirito solitario, assorto in un mondo di pensieri segreti e di operazioni intellettuali addirittura misteriose nel quale raramente, anche nei momenti di maggiore confidenza, si apriva qualche spiraglio.

C’era infine, a riunire e confondere di continuo queste parti diverse, Caffi al naturale, per così dire: uomo dal tratto quanto mai affabile e amabile, egualmente a suo agio nella compagnia delle persone più diverse, purché non appartenessero alla specie odiata dei mediocri soddisfatti. Era, questo, un uomo che più delicato e nobile è difficile immaginare, e certamente rarissimo trovarne: un uomo che tutte le qualità della mente e dell’animo dicevano fatto per essere accolto e onorato nei luoghi più eccelsi di una società ideale, e particolarmente fra gli uomini di pensiero e di cultura; e il quale invece sceglieva deliberatamente la solitudine e l’oscurità, incapace com’era di fare la più piccola concessione quando si trattava non dico della sua integrità morale o delle sue idee, che sarebbe un parlare solenne, ma semplicemente della sua sensibilità. Ogni tentativo, anche il meglio intenzionato, di procurargli una via d’uscita da tale isolamento, e dalle angustie che comportava, rimase inutile fino all’ultimo. Sicché era evidente che non si trattava tanto di riluttanza al compromesso, quanto della volontà di non “inserirsi” in alcun modo in una società che gli dispiaceva profondamente.

Questa pluralità di esistenze, il vivere alla ventura nella più completa noncuranza non solo di ogni carriera, ma di ogni vantaggio personale, l’incoercibile irrequietezza dello spirito spiegano almeno in parte le immagini così diverse, frammentarie e incerte che rimangono di Caffi. In tutte, anche in quelle dei testimoni meno perspicaci, la sua natura eccezionale è presente, e più particolarmente sono presenti di lui la generosità spensierata e la stupefacente cultura. Ma in nessuna la sua immagine è chiara e rilevata. In tutte rimane l’enigma di chi fosse in realtà lo “spirito arcangelo” così vivo nel ricordo di Antonio Banfi, lo “strano tipo” di cui ha sentito il bisogno di scrivere Giuseppe Prezzolini riducendone tuttavia la figura a quella di un amabile scombinato, il “personaggio socratico” di cui serba memoria ammirata Alberto Spaini, facendone d’altro canto un mazziniano (cosa che egli certamente non era) e un fautore degli Stati Uniti d’Europa, cosa certamente vera, di lui, ma insieme a molte altre alquanto più importanti (v. Il Messaggero di Roma — 5 ottobre 1959).

La diversità, frammentarietà e incertezza delle testimonianze su Caffi (fra le quali è da ricordare quella di Gaetano Salvemini, che ne parlava come dell’uomo più straordinario e dello spirito più eletto che egli avesse conosciuto, e anche, scherzando sulla piena strabocchevole delle sue cognizioni, come del “caos prima della creazione”), si riflette nell’incompletezza dei dati più elementari della sua biografia, la quale, per essere in qualche modo completa, avrebbe dovuto essere redatta già molti anni fa, andando a consultare in giro per il mondo le molte persone che l’avevano conosciuto e gli erano state amiche, il numero delle quali è ormai irreparabilmente assottigliato. Io dunque dirò, per quanto posso in ordine, quello che so di sicuro.

Andrea Caffi era nato a Pietroburgo il 1° maggio 1887, da genitori italiani. Originario di Belluno, suo padre era nipote del pittore e patriota garibaldino Ippolito Caffi. Il quale, essendo stato scenografo dei teatri imperiali, aveva aperto al nipote la via di un impiego nell’amministrazione dei teatri medesimi.

Considerato dai maestri un ragazzo di doti eccezionali, il padre lo iscrisse a quella che era allora la migliore scuola di Pietroburgo, e una delle migliori d’Europa: il Liceo Internazionale. Di quell’insegnamento e di quell’ambiente egli serbava memoria grata e affettuosa, come si può vedere da quel che ne dice nello scritto Società e gerarchia, pubblicato in questo volume.

A quattordici anni, Andrea Caffi era già socialista d’idee: diceva che la sua scelta risaliva al raccapriccio provato per le condizioni di lavoro degli operai industriali durante una visita alle officine Putilov, dove era stato condotto, insieme alla sua classe, da un professore probabilmente socialista egli stesso. A sedici anni, egli fu tra gli organizzatori del primo sindacato dei tipografi di Pietroburgo, dei quali si vantava di aver contribuito a fare dei socialisti senza mai parlar loro di marxismo, ma solo di storia, di letteratura e di filosofia. In questo lavoro clandestino, egli ebbe compagni Kalinin (che doveva diventare il primo Presidente dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche) e Molotov, destinato alla fama come ministro degli esteri di Stalin.

Seguendo questa via, a diciotto anni Caffi prese parte alla rivoluzione del 1905, nelle file dei menscevichi. Arrestato e condannato a tre anni di carcere, fu liberato nel 1907 per intervento dell’ambasciatore d’Italia. Andò allora in Germania per compiervi gli studi universitari. A Berlino, ebbe maestro particolarmente amato Georg Simmel, del cui pensiero si trova più di una traccia nei suoi scritti. Fra i suoi compagni di studi c’era Antonio Banfi, il futuro docente di filosofia all’Università di Milano e senatore comunista, il quale lo ha ricordato con queste parole: «M’era compagno lo spirito più arcangelo e più vivo che mai conobbi, Andrea Caffi, fuggitivo dalla prigionia per i moti del 1905-06, un umanitario ribelle, raffinato e semplice insieme di vita, poliglotta e colto all’estremo, arguto e entusiasta, con cui scrivemmo pagine e pagine sulla cultura europea contemporanea. Dove sia quel manoscritto non so, so che da lui ebbi un vero fiotto di vita e di entusiasmo» (v. Aut Aut, 1958, n. 43-44). Al che voglio aggiungere che il Frammento politico del 1910 di Antonio Banfi, pubblicato da Fulvio Papi nel 1961, porta per me l’impronta inconfondibile di Caffi quando, senza il soccorso di un appunto, tracciava a viva voce vasti panorami di storia delle idee, e l’ascoltatore cercava di notarne l’essenziale, trovandosi alla fine fra le mani il disegno suggestivo di un’opera originale che solo Caffi avrebbe potuto condurre a termine.

Mentre proseguiva gli studi e continuava a militare nel movimento socialista, Caffi viaggiava per tutta l’Europa. Soggiornò a lungo a Firenze, dove frequentò il gruppo della Voce. Amico di Scipio Slataper e di Alberto Spaini, strinse anche rapporti amichevoli con Giuseppe Prezzolini, e collaborò alla rivista con uno scritto firmato insieme a Antonio Banfi e Confucio Cotti. Nel presentare una lettera di lui pubblicata nel volume Testimonianze (Longanesi, 1960), Prezzolini così lo descrive: «Arrivava all’improvviso, non si sapeva da che parte del mondo, con gli abiti sgualciti e l’aria di avere un grande appetito… e scompariva allo stesso modo, senza che si sapesse perché né per dove. Da per tutto portava la sua gentilezza, un’aria d’innocenza, un enorme fascio d’erudizione che slegava e da cui traeva regali a qualunque richiesta […].».

In un articolo dello stesso Prezzolini, pubblicato nel giornale Il Tempo di Roma il 15 agosto 1959 e intitolato Uno strano tipo, si trovano ricordati altri tratti della personalità di Caffi: «Siccome era di un’estrema delicatezza e indipendenza di spirito, non ci si accorgeva delle sue ristrettezze altro che dagli abiti e dallo sguardo con il quale di traverso guardava una tavola apparecchiata quando lo si invitava… Aveva un modo di sfuggire ogni curiosità e indagine sulla sua persona che lo rendeva molto simile a quei personaggi dei romanzi russi che rispondono con frasi svagate e allusive alla polizia degli zar… Il suo ingegno era vivace, la sua memoria potentissima. Era curioso che un uomo sapesse tante cose senza avere accanto una biblioteca personale. Se in una conversazione usciva qualche frase contenente un’inesattezza, si poteva esser sicuri che il giorno dopo si riceveva una lettera di lunghe correzioni e prove. Da giovane, mi accadde di dire qualche corbelleria intorno all’Ucraina, e credo di conservare ancora una lettera di trenta pagine nella quale mi faceva tutta la storia della lingua, della letteratura e della nazione ucraina. Tutto questo, certamente, senza consultare un libro, senza chiedere il parere di nessuno […]».

Tale era il Caffi venticinquenne. Non molto diverso dal Caffi adulto, a giudicare da questo ritratto. Direi che i lineamenti esteriori Prezzolini li vede molto bene; quelli morali e intellettuali, invece, in una luce curiosamente opaca, quasi nello sforzo di non lasciare la figura di questo “strano tipo” invadere la coscienza con le domande di cui è portatrice, ma ridurla invece entro i limiti del pittoresco: sforzo che mi sembra caratteristico della guicciardiniana “saviezza” di Giuseppe Prezzolini.”Enorme fascio d’erudizione”, “memoria potentissima”, “ingegno vivace”: sembra uno di quei terzetti d’aggettivi in scala discendente che Proust nota comicamente nei discorsi di Madame de Cambremer.

Enorme era certo, l’erudizione di Caffi; ed è più giusto, nel suo caso, parlare di erudizione che di cultura, perché le sue conoscenze storiche (e ogni nozione si ordinava secondo storia, ossia secondo la dimensione del tempo, nella sua mente), illimitate come sembravano, erano quelle di un conoscitore profondo e minuzioso il quale accresceva, riordinava, riesaminava e ristudiava ogni giorno quel che sapeva. Di questo sono prova la gran quantità di schede, fogli e quaderni da lui lasciati (ma la massima parte è andata perduta) in cui si trova annotato ciò che egli veniva di continuo apprendendo e riapprendendo.

Ma l’“enormità” stessa delle sue conoscenze era motivo di una meraviglia che non poteva fermarsi alla constatazione della “memoria potentissima”, né dell’“ingegno vivace”. Giacché da una parte la memoria di Caffi, portentosa com’era, non aveva niente di acrobatico, era spontanea, palpitante di vita e d’intelligenza; dall’altra, il suo ingegno si manifestava nella prodigiosa sicurezza con cui, quale che fosse l’argomento, egli andava al vivo della questione senza cura di opinioni stabilite, idoli o tabu di sorta. C’era in questo assai più che della “vivacità”: una libertà di giudizio e di pensiero di cui non ho conosciuto l’eguale in nessun intellettuale dei tempi nostri; ed era in primo luogo una conquista morale, il frutto, cioè, di una coerenza di vita eccezionale.

Riprendendo il filo della cronologia, dirò che terminati gli studi universitari (compiuti peregrinando per tutte le università tedesche, come permetteva la disciplina degli studi superiori in Germania), Caffi si stabilì a Parigi, o almeno a Parigi dimorava la maggior parte del tempo. Erano gli anni delle famose lezioni di Bergson al College de France, dei Cahiers de la Quinzaine di Péguy, del socialismo di Jaurès, della polemica di Sorci, del fiorire della nuova letteratura, della nuova pittura, della nuova musica: inizio splendido di un secolo destinato alla tragedia. A quegli anni risale il legame d’amicizia con Giuseppe Ungaretti, rimasto affettuoso fino all’ultimo.

Con un gruppo di amici francesi, russi, tedeschi e, credo, anche inglesi, che s’era dato nome La Jeune Europe, Caffi concepì allora il progetto di un’“enciclopedia” in cui fosse steso il bilancio della situazione della cultura europea all’inizio del secolo. L’impresa fu stroncata dalla guerra: dispersi fra i paesi belligeranti, gli amici non dovevano più ritrovarsi.

Il 2 agosto 1914, Caffi si arruolò volontario nell’esercito francese. Non so se, da parte di un socialista come lui, tale decisione meravigliasse i suoi amici. Meravigliò me quando l’appresi, perché il suo giudizio sul comportamento dei partiti socialisti europei, arresisi quasi tutti al principio dell’interesse nazionale e dell’union sacrée, era quanto mai severo, non distinguendosi sostanzialmente da quello di Lenin e di Trotzki. Ma egli spiegò candidamente che, in primo luogo, non gli era stato possibile non desiderare la sconfitta del militarismo tedesco e la vittoria della Francia; in secondo luogo, vedendo partire tanti amici incontro alla morte la sola scelta personale ammissibile gli era parsa quella di condividerne il destino; in terzo luogo, di fronte a una guerra che lui, come molti altri in Europa, aveva sentito approssimarsi fatalmente fin dal 1911, e della quale si poteva esser certi che avrebbe messo a ferro e fuoco l’intero continente, non gli era sembrato possibile invocare delle ragioni di principio. La catastrofe era avvenuta, non c’era che da subirla. Il che, d’altra parte, non significava mutare il proprio giudizio sull’avvenimento e sulle sue probabili conseguenze.

Caffi, insomma, fu nell’agosto 1914 fra i numerosi intellettuali europei, che, per oscuro che paresse loro l’avvenire, credettero tuttavia che dalla sconfitta della Germania imperiale dipendessero le sorti della democrazia e del socialismo. Le sue speranze andavano allora nel senso di un’Europa federata sulla base dei principi mazziniani.

Ferito quasi subito nei combattimenti delle Argonne, nel 1915 fu mobilitato in Italia. Ferito di nuovo sul fronte del Trentino, fu addetto presso il comando della IV Armata. Di lì, nel 1917, passò con G. A. Borgese a Zurigo, nell’ufficio speciale da questi creato per la propaganda fra le nazionalità oppresse dell’Impero absburgico.

Nel 1919, Caffi diede vita in Italia a due riviste il cui scopo era di contribuire, con un’informazione seria sui problemi lasciati dalla guerra, a influenzare ragionevolmente le decisioni che si stavano per prendere a Versailles sul nuovo assetto dell’Europa: la prima fu La Vita delle Nazioni; la seconda (pubblicata in collaborazione con Umberto Zanotti-Bianco) La Giovane Europa. Il primo scritto seriamente informativo sulla rivoluzione russa e i suoi capi apparso in Europa occidentale fu un lungo saggio di Caffi ne La Vita delle Nazioni. Si sa peraltro che cosa avvenne a Versailles dell’ideale di una pace giusta cui queste pubblicazioni intendevano giovare.

A pace conclusa, amici comuni intervennero presso Luigi Albertini perché il Corriere della Sera si valesse delle conoscenze e dell’esperienza di Caffi mandandolo in Russia come inviato speciale. Arrivato a Costantinopoli, egli mandò (a quanto scrive in una lettera inviata da lì a Prezzolini) otto articoli. Di questi, uno solo fu pubblicato, suscitando l’ammirazione di molti lettori. Si può pensare che la ragione per cui gli altri articoli di Caffi rimasero inediti fosse l’indignazione che in essi si esprimeva (e della quale si trovano tracce vibranti in un’altra lettera a Prezzolini) per la condotta brutale degli Alleati nei territori dell’ex Impero ottomano.

Comunque, arrivato a Odessa, Caffi terminò bruscamente le sue mansioni d’inviato speciale. L’idea di attraversare la Russia devastata dalle epidemie, dalla fame e dalla guerra civile in veste di giornalista gli parve insopportabile. Invece di continuare il suo servizio, si aggregò alla missione internazionale di soccorso organizzata e diretta dal norvegese Fridtjof Nansen, proseguendo così il viaggio verso Mosca.

Per i capi bolscevichi al potere, Caffi, che li aveva ben conosciuti come militante socialista, non aveva alcuna simpatia. Egli rimaneva naturalmente solidale con i menscevichi e i socialisti rivoluzionari ora perseguitati. È da notare tuttavia che già nell’articolo sopracitato egli aveva esposto con molta chiarezza le loro ragioni e mostratone la forza e la fondatezza. Ma nel trionfo dei bolscevichi egli vide, con uno scoramento simile a quello provato allo scoppio della guerra, la sconfitta di quanto c’era stato di più schiettamente libertario e socialista, e anche di più europeo, nella tradizione rivoluzionaria russa quale si era iniziata nel dicembre 1825. Ciò che lo rese una volta per sempre avverso ai bolscevichi fu il loro autoritarismo implacabile, nel quale tuttavia non mancava di riconoscere la fonte principale della loro forza. D’altra parte, gli fu anche chiaro che l’aggressione anglo-francese contro la rivoluzione russa aveva reso irreparabile lo scisma fra la nuova Russia e l’Europa, contribuendo a irrigidire la situazione interna e a fare del terrore un’istituzione permanente del nuovo regime.

Un’idea di quale fosse il comportamento di Caffi a Mosca in quegli anni la si potrà avere leggendo quello che egli stesso narra nel corso delle sue considerazioni su “Stato, Nazione e Cultura” della “monelleria” perpetrata da lui e dai suoi giovani compagni quando, lavorando negli uffici della Terza Internazionale, si divertivano a inserire nel bollettino da essi redatto notizie sgradite in alto loco.

Fu come “controrivoluzionario”, sotto l’accusa (infondata) di essersi adoperato a dissuadere i socialisti italiani venuti a Mosca con G. M. Serrati dall’aderire alla Terza Internazionale, che la Ceka lo arrestò. Rinchiuso nella prigione della Lubianka, dove ogni notte le porte delle celle si aprivano per l’appello dei condannati a morte (“fatto piuttosto a casaccio”, ricordava Caffi), fu liberato dopo alcune settimane grazie all’intervento di Angelica Balabanoff.

Rimasto a Mosca, quando vi giunse la prima missione diplomatica italiana gli fu chiesto di assumervi le funzioni di segretario. Le quali egli si vantava scherzosamente di aver sfruttato per fabbricare un cospicuo numero di falsi cittadini italiani, rilasciando passaporti a persone che volevano fuggire dalla Russia.

Ma ebbe anche da fare altro. Poco dopo la “marcia su Roma”, giunse alla missione di Mosca, direttamente da Mussolini nella sua qualità di ministro degli esteri, la richiesta di un rapporto sul costo in vite umane della rivoluzione russa, fra terrore bolscevico, guerra civile, fame e flagelli concomitanti. Fu Caffi a fare le ricerche e a redigere il documento. Il quale non potè essere d’alcuna utilità a Mussolini, visto che il motivo che l’aveva spinto a chiederlo era di poter affermare (come più tardi in un discorso non si peritò di fare) che la rivoluzione fascista era stata un fatto altrettanto importante della rivoluzione francese e di quella russa perché altrettanto e più sanguinoso.

Noterò qui in parentesi che, prima di lasciare la Russia, Caffi ebbe cura di depositare alla biblioteca centrale di Mosca (poi Biblioteca Lenin) un pacco di scritti e di documenti da lui raccolti, nel quale per parte mia son certo che lo storico futuro troverà materia importante di studio.

Tornato in Italia nel 1923, l’impiego avuto in Russia gliene valse uno al ministero degli esteri, a Roma. Fu incaricato della redazione di un notiziario per le ambasciate. Lontano com’era stato dall’Italia fin dal 1920, non sapeva quasi nulla del fascismo. Non tardò a farsene un’idea, e un giorno uscì dall’ufficio per non più tornarvi. Ma non senza prima aver ripetuto una “monelleria” del genere di quella perpetrata a Mosca: a guisa di commiato dalle sue mansioni ufficiali, aveva scritto e regolarmente spedito alle ambasciate nei vari paesi un ultimo bollettino, contenente un resoconto burlesco del famoso ricevimento offerto a Palazzo Venezia in onore dei neo-nobili del regime, dove Mussolini era insignito del titolo di “duca del Manganello”. Quale fosse dopo di allora il suo modo di vita a Roma, ne dà un’idea l’episodio raccontatomi da Vincenzo Torraca.

Un giorno, i suoi amici seppero che Caffi non aveva un domicilio e che, con la complicità di un guardiano, passava le notti su un giaciglio improvvisato nei locali della Biblioteca Vittorio Emanuele. Si provvide subito a trovargli un alloggio meno aleatorio. Per qualche tempo, parve che egli avesse consentito ad avere una dimora convenzionale. Ma dopo un po’ si seppe che dormiva di nuovo fra i libri. È un piccolo esempio di quanto fosse inutile cercare di persuadere Caffi ad avere un’esistenza “normale”.

A Roma, legato com’era all’ambiente intellettuale antifascista, e particolarmente a uomini come Umberto Zanotti-Bianco, Gaetano Salvemini, Emilio Lussu, Giuseppe Fancello, Umberto Morra, Vincenzo Torraca, partecipò alle vicissitudini della crisi Matteotti e dell’Aventino, con ciò che seguì. Collaborò con articoli politici a Volontà di Roberto Marvasi e al Quarto Stato di Pietro Nenni e Carlo Rosselli. Al tempo stesso, ebbe rapporti di cordiale, reciproca stima con Ernesto Buonaiuti e scrisse un articolo per la sua rivista Ricerche religiose. Risale a quegli anni l’amicizia con Alberto Moravia, allora giovanissimo e sconosciuto.

A titolo d’azione antifascista, tentò d’impiantare a Roma i metodi di cospirazione che aveva praticato in Russia. Frequentava perciò gli operai del vecchio quartiere dietro piazza Venezia, poi demolito per far largo a Via dell’Impero. In quell’ambiente, faceva propaganda sovversiva a suo modo, parlando della Russia e del socialismo, ma anche di storia e letteratura greca, senza cercar mai di far proseliti per una determinata parte politica o di farsi campione di un’ideologia particolare.

Per questa specie di attività sovversiva, nel 1926 fu minacciato d’arresto. Avvertito in tempo, partì per la Francia, dove fu per tre anni, a Versailles, precettore dei figli del principe Caetani, nonché segretario di redazione di Commerce, la rivista letteraria internazionale fondata da Margherita Caetani per suggerimento di Paul Valéry.

Stabilitosi nel 1929 a Parigi, in un albergo del quartiere della Convention dove aveva abitato anche prima della guerra, cominciò per Caffi un’esistenza molto diversa da quella che egli aveva condotto fino ad allora. Non che mutasse il suo stile di vita, ma venne, fra l’altro, a mancargli il modo di continuare l’esistenza errante e spensierata che aveva condotto da giovane.

Ma il passaggio dalla vita nomade a quella sedentaria non era che l’aspetto esteriore di un mutamento più profondo, indotto dall’esperienza della guerra e della rivoluzione russa.

Il 2 agosto 1914, come Caffi ripeteva ogni volta che ne aveva occasione, aveva segnato per lui non solo la fine della gioventù, ma il crollo di tutto un mondo d’idee e di speranze. Dopo la guerra, e dopo i tentativi che fece, insieme a qualche “uomo di buona volontà”, per rendersi utile alla causa di un’Europa più giusta, si formò in lui la convinzione che le nazioni europee erano ormai avviate sulla strada di crisi sempre più radicali che rendevano futile ogni idea di “restaurazione” della democrazia e del socialismo quali li si era concepiti prima del 1914. Tali crisi investivano naturalmente anche i “valori culturali” e il posto che essi avevano avuto nella società all’inizio del secolo. L’esito della rivoluzione russa, il sorgere del fascismo e delle altre specie di regimi autoritari confermavano questa convinzione, come la confermavano d’altra parte le tendenze che si manifestavano nel campo della cultura.

Non si trattava, come sarebbe troppo facile interpretare, di “disillusione” o di “pessimismo”, bensì di un rivolgimento profondo il quale sboccò nella convinzione ragionata che fra il culto dei veri valori umani e la società qual era, e ancor più quale si avviava a essere, non sussisteva alcuna possibilità di compromesso: la cultura, intesa come asserzione intransigente dei valori di verità e di giustizia, diventava un culto segreto, praticabile soltanto in piccoli gruppi eretici.

Ma, naturalmente, il principio di una tale convinzione era già nella personalità di Caffi giovane. Ciò si trova indicato con sufficiente chiarezza in una lettera cui il destinatario, Giuseppe Prezzolini, pubblicandola nel già citato volume Testimonianze, assegna la data probabile del novembre 1913. Parlando della sorte di «coloro che nell’epoca nostra seriamente “vogliono volere” e sentono il bisogno di soluzioni nuove senza però essere in grado di precisare concretamente questa “nuova terra” verso la quale navighiamo», a un certo punto Caffi così scrive di se stesso: «Sento un isolamento morale forse più grave di ogni altro, oggi come oggi ho la certezza assoluta che nessuno di quelli che conosco vorrebbe prendermi a collaboratore, diventarmi compagno di ricerche. Non è perché presuntuosamente io creda di arrampicarmi su vette più difficili degli altri. È semplicemente il gioco delle combinazioni create dall’esistenza fatta finora da me: non posso entrare in un campo perché ne conosco altri che con questo non hanno né avranno mai punti di contatto. E la sintesi può interessare, appassionare, imporsi come indispensabile a me solo. Le assicuro che niente è così amaro come la coscienza di un “residuo” incomunicabile nei propri sentimenti, nei propri pensieri ogni volta che si avvicina con simpatia, con grande desiderio d’intendersi, uno che combatte in fin dei conti per la stessa mèta: la liberazione spirituale degli uomini, il rinnovamento della nostra civiltà tutta […]».

In queste righe è già delineata la disposizione d’animo che dopo la guerra doveva portare Caffi alla decisione di appartarsi dal “secolo”, senza tuttavia separarsene. Cessando di essere nomade, la sua esistenza personale divenne quella di un “eremita socievole”. La porta della sua stanza, nell’hotel meublé dove abitava, rimaneva sempre aperta, all’uso russo, a chiunque venisse a fargli visita e a conversare; ed egli accoglieva tutti come se il suo tempo fosse a loro disposizione; i soli sui quali cadeva un pesante silenzio oppure, anche peggio, un seguito di monosillabiche imbarazzate risposte, erano le persone “importanti” che venivano talvolta a intervistarlo o, come lui diceva, a tentare di “ripescarlo” per riportarlo nella vita normale.

La sua vita, cioè la sua attività giornaliera, rimase sempre più fermamente dedicata alla causa che nella lettera a Prezzolini indicava con parole ingenue e fiere insieme: la liberazione spirituale degli uomini e il rinnovamento della nostra civiltà. La sua solitudine era decisione di non avere altra società che quella da lui scelta: non aveva niente di ascetico, esprimeva semplicemente la libertà di una natura incapace di adattarsi alle ragioni del mondo e risoluta a rimaner fedele al non serviam pronunciato in gioventù. In sostanza, quella di Andrea Caffi era la vita di un “filosofo” nel senso antico della parola: di un uomo, cioè, unicamente devoto alla ricerca del vero e del giusto e convinto che tale ricerca diventava un affare equivoco non appena vi si mescolassero preoccupazioni di successo mondano o di carriera.

A Parigi, dopo il 1929, egli visse di traduzioni e di lavori da “negro”; e so, a questo proposito, di più di un personaggio eminente che deve a lui i suoi successi accademici o letterari. Pochi erano infatti quelli che, come Gaetano Salvemini, riconoscevano apertamente il contributo dato da Caffi alle loro ricerche. I più lo consideravano uno scombinato fornito di grande cultura al quale essi, dietro compenso, davano almeno l’occasione di far uso delle sue conoscenze. Si tendeva, anzi, a ignorare, o addirittura a disconoscere, ciò che gli si doveva tanto più quanto più gli si doveva: ad appropriarsi, cioè, puramente e semplicemente delle sue idee per farne quel qualsiasi uso che conveniva. Né egli era uomo da accettare per un solo momento il concetto che esistesse qualcosa come la proprietà privata delle cose dell’intelletto.

Visse così in una povertà che troppo spesso era miseria. Una miseria prodiga e sdegnosa del sia pur minimo calcolo. Come preferiva non mangiare piuttosto che sedersi a una di quelle mense a prezzo fisso delle quali noi suoi amici eravamo clienti non troppo difficili, così per lui il cosiddetto superfluo veniva sempre prima del necessario, e i primi acquisti, quando aveva qualche franco in tasca, erano di saponi, dentifrici e acqua di Colonia. Né d’altra parte esitava un momento a vuotarsi letteralmente le tasche se s’imbatteva in qualcuno che avesse comunque bisogno d’aiuto. Vivergli vicino era una gran lezione di generosità e di nobiltà.

Povero com’era, egli aveva d’altronde in sé una ricchezza inesauribile: la capacità del dono di sé nell’amicizia. Il dono era, a dir vero, la sola forma di commercio umano che per parte sua egli riconoscesse e praticasse. Non c’è nessuno, fra quelli che gli sono stati amici, o anche che lo han conosciuto un po’ da vicino, che non abbia ricevuto da lui infinitamente più di quello che abbia potuto dargli. Ciò valse, a lui solitario e misconosciuto, di essere sempre attorniato da amici tanto più devoti e ammirati quanto più erano giovani. Ad essi, egli offriva senza risparmio i doni di una mente che (contrariamente al precetto dantesco), non stava mai contenta al quia, di un animo delicatissimo e, soprattutto, l’esempio di che cosa volesse dire vivere come un uomo libero in un mondo, come quello contemporaneo, servo dell’utile, del successo e della forza.

A Parigi, fino al 1935, Caffi fu collaboratore dei Quaderni e del settimanale di Giustizia e Libertà. Dei suoi rapporti con Carlo Rosselli e col suo gruppo si trova ampia notizia nella Vita di Carlo Rosselli di Aldo Garosci.

Molto ci sarebbe da notare sull’argomento. Ma la sede più adatta a questo sarà il volume degli scritti politici di Caffi, che dovrebbe seguire a poca distanza la pubblicazione della presente raccolta. Qui basti dire che la collaborazione di Caffi ai Quaderni e al settimanale di Giustizia e Libertà fu dovuta alla simpatia per quel gruppo, che gli parve il più vivace e spregiudicato dell’emigrazione antifascista, e non a un’adesione politica che del resto non gli fu mai chiesta. Quanto alle critiche che egli contemporaneamente non risparmiava alle idee e ai criteri ispiratori del “movimento”, esse erano dovute al desiderio che l’antifascismo italiano, almeno nella sua parte più giovane e intellettualmente più avvertita, si sollevasse dal terreno della polemica spicciola e della propaganda antimussoliniana per attingere al livello di movimento europeo e contribuire in modo positivo al rinnovamento della tradizione socialista e libertaria.

Fra i fuorusciti italiani, oltre che con Carlo Rosselli e i suoi compagni, Caffi ebbe rapporti di amicizia e di collaborazione con Salvemini, Tasca, Lussu, Saragat, Giuseppe Faravelli, G.E. Modigliani; senza dimenticare il vecchio sindacalista di Parma Giovanni Faraboli, che egli conobbe a Toulouse nel 1940 e aiutò a tenere in piedi un’impresa di solidarietà e mutua assistenza fra gli operai italiani emigrati della regione. Sia lecito infine ricordare, fra i suoi più giovani amici di allora, oltre il sottoscritto, Mario Levi e Renzo Giua, quest’ultimo caduto in Spagna nel 1937.

Ma, come si è già accennato, la cerchia delle amicizie di Caffi era singolarmente larga e diversa. Partecipò assiduamente alla vita di molti gruppi d’emigrati russi, fra i quali aveva amici particolarmente cari. Fu attivo in vari ambienti politici e intellettuali francesi, essendo molto vicino, fra gli altri, a Paul Langevin, il fisico illustre.

A Toulouse, Caffi rimase dal luglio 1940 al febbraio 1948. Nel periodo dell’occupazione tedesca prese parte all’attività di gruppi di resistenza sia italiani che spagnoli e francesi. Per questo, nel 1944, fu imprigionato.

Tornato a Parigi, non mancò di attirarsi nuovi amici. Fra questi fu Albert Camus, il quale, pensando che un tale lavoro avrebbe potuto aprirgli la strada verso mansioni meno modeste, gli procurò un lavoro di lettore presso Gallimard. Infatti, le schede di lettura da lui compilate attirarono subito l’attenzione. Ma il gradimento dei letterati non era stimolo che potesse vincere la ritrosia di Caffi; ed era d’altra parte impensabile, per chi lo conosceva, che egli potesse fare un passo qualsiasi, avvicinare una persona o scrivere una riga, per un motivo d’utilità personale.

Con l’avanzare degli anni, la sua vita rimase quella che era sempre stata: povera e prodiga. Nel frattempo, gli stenti e i disagi in cui aveva vissuto da anni, e che erano stati particolarmente duri negli anni della guerra, cominciarono a mostrare i loro effetti sulla sua costituzione fisica, che pure era molto vigorosa. Fra il 1954 e il 1955 la sua salute declinò rapidamente. Colpito da un male che probabilmente lo minava da tempo, mori il 22 luglio 1955 all’ospedale della Salpétrière. Le sue ceneri sono deposte al cimitero del PéreLachaise.

Scritti di Andrea Caffi sono sparsi in riviste e giornali italiani, russi e americani. Nelle biblioteche italiane si trova un volume di Paolo Orsi, Le chiese basiliane della Calabria, pubblicato da Vallecchi, a Firenze, nel 1929, con una lunga appendice storica di Caffi intitolata Santi e guerrieri di Bisanzio nell’Italia meridionale. Nell’Enciclopedia Italiana, alcuni articoli di storia bizantina sono suoi. In questo campo, infatti, le sue conoscenze erano particolarmente sicure e profonde. Si era laureato con una tesi di storia bizantina e da allora lo studio della civiltà bizantina, legato a un più vasto interesse per la storia dell’ellenismo, era rimasto la sua passione particolare. Ma, come si è detto, la sua cultura era enciclopedica nel senso più forte della parola: talmente vasta da dar l’impressione di essere propriamente sconfinata, essa rimaneva mirabilmente precisa su ogni punto. C’era, in questo, qualcosa come la luce di un dono incomparabile.

È nello scambio amichevole d’idee, oltre che nell’esempio di libertà e di disinteresse che offriva giorno per giorno la sua esistenza, che Andrea Caffi dava il meglio di sé, irradiando quello “spirito arcangelo” di cui parlava Antonio Banfi. Ciò che di più somigliante, direi, rimane di lui si trova nelle lunghe lettere agli amici e nelle lunghe note che egli usava fare ai loro scritti o per chiarire opinioni espresse conversando.

Quelli ai quali nel presente volume si è data forma di saggi sono dunque propriamente brani e frammenti del bel discorso che fu, considerata dal punto di vista del commercio intellettuale, la sua vita. Sono brani e frammenti estratti dalle lettere e note di lui che chi scrive è riuscito a preservare. Molto, purtroppo, è andato perduto. Tuttavia, non solo si tratta di una minima parte di ciò che a Caffi accadde di scrivere, ma anche di una piccola parte di ciò che è stato conservato. Per non parlare, infatti, di ciò che hanno potuto conservare di lui gli amici russi e francesi, e a parte i manoscritti lasciati alla biblioteca Lenin di Mosca, esistono scritti e documenti di Caffi nell’archivio del Grande Oriente di Francia e in quelli di altre logge massoniche francesi e russe. Come alla causa del socialismo abbracciata in gioventù, egli era infatti rimasto fedele all’ideale massonico, al quale era stato iniziato adolescente in Russia.

Veramente e doppiamente frammenti, dunque, gli scritti che qui si pubblicano. Note e lettere non sono infatti, a loro volta, che brani di quella lunga lezione d’umanità che fu per il sottoscritto l’amicizia con Andrea Caffi.

Troverà il lettore in questi brani quel “principio filosofico” o quella “idea centrale” che, dopo averne letto alcuni nella rivista Tempo presente (dove la massima parte di essi è stata pubblicata) Giuseppe Prezzolini non ci ha trovato, e ha tenuto a dirlo in un articolo dedicato a Caffi e intitolato Uno strano tipo, che si può leggere nel Tempo di Roma del 5 agosto 1959?

In un certo senso è da sperare che no, che non li trovi, questo “principio filosofico” e questa “idea centrale”. Giacché nulla era più contrario al modo di vedere di Caffi dell’idea che il sapere e l’esperienza dell’uomo potessero o dovessero organizzarsi secondo un principio unico. Si potrebbe anzi dire che tutti i suoi discorsi tendevano a minare nell’interlocutore ogni certezza, o presunzione, di questo tipo; e la ragione principale, forse, per cui un uomo così straordinariamente dotato e erudito non produsse l’opera che pure avrebbe certamente potuto lasciare è la diffidenza per ogni “idea centrale” e per ogni “principio filosofico” applicabile per via di deduzione ai fatti umani. Tale diffidenza andava unita a una grande ambizione di ritrovare nel tessuto vivo della storia delle costanti secondo cui i fatti potessero ordinarsi senza nulla perdere della loro individualità. Ma lo scetticismo non perdeva i suoi diritti quando si trattava delle sue proprie idee. Molte volte gli capitava di accennare alla possibilità che, per esempio, i grandi sistemi di pensiero fossero apparsi nella storia a un ritmo determinato, o che un ritmo analogo si potesse scoprire nella durata dei grandi imperi. Ma si fermava subito, trattando simili speculazioni come dei giochi, e rimanendo sempre altrettanto guardingo nelle affermazioni quanto era preciso e sottile nella critica.

Si può dunque dire che la conoscenza storica gli serviva allo scopo eminentemente socratico di mostrare quanto poco sapessero in realtà gli storici e gli storiografi che avanzavano (come gli hegeliani e i neohegeliani) tesi categoriche sull’“idea” che ispirava questo o quel periodo della storia umana, sui parallelismi “morfologici” fra civiltà diverse e non comunicanti (come Spengler), ovvero (come Toynbee) sulle leggi che regolano la genesi, la crescita e la morte delle civiltà.

A tali “idee centrali”, Caffi rispondeva in un solo metodico modo: adducendo i singoli inconfutabili fatti che tagliavan loro, per dir così, l’erba sotto i piedi. Ma poiché consisteva nel rammentare tutto ciò che, in un dato evento o seguito di eventi, sfuggiva al particolare tentativo d’“inquadramento” di cui si trattava, la dimostrazione assumeva naturalmente un carattere positivo. Sicché, come dall’interrogazione socratica, così dalla critica di Caffi finiva per sprigionarsi la luce di una rivelazione: quella del fatto stesso nella sua vivezza e libertà, scevro delle sovrastrutture di cui volevano ricoprirlo i pregiudizi di chiesa, di setta o d’accademia.

Questo era il dono che si riceveva continuamente da Caffi: la visione del fenomeno “salvo” dai rigori della presunzione intellettuale e del dogmatismo. Se non bastava a fondare una filosofia della storia, l’esperienza ripetuta di una tale visione finiva per costituire qualcosa di più prezioso: il sentimento di ciò che vi è di sacro nei fatti umani e fa tutt’uno con la loro verità viva o, si potrebbe dire, la loro “essenza”. E tale sentimento era accompagnato dall’impossibilità ormai di dimenticare questa realtà, o comunque farne astrazione.

Giacché l’originalità profonda del pensiero di Andrea Caffi, e la grande lezione in esso implicita, era di concepire l’essenza, la verità viva, la sostanza sacra dei fatti umani come una realtà concreta, non come un’idea astratta, un principio ideologico o un precetto morale.

Tale realtà concreta non era altro che il tessuto intimo dei rapporti sociali. Questo tessuto cominciava secondo Caffi con la facoltà mitopoietica (da lui definita come “quel senso della situazione dell’uomo nell’universo, della persona nella società, della norma di una giustizia imprescrittibile… che unisce e connette come dal profondo i membri di una società, e grazie al quale essi comunicano in una visione armonica del significato dell’esistenza”) per continuarsi e articolarsi nei costumi, nella cultura e in tutte le forme di rapporti che noi chiamiamo “umani” per indicare che sono una conquista dell’uomo sull’informità e la brutalità, maniere non di subire la “natura”, ma di darle un senso e una forma.

Se il lettore di queste pagine non si preoccuperà troppo di sapere in anticipo dove – a quali conclusioni d’ordine generale – lo conduca il discorso di Caffi, è da credere che egli scoprirà presto come esso sia tutto ispirato da una sola e medesima idea e passione: quella di suscitare (o risuscitare) nella nostra epoca di inerzia massiccia e d’indifferenza il sentimento di quella realtà alla quale Aristotele dava il nome di philia, e la metteva a base del legame sociale, che Leopardi chiamava l’“umana compagnia” e che Caffi amava indicare col termine “società”, dando ad esso un significato particolare che egli spiega e esemplifica molto chiaramente.

Che cos’è la “società” di cui è continuamente questione nel discorso di Caffi? «È» egli dice, «l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza della libertà».

La definizione non potrebb’essere più piana e modesta. Essa tuttavia contiene al tempo stesso un sentimento della storia assai profondo e un ideale d’umanità assai alto. È infatti nel permanere di tali rapporti “che hanno almeno l’apparenza della libertà” attraverso le tormente della storia, nella loro capacità di resistere e sussistere malgrado le violenze, le deformazioni e gli stenti cui le assoggetta la volontà di potenza, nel loro riaffermarsi e dar frutto non appena le circostanze si facciano meno avverse, è in questa alterna e sempre tragica vicenda dell’“umana compagnia”, che Caffi scorgeva l’unico “senso” intelligibile della Storia.

Questo è il tema fondamentale del discorso molto coerente, anche se frammentario, che si svolge in queste pagine sia a proposito del rapporto fra violenza organizzata e ideale socialista o di quello fra Stato, nazione e società, sia che si trattino argomenti in apparenza disparati come il mito, la nozione di borghesia o la situazione della cultura nel mondo attuale.

È un discorso, quello di Caffi, che riflette una piena, pienamente sofferta e quanto mai ricca esperienza delle vicissitudini sia della storia che della cultura europea fra gl’inizi del secolo e i giorni nostri. Esso è anzitutto, per dirla con Montaigne, un discorso di buona fede. Aggiungerò che io, per parte mia, non ne conosco di più “attuale”, nel senso che, mentre la sua intenzione profonda è di salvare ciò che ha di prezioso la tradizione umanistica europea, esso rimane nel contempo interamente proteso verso “il rinnovamento della nostra civiltà tutta”.

È anche un discorso chiaro, e non esige ulteriore chiosa. Domanda soltanto quella disposizione ad ascoltare che non tardava a nascere in quelli che avvicinavano Caffi e che fra i più giovani si mutava subito in desiderio di conoscere il seguito delle sue idee; o forse meglio si direbbe: del suo racconto.

Ho dato a questa raccolta un titolo, Critica della violenza, che, se è ben lontano dall’indicarne la ricchezza, ne esprime però abbastanza bene l’intenzione complessiva. Giacché, in un’epoca in cui non solo legioni d’intellettuali si son gloriati di essere affiliati al partito della violenza, ma si son trovati filosofi per introdurre la violenza nella natura stessa del pensiero, Andrea Caffi opponeva alla violenza in ogni sua forma un rifiuto radicale. Quale che ne sia il punto di partenza, si può ben dire che il suo discorso è sempre diretto a opporre le ragioni dell’uomo all’urgenza delle forze che lo assillano, e talvolta lo sopraffanno.

Il giovane Orwell (1° parte)

di Paolo Repetto, 3 luglio 2022

Il giovane Orwell copertinaAvvertenza 2022. Avevo iniziato a scrivere questo mini-saggio circa un anno fa, prima di essere dirottato in un fastidiosissimo tunnel sanitario che si sta rivelando interminabile. All’epoca mi erano chiari gli argomenti da trattare e la modalità nella quale intendevo svilupparli, ma una volta entrato nel balletto delle terapie, delle mezze guarigioni e delle ricadute non ho più trovato la concentrazione per tornarci su e soprattutto la motivazione per portare a termine il mio proposito. È incredibile quanto il crollo della confidenza col tuo stato fisico possa mutare drasticamente l’ordine delle priorità.

Riprendendo oggi in mano, grazie ad una pausa che spero definitiva, le pagine cui avevo già dato una certa sistemazione, mi sembra che in fondo una loro autonomia queste arrivino ad averla, e che il postarle, magari anche solo come bozza di un lavoro destinato ad essere ampliato ed approfondito, possa mettermi in una condizione di debito col lettore: debito al quale, per carattere, sarò poi stimolato ad ottemperare.

Non intendo farla diventare un’abitudine (è vero: ci sono già sul sito altri lavori sospesi): semplicemente, è l’unica proposta che oggi sono in grado di fare.

Quando penso all’antichità, il particolare che più mi spaventa è che quelle centinaia di milioni di schiavi sulle cui schiene poggiò la civiltà, una generazione dopo l’altra, non hanno lasciato di sé traccia alcuna. Non ne conosciamo nemmeno i nomi.
In tutta la storia greca e romana, quanti nomi di schiavi conoscete? Io non so citarne che due o al massimo tre. (George Orwell)

Premessa 2021

Sto rileggendo Nel ventre della balena, di George Orwell, e mi chiedo se la maggior parte delle idee e delle convinzioni che ho l’impressione di portarmi dietro da sempre non arrivino in realtà direttamente da queste pagine. È come le avessi apprese tantissimo tempo fa, e non solo, ma assimilate in vena, fatte mie fino a dimenticarne la provenienza e a riscriverle alla mia maniera. Al tempo stesso però continuo a dubitare di averli già letti tutti, questi saggi, perché di alcuni proprio non ho ricordo, e nemmeno ne trovo traccia quando vado a consultare le vecchie agende nelle quali fino al Duemila, per trent’anni, ho tenuto un diario delle letture.

Non è la prima volta che capita: d’altro canto, alla mia età la smemoratezza è da mettere in conto, e andrà sempre peggio. Solo che mentre in genere riesco poi a rintracciare le fonti dei “deja vu”, scoprendo pagine sottolineate in libri che da decenni avevo dimenticato persino di possedere, in questo caso ho l’impressione che la cosa sia un po’ più complessa, che la consonanza che avverto con l’autore abbia un’altra origine.

Il dubbio si è insinuato già a partire dal piccolo excursus autobiografico che apre la raccolta, intitolato Giorni Felici. Al di là delle ovvie differenze che corrono tra chi cresce in epoche e ambienti totalmente diversi, ho rivissuto attraverso Orwell l’intera gamma delle mie esperienze infantili e adolescenziali, soprattutto di quelle scolastiche, le positive e più ancora le negative. Le sintonie che ho riscontrato non potevano essere frutto solo di una precedente lettura, stavano a monte. Certe emozioni, certe rabbie, aspettative e delusioni già le conoscevo, e mi ci riconoscevo, ben prima di sentirmele raccontare.

È quindi ora che mi chiarisca un po’ le idee, anche per pagare ad Orwell il giusto tributo.

Tributare un Omaggio ad Orwell non significa azzardarne una biografia, come invece ho fatto con altri, sia pure a mio modo. Per più ragioni. Intanto Orwell aveva dettato, tra le sue ultime volontà, “desidero che dopo la mia morte non mi vengano dedicate funzioni commemorative e che di me non sia scritta alcuna biografia”. Le volontà come al solito non sono state rispettate, gli sono stati dedicati un profluvio di studi critici e biografici, oggi è persino protagonista di una grafic novel, per cui è molto noto (anche se questo non significa che sia altrettanto “conosciuto”: è noto, come vedremo, soprattutto per le ragioni sbagliate). Nemmeno intendo poi riassumere o recensire i suoi libri: li do per scontati, penso che tutti dovrebbero averli letti, e quelli che ancora non l’hanno fatto sarà bene si affrettino.

Preferisco invece fare una chiacchierata a ruota libera sul mio particolare rapporto con Orwell, mettere in luce alcuni aspetti particolari della sua vicenda umana e della sua opera (soprattutto della parte più sottovalutata) e sottolineare quei tratti della sua personalità e del suo pensiero che oggi più che mai me lo fanno sentire vicino. Senza trascurare, visto che ne ho l’occasione, di saldare qualche altro debito e di suggerire alcuni possibili apparentamenti. Spero che la cosa non mi prenda la mano, come in realtà accade troppo spesso: ma dovesse succedere, sarebbe un deragliamento annunciato.

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1. La mia conoscenza di Orwell non ha seguito il tracciato canonico, che in genere procede a ritroso, dai capolavori alle opere minori (o si ferma direttamente ai primi). Ho letto Animal farm piuttosto tardi, forse ne ho addirittura visto prima la trasposizione cinematografica a cartoni animati (quella del 1954). È uno di quei libri che dopo un po’ dai per conosciuti, e finisci quindi per scoprirli con enorme ritardo. E neppure di 1984 posso vantare una lettura precoce. È andata pressappoco alla stessa maniera, ho visto prima il film (anche questo del 1954) con Edmond O’Brien nella parte di Winston Smith.

Sono convinto d’altra parte che sia proprio questo il miglior tipo di approccio. Ci sono pagine che messe prematuramente in mano ai ragazzi rischiano di non essere capite, di suscitare un amore o un rifiuto tutti di pancia (ma, soprattutto, di non essere rilette). Conoscendomi, temo che sarebbe andata proprio così. Credo che persino Animal Farm guadagni da una lettura matura e consapevole più di quanto non perda di impatto sull’ immaginario di un ragazzo o di un adolescente. Il discorso vale poi in assoluto per 1984: ho visto troppi studenti abbandonarne la lettura a metà, traditi dall’eccessivo entusiasmo di insegnanti che alle medie non consiglierebbero mai Salgari o Verne. Ora, non nego che da opere particolarmente significative possa essere colto qualche frutto ad ogni età, ma varrebbe la pena lasciare che i frutti fossero maturi.

Ciò che in realtà voglio dire è che i libri (alcuni libri) possono incidere sulla vita in due modi diversi: o perché ti indirizzano, ti indicano un possibile percorso (e questo accade in genere se li leggi nell’adolescenza; ma non solo) o perché ti danno conferme rispetto a percorsi che hai almeno in parte già compiuti (e questo accade, necessariamente, in età più matura). Nel caso del mio rapporto con Orwell la sua opera ha funzionato in entrambe le maniere, ma proprio perché l’ho accostata gradualmente, ogni volta con motivazioni diverse, e ogni volta uscendone diversamente segnato.

Ho frequentato dunque Orwell fin dall’adolescenza, ma per vie traverse. Attorno ai vent’anni conoscevo direttamente (nel senso che li avevo davvero letti) solo Giorni in Birmania, Senza un soldo a Parigi e Londra e, soprattutto, Omaggio alla Catalogna. Col senno di poi posso affermare che i tratti essenziali del carattere e delle idee di Orwell li avevo incontrati già tutti. Devo anche aggiungere che per questa occasione ho rinfrescato la conoscenza, andando a rileggere i libri di cui si parlerà nelle pagine che seguono. Un piacere enorme e una scoperta continua.

Mi ero imbattuto nel primo romanzo seguendo un percorso a zig zag che dal ciclo salgariano della jungla e dai fumetti de Il Cavaliere ideale e de Il Principe del sogno (pubblicati sul L’Intrepido) conduceva ai racconti indiani di Kipling (ma prima ancora agli straordinari film che negli anni cinquanta ne erano stati tratti, come Kim e Gunga Din) e a Lord Jim di Conrad.

L’approdo a Giorni in Birmania ha costituito un bel salto, e soprattutto mi ha impartito una salutare doccia fredda. Il fascino misterioso del paese evocato nel titolo mi aveva spinto a e cercare un supplemento di esotismo, l’anello di congiunzione tra le jungle indiane e quelle malesi: cosa che naturalmente non ho trovato, perché era del tutto estranea agli intenti dell’autore. Ho invece conosciuto l’aspetto più subdolo del colonialismo, forse meno brutale di quello raccontato nei libri sullo schiavismo, ma non meno odioso: quello del degrado morale che infetta tutti coloro che ne sono coinvolti, quale che sia il loro ruolo, passivo o attivo.

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Orwell era un adolescente tutt’altro che sereno, come lui stesso racconta proprio in Giorni felici. Era incline per indole (e certamente anche per il retaggio di una educazione puritana) ai sensi di colpa, e proprio questo lo aveva spinto, dopo il mezzo fallimento negli studi rimediato al college di Eton, a mollare tutto e ad arruolarsi nella polizia coloniale. Non aveva tardato a pentirsene e a maturare un disgusto e un rimorso ancora maggiori per i cinque anni di servizio prestati in Birmania. Il libro che ci svela tutto questo non ha un carattere autobiografico in senso stretto, perché non racconta le vicende vissute dell’autore: ma raffigura impietosamente la protervia presuntuosa e l’avvilente meschinità in mezzo alle quali si è trovato e il crescente disagio da cui si è sentito pervadere. Era la cosa più antieroica che avessi letto sino ad allora: nessuno dei personaggi, coloni o colonizzati che fossero, poteva vantare non dico la statura di un eroe ma nemmeno una dignità morale accettabile. Stranamente però non ne ero rimasto deluso, perché del tutto ingenuo non ero e alcuni tratti di quel volto li avevo già intravvisti persino in Kipling: anche se poi, per capire l’ambiguità del rapporto del poliziotto Blair (ancora non aveva adottato il nom de plume) nei confronti dei colonizzati, ho dovuto attendere la lettura di racconti come Una impiccagione e Sparare all’elefante.

Il giovane Orweell04Orwell è in genere presentato come il contraltare di Kipling; in tutta la sua opera, e non solo in Giorni in Birmania, c’è una indignata condanna del colonialismo e di ogni forma di imperialismo. In tal senso gli autori a lui più prossimi sono senz’altro Multatuli e Conrad (dei quali troverò modo di parlare altrove). Ma al netto delle differenti esperienze – e del fatto che Orwell abbia preso progressivamente le distanze da Kipling, fino a dichiarare senza mezzi termini di odiarlo – sono convinto che i loro atteggiamenti non fossero poi così lontani, se li leggiamo scomodando il parametro del “razzismo”: nel senso che “razzista” non era neppure il secondo, a dispetto delle sue idee sul “fardello dell’uomo bianco”. In fondo, davanti alla cultura indiana Kipling semplicemente sospendeva il giudizio: “Io ho vissuto abbastanza in questa India per sapere che è meglio non sapere nulla, e posso raccontare solo com’è andata[1]. Cosa che puntualmente, ma in termini molto più pessimistici, pensa anche Orwell: per il quale però, a differenza di quanto pensava Kipling, il rapporto coloniale non fa che portare allo scoperto il peggio di entrambe le culture che si confrontano.

Detto in altri termini: Kipling manifestava ammirazione e meraviglia per la cultura indiana, soprattutto per il suo retaggio sapienziale ed esoterico, ma la giudicava poi alla luce dell’evoluzionismo spenceriano. Ovvero, è tutto molto bello, ma è un mondo che non regge il passo dei tempi. Riteneva che quella antichissima civiltà non avesse mai superato lo stadio della stupefazione infantile, ed era convinto che per far uscire le popolazioni indiane dalla condizione di minorità fosse necessario il pungolo duro ma stimolante del dominio inglese. Ma pensava anche che non si può amministrare un paese se non si convive con la sua cultura, le sue tradizioni, le sue religioni, se non si è in grado di parlare con la sua gente. Un esempio limite di questo possibile rapporto lo proponeva nella simbiosi e nel reciproco rispetto tra il giovanissimo Kim e l’anziano lama, nel legame che si crea tra i due, a dispetto delle differenze e, volendo a tutti i costi scorgerla, della “superiorità” del ragazzo anglo-indiano (perché è Kim in fondo a procurare ad entrambi di che vivere e a superare con la sua scaltrezza e la sua conoscenza del territorio gli ostacoli che di volta in volta si frappongono alla loro “ricerca”).

Orwell non era altrettanto entusiasta, perché considerava di quella cultura anche gli aspetti pratici, le ricadute sui rapporti sociali, e ne coglieva quegli stessi esiti di diseguaglianza e di sfruttamento che sono comuni ad ogni forma di dominio. In più riteneva la civiltà orientale totalmente inquinata dal rapporto di sottomissione agli inglesi: i birmani che ci racconta, quale che sia il loro livello economico o di educazione, non sono molto diversi dai poliziotti inglesi che li bastonano e dai funzionari e dai commercianti che li discriminano. “È di dominio comune – scrive ne Il leone e l’unicornoche l’indiano soffre molto più a causa dei suoi concittadini che non per colpa degli inglesi. Il piccolo capitalista indiano sfrutta gli operai nel modo più spietato. Il contadino trascorre la vita, dalla nascita alla morte, tra le grinfie dell’usuraio”. Anche se era perfettamente cosciente che “questo stato di cose è un risultato indiretto del dominio inglese che, coscientemente o no, cerca di mantenere l’India il più possibile in uno stato primitivo” (esattamente il contrario di quanto pensava Kipling).

Meno che mai confidava che il divario, il discrimine tra le due condizioni, sarebbe stato superato in un sincero rapporto d’amicizia. Il suo alter-ego romanzesco, John Flory, è anch’egli attratto dalla cultura orientale e insofferente dei codici di comportamento dei sahib bianchi, ma deve ad un certo punto prendere atto che i suoi interlocutori indigeni quei codici li hanno introiettati, li applicano anche nei loro rapporti orizzontali e non vogliono affatto mutarli o rifiutarli. In definitiva, piuttosto che del destino dell’una o dell’altra cultura gli importa di quello degli esseri umani, e punta il dito sullo stato di degrado cui questi possono essere ridotti. Ma questa situazione, come vedremo, non è precipua del mondo coloniale.

Nell’un caso e nell’altro non parlerei affatto di razzismo. Nessuno dei due romanzieri è motivato da pregiudizi di tipo biologico. Per entrambi le differenze esistono, e in effetti sarebbe un po’ difficile negarle, ma non si iscrivono in una scala valoriale delle diverse etnie. Le differenze riguardano gli individui, non le razze, e sono addirittura più accentuate all’interno delle culture alle quali quegli individui appartengono.

«Nei riguardi dei “natives” non si nutriva lo stesso sentimento che si nutriva in patria per la ‘gente bassa.’ – confessa Orwell – Il punto essenziale era che gli ‘indigeni’, i birmani, ad ogni modo, non davano l’impressione di essere fisicamente repulsivi […] Sentivo nei riguardi di un birmano quasi quello che sentirei nei riguardi di una donna. Come quasi ogni altra razza, i birmani hanno un odore caratteristico, che non so descrivere: è un odore che ti dà come un formicolio ai denti, ma che non mi ha mai disgustato. (Incidentalmente, gli orientali dicono che ‘noi’ abbiamo odore. I cinesi, credo, dicono che un bianco puzza come un cadavere. I birmani dicono lo stesso, sebbene io non abbia mai trovato un birmano così scortese da dirmelo in faccia.)»

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Piuttosto, sono le convinzioni di fondo da cui i due partono, il diverso rapporto con l’idea di progresso, a segnare in direzioni opposte le loro opere. Orwell, come Conrad e al contrario di Kipling, non crede affatto che gli uomini siano fondamentalmente buoni, e nemmeno crede che con la civilizzazione possano diventarlo. Della marcia del progresso vede soprattutto la parte che rimane in ombra, le scorie e i cadaveri che lascia al bordo della strada, come testimoniano le righe che ho posto in esergo a questo scritto.

Sa anche che l’ottimismo rispetto ad una supposta “natura umana” è alla radice di ogni grande utopia sociale, e Orwell è l’autore distopico per eccellenza. Crede in compenso che tutto ciò che riesce ad assicurare agli individui un maggiore margine di libertà, intesa sia come negativa (la libertà dalle costrizioni, di non fare), sia come positiva (la libertà di pensare e di agire, nella consapevolezza naturalmente del limite, ovvero del diritto altrui alla stessa libertà), valga la pena comunque di essere perseguito. La libertà è condizione irrinunciabile per una esistenza dignitosa. E questo vale per ogni essere umano, a qualsiasi latitudine o longitudine.

Orwell pone quindi già nel suo primo libro il tema dell’illegittimità del dominio coloniale, in un’epoca in cui anche le sinistre, quella inglese principalmente, ma in sostanza tutte le altre europee, lo trovavano compatibile con gli interessi della classe operaia. Lo fa nei termini individuali ed emotivi della reazione disgustata ad uno spettacolo avvilente, ma questo lo porta a prendere le distanze dal compromesso “politico”. Se non si potrà mai realizzare una società perfetta, si dovrà pur sempre aspirare ad una meno ingiusta, partendo dall’eliminazione delle storture più vistose, rispetto alle quali l’unico strumento di riscatto è quello della crescita culturale. E se non si arriverà a migliorare il mondo, si sarà comunque in pace con la propria coscienza, per averci almeno provato. Che è ciò che ho sempre pensato anch’io.

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Penso anche un’altra cosa. Paradossalmente, malgrado il ribaltamento dei rapporti (nel senso che oggi sono gli ex-colonizzati a invadere il mondo occidentale) abbia definitivamente sfatato il mito di una possibile società multiculturale, e malgrado su Kipling sia stato stampigliato il marchio scarlatto dell’imperialismo, la sua posizione sembra preludere alle mode new-age e alla filosofia post-moderna. Persino l’amicizia tra Kim e il vecchio lama, che pure è un rapporto bellissimo e genuino – con buona pace di chi vuole leggervi una strumentalizzazione imperialistica – rischia di essere letta in questa chiave. In qualità di ammiratore precocissimo e tuttora entusiasta di Kipling respingo categoricamente questa interpretazione. Credo invece che l’ulteriore ribaltamento, quello dell’immagine, nasca da una ambiguità che non è affatto di Kipling, la cui posizione (e chiamiamola pure “imperialistica”) è chiara.

L’ambiguità è piuttosto nell’atteggiamento preconcetto di chi lo legge, e si esprime essenzialmente in due modi. Da un lato c’è il lamento vittimistico (mi riferisco alla sua espressione più raffinata, quella resa popolare ad esempio da Edward Said con il suo celebratissimo saggio sull’Orientalismo), per il quale esiste un pregiudizio eurocentrico a tutt’oggi non superato nei confronti delle culture orientali (in particolare nei confronti di quelle arabo-islamiche), nato già con la riscossa medioevale dell’Europa, alimentato nell’Ottocento dalle rappresentazioni romanzesche dei popoli d’Oriente come irrazionali e moralmente corrotti, e supportato da teorie scientifiche che certificavano la loro inferiorità. Tutto vero, fatto salvo un particolare che Said e coloro che si attestano su queste posizioni tendono a trascurare. Il fatto cioè che questa lettura non solo è stata consentita, ma ha ottenuto un vasto consenso, unicamente perché chi l’ha adottata risiedeva e insegnava in Occidente. Un’operazione del genere, la critica radicale della cultura attraverso le cui istituzioni ti esprimi, non sarebbe mai stata possibile né nel vicino né nell’estremo Oriente.

Dall’altro lato c’è quello definito da Pascal Bruckner “il singhiozzo dell’uomo bianco”, che si presenta in apparenza come un doveroso ripensamento sulle storture e le ingiustizie perpetrate nei confronti del resto del mondo in nome di una presunta “missione” occidentale. Anche in questo caso, l’intento è più che positivo: ma quando dal ripensamento si passa al rifiuto in blocco degli esiti del millenario percorso della civiltà occidentale, per cercare altrove significati e valori “autentici”, si scade nella filosofia di comodo. In realtà quei valori e quei significati sono frutto di storie completamente diverse, sono impenetrabili ai nostri occhi, inconciliabili con una sensibilità diversamente educata, sono in disuso persino nei luoghi d’origine, dove continuano ad essere venduti solo sulle bancarelle per turisti, nei pacchetti “tutto compreso” degli ashran. È una filosofia deresponsabilizzante, che induce a cambiare l’arredo e la suppellettile anziché a intervenire decisamente sulle parti strutturali. (Un chiaro esempio di questa interpretazione l’ho poi ritrovato ad esempio, molto più tardi, nella Trilogia Malese di Antony Burgess: ma non mancano anche da noi gli esempi, Terzani in primis)

Quella di Orwell è invece la coscienza lucida che in un mondo governato dalle leggi del mercato non c’è cultura “alternativa” che tenga: non basta fuggirne, bisogna immergercisi per cambiarlo, nei limiti del possibile ma mirando alla sostanza. Come Kipling, che in India aveva trascorso gli anni dell’infanzia, e che da quella suggestione in fondo non era mai uscito, anche Orwell rimpiange lo sguardo del bambino, torna volentieri a rievocare un mondo precedente: ma lo fa nella piena consapevolezza di coltivare un sogno. «Non apro mai uno dei libri di Kipling – scrive – senza pensare: “Mutamento e decadenza in tutto quello che vedo intorno”» Il pensiero immediatamente successivo è però come arginare questa decadenza, senza perdersi nella nostalgia del passato: e questo sarà uno dei temi ricorrenti nella sua narrativa.

2. Da Giorni in Birmania qualcosa della vita di Orwell avevo appreso: ora ero curioso di conoscere il resto. L’occasione è arrivata qualche anno dopo con Senza un soldo a Parigi e Londra, per il quale funzionava ancora una volta la suggestione del titolo. Uscivo infatti dalla lettura di Furore e di Sulla strada, oltre che da un paio di esperienze di brevi espatri a tasche vuote, proprio nelle città cui si riferiva Orwell. Come nel caso precedente, il libro non corrispondeva affatto a ciò che cercavo, ma fotografava perfettamente quel che già avevo trovato in giro, e dava del vagabondaggio un’idea molto meno romantica di quella che Kerouac e la beat generation diffondevano in quegli anni.

Rientrato dalla Birmania, ancora nauseato per quello che aveva visto e di cui era stato anche attore, tormentato come già ho detto dai sensi di colpa, Eric Blair rifiuta di integrarsi attraverso un qualsivoglia impiego e sceglie di vedere il mondo dalla parte degli sconfitti: «Sentivo di dover sottrarmi non soltanto all’imperialismo ma ad ogni forma del dominio dell’uomo sull’uomo. Volevo sommergermi, scendere in mezzo agli oppressi, essere uno di loro e schierarmi al loro fianco contro i loro tiranni. E, soprattutto perché avevo dovuto riflettere e scoprire ogni cosa in solitudine, avevo finito per portare il mio odio dell’oppressione al di là d’ogni limite. In quel periodo, il fallimento mi sembrava essere la sola virtù. Ogni sospetto di carriera, di “successo” nella vita anche nel senso di riuscire a guadagnare qualche centinaio di sterline all’anno, mi pareva spiritualmente turpe, una specie di prepotenza».

È attratto da Parigi, che negli anni venti era la capitale della cultura europea, cosmopolita e liberale. Non ha molto chiaro quel che vuole fare, ma vuole senz’altro sottrarsi all’atmosfera ipocrita e spocchiosa dell’Inghilterra post-vittoriana. Spera che nel clima di creatività e di assoluta libertà di pensiero promesso dalla metropoli francese ci si possa seriamente dedicare alla letteratura. Le cose non sono però così facili. “Nella primavera del 1928 partii per Parigi, dove intendevo vivere con poco mentre scrivevo due romanzi (mi spiace dirlo, mai pubblicati) e magari imparare anche il francese. Nell’estate del 1929 i miei due romanzi erano terminati; ma gli editori non vollero che me ne separassi, e così mi trovai quasi senza un soldo e con un impellente bisogno di lavorare.”

Non entra nel giro che conta, non incontra i protagonisti della vita culturale, letterati e artisti, e nemmeno ha contatti con l’ambiente dei fuorusciti, russi e italiani in testa. Una volta rapidamente esaurito il piccolissimo gruzzolo sul quale faceva conto per i primi tempi, deve ingegnarsi a sbarcare il lunario. “Dici che vuoi scrivere. Scrivere è un’assurdità. C’è un solo modo per far soldi con la penna, ed è quello di sposare la figlia di un editore – gli dice un suo occasionale coinquilino – Ma tu potresti diventare un buon cameriere se ti tagliassi quei baffi.” I baffi non li taglia, e nemmeno riesce a diventare un buon cameriere, ma sopravvive.

Se si confronta la sua esperienza con quanto raccontato da Henry Miller in Parigi 1928 si ha l’impressione che il nostro sia finito in un’altra città. I suoi compagni nell’anno e mezzo di permanenza in Francia sono solo dei falliti che vivono di espedienti, una fauna internazionale sì, ma che si trascina da una occupazione miserabile all’altra, quando la trova. Niente ritrovi di intellettuali o grandi sbornie collettive con risse finali da operetta, non una serata trascorsa nei bistrot del Lungosenna a discutere di letteratura. Solo bevute solitarie per dimenticare la fatica, lavate di testa per il minimo ritardo o errore nel servizio, fregature rimediate da compagni di sventura, dagli strozzini del monte dei pegni o da professionisti dell’arte di arrangiarsi, lunghi periodi di fame nera e ambienti perennemente luridi.

La fatica, il sudiciume, le umiliazioni sono raccontati senza rancore, sono vissuti con passiva rassegnazione, ma costituiscono le uniche costanti di questa esperienza. Dopo aver letto queste pagine e dato uno sguardo a quel che accade oltre le porte delle cucine sarà difficile apprezzare un pranzo in un ristorante parigino o la sosta in un albergo. La cosa più straordinaria è però che tutto questo, in fondo, non ci indigna: come accade per i coevi film di Chaplin, siamo immersi in una vergogna sociale, ma se un riscatto ci attendiamo è solo quello individuale (forse perché sappiamo che il protagonista la sua condizione in qualche modo se l’è scelta). È significativa in proposito la descrizione delle diverse mentalità di chi lavora in questi ambienti:

Il giovane Orweell07«Un albergo va avanti perché chi vi lavora è sinceramente fiero di quello che fa, per quanto possa essere stupido e orribile il suo lavoro. Se uno batte la fiacca, gli altri se ne accorgono subito e cospirano contro di lui per farlo licenziare […] Anche il cameriere è, in certo modo, fiero della propria abilità, che però consiste soprattutto nell’essere servile. Il lavoro gli conferisce l’abito mentale non già dell’operaio, ma dello snob. Vive sempre con gente ricca sotto gli occhi, ne ascolta le conversazioni, sta in piedi accanto al loro tavolo, li adula con sorrisi e piccole facezie discrete. Ha il piacere di spendere denaro per procura.

Per di più ha sempre la possibilità di diventare ricco a sua volta, perché, sebbene la maggioranza dei camerieri muoia povera, ogni tanto godono di lunghi periodi di fortuna. Il risultato è che, a furia di vedere sempre denaro e sperare di farne, il cameriere finisce con l’identificarsi, in un certo senso, col suo datore di lavoro. […] Si adopererà per servire un pranzo con stile, perché sente di partecipare egli stesso a quel pranzo […].

I “plongeurs” (è questo il solo tipo di impiego che Orwell riesce a rimediare), a loro volta, hanno una mentalità diversa. Il loro è un lavoro senza prospettive, è molto gravoso e nello stesso tempo non richiede la minima abilità, così come non presenta il minimo interesse; è il genere di lavoro che solo le donne farebbero, se avessero la forza necessaria. Tutto quello che si chiede loro è di essere sempre in attività, e sopportare un orario gravoso e un’atmosfera soffocante. Non hanno modo di cambiar vita, perché con la loro paga non possono mettere da parte un soldo, e un orario di lavoro che va dalle sessanta alle cento ore settimanali non lascia loro il tempo d’imparare a fare qualcos’altro. Tutt’al più possono sperare di trovare un lavoro un po’ più leggero come guardiano notturno o inserviente ai gabinetti

Per uno che era partito avendo in mente soprattutto di conservare ad ogni costo la propria libertà di pensiero e di movimento non è certo il massimo.

Il giovane Orweell08Rientrato alla fine in patria, cambia scenario, ma non condizione. L’esistenza vagabonda Orwell la conduce per altri tre anni. Finisce persino in carcere, per ubriachezza (sia pure volutamente, per conoscere dall’interno anche quell’ambiente). Si concede delle rare pause quando gli capita qualche offerta per brevi periodi di insegnamento o di collaborazione a piccole riviste, poi torna a peregrinare con gli altri disgraziati seguendo la mappa delle stagioni dei raccolti, del luppolo o delle mele. È talmente impegnato a sopravvivere che non ha molto tempo per pensare. Lo farà solo dopo, al momento di tirare le somme di quell’esperienza: e sarà un bilancio tutt’altro che esaltante.

«Nel complesso il primo contatto con la miseria è un fatto curioso. Ci avete pensato tanto, alla miseria: l’avete temuta tutta la vita, sapevate che prima o poi vi sarebbe piovuta addosso; ma in realtà tutto è totalmente, prosaicamente diverso. V’immaginavate che fosse una cosa semplicissima, e invece è quanto mai complicata. V’immaginavate che sarebbe stata terribile, ma è soltanto squallida e noiosa. Innanzitutto scoprite l’“abiezione” della miseria, gli espedienti ai quali vi costringe, le complicate meschinità, le pitoccherie.

Scoprite il tedio, che è compagno inseparabile della miseria; non avete niente da fare, e siccome siete denutrito non riuscite a interessarvi a niente. Nient’ altro che il cibo potrebbe scuotervi. Scoprite che quando un uomo va avanti una settimana a pane e margarina non è più un uomo; è solo un ventre con qualche organo accessorio

Potevo riconoscermi in qualche modo nella prima parte del libro, quella appunto che si svolge a Parigi, per aver lavorato come lavapiatti su una nave per qualche tempo: capivo dunque di cosa parlava quando raccontava di giornate lavorative da diciotto ore e di settimane da sette giorni senza riposo, e soprattutto conoscevo il disagio di svolgere un lavoro che non ti insegna nulla e ti costringe a prendere ordini da gente per la quale in genere nutri solo disprezzo. Allo stesso modo, in un’altra occasione avevo anche sperimentato cosa significa resistere a Londra senza una lira in tasca, sia pure per un solo mese e mezzo, e come ci si può ingegnare per sopravvivere, passando sopra anche a certi piccoli scrupoli morali.

Senza un soldo mi aveva comunque spiazzato. L’ho letto a vent’anni, col cuore che opponeva qualche resistenza, perché a quell’età per quanto scafati ci si aggrappa ancora ai miraggi di palingenesi: ma nella testa sentivo che era giusto non tacere del degrado morale che si accompagna con la fame e le privazioni a quello fisico, anche a costo di veder svanire quei miraggi. Orwell era il primo autore che riconoscevo totalmente onesto nel raccontare queste vicende e nel descrivere il mondo dei marginali e dei diseredati con i quali aveva convissuto. E, soprattutto, nel valutare lucidamente la parte giocata dal narratore all’interno del quadro: “Sfortunatamente non si risolve il problema classista diventando amici di vagabondi. Al massimo, facendolo, ci si libera di qualche pregiudizio di classe”.

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3. Quanto avevo trovato in Senza un soldo mi è stato confermato qualche anno dopo da La strada di Wigan Pier. Quest’ultimo non è il resoconto di un vagabondaggio, ma un vero e proprio studio sociologico, avvalorato da cifre, dati e statistiche, sulle condizioni in cui vivevano i lavoratori nel nord-ovest industriale dell’Inghilterra, una delle zone più desolate del paese. Il quadro che risulta dalla prima parte dell’indagine è impressionante, sia quando descrive il decadimento fisico e morale degli abitanti dei quartieri poveri che quando racconta il lavoro semischiavile nei pozzi minerari.

Orwell non è affatto un osservatore freddo e distaccato. Anzi: questa sua esperienza diretta la rivendica costantemente, per dire che lo squallore lui l’ha visto da vicino, l’ha addirittura fisicamente vissuto, e proprio per questo può parlarne senza retorica, esponendo le cose così come sono. “Mi sono recato colà un po’ perché volevo vedere che cosa sia la disoccupazione di massa nella sua fase peggiore e un po’ per osservare da vicino la più tipica sezione della classe operaia inglese. Ciò era necessario per me come parte del mio aderire al socialismo. Perché prima di sentirci sicuri di essere genuinamente socialisti si deve decidere se le cose al presente siano tollerabili o non tollerabili e si deve assumere un atteggiamento definito sul problema terribilmente difficile del classismo”.

Nel suo resoconto/racconto c’è un intento fortemente polemico nei confronti della tendenza della sinistra alle costruzioni dottrinarie e puramente teoriche. In virtù di quanto ha potuto conoscere sul campo Orwell si ritiene autorizzato a lanciarsi, nella seconda parte, in un pamplet su ciò che non funziona, non tanto nel socialismo in sé, quanto nel modo in cui viene propagandato e professato. “Per difendere il socialismo occorre cominciare attaccandolo” – scrive, e precisa: “Il socialismo come lo intendo io.” La domanda da cui parte è: “come mai non siamo tutti socialisti, considerata la semplice e palese bontà dell’idea?” La risposta, o meglio, le diverse risposte che si dà mettono impietosamente a nudo le contraddizioni e le ipocrisie della sinistra, e ciò spiega perché il suo editore, un convinto militante, abbia fatto pressioni per pubblicare solo la prima parte. Il libro era stato commissionato infatti dal Left Book Club, e le riflessioni che conteneva non andavano certamente nella direzione attesa. Ma a questo punto Eric Blair era già diventato George Orwell (firma questo libro per la prima volta con lo pseudonimo che lo renderà famoso), e non aveva ceduto. All’editore non era rimasto che cercare di mitigare la deriva “ereticale” con una prefazione “allineata”, che difendeva ad esempio la politica di industrializzazione forzata portata avanti in quegli anni dall’Unione Sovietica, sulla quale invece Orwell picchiava pesante.

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D’altro canto, le ragioni che Orwell adduceva per spiegare la diffidenza della maggioranza degli inglesi, lavoratori compresi, nei confronti del socialismo, rapportate alla sua epoca appaiono perfettamente plausibili (e per certi versi lo sono ancora oggi). Lo erano tanto più proprio perché nascevano dalla personale immersione nell’inferno rivelato dall’indagine. Orwell non si stanca mai di ribadire: “Questa è la realtà dei fatti, così stanno le cose”, e di sottolineare come il socialismo dottrinario quella realtà la ignori, attaccato com’è al dogmatismo dei principi e all’uso di un linguaggio stereotipato, al culto del progresso tecnologico e al pregiudizio di classe esercitato alla rovescia.

«La letteratura socialista – scrive ad esempio a proposito dei modi della comunicazione, del linguaggio della propaganda – anche quando non è apertamente scritta dall’alto in basso, è sempre totalmente estranea alla classe operaia in linguaggio e modo di pensare… È dubbio che qualcosa definibile come letteratura proletaria esista attualmente, ma un buon autore di commedie musicali si avvicina a produrre qualcosa del genere più di qualunque scrittore socialista a cui io possa pensare. Quanto al gergo tecnico dei comunisti, è tanto lontano dal linguaggio comune quanto quello di un manuale di matematica. Ricordo di aver udito il discorso di un oratore comunista a un pubblico operaio. Era un discorso zeppo delle solite cose libresche, tutto frasi lunghissime, parentesi e “ciò non ostante” e “comunque possa essere”, oltre alle consuete espressioni a base di “ideologia”, “solidarietà proletaria”, “coscienza di classe” e così via.»

Il sarcasmo orwelliano tocca però il culmine quando stigmatizza l’ostentazione di anticonvenzionalismo, un atteggiamento che irrita chi ne è spettatore e induce una rancorosa aggressività in chi lo pratica. «Come per il cristianesimo, gli adepti al socialismo sono la sua peggiore pubblicità … c’è l’orribile prevalenza – davvero preoccupante – di eccentrici e di svitati, ovunque si raccolgano dei socialisti. A volte si ha ‘impressione che le sole parole ‘socialismo’ e ‘comunismo’ attraggano a sé con forza magnetica ogni vegetariano, ogni nudista, ogni portatore di sandali, ogni maniaco sessuale, quacchero, guaritore naturista, pacifista e femminista d’Inghilterra.» Può sembrare una notazione molto forzata, ma se traduciamo i termini socialista e comunista, ormai in disuso, con i più vaghi “disobbediente” o “antagonista”, e proiettiamo l’immagine un secolo avanti, magari integrando la galassia degli ‘eccentrici’ con nuove categorie, abbiamo la fotografia della situazione attuale.

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Quanto invece al progresso e alla tecnica, la posizione di Orwell è più articolata: «La specie di individuo che prontamente accetta il socialismo è anche la specie di individuo che guarda al progresso meccanico, “come tale”, con entusiasmo. E ciò è talmente vero che i socialisti sono spesso incapaci di capire che esiste l’opinione opposta. Di norma, l’argomento più persuasivo a cui possano pensare è di dirvi che la presente meccanizzazione del mondo è niente a paragone di ciò che vedremo quando il socialismo si sarà stabilito. Dove oggi c’è un solo aereo, in quei giorni ce ne saranno cinquanta! Tutto il lavoro che è fatto oggi dalla mano sarà allora fornito dalle macchine; tutto ciò che oggi è di cuoio, legno o pietra sarà fatto di gomma, vetro o acciaio; non ci sarà disordine alcuno, non ci sarà incertezza alcuna, non ci saranno distese desertiche, selvagge, non ci saranno belve feroci, male erbe, malattie, non ci sarà né povertà né dolore e così via. Il mondo socialista sarà soprattutto un mondo ‘in ordine’, un mondo efficiente. Ma è precisamente da questa visione del futuro come una specie di scintillante mondo wellsiano che rifuggono le menti sensibili.»

I tre quarti di secolo trascorsi hanno in realtà ribaltato oggi le posizioni della sinistra, almeno di quella più radicale, spingendola su posizioni che un tempo erano proprie del conservatorismo. Orwell fa però riferimento alla forma di pensiero “progressista” dominante nella sua epoca, e la sua originalità sta nel fatto che non si limita a stigmatizzare la mitizzazione della tecnica o l’uso distorto che si ne è fatto, ma ne denuncia la natura già intrinsecamente alienante. Fa parte anche lui delle “menti sensibili”, anche se poi prende atto che un’alternativa credibile al suo utilizzo non c’è. Ma su questo mi riservo di tornare tra poco.

Ciò che più mi aveva colpito in Senza un soldo (e che ho ritrovato in un’altra accezione in Wigan Pier: per questo li accomuno) è la distanza che con disarmante sincerità Orwell confessa di provare nei confronti dei ‘poveri’ ai quali si mescola. “Avevo affetto per loro e spero che essi lo avessero per me; ma mi aggiravo in mezzo a loro come un estraneo, e ne eravamo tutti consapevoli. Da qualunque parte vi volgiate, questa maledizione della differenza di classe vi si para dinanzi come una muraglia. O meglio, non tanto come una muraglia quanto come la parete di vetro di un acquario; è così facile fingere che non ci sia e così impossibile penetrarla.”

Non ha alcuna pretesa di diventare un “proletario ad honorem”: partecipa della miseria, ma non si identifica con i miserabili, Rimane sempre un testimone, ed è aiutato a mantenerne la consapevolezza dal fatto che gli altri avvertono la sua diversa estrazione, vuoi per come muove le mani, vuoi per l’accento o il modo di parlare o di camminare, per l’aspetto nel suo assieme, che a dispetto degli abiti logori mantiene una sua borghese “eleganza”.

Prendiamo me, membro tipico del ceto medio. È facile per me dire che voglio liberarmi delle differenze di classe, ma quasi tutto ciò che penso e faccio è il risultato di differenze di classe. Tutte le mie nozioni – nozioni del bene e del male, del piacevole e dello spiacevole, del buffo e del serio, del bello e del brutto – sono essenzialmente nozioni piccoloborghesi; il mio gusto in fatto di libri, di cibi e di abiti, il mio senso dell’onore, il modo in cui so stare a tavola, il giro delle mie frasi, il mio accento, perfino i movimenti caratteristici del mio corpo, sono i prodotti di un genere particolare di educazione e di una nicchia particolare a mezza via della scala sociale. Quando capisco questo capisco anche che non serve a nulla dare una manata sulle spalle di un proletario, dicendogli che è un uomo bravo quanto me; se voglio avere un autentico rapporto con lui, devo fare uno sforzo per il quale molto probabilmente non sono preparato. Per tirarmi fuori dal brutto affare classista, devo sopprimere non solo il mio snobismo personale, ma anche quasi tutti gli altri miei gusti e pregiudizi. Devo alterare me stesso così completamente che alla fine non sarei più riconoscibile come la stessa persona”.

E allora, per evitare ipocrisie, occorre aver ben chiaro da dove arrivi la distanza, come si è generata. “Ero piccolo, molto piccolo, non avevo più di sei anni, quando mi resi conto per la prima volta delle distinzioni di classe. Prima di quell’età, i miei eroi principali erano stati generalmente operai, perché sembravano sempre intenti a fare cose interessanti come pescare, battere il ferro o costruire case. […]

Ma non passò molto tempo prima che mi si proibisse di giocare coi figli dell’idraulico; erano ‘ordinari’ e mi si disse di stare lontano da loro. Era una cosa un po’ snob, se volete, ma anche necessaria, perché gente del ceto medio non può permettere che i suoi figli imparino a parlare con accento plebeo.”

Arriva ad inserire una considerazione che, malignamente estrapolata, farà gridare allo scandalo i recensori “benpensanti” e i politicamente corretti ante-litteram, e sarà usata per screditarlo, a dispetto della chiarezza e della verità del suo significato: “Ecco che cosa ci insegnavano, che ‘la gente bassa puzza’. E qui, ovviamente, ci troviamo di fronte a una barriera insuperabile. Perché nessun sentimento di simpatia o di antipatia è così fondamentale come un sentimento fisico. L’odio di razza, l’odio di religione, differenze di educazione, di temperamento, d’intelletto, perfino differenze di codice morale, possono essere superate; ma la ripugnanza fisica non si può superare. Potete avere dell’affetto per un assassino o un sodomita, ma non per un uomo dall’alito fetido, abitualmente fetido, intendo. Per quanto bene possiate augurargli, per quanto possiate ammirare il suo carattere e la sua mente, se gli puzza il fiato, è un uomo orribile e, nel più segreto fondo del cuore, lo odiate. Può non avere grande importanza che il borghese medio sia allevato nell’idea che la classe operaia è ignorante, pigra, beona, triviale e disonesta; è quando vi si cresce nell’idea che l’operaio è anche sporco che si fa il guaio. E nella mia infanzia ci crescevano nell’idea che la gente del popolo è sporca. Molto presto nella vita acquisivi il concetto che c’è qualcosa di repulsivo in un corpo d’operaio […].

Il giovane Orweell12Tutto questo non mi indignava e non mi disturbava affatto, anzi: se una cosa non sopporto è proprio l’ipocrisia che sta dietro la mistica del proletariato, la presunzione di saperne cogliere e interpretare le aspettative e le paure, addirittura meglio dei proletari stessi, di esserne insomma la coscienza avanzata. Questa sì, mi è sempre parsa una forma insopportabile di ‘colonialismo sociale’. Persino io, che di quel proletariato facevo parte senza ombra di dubbio, avvertivo una distanza, e non perché fossi stato educato a “percepirne gli odori” (che tra l’altro, l’igienizzazione sempre più diffusa ha cancellati, reali o metaforici che fossero, così come la standardizzazione dell’abbigliamento o la scomparsa dei dialetti ha livellato gli altri indicatori sociali più eclatanti), quanto per il fatto che bene o male avevo potuto accedere a un certo livello d’istruzione e già vedevo la mia condizione da un altro punto di vista. Percepivo (e pativo) la differenza nelle aspettative “di senso”, individuali e sociali, rispetto alla maggior parte dei miei compagni del paese: ma ho patito ancor più quella rispetto ai miei compagni di studi, soprattutto all’università, e di militanza politica successivamente, che si arrogavano l’interpretazione autentica delle “istanze proletarie” e si candidavano ad avanguardie.

In Orwell la consapevolezza di quella distanza non si traduceva in rassegnazione; era il gesto di onestà necessario per cominciare sul serio a parlare di un qualche possibile cambiamento. La confessava senza tanti infingimenti e senza cercare scusanti: le cose stanno così, sembrava dire, ed è inutile e disonesto cercare di raccontarsele in altro modo. Importante è saperlo, e comportarsi di conseguenza.

Per questo, già molto prima di arrivare a quello che sarebbe stato poi giudicato un “tradimento”, non perdeva l’occasione di attaccare i “compagni” borghesi. Ne distingueva diverse tipologie: “gli schiumanti accusatori della borghesia, gli annacquati riformatori… i giovani astutissimi arrampicatori social-letterari che sono oggi i comunisti … e finalmente tutta quella deprimente tribù di donne magnanime, di uomini in sandali e di barbuti bevitori di succhi di frutta”, e di ciascuna denunciava in un aggettivo o in una lapidaria immagine la povertà di spirito, l’ambiguità, la grettezza delle motivazioni. “Un borghese abbraccia il socialismo e forse s’ iscrive addirittura al partito comunista. Ciò, che reale differenza fa? c’è qualche mutamento nei suoi gusti, nelle sue abitudini, nei suoi modi, nella sua mentalità, nella sua ‘ideologia’, per usare il termine dei comunisti? È da notarsi che egli continua a frequentare abitualmente le persone del suo ceto; si sente infinitamente più a suo agio con un membro della sua classe, il quale lo ritiene un pericoloso bolscevico, che con un membro della classe operaia, il quale si suppone condivida le sue idee; i suoi gusti in fatto di cibo, vino, abiti, libri, quadri, musica, balletto sono ancora riconoscibilmente gusti borghesi. I più dei socialisti borghesi, mentre teoricamente aspirano a una società senza classi, restano attaccati come pece ai miserabili frammenti del loro prestigio sociale”.

L’ironia di Owell è incapace di sconti nei confronti di coloro i quali, giocando a identificarsi con il proletariato, lo tradiscono. “Forse, le buone creanze a tavola non sono una cattiva dimostrazione di sincerità. Ho conosciuto molti socialisti borghesi, ho ascoltato per ore la loro tirata contro la loro classe eppure mai, neppure una volta, ne ho incontrato uno che a tavola avesse preso a comportarsi come un proletario – osserva Orwell. – Può essere solo perché in cuor suo sente che le maniere proletarie sono disgustose.

Più tardi, in Fiorirà l’aspidispra, disegnerà la figura di Philip Ravelston, un intellettuale alto borghese che aderisce al marxismo e se ne fa ardente propugnatore, ma che a dispetto degli sforzi per scimmiottare i modi di vita dei proletari non riesce a tagliare i ponti con la classe sociale da cui proviene, e ne conserva inconsciamente gli atteggiamenti e la disposizione mentale. “Gli piaceva pensare alla gente perduta, alla gente del sottosuolo, vagabondi, mendicanti, criminali, prostitute. È un mondo buono quello in cui vivono nelle loro fetide pensioncine equivoche, nelle loro infermerie d’ospizio. Gli piaceva pensare che sotto il mondo del denaro si stendono i vasti bassifondi della sporcizia e della degradazione, dove sconfitta o riuscita non hanno più significato alcuno; una specie di regno di spettri, dove tutti sono uguali.” Ravelston lo pensa però seduto nel proprio salotto, e lo afferma durante le sedute del club di cui è socio. Eppure diventa una figura di riferimento per il protagonista del romanzo, in positivo (lo invidia) e in negativo (si compiace di coglierne le incongruenze). Questi è a sua volta un aspirante intellettuale che della propria frustrazione vuol fare virtù, imponendosi una coerenza esterna estrema nei modi di vivere: ciò che in realtà non lo porta a nulla e non lo rappacifica con se stesso.

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4. L’idea di Orwell di studiare le classi più povere dall’interno non era così originale. Trent’anni prima Jack London, per scrivere Il popolo degli abissi, aveva vissuto per un mese e mezzo travestito da barbone nell’East End di Londra. Ne ho già parlato altrove (cfr. Tre vagabondi), e quindi non sto a ripetermi. Mi limito a cogliere la sottile differenza sia delle motivazioni che dei modi, ma soprattutto dello spirito, coi quali l’esperienza è stata vissuta dai due.

In entrambi i casi la finalità è quella del reportage giornalistico, ma la destinazione di questo reportage cambia. London intendeva, non senza una punta di sciovinismo, raccontare agli americani il ritardo dell’Inghilterra quanto a progresso sociale. Chiarisce nella nota di presentazione che la sua è una descrizione realistica dell’altra faccia della società inglese, quella che ospita gli sconfitti e gli sfruttati, e che viene sempre celata dietro l’immagine di una crescita economica straordinaria. È una sorta di rivincita nei confronti dello snobismo col quale gli inglesi avevano sempre trattato la cultura e la civiltà americana; nasce come un’indagine sociale, ma alla fine assume il significato di un j’accuse politico.

Il giovane Orweell13Anche London, come Orwell, era un socialista. Sia pure in una maniera tutta sua, molto americana, che combinava Marx con Nietzsche e con Sorel. E anche lui, come Orwell, col socialismo, o meglio, coi socialisti, ebbe un rapporto conflittuale, soprattutto dopo che si rese conto che la gran parte dei suoi consistenti contributi economici alla causa era finita nelle tasche dei capi. Ciò lo aveva indotto, ad un certo punto, a prendere le distanze dal movimento e dalle organizzazioni sindacali, per coltivare un socialismo personalissimo e molto disincantato.

È chiaro che Orwell ha preso a modello il London de Il popolo degli abissi, ed egli stesso non ha esitazioni a confessarlo: così come più tardi riconoscerà, a proposito di 1984, il debito con Il tallone di ferro, tra i primi romanzi distopici del ventesimo secolo.

La disposizione con la quale i due si calano nei bassifondi dell’umanità non è però identica. Intanto, quando aveva deciso di camuffarsi da relitto umano, assumendo le sembianze di un marinaio americano senza un soldo e alla ricerca di un imbarco, London era già uno scrittore ricco, famoso e osannato. Era uscito da una povertà che aveva conosciuto da dentro, senza bisogno di cercarla, e l’impegno di tutta la sua vita fu poi di non ricaderci. Al contrario di Orwell, quindi, arrivava da una educazione tutt’altro che borghese, che non gli aveva trasmesso pregiudizi. In quelle «bande di “cads”, ragazzacci ineducati che ti si buttavano addosso spesso in cinque o dieci contro uno”, che erano il terrore di Orwell bambino, o tra quei “figli della strada londinesi, con la loro voce squillante e la loro mancanza di scrupoli intellettuali, potevano rendere impossibile la vita a coloro che consideravano inferiore alla propria dignità rispondere loro per le rime» London sarebbe stato un capo.

Non stupisce dunque quello gli accade, la sensazione che prova: «Per strada fui ben presto colpito dalla differenza di status causata dal mio abbigliamento. Qualsiasi servilismo era scomparso dall’ atteggiamento della gente comune con cui entravo in contatto. Oplà! Un battito di ciglia, per così dire, ed ero diventato uno di loro. La mia giacca logora, dai gomiti consunti, era il segno e l’attestazione della mia classe, che era anche la loro classe. Mi rendevo simile a loro, e invece dell’attestazione servile e troppo rispettosa che avevo ricevuto fino ad allora, mi trovavo a condividere un certo cameratismo. L’uomo con i calzoni di velluto e la cravatta lercia non mi chiamava più “signore” o “principale”: ero diventato “amico”, adesso, una parola bella e sincera».

Naturalmente la solidarietà cameratesca degli uni ha il suo contraltare nel declassamento da parte degli altri: “Dal mio nuovo abbigliamento discendevano altri mutamenti di condizione. Scoprii che quando attraversavo un incrocio affollato dovevo stare più attento a evitare i veicoli, e mi apparve chiaro che il valore della mia vita era sceso in proporzione a quello dei miei vestiti. Prima, quando chiedevo la strada a un poliziotto, in genere mi domandava: – In bus o in carrozza, signore? – Adesso mi chiedeva: – A piedi? – E nelle stazioni ferroviarie mi davano un biglietto di terza classe, come fosse del tutto ovvio”.

Anche questa era una sensazione che conoscevo: la mia particolare percezione della ‘distanza’, quella di cui parlavo più sopra, l’avevo vissuta anche a parti ribaltate. Ricordo che una notte, nei tardi anni Sessanta, mentre ci aggiravamo per il quartiere di Soho dopo una giornata di digiuno quasi totale e non volontario, il mio compagno di avventura mi chiese: “Ma non dovremmo aver paura?”. Al che risposi: “Guardati attorno: sono loro ad aver paura di noi”.

London la mette giù in maniera più delicata: “E quando finalmente arrivai nell’East End, scoprii con soddisfazione che non avevo paura della folla. Ero entrato a farne parte. Il mare vasto e maleodorante si era richiuso sopra di me, o meglio mi ci ero immerso dolcemente, e non c’era nulla di terribile in questo, fatta eccezione per la maglia da fuochista”.

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Di terribile c’è invece quello che nell’East End London vede, in un’epoca nella quale l’Inghilterra ha ancora un impero, è la maggiore potenza navale del mondo e accumula ricchezze che affluiscono da tutti i continenti. Vede masse enormi di diseredati: quelli che lavorano, retribuiti con salari da fame e strangolati dai debiti, costretti a spaccarsi la schiena per tirare su pochi spiccioli; i disoccupati e i vagabondi che si aggirano pressoché invisibili per le strade, sperando di trovare un qualsiasi momentaneo lavoro, a dispetto magari dell’’età avanzata o della debolezza fisica, raccolgono gli avanzi di cibo nella spazzatura e dormono di notte sulle panchine: gli uni e gli altri impegnati con tutte le loro forze solo a sopravvivere.

In quella che definisce una “voragine umana infernale” London incontra tuttavia anche alcuni personaggi che sono riusciti a dispetto della miseria a conservare la loro dignità e oppongono una resistenza eroica e solitaria alla nullificazione. Ci offre ogni tanto immagini di un socialismo un po’ deamicisiano, che devono qualcosa anche al culto superomistico di origine nietzschiana. Del resto, lui stesso rappresenta l’esempio più clamoroso di chi dalla miseria ha saputo emanciparsi con la sola forza della sua volontà e con una cultura conquistata con i denti. Sono convinto che fosse questo a fargli scorgere la possibilità di risalita dalla voragine: ma anche che figure come quelle che racconta potessero esistere veramente, prima che la burocratizzazione della lotta del proletariato ne decretasse la scomparsa.

In questo differisce da Orwell, che invece non si fa concessioni. Anche nel quadro da lui dipinto alcune figure emergono rispetto allo squallore generalizzato, ma l’impressione è che lo spazio concesso alle individualità sia davvero ridottissimo. C’entra forse il fatto che Orwell descrive la situazione creatasi immediatamente a ridosso della grande crisi del ‘29, ma la convinzione dello scrittore inglese è quella cui ho già accennato: la fame e la misera disumanizzano totalmente. La sua esperienza non dura sei settimane, ma anni, e il contatto prolungato con quella realtà finisce non per renderla normale, ma per farla cogliere al di là dell’eccezionalità e dello scandalo. Inoltre, a differenza di London, Orwell nella povertà ci si imbatte: almeno per quanto concerne le esperienze parigina e londinese non si può dire che la scelga.

Arrivano comunque alla stessa conclusione. Come scrive London: “Non ci si può sbagliare. La civiltà ha centuplicato le capacità produttive dell’uomo e, a causa della cattiva gestione, i suoi uomini vivono peggio delle bestie”. La cattiva gestione, tanto per lui quanto per Orwell, è quella operata dal modo di produzione industriale. Con la differenza che per il primo il fattore più grave è la redistribuzione ineguale delle risorse, mentre per il secondo l’industrialismo non determina soltanto una sopravvivenza fisica sempre più precaria, ma cancella nei lavoratori poveri anche ogni dignità morale, li rende quasi disumani. I personaggi disgustosi “il cui modo di parlare – dice Orwell – ti dà la sensazione che non siano persone vere, ma un tipo di fantasma che ripete in eterno lo stesso discorso senza né capo né coda […] esistono in centinaia di migliaia, e sono i prodotti caratteristici del mondo moderno, di quello che l’industrialismo ha fatto per noi”.

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5. La denuncia della nuova miseria creata dal produttivismo arriva principalmente dagli scrittori inglesi, ed è comprensibile, dal momento che in Inghilterra le prime due fasi della rivoluzione industriale sono già compiute alla fine dell’Ottocento, e i loro risvolti negativi, a livello sia ambientale che sociale, sono ormai evidenti. La povertà narrata dai romanzieri francesi (da Hugo a Zola), da quelli russi (Gorkij) o scandinavi (Hamsun, Martinsson) o italiani (Verga) è ancora legata ad un mondo preindustriale. Orwell è stato invece preceduto anche da diversi connazionali. Dando per scontato Dickens, autore d’obbligo nella formazione culturale vittoriana, che in opere come Tempi difficili o Oliver Twist lancia una indignata protesta sociale (anche se è poi costretto da esigenze di cassetta ad annacquarla con finali dolciastri), dietro l’opera di Orwell si può ad esempio facilmente cogliere l’influsso di quella di George Gissing.

Gissing la povertà non l’aveva cercata, né ci si era imbattuto. C’era proprio cascato dentro, in seguito ad una serie di disavventure sentimentali che ne avevano troncato le aspirazioni di umanista brillante e appassionato. Aveva conosciuto persino il carcere, e si era trovato a condividere la vita degradata e umiliante degli abitanti dei più squallidi bassifondi londinesi. Non gli restava che fare di necessità virtù, denunciando nei suoi primi romanzi la miserabile realtà degli slums londinesi. “L’arte deve essere oggi il portavoce della miseria, perché la miseria è la nota dominante del nostro mondo” – faceva dire ad uno dei suoi protagonisti – “Voglio far capire alla gente le spaventose condizioni (materiali, intellettuali e morali) delle nostre classi povere, per mostrare l’orrenda ingiustizia di tutto il nostro sistema sociale, e illuminare un piano per riformarlo.”

Quella miseria Gissing la conosce meglio degli stessi London e Orwell, perché è costretto ad affrontarla non da più o meno allegro vagabondo, ma avendo sulle spalle la responsabilità di una famiglia. Per questo motivo, e soprattutto per un’attitudine caratteriale decisamente pessimista, nei confronti dell’ambiente che descrive prova soltanto antipatia ed avversione. C’è un divario enorme tra la sua capacità di rappresentare il degrado sociale e l’incapacità di entrare in sintonia con la massa che lo vive, di intenderne e di parlarne il linguaggio. Non ha nemmeno bisogno di confessare apertamente i suoi sentimenti, come farà Orwell; questo rifiuto lo si avverte subito, perché Gissing non si sforza affatto di mantenersi neutrale. Vive tra i poveri, osserva i poveri e si propone, con i suoi libri, di rendere loro un servizio, ma non riesce né ad amarli né a sopportarli, prova quasi un odio fisico, è costantemente irritato dalla loro meschina materialità. Si sente tra loro come un prigioniero, e i soli personaggi che si distinguono positivamente in tanto squallore sono i prigionieri come lui, costretti in un mondo che è loro estraneo e che tarpa l’ingegno e le speranze.

Il giovane Orweell15Malgrado ciò, per molti aspetti Gissing è molto più prossimo ad Orwell di quanto potrebbe sembrare. Nel suo unico libro di viaggi, Sulle rive dello Ionio, scrive ad un certo punto: “Ogni uomo ha un suo anelito intellettuale; io ho quello di sfuggire alla vita che conosco e di tornare, per virtù del sogno, in quell’antico mondo che deliziò la mia immaginazione di fanciullo” (nel suo caso si tratta del mondo greco e romano). Le vestigia di questo mondo le trova ad esempio nel Meridione italiano, e segnatamente nella sua area più arretrata, in Calabria: ne è talmente suggestionato da tollerare la miseria delle popolazioni calabresi, che gli appare comunque solare, mentre considera torbida e insopportabile quella delle masse londinesi. (In questo è simile a molti suoi contemporanei in fuga dalla società vittoriana, ma molto diverso da Dickens, che nel suo resoconto di un viaggio in Italia parla di “Città sporche e tristi, paese decadente, umanità ambigua” e scrive, in una lettera ad un amico: “Se tu potessi vedere i lazzaroni come sono in realtà: meri animali, squallidi, abietti, miserabili, per l’ingrasso dei pidocchi; viscidi, brutti, cenciosi, avanzi di spaventapasseri!”).

Ora, anche Orwell, come ho già accennato, rimpiange il passato. In effetti moltissime sue pagine appaiono intrise di nostalgia (e questa la fa addirittura da protagonista in Una boccata d’aria). Ma è necessario distinguere tra le possibili disposizioni d’animo con le quali la nostalgia viene vissuta. Nel caso di Orwell la rievocazione nostalgica riguarda un tempo, un mondo, una condizione che ha direttamente conosciuto; per altri, come appunto Gissing, è rivolta invece a mondi solo idealizzati, anche se amati al punto da diventare comunque condizionanti per l’esistenza. In quest’ ultimo caso non è soltanto questione di tornare indietro, ma di andare proprio altrove. In fondo si tratta di utopie personalissime, di nicchie individuali che ci si ritaglia e che paradossalmente possono essere rese concrete, per brevi periodi e in condizioni particolari come quelle che si realizzano per Gissing lungo le rive dello Jonio.

Orwell rimane invece sempre perfettamente consapevole che quel tempo, quel mondo e quella condizione ai quali va con la memoria non possono tornare, e sa benissimo che il ricordo ne ha selezionato solo i lati positivi. “Rassegniamoci al fatto che il ritorno a un modo di vivere più semplice, più libero, meno meccanizzato, per desiderabile che possa essere, non si verificherà. Questo non è fatalismo, è semplice accettazione dei fatti.”

Questo perché: “Nessun essere umano vuol fare checchessia in modo più scomodo di quel che sia necessario. Da qui l’assurdità di quel quadro dei cittadini di Utopia che si salvano l’anima con lavoretti decorativi. In un mondo dove tutto possa essere fatto dalle macchine, tutto sarà fatto dalle macchine. Tornare deliberatamente a metodi primitivi, usare strumenti arcaici, porre piccoli ostacoli idioti sulla propria strada, sarebbe dar prova di dilettantismo, darsi arie da falso artista, rendersi ridicoli. Sarebbe come sedersi solennemente a tavola per far colazione con posate di pietra”.

Usa dunque la memoria solo per trarne una qualche consolazione di fronte ad un presente e a un futuro che non lasciano presagire nulla di buono. Se non altro, essa testimonia il fatto che modi di vita differenti sono stati possibili, e se pure irripetibili, possono fungere da parametro per orientare le nostre scelte future, per non lasciare cadere ogni speranza.

Le città industriali erano lontane, una macchia di fumo e di sofferenza nascosta dalla curvatura della terra. Qui si era ancora nell’Inghilterra che ho conosciuto nella mia infanzia: le scarpate lungo la ferrovia ricoperte di fiori selvatici, i prati dall’erba alta dove grandi cavalli lustri brucano e meditano, i lenti ruscelli in mezzo ai salici, le verdi distese di olmi, la speronella nei giardini delle casette di campagna; e poi il grande deserto tranquillo della periferia londinese, le chiatte sul fiume fangoso, le strade familiari, i manifesti che annunciano gli incontri di cricket e i matrimoni della famiglia reale, i signori in bombetta, i piccioni di Trafalgar Square, gli autobus rossi, i poliziotti in blu – tutti addormentati nel profondo, profondissimo sonno dell’Inghilterra, da cui a volte temo non ci sveglieremo mai finché non ne saremo strappati di colpo dal boato delle bombe.

Quanto a Gissing, Orwell lo stima moltissimo: “Era un uomo intelligente e caritatevole, una persona erudita e raffinata che, dopo aver sperimentato il contatto diretto con i poveri di Londra, arrivò alla seguente conclusione: quella gente è selvaggia, mai e poi mai deve avere accesso al potere politico […] Da questo scrittore, che amava la tragedia greca, odiava la politica e cominciò a scrivere molto prima che Hitler nascesse, si può imparare qualcosa sulle origini del fascismo”.

Sono pienamente d’accordo.

***

Il giovane Orweell166. In una delle primissime recensioni italiane ad Orwell, Giuseppe Bonura scrive che aveva la tempra del martire laico. Questa definizione richiama immediatamente il confronto con un’altra esperienza simile e pressoché coeva, quella vissuta da Simone Weil, e raccontata poi dalla filosofa francese ne “La condizione operaia”.

Nel dicembre del 1934 la Weil, che vuole conoscere “dall’interno” le condizioni di lavoro della classe operaia, entra come manovale nelle officine metallurgiche della Renault. È cresciuta in una famiglia alto borghese, ha ricevuto un’istruzione laica e raffinata, è cagionevole di salute ma incredibilmente determinata, sorretta da uno spirito missionario che sconfina nella patologia.

Regge per otto mesi, sufficienti a farle sperimentare lo stato di semi-schiavitù nel quale il lavoro si svolge, i ritmi infernali della catena di montaggio, la prostrazione da fatica, l’annullamento della personalità in una rassegnata obbedienza. Sono le stesse cose raccontate da Orwell, ma sono vissute in maniera diversa. “Per me, personalmente, ecco cosa ha voluto dire lavorare in fabbrica: ha voluto dire che tutte le ragioni esterne (una volta avevo creduto trattarsi di ragioni interiori) sulle quali si fondavano, per me, la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa sono state radicalmente spezzate in due o tre settimane sotto i colpi di una costruzione brutale e quotidiana […] Mettendosi dinanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima per otto ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto […] Questa situazione fa sì che il pensiero si accartocci, si ritragga, come la carne si contrae davanti a un bisturi. Non si può essere coscienti”.

Quello che la Weil racconta è tutto vero. C’è però un piccolo particolare, tutt’altro che irrilevante. La condizione interiore di cui parla la si vive quando si ha coscienza che ne esistono altre possibili: e diventa tanto più insopportabile quando si sa che è a tempo determinato, che se ne potrà uscire quando lo si vorrà. “Ho creduto di essere minacciata, a causa della prostrazione e dell’aggravarsi del dolore, da una degradazione così spaventosa di tutta l’anima che, per molte settimane, mi sono domandata con angoscia se morire non fosse per me il dovere più imperioso, benché mi sembrasse mostruoso che la mia vita dovesse concludersi nell’orrore.

Ciò che maggiormente preoccupa la Weil è la “degradazione dell’anima”, cosa della quale i suoi compagni di lavoro non hanno affatto modo di rendersi conto, occupati come sono a sopravvivere a quella del corpo. Di fatto, quando non regge più la Weil torna all’insegnamento e alle sue frequentazioni elitarie: è vero che si impone digiuni e ogni tipo di ristrettezza per vivere il più possibile come i poveri, per entrare in “comunione spirituale” con essi: ma è altrettanto vero che può scegliere di farlo o meno.

Intendiamoci: di fronte ad una persona che potrebbe vivere tranquillamente, fregandosene degli orrori e delle ingiustizie che la circondano, e che sceglie invece l’impegno nella sua forma più radicale, ed è coerente con la sua scelta fino ad essere uccisa dai sacrifici che si è autoimposta, non posso che inchinarmi. Ma nemmeno posso impedirmi di pensare che questa scelta sia intrisa di ambiguità, di una esasperazione mistica e religiosa che pare mirata più alla salvezza della propria anima che al miglioramento della condizione altrui. L’altruismo esasperato, quando si traduce in ascesi, mi fa sempre sospettare una forte venatura di egoismo.

Tutto questo in Orwell non c’è. Vive in mezzo ai barboni e ai vagabondi, condivide dormitori pubblici e luride stamberghe, frequenta le povere case e gli infernali luoghi di lavoro dei minatori, ma poi lo racconta rimanendo sempre consapevole della distanza della sua posizione rispetto alla loro. Orwell è un ribelle nell’animo e un riformatore nella testa, la Weill è un’asceta visionaria che anela al martirio, e lo trova.

Ad accomunarli è piuttosto la messa in discussione del progresso, inteso come transizione al modo di produzione industriale. In Simone Weil naturalmente questa opposizione si esprime nella forma più esasperata: “Niente può avere come destinazione qualcosa di diverso dalla sua origine. L’idea opposta, l’idea del progresso, è veleno”.

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In Orwell è più ragionata, anche se non meno radicale. «Noi tutti dipendiamo dalla macchina, e se le macchine cessassero di lavorare la maggioranza di noi morrebbe. Si può detestare la civiltà meccanica, probabilmente avete ragione di detestarla, ma per il momento non si tratta di accettarla o respingerla. La civiltà meccanica è “qui”, onnipresente, e si può soltanto criticarla dall’interno, perché tutti noi ci troviamo nel suo interno. Sono semplicemente degli idioti romantici coloro che si lusingano di essere fuggiti, come il letterato snob nella sua villa in stile Tudor con bagno e acqua calda e fredda, e come il “vero uomo” che se ne va a fare il primitivo nella giungla con un fucile Mannlicher e quattro furgoni carichi di cibarie in scatola. E quasi certamente la civiltà meccanica continuerà a trionfare […]». Però «la tendenza del progresso meccanico, dunque, è di frustrare il bisogno umano di sforzo e di creazione. Esso rende inutili e perfino impossibili le attività dell’occhio e della mano. L’apostolo del “progresso” dirà che ciò non ha importanza, ma potrete metterlo con le spalle al muro facendogli notare a quali estremi orribili può essere portato il processo. Perché, per esempio, usare le mani addirittura, perché usarle anche per soffiarsi il naso o far la punta a una matita?»

Per il resto, ciò che l’una scrive potrebbe essere sottoscritto anche dall’ altro, tranne forse l’ultima considerazione. “Il lavoro di per sé non è opprimente; – scrive la Weil – può certo produrre noia, costrizione, ma non avvilisce. È quanto ad esso si aggiunge nella produzione industriale che opprime: l’idea che il tempo passato lavorando sia perduto per la vita, l’impressione che in nessun momento si produca qualcosa di reale, la cadenza monotona dei gesti, la sottomissione passiva ai capireparto, la schiavitù cui bisogna costringersi da soli, il senso di solitudine pur in mezzo agli altri, l’esperienza dello sradicamento perché si vive in un luogo che non appartiene al lavoratore, la schiavitù che differisce da quella classica perché non consente una libertà interiore come è invece possibile per la figura dello schiavo stoico: meschina consolazione, senza dubbio, ma proibita all’operaio.”

E allora? Da dove può venire la liberazione? Non certo dalle forme di lotta tradizionali: “Gli operai fanno lo sciopero – scrive la Weil – ma lasciano ai militanti il compito di studiare il particolare delle rivendicazioni. L’abitudine della passività contratta quotidianamente nel corso di anni ed anni, non si perde in pochi giorni, anche se così belli”. Neppure da quelle più estreme, come la rivoluzione: “In questa rivolta contro l’ingiustizia sociale l’idea rivoluzionaria è buona e sana. In quanto rivolta contro l’infelicità essenziale inerente alla condizione propria dei lavoratori, è una menzogna. Perché nessuna rivoluzione potrà abolire quell’ infelicità, risolvere i veri problemi dell’uomo che invece trovano radice nel profondo del suo animo […] Infine la rivoluzione è una compensazione dello stesso tipo; è l’ambizione ad un’altra condizione sociale per se stessi o per i propri figli, l’ambizione trasferita nel collettivo, la folle ambizione dell’ascensione di tutti i lavoratori al di sopra della condizione di lavoratori”.

Orwell è decisamente più pratico e concreto: «Compito dell’individuo ragionevole, quindi, non è di respingere il socialismo ma di decidersi a umanizzarlo. Una volta che il socialismo stia in un certo senso per essere, quelli che hanno capito completamente l’inganno del “progresso” si accorgeranno probabilmente di opporgli resistenza. Infatti la loro particolare funzione è di resistergli. Nel mondo delle macchine essi devono rappresentare una specie di opposizione permanente, cosa ben diversa dal fare dell’ostruzionismo o dal tradire. Ma io sto parlando del futuro. Per il momento la sola via possibile aperta a un galantuomo, per quanto anarchico o conservatore possa essere di temperamento, deve lavorare per l’edificazione del socialismo. Nessun’altra cosa può salvarci dalla miseria del presente o dall’incubo del futuro

Entrambe le posizioni, comunque, ci dicono che tra le altre esperienze i due condividono anche il rapporto conflittuale con la sinistra “ortodossa”. Simone Weil non entra mai nei quadri di partito, ma si impegna fortemente nel lavoro sindacale, nella stampa, nell’organizzazione di manifestazioni antifasciste. Arriva ad ospitare in casa propria Trotszkij, col quale litiga immediatamente, e denuncia la politica staliniana già nei primi anni Trenta. Potrebbe riconoscersi perfettamente in questa considerazione di Orwell: “Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere.”

Naturalmente anche la posizione ereticale che parrebbe unirli viene vissuta in maniera differente. Quella della Weil si libra alla fine in una mistica della libertà: “La libertà è una condizione politica ma deve essere inquadrata all’interno di una visione etica: non basta essere liberi, bisogna diventare liberi, cioè bisogna sapere come spendere la propria libertà”, dove l’altro corno della concezione socialista, la giustizia, sembra avere un rilievo molto minore. Quella di Orwell si mantiene invece terra terra, a difesa di un valore etico per lui altrettanto importante e niente affatto disgiunto dalla “libertà”: quella che lui chiamava la “decenza”: «Sarebbe un grandissimo vantaggio se quel continuo, insignificante e meccanico punzecchiare i borghesi, che fa parte di quasi tutta la propaganda socialista, fosse abbandonato per il momento. In tutto il pensiero e gli scritti di sinistra – dagli articoli di fondo del “Daily Worker” alle colonne umoristiche del “New Chronicle” – si perpetua una tradizione anti-cortesia, uno schernire persistente e spesso molto stupido le buone maniere e gli ideali dei ceti evoluti (o, per, usare il gergo comunista, i “valori borghesi”). È in gran parte una impostura, venendo come viene da punzecchiatori della borghesia che sono essi medesimi borghesi, ma fa gran danno, perché lascia che un problema minore ne ostacoli uno maggiore. Storna l’attenzione dal fatto centrale che la povertà è povertà, tanto se il tuo strumento di lavoro è un piccone quanto se è una penna stilografica. Tutto quello che occorre è martellare e ribadire bene nella coscienza pubblica due fatti. Uno, che gli interessi di tutti gli sfruttati sono gli stessi; l’altro che il socialismo e il comune decoro possono andare perfettamente d’accordo».

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7. Con Simone Weil (e con molti altri) Orwell ha infine in comune la partecipazione attiva alla guerra civile spagnola, un’esperienza che per una larghissima parte degli intellettuali formatisi tra le due guerre ha rappresentato un momento di svolta, più ancora del secondo conflitto mondiale.

Il resoconto del suo contributo alla lotta al fascismo si trova in Omaggio alla Catalogna, che ho letto quando già frequentavo l’università. Al liceo naturalmente nessuno mi aveva mai parlato della guerra di Spagna: alla fine del ciclo si approdava si e no alla prima guerra mondiale, e anche i libri di testo vi accennavano appena. Nemmeno era mai stato oggetto di conversazione in famiglia, perché credo che i miei ne sapessero ben poco, o avevo avuto occasione di imbattermi in qualche opera storica sull’ argomento, visto che in Ovada non c’era una biblioteca pubblica. In definitiva tutto ciò che conoscevo di questa vicenda veniva da notizie scarse e contraddittorie raccolte su qualche rivista.

Ad accendere l’interesse era stata però la letteratura, quella frequentata fuori dalle mura scolastiche: l’Hemingway di Per chi suona la campana e il Malraux de La speranza. Di lì a I grandi cimiteri sotto la luna di Bernanos, e finalmente ad Omaggio alla Catalogna, il passaggio era obbligato.

Prima di arrivare a quest’ultimo già sapevo che Orwell aveva militato nelle file del POUM (ma non avevo idea di cosa precisamente fosse il Partido Obrero de Unificaciòn Marxista: d’altro canto, al momento della sua adesione neppure Orwell lo sapeva), che aveva combattuto sul fronte aragonese e che era stato gravemente ferito. Mi intrigava però soprattutto ciò di cui avevo avuto solo sentore, e che sembrava totalmente rimosso dalla memoria ufficiale: le epurazioni degli anarchici e dei trotskisti per mano degli emissari di Mosca (leggi: Togliatti), la sconfortata presa di coscienza degli intellettuali e dei militanti accorsi ad arruolarsi nella Brigata internazionale, l’ambiguità degli atteggiamenti delle potenze “democratiche”. Ho letto quindi la prima volta Omaggio alla Catalogna pieno di aspettative, e queste non sono andate deluse. Ciò che Orwell raccontava costituiva davvero una rivelazione, e ha contribuito in maniera determinante, in un momento di grande confusione (collettiva), a indirizzare le mie scelte di “posizionamento”.

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In Perché scrivo, che fa parte della raccolta che ho tra le mani, Orwell spiega cosa ha ispirato la sua attività di saggista: “La Guerra civile spagnola e altri avvenimenti del 1936-37 hanno contribuito a farmi prendere una decisione, e da allora ho capito da che parte stavo. Ogni riga del lavoro serio che ho prodotto dal 1936 l’ho scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e per il socialismo democratico così come lo intendo io”.

Omaggio alla Catalogna racconta appunto il prima e il dopo di questa decisione. Alla fine del 1936 Orwell arriva in Spagna, nel pieno della guerra civile, nutrito ancora di sogni di rivoluzione e di immagini romantiche della Spagna e degli spagnoli, e accompagnato dalla moglie. Vuole raccontare quello che accade, essere un testimone. Ma si rende conto subito di non poter rimanere neutrale, e diventa protagonista. Si arruola nelle milizie del POUM, non per una scelta meditata ma perché è la prima caserma che trova, e perché ritiene che combattere con l’una o con l’altra formazione non faccia differenza, davanti ad un nemico comune. «Credevo fosse un’idiozia che gente che combatteva per salvarsi la vita dovesse appartenere a partiti diversi; il mio atteggiamento era sempre del tipo: “Perché non la smettiamo con queste sciocchezze politiche e ci concentriamo sulla guerra?”. Naturalmente questo era il corretto atteggiamento “antifascista” che era stato accuratamente diffuso dai giornali inglesi, in gran parte al fine di impedire che la gente comprendesse la vera natura del conflitto. Ma in Spagna, specialmente in Catalogna, era un atteggiamento che non si poteva mantenere a tempo indeterminato e infatti nessuno lo mantenne. Pur se a malincuore, tutti prima o poi si schieravano da una parte o dall’altra».

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Va al fronte, è ferito, dopo un paio di settimane torna a combattere, e quando a maggio del 1937 rientra a Barcellona per un normale avvicendamento si rende conto che è in atto una guerra interna allo stesso schieramento repubblicano in cui milita, anzi, una vera e propria epurazione nei confronti degli anarchici e dei trotskisti, nella quale è direttamente coinvolto. Anche lui è nella lista degli accusati di “tradimento”. A differenza di molti altri (Camillo Berneri, ad esempio, è “giustiziato” per strada in quegli stessi giorni) riesce a scappare per il rotto della cuffia. Appena in tempo per rientrare in Inghilterra e raccontare ciò che ha visto.

Il reportage che scrive a caldo (uscirà nell’ottobre dello stesso anno) si suddivide anch’esso, come Wigan Pier, in due parti. La prima è il resoconto puro e semplice dei fatti bellici, nel quale non nasconde nulla, e va dall’entusiasmo immediato che respira appena giunto a Barcellona («Camerieri e commessi ti guardavano negli occhi e ti trattavano da pari a pari. Le formule d’indirizzo servili o addirittura cerimoniose erano per il momento scomparse. Nessuno più diceva “Señor” o “Don” e neanche “Usted”; tutti si chiamavano “Compagni” e si davano del tu, si salutavano con “Salud!” invece che con “Buenos días” […] si vedevano pochissime persone visibilmente povere e nessun mendicante, tranne gli zingari. Soprattutto c’era fede nella rivoluzione e nel futuro, la sensazione di trovarsi improvvisamente in un’epoca di eguaglianza e di libertà. Gli esseri umani stavano cercando di comportarsi come tali e non come ingranaggi nella macchina capitalista […]») all’insofferenza per l’impreparazione e la disorganizzazione totale che regna nelle fila repubblicane; non parla di atti di eroismo, ma della noia e dei disagi della guerra di posizione (freddo, soprattutto, e poi sporcizia, piattole, indisciplina, ecc…). Nella seconda, che viene sviluppata come una lunga appendice, fa invece un’analisi delle vicende politiche, delle menzogne, degli intrighi internazionali che hanno portato alla disfatta. Orwell vuole raccontare con voce onesta, in base a ciò che visto, i risvolti meno nobili della tragedia spagnola. Partendo dal denunciare che: “Uno degli effetti più terribili di questa guerra è stato apprendere che la stampa di sinistra è falsa e disonesta quanto quella di destra”.

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La motivazione che Orwell dà del suo impegno è chiara, perfettamente in linea con i suoi libri precedenti: «Quando i combattimenti iniziarono il 18 luglio è probabile che ogni antifascista in Europa abbia provato un brivido di speranza. Perché, almeno in apparenza, ecco finalmente una democrazia che resisteva al fascismo. Per anni, in passato, le cosiddette nazioni democratiche avevano ceduto al fascismo a ogni piè sospinto […] e si limitavano a elevare pie proteste “fuori scena”. Ma quando Franco aveva tentato di rovesciare un governo moderatamente di sinistra, il popolo spagnolo, contro le aspettative di tutti, gli si era rivoltato contro».

Lo è anche la disposizione positiva che lo sorreggerà nel primo periodo: l’impressione di combattere a fianco di uomini finalmente all’altezza degli ideali che professano. “Nella caserma Lenin di Barcellona, il giorno prima di arruolarmi nella milizia, ho visto un volontario italiano in piedi davanti al tavolo degli ufficiali. Era un giovanottone dall’aspetto rude di venticinque-ventisei anni, dai capelli biondo-rossicci e un gran paio di spalle. Portava il berretto di cuoio con la visiera minacciosamente inclinato su un occhio. Era di profilo rispetto a me, con il mento sul petto, e scrutava con aria perplessa una cartina che uno degli ufficiali aveva aperto sul tavolo. C’era qualcosa nella sua espressione che mi commosse profondamente. Era l’espressione di un uomo che per un amico avrebbe ammazzato qualcuno e sacrificato la propria vita – l’espressione che ci si sarebbe aspettati di vedere sul volto di un anarchico, anche se con ogni probabilità lui era comunista. C’era un misto di candore e di ferocia in essa, ma anche la patetica riverenza che gli analfabeti mostrano per quelli che ritengono essere i loro superiori. Era chiaro che della cartina non capiva un accidente; che riteneva la capacità di leggere una carta topografica un’impresa intellettuale stupefacente. Non so bene perché, ma mi è capitato raramente di vedere una persona – voglio dire un uomo – che mi abbia ispirato una simpatia così immediata”.

Questa impressione non è destinata a ripetersi. Le differenti motivazioni non tardano a venire a galla, e a creare lo strappo. Tutta la vicenda, alla fine, potrebbe essere riassunta nelle poche righe che descrivono il suo sconcerto al rientro a Barcellona: «C’era lo sconvolgente mutamento nell’ atmosfera sociale – un fenomeno inconcepibile se non lo si è provato di persona. Appena arrivato a Barcellona l’avevo considerata una città in cui quasi non esistevano distinzioni di classe e grandi dislivelli di ricchezza. E senza dubbio l’apparenza era quella. I vestiti “eleganti” erano un’anomalia, nessuno era servile o accettava mance, camerieri, fioraie e lustrascarpe non abbassavano lo sguardo e davano del “compagno” a tutti. Quello che non avevo capito era che tutto questo era un misto di speranza e di mimetizzazione. La classe operaia credeva veramente in una rivoluzione che era iniziata, ma non si era ancora consolidata, mentre i borghesi si erano spaventati e si erano per il momento travestiti da lavoratori. Nei primi mesi della rivoluzione dovevano esserci state molte migliaia di persone che avevano indossato le tute e gridato slogan rivoluzionari solo per salvarsi la pelle. Ora le cose stavano tornando alla normalità».

Lo spettacolo della rivoluzione spontanea è finito. Il finale lo detta una regia remota. Gli attori, quelli stabili e quelli che si sono improvvisati o sentiti per un breve atto protagonisti, le comparse e il coro, dismettono l’abito di scena e tornano ciascuno al ruolo quotidiano. Almeno, quelli sopravvissuti.

«Era strano notare quanto le cose fossero cambiate. Solo sei mesi prima, quando gli anarchici dominavano ancora, si era rispettabili se si aveva l’aspetto di un proletario. Mentre scendevo da Perpignan a Cerbères un commesso viaggiatore francese nel mio scompartimento mi aveva detto tutto serio: “Non deve andare in Spagna con quell’aspetto. Si tolga il colletto e la cravatta. Altrimenti a Barcellona glieli strapperanno di dosso”. Esagerava, ma il suo atteggiamento dimostrava in che considerazione era tenuta la Catalogna. E alla frontiera le guardie anarchiche avevano respinto un francese elegante e sua moglie soltanto perché – secondo me – avevano un aspetto troppo borghese. Adesso era tutto il contrario; assumere un aspetto borghese era l’unica salvezza

***

8. Dopo quella di Orwell ho letto innumerevoli altre testimonianze dirette sulla guerra di Spagna, e ho notato un effetto particolare: a differenza dei testimoni della Resistenza, che al di là dei ruoli, delle opinioni, delle singole vicissitudini, raccontano tutti una vicenda che nei grandi tratti è comune, i reduci dalla guerra civile spagnola narrano la stessa storia con sguardi talmente diversi da renderla quasi irriconoscibile. Ciò vale soprattutto per i testimoni stranieri, naturalmente per gli intellettuali, e segnatamente per coloro che hanno combattuto nello schieramento repubblicano[2]. E si spiega col fatto che ognuno di loro portava con sé in Spagna una sua individualissima e particolare motivazione.

In linea di massima la guerra civile spagnola offriva a tutti la possibilità, o se vogliamo, l’illusione, di sottrarsi all’inerzia: di tornare protagonisti attivi in una storia che sembrava invece scorrere sempre più per conto proprio, indifferente alle individualità, agli ideali, ai sogni dei singoli, e che non forniva più stimoli all’azione. Finalmente c’era un nemico ben identificabile contro il quale combattere, in uno scontro almeno sulla carta non totalmente impari, e comunque giustificato, al di là degli esiti possibili, dalla volontà di resistenza finalmente dimostrata da un popolo. “Non fu tanto l’adesione incondizionata ad una causa, quanto piuttosto un atto estremo d’individualismo, una ricerca di conferme, nell’azione, alle proprie concezioni sociali e artistiche.”

Con questi presupposti, la varietà delle percezioni individuali di quella esperienza è più che giustificata. Simone Weil, ad esempio. Ancora lei, e non c’era da dubitarne. È già a Madrid nell’agosto del 1936, a pochi giorni dallo scoppio dell’insurrezione falangista, tra i primi ad accorrere. A dispetto del suo pacifismo è convinta che quando non si può più fare nulla per evitare la guerra l’unica alternativa sia impegnarsi nella lotta. Entra anch’essa col visto da giornalista, ma si arruola immediatamente nelle formazioni anarchiche. Non può accettare di vivere la lotta nelle retrovie. Le mettono in mano un fucile, si rendono conto che potrebbe farsi solo del male e la destinano al servizio in cucina e alle mense. Riesce a farsi del male lo stesso, cacciando un piede in una pentola d’olio bollente. L’ustione è abbastanza seria, e si accompagna ai dubbi velocemente maturati sulla partecipazione alla guerra. Ai primi di settembre Simone viene riaccompagnata a Parigi dai genitori, che conoscendola bene l’avevano seguita in Spagna.

La parentesi spagnola si è rivelata per lei particolarmente deludente, tanto che non ne lascia alcun resoconto: ciò che sappiamo lo si può ricostruire solo attraverso la sua corrispondenza. Intuisce le stesse cose che Orwell vedrà pochi mesi dopo, ma che le inducono un giudizio e una reazione molto diversi. La spiegazione ufficiale che darà del suo disimpegno è che la guerra non era una rivolta dei contadini affamati contro il clero e i latifondisti, ma una questione politica internazionale dietro la quale agivano l’URSS, l’Italia e la Germania nazista. A farle considerare tutti sullo stesso piano sono anche le violenze commesse dai repubblicani, in particolare dagli anarchici, che le sembrano mossi solo da una volontà distruttiva di rivincita, e non da ideali rivoluzionari. Il risultato è che la sua temporanea infatuazione per il marxismo, già messa alla prova dal rapporto con Trotskij, è definitivamente accantonata.

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Altrettanto precoce di quella della Weil è l’adesione al fronte repubblicano da parte di Nicola Chiaromonte. Esule a Parigi, in rotta con Carlo Rosselli e con Giustizia e Libertà, cui aveva inizialmente collaborato, Chiaromonte è in cerca di un ideale chiaro per il quale combattere una buona volta, uscendo dalla palude delle rivalità, dei sospetti e dei distinguo tattici e ideologici che allignano tra i fuorusciti antifascisti. L’occasione gliela offre André Malraux, col quale nel frattempo ha stretto amicizia. Malraux ha messo assieme una squadriglia aerea, raccattando gli scarti dell’aviazione militare francese, e porta con sé in Spagna un gruppo di altri esuli italiani. Come per tutti coloro che vivono questa avventura, anche per Chiaramonte il primo momento è di grande entusiasmo. Lo vive come l’occasione per dare finalmente vita, di fronte all’esigenza dell’azione, ad un fronte unico internazionale contro il fascismo. Immediatamente dopo subentra però la delusione, e anche l’irritazione, sia per la confusione che inevitabilmente si accompagna allo spontaneismo, sia perché vengono subito alla luce le manovre politiche delle diverse forze che si muovono nel campo repubblicano. Non tarda ad essere nauseato dalla strumentalizzazione operata soprattutto dai comunisti staliniani, e a novembre è già di ritorno in Francia, rompendo anche con Malraux.

Malraux invece rimane, e ci mostra anche un’altra faccia di questo variegato schieramento. Lo fa attraverso un romanzo che avrà un grande successo, La speranza, nel quale sono riconoscibilissime le varie figure storiche, dall’autore stesso, sotto le spoglie di Magnin, a Chiaromonte, ma dal quale si ricava anche lo spirito col quale ha affrontato tutta la faccenda. Malraux è un avventuriero di stampo dannunziano, determinato ad essere sempre al centro della scena, si tratti dell’Estremo Oriente, della Spagna, della Resistenza e successivamente anche del governo della Francia. Sta attraversando in quel periodo una fase di avvicinamento al comunismo, proprio mentre molti altri intellettuali se ne stanno allontanando (e alcuni di essi, come Andrè Gide, lo fanno denunciando apertamente la realtà criminale dello stalinismo, guadagnandosi il disprezzo e gli anatemi dei compagni): non è affatto un ingenuo, ma pur non potendo evitare di rendersi conto di quanto sta accadendo si forza a pensare che per fare argine contro i fascismi sia necessario anche ricorrere ai metodi staliniani. Emozionalmente sta magari dalla parte degli anarchici, ma il buon senso pratico, del quale non manca, gli dice che è necessario fare ordine nelle file dei repubblicani e ricondurre i vari gruppi militanti sotto un unico comando. Peccato che si tratti di quello stalinista, e che l’eliminazione dei dissensi interni finisca per prevalere alla fine anche sulla necessità di resistere ai fascisti. Il risultato è che il fronte libertario si sfascia, così come la squadriglia aerea, e l’azione d’ordine si rivela inutile e addirittura controproducente.

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Di una pasta per molti versi simile a quella di Malraux potrebbe sembrare Arthur Koestler, ungherese di origine ma apolide praticamente da sempre. La sua vita è altrettanto avventurosa, ma non per una scelta estetizzante, quanto piuttosto per la condizione di nascita (tra le altre cose, era ebreo) e per un carattere già naturalmente molto forte e consolidato ulteriormente dalle traversie: così che completamente diversa risulta alla fine la sua esperienza. Dopo una giovinezza decisamente movimentata, nei primi anni Trenta Koestler è entrato nel partito comunista tedesco e si è spostato a Parigi in seguito all’avvento del nazismo. Di lì passa nel 1936 come giornalista in Spagna, ufficialmente per seguire gli sviluppi dell’insurrezione falangista come inviato di un’agenzia di stampa, in realtà come agente del Comintern. Finisce per tre volte oltre le linee dei falangisti, la seconda viene riconosciuto da un ex-collega tedesco e denunciato come comunista, ma la sfanga, la terza è catturato dagli uomini di Franco e viene condannato a morte. Per tre mesi attenderà notte dopo notte nel carcere di Siviglia il momento dell’esecuzione, e nel frattempo vedrà sparire ad uno ad uno i suoi compagni di detenzione. La scamperà solo per l’intervento della diplomazia britannica, che organizza uno scambio di prigionieri.

La drammatica esperienza ha comunque lasciato il segno. Esce dal braccio della morte con una consapevolezza politica estremamente lucida. Come scrive Tony Judt, “ciò probabilmente accadde perché era lontano da Parigi, dalla comunità feconda di intellettuali progressisti, isolato da un contesto in cui esistevano molte buone ragioni non tanto per fingere, ma per tacere riguardo ai propri dubbi”. Una volta tornato in Francia, dopo l’ennesimo tradimento rappresentato dal patto Molotov-Von Ribbentrop non solo abbandona il partito, ma ne denuncia i crimini, in un libro che diverrà un classico dell’antistalinismo, Buio a mezzogiorno.

Le sue vicende spagnole sono invece narrate in un’altra opera, Testamento spagnolo, che racconta nella prima parte la resistenza ormai agli sgoccioli delle città assediate, lo scoordinamento evidente nelle fila dei miliziani, le divisioni ideologiche che contrappongono le fazioni diverse, e nella seconda il tran tran di una detenzione che per essere effettuata nel carcere più moderno di Spagna, costruito pochi anni prima secondo un modello liberale, consente un trattamento quotidiano relativamente umano, contraddetto poi drammaticamente dalle angosce della notte.

Orwell scriverà che a quel tempo Koestler era ancora un membro del partito comunista, e la complessa politica della guerra civile rendeva impossibile per ogni comunista scrivere con sincerità della lotta interna al fronte governativo. Lui stesso rivela che “dopo il ritorno dalla Spagna un certo numero di persone mi ha detto con vari gradi di franchezza che non si deve dire la verità su ciò che sta accadendo in Spagna e sul ruolo svolto dal Partito Comunista, perché farlo sarebbe pregiudicare l’opinione pubblica contro il governo spagnolo e così aiutare Franco”. Non ha accettato il ricatto. Ciò è vero solo in parte, ma è comunque significativo della differenza di approccio al tema dell’antitotalitarismo che i due manterranno anche in seguito. Non è un caso, ad esempio, che una bozza di manifesto dei diritti universali dell’uomo redatta nel 1946 da Orwell sia stata rielaborata da Koestler e da Bertrand Russell in senso molto più libertario e molto meno egualitario, e alla fine sia stata sconfessata da Orwell stesso.

Una vicenda non meno avventurosa e controversa di quelle di Malraux e di Koestler vede protagonista Claude Simon. “La prima parte della mia vita è stata piuttosto movimentata: – scrive quest’ultimo nel discorso di ringraziamento per l’ attribuzione del Nobel per la letteratura – sono stato testimone di una rivoluzione, ho combattuto in condizioni particolarmente truculente, sono stato fatto prigioniero, ho conosciuto la fame, la fatica fisica fino allo sfinimento, sono evaso, mi sono gravemente ammalato e sono stato più di una volta vicino alla morte, violenta o naturale, mi sono trovato al fianco di persone di vario genere, preti e incendiari di chiese, tranquilli borghesi e anarchici, filosofi e analfabeti, ho condiviso il pane con mendicanti, infine ho viaggiato un po’ ovunque nel mondo… e tuttavia non ho ancora mai, a settantadue anni, trovato alcun senso in tutto ciò, se non che ‘se il mondo significa qualcosa, è che non significa niente’, tranne che esiste”.

La desolante conclusione di questo abstract autobiografico ci presenta un ulteriore aspetto di questa partecipazione, e lo fa dall’alto di una esperienza durata oltre due anni. La racconta attraverso un romanzo, Le palace (del 1962), scritto in forma sperimentale, secondo i dettami dell’Ecole du regard. L’autore vi appare nei panni dello “studente”, testimone silenzioso delle discussioni tra altri personaggi, tra i quali spiccano “l’americano” (Orwell) e “l’italiano” (un sicario). È un ritorno sul luogo degli avvenimenti vissuti venticinque anni prima, un margine di tempo sufficiente a incrinare le verità del mito e a mettere sotto indagine la Storia ufficiale (che cosa è accaduto veramente?, è la domanda che ricorre) fino a sancire il fallimento di tutte le utopie. Non è un punto di vista, ma la messa in discussione di ogni punto di vista. E non finisce qui.

Un altro quarto di secolo dopo Simon torna sull’argomento con un romanzo-saggio, Les georgiques, nel quale mette nel mirino proprio l’opera di Orwell. A quest’ultimo rinfaccia una doppia contraddizione: da un lato, di non essersi accontentato di riferire le proprie emozioni, e di aver tentato una spiegazione politica e razionale di avvenimenti che non erano in realtà razionalmente inquadrabili (almeno, a caldo); dall’altro di aver dato di questi avvenimenti una versione lacunosa e distorta. Non lo scrive in difesa dell’operato degli stalinisti – lui stesso era finito nelle liste di proscrizione – ma in nome di una particolare (e piuttosto confusa) idea del ruolo della letteratura. Nella sostanza non intacca affatto la credibilità di Orwell. Mette in luce al più la complessità e i pericoli di operazioni letterarie che ambiscano ad andare in direzione della conoscenza e della spiegazione del mondo. Come a dire: o si fa della letteratura o si fa del giornalismo, e gli ibridi rischiano di falsare il vero e di sporcare il bello.

Orwell dal canto suo aveva già preventivamente risposto a questa critica: «Il mio libro sulla guerra civile spagnola è senza dubbio un libro schiettamente politico, ma è per gran parte scritto con un certo distacco e un certo riguardo per la forma. In esso ho cercato con ogni mezzo di dire tutta la verità senza sopraffare i miei istinti letterari. Ma tra le altre cose esso contiene un lungo capitolo, pieno di citazioni giornalistiche e cose simili, teso a difendere i trotzkisti che furono accusati di ordire un complotto con Franco. Chiaramente un capitolo del genere, che dopo un anno o due perderebbe d’interesse per ogni comune lettore, era destinato a rovinare il libro. Un critico che stimo mi fece su questo una ramanzina. “Perché ci hai messo dentro tutta quella roba? Hai trasformato in giornalismo quello che avrebbe potuto essere un buon libro.” Quello che diceva era vero, ma non avrei potuto fare altrimenti. Mi accadde di venire a conoscenza … che degli innocenti erano stati ingiustamente accusati, per cui se non fossi stato indignato non avrei scritto il libro

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9. Penso che alla luce della sua particolare concezione della letteratura Simon abbia invece apprezzato la testimonianza letteraria fornita da un altro militante inglese, Laurie Lee. Nel 1935, a ventun anni, Lee aveva attraversato a piedi in otto mesi tutta la Spagna, per fermarsi poi a svernare in un paesino nei pressi di Malaga. Lì lo aveva raggiunto nell’estate successiva la guerra, ed era stato rimpatriato. Ma ormai la Spagna gli era entrata nel cuore, e l’inverno successivo, alla fine del ‘37, quando quasi tutti coloro di cui ho parlato sinora erano rientrati in patria, aveva rivalicato clandestinamente i Pirenei per andare ad arruolarsi tra i repubblicani.

Cosa ci aveva portati lì, insomma? Le mie ragioni sembravano abbastanza semplici, nonostante una certa confusione: ma erano così quelle della maggioranza degli altri: fallimenti, miseria, debiti, la legge, tradimenti di mogli o amanti, la maggior parte delle motivazioni che spingevano uno a partecipare a guerre straniere. Ma nel nostro caso, credo, condividevamo qualcos’altro, che ritenevamo unico allora: la possibilità di compiere un gesto grandioso e semplice di sacrificio e di fede personali che poteva non presentarsi mai più. Certamente era l’ultima volta nel secolo che una generazione aveva una simile opportunità, prima che si addensasse la nebbia del nazionalismo e degli stermini di massa. […] Per il momento non c’erano mezze verità o esitazioni, avevamo trovato una nuova libertà, quasi una nuova morale, e scoperto un nuovo Satana: il fascismo.”

La vicenda spagnola aveva toccato nel profondo gli animi della gioventù progressista inglese. Come testimonia Eric Hobsbawm, “Chiunque entrasse nelle stanze degli studenti socialisti e comunisti di Cambridge in quei giorni era quasi certo di trovare in esse la fotografia di John Cornford, intellettuale, poeta, leader del Partito Comunista studentesco, caduto in battaglia in Spagna nel giorno del suo ventunesimo compleanno nel dicembre 1936.”

Il racconto che della propria esperienza Lee fa in Un bel mattino d’estate e in Un momento di guerra sarebbe piaciuto a Simon, perché l’autore non tenta di darsi alcuna spiegazione di quanto gli accade, e gliene accadono davvero di ogni colore. Dopo il rientro in Spagna la metà del suo tempo la trascorre in carcere, sospettato a più riprese di essere una spia, un infiltrato, un anticomunista, e rischia costantemente di essere messo al muro. Per il resto, è sballottato lungo il fronte senza mai sapere quale sia la sua destinazione e il suo ruolo, sino a trovarsi in mezzo alla battaglia di Teruel, che vive solo come una serie di scaramucce per salvare la pelle e sganciarsi dal nemico. Credo anch’io che questo racconto sia, tra tutti quelli che ho letto, il più capace di darci una immagine della realtà di cui fu fatta quella guerra: freddo, fame e pidocchi, ma soprattutto un senso di sospetto continuo, di rivalità interne e di assoluta disorganizzazione.

Altri due connazionali di Orwell e di Lee, i poeti Wynstam Auden e Stephen Spender, interpretano ancora diversamente il loro impegno. Sono già famosi, legati a quel circolo sofisticato che i critici più severi, tra cui Orwell stesso, chiamano “la cricca di Bloomsbury”. Arrivano in Spagna poco più tardi di Orwell, ai primi del 1937, mossi da un entusiasmo piuttosto snobistico, dettato da una confusa e superficiale simpatia per il comunismo. A Auden in realtà è stato chiesto di recarsi in Spagna perché il suo nome e la sua partecipazione possono esercitare un certo richiamo propagandistico, e non ha molto chiaro che ruolo può svolgere. Ad un amico scrive: “Probabilmente sarò un maledetto cattivo soldato. Ma come posso parlare per loro senza diventarlo?” I due si arruolano per prestare servizio nella sanità, ma vengono immediatamente spostati alla propaganda. Come scriverà Spender: “Il compito di Auden era di guidare autoambulanze. Mi domando ancora come facesse, perché non sapeva guidare”. Il che la dice lunga sullo spirito col quale l’avventura era stata affrontata.

E infatti, la militanza di Auden dura sette settimane. Dopo aver visto il fronte aragonese, lo stesso sul quale combatte Orwell, scrive di aver scoperto che “una parte di me chiede di vivere disperatamente”, ma è l’altra, quella che scopre le atrocità commesse da ambo le parti e la lotta per la spartizione del potere interna allo schieramento antifascista, ad avere la meglio. Fiaccato anche da condizioni quotidiane di vita cui non è assolutamente abituato, se la fila. Di quella esperienza è rimasto nella sua opera solo un piccolo poema, Spagna, 1937, ispirato proprio dalla visita al fronte, scritto immediatamente dopo il rientro e divenuto subito famoso. Ma Auden lo toglierà pochi anni dopo dalla raccolta poetica nella quale era stato pubblicato, e non tornerà mai più sull’argomento.

Orwell giudicava Spagna 1937 una delle poche cose buone uscite dal conflitto. Ma ad Auden non faceva altre concessioni. Non aveva mai nascosto il suo disprezzo per i “poeti effeminati” (“Volete piantarla di mandarmi queste stronzate? Io non sono uno dei vostri finocchietti alla moda come Auden e Spender… Io so cosa sta succedendo, cioè che il fascismo viene imposto ai lavoratori spagnoli con il pretesto della resistenza al fascismo”, scriveva alla “Left Review”, in risposta a un questionario per intellettuali) ed era rimasto molto urtato da un verso del poema stesso, quello in cui si parla de “[…] La consapevole assunzione di colpa nell’omicidio inevitabile”, nel quale leggeva una legittimazione delle epurazioni “necessarie” operate dagli stalinisti. “Qualcuno nell’Europa dell’Est liquida un trotskista, qualcuno a Bloonsbury ne scrive la giustificazione”. Evidentemente leggeva giusto, se Auden si era poi affrettato a cambiare il verso.

Il giovane Orweell24Le motivazioni che avevano portato Auden e Spender in Spagna sono espresse invece molto chiaramente dal secondo nella sua autobiografia, Un mondo nel mondo: andare a combattere dalla parte comunista in Spagna sembrava il solo modo possibile di essere antifascisti. «Il comunismo “occidentale” – scrive – in quegli anni era una cosa molto diversa. Uscivamo dal disastro del 1929, il capitalismo sembrava un sistema finito, incapace di trovare soluzioni, pareva invece che in Urss avessero la risposta, e la risposta stava in un modello economico e sociale ideale applicabile anche qui […] Eravamo consapevoli dell’abisso ma non vedevamo nuovi valori che potessero sostituire quelli che ci avevano sorretto nel passato. Nel giro di poche settimane, la Spagna divenne un simbolo di speranza per tutti gli antifascisti. Offriva un 1848 al ventesimo secolo».

Spender racconta di essere stato comunista solo per poche settimane. Il suo comunismo, come quello di molti altri suoi amici che con lui andarono a combattere dalla parte comunista in Spagna – tra cui Julian Bell, il nipote di Virginia Woolf, che ci morì – esprimeva in definitiva, a suo parere, il solo modo possibile di essere antifascisti. E giustifica così quel futile entusiasmo: “Bisogna aver vissuto quegli anni per capire cosa significasse. Le cose che si dicevano su Mosca, sui processi staliniani, avrebbero potuto essere, dopo tutto, un grande macchinazione della propaganda di destra”.

Mi sembra peraltro interessante una lettera scritta da Orwell a Spender l’anno successivo il loro rientro in Inghilterra. Interessante perché testimonia della estrema schiettezza del primo, ma al tempo stesso della sua capacità di correggere i propri giudizi quando dal piano politico scende su quello umano, senza tuttavia rinnegare nessuna delle proprie convinzioni. «“Mi chiedi come mai ti abbia attaccato nonostante non ti avessi mai incontrato, e d’altro canto abbia cambiato idea dopo averti incontrato. Non so se si può dire che ti abbia attaccato, ma ho certamente fatto osservazioni offensive sui “chiacchieroni Bolscevichi come Auden e Spender” o qualcosa di simile. Ti ho usato come simbolo del parlatorio Bolshie perché a) il tuo verso, ciò che ho letto di esso, non vuol dire molto per me, b) ti ho preso per una specie di uomo alla moda, di successo, un Comunista o un simpatizzante Comunista, e sono stato piuttosto ostile al Partito Comunista dal 1935, e c) perché non avendoti incontrato ti consideravo un tipo e dunque un’astrazione. Anche se quando ti ho incontrato non è capitato che ti piacessi, avrei dovuto comunque cambiare atteggiamento, perché quando incontri una creatura di carne ti rendi immediatamente conto che è un essere umano e non una specie di caricatura che incarna alcune idee. Anche per questa ragione non frequento i circoli letterati, perché so per esperienza che una volta incontrato e parlato con qualcuno non sarò più in grado di mostrare alcuna brutalità intellettuale nei suoi confronti, anche quando mi sentirei in dovere di farlo, come quelli del Labour Party, che più vengono pigliati a bastonate dai duchi e più si perdono

Non tutti i letterati inglesi hanno però militato nelle file dei repubblicani. Occorre ricordarlo, e non solo per par condicio. Quando scoppia la guerra civile il poeta Roy Campbell si trova già da diversi anni in Spagna. È un personaggio complesso, originario del Sudafrica, dove ha imparato a parlare la lingua zulu e dove sarà sempre poco tollerato per le sue posizioni anti apartheid e per la denuncia delle nefandezze del colonialismo: si era trasferito molto presto in Inghilterra, suscitando entusiasmo per le sue doti poetiche ma attirandosi anche molte antipatie per le critiche sarcastiche rivolte ai circoli “progressisti”, soprattutto al gruppo di Bloomsbury, che non sopporta (definisce Auden e Spender “fanciulli effeminati che suonano il piffero e si scuotono, annoiati” e “intellettuali ma senza intelletto / gente senza un sesso i cui sessi si trovano a metà”; con Spender fa anche a cazzotti). Aveva poi lasciato l’isola per trasferirsi sul continente, come moltissimi altri inglesi, per ragioni economiche. Condivide comunque con Orwell molte idiosincrasie nei confronti dell’establishment culturale.

Il giovane Orweell25In un primo momento Campbell non prende posizione, ma si è da poco convertito al cattolicesimo e le sue simpatie non vanno certo agli anarchici e ai comunisti. Tanto più dopo che assiste all’incendio delle chiese di Toledo, ai roghi di libri e di immagini sacre e alle fucilazioni di frati e suore. A questo punto si arruola nelle truppe carliste (ufficialmente come corrispondente di guerra), e in queste continuo militare sino alla fine del conflitto. Come Auden, non racconta direttamente la sua esperienza, ma la traduce in una serie di poesie, alcune delle quali molto efficaci “I nostri fucili erano troppo caldi per tenerli / La notte era fatta di acciaio lacerante, / E lungo la strada le raffiche rotolarono / Dove come in preghiera i cecchini si inginocchiano.” Nel ‘39, al termine del conflitto, scrive il poema Fucile Fiorente, e questo gli vale la patente definitiva di filo-fascista. In effetti è un’ode a Franco, ma Campbell protesterà sempre di credere non solo nella famiglia e nella religione, ma soprattutto nella tolleranza.

La guerra diventa nella sua poesia lo scenario di una battaglia superiore, apocalittica, tra le forze del bene e quelle del male, tra lo spirito e la materia, tra dio e il nulla, e il poeta si fa testimone delle persecuzioni contro il cristianesimo, i suoi luoghi di culto, i suoi fedeli. “Più persone sono state imprigionate per la Libertà, umiliate e torturate per l’Uguaglianza e massacrate per la Fraternità in questo secolo, che per motivi meno ipocriti, durante il Medioevo.”

A differenza di Auden, che allo scoppio del secondo conflitto mondiale si rifugia in America e si trincera dietro un opportuno e apolitico pacifismo, Campbell si arruola, viene accolto tra i fucilieri reali a dispetto dell’età e di condizioni fisiche precarie e viene inviato nell’Africa orientale britannica, dove si rivela prezioso per le sue conoscenze linguistiche. Non fa tutto questo per riscattarsi, non rinnega nulla della sua esperienza precedente, anche se rispetto al regime di Franco ha cambiato idea (e infatti, ha lasciato la Spagna per trasferirsi in Portogallo, considerato meno fascista).

Mi sembra strano non aver trovato nei saggi e negli articoli di Orwell alcuna menzione di questo personaggio, che pure godeva nell’ambiente letterario di una certa notorietà. Immagino però che non avesse molto da dire in proposito: in fondo Campbell si era schierato e aveva coerentemente combattuto sino alla fine per la parte scelta. Politicamente era stato un avversario, ma non lo aveva combattuto standogli alle spalle, ed eticamente meritava rispetto. O almeno, il silenzio.

Insomma, mi rendo conto che Orwell a questo punto sembra essere diventato solo un pretesto per parlare d’altri. Ma non è così. Credo che il confronto tra le sue esperienze e quelle di chi ne ha vissute di analoghe, o meglio, tra i resoconti che di quelle esperienze sono state date, possa riuscire illuminante per comprendere gli aspetti più particolari della sua mentalità e della sua personalità. Ciò spiega anche perché dalla carrellata sui partecipanti alla guerra di Spagna abbia escluso gli italiani, con l’eccezione di Chiaromonte. Non perché le esperienze di questi ultimi risultino meno significative, ma perché in quel periodo gli italiani, proprio per la loro condizione di esuli che il fascismo lo conoscevano bene, e da anni, avevano una consapevolezza politica diversa. Erano in sostanza molto più “politicizzati” degli altri, e arrivavano da un dibattito ormai più che decennale. Per nessuno di loro la partecipazione fu un’avventura: era in gioco qualcosa di molto più ampio della semplice realizzazione individuale. Non è un caso che una presenza così massiccia non abbia poi prodotto opere particolarmente significative sul piano della memorialista personale, ma solo resoconti di interpretazione o di giustificazione politica.

Lo spirito di quella partecipazione, almeno quello di chi accorse a combattere nelle file repubblicane, era comunque perfettamente espresso nelle famose parole di Aldo Rosselli: “È con questa speranza segreta che siamo accorsi in Ispagna. Oggi qui, domani in Italia. Ogni sforzo sembra vano contro la massiccia armata dittatoriale. Ma noi non perdiamo la fede. Sappiamo che le dittature passano e che i popoli restano. L’esperienza in corso in Ispagna è di straordinario interesse per tutti. Qui, non dittatura, non economia da caserma, non rinnegamento dei valori culturali dell’Occidente, ma conciliazione delle più ardite riforme sociali con la libertà. Non un solo partito che, pretendendosi infallibile, sequestra la rivoluzione su un programma concreto e realista: anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani collaborano alla direzione della cosa pubblica, al fronte, nella vita sociale. Quale insegnamento per noi italiani!

Lo spirito non era poi in fondo così diverso da quello che animava Orwell. Molto diverso fu invece l’insegnamento che da quella vicenda gli arrivò.

Una bibliografia provvisoria

George Orwell, Un’autobiografia involontaria, Rizzoli, 2021

George Orwell, Nel ventre della balena, Rizzoli, 2013

George Orwell, Giorni in Birmania, Rizzoli, 2013

George Orwell, Senza un soldo a Parigi e a Londra, Mondadori, 1966

George Orwell, La strada di Wigan Pier, Mondadori, 1960

George Orwell, La fattoria degli animali, Rizzoli, 2013

George Orwell, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, 1948

George Orwell, 1984, Rizzoli, 2013

George Orwell, Romanzi e saggi, Mondadori, Meridiani, 2000

George Orwell, Una boccata d’aria, Mondadori, 1966

George Orwell, Fiorirà l’aspidistra, Mondadori, 1960, 2006

George Orwell, Diari di guerra, Mondadori, 2007

AA VV, Orwell e i maiali della libertà, Bevivino editore, 2004

Bernard Crick, George Orwell, Il Mulino, 1991

Christopher Hitchens, La vittoria di Orwell, Scheiwiller, 2008

Filippo La Porta, Maestri irregolari, Bollati Boringhieri, 2007

Ruyard Kipling, Kim, Adelphi, 2000

Ruyard Kipling, Racconti del mistero e dell’orrore, Bompiani, 1990

Ruyard Kipling, Tutte le opere, Mursia, 1964 (4 voll.)

Ruyard Kipling, Qualcosa di me, Einaudi, 1987

Jack London, Il popolo dell’abisso, Mondadori, 2018

George Gissing, Sulla riva dello Ionio. Cappelli, 1957

George Gissing, Il giornale intimo di Henry Ryecroft, Paoline, 1962

Simone Weil, La condizione operaia, Edizioni di Comunità, 1952

Simone Weil, La prima radice. Edizioni di Comunità, 1954

Simone Weil, Sulla guerra. Scritti 1933-1943, Pratiche, 1998

André Malraux, La speranza, Bompiani 1986

Nicola Chiaromonte, Il tempo della malafede e altri scritti, Edizioni dell’Asino, 2013

Nicola Chiaromonte, Scritti politici e civili, Bompiani, 1976

Arthur Koestler, Dialogo con la morte, Il Mulino, 1993

Claude Simon, Le Georgiche, Lavieri edizioni, 2012

Claude Simon, Le Palace, Éditions de Minuit, 1962

Laurie Lee, Un momento di guerra, L’Ippocampo, 2007

Laurie Lee, Un bel mattino d’estate, L’Ippocampo, 2008

Wystan Auden, Un altro tempo, Adelphi, 1997

Stephen Spender, Un mondo nel mondo, Barbès, 2009

Roy Campbell, Flowering Rifle, A poem from the battlefield of Spain, Longmans & Company, 1939

Utili e interessanti:

Aldo Garosci, Gli intellettuali e la guerra di Spagna, Einaudi,1959

Sara Polverini, Letteratura e memoria bellica nella Spagna del xx secolo, Firenze University Press, 2013

(Fine della prima parte)

[1] “A viva voce”, in Racconti del mistero e dell’orrore, Bompiani 1990

[2] La cifra più attendibile per la forza del corpo di volontari stranieri che combatterono per la Repubblica è di circa 35.000. Hugh Thomas, il principale storico della guerra, parla di 40.000.

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Umanesimo socialista

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018

Umanesimo socialista

Quell’umanesimo socialista

Il senso della lotta

Le due anime

L’associazione

Capitalismo e libertà

Nella foto in copertina, il piedi: Heinrich Blücher, Hannah Arendt, Dwight Macdonald, Gloria Lanier; seduti: Nicola Chiaromonte, Mary McCarthy, Robert Lowell, 1966

Intervista a Pietro Adamo

realizzata da Franco Melandri

Quell’umanesimo socialista…

 

L’esperienza e la riflessione preziosa di quel gruppo di pensatori militanti, antifascisti radicali, come Rosselli, Caffi, Berneri, Chiaromonte, che videro anzitempo la natura dei due totalitarismi e rifiutarono il rivoluzionarismo finalista, in nome di una sperimentazione di società aperte, libere, in cui anche il mercato, liberato dall’orrore capitalistico, diventasse fattore di liberazione e di libertà. Intervista a Pietro Adamo.

Pietro Adamo, storico delle idee, si occupa principalmente della cultura politica del protestantesimo e della tradizione libertaria. Fra i suoi libri: Il dio dei blasfemi. Anarchici e libertini nella rivoluzione inglese (ed. Unicopli, 1993); La libertà dei santi. Fallibilismo e tolleranza nella rivoluzione inglese (ed. Franco Angeli, 1998); La città degli idoli. Politica e religione in Inghilterra 1524-1572 (ed. Unicopli, 1999). Ha recentemente curato la pubblicazione di Anarchia e società aperta. Scritti editi e inediti di Camillo Berneri (ed. M&B Publishing, 2001).

\r

\r Uno dei punti di crisi della sinistra attuale è senza dubbio quello della cultura politica. Tuttavia una recente serie di studi su personaggi come Carlo Rosselli, Andrea Caffi, Francesco Saverio Merlino, Camillo Berneri, Nicola Chiaromonte, per molto tempo tenuti ai margini dalla sinistra stessa perché in vario modo considerati ‘eretici’, fa pensare che siamo all’inizio di una ricerca dopo anni di sostanziale apatia…

\r Il motivo per cui negli anni ‘90 si sono intensificati gli studi sulle correnti ‘eretiche’ della sinistra (cioè del campo socialista, libertario, liberal-socialista) è da far risalire al crollo del Muro di Berlino e alla fine dell’Unione Sovietica. Dopo quegli eventi, infatti, non c’è più alcuna possibilità di pensare il socialismo in termini marxisti o marxisteggianti, per cui, se non ci si vuole appiattire sul capitalismo attualmente trionfante, è necessario cercare nella storia e nella cultura della sinistra dei ‘padri nobili’, dei primogenitori rispettabili che non siano stati coinvolti con il socialismo di stato in versione totalitaria. Questo è il motivo per cui, a proposito e a sproposito, oggi tutti, da D’Alema a Veltroni a Amato, citano Rosselli, Gobetti o Chiaromonte. Detto questo, tuttavia, bisogna anche aggiungere che sia a livello prettamente teorico sia a livello politico il rifarsi a questi ‘padri nobili’ non implica, né può implicare, un’adesione alle loro indicazioni. Se infatti nelle elaborazioni di Caffi, Chiaromonte, Berneri, Rosselli, eccetera, si volessero trovare delle soluzioni bell’e pronte per i problemi dell’oggi si farebbe un errore clamoroso, si andrebbe fuori bersaglio. Sono infatti passati settant’anni dalle riflessioni e dagli scritti di questi autori, la società è cambiata, l’universo mentale della gente è cambiato, per cui, per fare un esempio, un suggerimento come quello rosselliano circa un’economia ‘a due motori’ -pubblico e privato- presa in sé si rivela semplicistica, già superata dai tempi. In Italia, nel dopoguerra, tale suggerimento venne in parte accolto ed i problemi che oggi dobbiamo affrontare derivano proprio dall’intreccio che si è creato fra i due motori di questa economia: sappiamo bene che essi si sono trasformati da un lato nel protezionismo occulto dell’impresa privata, dall’altro nella crescita esponenziale della burocrazia e dell’intervento statale nell’economia…

\r La vera ragione per interessarci di questi autori, perciò, non sta tanto nelle loro indicazioni pratiche, quanto nel fatto che rappresentano il tentativo dell’antifascismo radicale di trovare una risposta ai problemi posti dall’ascesa dei totalitarismi continuando a tenere alta la domanda su come sia pensabile e possibile una società libera. Da questo punto di vista questi autori mettono in luce una cultura estremamente ricca, in cui possiamo trovare tantissime cose che si confanno alle nostre aspettative anche se questi settori dell’antifascismo rappresentano un’esperienza ‘saltata’, nel senso che le loro elaborazioni non sono mai entrate non solo nella coscienza politica della nazione, ma neanche nella progettualità di qualche componente politica della sinistra italiana. Per la sinistra l’averli accantonati è stata una grave perdita, perché su molte questioni furono particolarmente acuti e preveggenti. Oggi si parla molto della questione del totalitarismo, ma l’idea che il comunismo fosse un’altra forma di totalitarismo, che fascismo e comunismo fossero due facce della stessa medaglia, nasce proprio in questo ambito, negli anni ‘30.

Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte, Tuluza 1947
Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte

\r È un’idea che non nasce con la Arendt, ma dalla cultura politica di questi militanti. In verità, proprio riguardo al dibattito sul totalitarismo, gli italiani hanno avuto un’importanza non da poco ed è forse possibile vedere proprio in loro una delle radici genealogiche del pensiero della Arendt: negli Stati Uniti la Arendt era collaboratrice di Politics, la rivista di Dwight Macdonald, nella quale sono comparsi scritti di Chiaromonte e Caffi (con Chiaromonte, fra l’altro, la Arendt fu molto amica). Non è del tutto assurdo sostenere che una radice dell’analisi arendtiana del totalitarismo affondi proprio in questo laboratorio. Questi “militanti che pensavano”, secondo me, hanno proposto un nucleo di riflessione intorno alla questione del totalitarismo molto importante e fruttifero, forse più fruttifero del lavoro dei vari scienziati della politica, soprattutto per il tentativo che questi militanti-pensatori compirono di pensare una società libera come frutto di una rivoluzione antifascista. Da questo punto di vista le loro teorizzazioni sono molto interessanti perché sono dei possibili punti di partenza per ripensare i problemi attuali della politica. Il Polo delle Libertà, ad esempio, si è impadronito della parola d’ordine della libertà e presenta, non a torto, il liberismo come una delle principali strategie del vivere libero; dall’altra parte la sinistra si è totalmente amputata la possibilità di discutere delle possibilità di libertà insite in una politica di liberalizzazione e si è arroccata a difesa degli interessi corporativi. Tuttavia, se si va a vedere come pensavano una società libera i vari Berneri, Rosselli, Gobetti, allora ci si accorge che tutti loro valutavano in modo estremamente positivo il liberismo, anche se, naturalmente, lo pensavano in termini eticamente forti, per cui non lo vedevano solo nel liberismo economico in senso stretto, ma come il cemento possibile di una società libera.

\r Il principale difetto del liberismo berlusconiano, invece, sta proprio nell’essere un liberismo che riguarda la sola economia: quando i conservatori italiani parlano di liberismo, infatti, parlano semplicemente e sostanzialmente della libertà degli imprenditori di fare tutto quello che vogliono. Questo, per loro, è il liberismo, mentre quando si parla di altre cose -di diritto di famiglia, di sesso, di droga, eccetera- questo liberismo della destra scompare come neve al sole e viene fuori la faccia vera del conservatorismo autoritario. Lo si vede anche nei presunti portavoce liberali: qualche anno fa Galli della Loggia (cui rispose con sagacia Nadia Urbinati, dalle pagine di Critica liberale) sostenne che lo stato aveva il pieno diritto di controllare il tipo di sostanze che assumevano i suoi cittadini, la qual cosa è quanto di meno liberale, quanto di meno liberista, uno possa mai immaginare.

\r Ma come vedevano in realtà il liberismo questi militanti-pensatori?

\r Va innanzitutto detto che fra i personaggi di cui parliamo c’erano differenze anche profonde, soprattutto dovute alla loro provenienza politica e al pubblico cui si rivolgevano. Così, ad esempio, Berneri rimase per tutta la vita un anarchico e agli anarchici soprattutto si rivolgeva; Rosselli era un socialista, ma anche un liberale, e si rivolgeva agli appartenenti ad entrambe le tradizioni e così via; va anche detto che le loro riflessioni trovarono numerosi punti di contatto e di consonanza. Il caso del liberismo è uno di questi: sostanzialmente lo vedevano tutti in termini etici, cioè come valorizzazione ad oltranza del pluralismo e della differenza, la qual cosa implica la libera sperimentazione come principio integrale che ispira la vita associata; libera sperimentazione che, evidentemente, ha uno dei campi d’applicazione certo nell’economia, ma lo ha anche nella vita sessuale, nella vita associativa, eccetera. L’idea generale era quella di valorizzare le possibilità di sperimentare liberamente ogni tipo di attività umana e all’interno di questo paradigma veniva valorizzata anche l’idea di una libera intrapresa economica. In un periodo in cui i totalitarismi presentavano come ipotesi costruttiva l’idea di uno stato fortissimo, per molti di questi autori la valorizzazione dell’intrapresa economica individuale diventava anche momento di difesa nei confronti dell’invasività dello stato.

\r Una delle cose che colpiscono è il fatto che questo gruppo di persone di origini e appartenenze politiche diverse, trovasse necessaria una discussione in qualche modo comune: Berneri discuteva con Rosselli e aveva collaborato con Gobetti; Caffi e Chiaromonte erano membri di Giustizia e libertà, ma anche vicini a posizioni libertarie…

\r Quando noi pensiamo a questi gruppi, dobbiamo avere presente un fenomeno, cioè l’emigrazione antifascista in Francia, soprattutto a Parigi, dove nella prima metà degli anni ‘30 convergono buona parte degli intellettuali giellisti, buona parte degli anarchici, Berneri in particolare, ma dove finiscono anche dei repubblicani radicali come Schiavetti e Montasini, essi pure vicini alle posizioni di Berneri, e la cosiddetta ‘ala libertaria’ del Partito Socialista, e cioè gente come Alberto Jacometti e, fino a un certo punto, Angelo Tasca. In questo ambiente di fuoriusciti, in cui tutti conoscevano sostanzialmente tutti, al di là delle diverse appartenenze politiche, a mio giudizio si crea una sorta di cultura antifascista radicale, nel senso di una cultura antifascista che mira non solo alla rivoluzione in Italia, ma ad un completo rovesciamento dello stile di vita politico prefascista. Gente come Rosselli, Chiaromonte, Berneri, infatti, non solo si proponeva di abbattere il fascismo in Italia, ma vedeva in questo il passaggio necessario per costruire un’altra Italia. Come dicevo, ad unificare questi militanti-pensatori era la domanda su quale potesse essere una società libera -più o meno socialista, più o meno liberista a seconda delle convinzioni individuali- scartando quelle opzioni che, all’epoca, sembravano condurre necessariamente verso il totalitarismo. Tutto questo implicava non solo scartare il comunismo in senso stretto, ma anche qualsiasi tipo di orizzonte finalistico, cioè l’idea che la società libera sarebbe stata una società perfetta, oltre la quale non sarebbe stato più possibile andare.

\r Per quanto riguarda poi la figura di Berneri, che come accennavo prima si confrontava con gli anarchici e si considerò anarchico per tutta la vita, a tutto questo si aggiungeva anche la necessità di ripensare in toto la politica -che invece gli anarchici rifiutavano e rifiutano- vedendone le possibili estrinsecazioni in chiave libertaria. Il ripensamento della politica, comunque, è un altro tratto unificante di questo variegato gruppo, e le risposte che essi dettero furono altrettanto variegate, andando dagli abbozzi di una democrazia libertaria, fondata sulla libera federazione di comuni, sui sindacati e sui consigli operai, elaborata da Berneri (ma che trovava in linea di massima concorde Rosselli), alle proposte di democrazia liberale conflittuale, mutuate da Gobetti, fatte da alcuni esponenti di Giustizia e libertà.

\r Questi temi rappresentavano un tratto d’unione perché buona parte di questi intellettuali avevano radici comuni, essenzialmente rappresentate da due personaggi: Piero Gobetti e Gaetano Salvemini, per molti di loro punti di riferimento imprescindibili. Berneri, ad esempio, certamente fu molto stimolato da Gobetti -che, non va dimenticato, morì nel ‘26, cioè appena all’inizio della forte emigrazione antifascista-, ma il suo imprescindibile punto di partenza fu sicuramente Salvemini, che fu un riferimento importante per lo stesso Rosselli. Era questo ‘universo culturale’ ad unificarli veramente: Ernesto Rossi, nonostante fosse incarcerato per quasi tutto il periodo fascista, in qualche modo, dal carcere, partecipa a questa temperie culturale proprio in virtù del presupposto salveminiano che lo unisce agli altri. E’ per questo che egli, pur isolato in carcere, finisce per pensare sostanzialmente quello che Berneri, Caffi, Rosselli o Montasini o Jacometti pensano nell’esilio francese.

\r C’era, insomma, una sorta di percorso comune dato dalle circostanze.

\r Ma questi intellettuali militanti come si ponevano i problemi del capitalismo, dell’anticapitalismo, del socialismo?

\r Questi autori sono quasi tutti accomunati da una feroce sensibilità anticapitalistica, anche se bisogna chiedersi che cosa fosse per loro il capitalismo, che cosa intendessero per capitalismo. A ben guardare, la maggior parte di loro intendeva il capitalismo come una perversione di fondo dei valori del mercato. In molti di essi a me pare di cogliere il tentativo di operare una distinzione tra il capitalismo realmente esistente e una società di mercato ideale. Alcuni di essi teorizzarono tale distinzione in modo specifico, cioè sostennero molto semplicemente che è possibile pensare a una società di mercato senza che questa necessariamente finisca nell’orrore capitalistico.

\r Certamente quello che quasi tutti criticano nel capitalismo è la perversione del mercato, cioè la trasformazione dei rapporti umani sulla base di rapporti economici, analisi non lontanissima da quella marxista classica. Ma accanto a questa c’è anche la valorizzazione di un certo tipo di eredità liberale, per cui il mercato viene immaginato essenzialmente come il risultato di una libera contrattazione tra individui che scelgono. Sono concezioni che troviamo in Berneri, in Rosselli e, senza arrivare a teorizzare il socialismo, persino in Gobetti: grande avversione per il capitalismo così come esso si è sviluppato e, di contro, un’ipotesi di lavoro che si muove attorno al problema della società giusta e libera, che per molti di loro voleva appunto dire socialismo.

\r A proposito della concezione che essi avevano del socialismo, però, occorre fare la stessa distinzione fatta a proposito del capitalismo, visto che in quasi tutti, da Berneri a Rosselli, da Caffi a Chiaromonte, quello che viene chiarito a fondo è che l’unico socialismo accettabile è un socialismo chiaramente libertario, che per loro, detto in soldoni, significava la necessità che venisse in qualche modo garantito al produttore il controllo del suo prodotto.

\r In questa ottica Berneri recupererà anche l’esperienza dei consigli operai, emersi sia all’inizio della rivoluzione russa sia nella brevissima esperienza della Repubblica dei Consigli di Baviera del 1919, sia nell’occupazione delle fabbriche italiane, nei primi anni ‘20. In sostanza, comunque, il modo in cui tutti loro pensavano il socialismo era radicalmente diverso dal modo in cui lo pensava il marxismo (per il quale il socialismo, fatto coincidere con la statalizzazione dei mezzi di produzione e scambio, era il punto d’arrivo reso necessario dallo sviluppo della stessa società capitalistica).

\r Essi lo vedevano non tanto come una precisa serie di soluzioni politico-economiche, ma soprattutto come una sorta di sovrastruttura umanistica della società. Certo essi pensavano anche a forme di socializzazione economica, ma quando parlano di socialismo si riferiscono essenzialmente all’idea di una società che si pensa come tale, cioè ad una società fondata su una serie di vincoli umanistici precisi, in particolare il riconoscimento della dignità di ogni persona, del singolo individuo.

\r Questa, comunque, è una riflessione che negli anni ‘30 non appartenne solo agli italiani. Un autore che rifletté su questi problemi fu Emmanuel Mounier, il filosofo francese teorico del personalismo, molto spesso sottovalutato, che arrivò a teorizzare un socialismo umanistico di questo tipo, con grandi sfumature libertarie e antistatalistiche. Non a caso scrisse un saggio, Anarchia e personalismo, in cui c’è una riflessione sulla tradizione anarchica e sull’utilità che questa può avere proprio per un socialismo di questo genere.

\r La visione che del socialismo avevano gli antifascisti radicali, pur nelle diverse versioni, aveva quindi degli elementi di collettivismo, ma di un collettivismo non statalistico; un collettivismo che doveva essere il prodotto della libertà di associazione e, contemporaneamente, un’ipotesi umanistica sulla struttura della società. Considerando tutto questo, perciò, mi pare che, in verità, la contrapposizione fra socialismo e capitalismo operata da questi pensatori sia più che altro una contrapposizione etica, non una contrapposizione specificamente relativa agli strumenti dell’economia.

\r Dicevi prima che un altro elemento che accomuna questi intellettuali è il loro abbandono di ogni prospettiva finalistica e, quindi, dell’idea di rivoluzione intesa come fatto palingenetico…

\r Tutti loro, in verità, non superarono affatto il dilemma della rivoluzione, nel senso che tutti pensavano all’Italia libera dal fascismo come al frutto di una rivoluzione che doveva essere contemporaneamente antifascista e antigiolittiana, cioè una rivoluzione che spazzasse via radicalmente anche il liberalismo conservatore che proprio nel giolittismo si era incarnato. In questo senso, perciò, tutti loro continuarono comunque a pensare ad una frattura decisiva nella storia, una frattura che, in qualche modo, doveva azzerare, in tutto o in parte, quello che c’era stato in precedenza.

\r Nel loro pensiero, quindi, resiste questo mito della rivoluzione come atto fondativo, tant’è che il problema politico immediato che si ponevano era cosa fare per avere una rivoluzione in Italia. Tuttavia è anche vero che il loro modo d’immaginare la fattura rivoluzionaria era assai diverso da quello che si era affermato nell’800.

\r La maggior parte dei pensatori ottocenteschi di area socialista, fossero essi marxisti, anarchici o socialdemocratici, infatti, vedeva la rivoluzione come un evento di tipo decisamente millenaristico, cioè come il fatto che non solo apriva le porte di un mondo nuovo, ma anche di un mondo finale.

\r Per loro, cioè, la rivoluzione era l’atto che doveva porre fine a tutte le altre rivoluzioni e alla necessità della politica come confronto fra diversi interessi e visioni del mondo. Al contrario, soprattutto la riflessione di Berneri, Rosselli e di molti giellisti, tenderà a concepire la rivoluzione certo come evento che apre una nuova era, ma un’era che non viene affatto vista come la società perfetta, la società finale, il paradiso sulla terra, bensì come un’era in cui ci sarà la possibilità di ripensare a fondo i problemi della politica, dello stato e dell’economia, sperimentando le soluzioni più diverse. E’ in questa prospettiva che quasi tutti loro, in un modo o nell’altro, accetteranno quello che io, prendendo a prestito un’espressione cara agli anarchici, chiamo il paradigma della ‘libera sperimentazione’. Questi intellettuali, cioè, penseranno alla società libera come ad una società in cui il conflitto e l’interazione fra le diverse ipotesi di associazione economica, politica, sociale, non sarà affatto risolto, ma sarà un farsi dinamico. Penseranno quindi alla società socialista non come ‘società finale’, ma come una società che si è messa sulla buona strada, in cui però sempre resta ancora molto lavoro da fare; una società che è uno stadio di un più generale movimento di progresso e non lo stato finale di questo stesso progresso.

\r E’ all’interno di questo paradigma che il problema della politica, delle istituzioni e dello stato viene ripensato. C’è in tutti loro, in particolare in Rosselli, Berneri, Caffi, una profonda sfiducia nei confronti dello stato moderno e della democrazia rappresentativa, almeno per come essa si era realizzata prima del fascismo e del nazismo.

\r Lo stato e le istituzioni vengono quindi ripensate come il quadro di riferimento generale che da un lato garantisce una serie di libertà personali e collettive, mentre, dall’altro, è lo spazio all’interno del quale si sviluppa la dialettica fra le associazioni cooperative, i sindacati, i comuni, a loro volta visti come il vero centro della vita e della partecipazione democratica. In tutti questi intellettuali permane poi, pur senza alcuna mitizzazione (proprio Berneri fu autore di L’operaiolatria, un saggio radicalmente critico delle concezioni operaiste), la fiducia nelle capacità popolari e la convinzione che la partecipazione popolare sia non solo utile ma necessaria. E’ per questo che essi sviluppano un’idea della sovranità -cioè dell’elemento ‘sorgivo’ dello stato, che ne determina poi anche la natura specifica- che fa perno sul decentramento, per cui la sovranità non si accentra in un singolo organismo, ma, al contrario, va posta in una rete di relazioni sempre in divenire tra le istituzioni, le associazioni e i cittadini.

\r Berneri, che anche per la sua storia personale è quello che si confronta più radicalmente con la tradizione rivoluzionaria e con questi problemi, sottolinea la necessità, la non eliminabilità, della politica intesa non in senso funzionale, ma proprio in senso forte, cioè appunto come confronto e scontro fra diversi interessi e diverse visioni del mondo. Tutto questo lo porta, per esempio, a sottolineare la diversità costitutiva che esiste fra istituzioni fra loro coordinate e governo, sostenendo che quest’ultimo, in quanto sede centralizzata di decisione, si può abolire, mentre non si può abolire l’elemento istituzionale all’interno del quale, reticolarmente, anche la funzione decisionale del governo può essere diluita. Questa concezione è ovviamente assai diversa da quella dello stato-nazione ottocentesco, nel quale non solo governo e istituzioni finiscono per coincidere, ma il governo è l’elemento di direzione di una società in sé considerata sostanzialmente informe.

\r Dicevamo all’inizio che queste teorizzazioni e riflessioni sono sempre rimaste marginali nella cultura politica della sinistra italiana, eppure personaggi come Chiaromonte e Silone anche nel dopoguerra fondarono riviste, continuarono a partecipare al dibattito politico…

\r Innanzitutto va detto che la sinistra italiana, a parte Giustizia e libertà prima e, almeno parzialmente, il Partito d’Azione poi, osteggiò non poco questo tipo di riflessioni. I comunisti, ovviamente, non erano minimamente interessati, visto che la loro fiducia nel socialismo alla sovietica era, almeno sino alla svolta di Salerno, granitica e comunque, anche dopo la svolta di Salerno, la loro impostazione rimase decisamente marxistica, quindi molto lontana dall’’agnosticismo gnoseologico’, per usare un’espressione di Berneri, dei pensatori di cui stiamo parlando. La maggioranza del Partito Socialista, per quanto non ignorasse queste riflessioni, invece, finì per seguire Nenni e Saragat, per i quali, nonostante i loro dubbi, alla fine ‘socialismo’ voleva dire socialismo di stato.

\r Lungo tutto il corso degli anni ‘30, anzi, Nenni difenderà pervicacemente l’idea del socialismo di stato, addirittura difenderà l’idea di un socialismo che egli stesso chiamò ‘autoritario’ proprio per contrapporlo alle concezioni dei giellisti, dei quali diceva che erano dei libertari anarchici, non dei socialisti. In questo contesto il fallimento, nel dopoguerra, dell’azionismo significò anche il fallimento di queste opzioni etiche, politiche ed economiche, nonostante personaggi come Chiaromonte non si fossero certo ritirati a vita privata.

\r Proprio Chiaromonte, anzi, fu quello che portò alle loro conclusioni logiche alcune delle riflessioni di cui abbiamo parlato.

\r La svolta che Chiaromonte compì fu di rinunciare completamente ad ogni idea di rivoluzione, anche intesa nel senso in cui la intendevano Berneri o Rosselli, e di pensare alla costruzione di una società libera a partire dall’Occidente per come esso si è via via definito.

\r Il suo fu un percorso che lo accomunò ad un altro gruppo importante ed eretico, cui ho accennato anche precedentemente, cioè il gruppo di radicali americani che ruotava attorno alla rivista Politics e al suo direttore Dwight Macdonald e che comprendeva anche Hannah Arendt e Mary McCarty.

\r Una buona parte di questo gruppo negli anni ‘30 aveva fatto militanza nelle file comuniste e trotzkiste, ma negli anni ‘40 si mise alla ricerca di un radicalismo diverso e via via si orientò sempre più verso prospettive di tipo libertario.

\r Durante la guerra fredda questo gruppo, e con esso Chiaromonte, fece la scelta dell’Occidente, cioè dichiarò apertamente che, di contro ai paesi del socialismo reale, una società libera si poteva costruire a partire dalla configurazione democratica che buona parte dell’Occidente aveva progressivamente assunto. E questo senza bisogno di una rottura rivoluzionaria, ma lavorando sulle sementi liberali e democratiche.

\r La scelta certo non fu indolore, -Caffi, ad esempio, si rifiutò di compiere questo passo, anche se rimase in contatto con Chiaromonte per tutta la vita- ma a me pare sia stata importante proprio perché ci rivela uno dei possibili esiti costruttivi di quell’esperienza, cioè l’accettazione dell’Occidente come ambito nel quale condurre la sperimentazione integrale, senza più pensare ad un taglio netto con il passato, a una rivoluzione che ponga su un terreno nuovo. Anche perché, almeno a partire dalle fondamentali riflessioni di Simone Weil (la prima che pare capire, sin dagli anni ‘30, la natura “mitica” della rivoluzione), della rivoluzione si è progressivamente capita la natura d’inganno, cioè il fatto che essa può certo mobilitare le masse, ma troppo spesso, per non dire sempre, predispone anche le condizioni per il prevalere dei totalitarismi. A questo punto, rinunciando all’idea della rivoluzione comunque necessaria, l’umanesimo socialista dei Rosselli, ma anche dei Berneri, si trasforma in un’ipotesi di elaborazione interna all’Occidente. Proprio questo, a mio parere, è lo stimolo più importante che può venire oggi dalle elaborazioni dell’antifascismo radicale degli anni ‘30. Io non credo che oggi, per una sinistra che sia realistica ed abbia abbandonato ogni velleità palingenetica, ci siano altre possibilità. Ogni altra ipotesi mi pare ci porti sul terreno dell’utopia, e pensare l’utopia è una simpatica esperienza personale, una cosa che io auguro a molti, io stesso indulgo in questo stile di pensiero, ma è una questione che ha a che fare con noi stessi, è, come dire, un modo brillante di autogratificarci; insomma, è un’esigenza esistenziale, non una proposta praticabile sul terreno politico.

\r Io allora penso che la sinistra possa ritrovare se stessa all’ombra dell’Occidente, ma anche che l’Occidente debba essere pensato come un modello che permetta costantemente anche rotture violente.

\r E’ un po’ la logica cui si ispirava Thomas Jefferson, uno degli estensori della costituzione americana, che affermava il diritto del popolo di rovesciare il governo quando esso non faccia gli interessi del popolo stesso.

\r L’Occidente a cui penso, quindi, non è certo l’Occidente tranquillo e rilassante del liberalismo conservatore; non è quello in cui tutti si accomodano sotto l’ombrello protettivo di uno stato ‘garantista’, è invece un Occidente che rappresenta una palestra di libera sperimentazione. Per questo ciò che resta da fare -a noi e alla sinistra- è di sforzarci di trasformarlo sempre più in una palestra più ampia e variegata possibile.

Intervista a Gino Bianco

realizzata da Franco Melandri

Intervista a Pietro Polito

realizzata da Enzo Ferrara, Stefania Taranto

Il senso della lotta

 

Come in Piero Gobetti si intrecciarono liberalismo e idea di rivoluzione. Un marxismo valido nel suo materialismo e nell’idea di storia come storia di lotta di classi. Il grande valore democratico del conflitto e della lotta nella società. Intervista a Pietro Polito.

Pietro Polito, curatore dell’archivio Norberto Bobbio, ricercatore per il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, ha lavorato a lungo con Norberto Bobbio e curato diverse sue opere, come la riedizione del De Senectute (2006) . Tra i suoi scritti: Piero Gobetti e gli intellettuali del Sud (1995) , L’eresia di Aldo Capitini (2001) , La democrazia alla prova (2005) . Nel 2007 ha pubblicato Il liberalismo di Piero Gobetti, edito dal Centro Studi di Torino. Presso il Centro studi coordina il “Laboratorio della democrazia”, che con un gruppo di giovani ha avviato un percorso di ricerca nella crisi delle democrazie contemporanee. L’intera raccolta della “Rivoluzione Liberale”, rivista storica settimanale diretta da Piero Gobetti e uscita dal novembre 1918 al febbraio 1920, è disponibile in rete all’indirizzo internet http: //www. erasmo. it/liberale/. Piero Gobetti fu protagonista giovanissimo di un periodo storico drammatico per il nostro Paese. L’intensità e la lucidità dei suoi scritti sorprendono ancora, soprattutto se accostati alle leggerezze e alle contraddizioni del presente. Pensi che sia utile rileggere Gobetti oggi? E’ difficile rispondere a questa domanda. Posso dire che nel mio ultimo libro questa possibilità rimane sullo sfondo, ma non è esplorata. Mi è sembrato più interessante provare a fare un percorso a partire da Piero Gobetti, uno degli autori studiati nei nostri seminari, non per arrivare a una riflessione sulla democrazia oggi ma per un ragionamento più storico, per arrivare a considerazioni più generali rispetto a quelle che l’attualità suggerirebbe. Il testo, nato da una serie di lezioni all’Università, si confronta sul rapporto fra Gobetti e la tradizione del pensiero liberale, sul suo liberalismo, che Gobetti stesso chiamò “rivoluzionario”, e sul suo illuminismo. Perché il grande tema di Piero Gobetti non è la democrazia, né la politica in generale, ma è il liberalismo: l’eredità e il rinnovamento del liberalismo. Gobetti è un intellettuale sui generis, che si colloca nella grande tradizione del pensiero liberale italiano ed europeo, ma che da questa tradizione si distacca per una elaborazione politica assolutamente nuova. C’è un articolo fondamentale nel suo cammino, “I miei conti con l’idealismo attuale”, del 16 gennaio del 1923. E’ un articolo di svolta, in cui si confronta con la sua formazione idealistica. Non se ne stacca completamente, però si pone oltre, egli stesso ricostruisce la cronaca della sua formazione intellettuale e dice a un certo punto: “Nel 1920 interruppi le Energie Nove perché sentivo bisogno di maggiore raccoglimento e pensavo a una elaborazione politica assolutamente nuova, le cui linee mi apparvero, di fatto, nel settembre al tempo dell’occupazione delle fabbriche”. Poi aggiunge: “Devo la rinnovazione della mia esperienza salveminiana al movimento dei comunisti torinesi da una parte, vivi di un concreto spirito marxista, dall’altra agli studi sul risorgimento e sulla rivoluzione russa che ero venuto compiendo in quel tempo”. Mi interessava rispondere a questa domanda: che cos’è questa elaborazione politica assolutamente nuova e a cosa allude Gobetti quando evoca quest’idea? La questione è importante. Gli anni di Gobetti vanno dal 1918 al 1925, sette anni incandescenti come incandescente fu la sua biografia. Sono gli anni dall’affermazione della rivoluzione russa mentre in Italia si andava dal socialismo possibile al fascismo reale. Cioè, dalla possibilità che l’Italia, dopo l’occupazione delle fabbriche, vivesse una rivoluzione, si arrivò all’avvento del fascismo e al consolidamento del suo potere. Fu un periodo storico e politico arroventato e complesso, i paragoni col presente possono essere fatti solo con grande precauzione. E poi bisogna saper leggere la realtà nel suo complesso. Nel periodo fra il 1918 e 1920 a Torino era attivo anche l’Ordine Nuovo… [continua]

Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico

realizzata da Carlo De Maria

Le due anime

 

Per Andrea Caffi il socialismo era uguaglianza, libertà, diritti, ma anche felicità; un uomo vissuto tra due secoli e tra tanti paesi, forgiato dalla cultura dell’illuminismo francese, ma anche dal populismo russo, in cui il razionalismo conviveva con la solidarietà per gli umili. Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico.

Sara Spreafico, saggista e giornalista radiofonica, ha curato recentemente l’antologia Andrea Caffi, Scritti scelti di un socialista libertario, pubblicata dalle edizioni Biblion di Milano (www.biblionedizioni.it), con una prefazione di Nicola Del Corno, storico dell’Università di Milano e condirettore della giovane collana editoriale “Storia, politica, società”, che ospita l’antologia.

\r Andrea Caffi considerava il socialismo come la realizzazione più alta nella storia dell’umanità, e mi sembra significativo il fatto che si pensi di ripubblicarlo e di rileggerlo proprio in un periodo (politico e culturale) nel quale tutta la tradizione socialista pare dimenticata e rimossa. Parliamo, allora, sia di inattualità di Caffi che di un ritorno a Caffi?

\r Del Corno. Di Caffi mi ha colpito soprattutto una cosa, la sua spiegazione del socialismo. Caffi afferma che il socialismo è uguaglianza, libertà, diritti per tutti, ma poi dice anche che il socialismo è felicità. Ecco, questa dimensione prettamente esistenziale della felicità è ciò che mi ha spinto a interessarmi a Caffi, ad avvicinarmi a lui, a considerarlo un grandissimo autore che, in qualche modo, dovrebbe essere riletto, ristudiato, rivisto, ripreso in considerazione anche dai nostri partiti della sinistra.

\r Credo, infatti, debba esistere una sorta di -chiamiamolo così- diritto (propensione o volontà) alla felicità. E felicità, oggi, cosa significa?

\r A mio modo di vedere che ciascuno possa autodeterminare la propria vita come meglio crede, che un giovane possa trovare un lavoro dignitoso, con un salario e con tutele sufficienti, per riuscire a gestire la propria esistenza. E quindi andare a vivere con chi vuole, appartenga oppure no allo stesso sesso; trovare una casa e poterla mantenere, non ridursi a essere un “bamboccione” fino all’età in cui non si deve più esserlo.

\r La felicità, dunque, è qui intesa come possibilità di scegliere in modo libero e responsabile la traiettoria della propria vita. Il socialismo deve far proprio questo diritto ad autodeterminare la propria esistenza, cambiandola, modificandola e così via.

\r Ecco, Caffi insiste su questo argomento, per tale ragione, a mio parere, se egli è inattuale per tantissimi aspetti (forse soprattutto per la carica utopica, visto che le utopie non godono di buona salute ai giorni nostri), però è attualissimo quando rivendica questa possibilità, che ciascuno di noi ha, di essere felice.

\r Spreafico. Devo dire che non condivido il termine “inattuale”. Proprio negli ultimi tempi, ad esempio, il principio dell’autodeterminazione è stato ribadito da alcune persone, e in particolare mi riferisco al caso di Eluana Englaro, al padre di Eluana, dove invece una forza, il governo, ha cercato di negare ad un individuo la legittima possibilità di scegliere per sé. Ho trovato in Caffi un monito importante: quello di ricordare a tutti che le persone -e lo ripeto spesso nell’introduzione- vanno considerate a tutto tondo, nella pienezza della loro umanità. Per questioni anagrafiche (ho 26 anni) ho cominciato solo recentemente a interessarmi al dibattito politico e mi sono, comunque, resa conto che Caffi è in grado di dare delle parole, delle chiavi di lettura, molto interessanti, attualissime, per interpretare quanto accade oggi.

\r Questa mattina, mentre camminavo per venire qui, sono passata in Piazza Duomo, dove proprio in quel momento transitava una camionetta dell’esercito. Caffi, ispirandosi a Platone, sosteneva che nella società ideale la forza pubblica (che egli comunque riteneva necessaria) doveva essere relegata fuori dalla città.

\r La presenza dei militari dentro la città sta, chiaramente, a significare che la società non funziona, che essa si deve difendere da se stessa, poiché crede di aver trovato un nemico dentro di sé.

\r Riflettendo, poi, sulle questioni economiche, Caffi metteva in guardia sul dirigismo dello Stato e sul crescente interventismo nei tempi di crisi. Viviamo anche noi, in questo momento, una crisi economica che dicono sia molto forte, e cominciano già a delinearsi alcuni interventi dei governi che tendono a influenzare sempre più la vita dei singoli. Caffi mi ha aiutato a capire che non devo -io, come persona formata, autonoma, indipendente- per forza accettare la logica secondo la quale c’è sempre qualcuno o qualcosa di più autorevole di me su di me, ma che è giusto rivendicare il diritto, mio e di ognuno, a non farsi muovere, spostare da altri come pedine. Per me, dunque, Caffi è attualissimo; l’inattualità è nell’utopia, ma in qualunque epoca l’utopia è inattuale perché lontana, difficilissima da costruire.

\r Per certi versi, Andrea Caffi sembra un uomo dell’Ottocento, mi riferisco in particolare a una formazione culturale che credeva ancora possibile l’enciclopedismo (Caffi è filosofo, storico, sociologo e molte altre cose), nello stesso tempo è un uomo pienamente immerso nel suo secolo, nel Novecento: ne vive le guerre, le rivoluzioni, le fughe, gli esilii…

\r Spreafico. Oltre a essere un uomo tra due secoli, è un uomo tra più nazioni, è italiano, ma è anche russo, vive in Francia e in Germania. Nasce, nel 1887, a San Pietroburgo da genitori italiani. In quella città, dove frequenta la scuola riformata, avviene la sua prima formazione culturale. Fin da giovanissimo comincia a conoscere il “sottosuolo rivoluzionario” dell’epoca (come lo ama definire), incontra i menscevichi, che lui ritiene essere la parte migliore dei rivoluzionari, più umani e meno inquadrati dei bolscevichi. Più tardi, dopo aver trascorso alcuni mesi in carcere, è il 1907, Caffi scappa dalla Russia e raggiunge la Germania, dove incontra altri italiani, frequenta l’università di Berlino alla scuola di Georg Simmel. Dalla Germania comincia, poi, letteralmente, a camminare per l’Europa: i suoi amici lo ricordano così, Caffi è proprio un camminatore. Cammina molto e si sposta spesso camminando: torna in Italia, nella Firenze della “Voce” di Prezzolini, va in Francia, attraversa quasi tutta l’Europa: è un flâneur.

\r A Parigi lo coglie lo scoppio della Prima guerra mondiale e fra lo stupore dei suoi conoscenti decide di arruolarsi. Terminata la guerra, il “Corriere della Sera” gli offre l’incarico di corrispondente da Costantinopoli. Per lui è soprattutto l’occasione di tornare verso Est. E quando giunge a Costantinopoli, decide di fare ritorno in Russia, per l’attrazione e per l’amore che ha nei confronti di quel paese, dove però sta prendendo forma la dittatura di Stalin.

\r Trova un impiego presso il ministero degli esteri, dove però comincia a fare cose poco ortodosse per non dire illegali, come produrre dei documenti per chi vuole fuggire dal regime. Rimandato in Italia, è il 1923, incappa nel fascismo e non può anche qui fare a meno di impegnarsi nella propaganda contro il regime nascente: diffonde materiale a stampa sarcastico, critico. Mussolini è “lo sparafucile romagnolo”. E’ ancora in Italia nei mesi dell’omicidio Matteotti, ma più tardi è costretto a lasciare il paese -perché sotto minaccia di arresto- e a riparare in Francia.

\r A Parigi conosce Rosselli e il gruppo di “Giustizia e Libertà”, con i quali comincia a collaborare pur non approvandone, in tutto e per tutto, le modalità di azione antifascista. Ritiene, infatti, che Rosselli abbia un’idea vecchia di antifascismo, nella quale gli sembra di cogliere dei residui culturali che risalgono alla democrazia liberale dell’Italia giolittiana.

\r Mentre scrive di antifascismo con l’obiettivo di svecchiarlo e di liberarlo da certa retorica risorgimentale, lavora in maniera occasionale, collaborando a riviste e vivendo -come racconta chi l’ha conosciuto- in modo decisamente strano. Caffi dà l’impressione di lavorare giusto quanto basta per guadagnare quello che gli serve per mangiare. Spesso altrimenti ripudia il lavoro.

\r Nel 1940, da Parigi scende verso il Sud della Francia e raggiunge gli anarchici a Toulouse, dove viene torturato dal regime di Vichy, finché un clochard suo amico lo scagiona di fronte alle milizie francesi. Muore a Parigi di una malattia incurabile il 22 luglio del 1955. E’ sepolto a Père-Lachaise.

\r Del Corno. A questo ritratto posso aggiungere una riflessione che non è mia, ma di Alberto Moravia, che la svolge nell’introduzione alla prima biografia di Caffi, quella scritta da Gino Bianco.

\r Moravia parla di un uomo di due secoli, con diverse culture, diversi “padri spirituali”, e coglie bene nel segno quando dice che delle due anime caffiane, una era quella illuminista francese, seguendo la quale cercava di spiegare il mondo partendo sempre e comunque dal dubbio, e l’altra era quella del populismo russo, che lo conduceva, invece, a solidarizzare in ogni modo coi ceti subalterni. Moravia ha ragione quando puntualizza questa duplice ispirazione nel pensiero e nell’azione di Caffi. Uomo dell’Ottocento, ma direi quasi del tardo Settecento, vista la derivazione illuminista e la costante propensione a studiare, a investigare, a conservare l’approccio enciclopedico di cui parlavi.

\r Il suo razionalismo convive, però, con la costante solidarietà per gli umili e per gli oppressi, che lo porterà a conoscere, ad esempio, il clochard che gli salvò la vita. Essere amico degli ultimi, come vedi, può servire anche nella vita di tutti i giorni!

\r La produzione scritta di Caffi non è esorbitante (tanti intellettuali impegnati hanno scritto molto più di Caffi), ma quello che risulta estremamente interessante è la persona di Caffi, il camminatore, il girovago. È molto azzeccata una osservazione di Gino Bianco che sottolineò come di Caffi convenga parlare come persona, dal punto di vista biografico, ancora prima che come autore. Cosa ne pensate?

\r Spreafico. Bianco ha ragione quando dice che bisogna parlare di Caffi come persona. Del resto, serve poco teorizzare il socialismo, se non lo si pratica, e la vita di Caffi è la testimonianza di un vero socialista, che ha vissuto la sua esistenza a tutto tondo. Caffi è quello che parla coi clochard, che cammina per l’Europa, che studia di tutto.

\r Del Corno. C’è un altro tema rilevante messo in luce da Bianco, quello della “filia”, dell’amicizia, dell’empatia e della solidarietà reciproca. Infatti il socialismo di Caffi è da intendersi in senso etimologico: viene dalla società. Come ha messo in luce Sara, non sono tanto le letture, i classici del marxismo, o dei revisori di Marx, degli ortodossi o degli eterodossi del marxismo a creare il suo socialismo. Il suo socialismo nasce sul campo, dai rapporti di empatia e “filia” che lui riesce a creare con chi si trova di fronte.

\r Ancora una volta mi vengono in mente le pagine di Moravia che ricorda il suo incontro con Caffi e di come viene conquistato da questa stranissima figura (stranissima anche da un punto di vista fisico). Moravia fa una descrizione molto divertente di come si presentava il personaggio Caffi, una figura che destava subito simpatia al primo incontro, capace di mettere sempre a proprio agio gli interlocutori.

\r Spreafico. Una nota di colore. Caffi lasciava straniti i suoi interlocutori anche per un altro aspetto: si presentava di solito in abiti molto trasandati, ma con acqua di colonia spruzzata in ogni dove. Pare non avesse mai una lira, ma quei due soldi che aveva li usava, evidentemente, per comprarsi l’acqua di colonia!

\r Per lungo tempo, se si esclude la rivista “Tempo presente” di Chiaromonte e Silone, quasi nessuno ha parlato di Caffi. Negli ultimi vent’anni, invece, la sua figura è ricomparsa nel dibattito culturale, anche se non ancora sufficientemente…

\r Del Corno. Lo stesso Rosselli fino a qualche anno fa non è che se lo filassero poi molto!

\r In generale, si nota una riscoperta di percorsi politici e biografici di intellettuali critici, collocati fuori oppure ai margini dei partiti tradizionali, che del resto sono crollati …

\r Del Corno. La tua osservazione è sicuramente sensata, molto giusta. Fino a poco tempo fa non c’era spazio per gli eretici e anche lo stesso Rosselli era stato posto nel dimenticatoio. È tornato in auge agli inizi del Duemila perché un bel giorno Veltroni ha scoperto che c’era anche Rosselli, salvo poi dimenticarsene quando è comparso Obama!

\r E’ davvero così, agli inizi del Duemila sembrava fossimo tutti rosselliani, così come intorno alla metà degli anni Novanta eravamo tutti tocquevilliani. Un centro studi dei Ds era intitolato a Tocqueville, che era sicuramente un liberale ma anche un conservatore. Insomma, la cosa mi sembrò eccessiva. Per tornare al punto dell’intervista, se -per usare un brutto termine- verranno sdoganati gli “eretici”, sarà solo un bene. A mio parere, in realtà, la scomparsa dei partiti di massa è un aspetto negativo, perché toglie il coinvolgimento della politica, basta vedere come sono strutturati, oggi, i due principali schieramenti politici: manca una classe dirigente locale, manca una formazione politica e, così, pochi leader tengono in pugno tutto il potere decisionale. Questo è un fatto negativo. Ma se tale cambiamento porterà, come è auspicabile che porti, anche all’emergere degli “eretici” e alla fine dei legami tra interessi partitici e studi di storia politica (per cui, fino a poco tempo fa, ciascuno studiava solo la storia dei propri partiti), allora si sarà raggiunto almeno un risultato positivo.

\r Certo, pensare che Caffi diventerà protagonista del dibattito politico degli anni a venire mi sembra azzardato. Vediamo come andrà a finire, speriamo che i leader della sinistra si rileggano Caffi, lo studino, lo facciano conoscere, ma temo invece che saremo sempre in pochi a leggerlo!

\r Spreafico. E’ difficile che Caffi possa influenzare un partito, un movimento, però può influenzare le persone e, ad esempio, gli studenti di Nicola che lo leggono per preparare un esame. Possono nascere delle idee, delle buone indicazioni, che aiutino a formare le coscienze.

\r Del Corno.

\r La nota di Sara sulle possibili suggestioni di Caffi è vera. Ho notato, infatti, che quando a lezione leggo Caffi, Rosselli, Gobetti, Berneri, vedo che da parte degli studenti c’è ricezione, li vedo partecipi, prendono appunti, agli esami rimangono colpiti da ciò che leggono, dicono: “Ah beh, però settant’anni fa c’era qualcuno che diceva queste cose!”. Li sentono molto attuali e suscitano in loro una serie di riflessioni, poi magari vengono a chiedermi la tesi su uno di questi intellettuali. Speriamo che queste riflessioni non siano contingenti agli esami, alla tesi, ma che rimanga qualcosa, per cui a distanza di dieci, venti, trent’anni, di fronte a particolari eventi della vita, si ricorderanno: ah ma io per quell’esame ho studiato Caffi, che diceva queste cose e non aveva torto… Avremmo vinto, se così fosse, la missione e la scommessa di aver riproposto Caffi.

\r Credo che autori come Caffi oggi possano dirci due cose. Primo, regalarci una lezione di autonomia e di indipendenza rispetto a partiti e “chiese”. Secondo, ricordarci che un tempo, tra Otto e Novecento, la cultura della sinistra era molto più creativa, varia e plurale di quella prevalentemente autoritaria e statalista che poi si è affermata nel corso del XX secolo.

\r Del Corno. Sì, c’erano tanti socialismi, tante sinistre, c’era una discussione più aperta, più libera, più franca, più colta probabilmente. Non c’era quella ricerca spasmodica del consenso per cui si tende a unificare, a trovare slogan, parole d’ordine, con tentativi esasperati di sintesi, per cui chi è eretico, ovviamente, rimane fuori ed escluso dalle formule preconfezionate.

\r (a cura di Carlo De Maria)

Intervista a Carlo De Maria

realizzata da Franco Melandri e Gianni Saporetti

L’associazione

La figura luminosa di Andrea Costa, uno dei fondatori del socialismo italiano, che non rinnegò mai le sue origini libertarie e che sognava un partito federale, decentrato, pluralista, alleato a radicali e democratici; l’esperienza di Imola, primo comune italiano governato dai socialisti; il welfare municipale. Intervista a Carlo De Maria.

Carlo De Maria svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna. Si occupa di storia del socialismo, dell’associazionismo popolare e delle autonomie locali. Ha lavorato sulle carte e sulle biografie di Camillo e Giovanna Berneri, Alessandro Schiavi e Andrea Costa. Recentemente ha curato il volume Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare. 1881-1914, (catalogo della mostra organizzata per il centenario della morte di Andrea Costa) , Diabasis, 2010. Andrea Costa è stato fondamentale nella storia del socialismo italiano, e nella stessa storia d’Italia, ma è oggi un personaggio praticamente dimenticato, quasi considerato di secondo piano…

E’ vero che oggi di Andrea Costa si parla poco e, più in generale, sono le tradizioni del socialismo (intendendo questo termine nel senso più ampio, dall’anarchismo al socialismo riformista) che sembrano non trovare più spazio nel dibattito pubblico, nella vita culturale del paese. La figura di Costa richiama vicende politiche e biografiche che oggi appaiono lontanissime, ma che in realtà non sono slegate dal nostro tempo e sono ancora in grado di parlarci. Sono convinto che, per certi aspetti, Costa si riveli essere nostro contemporaneo. Puoi parlarci della sua biografia? Costa nasce nel 1851 e appartiene alla generazione dei giovani nati troppo tardi per partecipare alle lotte risorgimentali. Le prime reclute, come lui, del socialismo anarchico erano, in qualche modo, dei garibaldini mancati. In molti casi era assai stretto il loro rapporto ideale con Garibaldi. Ad esempio, il legame tra Costa e Garibaldi è un legame intenso: si conserva una lettera del 1872 di Garibaldi a Costa, il quale poi, nel 1907, partecipò al pellegrinaggio a Caprera, in occasione del centenario della nascita dell’”eroe dei due mondi”. Il rapporto e lo scambio tra il primo socialismo italiano e Garibaldi sono da ricondurre a varie ragioni, in particolare al fatto che il patriottismo di Garibaldi non si era mai chiuso in una prospettiva nazionalista, ma si era invece coniugato con una battaglia di libertà e giustizia sociale più ampia: propriamente internazionalista. Questo è solo un esempio di come, attraverso il percorso del giovane Costa, sia possibile cogliere il socialismo al suo stato nascente e seguire la formazione del movimento socialista nel nostro Paese. Proprio in ragione della sua storia personale, Costa ebbe la capacità di rappresentare il socialismo nel senso più ampio del termine (in senso morale, appunto) , al di sopra delle correnti e delle parti. A emergere è la vicenda profonda della sinistra italiana ed europea, i tanti filoni di pensiero e di azione sociale che l’animavano nell’800 e nei decenni a cavallo del 1900, rendendola un universo plurale. La vitalità di quel primo socialismo e la sua ricchezza consistevano nella diversità delle scuole (come tante volte ha rilevato Pino Ferraris) . A partire dagli ultimi decenni dell’800, Costa rappresenta un punto di riferimento per le associazioni popolari di tutta Italia: dalla Sicilia alle regioni settentrionali. Anche per questa via passa il consolidamento della recente unità nazionale. Si è spesso insistito su una estraneità del mondo socialista rispetto alle istituzioni dello Stato liberale, ma di fatto il prezioso patrimonio di solidarietà e di educazione civile sedimentatosi grazie all’opera di sindacati, cooperative e comuni rossi contribuì al consolidamento della giovane comunità nazionale. Mi riferisco ai molti aspetti del personalismo associativo, all’incontro tra spirito d’associazione e iniziativa economica, alle tante forme della così detta “economia sociale” o “economia popolare”: dal mutuo soccorso, alla cooperazione, alle casse rurali (fenomeni che interessavano non solo il versante laico e socialista, ma anche quello cattolico) .

Intervista a Giampiero ‘Nico’ Berti

realizzata da Franco Melandri, Gianni Saporetti

Capitalismo e libertà

 

Libertà e capitalismo sono indissolubili? Ogni idea di cambiamento non può che partire dalle condizioni storiche concrete in cui il massimo di libertà si è realizzata. L’idea di libertà non può che essere negativa, come assenza di coercizione; il pericolo delle libertà positive, sempre prescrittive. La libertà è anche quella di non partecipare. Il grande errore della sinistra di legare libertà a risorse. Conversazione con Nico Berti.

Giampiero ‘Nico’ Berti insegna Storia delle dottrine e dei movimenti politici all’Università di Padova. E’ autore di numerose pubblicazioni storiografiche e analitiche sul movimento e sul pensiero anarchico. La conversazione che pubblichiamo trae spunto da un saggio, I paradossi del relativismo culturale, che Berti, da sempre vicino al movimento anarchico, ha pubblicato sul n. 3/2002 di Mondo Operaio. Alcune delle tesi sostenute da Berti hanno suscitato molte reazioni critiche in ambito libertario, non a caso il n. 2/2003 della rivista Libertaria dedica un ampio dibattito a più voci proprio ad alcuni di questi temi. Con Nico Berti, per Una città, discutono Franco Melandri e Gianni Saporetti. Nico. Intanto ripeto quello che ho detto su Mondo Operaio: noi conosciamo società capitaliste dove non vi è libertà, ad esempio il Cile di Pinochet, però non conosciamo nessuna società liberal-democratica dove non vi sia anche il capitalismo, o, diciamo meglio, un’economia a libero mercato. Indubitabilmente laddove ci sono società liberal-democratiche vi è il capitalismo. Questo significa forse che il capitalismo è la causa delle società liberal democratiche? No, significa però che è una condizione necessaria; non sufficiente perché altrimenti non salterebbero fuori i Pinochet, ma necessaria sì. Questo nessuno può negarlo. Laddove c’è l’una c’è anche l’altro e insieme producono l’unica libertà che finora noi abbiamo conosciuto, che è la libertà liberal-democratica: non la libertà tout court, ma la libertà che storicamente abbiamo conosciuto, che è la forma più compiuta di libertà che la storia abbia prodotto finora. Io non credo che, in tutto questo ragionamento, ci sia alcuna apologia, né che noi dobbiamo accontentarci di questa libertà, c’è semplicemente una constatazione. Ovviamente, lo dico fra parentesi, il ragionamento vale se per libertà intendiamo una serie di cose che rientrano nei parametri della concezione liberale e occidentale della libertà; se partiamo da una concezione diversa, poniamo spirituale, per cui riteniamo che si è liberi quando si è liberi dal peccato, è un altro discorso. Il mio discorso, insomma, vale se riteniamo per libertà quei principi generali, creati a partire dal Rinascimento, che solo la cultura occidentale ha prodotto. Franco. Nella prima metà dell’800, anche Proudhon, uno dei “fondatori” del pensiero anarchico, diceva che senza la proprietà e senza lo scambio libero, cioè senza il libero mercato, non vi può essere libertà. Ma la proprietà, il capitalismo, cui Proudhon pensava, cioè quelli dell’America del 1776, fatti soprattutto di piccoli proprietari, o quello della società rurale francese, in cui la piccola proprietà era assai diffusa, non è il capitalismo dell’America di oggi. Nell’America della fine del ‘700 lo vedo anch’io il legame fra libertà e capitalismo, ma oggi? Non c’è il rischio che le stesse libertà liberal-democratiche siano messe in crisi dallo sviluppo del capitalismo, non dalla proprietà privata o dal mercato, ma dal monopolio che del capitalismo sembra l’ineludibile sviluppo? Nico. Possono essere messe in crisi, certo, ma questo cosa c’entra? Il capitalismo intanto è fatto di capitalisti. Nel 1919-’20-’21 in Italia c’era il capitalismo? Sì, allora com’è che è nato il fascismo? Perché dei capitalisti, impauriti dal bolscevismo, hanno finanziato i fascisti. Ma questo cosa vuol dire? E’ la conferma che il capitalismo è condizione necessaria della libertà, ma non sufficiente. Tutto qui. Rispetto a questo, mettersi a discutere del capitalismo degli Stati Uniti alla fine del ‘700, dei piccoli proprietari teorizzati da Washington, mi sembra un almanaccare. Io dico questo: il capitalismo è una condizione necessaria della libertà che conosciamo; noi conosciamo un certo tipo di libertà che è quella che si è venuta formando tra mille travagli…

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Berneri e le foglie secche dell’ideologia

di Paolo Repetto, 2012

Chi dice chiaramente il proprio pensiero,
senza cercare applausi e senza temere le collere,
è l’uomo della rivoluzione

Su un’altra “tragica fine”, quella di Camillo Berneri, il piccolo almanacco rosso tagliava secco e pesante: “Vigliaccamente trucidato dagli stalinisti”. Ero un ragazzino, avevo letto I Ragazzi della via Paal e coltivavo come un cavaliere medioevale la repulsione per tutto ciò che puzza di viltà, fisica o psicologica che sia. Quell’avverbio mi indignava: immaginavo Berneri colpito alle spalle, perché se gli si fossero presentati di fronte non avrebbero avuto scampo, come con Modesto o con Cipriani. Ma non c’era verso di trovare altri riscontri: il nome di Berneri pareva cancellato dal libro della storia. Ho dovuto attendere la metà degli anni sessanta e l’ingresso all’università per avere qualche notizia più precisa.

Si è trattato anche allora di una conoscenza di seconda mano, perché Berneri sembrava aver lasciato solo pamphlets polemici occasionali, praticamente irreperibili: ma è stata comunque sufficiente, assieme alla lettura delle opere di Kropotkin, a traghettarmi da una concezione salgariana dell’anarchismo ad una curiosità politica e umana più profonda. Solo di recente però, da quando ho potuto finalmente rintracciare i suoi scritti più significativi, quell’interesse è diventato una vera e propria empatia. Ho scoperto un anticonformismo genuino e ho trovato una incredibile consonanza con mia la visione del mondo e degli uomini. Se non porto Berneri nel cuore, come accade per i maestri della mia gioventù, da Leopardi a Camus, è solo perché sono ormai troppo anziano per i colpi di fulmine: ma lo reputo un “amico”, e di là del rimpianto per non averlo frequentato prima mi viene da lui il conforto di non avere sprecato tutto questo tempo. Temo solo, a questo punto, che le pagine che seguono finiscano per confondere troppo spesso la mia voce con la sua. Non sarebbe una novità.

Camillo Berneri appartiene alla quarta (ed ultima) generazione anarchica. Potremmo definirla la generazione degli antifascisti, dopo quella degli ex-mazziniani o ex-garibaldini, che va in pratica da Pisacane a Cipriani, quella degli insurrezionalisti, Cafiero e Malatesta, e quella dei terroristi, Passanante e Bresci. Con essa, e nella resistenza ai totalitarismi di destra e di sinistra della prima metà del Novecento, l’anarchismo vive le ultime luci del crepuscolo: poi calerà il buio totale.

L’appartenenza di Berneri a questa generazione è in realtà più anagrafica che sostanziale: il nostro è riuscito infatti a farsi considerare un eretico anche da coloro che da sempre sono gli eretici per antonomasia. Questo spiega, perché ancora oggi sia tanto difficile accostare direttamente il suo pensiero: e, di converso, perché mi sembri quanto mai doveroso contribuire a strapparlo a questo oblio1.

Un’adolescenza socialista – Quando Berneri viene al mondo a Lodi, nel 1897, Cipriani sta combattendo (e perdendo) la sua ultima battaglia, mentre Cafiero è già morto da un pezzo e l’anarchismo ha chiuso la sua stagione più significativa. Anche a lui la vocazione libertaria è trasmessa geneticamente, ma nel suo caso il cromosoma più irrequieto è quello materno: Adalgisa Fochi è una scrittrice e insegnante socialista che vanta un padre garibaldino e un nonno carbonaro, e che prima di fermarsi in Emilia si porta appresso il figlio nei suoi continui trasferimenti su e giù per l’Italia. Camillo non scoppia di salute: ha rischiato di morire appena nato e ad ogni spostamento si busca una nuova malattia. Di conseguenza rimarrà cagionevole anche da adulto: ma questo non gli impedirà di essere comunque coriaceo e combattivo.

L’esordio politico è naturalmente precoce. Entra nel partito socialista a quindici anni, a Reggio Emilia, in un ambiente improntato al socialismo “educazionista” di Camillo Prampolini, al quale Berneri continuerà ad ispirarsi anche dopo il passaggio all’anarchismo. A diciassette è redattore della rivista del movimento giovanile e appena scoppia la guerra mondiale riesce a sbatterne fuori il direttore, che si è schierato con Mussolini a favore dell’intervento (in questo frangente ha l’aiuto di Bordiga). È un ragazzo determinato, convinto che ai giovani debba essere riconosciuto uno spazio reale di partecipazione (e capace di conquistarselo: a diciott’anni è già nel Comitato Centrale della federazione emiliana), e radicalmente antimilitarista. La sua posizione è ispirata ai principi del collaborazionismo operaio europeo: non crede affatto che la guerra spalanchi le porte alla rivoluzione, e meno che mai che si possano fare dei distinguo tra i vari imperialismi: il compito delle classi operaie europee è semmai quello di sabotare un conflitto anacronistico e suicida. Su questi temi, come vedremo, non accetta tentennamenti.

Quanto al ruolo del partito, ne ha una concezione più culturale che politica: la sua funzione deve essere in primo luogo educativa. L’innalzamento del livello culturale delle masse è la precondizione necessaria, e forse anche sufficiente, per ogni rivoluzione futura. Su questa posizione influisce senz’altro la lezione di Prampolini, e più ancora la vocazione pedagogica della madre: ma per un diciottenne cresciuto nel clima massimalista dell’anteguerra, quando nella sinistra è più che mai viva l’attesa di un risveglio “dall’interno” delle masse e si confida nel detonatore rivoluzionario della “coscienza proletaria”, è comunque indice di una maturità non comune.

Partendo da queste posizioni è quasi scontato che Berneri intraprenda un percorso diametralmente opposto a quello compiuto da Andrea Costa. Al secondo anno di guerra, in aperto contrasto con l’atteggiamento del partito socialista, che è in pratica quello di un acquiescente “né aderire né sabotare”, e disgustato dalla facilità con la quale un sacco di ex adepti sono passati all’interventismo (oltre a quello di Mussolini c’è ad esempio il caso di Cesare Battisti), esce dal Comitato Centrale. Negli ultimi suoi interventi sulla rivista denuncia il fatto che la cultura italiana, e non solo quella borghese, dopo essersi avvitata su “inutili astruserie metafisiche” ha finito per soggiacere ai miti del superomismo e alle tentazioni imperialistiche. Di lì a poco chiude anche con il partito2.

Berneri ha a questo punto solo diciannove anni. Sulla sua decisione e sul suo futuro orientamento hanno un peso determinante l’amicizia stretta con un coetaneo anarchico, Torquato Gobbi, rilegatore di libri, che gli sembra rappresentare molto meglio che non i compagni di sezione la purezza dell’ideale rivoluzionario, e il rapporto con Giovanna Caleffi, anch’essa anarchica, che sposa quando entrambi sono ancora minorenni e che sarà la compagna non solo della sua vita ma anche delle sue lotte3. Nel 1918 Giovanna gli dà una figlia, ma né questo né il fatto di essere stato riformato ad una prima visita gli risparmiano la chiamata alle armi. Non dà un grande contributo alla vittoria: dopo pochi mesi all’Accademia di Modena viene sbattuto al fronte, dove ha il tempo di farsi notare e denunciare per due volte al tribunale militare, per insubordinazione e per aver fatto propaganda anarchica tra i soldati. Appena congedato, nel 1919, dopo aver soggiornato per qualche mese al confino di Pianosa per la partecipazione ad una manifestazione di piazza, comincia a collaborare con Errico Malatesta e con la stampa anarchica, ed è uno dei fondatori dell’Unione Anarchica Italiana.

La sua posizione, però, risulta “non allineata” persino nel mare magnum dell’anarchismo, dove pure non esiste un canone ufficiale e dove il dibattito è molto più acceso e vivace che non all’interno dei partiti di matrice marxista. La linea che Berneri sposa non è in realtà nuova: è già stata intrapresa da Malatesta, che ne “L’anarchia” teorizzava un “gradualismo” rivoluzionario: la rivoluzione per l’anziano maestro è un percorso a tappe, che conosce sviluppi diversi a seconda delle differenti situazioni socio-economiche di partenza. Dove esistono le condizioni per farlo gli anarchici devono naturalmente attuare il loro programma, ma in altri casi non possono che opporre la massima resistenza alle ricomposizioni post-rivoluzionarie in direzione statalista o capitalistica, fornendo esempi di vita e d’azione che mantengano viva la speranza, e rimandando a tempi migliori la costruzione dalla società totalmente libera. Ciò suppone una distinzione tra “giudizi di fatto”, che concernono la realtà storica e naturale, e “giudizi di valore”, che concernono le idealità; ai secondi si impronta la dimensione politica, ai primi quella economica. Berneri procede nella stessa direzione, ma sposta di molto in avanti i margini del possibilismo “tattico”, senz’altro nella dimensione economica, ma in una certa misura anche in quella politica, mentre per quanto concerne l’imperativo etico rimarrà assolutamente intransigente.

Sin dall’inizio della sua militanza anarchica Berneri si trova dunque ad essere classificato come un “revisionista”, stimato per le capacità operative e per l’incredibile mole di lavoro polemico che riesce a svolgere, ma sempre sospetto di devianza rispetto ai dogmi irrinunciabili del credo anarchico. Il che, peraltro, è vero, se quella anarchica viene vissuta come un’ideologia o come una religione, anziché come una disposizione: e Berneri, anziché respingere sdegnato l’accusa, quasi la rivendica4: “Non temiamo quella parola ‘revisionismo’, che ci viene gettata contro dalla scandalizzata ortodossia, ché il verbo dei maestri è da conoscersi e da intendersi. Ma troppo rispettiamo i nostri maggiori, per porre costoro a Cerberi ringhiosi delle proprie teorie, quasi come ad arche sante, quasi come a dogmi”.

I conti con il leninismo – Motivi di scandalo all’ortodossia anarchica Berneri ne dà parecchi. Le occasioni non gli mancano. Nel momento stesso in cui sta transitando dal socialismo all’anarchismo scoppia la Rivoluzione d’ottobre. Avviene ciò che per decenni era parso irraggiungibile, o si era intravisto solo per un attimo durante la Comune, ed è reso possibile da un progetto politico e da una tattica che non coincidono affatto con quelli dell’anarchismo. Per certi versi, pensa Berneri, è normale che gli anarchici ne diffidino, ma per altri occorre che accettino almeno inizialmente l’accaduto come un risultato positivo.

Il successo ottenuto dai bolscevichi mette infatti in qualche modo fuorigioco l’anarchismo classico, che non appare più adeguato ai nuovi assetti sociali ed economici; ma offre anche l’opportunità per un ripensamento profondo, se non sui fini, almeno sui modi dell’azione rivoluzionaria. Fino a quando quello della rivoluzione è stato un sogno proiettato nel futuro lo si poteva trattare appunto come un sogno, rivestendolo di tutte le intransigenze teoriche e tattiche rispetto all’esistente politico proprie dell’anarchismo; ma adesso che si è tradotto almeno in parte in realtà occorre rivedere le proprie posizioni, per non restarne fuori.

Lo scenario nuovo fa scaturire intanto alcune domande fondamentali. La prima è addirittura: ha ancora senso essere anarchici? Ovvero: si è attesa invano per anni una rivoluzione che rendesse inutile la dialettica politica; ora la rivoluzione c’è stata, ma la dialettica si ripropone anche all’interno di essa. Si può continuare a rifiutarla categoricamente? E poi: se l’anarchismo viene a compromesso con l’esistente, è ancora anarchismo? Vedremo dopo quali risposte Berneri si dà: per intanto le domande se le pone mentre agisce, mentre combatte. I dubbi non gli impediscono di mettersi in gioco comunque. E le realtà che vive di volta in volta, dal momento che con la realtà ha scelto di confrontarsi, lo indurranno in seguito a sfumare le sue posizioni e magari a porsi altre domande.

Insomma, Berneri è esattamente l’opposto di Cipriani, che attraversa sessant’anni di battaglie senza essere scalfito da altro se non dalla stanchezza. Ciò non significa che non sia egualmente sorretto da una fede incrollabile: solo che la sua riguarda più la necessità individuale di un’esistenza eticamente giustificata (il senso del dovere, per capirci) che non la bontà assoluta della causa per cui combatte. E questo spiega la sua disponibilità a rimettere in questione i modi e in qualche misura anche i fini di questa causa.

Per quanto concerne la rivoluzione russa Berneri parte dalla semplice oggettività del fatto che è avvenuta. L’evento assume già di per sé un grande valore, perché se non altro dimostra che una rivoluzione ci può essere. La rivoluzione ha poi portato alcune novità che gli sembrano importantissime, prima tra tutte la nascita dei soviet: una qualche forma spontanea di autorganizzazione risulta dunque possibile. Pur essendo evidente anche a lui che quella russa è una vittoria del socialismo autoritario rispetto a quello libertario, ciò non gli impedisce di pensare che la Russia sia un immenso terreno di sperimentazione, ancora tutto da esplorare5. Di qui la necessità di darsi una mossa, “di adeguare velocemente il programma politico ed economico dell’anarchismo alle necessità strategiche della rivoluzione”: in altre parole, se gli anarchici vogliono che qualcosa accada devono scendere dal regno celeste dei sogni e posare i piedi sul terreno della realtà (anche a rischio di infangarli un po’). “Non si può rimanere abbracciati ai cadaveri dei maestri – dice Berneri – anche se di giganti come Bakunin; bisogna maturare una visione più ampia ed acuta delle nuove situazioni”.

Questa impostazione, della quale è ancora quasi per intero debitore a Malatesta, prende il nome di “attualismo”, e viene appunto sofferta da molti anarchici come “revisionista”. Berneri ne è perfettamente cosciente: “Sono un anarchico sui generis, tollerato dai compagni per la mia attività, ma capito e seguito da pochissimi”. Così come è cosciente che capirlo e seguirlo risulta, per i compagni, piuttosto problematico, soprattutto inizialmente, quando sembra convenire che la “dittatura del proletariato”, sia pure intesa in modi e con funzioni ben diverse da quelle bolsceviche, sia un passaggio legittimo e necessario della rivoluzione. “Io credo che la concezione integrale e ortodossa del comunismo libertario porti, nel campo della realtà, alla dittatura del proletariato, non quale è nel significato che danno a questa formula i comunisti autoritari, ma come formazione storica scaturente dal fatto di una rivoluzione spinta ai limiti estremi” scrive ancora nel 19206. Ma ha già ben chiaro quale piega stiano prendendo le cose: ragion per cui due anni dopo dichiara che “criticare i criteri e i metodi del partito comunista russo, illustrare gli errori e gli orrori del governo bolscevico, è per noi un dovere e un diritto, perché nel fallimento del bolscevismo statolatra vediamo la migliore conferma delle nostre teorie libertarie7. A sgombrare il campo da eventuali dubbi hanno provveduto le rivelazioni di quei compagni che hanno vissuto in prima persona sia la rivoluzione che la sua rapida deriva autoritaria, e sono stati abbastanza svegli o fortunati da sfuggire alla feroce repressione delle comuni e dei soviet anarchici operata da Trotsky.

È anche convinto che occorra relativizzare, saper leggere i fenomeni nel loro specifico contesto: in fondo, “ogni rivoluzione ha lo sviluppo di cui è capace il popolo che la compie”. Quel modello rivoluzionario, poi, gli appare tanto particolare da fargli scrivere che “non si può giudicare con criteri occidentali una rivoluzione che appartiene più all’Asia che all’Europa”. Questo significa anche che è assurdo guardare ad esso come ad un archetipo; al più, può essere l’esempio di una generica “possibilità” concreta. Per contro, vede il grave pericolo insito in questa speranza di “esportazione”, quando dice che l’idea comunista educa gli italiani (e gli occidentali tutti) ad attendersi quasi una venuta provvidenziale (“verrà Lenin”, diventato poi “verrà Stalin”) invece che ad elaborare una loro via alla rivoluzione e una loro risposta alla crescente reazione.

Molto più tardi, tornando sul tema della dittatura del proletariato nel bel mezzo della contrapposizione politica della guerra di Spagna, si esprimerà in questi termini: “Dittatura del proletariato è una formula equivoca quanto il popolo sovrano: concetto e formula di imperialismo classista, equivoca e assurda. Il proletariato deve sparire, non governare. Il proletariato è proletariato perché dalla culla alla tomba è sotto il peso dell’appartenenza alla classe più povera, meno istruita, meno passibile di individuale emancipazione, meno influente nella vita politica, più esposto alla vecchiaia e alla morte precoce, ecc. redento da queste ingiustizie sociali, il proletariato cessa di essere una classe in sé, poiché tutte le altre classi sono spogliate dei loro privilegi. Cosa permane allo sparire delle classi? Rimangono le categorie umane: intelligenti e stupidi, colti e semi-incolti, sani e malati, onesti e disonesti, belli e brutti, ecc. Il problema sociale, da classista, si farà problema umano. La rivoluzione sociale, classista nella sua genesi, è umanista nei suoi processi evolutivi. Chi non capisce questa verità è un idiota. Chi la nega è un aspirante dittatore”8.Difficile essere più chiari.

Sarebbe dunque ingeneroso, anche dal punto di vista della stretta osservanza anarchica, imputargli un eccessivo entusiasmo iniziale nei confronti della rivoluzione russa. Quando questa scoppia Berneri ha vent’anni, da tre è in corso una carneficina destinata a cambiare le sorti del mondo e ancora le organizzazioni politiche e sindacali tradizionali della sinistra non riescono a uscire dall’impasse del lealismo nazionalista. È più che naturale che saluti ciò che sta accadendo in Russia come un evento epocale, ed è in buona compagnia, perché dello stesso avviso è mezza Europa. Avrà modo sin troppo presto, sulla propria pelle, di rendersi conto di quanto la vittoria del bolscevismo sia stata letale per il futuro delle speranze rivoluzionarie e dell’idea libertaria. Non dimentichiamo che ad altri, ai più, è occorso mezzo secolo per arrivarci, e che qualcuno deve ancora capirlo adesso.

Fenomenologie dell’autoritarismo: il culto del capo – All’inizio degli anni venti Berneri ha ormai due figlie e porta a termine gli studi: si laurea in Filosofia a Firenze con Salvemini ed entra a far parte della cerchia del primissimo antifascismo, conoscendo personaggi come Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei, collaborando a Non Mollare e a numerose altre riviste, tra le quali la Rivoluzione liberale di Gobetti. Di lì a poco deve però lasciare Firenze, perché ormai è nel libro nero dei fascisti: dopo aver subito un paio di aggressioni si ritira perciò ad insegnare a Camerino, senza naturalmente cessare l’opera di propaganda politica e di “revisione” dell’anarchismo.

I modi e i tempi di questa revisione sono imposti dal convulso precipitare di eventi e mutare di situazioni che caratterizza la prima metà degli anni venti, quando sembra possibile tutto e il contrario di tutto: è ancora viva la speranza rivoluzionaria, ma appare già chiara la deriva statalista e totalitaria dell’URSS; si afferma il fascismo, ma ancora sembra destinato ad autoliquidarsi per la sua rozzezza politica; nascono a sinistra del partito socialista nuove forze, ma questo anziché rafforzare il movimento libertario ne esaspera le contrapposizioni interne. Berneri vive quelli che Hobsbawm definisce “tempi interessanti”, nei quali non è facile tenere il passo degli avvenimenti; e la scelta di non perdere di vista quanto realmente accade, e di non sacrificare “i fatti” forzandoli ad ogni costo a rientrare in una costruzione teorica cristallizzata, lo porta ad allargare su più fronti la sua attenzione, a cogliere gli elementi di novità in ogni piega e in ogni risvolto dell’attualità. Per questo lo troviamo instancabilmente impegnato ad analizzare con tutte le armi critiche possibili, compresa la psicanalisi, i fenomeni nuovi che caratterizzano la scena politica, primo tra tutti naturalmente quello dell’irresistibile ascesa di Mussolini.

In un articolo apparso su “L’Ordine Nuovo” nel 1924 Gramsci aveva scritto che Mussolini era in fondo soltanto un buffone, estraneo alla vita nazionale, e che al massimo sarebbe passato alla storia delle maschere italiane. Berneri, che Mussolini lo conosce bene, avendone già ammirato nel 1912 una performance nel congresso socialista di Reggio Emilia, non ne è altrettanto sicuro, e lo ribadisce più volte. Dieci anni dopo, nel 1934, torna in maniera definitiva sul tema con un breve e saporitissimo saggio, Mussolini grande attore, nel quale, usando gli strumenti dell’analisi psicoanalitica oltre a quelli della critica storica, dimostra quanto invece la figura del dittatore sia costruita attraverso l’uso sapiente dei nuovi strumenti di propaganda (la radio e il cinema) e l’assunzione di atteggiamenti plateali ma di grande effetto. Mussolini ha la capacità di “recitare”, più ancora che di interpretare, un ruolo nella storia. È vero, si serve spesso di un apparato e di modi da avanspettacolo, che riflettono l’evidente povertà dei contenuti politici; ma ci sono aspetti, in questa rappresentazione, che non vanno sottovalutati, primo tra tutti quello dell’”educazione delle masse” o, se vogliamo, del loro plagio. È naturale per Berneri, che ha sempre attribuito un valore prioritario all’educazione dei giovani, apprezzare, sia pure in negativo, la capacità di Mussolini di operare direttamente su questi ultimi attraverso la scuola e le altre forme di omologazione e di inquadramento parascolastiche. Non è un caso, dice Berneri, che la prima riforma del fascismo sia stata quella di Gentile.

La promozione dell’immagine e del culto di Mussolini è chiaramente funzionale per Berneri ad un progetto di “normalizzazione” del potere, che passa attraverso l’azzeramento della coscienza critica della massa, e quindi di ogni opposizione. Il ricorso alla rappresaglia fisica, che è stato fondamentale per il fascismo al momento della conquista del potere e nella fase di consolidamento, consentendo di tagliare le teste pensanti più pericolose, ha lasciato il campo da un lato ad una “rappresaglia” istituzionale, legalizzata, dall’altro al condizionamento psicologico: e questo sembra aver funzionato perfettamente.

In realtà infatti non è tanto la figura di Mussolini ad interessare Berneri, anche se ci legge un possibile esito di certe esasperazioni individualistiche riconducibili persino all’anarchismo, quanto invece la reazione (verrebbe da dire: la mancanza di reazione) della massa, pronta a farsi circuire da un imbonitore, per quanto scaltro. “Per essere un grande attore non bastano virtù soggettive, occorre anche comprendere e interpretare le esigenze del pubblico, in un dato luogo, in un momento dato”. Altro che estraneo alla vita nazionale! Berneri consente perfettamente con Rosselli quando questi scrive che il fascismo “esprime i vizi profondi, le debolezze latenti del nostro popolo, del nostro intero popolo. In un certo modo, il fascismo è stato l’autobiografia di una nazione”. E una parte di responsabilità, nella creazione del “mostro”, Berneri l’attribuisce anche alla sinistra, tutt’altro che immune dal culto della personalità. La sua analisi può quindi essere estesa, al di là dello specifico mussoliniano, anche ad altre situazioni, prima tra tutte quella sovietica; e per taluni aspetti, fatte salve le ovvie differenze, calzerebbe perfettamente a quanto accaduto in Italia negli ultimi due decenni.

L’anarchico più espulso della storia – Dopo il delitto Matteotti il regime, anziché indebolirsi, si consolida e i guai per Berneri e per la sua famiglia si moltiplicano. Intanto Camillo rifiuta di prestare il giuramento di fedeltà alla monarchia (e a questo punto, implicitamente, al fascismo) imposto a tutti i docenti, e viene quindi privato della cattedra: poi, dopo le aggressioni che costeranno la vita a Gobetti e ad altri antifascisti di punta, e dopo essere sfuggito ad un paio di agguati delle squadracce, capisce che il cerchio si sta stringendo e nell’aprile del 1926 si rifugia in Francia. Di lì a poco viene raggiunto da Giovanna e dalle figlie. Ma la vita del fuoruscito non è facile: è costretto ad arrangiarsi con lavoretti saltuari, mentre cerca di mettere assieme i pezzi di una organizzazione che di fatto è allo sfascio, sotto i colpi delle delazioni e degli agenti provocatori. Fa un po’ di tutto, anche lavori che sono assolutamente incompatibili con la gracilità del suo fisico: racconta ad esempio che “fu a Le Pecq, mentre in costume e in fatica da muratore mi aveva sorpreso uno dei “responsabili” comunisti. “Ora la puoi conoscere, Berneri, l’anima proletaria!” Così mi aveva apostrofato. Tra una stacciatura di sabbia e due secchi di “grossa” riflettei sull’anima proletaria”. 9 Non pretenderà mai, però, a differenza di altri, che il suo temporaneo rapporto con il lavoro manuale ne abbia fatto un “autentico proletario” e lo abbia abilitato a parlare a nome di tutti i lavoratori.

Nel 1928 viene arrestato ed espulso una prima volta dalla Francia come “pericoloso anarchico”. Nel suo ardore polemico ha finito per cadere in una trappola della polizia segreta fascista. Il gioco di quest’ultima consiste nell’alimentare attraverso i suoi agenti infiltrati i dissapori tra fuorusciti di tendenze ideologiche diverse, e anche Berneri è indotto ad attaccare un altro antifascista, il cattolico Giuseppe Donati. Questi è a sua volta manovrato da un secondo provocatore, e ad entrambi vengono fatti arrivare finanziamenti per pubblicare i loro opuscoletti. Il risultato è che i due si scambiano pesanti accuse, offrendo alla polizia il pretesto per stare loro addosso e alla magistratura quello per sbatterli fuori.

L’episodio conferma una debolezza che caratterizza tutti i movimenti di opposizione clandestina in ogni tempo e paese: la costante permeabilità all’infiltrazione di agenti provocatori. È indubbiamente un rischio ineliminabile, che deve essere corso e che è difficile limitare, specie in una situazione aggrovigliata come quella del fuoruscitismo, nella quale i riscontri sulla reale identità, attività e militanza sono molto più difficili: ma in questo caso l’impressione è che l’ambiente anarchico ecceda nell’accordare fiducia a chiunque si professi libertario (cosa che si verifica molto meno nelle formazioni comuniste, dove i filtri hanno maglie più strette), pur restando vero che un’idea come quella anarchica è perseguibile solo se si esclude il sospetto sistematico come procedura di sicurezza. In questo caso poi il fatto paradossale è che Berneri il fenomeno degli infiltrati lo ha studiato e denunciato in un opuscolo documentatissimo, Lo spionaggio fascista all’estero, pubblicato nel 1928, e ciononostante ne cadrà ripetutamente vittima.

Alla prima espulsione fa seguito una serie di peregrinazioni per mezza Europa, dall’Olanda al Lussemburgo, dalla Spagna alla Germania Ovunque arrivi Berneri trova ad attenderlo un paio di agenti che lo trattengono un giorno o due, lo identificano e lo rispediscono al mittente. Racconta lui stesso questi episodi in tono divertito, addirittura ricordando con affetto quei poliziotti che lo hanno trattato umanamente, e rievocando i contradditori improvvisati durante lunghe notti in guardina con quelli meno sensibili. Il vagabondaggio ha improvvisamente termine nel dicembre dell’anno successivo, quando viene arrestato in Belgio con l’accusa pesantissima di avere ordito un complotto per uccidere il ministro italiano Alfredo Rocco (l’autore del nuovo codice penale) durante una visita diplomatica. Nell’ambito della stessa operazione sono arrestati in Francia altri fuoriusciti italiani (tra cui Carlo Rosselli). Berneri è trovato in possesso di una pistola; si assume ogni responsabilità e scagiona gli altri, rimediando per sé una condanna a soli sei mesi di carcere, anche perché durante il processo emergono il ruolo e la reale appartenenza del “mandante”, l’infiltrato trentino Ermanno Menapace (che è a sua volta è condannato in contumacia a due anni). Scontata la pena Berneri è rimandato in Francia, dove subisce un altro processo e si becca un’altra condanna. Viene amnistiato dopo qualche mese e scarcerato nel maggio del 1930.

Ormai non può più essere espulso, perché nessuno degli stati confinanti è disposto ad accoglierlo. Nel giro di tre anni viene ancora arrestato quattro volte, ma tutto sommato la sua vita riprende più tranquilla, limitandosi al proselitismo e alla scrittura. In questo periodo la famiglia tira avanti con i proventi di una piccola drogheria gestita da Giovanna, che non manca di diventare una centrale di accoglienza e riferimento per i fuorusciti italiani.

La ricostruzione di ciò che è avvenuto nel 1929 riesce piuttosto confusa, e nemmeno lo stesso Berneri nelle lettere e nella bozza autobiografica che ha lasciato sembra avere le idee chiare. Nell’agosto del 1929 sono giunti a Parigi Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, fuggiti in motoscafo dal confino di Lipari. Berneri, che con i Rosselli aveva già stretto amicizia ai tempi di Firenze e della frequentazione del Circolo di Studi Sociali gravitante attorno a Salvemini, vede in questo arrivo una grande occasione. Pochi mesi dopo viene costituito a Parigi il movimento Giustizia e Libertà, i cui orientamenti sono in sintonia con quelli di Berneri e degli anarchici. È soprattutto Lussu a spingere perché si passi immediatamente all’azione, adottando la tecnica terroristica degli attentati individuali, restituendo colpo su colpo ai fascisti e mirando soprattutto a eliminare Mussolini. Per alcuni mesi la collaborazione è aperta, e sull’onda di un entusiasmo un po’ precipitoso vengono progettati diversi attentati. Una nota informativa del dicembre del 1929, basata proprio sull’attività spionistica di Menapace, dettaglia minuziosamente a Mussolini le intenzioni e i movimenti di Berneri: in particolare il progetto di un attentato alla Società delle Nazioni di Ginevra, in collaborazione con altri anarchici e con esponenti di Giustizia e Libertà.

Pur facendo la dovuta tara alle informative dell’OVRA, di norma gonfiate e in qualche caso addirittura inventate di sana pianta dall’ufficio centrale per dimostrare l’efficienza del servizio, o dai singoli agenti per giustificare il proprio stipendio, esiste veramente a cavallo degli anni trenta, nelle fila dell’antifascismo e soprattutto tra i fuorusciti, la fissazione dell’attentato, del passaggio all’azione diretta.

Lo dimostrano i casi degli anarchici Schirru e Sbardellotto10, e l’urgenza di gesti dimostrativi è anche facilmente spiegabile con il sentimento di frustrazione che si va diffondendo tra gli oppositori, una volta constatato che non soltanto il regime non crolla per intrinseca debolezza, come si era sperato in un primo tempo, ma si rafforza e si radica sempre più, e che addirittura, dopo che la crisi del ’29 ha messo in ginocchio le maggiori potenze democratiche, sta guadagnando consensi tra la popolazione. A questo punto l’impressione di molti, e non solo degli anarchici, è che senza un gesto isolato che decapiti il potere non si arriverà a nulla. Mal che vada, l’azione diretta dimostrerà agli italiani e al mondo che il consenso al fascismo non è unanime, e che la resistenza è ancora ben viva.

Questo atteggiamento si intiepidisce poi verso la metà degli anni trenta, anche se i tentativi non cesseranno del tutto: ma essi saranno sempre più frutto di scelte isolate. La sorveglianza poliziesca e la repressione hanno resa impossibile in Italia qualsiasi congiura e, peggio ancora, il regime dimostra di saper utilizzare a proprio vantaggio, attraverso un organizzatissimo ed efficiente lavoro di enfatizzazione e disinformazione, ogni tentativo fallito, fino al punto di arrivare a costruirne di falsi.

Per intanto, con Berneri fuori gioco, non solo perché carcerato, ma anche perché gli arresti e il processo hanno drammaticamente portato alla luce le debolezze della rete anarchica, il sodalizio con Giustizia e Libertà si scioglie. Di lì a poco, nell’autunno del 1931, G.L. aderisce infatti alla Concentrazione Antifascista, un fronte di resistenza che riunisce i fuorusciti politici italiani di ogni colore, ma dal quale gli anarchici si sono autoesclusi.

Berneri come si è detto “gode” di un forzato periodo di riflessione, e come da suo carattere si interessa a varie discipline, dalla psicologia alla storia, dalla filosofia all’arte. Ma è tutt’altro che tranquillo. Scottato dal fallimento dei suoi progetti d’azione, e più ancora dalla caduta di credibilità conseguente l’affare Menapace, scrive nel 1930 dal carcere alla figlia Maria Luisa: “Sono contemporaneamente sereno e disperato: come se fossi rassegnato ad una fatalità e come se io disponessi di una volontà in grado di creare un mondo. La situazione è cambiata tanto da essere per noi tema doloroso; ciò che è grave ed esige una soluzione è che il peso frantuma l’energia dell’animo. Sono alla ricerca precisa di me stesso e devo vincermi. Non è il carcere che mi preoccupa, ma è lo sforzo che devo fare per uscire dalla mia vita di ieri che è una volta di più spezzata e che non spero di poter riprendere a meno che io non riesca a raggiungere un po’ di tranquillità11 . È questo però il periodo in cui le sue idee sull’anarchismo prendono una forma più compiuta.

Fenomenologie dell’autoritarismo: il culto della massa – Le contraddizioni che a posteriori si vorrebbero – o almeno, che alcuni hanno voluto – cogliere nel percorso teorico di Berneri sono solo apparenti. In realtà esso è sorretto da una tenace coerenza, che non si cristallizza in rigidità dogmatica ma si confronta di volta in volta con una eccezionale capacità di lettura del presente: oltretutto, in questo caso, di un presente caotico, confuso e mutevole, pregno di tutto e del contrario di tutto.

L’assenza dalla sua opera di una “formulazione teorica” strutturata è legata senz’altro alla continua precarietà in cui si trova a vivere, oltre che alla precoce scomparsa, e di questo Berneri si lamenterà spesso: ma è anche dovuta alla sua stessa concezione della militanza intellettuale, che lo mette in sospetto di fronte a tutto ciò che è astrazione ideologica, perché questa impedisce di avere chiara la situazione ed anche la condizione dei soggetti trattati. Fermarsi a teorizzare significa per Berneri perdere di vista quanto sta accadendo. D’altro canto, la sua concezione dell’anarchismo si va sempre più definendo come la definizione di una linea ideale, questa sì fissata una volta per tutte, di comportamento individuale, di responsabilizzazione personale, che non ha bisogno di revisioni: la revisione riguarda semmai il confronto con il mondo, che in questo modo viene liberato dalle pastoie di una teoria prefissata alla luce della quale di debbano leggere gli accadimenti.

Ciò non significa che Berneri non affronti i nodi cruciali della teoria. Lo fa eccome, e senza lasciarsi condizionare da particolari riverenze per le idee e per le formule del canone anarco-socialista. Il suo percorso di svecchiamento, mirato a “spazzar via le foglie morte dell’ideologia” parte dalla considerazione che “la crisi dell’anarchismo è evidente”, e che questa crisi è legata ad una interpretazione sbagliata dell’utopismo. I suoi compagni anarchici, per la stragrande maggioranza, non distinguono tra quello che può essere un modello sociale “ideale” di riferimento e quello che dovrebbe essere un modello “possibile”, da contrapporsi ai fenomeni emergenti o dominanti nella realtà “attuale”, le dittature fasciste e i totalitarismi. “Arriva il momento scrive Berneri in cui tutti domandano: cosa facciamo? Bisogna avere una risposta. Non per fare da capi, ma perché la folla non se li crei…”. Occorre redigere pertanto un programma di previsione per la futura società libera. Per diventare credibile l’anarchismo deve definire e dichiarare apertamente ciò che intende costruire. Si deve parlare di regole, di strutture economiche e di meccanismi decisionali. La lotta contro lo stato deve essere animata da una prospettiva di organizzazione futura.

Ma c’è dell’altro: il modello ideale non solo non è realizzabile, ma quand’anche lo fosse si tradurrebbe a sua volta in totalitarismo, come l’esperienza russa insegna. Non ci si deve illudere che l’anarchismo non corra certi pericoli: è a rischio come qualunque altra ideologia o credenza che ad un certo punto si fossilizzi attorno a dei dogmi. Per questo è necessario che la “revisione” sia sempre aperta, e che abbia il coraggio di arrivare alle radici dei problemi. Partendo proprio da quello, eterno, del rapporto tra libertà individuale e giustizia.

Nell’immediato dopoguerra in seno all’anarchismo si confrontano due diverse tensioni, che sono tanto lo specchio di quanto accade “fuori” quanto il risultato di un’ambiguità originaria del pensiero anarchico. Da un lato c’è il nuovo protagonismo delle masse operaie e contadine, messe in movimento dalla guerra, risvegliate dagli accadimenti russi e tuttavia sempre potenziali prede dell’estremismo demagogico di alcuni capi: dall’altro c’è una tentazione individualistica, giustificata dal mito della libertà assoluta individuale (la linea “nietzschiana”). Nell’anarchismo le due anime, populista e individualistica, hanno fino ad ora convissuto più o meno pacificamente: ma la nuova situazione creata dalla guerra, con la rivoluzione russa e con il fascismo, impone con urgenza e con drammatica necessità di compiere delle scelte. Occorre quindi arrivare ad una definizione chiara delle mete politiche da perseguire e dei percorsi da intraprendere, e va dissolta in primo luogo l’aporia che da sempre caratterizza il pensiero libertario: come conciliare la libertà individuale con la giustizia “egualitaristica” invocata dalle masse?

Berneri parte dal buon senso: la libertà individuale non è mai assoluta, ma sempre condizionata dalla necessità delle contingenze storiche, dal “contesto”. Quindi non si può continuare a parlare di “abolizione” dell’autorità, come recita la dottrina anarchica: l’obiettivo realistico è semmai la riduzione dell’autorità ai termini minimi consentiti dalla necessità. “L’ideologia kropotkiniana ci ha riportati all’ottimismo e all’ evoluzionismo solidarista. Sul terreno dell’ottimismo antropologico, l’individualismo ha perpetuato il processo negativo dell’ideologia anarchica, conciliando arbitrariamente la libertà del singolo con le necessità sociali, confondendo l’associazione con la società, romanticizzando il dualismo libertà e autorità in uno statico e assoluto antagonismo”. Con buona pace di Kropotkin, è inutile illudersi di poter realizzare la società dell’armonia: bisogna invece concentrare gli sforzi sulla società della massima tolleranza. “Il solidarismo kropotkiniano, sviluppatosi sul terreno naturalistico ed etnografico, confuse l’armonia di necessità biologica delle api con quella discordia discors e quella concordia concors propria dell’aggregato sociale, e forme primitive di società associazioni ebbe troppo presenti per capire l’ubi societas, ibi jus insito alle forme politiche che non siano preistoriche”12.

In pratica Berneri muove dallo stesso assunto di Hobbes, anche se ne ricava poi un esito diverso. Gli uomini non sono angeli, la loro natura e i loro impulsi non sono omogenei, e non convivono in una assoluta assenza di urti, di spigoli e di contrapposizioni. È necessaria una mediazione, e questa mediazione è appunto la politica. “La politica è calcolo e creazione di forze realizzanti un’approssimazione della realtà al sistema reale … non la ripetizione di dottrinari luoghi comuni”.

Come può darsi allora quella valorizzazione e quell’affermazione dell’individualità che l’anarchismo ha sempre perseguito e predicato? Attraverso il ruolo di guida che gli individui possono assolvere nei confronti delle masse, dice Berneri: “Il genio della rivoluzione non è genio di maggioranza, ma di minoranze fattive”. Questa concezione è indubbiamente molto influenzata da quanto è accaduto nella rivoluzione bolscevica, ma non va interpretata nella versione leninista: le “avanguardie” per Berneri non devono trascinarsi dietro il proletariato, ma stimolarlo, smuoverlo, aiutarlo a prendere coscienza: e questo possono farlo attraverso l’esempio personale (come diceva Cipriani), con l’attivazione della prassi insurrezionalista (come la predicavano e la praticavano Cafiero e Malatesta) e con la diffusione della conoscenza (come sostiene Berneri stesso). “La funzione delle élites mi parve chiara: dare l’esempio dell’audacia, del sacrificio, della tenacia; richiamare la massa su se stessa, sull’oppressione politica, sullo sfruttamento economico, ma anche sull’inferiorità morale e intellettuale delle maggioranze”. Il giacobinismo leninista è invece solo populismo demagogico: “Il nemico del popolo è il politicante, il parolaio che esalta il proletariato per esserne la mosca cocchiera, che esalta i calli per dispensarsi dal farseli o dal rifarseli, che denuncia come contro-rivoluzionario chiunque non sia disposto a seguire la corrente popolare nei suoi errori”.

Tutto questo ci conduce al rospo che probabilmente è risultato più indigesto per la sinistra, socialista, anarchica o comunista che fosse, e che rende ragione dell’ostracismo perdurante nei confronti di Berneri: la demitizzazione del proletariato.

Ne L’operaiolatria, un piccolo opuscolo edito nel 1934, come recensione a Socialismo liberale di Rosselli, Berneri afferma: Non ho mai lucidato le scarpe al proletariato “evoluto e cosciente”, neppure in comizio”. Non c’è da dubitarne. E aggiunge, coerentemente con quanto abbiamo visto sopra, che “il giochetto di chiamare “proletariato” i nuclei di avanguardia e le élites operaie è un giochetto da mettere in soffitta”. Le parole hanno un senso, e quando l’abuso o l’uso improprio le caricano di valenze eccessive o contradditorie è necessario rimettere ordine. È quanto Berneri intende fare, per cui passa a modo suo, senza mezzi termini, a sgomberare il terreno dalle favole e dalla retorica del romanticismo operaista.

Primo ad essere liquidato è l’assunto socialista che dà per scontata l’esistenza di un’“anima proletaria” delle masse, quasi che la coscienza di una appartenenza di classe fosse un portato biologico. Non c’è alcun automatismo, dice, per il quale l’appartenere di fatto ad una particolare classe sociale, in questo caso al proletariato, implichi una “coscienza” in positivo di tale condizione (su quella in negativo non c’è problema: se faccio la fame, me ne rendo senz’altro conto), vale a dire implichi anche la percezione della possibilità e della necessità di una azione collettiva di cambiamento (leggi: rivoluzione).“I primi contatti con il proletariato: era lì che cercavo la materia della mia definizione: l’anima proletaria non la trovai. Poi, entrato nella propaganda e nell’organizzazione, vidi il proletariato, che mi parve nel suo complesso quello che ancor oggi mi pare, un’enorme forza che si ignora; che cura, e non intelligentemente, il proprio utile; che si batte difficilmente per motivi ideali o per scopi non immediati, che è pesante di infiniti pregiudizi, di grossolane ignoranze, di infantili illusioni”.

In realtà le “masse oppresse” sono un’entità molto disomogenea, frammentata e vulnerabile, oltre che facilmente manipolabile, che può trovare un comune denominatore di resistenza e di attacco solo nella conoscenza sociale, economica e storica, ovvero nell’istruzione. Questo denominatore al momento è ancora ben lontano, a dispetto di “una retorica socialista che è terribilmente ineducativa, e i comunisti contribuiscono, più di qualsiasi altro partito d’avanguardia, a perpetuarla. Non contenti dell’”anima proletaria”, hanno tirato fuori la “cultura proletaria”. La “cultura proletaria” esiste, dice Berneri, ma “è ristretta alle conoscenze professionali e all’infarinatura enciclopedica raffazzonata in disordinate letture …. Una persona colta che si occupi ad esempio di scienze naturali e che non abbia conoscenze di matematica superiore si guarderà bene dal giudicare Einstein. Un autodidatta, in generale, ha in materia di giudizi un fegataccio grosso così. Dirà di Tizio che è un filosofucolo, di Caio che è un “grande scienziato”, …” Il che, al di là della generalizzazione polemica, può non piacere, ma è assolutamente vero.

Ma Berneri non si ferma qui. Arriva al dunque, quello di fronte al quale arretrano tutti gli intellettuali “progressisti”: “La dottrina socialista è una creazione di intellettuali borghesi. Essa non è una dottrina del proletariato, ma una dottrina per il proletariato. I principali teorici e agitatori dell’anarchismo, da Godwin a Bakunin, da Kropotkin a Cafiero, da Mella a Faure, da Covelli a Malatesta, da Fabbri a Galleani, da Gori a Voltarine de Cleyre, uscirono da un ambiente aristocratico o borghese, per andare al popolo. Proudhon, di origine proletaria, è di tutti gli scrittori anarchici il più influenzato dall’ideologia e dai sentimenti della piccola borghesia. Grave, calzolaio, è caduto nello sciovinismo democratico il più borghese”. Questo si chiama chiamare le cose col loro nome: anche perché nella connotazione “borghese” della cultura anarchica che Berneri evidenzia non c’è alcuna valenza negativa. “In tutti i campi il passato ci ha fatto eredi di beni inestimabili che non potrebbero venire attribuiti a questa o a quella classe…. Dei sapienti, degli scrittori e degli artisti borghesi ci hanno dato opere di una importanza emancipatrice; invece, degli intellettuali sedicenti proletari ci cucinano dei piatti spesse volte indigesti”.13 Berneri è insomma una sorta di Gobetti “emiliano”, forse meno brillante nella scrittura, ma non meno lucido nell’analisi e nello sguardo sulla realtà.

Mi permetto a questo punto un inciso. Passi per me, che ero un ragazzotto rozzo e sprovveduto, e Berneri lo conoscevo solo di nome: ma è possibile che in tutta la sinistra, nel sessantotto e dintorni, nessuno abbia avuto la ventura di leggere questo opuscolo, e di trovarci già diagnosticata e dissezionata l’ipocrita idolatria del proletariato che ha riempito per quasi due decenni riviste, salotti, cortei? O ancora: è possibile che quando, nel mezzo di una delle famose assemblee congiunte studenti-operai, un lavoratore dell’Ansaldo tagliava corto dicendo: “ragazzi, qui voi state parlando di rivoluzione, noi di un aumento di cinquanta lire l’ora”, fossi l’unico a pensare che quella era la genuina “coscienza proletaria”?

Amici e compagni di viaggio – Messi in soffitta il populismo e il bolscevismo, Berneri non ha esitazioni a denunciare il pericolo “totalitario” latente nello stesso pensiero anarchico, quello cui si accennava sopra. Totalitario può essere infatti anche il rifiuto radicale di ogni forma politica e di ogni istituzionalizzazione, perché suppone un’umanità composta di individui tutti perfettamente consapevoli e concordi sul significato da attribuire al termine libertà, e sull’etica che ne consegue: e dal momento che le cose non stanno così, finisce per trasformarsi in un’attesa indefinita della palingenesi sociale, che esclude ogni possibilità di agire davvero, con qualche risultato, qui ed ora.

Compito di una politica libertaria concreta e coerente è quindi quello di individuare delle soluzioni immediatamente attuabili, che da un lato salvaguardino il più possibile le libertà individuali e dall’altro consentano di sperimentare modelli inediti di aggregazione sociale. Questa ricerca va condotta nell’ambito dell’esistente, e deve sfociare nella continua costruzione dal basso di nuove forme politiche ed istituzionali. Dove non è possibile farlo al di fuori del sistema, si debbono cercare gli interstizi per operare dall’interno, senza esserne fagocitati.

Se vuoi costruire una società libera e giusta, dice Berneri, devi prevedere anche norme, diritti, istituzioni che difendano tale libertà. Questo significa, ad esempio, che va mantenuto un minimo di legislazione penale, e che per far rispettare quest’ultima sono indispensabili anche le carceri e i tribunali. “Un minimo di diritto penale è necessario, così come un minimo i autorità … Credo che l’idea di giustizia sia nel popolo, ma non credo alla giustizia popolare, intesa come giustizia di folle14 . Semmai “gli anarchici mostrerebbero più intelligenza politica spingendo il popolo a conservare indipendenti dagli organi centrali governativi la polizia e la magistratura comunali”. Allo stesso modo, è certo fondamentale educare ad una concezione “ludica” del lavoro, conferendo a quest’ultimo una “dignità” che non sia puramente ed hegelianamente nominale, ma venga sostanziata da condizioni ambientali, corrispondenza alle attitudini, democraticità di rapporti, gratificazioni economiche e spirituali adeguate: ma va anche contemplata la necessità di una disciplina che integri, dove necessario, il senso individuale di responsabilità.

Ora, nell’esistente ciò che più si avvicina a questo modello è costituito da tutta la tradizione del liberalismo classico, che per un verso, certo, è responsabile di una falsa declinazione della libertà, quella che addirittura ha portato alle degenerazioni nazionalistiche, capitalistiche, colonialistiche, imperialistiche, e da ultimo totalitarie, ma per un altro almeno offre contro lo stesso totalitarismo qualche garanzia, con la difesa radicale della libertà individuale, ad esempio, o con il liberismo in economia. Non si può negare che alcune conquiste, sia pure soltanto sul piano teorico del diritto, sono state rese possibili dal liberalismo. E allora con il liberalismo, quantomeno con la sua versione “rivoluzionaria” (quella propugnata da Gobetti) o con quella “socialista” di Rosselli, è necessario confrontarsi (d’altro canto, “nell’Internazionale gli anarchici furono i liberali del socialismo”).

Per Berneri è pertanto assurdo accomunare nello stesso rifiuto la democrazia, per debole e fittizia che essa sia, con i fascismi e con il totalitarismo, come fanno molti suoi compagni e gli stalinisti ortodossi: prova ne sia il fatto che le batoste maggiori l’anarchismo le sta ricevendo, là dove era più radicato e contava maggiori forze numeriche e culturali, proprio per il crollo dei regimi liberal-democratici.

Partendo dal gradualismo di Malatesta Berneri distingue quindi in fasi il processo rivoluzionario. Questo può realizzarsi passando per un governo autoritario (è il caso bolscevico), e abbiamo già visto come va a finire, oppure attraverso un patto di convivenza tra quelle forze che, ciascuna a suo modo, sostengono la democrazia diretta.

La democrazia diretta non è ancora il compimento dell’anarchismo, ma gli prepara la strada. In questa fase il ruolo degli anarchici è quello di garanti della conservazione del “[…] carattere spontaneo, autonomo, extrastatale…” del regime consiliare, per evitarne le derive autoritarie: ma per farlo devono partecipare. E questo è in fondo è il compito che Berneri immagina per loro anche a rivoluzione compiuta, sia pure in posizione defilata: “Io non concepisco la vittoria degli anarchici nella rivoluzione come predominio politico, bensì come impossibilità di qualsiasi dittatura politica, non solo, ma anche dell’affermarsi di un ordine sociale in cui, pur non essendo soppresso l’antagonismo tra i partiti, prevalga un sistema di rappresentanze di carattere esecutivo prevalentemente tecnico […] In questa negazione della dittatura politica di qualsiasi partito, gli anarchici possono affermarsi non come forza di predominio egemonico, ma forza di equilibrio e di potenziamento. La vittoria sarà nostra a questa condizione, e sarà tanto più nostra quanto meno sarà appariscente la nostra partecipazione agli organi direttivi del nuovo ordine sociale”.

In sostanza, Berneri ipotizza come formula politica cui tendere una democrazia diretta che contempli anche un minimo di rappresentanza, sotto forma di una delega alla gestione di problemi e aspetti “tecnici”, revocabile in qualsiasi momento. In seno a questa democrazia compiuta la partecipazione non andrebbe più a confliggere con la militanza anarchica, ma ne sarebbe anzi il corretto esito, dal momento che l’anarchismo non è il fine, ma lo strumento. E anche lungo il cammino che a questa democrazia deve condurre possono darsi situazioni nelle quali, proprio per evitare arresti o retromarce, partecipare è un dovere.

La democrazia diretta non è però di per sé sufficiente a creare le condizioni per una società realmente libertaria. Deve combinarsi con il federalismo integrale, e solo da esso, anche su un piano prettamente tecnico, è resa possibile. L’avversario ultimo e più pervicace della società libertaria è infatti per Berneri la burocrazia. Tanto nelle “democrazie” borghesi come nei regimi autoritari la burocrazia è lo strumento di oppressione usato dallo stato accentratore – e lo è tanto più in quegli stati che si autodefiniscono “senza classi”. La salvezza dalla burocrazia – e quindi dallo Stato – può venire solo dal federalismo; e non da quello amministrativo, imposto dall’alto, ma da quello frutto di una rivoluzione sociale che produca comuni indipendenti, liberamente federati. Per federalismo integrale Berneri intende quindi un vero e proprio “comunalismo”15, che pone alla base gruppi corporativi come i consigli operai, contadini, professionali, ecc… e al centro un consiglio comunale elettivo, con potere esecutivo: via via poi ci saranno organismi di raccordo, come i consigli provinciali e regionali, sino ad arrivare a quello nazionale, ma con una struttura a piramide rovesciata e con deleghe sempre più ristrette e specifiche16 . Ogni altro tentativo di delegare il potere ad una rappresentanza eletta degenera per Berneri nel dispotismo. L’Anarchia è dunque “un sistema politico in cui al governo degli uomini subentra l’amministrazione delle cose17.

Le “cose” sono tutto ciò che attiene all’ambito economico. Come abbiamo già visto, per Berneri “sul terreno economico gli anarchici sono possibilisti, mentre sul terreno politico sono intransigenti al cento per cento. Se dunque la critica allo stato e la negazione del principio di autorità rimangono postulati irrinunciabili, la formula economica anarchica deve essere invece aperta e sperimentale. Guardando a ciò che è accaduto in Russia pensa si debba lasciar agire la libera concorrenza tra lavoro e commercio individuali e lavoro e commercio collettivisti. La collettivizzazione può funzionare se nasce da una libera scelta, ma non ha alcuna chanche ed è anche profondamente anti-libertaria qualora venga imposta dall’alto. Berneri è un cooperativista, piuttosto che un collettivista: le aggregazioni devono essere spontanee, aperte alla risoluzione e vincolanti solo per quel che concerne alcuni patti e prestazioni fondamentali: per il resto agli individui deve essere lasciata la massima autonomia decisionale rispetto ai tempi, ai modi e alla destinazione delle proprie attività.18 È quindi per il mantenimento della piccola proprietà, per un’imprenditoria privata contenuta entro limiti di scala familiare, che può benissimo convivere e interagire, soprattutto in alcuni settori e non soltanto nel periodo della transizione rivoluzionaria, con un’economia comunitaria: in particolare, non deve essere attuata alcuna requisizione forzata delle produzioni agricole in funzione delle esigenze della città o dell’industria, né alcuna “nazionalizzazione” delle terre. Sarà sufficiente costringere entro regole antispeculative l’economia di mercato. Un regime di concorrenza pulita e di competizione escluderà magari che si possa parlare di una società perfettamente armonica, ma non impedirà di realizzare una società della tolleranza.

In questa opzione almeno parzialmente “ruralista” non bisogna però leggere una qualche nostalgia per la purezza dottrinale originaria dell’anarchismo, anche se è vero che la tradizione anarchica ha sempre avuto un forte radicamento nella cultura contadina e artigiana. Berneri avverte piuttosto la necessità di difendere con coerenza estrema tutti i diritti individuali, compreso quello alla proprietà, ma soprattutto quella di porre dei contrappesi ad una possibile deriva del sindacalismo operaio, che rischia di creare nuove élites e di sfociare in un autoritarismo tecnocratico, oltre che burocratico. Si sottrae insomma a quel mito dell’industrialismo che sta a fondamento di tutto il socialismo moderno, marxista e non, e che ha finito per contagiare anche i suoi stessi compagni anarchici. Il che ancora una volta, e paradossalmente proprio quando si attiene ad una qualche “ortodossia” anarchica, sia pure reinterpretata, ne fa un “eterodosso”.

Giustizia e/o Libertà? – All’atto pratico però, e a dispetto come vedremo anche di una posizione possibilista in contingenze storiche eccezionali, il rifiuto della democrazia rappresentativa rimane uno scoglio sul quale si infrange ogni politica delle alleanze. Esso è all’origine del rapporto conflittuale che oppone il movimento anarchico anche alle organizzazioni antifasciste di natura liberal-socialista, primo tra tutte il gruppo di Giustizia e Libertà creato da Carlo Rosselli. In un primo tempo Berneri ha davvero creduto che GL potesse costituire l’alleato perfetto, tanto contro il fascismo quanto contro il totalitarismo bolscevico. Ma poi, come abbiamo visto, il “realismo politico” che ha condotto i giellisti ad entrare nella Concentrazione Antifascista si è rivelato qualcosa di diverso dal suo “attualismo”, e ne ha portato allo scoperto il carattere essenzialmente moderato e legalitario.

Berneri dà per scontato che le forze rappresentate nell’Alleanza nazionale antifascista, un movimento di tipo allargato, costituzionalista, filo-monarchico e cattolico, o magari anche nella stessa Concentrazione antifascista, che raccoglie un po’ di tutto, con l’unico collante di un nemico comune e della pregiudiziale repubblicana, abbiano un carattere fortemente moderato e temano la rivoluzione quasi quanto, o forse più, del fascismo. Ma attribuisce questo atteggiamento anche a Giustizia e Libertà, ritenendo che in sostanza aspiri a costituire una repubblica conservatrice. Ne La tattica fumogena, del 1932, scritto immediatamente dopo l’adesione di GL alla Concentrazione, dice: “La paura della rivoluzione sociale è, dunque, il principale fattore di successo dell’Alleanza nazionale. Ma tale paura è ugualmente evidente nel programma di Giustizia e Libertà”.

Il rapporto di amore-odio con Rosselli si riapre nel 1935, dopo il lungo periodo di gelo seguito alla vicenda Menapace. È Berneri a rompere il ghiaccio, con una lettera pubblicata su Giustizia e Libertà del 6 dicembre 1935 in risposta ad un ex anarchico passato nelle fila gielline. Il tono è naturalmente polemico, ma gli argomenti risultano un po’ forzati: “L’anarchismo contemporaneo ha nella propria breve storia San Martino e San Francesco in Cafiero e in Fromentin, milionari prodighi di tutta la loro fortuna; principi passati dalla reggia al tugurio e al carcere, come Kropotkin e Bakunin, scienziati insigni non disdegnanti le più umili attività propagandistiche, come i fratelli Réclus, […]”; il senso finale è: “Gli anarchici non sono disposti a fare, in seno a G.L., la parte che il rosmarino fa nell’arrosto. Essi hanno un programma proprio, un movimento proprio, e tra i giellisti non possono cercare e trovare che scambi d’idee, impostazioni di problemi, riesame di teorie”. In parole povere: non avete nulla da insegnarci, anzi, avete imparato tutto da noi.

Rosselli risponde a stretto giro di posta, sullo stesso numero della rivista: dà atto dei meriti dell’anarchismo, ma gli rinfaccia di faticare a prendere contatto con le nuove realtà, e la nuova realtà sono i problemi della lotta antifascista. Che intenzioni hanno gli anarchici? Mantenersi fedeli all’assoluto libertario, rimanendo una setta a parte, o concorrere prima alla lotta contro la dittatura e poi alla costruzione di un nuovo grande libero movimento italiano? Questo è il vostro problema, socialisti anarchici, scrive Rosselli: ma poi lancia ancora un appello: “La futura possibile linea di frattura delle forze rivoluzionarie … avverrà presumibilmente in relazione alle antitesi: autorità-libertà; dittatura-autonomie; socialismo o comunismo dispotico o centralizzatore-socialismo o comunismo democratico federalista liberale. L’esperienza russa è lì a dimostrarci che … può riuscire facile ad una minoranza armata impadronirsi dello Stato mettendo a tacere tutte le altre correnti. Guai se i fautori di un socialismo liberale e libertario saranno divisi in dieci gruppi e sottogruppi […] Mentre noi staremo a disputarci entro che limiti debba contenersi un potere centrale, altri faranno di questo potere centrale la macchina inesorabile che tutti ci schiaccerà”. In sostanza Rosselli sostiene che contro il nemico del presente è necessario un percorso unitario, che questo percorso deve creare le premesse antiautoritarie per il futuro della rivoluzione e che le discussioni sul dettaglio istituzionale debbono essere rimandate semmai a dopo la vittoria.

La controreplica di Berneri compare su Giustizia e Libertà il 27 dello stesso mese di dicembre, ed usa toni più concilianti. Inizia proprio sottolineando come si tratti di un “nostro” problema, ovvero rivendicando la libertà della scelta isolazionista e possibilistica dell’anarchismo: e giustifica questa scelta alla luce delle recenti disillusioni venute dalla rivoluzione russa, del superamento del determinismo storico di origine marxista, della rilettura “attualistica” dei maestri dell’anarchismo. Scrive: “L’ortodossia stessa non è, nel campo nostro, che la cristallizzazione del revisionismo. Malatesta, ad esempio, si è sempre differenziato da Kropotkin su moltissime questioni pratiche e moltissime impostazioni teoriche. E Fabbri mi diceva, un giorno: ‘É necessario che noi, vecchi, moriamo perché l’anarchismo possa rinnovarsi’. L’anarchismo è più che mai fermentato da impulsi novatori, e alla propaganda generica, tradizionalista, prevalentemente dottrinaria sta subentrando ovunque un problemismo salveminiano precursore e nuncio di programmi aderenti a questa e a quella soluzione rivoluzionaria”. Un modo per dire che il vecchio anarchismo delle grandi barbe e dei dogmi irrinunciabili è finito.

I nuovi anarchici non sono però “possibilisti” al punto di tapparsi il naso e fare causa comune con chiunque avversi il fascismo: sanno cosa vogliono, e sanno che per ottenerlo devono preservare la loro diversità. Quindi si riservano un percorso autonomo, che consenta loro di mantenere il ruolo di garanti contro le tentazioni totalitarie del giacobinismo, ma anche contro quelle stataliste dei liberal-democratici. La possibilità di un’azione unitaria con GL è pertanto subordinata all’adesione di quest’ultima ad un progetto autenticamente federalista. In caso contrario gli anarchici sarebbero chiamati ad un certo punto a svolgere un ruolo governativo assolutamente antitetico con gli interessi del movimento rivoluzionario, bruciandosi ogni possibilità e ogni credenziale di baluardo anti-stato.

Proprio perché questa è la discriminante per una possibile alleanza, Berneri ritiene di dover tornare una volta per tutte sull’idea anarchica di federalismo. Il federalismo libertario differisce da quello autonomista-legalitario di un Ferrari o di Cattaneo, al quale Rosselli fa riferimento nella sua risposta, perché il secondo propone una concezione democratica dello Stato. Il federalismo libertario, quello di Bakunin, di Cafiero, di Malatesta, l’esistenza di uno Stato, democratico o no, non la contempla: ne sono state date diverse interpretazioni, da quella “sindacalista” a quella sovietica, ma la più compiuta e anarchicamente coerente rimane quella comunalista di Kropotkin. Su questa base, e solo su questa, si può parlare di alleanze.

L’ultima parola spetta naturalmente a Rosselli: la rivista in fondo è sua.

Mi sono soffermato a lungo su questo dibattito perché mi sembra riassumere efficacemente le conclusioni cui Berneri perviene, in un momento cruciale del suo percorso, rispetto al problema della collocazione “tattica” dell’anarchismo. Tornerà a più riprese sul tema nel corso della guerra civile spagnola, ma allora sarà l’urgenza a dettare di volta in volta, convulsamente e in mezzo a mille contraddizioni, gli atteggiamenti da assumere. Qui invece ci dà l’occasione per tirare un po’ le somme di un percorso che in effetti può apparire tortuoso, pur nella sua coerenza.

Abbiamo visto che Berneri insiste sulla necessità per gli anarchici di passare alla concretezza e di tenersi pronti a cogliere ogni evenienza storica. Questo significa che nella fase rivoluzionaria, laddove non sia possibile gestirla in toto (e nella realtà questa evenienza non è mai data), occorre tener conto di potenziali alleati e della necessità di passaggi graduali. Il che può apparire logico e scontato per chiunque, ma per gli anarchici, a partire dalla rottura del 1872 con l’Internazionale, non lo era affatto. Le alleanze “naturali” indirizzano infatti verso movimenti che in parte perseguono gli stessi fini, ma nella sostanza viaggiano in direzioni ben diverse. La lezione russa ha insegnato che il totalitarismo può anche vestire panni rivoluzionari, e si annida in ogni richiamo demagogico ad un presunto “spontaneismo popolare”. Il campo di scelta delle alleanze si restringe quindi ai movimenti che garantiscano la salvaguardia di un certo livello di libertà individuale, in sostanza quelli eredi del liberalismo democratico.

A questo punto il problema diventa quello di come tradurre in pratica le alleanze: procedere ad una azione congiunta, partecipando in prima persona a tutte le fasi della dialettica politica, o agire come fiancheggiatori, tenendosi fuori dal gioco e riservandosi un ruolo di vigilanza contro possibili involuzioni? La prima possibilità si dà solo in presenza di una comunità di intenti in direzione di un federalismo autenticamente libertario, quindi non si dà, perché non si capisce dove starebbe la differenza degli altri movimenti dall’anarchismo; la seconda è quella che Berneri ritiene praticabile, a certe condizioni. C’è infatti un limite nella discesa al compromesso, al di sotto del quale l’idealità anarchica non ha più ragione d’esistere, e quel limite Berneri non lo vuole passare. Un programma anarchico, per quanto adattato alle circostanze e ridotto all’osso, non può contemplare la scelta tra diversi modelli di stato, ma deve necessariamente perseguire la riduzione della presenza dello stato al minimo indispensabile.

Berneri non è però, come abbiamo visto e come vedremo ancora, a proposito della vicenda spagnola, un amante degli steccati e dei confini tracciati a tavolino. Ogni situazione ha le sue peculiarità, impone velocità, ritmi, a volte anche percorsi diversi. Non esiste quindi “una” tattica, esiste un atteggiamento tattico, fondato sulla concretezza delle situazioni e mirante alla concretezza delle realizzazioni. Ciò che deve rimanere invariato è la direzione, e quella ha da essere ben chiara.

A Berneri è stato contestato dalla storiografia dell’anarchismo, e soprattutto da Giampietro Berti, un eccesso di disinvoltura nell’applicazione del suo “attualismo”. Non solo. La domanda implicita è se, arrivato alla fine del suo processo di revisione, Berneri possa ancora essere considerato a tutti gli effetti un anarchico. Berti sottolinea inoltre, e direi giustamente, come Berneri spesso non abbia colto le cause profonde dei fenomeni (ad esempio, quando fa discendere direttamente il regime fascista dal liberalismo giolittiano, definendo Giolitti come levatrice del fascismo, mentre per Berti la politica rinunciataria di Giolitti è dettata dalla debolezza del sistema, non da una congenita spinta all’autoritarismo). Sono rilievi leciti: è probabile che Berneri abbia azzardato o forzato alcune interpretazioni storiche, ferma restando la scusante di una situazione che non gli garantiva la lucidità e il distacco necessari per leggere correttamente situazioni tanto complesse: oppure che il suo “attualismo”, pur nella intrinseca coerenza, risultasse difficile da capire per compagni intellettualmente molto meno duttili: ed è infine anche vero che in qualche caso il difetto stava già a monte, nel punto di vista adottato.

Credo però che rispetto ad una figura e ad una vita come quelle di Berneri ci si debba porre in modo diverso. Non sono la capacità di cogliere il dato storico o la coerenza della teorizzazione politica il metro col quale lo si può giudicare (senza peraltro dimenticare che nella lettura dei fenomeni e degli accadimenti dell’epoca la gran parte dei suoi contemporanei andò incontro ad abbagli ben più gravi). Berneri va preso per quello che è, una figura moralmente diversa, eccezionale. Il suo lascito non è quello dell’analisi storica o politica (anche se, a mio giudizio, il suo contributo è tutt’altro che trascurabile): è quello dell’esemplarità etica. Ed è di questo che mi preme davvero parlare.

Un agnosticismo programmatico – Torniamo così alla questione di fondo che ha continuato ad emergere di volta in volta sotto l’attualismo e il pragmatismo tattico professato da Berneri: se ci si deve adeguare alle contingenze storiche, ciò significa che anche la morale deve essere relativizzata?

No, certamente, dice Berneri. Esiste un’istanza che si esprime sempre e comunque, al di là dei tempi e delle situazioni (in questo senso è molto kantiano): essa si declina e si accresce storicamente, nel senso che di volta in volta prenderà le forme relative ai problemi più urgenti, ma è presente comunque al di là della storia, è universale. L’istanza è quella del dovere, fondata su una coscienza che ci suggerisce cosa è giusto e cosa è sbagliato e ci impone di comportarci in modo tale da promuovere il bene massimo per l’umanità. Il bene massimo è quello della libertà, il dovere è quello di rivendicare la propria nel rispetto e nella salvaguardia di quella altrui. Ogni vera morale si fonda su questa innata e insopprimibile esigenza, anche quando non ne riconosca l’origine autonomamente umana. E questo ci porta al rapporto con la religione, che è uno degli aspetti più controversi del pensiero di Berneri.

La religione non è per Berneri né oppio dei popoli né puro strumento di dominio: è una delle forme in cui l’istanza morale si esprime: anzi, è la forma più universalmente diffusa. E questa forma non la si può ignorare, o liquidare sprezzantemente come superstizione. Con essa ci si deve confrontare. Egli sottolinea giustamente come l’ateismo assoluto non sia in sostanza che un teismo di segno rovesciato. Se secolarizzo tutto e traduco l’idea di Dio in una immanenza storica, non faccio che trasferire sulla terra il dogmatismo che prima rapportavo ad una presenza ultraterrena. In questo vede lontano: il materialismo consumistico in fondo genera altri rituali, altre liturgie, altre pressioni comportamentali. Non solo: la rivendicazione di laicità, nelle forme nelle quali è stata comunemente avanzata, rischia di ridursi ad un accanimento sulla necessità di dimostrare la non esistenza del presupposto fondamentale della religiosità. Questo significa in realtà automaticamente evocare il divino, facendolo esistere quanto meno come non-essere. Quindi, con grande scandalo degli anarchici “puri”, Berneri si professa non ateo, ma agnostico: e forza il paradosso, condannando anche l’anticlericalismo.

L’occasione per riflettere sul tema è offerta dalla firma dei Patti Lateranensi. Berneri naturalmente condanna l’accordo, ma vuole chiarire che lo fa da una posizione che non è quella genericamente e pregiudizialmente anticlericale. I patti non gli piacciono perché non riguardano il rapporto dello stato con la libera associazione dei cattolici, ma quello con una sorta di monarchia assoluta. La libertà di associazione non consiste, per lui, semplicemente nella possibilità di costituire un gruppo con una struttura propria: implica la libertà di seguire e professare determinati principi, che permettano di realizzare per quanto possibile e compatibile con le istanze di altri gli scopi del gruppo.

La Chiesa è appunto un’associazione e va rispettata come tale, anche nella libertà del suo culto e delle sue istituzioni culturali ed educative. Soprattutto in Italia la laicità di tutte le istituzioni nazionali appare illiberale, dal momento che i cattolici sono nel paese la maggioranza. Non solo: nel momento in cui si attua una netta separazione dello Stato dalla Chiesa e si riconosce a quest’ultima una struttura “statale”, la si disconosce in quanto associazione. La Chiesa finisce quindi per essere considerata come una istituzione autonoma: un vero e proprio Stato, con una sua autorità temporale (territoriale, giudiziaria, monetaria, ecc.), un governo, una monarchia elettiva: e in quanto Stato per Berneri è naturalmente intollerabile.

La Chiesa però non è soltanto il clero, è anche e soprattutto la “comunità” dei cattolici: e a questi, mentre sono da un lato soggetti a tutti gli obblighi e tributi imposti dallo Stato laico, viene poi in pratica negato il diritto associativo. Paradossalmente la laicità, che dovrebbe essere garante di libertà, si risolve nella negazione parziale dei diritti di una maggioranza del paese, ed è proprio lo Stato “democratico” a perpetrare questa negazione.

Senza arrogarsi alcun ruolo di riformatore religioso, semplicemente applicando alla Chiesa le proprie idee politiche e sociali, Berneri prova a leggerne e valorizzarne le valenze “libertarie”. Sulla base dei propri principi fondanti la chiesa potrebbe organizzarsi come una democrazia con delega rappresentativa: i fedeli nominano i vescovi, questi scelgono i cardinali, i cardinali eleggono il papa, riconoscendolo non come sovrano ma come capo dell’associazione.

Una repubblica davvero democratica non dovrebbe poi esercitare alcun controllo sui beni ecclesiastici e sulle nomine vescovili: ma non deve nemmeno cadere nell’errore opposto, quello di difendere la Chiesa come Stato e proprietà. Piuttosto, sarebbero semmai da liquidare, da parte dei cattolici stessi, tutte le proprietà ecclesiastiche per realizzare opere di benessere sociale, come la costruzione di scuole e ospedali. In definitiva, se i cattolici riconoscessero il Papa come loro capo e non come re la Chiesa potrebbe essere considerata una associazione rivoluzionaria: ma finché conserveranno la Chiesa-Stato dietro la facciata della Chiesa-associazione, saranno combattuti dai veri rivoluzionari.

Ben oltre l’”attualismo” – Accanto a quello sulla religione Berneri sforna un’incredibile serie di altri scritti, dedicati a tematiche che potrebbero sembrare marginali, per l’apparente occasionalità e per la distanza dall’ambito più propriamente “politico”. Si occupa delle cose più lontane tra loro, dal giovanile Le menzogne del vecchio testamento a Il peccato originale o Il Leonardo di Sigmund Freud, e c’è da chiedersi quando trovi il tempo, se non nei periodi di detenzione, per documentarsi. Non c’è fenomeno o argomento che non lo interessi e rispetto al quale, nei limiti della condizione sempre precaria nella quale si trova a lavorare, non senta la necessità di un approfondimento. Chi lo ha conosciuto parla di una curiosità onnivora unita ad un’impressionante capacità e sistematicità di ricerca19 . Ai compagni che gli si rivolgono per informazioni sui temi più disparati chiede un paio di giorni, poi fornisce loro dei dossier incredibilmente corposi, messi assieme con ritagli e documenti di ogni genere20. Una delle tante occupazioni con cui sbarca il lunario è in effetti per diversi anni quella di raccogliere e organizzare degli archivi documentali per Gaetano Salvemini.

Non si tratta comunque solo di curiosità: nell’interpretazione di Berneri tutto si tiene, in un quadro d’insieme che gli fornisce un terreno d’analisi ben più ampio e solido di quello della pura teoria politica. Non si possono tirare somme del presente o praticare ricognizioni storiche senza mettere in conto tutti i fenomeni culturali e sociali più significativi. L’uomo non è un animale puramente politico: prima che politico è un animale, oltre che politico è un uomo. E nemmeno è solo un soggetto economico: le sue azioni, le sue speranze e le sue paure non sono dettate unicamente dalla ricerca dell’utile o dall’urgenza del bisogno. Non rendersi conto di questo è miopia, non accettarlo a dispetto di ogni evidenza è criminoso.

La rapidità con la quale si succedono gli eventi (la crisi economica, l’ascesa di Hitler, l’esplosione del razzismo antisemita) offre un’infinità di spunti e materiali per questa ricognizione a tutto campo. La crisi è letta ad esempio da Berneri, a differenza di altri pensatori che ci vedono il crollo del capitalismo, come una forma di assestamento, una malattia di passaggio del capitalismo da una sua modalità ad un’altra. Le contraddizioni interne al sistema esplodono, ma solo per sgomberare il terreno e fare spazio ad un modello nuovo. Nel frattempo creano macerie, non solo economiche ma anche, e soprattutto, culturali.

Nel 1934 Berneri dà, ne La frenesia razzista, un’interpretazione dell’hitlerismo alla luce della sua esperienza con il fascismo. Non lo considera un momento di distrazione della razionalità (secondo la formula di Croce), isolato e localizzato in una nazione colpita dopo la sconfitta da una serie di tracolli economici: ci vede invece la reificazione di una insensatezza collettiva (Berneri parla di “pazzia”) che sta dilagando in tutto il vecchio continente. Aveva già denunciato il fenomeno nell’immediato dopoguerra, mettendo sotto accusa un mondo intellettuale, anche di sinistra, che giocava col fuoco dell’irrazionalismo: ora l’incendio appiccato è sfuggito al controllo e fa strage del libero pensiero, annunciando una tragedia immane21. Tutti quei principi morali che stavano a fondamento della libera convivenza tra i popoli sono tranquillamente ripudiati, e monta anche a livello delle masse una pulsione razzista, segregazionista, autoritaria, senza che si scorga alcun indizio di una qualsiasi capacità collettiva di reazione. Ciò che accade in Germania, dove esponenti del pensiero libertario come Musham e Lessing sono stati tra i primissimi a pagare con la vita la loro opposizione, è terrificante, ma anche le notizie dall’Italia sono sconfortanti. Più che mai, di fronte alla marea devastante del nazionalismo, Berneri sente la necessità di cancellare ogni appartenenza nazionale e di affermare il valore di una cittadinanza universale per ogni individuo.

Il precipitare degli eventi lo induce l’anno successivo ad affrontare un’altra fondamentale ed attualissima tematica, in genere sottaciuta dalla sinistra, che in proposito continua ancora oggi a vivere un ambiguo imbarazzo: quella dell’antisemitismo. Ne Le Juif antisemite, opera del 1935, Berneri distingue tra anti-ebraismo e anti-semitismo. L’anti-ebraismo è un atteggiamento teologico e filosofico, di matrice cristiana, diffuso dai primi secoli della nuova era sino a tutto il medioevo, e va distinto dall’antisemitismo, che è invece una teoria razziale, frutto della modernità. È vero che spesso, ad esempio nell’atteggiamento cristiano moderno, le due cose vengono confuse; ma la repulsione antisemita veicola qualcosa che va ben oltre l’odio verso una tradizione religiosa. Ad essere odiato è un simbolo, prima ancora che una razza, o meglio è una razza che simboleggia un modo di essere, una possibilità diversa di esistenza. Per dimostrare questo Berneri analizza innanzitutto il fenomeno dell’odio di sé che ha caratterizzato molti ebrei e parte della cultura ebraica dopo l’emancipazione22. Dopo aver passato in rassegna i convertiti e gli apostati che hanno servito in ogni tempo e in ogni luogo l’antisemitismo, dalla Spagna di Isabella alla Germania e alla Russia zarista, si sofferma sulle peculiarità di questo atteggiamento nel Novecento, in personaggi come Paul Ree, Arthur Trebitsch, Max Steiner, lo stesso Walter Rathenau (il quale ha pubblicato nel 1897 un Hore Israel (Ascolta Israele, che è un vero manifesto antisemita) e soprattutto Weininger.23 Attraverso quest’ultimo ha modo di mettere in relazione l’antisemitismo e la misoginia, come due espressioni analoghe e coincidenti di condanna e di discriminazione verso il debole. Attacca anche Marx, per la sua posizione liquidatoria sulla questione ebraica. Precorrendo i tempi della Shoà Berneri scrive che “se non si presterà attenzione l’antisemitismo sarà ancora per lungo tempo all’ordine del giorno della stupidità umana”. La cosa più triste è che il suo Le Juif antisémite viene attaccato nel 1937 dalla rivista fascista La Nostra Bandiera, degli ebrei di Torino, che solo un anno più tardi saranno bruscamente svegliati dall’introduzione delle leggi razziali anche in Italia.

Berneri chiude il suo saggio con un Hore Israel di tono ben diverso da quello di Rathenau. Il suo appoggio al mondo ebraico è dovuto al fascino che per prova per i senza patria: “sono i senza patria i più adatti a formare le basi della grande famiglia umana”. Il suo modello ideale è quello di un ebreo cosmopolita capace superare l’impasse tra assimilazione e ortodossia, tra l’assimilazione e nazionalismo. Esiste una terza possibilità, quella della missione. Il popolo ebraico, proprio perché privo di una terra e perseguitato dall’antisemitismo nazista, oltre che dagli altri regimi che stanno adottando il razzismo tra i propri principi, può diventare l’emblema della lotta di ogni popolo per la difesa della propria identità e al tempo stesso fare da tessuto connettivo per la realizzazione di un mondo senza confini.

Il percorso che dovrebbe condurre a tale obiettivo, passando anzitutto per il superamento da parte degli ebrei stessi della propria condizione d’inferiorità psicologica, è quello del riscatto individuale. È questo, alla fin fine, il punto di approdo di tutte le analisi di Berneri, e quello di partenza per le sue utopie.

Lo stesso discorso vale infatti anche per l’altra categoria discriminata e “razzialmente” vilipesa. Berneri analizza ne “La garçonne e la madre” quello che considera una sorta di odio di sé femminile: e lo fa alla sua maniera schietta e sbrigativa (“la coscienza di aver compiuto una buona azione, mi ha permesso di vincere la riluttanza a pillolizzare una trattazione che sarei stato portato a condurre con larghezza” scrive nella prefazione). Certamente, il suo opuscolo non rischia di diventare un classico dell’emancipazione: prende lo spunto dai diversi modelli di “liberazione” e di “parificazione” femminile, sul piano sessuale, su quello lavorativo, ecc…, per concludere che il ruolo della donna è quello di custode del focolare e della serenità familiare, nonché di prima e fondamentale educatrice dei figli. Non risparmia gli stereotipi, compresi quelli pseudo-scientifici relativi alla maggiore o minore intensità del desiderio sessuale femminile, e porta a testimonianza persino Lombroso e Neera. Ma… è comunque Berneri: e non parla a vanvera. In primis, attacca l’idea che l’emancipazione possa passare per la “libertà” sessuale, anche perché, sottolinea, “nella donna l’istinto sessuale è vivo, ma fuso e confuso con l’istinto della maternità. Questa fusione ha una base anatomica e nessi fisiologici evidenti. Al carattere sperperatore della vita sessuale maschile corrisponde la funzione prettamente sociale dell’uomo, mentre al carattere economizzatore della vita sessuale femminile corrisponde la funzione prevalentemente biologica e familiare della donna”. Semmai, non di una conquista della “libertà”, termine che nell’ambito sessuale assume significati ambigui, occorre parlare, quanto piuttosto di quella del rispetto da parte maschile; e questo è possibile solo attraverso una crescita culturale che non può realizzarsi disgiuntamente. Liquida poi il concetto di una parità raggiungibile attraverso l’espletamento delle stesse funzioni lavorative dell’uomo: tutt’altro, dice Berneri. Farsi simile all’uomo è solo un modo per rinnegare la propria specificità: e comunque il lavoro, quando si svolga nelle attuali condizioni di dipendenza, costrizione e alienazione non libera nessuno.

Ciò che colpisce è che le sue posizioni nascono da un senso reale e sentitissimo di pietà e di rabbia per la condizione femminile (c’è un pezzo bellissimo sulle zitelle), ma hanno poi un fondamento proprio nell’idea di società anarchica, che deve avere come suo fulcro la famiglia. Berneri si rende conto che la disgregazione di quest’ultima è in realtà funzionale solo alla logica del lavoro “coatto” e alle esigenze di una società produttivistica e consumistica.

La dignità del lavoro – Proprio alla concezione del lavoro sono dedicati altri due scritti di questo periodo, Il cristianesimo e il lavoro, del 1931, e Il lavoro attraente, del 1934. Al solito, Berneri non ha né il tempo né la tranquillità necessaria per una trattazione approfondita, ma riversa nelle sue pagine una marea di spunti e di riferimenti. Nel primo ripercorre il rapporto tra la religione occidentale e il lavoro, e ne ricostruisce le trasformazioni a partire dalla Bibbia. Quello più interessante è però il secondo, che mette a fuoco una concezione del lavoro ispirata ad un senso “protestante” della dignità. Parte di lontano: “Le antiche mitologie presentano il coltivatore come un reprobo scontante un peccato di ribellione. Adamo, universale progenitore, è l’angelo caduto dal paradiso dell’ozio all’inferno del lavoro”, ma dieci righe dopo è già al dunque: “Per la morale cristiana il lavoro è imposto da Dio all’uomo come conseguente pena del peccato originale. Il Cattolicismo antico e quello medioevale nobilitano il lavoro specialmente come espiazione. Anche per la Riforma il lavoro fu «remedium peccati», benché Lutero e Calvino superassero San Tommaso, preannunciando la concezione moderna del lavoro come dignità, concezione abbozzata dai maggiori pensatori del Rinascimento”. Senonché “il moralismo borghese trasferì nel campo della morale civica il principio del dovere del lavoro, ed inventò una mistica nella quale lo sfruttato servile veniva monumentato come «cavaliere del lavoro», come «fedele servitore», come «operaio modello», ecc.” e questo a fronte del progressivo peggioramento delle condizioni dello sfruttamento nel passaggio dalla società artigiana e contadina a quella industriale, col prevalere del fordismo e della logica capitalistica. Evidentemente, non di una mistica si tratta, ma una mistificazione.

I principi del dovere del lavoro e della dignità ad esso connessa rimangono tuttavia per Berneri una conquista della civiltà, un esito della progressiva “umanizzazione” della storia. Tutto sta ad intendersi. Stiamo parlando infatti di qualcosa che ha nulla a che vedere con l’umiliazione e lo sfruttamento regnanti nell’attuale rapporto di lavoro: “Se l’officina aspira ad essere non soltanto il luogo del lavoro fisico, ma il luogo della dignità, dell’orgoglio e della felicità, si comprende che essa debba perdere qualsiasi somiglianza con quello che chiamiamo officina nei nostri paesi”. E fin qui siamo nel solco di una lunghissima tradizione che in misura e in modi diversi ha auspicato un riscatto della fatica da pena a fonte di soddisfazione.

La possibilità di un “lavoro attraente” è già espressa infatti nella cultura antica, a partire da Esiodo, e torna in epoca moderna, nella versione estremizzata di Rabelais, che pone ai Telemiti la regola “fai quello che vuoi”, ripresa poi in quasi tutte le utopie letterarie e sociali24. Fourier, ad esempio, sviluppa il principio del lavoro attraente indicandone le condizioni nella varietà e nella breve durata, mentre il lavoro gradevole e senza fatica è una delle realizzazioni socialiste preannunciate nel Voyage en Icarie (1840) di Etienne Cabet. Un po’ più abbottonato è Marx, che parla di lavoro non alienato, ma non arriva a pensare che possa diventare una ricreazione, una gioia, un vero piacere, come sosteneva invece Zola, e come affermeranno gli anarchici, Kropotkin in testa.

L’eterodossia di Berneri viene fuori a questo punto, quando ponendo il problema in termini apparentemente teorici, rapportandolo cioè ad una ipotetica futura società “liberata”, il lodigiano va poi a sollevare una questione attorno alla quale gli anarchici e gli utopisti in generale hanno sempre glissato: siamo così sicuri che in tale società “nessuno si crederà dispensato da un lavoro che l’unanime concorso degli sforzi renderà attraente e vario?” Che detto in termini molto più diretti, suona: siamo sicuri che non ci siano dei pelandroni tali per natura? E nel caso, come ci comportiamo con loro?

È una domanda che va posta, e non solo in vista di una società liberata, che pare piuttosto lontana a venire, ma da subito, mentre se ne gettano le fondamenta. Berneri si chiede: “Si può anche essere convinti che verrà un tempo in cui nessuna coazione sia necessaria per far sì che tutti lavorino; ma il problema attuale è questo, per noi; caduto il regime borghese, la produzione deve essere del tutto libera, ossia affidata alla volontà di lavorare della popolazione?” Ovvero, nella fase di transizione, che non si sa quanto lunga (proprio per la sua concezione dell’anarchismo Berneri tende a considerarla a tempo indeterminato), in attesa che il nuovo ordine vada a regime, quanti saranno disposti ancora a lavorare? “Uno dei pericoli della rivoluzione sarà appunto l’odio per il lavoro che essa erediterà dalla società attuale. Noi ce ne siamo accorti nei brevi momenti in cui parve che la rivoluzione battesse alle porte. Troppa gente, fra la povera gente, troppi lavoratori credevano sul serio che stesse per venire il momento di non lavorare o di far lavorare unicamente i signori”.

Pensare di non dover più lavorare è ben diverso dal credere che ogni lavoro diverrà un’occupazione piacevole e varia. Il fatto è che quando Kropotkin parla di lavoro piacevole dice: “Nel lavoro collettivo compiuto con gaiezza di cuore per raggiungere lo scopo desiderato – libro, opera d’arte, od oggetto di lusso – ognuno troverà lo stimolante, il sollievo necessario per rendere la vita gradevole”, ma non cita come prodotti di questo lavoro pezzi meccanici, oggetti di stretta necessità, materie prime magari maleodoranti, zolfi o carboni di miniera, ecc. Berneri parla invece di qualcosa che ben conosce: “Mi alzo alle cinque, rientro alle sette di sera, ceno e vado a letto. Il lavoro (manovale muratore) mi fiacca talmente che persino tenere la penna in mano mi costa sforzo e pena”25.

È evidente che già oggi ci sono uomini che lavorano di continuo senza pena, anzi con un senso di soddisfazione, e sono gli scienziati, i pensatori, gli artisti: ma gli altri? “Nella società attuale basata sulla lotta e sulla concorrenza, il lavoro è nella maggior parte dei casi una servitù, per molti addirittura (specie pel lavoro manuale) un segno di inferiorità. La maggioranza lavora perché vi è costretta dal bisogno e dal ricatto della fame”.

È difficile credere che questa immagine negativa del lavoro possa essere immediatamente ribaltata. Si può auspicare che i lavoratori siano sempre più sollevati dalla fatica, dal disagio e dalla noia con lo sviluppo della tecnica, ma per il momento “[…] che cosa sostituirà la spinta del bisogno e il desiderio del guadagno, in una società che assicuri a tutti almeno la soddisfazione dei più elementari bisogni, in cui lo spettro della miseria e della fame non sia più un pungolo per alcuno, in cui la rimunerazione individuale sia sostituita dalla distribuzione dei prodotti a seconda dei bisogni, indipendentemente dal lavoro compiuto?” In verità, pensa Berneri, anche quando il lavoro diventerà meno pesante e meno pericoloso e cesserà di essere nocivo e penoso, tarderà comunque a diventare attraente, e non sarà mai tanto attraente da fare sparire gli oziosi. Quindi occorre accettare il fatto che i pigri esistono, e che “la regola del comunismo integrale – da ciascuno secondo le sue forze, a ciascuno secondo i suoi bisogni – non vale che per coloro che l’accettano, accettandone naturalmente le condizioni che la rendono praticabile”.

Ecco come conclude Berneri, citando quasi integralmente uno scritto di Malatesta: “Una rivoluzione di gente che non avesse voglia di lavorare, o anche solo che pretendesse di riposarsi per un po’ di tempo o di lavorar di meno, sarebbe una rivoluzione destinata alla sconfitta. Sotto l’aculeo della necessità si formerebbero al più presto degli organismi di coercizione che, in mancanza del lavoro libero, ci ricondurrebbero ad un regime di lavoro forzato e, per conseguenza, sfruttato.

Una società anarchica vi sarà non solo quando saranno stati vinti dalla rivoluzione i nemici della libertà ed abbattuti gli istituti che rendono impossibile ogni realizzazione libertaria, ma anche quando vi sarà un numero di individui (che vogliano vivere e organizzarsi anarchicamente) sufficiente a tenere in piedi una loro società, che possa bastare economicamente a se stessa ed abbia forza di reggersi e difendere la sua esistenza. L’esistenza di individui che «vogliono vivere anarchicamente» presuppone che essi «abbiano voglia di lavorare»; altrimenti non vi sarebbe alcuna anarchia possibile.

Il lavoro, anche in anarchia, dovrà quindi rispondere alle necessità della produzione, per soddisfare tutti i bisogni individuali e sociali della vita comune; dovrà essere organizzato cioè secondo le richieste di prodotti da parte di tutti, e non certo al semplice scopo di esercitare i muscoli ed il cervello dei produttori. Può darsi che in molti casi l’utile possa coincidere col dilettevole; ma ciò non è possibile sempre; e dove tale coincidenza non vi sarà, l’utile sociale dovrà avere il sopravvento.

Di qui la necessità di una disciplina del lavoro. Se questa disciplina sarà concordata e liberamente accettata, senza bisogno di coercizione, da un numero tale di individui, sopra un territorio abbastanza esteso, da costituire una società, questa sarà una società «anarchica»”.

Siamo ben lontani da quel “rifiuto del lavoro” che nelle formulazioni più disparate ha caratterizzato la contestazione degli anni sessanta, sposandosi peraltro in maniera contraddittoria con la rivendicazione del diritto all’occupazione, e che ancora rimane una bandiera di tutti gli pseudo-anarchismi odierni (il che spiega la scarsa considerazione odierna per Berneri in quegli ambienti). Soprattutto, non c’è traccia del giustificazionismo ad oltranza nei confronti di coloro che dietro la facciata della guerra al sistema mascherano un sostanziale e asociale egoismo, e che sono stati invece tollerati e incoraggiati, o almeno difesi, da una sinistra politica e sindacale sempre più attenta alle tessere e ai voti che non ai principi.

Queste cose Berneri le ha scritte a metà degli anni trenta. Per chi ha respirato per tutta la seconda metà del ‘900 la retorica del “santo lavoratore”, costruita in genere proprio da quelli e su quelli che a lavorare non ci pensavano proprio, e che in una società autenticamente anarchica sarebbero stati buttati fuori a calci, suonano politicamente molto scorrette. Probabilmente lo erano già allora, anche se, a dispetto delle condizioni in cui lo si svolgeva, in quegli anni il lavoro era forse affrontato con un senso di responsabilità e di identificazione diverso. Berneri soffriva con largo anticipo un disagio che molti oggi, a sinistra, conoscono. E aveva il coraggio di esprimerlo, di dargli voce, a costo di essere mal sopportato. Se lo poteva permettere, proprio perché incarnava l’esempio vivente di come si deve lavorare e ci si deve comportare per essere veramente “rivoluzionari”.

Spagna: l’ultimo sogno – E torniamo alla vicenda umana di Berneri, che sta viaggiando velocemente e tragicamente verso l’epilogo.

Il 17 Luglio 1936, a seguito di un alzamiento26, scoppia in Spagna la guerra civile. Il piano dei golpisti riesce solo in parte, soprattutto per la pronta reazione dei volontari anarco-sindacalisti (già il 23 luglio a Barcellona si costituisce il Comitato centrale delle Milizie antifasciste). Nelle mani degli insorti ci sono comunque quasi tutto il nord (con Pamplona, Saragozza, Burgos e Salamanca) e il Marocco: di lì a poco cadranno anche Siviglia e Cadice. Madrid e Barcellona rimangono invece sotto il controllo della repubblica.

La notizia del colpo di stato arriva in Francia due giorni dopo. Berneri è tra i primi a mobilitarsi: il 29 luglio è già in Catalogna con un carico di fucili e munizioni e organizza una colonna anarchica italiana inquadrata nella divisione di Francisco Ascaso. Quando arriva anche Rosselli i giellisti, insieme ai socialisti e ai repubblicani, si aggregano alla formazione, a dispetto di qualche resistenza della frangia anarchica più chiusa ad ogni ipotesi di alleanza. Il 19 agosto Berneri lascia Barcellona per andare a combattere sul fronte aragonese e quattro giorni dopo partecipa agli scontri durissimi sul “Monte Pelato”, dove l’attacco fascista viene respinto, ma cadono diversi suoi compagni anarchici. Il suo fisico però si ribella; non è in grado di sopportare le fatiche del fronte e subisce un forte calo della vista e dell’udito, in seguito al quale deve essere fatto rientrare a Barcellona.

Da questo momento la città catalana rimane il centro della sua attività. L’intera Spagna costituisce per Berneri un terreno di prova ideale per il dibattito teorico precedente, ma è in Catalogna, dove gli anarco-sindacalisti hanno quale naturale alleato l’autonomismo, e sono in pratica la prima forza politica, che si può davvero giocare la carta di una compiuta democrazia federalista. La guerra è diventata infatti un’occasione per la rivoluzione sociale: gli operai collettivizzano le fabbriche, i contadini occupano le terre, le milizie popolari si organizzano autonomamente. Accade tutto sin troppo in fretta, e Berneri si trova quasi schiacciato dal precipitare degli eventi: da un lato teme le accelerazioni eccessive dei compagni, e le paure conseguenti che possono diffondersi tra le masse, dall’altro sa che ogni cedimento alla burocratizzazione significherà, oltre che il fallimento della rivoluzione, la sconfitta nella guerra civile.

La sua guerra prosegue pertanto con le armi della polemica e della propaganda. Fonda un bollettino, “Guerra di classe”, che redige in pratica da solo e dalle cui pagine non cessa di spronare il governo di Madrid ad una conduzione più decisa della guerra, arrivando a invocare anche misure drastiche. Ma il suo fronte non è solo a destra. Assiste infatti con sempre maggiore preoccupazione al ripetersi dello schema già sperimentato in Russia. Nel governo centrale sta assumendo un peso determinante la componente comunista di stretta osservanza moscovita, che peraltro all’atto della ribellione di Franco contava poche migliaia di aderenti (contro il milione e mezzo di iscritti alla CNT, il sindacato anarchico). Madrid sembra più interessata a riportare sotto il proprio controllo tutte le forze dello schieramento repubblicano, disarmando progressivamente quelle più riottose, a fermare le collettivizzazioni e ad eliminare l’autonomia catalana, che ad arginare l’avanzata dei falangisti. Berneri sente che l’entusiasmo iniziale della popolazione si va smorzando, di fronte alle rivalità nella sinistra e al venir meno di una ragione concreta, ovvero di una rivoluzione sociale radicale, per la quale combattere. Ciò non gli impedisce però di sostenere, in nome del realismo e sia pure con molte riserve, l’ingresso della CNT nel governo della Generalitat Catalana.

Sulla partecipazione degli anarchici spagnoli prima alle elezioni e poi al governo Berneri era già intervenuto prima dello scoppio della guerra civile, in occasione delle elezioni del febbraio del ’36, che avevano appunto visto la vittoria delle sinistre e determinato la reazione delle forze conservatrici. L’astensionismo, scriveva Berneri in quell’occasione, è per gli anarchici una sorta di dogma: è corretto come questione di principio, perché gli anarchici devono educare le masse all’azione diretta, e non a delegare le responsabilità e i poteri: è ineccepibile come strategia di fondo, perché sarebbe assurdo partecipare alla consacrazione elettorale di istituzioni che si vogliono eliminare. Ma a livello tattico può anche rivelarsi un suicidio. Se la partecipazione in questo momento mi evita di ritrovarmi sul collo un regime che una volta instauratosi non riuscirei più a demolire, posso chiamarmi fuori? Berneri accusa di semplicismo chi sostiene questa posizione. Apprezza quindi il fatto che la CNT abbia lasciato liberi i lavoratori di partecipare alla competizione elettorale (mentre la FAI – la Federaciòn Arquista Iberica – ha continuato a propagandare l’astensionismo). Fino a quando non verrà instaurata una democrazia reale, che preveda le deleghe minime e la revocabilità immediata di cui sopra, la particolare situazione storica esige l’uso degli strumenti del potere legittimo.

Ma ora le cose stanno cambiando, e riesplodono ben presto anche le divergenze con GL e con Rosselli. C’è una causa contingente, legata a un rovescio militare, ma i dissensi hanno origini più profonde. Rosselli ha avuto il comando della colonna italiana, e per ragioni di opportunità politica ha scelto nel suo stato maggiore collaboratori vicini al partito comunista. Dopo una battaglia conclusasi disastrosamente, anche per la scarsa efficacia del settore comunista dello schieramento, gli anarchici si ribellano e in pratica lo cacciano, provocando tra l’altro una dura reazione del comandante della divisione Ascaso. È l’inizio di una faida fratricida che avrà conseguenze tragiche, ma che si preannunciava già dall’inizio inevitabile. Mentre Rosselli ribadisce infatti anche in questa occasione, e soprattutto in questa, la necessità primaria di far fronte comune al nemico, Berneri ritiene che la guerra abbia una probabilità di successo solo se mantiene la doppia valenza antifascista e rivoluzionaria, se riesce cioè a coinvolgere veramente i contadini e gli operai facendo loro intravvedere un’organizzazione sociale ed economica futura ben diversa. Per questo motivo ritiene compito suo e degli anarchici denunciare tutti quegli atti del governo che lasciano intuire una svolta statalista ed autoritaria dietro il paravento delle urgenze strategiche e militari.

Nel governo centrale guidato da Largo Caballero sono entrati nel frattempo, nel novembre del 1936, anche quattro ministri anarchici. I dubbi di Berneri questa volta diventano certezze, anche perché appare subito chiaro che il coinvolgimento della componente anarchica è strumentale ad una sua neutralizzazione. Con la formazione dell’Esercito popolare e delle Brigate Internazionali, che vengono inquadrate in una organizzazione rigida e gerarchica, è partita infatti la militarizzazione delle milizie: i comunisti mantengono il controllo delle armi provenienti dalla Russia, con le quali equipaggiano soltanto le formazioni da loro controllate, lasciando le altre allo sbaraglio, quasi disarmate, sul fronte. La conseguenza è che alla fine del ’36 le forze di Franco occupano ormai più della metà del territorio spagnolo. Madrid è praticamente sotto assedio, l’iniziale neutralità dei paesi Europei è sostituita da un sempre più incisivo interventismo dei regimi fascisti, mentre i governi “democratici” stanno a guardare. La dimensione del conflitto, dopo la fase dell’entusiasmo internazionalistico, che ha visto la partecipazione solidale di tutti i gruppi antifascisti europei, si internazionalizza in altro modo, entrando nel gioco degli opposti imperialismi continentali. L’atmosfera, anche nell’anarchica Catalogna, è quella magistralmente descritta da Orwell nel suo diario spagnolo27.

Berneri naturalmente non può tacere: critica la decisione della CNT e della FAI di continuare a far parte della compagine governativa quando il rapporto di fiducia è ormai venuto meno, si affanna a suggerire diversivi militari, come l’apertura di un nuovo fronte alle spalle dei rivoltosi, concedendo l’indipendenza al Marocco, invoca la rottura diplomatica col Portogallo, che fiancheggia i rivoltosi, chiede il sequestro dei beni dei cittadini di nazioni fasciste che dimorano in Spagna e l’azzeramento del vecchio corpo diplomatico spagnolo, tutto colluso con la cospirazione. Soprattutto si ribella ai tentativi di inquadramento delle milizie anarchiche (propone anzi la costituzione di corpi di sicurezza anarco-sindacalisti, sul modello di quelli stalinisti) e al rallentamento della rivoluzione in nome della guerra.

Le avvisaglie della tragedia incombente si hanno già con la morte in novembre di Buenaventura Durruti, che molti attribuiscono ad un killer stalinista. A Mosca si annuncia che “in Catalogna è già cominciata la pulizia dai trotzkisti e dagli anarco-sindacalisti. Essa verrà condotta con la stessa energia che nell’Unione Sovietica28. E anche con gli stessi sistemi. Il Partito Comunista Spagnolo inizia, dietro pressione degli agenti moscoviti sul territorio iberico (tra i quali si distinguono gli italiani Togliatti, Longo, Vidali, ecc…), l’operazione di screditamento del POUM (Partido Obrero de Unification Marxista, che non ha nulla a che vedere con Trotzkij, ma viene accusato di “deviazionismo trotzkista” perché non si allinea alle direttive sovietiche), portata avanti con accuse assurde e infamanti, secondo il modello classico usato per le purghe staliniane. Berneri denuncia l’infamia di queste operazioni e rinnova in ogni numero di “Guerra di Classe” l’invito ai ministri anarchici a dimettersi e a non rendersi complici di tanta infamia. “Gli anarchici sono entrati nel governo per impedire che la rivoluzione deviasse e per continuarla al di là della guerra ed altresì per opporsi ad ogni eventuale tentativo dittatoriale che sia. Oggi […], siamo in una situazione nella quale avvengono gravi fatti e se ne profilano dei peggiori”. Non viene ascoltato, e la sua voce diventa anzi fastidiosa anche per alcuni leaders sindacali anarchici, che Berneri accusa di tradimento. La CNT gli taglia pertanto i finanziamenti per il bollettino, che continua ad essere pubblicato con mezzi di fortuna ma incontra grossi ostacoli nella distribuzione. L’anarchico italiano non cede, ma ormai è un isolato, e ha iscritto di suo pugno il proprio nome nella lista di proscrizione degli stalinisti. Dopo la pubblicazione di una Lettera aperta alla compagna Federica Montseny, una dei quattro ministri anarchici del governo Caballero, nella quale definisce i filosovietici “politicanti trescanti con il nemico o con le forze della restaurazione della ‘repubblica di tutte le classi’”, viene ammonito che sta rischiando grosso, e capisce di essere al capolinea (infatti avverte i suoi amici parigini).

Quando ai primi di maggio del 1937 scoppia a Barcellona lo scontro aperto tra anarchici e trotzkisti da un lato e filosovietici dall’altro, l’abitazione dove vive con altri compagni viene immediatamente presa di mira. Berneri è ormai qualificato come “controrivoluzionario”; viene disarmato, privato dei documenti e diffidato a mettere il naso fuori casa. Ma il mattino del 5 Maggio arriva dall’Italia la notizia della morte in carcere di Antonio Gramsci: Camillo esce e si dirige a Radio Barcellona per pronunciare un discorso commemorativo. Prima di muoversi ha scritto l’ultima lettera all’adorata figlia Maria Luisa. Sarà il suo testamento spirituale.

Quello stesso pomeriggio è prelevato dalla sua abitazione, insieme a Francesco Barbieri, da alcuni sicari comunisti che si qualificano come agenti di polizia. I cadaveri dei due anarchici vengono ritrovati il giorno successivo nella piazza vicina, freddati con diversi colpi di pistola alla schiena.

Come avevo immaginato. Solo così potevano fermare Berneri.

Tra eretici – In queste pagine ho ripetuto sino alla nausea che Berneri era un eretico. Non è una mia fissazione, abbiamo visto che lui per primo si fregiava di questa qualifica. In una lettera a Libero Battistelli scriveva: “I dissensi vertono su due punti: la generalità degli anarchici è atea, e io sono agnostico, è comunista e io sono liberalista (cioè sono per la libera concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e lavoro e commercio individuali), è antiautoritaria in modo individualista e io sono semplicemente autonomista federalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal sovietismo)”29. Intanto i punti sono almeno tre, e comunque a monte c’è ben altro. Ciò che intendo dire è che Berneri non era eretico nei confronti di una qualsivoglia ortodossia: era un eretico nei confronti della vita, e non perché non gli piacesse, quanto piuttosto perché, come tutti gli eretici veri, pretendeva di ricondurla alla sua purezza. In altre parole era uno di quelli che, come scriveva Novalis, “cercano l’infinito, e trovano solo cose”. Lui la declinava così: “Noi avremmo voluto un socialismo ardente e puro: ci saremmo accontentati di un socialismo combattivo: ed era la grande epoca del riformismo”. Viveva insomma il contrasto tra il sogno utopico e la costante disillusione realistica: ma anziché cercare in questa disillusione degli alibi, ne traeva invece lo stimolo a dare ancora di più. Era platonico nel pensare, aristotelico nell’agire. A differenza dei Romantici, infatti, era capace di riconoscere che le “cose” esistono, e che con esse occorre fare i conti.

Piuttosto, una volta resosi conto che dagli altri non poteva aspettarsi né pretendere granché, ha preteso da se stesso, fino in fondo. Berneri credeva nel valore dell’esemplarità (il popolo ha bisogno di vedere dei martiri, dopo che ha tanto udito parlare di martiri) e al di là dei toni alla Jacopo Ortis pensava davvero, e ne rimase sempre convinto, che il modello umano e sociale proposto dal socialismo della sua epoca fosse fuorviante, perché faceva leva sul diritto anziché sul dovere, così come aberrante gli sembrava quello sovietico, che sacrificava la libertà e la dignità individuale ad un indefinito e strumentale (al potere delle burocrazie rivoluzionarie) interesse collettivo. Il suo impegno politico era prima di tutto il modo per assolvere ad un obbligo morale (Cosa sarebbe l’uomo senza questo senso del dovere, senza questa commozione di sentirsi unito a quelli che furono, ai lontani ignoti, e ai venturi?)30. Ciò che gli importava, in definitiva, era il rinnovamento morale della società: sapeva che non può prescindere da quello politico, ma sapeva anche che quest’ultimo può essere una conseguenza del primo, e non la premessa. Per questo motivo non solo la presa del potere non rivestiva per lui alcuna priorità, ma addirittura la considerava, anziché “il fine”, “la fine” della rivoluzione. La rivoluzione non è una fase “storica” di passaggio: è una condizione di vita, individuale e sociale, permanente. “La funzione storica dell’anarchismo – scriveva – è inconciliabile per molti lati con la necessità di un attuale successo politico”; dove quel attuale è riferibile a qualsiasi tempo. Togliamo un paio di parole e arriveremo alla sostanza: l’anarchismo è inconciliabile con il successo politico. È una militanza a prescindere.

Berneri viveva dunque la sindrome dell’esemplarità. È una sindrome che nasce da una presunzione di tipo particolare: non quella, sin troppo diffusa, di essere costantemente in credito con la vita, ma piuttosto quella di essere in debito. Chi pensa di essere in debito nei confronti della vita ritiene che questa gli abbia dato molto, più che agli altri. E allora deve fare qualcosa di più rispetto agli altri, deve essere l’ultimo a cedere, perché di questa responsabilità è stato investito: “Mi sono offerto di stare alzato per lasciare andare gli altri a dormire, e tutti hanno riso dicendo che non udirei nemmeno il cannone; ma poi, ad uno ad uno sono andati a nanna, ed io veglio per tutti, lavorando per coloro che verranno. È l’unica cosa bella interamente31. Questo, è vero, significa che sotto sotto degli altri si fida poco, o meglio, preferisce non avere bisogno: ma in questo atteggiamento non c’è malevolenza. Solo, considera normale che gli altri non siano tenuti a fare ciò che lui fa.Al limite può sperare che siano moralmente stimolati dal suo esempio a darsi da fare a loro volta, e che si possa quindi trasmettere un po’ di senso di responsabilità.

È il principio che governa tutti i sodalizi volontaristici: alcuni membri, e non sono necessariamente i leader, si sentono tenuti a dare comunque, e altri ritengono essere già molto quello che danno. Si badi bene: coi primi non c’entra nulla lo stakanovismo. Sto parlando di associazioni volontarie e spontanee, non di collettivizzazione: di senso del dovere, non di competitività. Infatti non è necessario che questo maggiore sforzo sia riconosciuto ufficialmente o produca delle investiture di potere: anzi, ogni riconoscimento sarebbe controproducente, perché le investiture sono in fondo delle deleghe, e deresponsabilizzano il delegante, invece di spronarlo.

Dietro l’atteggiamento di Berneri c’è una disposizione che ho già definita “protestante”. Culturalmente questa disposizione è testimoniata dall’interesse continuativo per un mondo e per una tradizione morale che datano dalla riforma, lo stesso che accomuna la parte più sana dell’ambiente intellettuale, soprattutto di quello torinese, nel primo trentennio del secolo. In pratica, c’è l’idea che se la grazia l’hai avuta te la devi poi meritare tutta, non attraverso l’autoaffermazione, ma attraverso l’esemplarità. È una forma di protestantesimo più luterana che calvinista. Fausto Nitti e altri fuorusciti chiamavano scherzosamente Berneri “il santo”, ma non scherzavano poi più di tanto: erano davvero stupiti dal suo ascetismo, e ci ricamavano sopra vere leggende. Berneri stesso, d’altro canto, scriveva dal carcere alle figlie: “In questo sforzo sta tutto l’amore per la vostra mamma e per voi, la compensazione di sacrifici morali enormi che mi sono imposto e che nessuno oltre a me conoscerà mai; c’è in me un bisogno smisurato di prendere coscienza del mio valore e della mia missione personale nella vita32. E alla madre: “Se vengono meno le ragioni morali, in me più mistiche che razionali, della lotta, io non vedo altro che fini personali33. Forse, a ripensarci, non è nemmeno una disposizione luterana. Da buon libertario Berneri non si sente un eletto: si elegge, autonomamente.

All’inizio di questo breve saggio ho detto di provare nei confronti di Berneri una profonda consonanza. Spero di non essere frainteso. Non presumo di partecipare del suo stato: io non sono stato toccato dalla grazia, al più ne sono stato sfiorato, e non essendo né protestante né cattolico non mi aspetto pentecosti né individuali né collettive. Sono quindi rimasto nella condizione di chi sa che la grazia esiste, ma non è cosa per lui, e oltretutto si becca il debito, perché in sostanza conosce la via, ma non ha le forze, la capacità, soprattutto la volontà per percorrerla. A questo punto, a quelli destinati al Limbo rimangono solo due strade: o si incattiviscono per l’occasione perduta, o diventano particolarmente ironici con se stessi. Spero solo di non essere diventato troppo cattivo. (D’altro canto, non so nemmeno se essere toccato dalla grazia sia una fortuna oppure no.)

Questa malinconica condizione mi ha comunque messo in grado di capire, e senz’altro di ammirare, Berneri e gli altri come lui (che non sono poi tantissimi): di sentirmi con loro solidale, se non compagno, e di compiacermi della condivisione di qualche particolare attitudine.

Ne condivido senza dubbio la concezione (che non è necessariamente padronanza) enciclopedica della conoscenza. Berneri non è, per necessità ma in fondo credo anche per scelta, uno specialista. È un onnivoro, curioso di tutto e informato di tutto. Sa benissimo di trattare gli argomenti ad un livello superficiale (anche se è vero, come abbiamo visto, che raccoglieva incredibili dossier su tutto quel che lo interessava), ma ha il coraggio di tentare delle sintesi, e questo gli dà l’opportunità di cogliere legami e collegamenti tra le sfere e tra i fenomeni più diversi. Gli specialisti sono necessari, sono fondamentali, ma gli input veri alla comprensione e alla lettura innovativa dei fenomeni vengono sempre dai non specialisti. E ciò vale anche in politica: anzi, nella concezione di politica propria di Berneri, che al di là delle contingenze e delle alleanze e delle opportunità è essenzialmente educazione, questa attitudine risulta imprescindibile. Berneri è quindi cosciente del suo “dilettantismo” e dei limiti che può comportare, ma ne ribalta la funzione. Altri avrebbero potuto o potrebbero fare meglio, ma non lo fanno: e allora, buttiamo là la provocazione, e vediamo se si svegliano34.

Non è solo questione di modalità d’approccio: sono anche i contenuti, gli esiti, ad accomunarci. Forse perché quella modalità porta a quegli esiti. Ad esempio, ad una considerazione realistica della natura umana. Berneri non si fa eccessive illusioni: sembra paradossale, per un anarchico, ma è così. Vuol considerare gli uomini per quello che sono, soprattutto se presi in gruppo: la sua insistenza sulla libertà individuale nasce da una diffidenza profonda nei confronti della massa, più che dalla fiducia nei singoli. Non è individualismo: Berneri applica delle evidenze che sono tali da sempre, e che gli studi socio-antropologici della seconda metà del ‘900 hanno confermato anche a livello statistico. L’appartenenza ad un gruppo è correttamente sentita e vissuta dal singolo, e ne esalta le potenzialità e il senso di responsabilità e di partecipazione, solo entro i limiti di una stretta interrelazione, quella consentita dal villaggio o dalla piccola comunità (il gruppo ideale va dalle cento alle duecento persone). Oltre queste dimensioni vengono meno il collante e il denominatore comune sul quale giocare attivamente i rapporti, quello della conoscenza diretta.

La consapevolezza delle differenze tra gli uomini, tra le loro speranze, le loro aspettative, le loro finalità, porta quindi Berneri ad un’altra consapevolezza, quella che senza regole ben precise il gioco non può andare avanti. Questo vale rispetto al lavoro e ai comportamenti politici, ma vale poi in generale in tutti gli ambiti. Quindi la libertà va intesa come responsabilità, i doveri come fondamento e garanzia dei diritti. E a proposito di doveri, il primo dovere è per Berneri quello di fare bene le cose che si fanno: il che significa portarle fino in fondo, crederci davvero, mantenendo vigile la capacità di correggersi di fronte al cambiare delle situazioni o all’evidente inadeguatezza delle soluzioni proposte.

Il terzo fattore di condivisione (ma in fondo si tratta di un corollario dei primi due) riguarda il tema della dignità, declinato in ogni sua variabile. La dignità per Berneri non è un valore eteronomo, conferito a persone, attività o cose da una qualsivoglia entità o autorità esterna. La dignità è quella che ci si costruisce dall’interno. Siamo noi responsabili della nostra dignità, di conferirla a ciò che siamo o che facciamo, e poi di difenderla. Berneri esplicita la cosa quando parla di lavoro, ma la sottende ad ogni altro suo discorso, da quello sulla religione a quello sulla emancipazione femminile. Non ci si può attendere una liberazione, ci si deve rendere liberi, e questo è possibile anche in un contesto non favorevole. Oserei dire che forse è ancora più possibile, perché l’esistenza di ostacoli e difficoltà costringe a concentrarsi su ciò che si vuole ottenere.

Infine, Berneri non rinnega affatto l’appartenenza ad una certa aristocrazia spirituale (ed è questo che soprattutto non viene capito e gli viene rimproverato dai suoi compagni). Gli ripugna l’ipocrisia di chi si traveste di una “cultura proletaria” che in realtà non gli è propria (e che secondo lui nemmeno esiste), e disprezza quelli che lo fanno in malafede, per opportunità politica; ma non manca di stigmatizzare anche coloro che lo fanno in buona fede, che abbracciano una filosofia penitenziale per la quale occorre mortificare la propria reale natura o le proprie radici e sdraiarsi sulla linea altrui. È consapevole di quanto il proprio sogno possa essere diverso da quello degli altri, del fatto che in fondo non si vogliono davvero le stesse cose e per gli stessi motivi. Sa di poter fare un pezzo di strada in comune, ma vuole poter lasciare la compagnia quando i discorsi che si fanno lungo il cammino indicano un’altra meta. È aristocratico nel sentire, democratico nell’agire, ma soprattutto libero nell’essere e nel pensare.

Berneri fa dunque parte di un circolo ideale di anime elette, da Gobetti a Camus, da Leopardi a Micotto e a Modesto, che in ogni epoca hanno saputo opporre resistenza a qualsiasi forma di omologazione. Indipendentemente dai livelli di cultura e dai risultati raggiunti, è gente che ha preteso di vivere e di pensare autonomamente. Ha pagata cara questa pretesa, con l’isolamento, con l’incomprensione, in molti casi, come in quello di Berneri, anche con la vita: ma, accidenti, non mi si venga a dire che non c’è riuscita.

1 Negli ultimi tempi il velo di rimozione che sembrava avvolgere Berneri è stato in realtà più volte strappato. Giampiero Berti ha tracciato ne Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento (Lacaita, 1998) un bilancio “politico” esauriente della singolare esperienza berneriana (che sotto questo profilo viene considerata, forse non a torto, “irrisolta”), mentre Stefano d’Errico ha redatto una sorta di biografia intellettuale di Berneri basata sulle sue stesse parole, attraverso una scelta copiosa dalle lettere e dagli scritti polemici o saggistici. Mi ha soprattutto colpito, però, il breve saggio dedicato all’anarchico lodigiano da Renzo Ronconi e compreso ne L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico (Jaka Book,2010). La vicenda di Berneri è qui colta con particolare finezza nella sua globalità, non solo quindi nelle sue valenze politiche, ma anche, e soprattutto, in quelle “umane” e più genericamente filosofiche. Come dirò più oltre, questo mio scritto in qualche maniera è condizionato dalla recentissima lettura delle pagine di Ronconi, e si propone pertanto di puntualizzare o sottolineare alcuni aspetti che in esse sono stati trattati solo marginalmente.

2 Così racconta il commiato da Prampolini: “Mi mandò a chiamare, lui che non mi aveva mai parlato, per dirmi: “Dunque ci lascia”. Ma soggiunse: “Ma resta sempre nel socialismo”. E questa parola mi fu di sollievo, ché mi pareva triste di veder allontanarsi quello che allora ero: l’unico studente militante della città socialistissima”. (Pensieri e Battaglie, Parigi 1938).

3 Di lei Camillo scrive all’amico e maestro Gaetano Salvemini: «Non è anarchica nel senso di essere una militante, però accetta le mie idee e le condivide in gran parte». In realtà, dopo la morte di Berneri Giovanna Caleffi comincia ad occuparsi attivamente di anarchismo, collaborando alla stampa libertaria. Viene arrestata nel 1940 e consegnata alle autorità italiane, che la inviano alo confino. Sfuggita alla sorveglianza, entra nella Resistenza. Dopo la guerra concretizza il suo impegno anarchico nella fondazione di una colonia intitolata alla memoria della figlia, Maria Luisa Berneri, che costituirà uno straordinario esempio di pedagogia innovativa.

4 Per un programma d’azione comunalista (1926)

5In Russia il bolscevismo ha rinnovato, in modo radicale e sistematico, i sistemi rappresentativi. Il valore di tali riforme sorpassa i confini della rivoluzione russa e per l’influenza che esse hanno sul pensiero politico delle altre nazioni e per le loro origini ideologiche. Il regime dei Soviet è una derivazione dell’autonomia federalista ed è in antitesi con la tendenza accentratrice del socialismo di Stato: non è che un sistema politico le cui linee generali e fondamentali si trovano nei disegni politico-filosofici dei principali pensatori della Francia rivoluzionaria e democratica” (L’autodemocrazia, 1919).

6 Da “L’autodemocrazia” su Volontà (Ancona) del 1/6/1919

7 A proposito delle nostre critiche al bolscevismo (1922)

8 Umanesimo e anarchismo

9 L’operaiolatria, Brest 1934

10 L’anarchico sardo Michele Schirru, giunto dall’America nel 1931 per attentare alla vita di Mussolini, è arrestato e fucilato, con l’accusa di aver progettato l’uccisione del capo del governo. Un altro anarchico, Angelo Pellegrino Sbardellotto, proveniente dal Belgio, viene trovato in possesso di un passaporto falso, di una pistola e di un ordigno, e confessa l’intenzione di uccidere Mussolini. Anche lui è condannato a morte e fucilato nel 1932.

11 Epistolario inedito

12 Per un programma d’azione comunalista, 1926

13 Koestler parlerà di ‘autocastrazione intellettuale. “Un intellettuale non poteva mai diventare un vero proletario, ma il suo dovere era di assomigliargli il più possibile… Il modo giusto era non scrivere, non dire e soprattutto non pensare niente che non fosse comprensibile anche per uno spazzino (Il Dio che è fallito)

14 Il diritto penale nella rivoluzione, in “Umanità Nova”, agosto 1921

15I comuni non devono essere più degli organi dell’amministrazione centrale, del potere governativo, ma degli organi di sintesi amministrativa locale e di cooperazione, regionale e nazionale. Occorre […] coordinare tutte le amministrazioni locali in una Confederazione di amministrazioni autonome, collegate strettamente con le organizzazioni di produzione”.

16 Il federalismo comunalista di Berneri, e i presupposti civici sui quali si basa, saranno fatti propri anche da un liberale puro come Luigi Einaudi: ”L’uomo moralmente libero, la società composta di uomini i quali sentano profondamente la dignità della persona umana, crea simili a sé le istituzioni economiche”; e quanto alla politica “perché vi sia un governo libero occorre che gli uomini sentano di essere un qualcosa di diverso dagli altri uomini, che abbiano l’orgoglio di appartenere ad un ampio ventaglio di corpi intermedi, quali la famiglia, la vicinanza, il comune la comunità, la regione, l’associazione di mestiere, la fabbrica, l’ordine o il corpo professionale, la chiesa”; per concludere: “Occorre partire dal basso, dai corpi locali vivi di vita propria originaria, come il comune, per ricostruire un ordine politico ispirato al federalismo e generare una democrazia prossima al cittadino” (L’Italia e il secondo Risorgimento, 1944).

17 Il primo atto con il quale lo Stato si manifesta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso dei mezzi di produzione in nome della società, è in pari tempo l’ultimo atto proprio dello Stato. L’intervento dello Stato negli affari della società diventa superfluo in tutti i campi uno dopo l’altro e poi cessa da sé stesso. Al governo delle persone si sostituiscono l’amministrazione delle cose e la direzione del processo di produzione. Lo stato non è «abolito»; esso muore.

18 Cfr. “Il lavoro attraente”

19 Scrive di lui Salvemini: “Aveva il gusto per i fatti precisi. In lui l’immaginazione disciolta da ogni legame con il presente, in fatto di possibilità sociali, si associavano a una cura meticolosa per i particolari immediati nello studio e nella pratica di ogni giorno. S’interessava di tutto con avidità insaziabile. Mentre molti anarchici sono come le case le cui finestre sulla strada sono tutte murate, lui teneva aperte tutte le finestre” (Salvemini 1952a; 1952b)

20Il suo sistema di lavoro era una cosa curiosa. Cercatore d’istinto, era capace di chiudersi in biblioteca per giorni e giorni, a sfogliare, a leggere, a prendere note. Ritagliava pagine, sfaceva un libro per ricavarne alcune pagine: quando non poteva sfarlo, copiava. Si interessava a tutto, dalle malattie dei bambini ai problemi delle razze, dai giocattoli alle ultime teorie sull’universo. E ogni annotazione era classificata. La sua biblioteca si componeva così, in gran parte di un enorme schedario e di fasci, di casse, di carta stampata o manoscritta”.

21 È da sottolineare come il successo del nazismo si accompagni ad un enorme interesse per il paranormale e per i culti parascientifici più strampalati, tanto che si arriva a teorie della terra cava ed altre simili demenze, che avevano un grosso credito nelle alte sfere del nazionalsocialismo e che generano un’antropologia razzista criminale.

22 Lo stesso tema era stato affrontato pochi anni prima, nel 1930, da Theodor Lessing ne Der Judischer Selbsthass. Lessing, ucciso in una “spedizione punitiva” nel 1933, era anche stato una delle prime vittime dei nazisti.

23 Cfr. Otto Weininger, Das Judentum (L’odio di sé ebraico), da Sesso e carattere.

24 Anche Fénélon, nel III libro del Télémaque (1699), applica quella formula al lavoro. Morelly, nella Basiliade, scriveva: “Ammettiamo che la libera attività dell’uomo versi nel fondo comune più di quanto in esso possano attingere i bisogni, è chiaro che le leggi, i regolamenti divengono quasi inutili, poiché ad ogni funzione necessaria risponde negli individui un gusto naturale, una ben spiccata vocazione”.

25 Epistolario inedito

26 È l’insurrezione congiunta delle truppe d’oltremare (il Tercio, la legione straniera spagnola) sotto la guida di Francisco Franco, delle guarnigioni navarresi comandate da Emilio Mola e delle milizie carliste e falangiste.

27La situazione era abbastanza chiara: da una parte la CNT, dall’altra la polizia: Non ho alcun amore particolare per il “lavoratore” idealizzato quale si presenta alla fantasia del borghese comunista: ma quando vedo un vero e proprio operaio, in carne ed ossa,in lotta col suo nemico naturale, il poliziotto, allora non ho più da chiedermi da quale parte debbo schierarmi”. (Omaggio alla Catalogna)

28 Sulla “Pravda” del 17 dicembre

29 Epistolario inedito

30 Epistolario inedito

31 Epistolario inedito (settembre 1936)

32 Epistolario inedito, giugno 1930

33 Epistolario inedito, febbraio 1930

34Lo studio che segue non è che una specie di introduzione al tema: il lavoro attraente; tema sul quale vorrei vedere attratta l’attenzione di quanti potrebbero apportare idee, esperienze personali, particolari conoscenze tecniche. Un competente avrebbe fatto di più e di meglio; ma dato che i competenti sono restii a utilizzare la propria preparazione, tocca ai più disinvolti il ruolo di sollevare i problemi e di imporli all’attenzione dei compagni”. (Il lavoro attraente)

 

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