Che piacere incontrare il signor Lear!

Vita vagabonda di “uno sporco pittore paesaggista”

di Paolo Repetto, 5 giugno 2024, dall’Album “Che piacere incontrare il signor Lear!

Che piacere incontrare il signor Lear copertinaIndice

Introduzione

Vita vagabonda di “uno sporco pittore paesaggista

L’uomo

Il viaggiatore

Il pittore

Lo scrittore

Bibliografia

Appendice 1

Appendice 2

Appendice 3

Introduzione

Che piacere incontrare il signor Lear 03Con una matita del genere,
una penna del genere.
hai seguito uomini lontani,
ho letto e ho sentito che ero lì.
Alfred Tennyson To Edward Lear, On His Travels in Greece

Nel 1846 veniva pubblicato in Inghilterra A Book of Nonsense. Era una raccolta di “limericks”, ovvero di filastrocche strampalate, di giochi di parole surreali, composti però seguendo uno schema metrico fisso (cinque versi, i primi due che fanno rima tra loro e con l’ultimo, mentre il terzo rima col quarto. In genere l’ultimo verso riprende il primo, con una piccola modifica, e il primo deve sempre contenere il nome e una qualificazione del protagonista e l’identificazione del luogo in cui compie l’azione (!?) o dal quale proviene). Ad ogni limerick era collegato un disegno che illustrava in forma caricaturale il contenuto dei versi.

Che piacere incontrare il signor Lear 04Il libro era stato pensato per i bambini, ma piacque molto anche ai grandi. L’autore, Edward Lear (che aveva firmato sotto lo pseudonimo di Derry down. Derry), e aveva realizzato anche i disegni) divenne famoso in tutta l’Inghilterra, e lo è ancora oggi. Da noi lo è molto meno, anzi, direi quasi per nulla. Per vari motivi. Intanto perché i limeriks sono in effetti intraducibili, e volti in italiano perdono la loro valenza giocata principalmente sul linguaggio. Quindi tardarono molto ad essere tradotti, e lo furono quando il pubblico si era ormai assuefatto a ben altre stranezze. Poi perché il limerik è un gioco di finezza, di leggerezza, che non chiama la risata, ma il sorriso. E invita a sorridere non per la comicità di quanto “racconta”, perché in effetti non racconta niente, ma per l’assurdità dell’accostamento di certe parole, di certe immagini, o per l’invenzione di termini assolutamente improbabili. Infine perché fa capo a un senso dell’umorismo molto brithish, lo stesso che circolava centocinquant’anni fa nei giochini poetici di Lewis Carroll e più tardi, nella versione in prosa, nei libri di Jerome o di Woodeouse (qualcosa del genere ancora si può trovare oggi in quelli di Nick Hornby).

Un equivalente italiano non esiste: nella nostra tradizione esopiana sotto sotto deve esserci sempre una morale o una logica. E quando queste non ci sono, non ci si libra leggeri nel bizzarro, ma si scade pesantemente nel demenziale, nel doppio senso equivoco. (Prevengo le obiezioni: ma come? Abbiamo una tradizione che va dal Burchiello a Palazzeschi, su su fino ad Achille Campanile, a Toti Scialoia e a Giulia Niccolai, nonché a Fosco Maraini e se vogliamo anche a Enzo Jannacci. Tutto vero. Tranne che se andate a leggerli vi accorgerete che denunciano invariabilmente uno sforzo mentale, che con la leggerezza infantile di Lear non c’entra un accidente. Quanto a non senso a piede libero l’unica nostra forma letteraria che oggi potrebbe giocarsela col limerik è la cronaca giornalistica: ma in questo caso l’effetto è tutt’altro che giocoso, è addirittura avvilente.)

Non volevo comunque soffermarmi sui limeriks, quanto piuttosto sulla eccentrica e poliedrica figura del loro autore, che fu anche un instancabile viaggiatore. Sulla sua lapide sono incisi i versi che Tennyson gli dedicò, che ho riportato in esergo e che estendo idealmente a tutti gli autori di letteratura di viaggio che mi hanno appassionato.

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Vita vagabonda di “uno sporco pittore paesaggista

Già mi era parsa pesante la situazione di Alfred Wallace, decimo di una nidiata di undici fratelli che dovettero precocemente imparare a cavarsela, con un padre che passava da una bancarotta all’altra: ma al quasi coetaneo Edward Lear era andata ancora peggio. Nella sua famiglia i fratelli erano ventuno, lui era il penultimo, e il padre, a seguito di un dissesto finanziario, trascorse anche qualche tempo in galera per debiti. Inoltre, mentre il primo viveva in campagna, dove era più facile cavarsela, il povero Edward crebbe a Londra (dove era nato nel 1812), all’epoca il luogo più inquinato della terra, e non meraviglia che sin dall’infanzia fosse asmatico e anche epilettico. A quattro anni dovette lasciare la famiglia, in seno alla quale immagino si dovesse stare piuttosto stretti, per andare ad abitare con la sorella Ann, più anziana di lui di oltre vent’anni. Anche più tardi, quando la situazione economica migliorò, i genitori non lo riaccolsero, e la sorella continuò a fargli da madre per tutta la vita. Indubbiamente Edward ne soffrì molto, ma questa fu per certi aspetti anche la sua fortuna, perché in famiglia avrebbe avuto scarsissime probabilità di essere seguito, mentre la sorella incoraggiò e coltivò le sue attitudini artistiche.

Che piacere incontrare il signor Lear 06Questo, almeno, è quanto Edward stesso ha raccontato nei cenni autobiografici disseminati qua e là nei suoi scritti. Un’infanzia e un’adolescenza da romanzo dickensiano. Secondo alcuni suoi biografi però ha un po’ romanzato, o almeno caricato, le circostanze e gli avvenimenti, quasi a giustificare la successiva condizione di disagio e di scarsa autostima che lo accompagnò per tutta la vita. Di fatto ci furono comunque l’abbandono da parte dei genitori e il precoce manifestarsi di crisi epilettiche, forse conseguenti al drammatico distacco, o forse proprio alla sua origine.

Lear chiamava l’epilessia il suo “demone”: “Ad appena otto anni — e forse anche prima — questo Demone mi schiacciò, senza che io ne comprendessi l’ingiustizia e la sofferenza. Ogni mattina nello studiolo, mentre mi dedicavo alle mie lezioni — tutto il giorno e sempre la sera e la notte. Né potevo avere più di sei anni, credo — perché ricordo intere annate prima di andare a scuola a undici anni. È sorprendente che questi attacchi non siano mai stati scoperti, ma siccome li sento arrivare in anticipo, mi ritiro nella mia stanza”. Sembra si trattasse di crisi tutto sommato leggere, ma frequentissime, che esplodevano generalmente al mattino presto o in tarda serata. Edward continuò per tutta la vita a vergognarsi di questa sua patologia, e a ingegnarsi per tenerla nascosta. Annotava però diligentemente le crisi nei suoi diari, indicandole con una croce ed un numero progressivo, e arrivando sino a registrarne diciotto in un mese.

Ma non era tutto. A sette anni cominciò a manifestare anche una certa tendenza alla depressione (e ne aveva ben donde), attraverso sintomi che definiva “morbosità” (the morbids): “La prima di tutte le morbosità che ricordo deve essere capitata più o meno verso il 1819, quando mio padre mi portò in un prato nei pressi di Highgate, dove c’era un’esibizione ginnica di clown di campagna ecc. — e un’orchestra […] Ricordo che piansi gran parte della notte dopo la fne del divertimento — e anche di avere sofferto per giorni al ricordo della scena ormai svanita”.

Che piacere incontrare il signor Lear 07Insomma, era un ragazzino estremamente sensibile, malaticcio e timoroso di tutto (una delle sue principali fobie riguardava i cani), affetto tra l’altro da una forte miopia, e ben presto si sentì in dovere di anticipare preventivamente, attraverso una impietosa autoironia, le critiche che pensava potessero essergli rivolte per il suo carattere e per l’aspetto goffo e impacciato. È anche comprensibile, stanti la sua situazione psicologica e le modalità impietose nelle quali veniva impartita l’educazione scolastica inglese, perché la sorella abbia cercato il più a lungo possibile di risparmiargli l’impatto con un mondo che quasi certamente lo avrebbe spezzato. Frequentò quindi la scuola solo piuttosto tardi (dopo i dieci anni), e per un periodo molto breve.

Poi, “all’età di quattordici anni e mezzo fui abbandonato a me stesso letteralmente senza un centesimo, e senza alcun mezzo per procurarmi di che vivere se non i miei propri sforzi”. Anche questo non è del tutto esatto, dal momento che poteva contare, oltre che su Ann, anche su un’altra sorella, Sarah, la meglio accasata di tutta la progenie dei Lear.

È vero comunque che a soccorrerlo fu soprattutto una straordinaria attitudine al disegno, in particolare a quello di tipo naturalistico-zoologico, una dote che aveva cominciato a manifestare sin da bambino durante le passeggiate per le stradine di campagna attorno ad Highgate, che le sorelle intelligentemente incoraggiarono e che gli consentì di guadagnarsi da vivere già dall’ adolescenza. “Ho iniziato a disegnare per pane e formaggio intorno al 1827”, scrive “ma producevo solo schizzi di soggetti strani e insoliti, vendendoli a prezzi stracciati”.

Che piacere incontrare il signor Lear 08In questo campo fu praticamente un autodidatta, cosa di cui non si rammaricava affatto: “Quasi ringrazio Dio di non avere mai ricevuto un’istruzione, poiché mi sembra che novecentonovantanove di coloro che la ricevono, con grande spesa e notevoli sforzi, l’hanno già dimenticata prima di arrivare alla mia età e rimangono, come gli Stulbrugg di Swift, indifferenti per tutta la vita e non usano minimamente i tesori che hanno accumulato in precedenza, mentre invece io sembro essere sempre sul punto di acquisire nuove conoscenze”.

In realtà col tempo avrebbe cambiato idea. In una lettera scritta nella maturità al pittore preraffaellita William Holmar Hunt, amico e compagno d’avventura in diversi viaggi, scriveva: “Mi sarebbe piaciuto frequentare l’accademia come hai fatto tu, così avrei potuto lavorare da allora in poi al tuo fianco! Arrivando così tardi a comprendere il senso della verità in pittura, quando ormai le mie abitudini si erano formate e i miei occhi e le mie mani non erano duttili come avrei voluto, non sono potuto diventare un grande pittore. Inoltre i miei interessi topografici per differenti paesi, e la mia dedizione alla musica e all’ornitologia e ad altri campi hanno finito per confondermi e frenarmi”.

Non sarà diventato un grande pittore, ma è indubbio che come illustratore dimostrò sin da subito un eccezionale talento, e non tardò a farsi conoscere.

I suoi schizzi furono infatti notati dal curatore del museo della Zoological Society, che a partire dai sedici anni lo prese sotto la sua ala e lo associò come “disegnatore ornitologico”. A diciott’anni aveva già un nutrito gruppo di allievi cui insegnava privatamente, e gli venivano commissionate serie di incisioni per la stampa. In questo periodo conobbe tra gli altri l’ornitologo e artista John Gould, autore di alcune delle più belle pubblicazioni naturalistiche della sua epoca, col quale avrebbe a lungo collaborato. Tra il 1830 e il 1832, quindi prima di compiere vent’anni, Lear poté pubblicare una bellissima opera illustrata dedicata ai pappagalli, Illustrations of the family of Psittacidae, or Parrots, con 42 tavole litografate e colorate a mano da lui stesso. I soggetti rappresentati erano tutti ritratti dal vivo, e non da esemplari impagliati come all’epoca si usava, e i particolari erano riportati con precisione quasi maniacale. L’opera non ebbe il successo economico nel quale forse l’autore sperava, ma lo fece apprezzare in tutta l’Inghilterra dagli specialisti del settore.

Questo gli aprì altre porte e conoscenze, prima fra tutte quella del tredicesimo conte di Derby, lord Stanley, alle cui dipendenze lavorò per quattro anni come pittore naturalista. Il conte aveva allestito presso la sua tenuta, Knowsley Hall, vicino a Liverpool, una sorta di zoo privato, e commissionò a Lear le riproduzioni a colori di tutti gli animali del serraglio. In breve il giovane artista seppe farsi benvolere da tutta la famiglia, tanto da essere trattato come un ospite piuttosto che come un dipendente, e a Knowsley Hall ebbe modo di incontrare “alla pari” i molti personaggi illustri che frequentavano l’aristocratica dimora.

Che piacere incontrare il signor Lear 09Proprio a questo periodo risale l’invenzione dei limericks, composti per divertire i nipoti del conte e diventati in breve oggetto di divertimento per tutti. Inoltre, ora che la vita aveva iniziato ad incanalarsi per il verso giusto, consentendogli di godere di una amicizia tanto altolocata e di una relativa indipendenza economica, Edward poteva permettersi di dare sfogo a un’altra sua grande passione: quella di viaggiare. E iniziò subito (anzi, aveva già iniziato, compiendo nel 1829 un lungo tour a piedi in Inghilterra), battendo in lungo e in largo le campagne, soffermandosi nelle regioni più pittoresche, come la Cornovaglia e il Distretto dei Laghi, esplorando i Monti Wicklow in compagnia di Arthur Stanley, il futuro decano di Westminster, e sconfinando in Irlanda (1835-36). Queste esperienze, e i problemi alla vista che si aggravavano, lo indussero però molto presto a lasciar perdere le illustrazioni zoologiche, che richiedevano uno studio minuzioso dei particolari, per dedicarsi completamente a una nuova carriera di pittore paesaggista.

La svolta decisiva arrivò nel 1837, quando grazie a una dotazione elargitagli da lord Derby poté realizzare il sogno che nel frattempo aveva cominciato a coltivare, quello di studiare per due anni la pittura a Roma, e più in generale in Italia, proprio in funzione della nuova direzione artistica che intendeva intraprendere. Così annunciava la novità ad una amica: “La possibilità di intraprendere questa strada è dovuta a un atto di bontà, o meglio di munificenza, e di amicizia senza precedenti e per il quale non ho alcuna possibilità di dimostrare a sufficienza la mia gratitudine. Con mia enorme sorpresa una lettera di tre giorni fa mi ha portato una somma sufficiente a vivere a Roma per il periodo che ho appena menzionato”.

La seconda vita di Lear, quella del viaggiatore, e quella appunto che vorrei sommariamente ricostruire, comincia dunque di qui. In realtà ho trovato molto difficile seguire i suoi spostamenti: per farlo ho dovuto basarmi sui pochi stralci dei suoi diari o del suo epistolario rintracciati sul web, e desumerli soprattutto dalle datazioni dei suoi schizzi, perché l’unica biografia esauriente è praticamente introvabile e neppure in rete sono riuscito a reperire delle sintesi passabilmente attendibili. È quindi possibile che incorra in qualche approssimazione cronologica.

A luglio del 1837 Lear parte per Roma, dove approda solo in dicembre, dopo aver attraversato con molta calma il Lussemburgo e la Germania meridionale, e aver apprezzato alcuni magici scorci della Svizzera e dell’Italia settentrionale (ad esempio i laghi di Lugano e di Como, e soprattutto quello d’Orta, al quale rimarrà affezionato e che tornerà a ritrarre più volte in seguito). Nel corso del viaggio visita anche Milano e Firenze.

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A Roma gli sembra di toccare il cielo con un dito. Tutto procede sin da subito benissimo: entra in contatto con altri artisti, trova un mercato per i suoi dipinti, e già intuisce che il soggiorno in Italia si prolungherà oltre il previsto. Roma rappresenterà infatti nel successivo decennio la base di riferimento per una serie ininterrotta di escursioni, che lo portano a esplorare gran parte dell’Italia settentrionale (Piemonte, Lombardia, Liguria, Toscana) e in maniera più sistematica tutta quella centro-meridionale. Non ha terraferma: la caccia al “pittoresco” diventa ossessiva, e lo dimostra la messe impressionante di bozze di paesaggi che produce. Nell’estate del 1738 si trasferisce temporaneamente a Napoli, in compagnia di un altro aspirante artista, James Uwins, e frequenta gli esponenti della scuola paesaggistica napoletana (tra i quali il padre di Giacinto Gigante): la città tuttavia non gli piace affatto, troppo rumorosa e turbolenta: “Credo sia il luogo più rumoroso del mondo – scrive alla sorella – puoi immaginare come possa piacere a me, che odio il rumore! Si ha l’impressione che l’intera popolazione sia completamente pazza, delirante.” Di lì si sposta dunque ben presto sulla costiera amalfitana, che definisce “un paradiso”. Nel 1842 lo troviamo in Sicilia, e subito dopo si avventura in una prima escursione in Abruzzo: è conquistato dai luoghi incontaminati che vi scopre, tanto da tornare a ritrarli già nel 1843 e poi nel 1846. Nel frattempo percorre la campagna laziale e il Molise, e arriva sino alla Puglia. I suoi itinerari virano ormai quasi sempre verso il sud.

Durante un breve rientro in Inghilterra, nel 1846, ha l’onore di essere chiamato a Buckingham Palace dalla regina Vittoria, per un corso di disegno in dodici lezioni. Incontra qualche difficoltà con la servitù, che inizialmente, a causa della sua barba incolta e del suo aspetto trasandato, rifiuta di ammetterlo a palazzo, ma le sue lezioni vengono poi molto apprezzate. La sovrana scrive nel suo diario: “15 luglio. Ho avuto lezione di disegno dal signor Lear, che ha disegnato davanti a me e insegna straordinariamente bene”. È anche l’anno nel quale vengono pubblicati per la prima volta i limericks, che ottengono immediatamente uno strepitoso successo (anche se per qualche tempo continueranno ad essere attribuiti a Lord Derby, ed Edward Lear sarà considerato solo uno pseudonimo: cosa che in un primo momento il nostro accetta a denti stretti, salvo poi rivendicare con modalità eccentriche la propria esistenza e la paternità delle filastrocche, cominciando ad andare in giro con cappello, fazzoletto e borsa “marchiati” col suo nome).

Quella inglese, che gli procura anche le prime soddisfazioni economiche come pittore, è però solo una parentesi. I viaggi e l’Italia sono ancora lì ad attenderlo.

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Nel 1847 è dunque la volta della Calabria. Ci arriva dalla Sicilia. Ha in mente di setacciare la regione a tappeto, procedendo a zig zag da costa a costa, rigorosamente a piedi, accompagnato dall’amico John Joshua Proby, un inglese conosciuto a Roma, da una guida di nome Ciccio e da un cavallo che trasporta il bagaglio. Ad ogni tappa corrispondono uno o più bozzetti nuovi, a corredo di un taccuino che sarà poi pubblicato col titolo “Diario di un viaggio a piedi” e che è rivelatore dell’atmosfera, del clima politico, delle abitudini e dei costumi di una zona che all’epoca era senz’altro la meno conosciuta d’Italia. Ma è rivelatore soprattutto dell’intento col quale Lear si muove, la ricerca delle “più suggestive scene che si possano trovare nella bella Italia”.

Il progetto iniziale di Lear si scontra però ad un certo punto, dopo un mese e mezzo, quando ha percorso solo la provincia più meridionale dello stivale, con una situazione politica che si sta facendo pericolosa, per lo scoppio di moti che preludono chiaramente ad una insurrezione. È costretto quindi a tornare a Reggio, dove riprende per mare la via del ritorno.

L’anno dopo è comunque nuovamente per strada. Esplora l’Irpinia, l’alto Vulture e la zona di Melfi, e s’imbarca poi per l’Albania. Ancora una volta rimane affascinato dai panorami selvaggi, tanto da affrettarsi a tornare anche nella primavera del 1849. L’Albania rappresenta però in questo caso solo la tappa iniziale di un itinerario che lo porta dal Montenegro sino alla Grecia meridionale, a Malta, dove conosce Franklin Lushington, che gli sarà compagno per il resto del viaggio, alle isole dello Ionio (Zante, Itaca, Cefalonia, Corfù, ecc…) e a Costantinopoli, per poi allungarsi fino all’Egitto. Qui visita il Cairo, esplora la zona di Suez e il Sinai e risale il Nilo fino al suo tratto sudanese. È un primo assaggio, periferico, del Vicino Oriente, che visiterà in profondità e a più riprese qualche tempo dopo.

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Per il momento, a partire dal 1850 e per alcuni anni, l’attività di viaggiatore di Lear si fa meno intensa. Rientrato per l’ennesima volta in patria decide infatti di trattenervisi e di frequentare un corso pluriennale di pittura presso la Royal Academy. Vuole migliorare la sua tecnica, che ritiene ancora insufficiente, soprattutto nelle composizioni ad olio: ma ne approfitta anche per partecipare ad alcune mostre londinesi e farsi conoscere dal grande pubblico.

In realtà non riesce a stare fermo a lungo. Nel 1853, dopo aver fatto scalo a Gibilterra è infatti nuovamente in Grecia (dove ritrae le Termopili e le Meteore), e nel 1854 è ancora in Egitto, per scendere lungo il Mar Rosso sino ad Aden.

Nel 1855 procede ad un nuovo cambiamento: stabilisce infatti la sua base a Corfù. È motivato dalla prossimità dell’isola a quelle che sono le porte dell’Oriente, ma anche dall’incontro con colui che diverrà di lì innanzi il suo inseparabile compagno di viaggio, Gjergi (Giorgio) Kokalli.

Con Giorgio intraprende nel 1856 un altro intenso safari paesaggistico in Grecia. Trascorre due mesi al Monte Athos, godendosi il paesaggio ma detestando il cibo e la sporcizia e l’atmosfera dei monasteri. “Tutto così cupo, così sorprendentemente innaturale, tutta quell’atmosfera era per me così solitaria, così bugiarda, così terribilmente odiosa”. Vede tra le altre cose Smirne e il sito di Troia. Nel 1857 rimbalza invece dall’Albania meridionale a Venezia, poi all’Irlanda, e di lì a Parigi e in Germania, per rientrare infine a Corfù.

Finalmente, l’anno successivo, compie l’agognato viaggio in Palestina e in Libano. Visita Gerusalemme (che definisce immonda: “Se volessi impedire che un turco, un ebreo o un pagano diventasse cristiano, lo manderei direttamente a Gerusalemme”), poi Gerico, Petra, Baalbeck, e si sofferma a lungo sulle sponde del Mar Morto. A Petra se la vede brutta: un gruppo di palestinesi lo aggredisce, lo malmena e lo deruba. La prende con una certa filosofia: si ritiene già fortunato ad aver riportato a casa la pelle.

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Nel 1859 è ancora una volta in Albania. Torna in Grecia nel 1860, mentre nel 1861 visita nuovamente il Libano e attraversa in questa occasione la Siria, sino ai confini occidentali della Persia, dopo aver trascorso un breve periodo a Damasco. Durante il viaggio produce un’altra incredibile quantità di disegni paesaggistici, bozze per futuri dipinti.

Dopo un periodo trascorso nuovamente in Inghilterra, approfondisce nel 1861 la conoscenza dell’Italia ormai unita, spostandosi prima a Torino, poi a Firenze, Lucca e Pisa, e tornando infine in Valle d’Aosta e nell’Alta Savoia.

Nell’aprile del 1864 è a Creta (di questa visita lascerà una testimonianza pubblicata come The cretan Journal), che in precedenza aveva solo toccato. Nello stesso anno si concede poi una pausa “occidentale”, passando per Genova e Nizza e percorrendo (e ritraendo) la costa mediterranea della Francia. Ma nel 1865 lo ritroviamo a Gerusalemme, che trova “sporca e odiosa come sempre”, nel 1866 ancora a Malta, mentre nel 1867 da Costantinopoli scende per la terza volta fino all’Egitto.

Nell’aprile del 1868 visita la Corsica, dove torna anche l’anno successivo. Neanche il tempo di rientrare a Corfù e riparte ancora per l’Egitto, allungando l’itinerario fino alla Tunisia e al Sudan.

Che piacere incontrare il signor Lear 14Nel 1870 sembra deciso a mettere almeno simbolicamente radici. Si avvia ai sessant’anni, non ha mai goduto di una gran salute, anche se ha opposto ai suoi malanni, compresa la progressiva miopia, una volontà di ferro, e comincia a risentire degli strapazzi dell’incessante vagabondaggio. Sente anche il bisogno di raccogliere un po’ le idee, di riordinare e mettere a frutto l’enorme messe di materiale paesaggistico raccolto in più di un trentennio, traducendone almeno una parte in dipinti o in pubblicazioni illustrate. Negli ultimi anni ha frequentato ripetutamente, nelle pause estive tra un viaggio e l’altro, la fascia costiera che va dalla Costa Azzurra alla riviera dei Fiori, trovandovi un clima adattissimo a salvaguardare la sua salute. La elegge a sua nuova dimora, e tra i vari luoghi ameni che la riviera gli offre sceglie Sanremo, all’epoca un po’ meno mondana e chiassosa della vicina Cannes (“Sanremo è un paese quieto e stupido”). Lì si fa costruire una villa che affaccia sul mare e che prevede anche una Galleria dove raccogliere gli oltre settemila disegni cumulati. Per un anno si dedica interamente al progetto, curando minuziosamente anche gli arredi, e alla fine del 1871 può finalmente insediarvisi.

Ciò non significa tuttavia impoltrirsi: Lear non è ancora rassegnato al pensionamento e non ha rinunciato affatto a muoversi. Sfrutta ogni pausa per spostarsi, torna nello stesso anno a Roma e a Napoli e visita per la prima volta Bologna e Padova, mentre in quello successivo rientra ancora una volta in Inghilterra.

Il canto del cigno arriva col più lungo dei suoi viaggi, che lo porta a percorrere gran parte del sub-continente indiano tra il 1873 e il 1875 e a realizzare un sogno coltivato sin dall’infanzia. Lo intraprende su invito del viceré inglese Thomas Baring, un amico di vecchia data, tacitando con l’entusiasmo le rimostranze di un fisico giustamente logoro e tutte le fobie relative a malattie tropicali, animali pericolosi, insetti velenosi, clima e alimentazione pessimi, alle quali era già per natura particolarmente soggetto.

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Che piacere incontrare il signor Lear 16Non è un soggiorno da villaggio-vacanze. Lear viaggia ininterrottamente per quasi due anni, con ogni mezzo di trasporto, in treno, in barca, in carrozza, a cavallo, a dorso di cammello o arrampicato su un elefante, e naturalmente a piedi. In questi due anni, che definisce meravigliosi, visita Bombay e Lucknow, viaggia da Benaras a Calcutta e a Darjeeling, e poi a Simla, a Kasauli, a Golconda, a Coonoor, e arriva anche a Ceylon. Ha sempre con sé, oltre al fedelissimo Giorgio, il suo diario e il suo album, il primo per raccogliere nei più minuti dettagli le sue esperienze, il secondo per gli schizzi acquerellati coi quali vuole fissare le impressioni della luce e dei paesaggi naturali. Realizza oltre duemila tavole, uno straordinario reportage iconografico che ci rimanda l’immagine dell’India quale passerà poi nei libri di Kipling. Conosce momenti di stanchezza, e incidenti e arrabbiature, ma supera e liquida sempre tutto con la sua inesauribile verve umoristica.

Che piacere incontrare il signor Lear 17Dopo la lunga avventura indiana Lear si ferma davvero. O meglio, riduce drasticamente l’attività di viaggiatore, limitandosi per qualche anno ai trasferimenti estivi al Monte Generoso, una montagna al confine tra il cantone svizzero del Ticino e la Lombardia, e a qualche sempre più sporadica rimpatriata. Per il resto si dedica anima e corpo al completamento delle sue opere, agli acquarelli, che prima di morire vorrebbe vedere raccolti anche in pubblicazioni illustrate, assieme ai diari, e ai dipinti, che vorrebbe trovassero sistemazione in musei o in gallerie private. Nei primi anni Ottanta si fa anche costruire una nuova villa (che porta il nome di Villa Tennyson), sempre a Sanremo. È identica a quella precedente, alla quale nel frattempo l’edificazione di un grande albergo sul litorale ha però sottratto la vista sul mare. Giustifica questa decisione con la volontà di non far sentire spaesato il suo gatto Foss, l’ultimo compagno rimastogli, che morirà nel 1887, pochi mesi prima del suo padrone. Lear muore infatti nel gennaio 1888, per una malattia cardiaca dalla quale era affetto da qualche tempo. Secondo la testimonianza di una conoscente, il suo funerale è una cerimonia mesta e solitaria: non gli è rimasto nessuno. È sepolto a Sanremo: sulla sua tomba, sotto la scritta “Landscape painter” sono riportati i versi di Tennyson che ho citato in esergo: accanto ad essa, vicinissima, ce n’è un’altra, che reca incisi i nomi dei suoi due fedeli servitori, Giorgio e Nicola Cocali, padre e figlio. In realtà questa ospita i resti solo del secondo, che ha preceduto Lear di qualche anno.

Ecco riassunto per sommi capi l’ininterrotto vagabondare di Edward Lear. Vorrei ora dedicare un paio di riflessioni allo spirito col quale i vagabondaggi Lear li ha vissuti, e alle opere, pittoriche e non, che ne ha derivato. Nessuna velleità critica o psicanalitica. Solo qualche considerazione a caldo, e da fermo, dopo tanto andirivieni.

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L’uomo

Come ho già anticipato, Lear ha fatto dell’umorismo e dell’autoironia lo scudo dietro il quale trovare riparo da una condizione esistenziale disagevole. Era timidissimo, non si accettava perché si percepiva diverso – per molti aspetti effettivamente era tale – e cercava di farsi accettare dagli altri chiamandosi fuori dalla competizione, assumendo atteggiamenti eccentrici e buffoneschi. È significativo che dopo aver casualmente colto la conversazione di due suoi connazionali, che lo definivano “uno sporco pittore di paesaggi”, abbia poi adottato quella definizione nelle autorappresentazioni. Allo stesso modo, nella poesia dal titolo “By way of preface” (A mo’ di premessa) che allego in calce a questo schizzo biografico, si presenta con tratti sia fisici che psicologici grotteschi:

Che piacere incontrare il signor Lear 19… alcuni pensano che sia scorbutico e strano
… piange sulla riva dell’oceano,
piange in cima alla collina …
ha un grosso naso,
un viso più o meno orrendo,
una barba che somiglia a una parrucca …
un corpo perfettamente sferico …

Minimizza anche le proprie capacità: non accenna al disegno e alla pittura e scrive “legge ma non parla lo spagnolo …”, mentre in realtà sembra sapesse parlare e scrivere correntemente in sette lingue, compresi il greco e l’albanese. Fonda insomma la difesa sul gioco d’anticipo.

La sua vicenda si inserisce perfettamente nel novero di quelle dei “disagiati”, dei “quasi adatti” che sono andato rincorrendo nei miei modesti tentativi di divulgazione biografica. Nel suo caso (ma a ben vedere, in quasi tutti i casi che ho scelto) il disagio si è manifestato precocissimo, e sembra poter essere attribuito a cause ben individuabili.

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Lear soleva dire che il suo problema era stato l’essere allevato da donne, “e per giunta male”. Credo cogliesse nel segno. In effetti era cresciuto in un ambiente quasi esclusivamente femminile, con sorelle maggiori che cercavano in primo luogo di educarlo a un cristianesimo evangelico (dal quale avrebbe presto preso le distanze), e di trasmettergli poi quel poco che a loro stesse era stato riservato: un minimo di conoscenza degli autori romantici, una rudimentale istruzione musicale e artistica (quest’ultima limitata naturalmente al disegno e all’acquarello). Soprattutto badavano però a difenderlo dalle offese che la vita o i suoi coetanei potevano arrecargli, e per questo motivo non gli avevano fatto frequentare scuole regolari e lo avevano tenuto lontano dall’attività fisica e, come diceva lui, “da ogni esercizio virile”. Il che da un lato lo aiutò senz’altro a svilupparsi secondo le proprie inclinazioni, ma dall’altro gli creò non pochi problemi ad emanciparsi, a uscire dalla bolla protettiva entro la quale era rimasto tanto a lungo immerso. In effetti, non ne uscì mai.

Che piacere incontrare il signor Lear 22L’attaccamento nei confronti della sorella Ann era quasi morboso. Quando era in viaggio Edward le inviava regolarmente, almeno ogni quindici giorni, lettere piene di espressioni affettuose, di pettegolezzi, di frivolezze e di umorismo, per rassicurarla sulla sua salute e sul suo benessere psicologico. Dal canto suo quest’ultima, che non si sposò mai e aveva assunte in toto mansioni e ansie materne, sembra aver trovato in questo ruolo la compensazione per una vita avara di altre soddisfazioni. Riversava su Edward tutto il suo amore e pretendeva di riceverne da lui altrettanto, e in esclusiva. Voleva essergli necessaria, e non mancava di farglielo sentire. Lear ne era assolutamente condizionato, ciò che spiega probabilmente la sua tendenza a mantenere anche nella maturità un comportamento bambinesco. Scriveva: “Mi ha cresciuto fin dalla più piccola infanzia e quando se ne andrà, tutta la vita cambierà completamente”. In realtà, non riuscì mai a cancellare la compulsione al gioco, che forse era già in parte insita nel suo carattere, ma che indubbiamente in quella anomala sfera famigliare era stata incoraggiata. Lear in fondo conosceva solo quel modo per attirare l’interesse e l’attenzione, e semplicemente lo trasferì dalla sorella al suo pubblico.

Non è necessario essere psicologi per capire quanto questa dipendenza, e la voglia di uscirne, possa aver influito sui suoi orientamenti affettivi. Lear era costantemente in cerca di una persona che potesse rinnovare in una dimensione matura il rapporto affettivo e le attenzioni speciali goduti nell’infanzia. Naturalmente era destinato a non raggiungere mai questa realizzazione romantica, né con un uomo né con una donna. Ebbe molte importanti amicizie maschili, con i coetanei che di volta in volta lo accompagnarono nei viaggi in Italia, in Grecia e in Oriente, e anche con artisti come William Holmar Hunt o poeti come Alfred Tennyson. Ma dubito che il rapporto si sia mai spinto oltre i confini dell’amicizia virile. Nei libri di viaggio dell’Ottocento, soprattutto in quelli inglesi (ma non solo), rapporti di questo tipo sono quasi la regola (si pensi ad esempio a Von Humboldt e Bompland).

Che piacere incontrare il signor Lear 23Per Lear si può parlare con certezza di un innamoramento solo nei confronti di Franklin Lushington, col quale girò la Grecia, ma che ricambiava con molto minore entusiasmo i suoi sentimenti. I due rimasero amici per tutta la vita, anche se Edward soffrì molto il non essere totalmente corrisposto (e forse fu questo sempre il suo problema: coltivava aspettative di trasporto e di esclusività troppo alte). Ebbe anche tentazioni nei confronti dell’altro sesso, sia pure sempre solo vagheggiate e non espresse, e fu sul punto di chiedere in sposa un’amica di vecchia data, Augusta Bethell, che probabilmente avrebbe accettato di sposarlo: ma in questo caso incontrò l’opposizione ferma della sorella Ann.

Per farla breve, nella vicenda di Lear torna un tema che ho già affrontato più volte (cfr. La più grande avventura, o Humboldt controcorrente, oppure, ultimamente, Sven o della solitudine), e sul quale un’eccessiva insistenza rischia di apparire morbosa. Vorrei chiuderlo con un paio di argomentazioni sin troppo semplici, ma che a me paiono già più che esaustive.

Che piacere incontrare il signor Lear 24Non sono particolarmente raffinato nell’analisi dei sentimenti, ma il fatto che buona parte dei personaggi, sia maschi che femmine, incontrati nel corso delle mie ricerche sui viaggi fossero omosessuali non mi sembra affatto casuale. Non penso naturalmente che tra le due cose esista una correlazione genetica, che si tratti degli esiti complementari di un determinismo biologico: non tutti i grandi viaggiatori sono omosessuali e non tutti gli omosessuali sono grandi viaggiatori. Esiste invece una consequenzialità indotta dalle condizioni esistenziali, o per meglio dire delle pressioni ambientali, che spingono chi non si sente in sintonia con gli orientamenti sessuali della società e dell’epoca cui appartiene a cambiare aria, sia per poter esprimere liberamente i propri senza incorrere nella riprovazione, quando va bene, o nell’emarginazione, o addirittura nella criminalizzazione, sia per evitare l’imbarazzo o il rifiuto o la costrizione da parte della propria cerchia famigliare. Questo vale in modo particolare nell’Ottocento, in società come quella vittoriana e più in generale negli ambienti del puritanesimo nordico. Nella gran parte dei casi la rottura non è definitiva, nel senso che i fuggiaschi continuano a lottare con se stessi nel tentativo di reprimere, di negare questa “identità”; ma la resistenza si fa meno ferma col crescere delle distanze e al contatto con società sotto questo aspetto più disinibite o tolleranti. A volte invece, soprattutto verso la fine dell’Ottocento e nella prima metà del secolo successivo, la scelta del viaggio è già mirata a trovare gli ambienti ideali per abbandonarsi senza remore ai propri istinti sessuali (vedi le “colonie” inglesi in Spagna o nell’Italia meridionale, da Samuel Butler e Norman Douglas, a Auden e Isherwood). Le cose sono evidentemente cambiate nella seconda metà del Novecento, perché le motivazioni di cui sopra sono venute meno.

Tutto questo mi pare assodato: ma ci tengo a ribadire che sono sempre esistite anche forme di amicizia virile che non comportano necessariamente implicazioni sentimentali o sessuali, e che gran parte dei rapporti che oggi vengono letti in questa chiave, quasi a volerli liberare da un velo di ipocrisia che era stato a suo tempo loro imposto, in realtà non erano affatto vissuti come tali dai loro protagonisti. Ovvero, che l’amicizia, la solidarietà, il cameratismo, esistevano ed erano coltivati come valori spirituali in sé. Non so fino a che punto e in che modo Lear sia stato capace di viverli, ma certamente li ha desiderati e cercati per tutta la vita.

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Il viaggiatore

In questi termini ho interpretato dunque il pressante e costate impulso a viaggiare di Edward Lear. Il nostro protagonista arrivava da un’infanzia che la premura sororale cercava di prolungare, spingendolo ad esprimersi e a comportarsi in maniera fanciullesca e impedendogli di diventare un uomo. Viaggiare per lui era allo stesso tempo una fuga dalla sua inadeguatezza a rapportarsi con gli altri e la ricerca della maturità in una relazione perfetta con un altro essere umano.

Che piacere incontrare il signor Lear 26Naturalmente sono poi intervenuti altri fattori. La passione per il paesaggio lo ha incoraggiato ad essere un viaggiatore, in qualche modo anche un esploratore, e non solo un turista. La decisione di diventare un paesaggista itinerante Lear la faceva derivare dai suoi malanni, ai quali mal si addiceva il clima britannico, e soprattutto dal costante peggioramento della vista, che non gli consentiva più di riprodurre con la precisione di un tempo i dettagli richiesti dalle illustrazioni ornitologiche: “Devo dirti che i miei occhi hanno subito un notevole peggioramento — soprattutto quando mi dedico a piccoli disegni zoologici variopinti, — e in effetti quanto meno rimango seduto tanto meglio è, sia per i polmoni che per gli occhi” scriveva già poco più che ventenne.

Che piacere incontrare il signor Lear 28Per viaggiare Lear dovette vincere una serie notevole di handicap, sia fisici che psicologici. Se c’era una persona apparentemente poco attrezzata per questa attività, quella era proprio Edward Lear. Alla debolezza della salute (che peraltro l’aspetto fisico mascherava, perché era alto e grosso, “con spalle di larghezza pari a quelle di Ulisse”, e portava una folta barba che lo faceva apparire ancora più imponente) univa un’incredibile serie di fobie, che andavano dal terrore per i cani (“Cani di ogni specie, piccoli e soprattutto grandi, erano il suo terrore di giorno e notte”, scrisse William Holman Hunt) all’orrore per i cavalli, alla paura dei rivoluzionari (“li considerava dei demoni al servizio di Belzebù”), alla ripugnanza per gli insetti e al disgusto per le navi e per i viaggi in mare.

Che piacere incontrare il signor Lear 31In effetti, dai suoi diari non viene fuori un compagno di viaggio ideale. Ne aveva sempre una: una volta è stato sbalzato da un cavallo imbizzarrito e ha rimediato una contusione alla spalla, un’altra è stato morso ad una gamba da un orrendo millepiedi, o da qualcosa di simile, e l’arto s’è gonfiato; un’altra ancora ha dimenticato l’ombrellino e si è beccato un’ustione da sole: a Creta è stato inseguito da una incavolatissima capra e ha rischiato l’infarto. Insomma, incidenti comuni per i viaggiatori dell’epoca, che tendevano però a minimizzare o a non parlarne affatto, mentre Lear nelle contrarietà sembrava crogiolarsi.

Lo stesso Hunt scriveva però: “Era un ragazzo dolce e poco combattivo, che avrebbe preferito essere ucciso che usare una pistola, ma era allo stesso tempo l’essere più caparbio nell’affrontare il pericolo”. Come uno così, di costituzione massiccia, affetto da asma, bronchite e epilessia, abbia potuto affrontare tutti i viaggi che ho raccontato è quasi incredibile: significa che dietro quell’ indole così mite e paurosa c’erano in realtà un coraggio e una determinazione sorprendenti. Lo dimostra il fatto che la paura di navigare non gli impedì di girare in lungo e in largo nell’Egeo e nel Mediterraneo, e di sfidare anche, in età avanzata, l’oceano Indiano. E quella dei cavalli di percorrere, a cavallo appunto, l’Abruzzo, l’Albania e mezza Italia meridionale.

Che piacere incontrare il signor Lear 29In effetti Lear era tutto un groviglio di contraddizioni. Al momento in cui decise di mettersi per il mondo le condizioni in cui si svolgevano i viaggi, segnatamente nei luoghi in cui si aggirò per trent’anni, erano tutt’altro che allettanti. Trasporti lentissimi e disagevoli, strade insicure, banditi, malattie, luoghi di sosta squallidi e spesso disgustosi. Di tutto questo si lagnava continuamente e lo annotava nei suoi diari, ma non rinunciò mai a portare avanti i suoi progetti. Lamentava la scomodità e la lentezza delle carrozze, ma programmava poi lunghissimi itinerari a piedi. Dove possibile si procurava lettere di presentazione e contava sull’ospitalità dei locali, ma era poi pronto ad affrontare anche i bivacchi, o a dormire nelle stalle.

Che piacere incontrare il signor Lear 30Non era comunque il tipo di viaggiatore che cerca grosse emozioni, se non quelle traducibili in immagini pittoriche. All’occorrenza si adattava, sia pure con qualche mugugno, ma in linea di principio non intendeva rinunciare ad un minimo di comodità e di accorgimenti. Scriveva: “Il viaggiatore dovrà munirsi di una buona scorta di utensili da cucina, piatti di stagno, coltelli e forchette, bacinella, e poi di un materassino leggero, lenzuola e federe, mantelli e coperte. Due o tre libri. Strumenti per il disegno, meno vestiti possibile. Chinino, indispensabile. Riso, curry, pepe”.

Al cibo prestava una particolare attenzione. Gli dava anche un valore simbolico, nel senso che nella sua condivisione vedeva un’espressione di genuina amicizia, mentre scorgeva nella golosità (compresa la propria) un esecrabile atteggiamento egoistico. Non a caso anche nei limericks i golosi finiscono sempre puniti.

Nelle pagine dei suoi ultimi diari sono comunque annotati giorno per giorno tutti i pasti, sempre accompagnati da un giudizio o da un commento. Vale in occasione dell’ospitalità sontuosa riservatagli nelle nobili dimore degli aristocratici calabresi, degli sceicchi egiziani o dei rajah indiani come per quella parca offertagli da umili famiglie contadine o dai pastori albanesi, oppure per le soluzioni gastronomiche inventate nei momenti di necessità. In viaggio per Salonicco, ad esempio, si ritrova ad un certo punto in una zona della costa completamente disabitata, senza nulla di commestibile a disposizione: “Cominciammo a riflettere come Giorgio potesse cuocere le grosse meduse che venivano rigettate dal mare. Trovammo anche un paio di granchi: proposi allora, visto che c’era una gran quantità di more nei paraggi, di far bollire le meduse con la gelatina di more e di arrostire i granchi con un goccio di rhum e mollica di pane, una prelibatezza culinaria”. Oggi gli verrebbe offerta una rubrica gastronomica televisiva.

Che piacere incontrare il signor Lear 32In India sembra determinato a scrivere una guida Michelin. A Benares gli servono “zuppa buona, e un pollo bollito con riso appena tollerabile. Nient’altro però che fosse commestibile, montone crudissimo, anatre stufate dure. Faccio eccezione, però, per un budino di pane e burro”. A Darjeeling apprezza un ottimo pasto a base di cotolette di pollo fritte e buone patate arrosto, un’alzavola fredda arrosto e due bottiglie di soda. A Delhi invece il pasto è misero: “uova, agnello freddo, pane e sherry freddo”, mentre a Simla “lo stufato irlandese era rovinato dal troppo pepe ma le patate erano deliziose. Queste persone hanno patate paradisiache, le migliori della vecchia Inghilterra”.

Che piacere incontrare il signor Lear 33È di una golosità davvero bambinesca, che si rivela anche nell’uso costante di metafore o di immagini relative al cibo nella sua scrittura più confidenziale, nelle poesiole come quella già citata (“Compra frittelle e lozioni, / e gamberetti di cioccolata al mulino”) o nella corrispondenza, quando buffoneggia in favore degli amici e soprattutto delle amiche. Le lettere, dice, sono l’unica gioia della vita “a parte le sardine e le omelette”. La sua speranza per il post-mortem è un posto in mezzo agli alberi e ai fiori dal quale si vedano il mare, le colline, le pianure le montagne, e nel quale i pasti saranno cucinati dai cherubini. Non devono però esserci galline: “No, nessuna! Io ho rinunciato alle uova e alle galline arrosto per sempre!”.

Per il resto, le lettere inviate ai corrispondenti inglesi e i diari che diligentemente aggiorna offrono l’impressione di un atteggiamento sempre leggermente sfalsato rispetto alle situazioni che vive. È minuzioso e preciso nelle descrizioni, ma sembra non essere granché scalfito dagli avvenimenti. Ad esempio, gli capita a Civita Ducale di essere scambiato da un “carabiniere” addirittura per il ministro degli Esteri inglese Palmerston, e di essere tratto in arresto (gli inglesi in quel periodo non erano molto popolari nel reame borbonico). La vicenda si risolve velocemente in positivo, per l’intervento di un conoscente, senza il quale però avrebbe potuto prendere una piega spiacevole: ma nella penna di Lear diventa solo il pretesto per un quadretto umoristico: «La nobiltà si impone a certe persone. Nonostante tutte le mie rimostranze, egli aveva deciso che io dovessi essere il Visconte Palmerston. Non c’era niente da fare, così fui fatto trottare ignominiosamente per la via principale, mentre a tutti quelli che erano sull’uscio o alla finestra il carabiniere urlava: “Ho preso Palmerstoni!” Per fortuna Don Francesco Console stava facendo una passeggiata e ci incontrò. A questo punto seguì una scena di scuse per me e di rimproveri per il militare, che si ritirò sconfitto. Così, invece di andare in prigione, tornai a Rieti che era già notte».

Nel suo atteggiamento, però, forse proprio in forza della disposizione un po’ stranita, non c’è mai ombra di un qualche pregiudizio razziale. Si lamenta, si stupisce dei costumi, si meraviglia, ma non giudica, se non in base a criteri vagamente estetici. E anche quando non può fare a meno di rilevare i segni della miseria e dell’arretratezza, non è mai troppo severo; guarda con occhio in fondo benevolo una realtà sociale molto povera, le condizioni di disagio derivanti dalla mancanza di strade, l’isolamento che pare aver fermato il tempo in quelle contrade. Quell’isolamento e quella povertà avevano consentito in effetti la conservazione integrale degli aspetti naturali primordiali di cui andava in cerca e che tanto lo affascinavano.

Ciò non significa che i suoi diari e i disegni che li corredano ci trasmettano un’immagine idilliaca, trasfigurino la realtà: al contrario, proprio questa “estraneità” del soggetto narrante ci offre una fotografia la più realistica e la più veritiera. Che era poi l’intento di fondo della sua poetica pittorica.

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Il pittore

Nel 1886 John Ruskin collocava Lear in testa all’elenco dei suoi artisti preferiti. Era una stima di ritorno, perché poco tempo prima Lear lo aveva ringraziato “per avermi, con i tuoi libri, indotto a usare i miei occhi per guardare al paesaggio di un periodo che risale a molti anni fa”: ma esprimeva un apprezzamento sincero. Lo stesso Ruskin aveva infatti appuntato sulla lettera ricevuta da Lear “E questo sarebbe il poeta delle sciocchezze?

Si può senz’altro dire che Lear sia stato almeno negli intenti l’interprete più fedele delle teorie del suo eminente connazionale sul senso e sul valore della pittura. Ne condivideva appieno le idee sulla “conservazione”, solo che anziché applicarle al restauro e alle rovine le estendeva a tutto l’insieme del paesaggio, in particolare di quello naturale. Era tutt’altro che un innovatore (e non solo in campo artistico). Temeva e detestava ogni forma di rivoluzione, e non era attratto dalle nuove correnti artistiche, anche quando queste professavano un recupero dei canoni estetici del passato. Attraverso l’amicizia con Hunt ebbe contatti con l’ambiente dei preraffaelliti, ma non se ne lasciò influenzare. E anche se ammirava moltissimo la pittura di Turner, rimase sempre legato alla scuola paesaggistica inglese dei primi decenni dell’Ottocento, e continuò a dipingere delineando con precisione i contorni degli oggetti e tenendo ben separati i campi del colore.

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Nel rapporto con la propria arte Lear viveva la stessa girandola di contraddizioni che segnò ogni altro aspetto della sua esistenza. Coltivava nell’intimo l’ambizione di essere riconosciuto come un grande paesaggista, ma al tempo stesso era consapevole (come già abbiamo visto) dei propri limiti. Provò a superarli attraverso la disciplina, la diligenza, la volontà, ma questo ne condizionò pesantemente la vivacità e l’immediatezza rappresentativa. I quadri ad olio, ai quali affidava la sua gloria futura, e che all’epoca erano discretamente apprezzati, appaiano oggi, ad uno sguardo educato a modelli estetici “moderni”, piuttosto anonimi e convenzionali. E in fondo già negli ultimi anni, quelli dell’isolamento sanremese, era costretto a constatare come l’apprezzamento dei critici e del pubblico si andasse alquanto raffreddando. La cosa lo amareggiava, ma non la visse come una sconfitta.

Lui stesso infatti precisava, un po’ per mettere com’era suo costume le mani avanti, ma senz’altro anche per un sincero convincimento, i limiti del suo impegno artistico. Il suo proposito era di fare bene ciò che stava facendo, che è qualcosa di diverso dal creare capolavori: perseguiva piuttosto una sorta di mappatura per immagini del mondo, almeno di quello che aveva attraversato. Una sorta di grande reportage pre-fotografico. Scriveva: “Mi piacerebbe, diventando vecchio (se questo avverrà), elaborare e completare la mia vita topografica, pubblicando tutti i miei diari illustrati e le illustrazioni di tutti i miei dipinti: perché dopotutto, se uno dedica la propria esistenza a qualcosa e non è un perdigiorno, quello che fa deve avere pur sempre un valore, se non altro il valore della perseveranza”.

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Al contrario di quanto sarebbe avvenuto per la sua pittura “professionale”, nei confronti dell’immensa produzione di schizzi e di acquarelli, quelli che l’autore considerava solo come appunti o come materiale da trasferire in un secondo momento in bella copia, è maturato col tempo un notevole interesse. Intanto perché queste immagini non solo denotano una notevole competenza tecnica, ma sono animate dall’urgenza di catturare e fissare sul foglio un sentimento di stupore e di ammirazione, e quindi esprimono una felice libertà espressiva. Poi perché effettivamente ci consegnano l’estrema testimonianza visiva di un mondo destinato a sparire di lì a poco, realizzata da chi aveva consapevolezza che nulla più sarebbe stato come prima. “Lontano, sotto di noi, c’era Casalnuovo, una delle città che sono state ricostruite dai frammenti del fatale periodo di devastazione […]. Situata sopra la piana, questo moderno e poco pittoresco successore della prima città presenta strade lunghe, affiancate da case basse a un piano, con chiare tegole rosse e nessun lato della sua composizione offre qualcosa da ammirare o caratteristiche pittoresche” scrive nel suo diario del viaggio in Calabria. E ancora: “[…] siamo saliti a Terranova, una volta la più grande città del distretto, ma completamente distrutta dal terribile disastro del 1783. La vecchia città, completamente distrutta, è seppellita negli abissi e sotto spaccature e vallate, e la sua erede è formata da una singola sbandata strada con umili case di apparenza malinconica”. In alcuni casi, come quello degli acquarelli realizzati in Albania, si tratta davvero delle uniche attestazioni visive rimaste di monumenti ormai scomparsi (come, ad esempio, l’acquedotto di Girocastro).

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Che piacere incontrare il signor Lear 37Le immagini sbozzate da Lear presentano una stupefacente precisione topografica, e al tempo stesso si sottraggono ad ogni vincolo accademico. Conservano la vivacità e la forza comunicativa di ciò che non viene dipinto per compiacere i critici o la clientela, ma per rispondere di getto all’emozione suscitata da scorci inimmaginabili, e conservarne memoria. Durante il cammino Lear tracciava rapidi schizzi a matita, che completava poi in studio ripassandoli ad inchiostro e stendendo i colori in grandi campiture. Anche in queste bozze era molto attento alla precisione nei volumi e nelle relazioni prospettiche, e a cogliere nei limiti del possibile i particolari. Rappresentava paesaggi quasi sempre deserti, e se talvolta inseriva minuscole figure umane era solo per far risaltare le proporzioni degli elementi architettonici o paesaggistici. Questa scelta era in parte dettata dal fatto che Lear si sentiva scarsamente dotato nella rappresentazione di figure umane, anche se nei diari dimostra una notevole attenzione a cogliere le particolarità dei costumi e dell’abbigliamento. C’era tuttavia, a monte, una motivazione meno contingente: il realismo delle sue vedute passava infatti già all’origine per il filtro dell’idealità, e in un mondo ideale, come nelle città ideali del Rinascimento, gli umani sono solo scorie, e rimangono nel colino. Lear non li butta, ma li spedisce in un altro mondo, quello del nonsense.

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Rinascesse oggi, Lear sarebbe senz’altro sorpreso del ribaltamento dei valori attribuiti alle sue opere. E probabilmente anche parecchio deluso. Già in vita comunque aveva dovuto abituarsi al fatto che la sua notorietà fosse legata ai limericks piuttosto che all’opera pittorica. La cosa lo irritava, e non sopportava i “volgari sconosciuti” che si recavano presso il suo studio non per ammirare i quadri ma per conoscere l’autore del Nonsense Book. Chissà cosa avrebbe pensato nel vedere che persino le caricature abbinate alle sue filastrocche erano destinate a sopravvivergli meglio dei suoi dipinti.

Che piacere incontrare il signor Lear 39In effetti, più o meno inconsapevolmente Lear ha esercitato il suo talento su due piani diversi. Sul primo c’era il lavoro diligentemente e pervicacemente svolto di ricerca e di rappresentazione del “pittoresco”. Il pittoresco, colto nella scala del campo lungo, del panorama, si pone al di fuori del tempo e della storia, esclude dalla visibilità il movimento e ogni attività umana di trasformazione. Ciò gli consentiva di estraniarsi da un presente caotico nel quale non viveva a proprio agio e da un mondo che lo escludeva, e di rifugiarsi in una dimensione nella quale anche le architetture si fondevano nella perennità e immutabilità naturale: i disegni e gli acquarelli (soprattutto i primi) sono l’espressione genuina del suo ammirato stupore per un sublime che non è mai drammatico, che infonde un senso di tranquillità e di superiore equilibrio.

Sull’altro piano c’è invece la creazione di un universo parallelo, incoerente e deforme, ma di una deformità che viene riscattata dalla esagerazione caricaturale, e che attraverso l’iperbole perviene a una sua bellezza. Era un mondo nel quale anche la sua diversità trovava spazio e si confondeva, perché le regole della “normalità” erano sospese, e persino irrise. Un’utopia strampalata, che tra l’altro gli consentiva comunque di rappresentare gli umani senza farsi problemi per la sua scarsa abilità. E al tempo stesso era una terra di nessuno, avulsa da ogni connotazione di tempo e di spazio, da ogni convenzione nei rapporti, da ogni necessità utilitaristica. Non a caso le figurine caricaturali si muovono in uno spazio vuoto, senza una linea di panorama e senza alcuno sfondo, naturale o architettonico. Lì il simpatico signor Lear, al pari di tutti gli altri personaggi, non è mai fuori posto, semplicemente perché non c’è un posto al quale stare, un rango, una classe sociale. E quindi non prova paure, non teme punizioni, non deve travestirsi o nascondere i suoi malanni e le sue debolezze. I personaggi che animano queste “vignette” si abbandonano alla pura follia, mangiano esageratamente e bevono come trogoli, vestono abiti bizzarri ed enormi cappelli, fanno le cose più insensate. Anticipano in fondo la dimensione surreale dei cartoni animati della Warner: sfuggono ad ogni logica non contrapponendosi, ma prescindendone.

Dunque, nel il mondo che vien fuori dai versi e dalle figurine dei limericks non c’è alcuna denuncia, nessuna intenzionalità satirica: Lear non è apparentabile né al Goya dei Capricci né a Swift (lo si potrebbe accostare semmai al suo contemporaneo francese Granville, autore di Un autre monde, edito giusto un paio d’anni prima del Book of Nonsense). È tutta un’altra dimensione, libera non solo dai condizionamenti ma anche da risentimenti, orrori, amarezze e rivendicazioni. Contempla tutte le immaginabili potenzialità di movimento che si offrono a una mente fervida e a uno spirito fuggiasco: compresa quella di andare a “far capriole” oltre lo specchio.

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Lo scrittore

Che piacere incontrare il signor Lear 42Le capriole, con le idee e con i versi, oltre che con le immagini, e anche con le sue strampalate missive, Lear continuò a farle sino alla fine. Non arrivò mai a considerarsi uno “scrittore”, ma in compenso scrisse moltissimo. Soprattutto diari di viaggio (quaranta volumi, sei dei quali pubblicati in vita) e lettere (in vecchiaia ne scriveva fino a venti al giorno), oltre naturalmente alle “sciocchezze”, i nonsense ai quali deve in effetti la sua maggiore fama.

I diari erano concepiti a supporto dell’opera pittorica, per fornire una cornice ai disegni, agli acquarelli e ai quadri ad olio. Con l’andar del tempo acquisirono però sempre più una valenza autonoma, e la mantengono tutt’oggi non solo per il valore documentario, ma anche per la qualità stilistica. Lear scriveva bene, in uno stile necessariamente sobrio, dettato dalle condizioni in cui redigeva i suoi taccuini: era obbligato a cogliere e a trasmettere l’essenziale, senza abbandonarsi ad enfatizzazioni romantiche. Il verso di Tennyson (… ho letto e ho sentito di essere lì) sintetizza perfettamente il risultato che otteneva.

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Poi, naturalmente, davanti a certi fantastici spettacoli naturali non poteva semplicemente tirar dritto: emerge ripetutamente la sua particolare sensibilità per i colori, ricompare il giovanissimo illustratore naturalista che coglie il dettaglio, urge la necessità di associare alle immagini mute quelle sensazioni fisiche e quelle emozioni spirituali che non possono essere affidate alla matita, e che persino la penna ha difficoltà ad esprimere: “Le descrizioni di questo posto meravigliosamente incantevole sono semplicemente sciocche, poiché nessuna parola può descriverlo affatto. Che giardino! Che fiori!… effetti di colore assolutamente sorprendenti, il grande centro dell’immagine è sempre il vasto Taj Mahal bianco avorio scintillante, e l’accompagnamento e il con trasto del verde scuro dei cipressi, con il ricco giallo verde degli alberi di ogni tipo! e poi l’effetto degli innumerevoli voli di pappagalli dal verde brillante che svolazzano come smeraldi vivi; e delle poincianne scarlatte e di innumerevoli altri fiori che risplendono luminosi nel verde scuro!

Che piacere incontrare il signor Lear 44Al di là di questo, però, e della puntigliosa descrizione dei menù, la presenza di Lear nei diari è tutt’altro che invadente, così come nei suoi quadri e nei suoi disegni. Lo sguardo è quello del vedutista, costantemente rivolto all’esterno. E se anche paga tributo al sentire romantico, lo fa con estrema discrezione. “Durante la notte, la distesa del lago era calma e lucente, che sembrava d’argento, sotto la finestra del palazzo al chiarore della luna piena; l’antico castello proiettava le sue lunghe ombre sulla città addormentata. (A Celano, in Abruzzo, a fine agosto del 1843)

E tuttavia Lear riesce a speziare anche la narrazione “oggettiva” di un humor sottilissimo, tutto particolare, che consente di guardare alle stravaganze umane con tollerante e divertita benevolenza, e di comprendere le ragioni altrui, anche quando sono lontanissime dalle proprie. “All’ora del pranzo, il bravo vecchio Don Giovanni Rosa ci ha divertiti e intrattenuti con la sua amabile semplicità e buona educazione. Lui è stato solo una volta in vita sua (ed ha 82 anni) a Gerace, e mai più in là. «Perché dovrei andare?» ha detto, «Se, quando morirò, come dovrò ben presto, troverò il Paradiso come Canolo, sarò molto felice. Per me «Canolo mio» è sempre stato come un Paradiso — sempre mi sembra Paradiso, niente mi manca”. (A Canolo, in Calabria)

I diari non contraddicono insomma lo spirito riversato nella scrittura più “disimpegnata”, quella dei nonsense e delle lettere. Potremmo anzi considerare i limericks come l’equivalente letterario degli schizzi paesaggistici. Sono scorci tratteggiati in versi con immediatezza e rapidità: la differenza sta nel fatto che ritraggono un altro mondo, quello al quale accennavo nelle pagine precedenti. La formula poetica mista, parole più immagini, non è stata inventata da Lear, esisteva già da tempo, ma Lear l’ha consacrata e codificata, facendone un genere. E facendolo al momento giusto. Il particolare successo dei Nonsense Book è infatti dovuto anche all’essere apparsi attorno a metà Ottocento, in coincidenza con l’avvio di uno straordinario sviluppo dell’editoria illustrata di massa, reso possibile dall’invenzione della litografia e dal perfezionamento delle tecniche di riproduzione da incisione.

Nel mondo del nonsenso Lear ci sguazzava; lì poteva dare sfogo a tutta la sua autoironia e, una volta superato il disappunto per un successo che non arrivava da dove avrebbe voluto, anche la sua vanità. Si divertì sino alla tarda età a rappresentarsi caricaturalmente in termini quasi dispregiativi, anche quando il suo carattere era diventato più aspro e irritabile, accentuando gli aspetti giullareschi, sia nel fisico (il naso enorme, gambe lunghe e sottili come quelle degli insetti) che nell’abbigliamento e nel comportamento (la palandrana bianca, la postura da danzatore agitato, costantemente librato in aria). L’essere riconosciuto e quasi idolatrato come il divertente Mr. Lear non gli spiaceva affatto. “È strano” scriveva ad un amico, dopo il successo immediato di More Nonsense (pubblicato nel 1871), “io sono l’uomo che sta facendo ridere tutte assieme tre o quattromila persone in Inghilterra”.

Che a quel successo ci tenesse molto più di quanto fosse disposto ad ammettere lo dimostra il fatto che continuò, sia pure dopo un quindicennio di silenzio, a scrivere e a pubblicare “sciocchezze”. A differenza dei primi Limericks, i successivi due volumi (Nonsense Songs e More Nonsense, pubblicati rispettivamente nel 1870 e nel 1872) contengono poesie e canzoni più lunghe e più complesse, tra le quali “The Owl and the Pussy-cat” (Il Gufo e la Gattina), destinata a diventare popolarissima non solo nel mondo anglosassone. È ancora Lear, ma un Lear più pensoso e a tratti addirittura malinconico, che sembra voler “nobilitare” le sue Sciocchezze stupendo il lettore con le invenzioni linguistiche. I limericks sono ormai diventati un gioco per adulti, e per adulti linguisticamente molto raffinati.

Nelle ultime composizioni è anche più accentuato il contrasto tra gli eccentrici protagonisti, che sono sempre individui soli, e i non meglio specificati “loro”, la folla anonima dei conformisti che li deride e li perseguita. L’unica affinità Lear sembra trovarla ormai solo con gli animali, fatta eccezione naturalmente per i sempre odiatissimi cani. D’altro canto, proprio con gli animali aveva iniziato la sua carriera artistica.

Che piacere incontrare il signor Lear 45Nella corrispondenza si può dire che Lear prosegua l’opera di caricaturista con altri mezzi. Voleva essere brillante con gli amici e con i congiunti, rimanere all’altezza della fama di eccentrico conquistata coi limericks, e sapeva che ormai i suoi corrispondenti si attendevano da lui proprio quello: non delle informazioni, ma delle stravaganze. Questo accadeva anche nelle lettere alle sorelle, e dopo la scomparsa di queste nel carteggio con Emily Tennyson, la moglie del poeta, divenuta la sua più intima confidente: ma era la norma in quelle ai suoi amici più cari, soprattutto ad uno dei destinatari più frequenti, quel lord Carlingford col quale era in già rapporti prima della pubblicazione dei nonsense. Nell’ultima fase della sua vita, però, la cosa gli prese la mano, e il suo umorismo stravagante divenne quasi manierismo.

Le prime sono lettere di questo tenore: “Andare su e giù per le scale mi preoccupa, e io penso di sposare qualche gallina e poi di costruirmi un nido su una pianta d’ulivo da dove vorrei scendere soltanto a lunghi intervalli nel resto della mia vita”, e immagino che per un po’ abbiano divertito chi le riceveva. Ma quando da Sanremo, dove un Lear sempre più stanco e scorbutico si era rintanato, partivano missive nelle quali il gusto per il gioco non riusciva più a mascherare la tristezza e ad attenuare la tensione, penso che l’effetto fosse solo di malinconico disagio. Pochi anni prima di morire scriveva a lord Carlingford: “Volevo dirti che la Foca si è sistemata nella mia grande cisterna da dove può facilmente venir fuori, dato il basso livello dell’acqua. Le dò quattro biscotti e una tazzina di caffè all’alba e questa mattina credo di andare al mare sulla sua schiena. Mi è capitato già di percorrere più di metà del tragitto per la Corsica perché nuota in modo estremamente veloce”. Anche per chi lo conosceva bene ed era abituato alle sue stramberie, i dubbi sulla tenuta mentale dovevano essere molti.

Infine, a completare il quadro dell’eccezionale versatilità artistica di Lear, devo aggiungere che il nostro poeta-viaggiatore-pittore-scrittore possedeva anche un discreto talento musicale. Suonava il piano, ma anche la fisarmonica, il flauto e la chitarra, e compose musica “di ambientazione” per molte poesie di autori romantici e vittoriani, prime tra tutte quelle del suo amico Alfred Tennyson. Naturalmente musicò anche molte delle sue canzoni senza senso, tra cui “Il gufo e la gattina”, che si divertiva ad eseguire solo per una cerchia ristretta di amici.

Insomma, direi che c’è materia più che sufficiente a farne un personaggio degno della nostra memoria. Come lui stesso scriveva “dopotutto, se uno dedica la propria esistenza a qualcosa e non è un perdigiorno, quello che fa deve avere pur sempre un valore, se non altro il valore della perseveranza”. Nel suo caso gli andrebbe riconosciuto senz’altro ben di più.

A proposito di conoscenza. Ho voluto allegare a queste pagine tre appendici “documentali”, che probabilmente aiuteranno a capire Lear molto meglio di quanto abbia fatto io. Si tratta della poesia-autoritratto che ho citato nel testo, di alcuni Limericks tratti in parte da A Book of Nonsense (1846) e in parte da More Nonsense Pictures, del. 1872 (questo accostamento rende possibile cogliere la differenza nel tratto dopo un quarto di secolo) e di una serie di incisioni che illustravano la prima edizione del Journals of a landscape painter in Southern Calabria.

Per le traduzioni non mi assumo responsabilità. Stento già a leggere l’inglese quando è “sensato”.

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Bibliografia

Raffaele Gaetano – Edward Lear. Giornale di viaggio a piedi in Calabria – Laruffa editore, Reggio Calabria, 2023.
Raffaele Gaetano – In viaggio con Edward Lear – Laaruffa, 2023.
Edward Lear – Lettere dall’Italia (1837-1879) – Abramo ed.
Edward Lear – Viaggio in Basilicata (1847) – Osanna Edizioni, Venosa, 1996
Edward Lear – Diario di un viaggio a piediReggio Calabria e la sua provincia (25 luglio – 5 settembre 1847) – Laruffa editore, Reggio Calabria, 2003
Edward Lear – Limericks – a cura di Ottavio Fatica, Einaudi, Torino, 2002
Edward Lear – Indian Journal – Jarrolds, 1953
Edward Lear – In Greece. Journals of a Landscape Painter in Greece and Albania –William Kimber, 1965
Edward Lear – Journal of a Landscape Painter in Corsica – R. J. Bush. 1870
Atanasio Mozzillo (a cura di) – Viaggiatori stranieri nel Sud – Comunità, 1982
Vivien Noakes – Edward Lear, The Life of a Wanderer – London, 1968
Giuliana Randazzo, Il “Sicilian giro” di Edward Lear: itinerari e visioni inedite – Rubbettino, 2021
Antonella Viola – Edward Lear, un vedutista inglese in Basilicata – Suppl. a “La provincia di Potenza” n. 1/98

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Appendice 1

The Self-Portrait of the Laureate of Nonsense.

“How pleasant to know Mr. Lear!”
Who has written such volumes of stuff!
Some think him ill-tempered and queer,
But a few think him pleasant enough.

His mind is concrete and fastidious,
His nose is remarkably big;
His visage is more or less hideous,
His beard it resembles a wig.

He has ears, and two eyes, and ten fingers,
Leastways if you reckon two thumbs;
Long ago he was one of the singers,
But now he is one of the dumbs.

He sits in a beautiful parlour.
With hundreds of books on the wall;
He drinks a great deal of Marsala,
But never gets tipsy at all.

He has many friends, laymen and clerical,
Old Foss is the name of his cat:
His body is perfectly spherical,
He weareth a runcible hat.

When he walks in a waterproof white,
The children run after him so!
Calling out, “He’s come out in his night-
gown, that crazy old Englishman, oh!”

He weeps by the side of the ocean,
He weeps on the top of the hill;
He purchases pancakes and lotion,
And chocolate shrimps from the mill.

He reads but he cannot speak Spanish,
He cannot abide ginger-beer:
Ere the days of his pilgrimage vanish,
How pleasant to know Mr. Lear!

L’autoritratto del laureato delle sciocchezze

Che piacere conoscere il signor Lear!
Chi ha scritto tanti volumi di sciocchezze!
Alcuni lo ritengono scorbutico e strano,
ma altri lo ritengono abbastanza gradevole.

La sua mente è concreta e meticolosa,
il suo naso è notevolmente grande;
Il suo volto è più o meno orribile,
la sua barba ricorda una parrucca .

Ha orecchie, due occhi e dieci dita,
almeno se si contano due pollici;
Molto tempo fa era uno dei cantanti,
ma ora è uno degli stupidi .

Si siede in un bellissimo salotto,
con centinaia di libri sul muro;
Beve molto Marsala,
ma non si ubriaca mai.

Ha molti amici, laici ed ecclesiastici;
Old Foss è il nome del suo gatto;
Il suo corpo è perfettamente sferico,
indossa un cappello runcibile.

Quando cammina vestito di bianco impermeabile,
i bambini gli corrono dietro così!
Gridando: “È uscito in
camicia da notte, quel vecchio pazzo inglese, oh!”

Piange in riva all’oceano,
piange in cima alla collina;
Compra pancake, lozione e
gamberetti al cioccolato dal mulino.

Legge ma non sa parlare spagnolo,
non sopporta la birra allo zenzero:
prima che i giorni del suo pellegrinaggio svaniscano,
che piacere conoscere il signor Lear!

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Appendice 2

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I limericks che seguono sono tradotti da Pietro Scarnera
(da “Viaggiare in un limerick”)

Che piacere incontrare il signor Lear 53C’era un vecchio signore di Ischia,
Che si lanciò sempre più nella mischia;
⁠Ballò su corni e su gighe,
Mangiò migliaia di fichi,⁠
Quel vivace signore di Ischia.

There was an Old Person of Ischia,
Whose conduct grew friskier and friskier;
⁠He danced hornpipes and jigs,
⁠And ate thousands of figs,
That lively Old Person of Ischia.

Che piacere incontrare il signor Lear 54C’era un vecchio signore giù in Puglia,
La sua condotta era un poco citrulla;
Crebbe venti bambini
⁠Quasi solo a panini,
Quel bizzarro signore di Puglia.

There was an Old Man of Apulia,
Whose conduct was very peculiar;
⁠He fed twenty sons
⁠Upon nothing but buns,
Che piacere incontrare il signor Lear 55That whimsical Man of Apulia.

C’era un vecchio signor negli Abruzzi,
Così cieco da non vedersi i pieduzzi;
“È il tuo alluce!”, gli dissero,
Lui rispose, “Lo è davvero?”
Quel sospettoso signor degli Abruzzi.

There was an Old Man of th’ Abruzzi,
So blind that he couldn’t his foot see;
⁠When they said, “That’s your toe!”
⁠He replied, “Is it so?”
That doubtful Old Man of th’ Abruzzi.


Che piacere incontrare il signor Lear 56C’era una giovane donna di Lucca,
Che per amore andò fuori di zucca;
⁠Salì sopra un pero,
⁠E disse, “Pippero!”
Che imbarazzo per la gente di Lucca.

There was a Young Lady of Lucca,
Whose lovers completely forsook her;
⁠She ran up a tree,
⁠And said, “Fiddle-de-dee!”
Which embarrassed the people of Lucca.

Che piacere incontrare il signor Lear 57C’era un vecchio che stava sul Vesuvio,
E studiava tutti i libri di Vitruvio;
⁠Quando il fuoco li bruciò,
⁠Lui a bere incominciò,
Quel fissato di un signore del Vesuvio.

There was an Old Man of Vesuvius,
Who studied the works of Vitruvius;
⁠When the flames burnt his book,
⁠To drinking he took,
That morbid Old Man of Vesuvius.

Che piacere incontrare il signor Lear 58C’era un vecchio signore di Livorno,
Il più piccolo che mai si vide intorno;
⁠Ma una volta, poveretto,
⁠Fu afferrato da un cagnetto,
Che divorò quel signore di Livorno.

There was an Old Man of Leghorn,
The smallest that ever was born;
⁠But quickly snapped up he
⁠Was once by a puppy,
Who devoured that Old Man of Leghorn.



Che piacere incontrare il signor Lear 59C’era una giovane donna di Parma,
La sua condotta era sempre più calma;
⁠Le dissero, “Ci sei?”
⁠Rispose solo, “Ehi!”
Quella dispettosa ragazza di Parma.

There was a Young Lady of Parma,
Whose conduct grew calmer and calmer;
⁠When they said, “Are you dumb?”
⁠She merely said, “Hum!”
That provoking Young Lady of Parma.

Che piacere incontrare il signor Lear 60C’era un vecchio signore ad Aosta,
Aveva una mucca, ma si era nascosta;
“Ma non vedi”, gli dissero,
⁠”Che è salita su un albero?
Tu odioso signore di Aosta!”

There was an Old Man of Aosta,
Who possessed a large cow, but he lost her;
⁠But they said, “Don’t you see
⁠She has rushed up a tree?
You invidious Old Man of Aosta!”

Che piacere incontrare il signor Lear 61C’era una vecchia signora di Pisa,
Con le figlie era molto decisa;
Le vestiva di scuro, le picchiava, lo giuro,
Tutto attorno alle mura di Pisa.

There was an old person of Pisa,
Whose daughters did nothing to please her;
She dressed them in gray, and banged them all day,
Round the walls of the city of Pisa.

Appendice 3

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Sfatare un mito: Atene è brutta!

ebdomadario logodi Vittorio Righini, 17 febbraio 2024

Mi si conceda un leggero intervento (meglio, un intervento leggero) in mezzo alle riflessioni più impegnate che compaiono qui sui Viandanti. Intanto siamo appena usciti da Sanremo (che ho evitato come la peste, al contrario di mia moglie, che sabato notte è stata sveglia sino alle quattro, e al mattino sembrava effettivamente una maratoneta al traguardo), e l’uscita dal tunnel mi induce appunto ad essere molto leggero, e a proporre riflessioni che mi ronzano nelle orecchie da un po’.

Tutto ha origine un giorno di oltre 20 anni fa, su un volo Milano-Atene. Nella fila di coda c’era un tipo che andava in vacanza a fine estate, e aveva cooptato alcuni conoscenti che se lo sarebbero sorbito per una o due settimane. Nella consapevolezza di essere il capo comitiva, ragliava ai subalterni: “Ricordate, ad Atene visita all’Acropoli da toccata e fuga e poi via, che la città fa schifo, e tutti a Santorini e poi a Mikonos”! Pensavo che il gregge fosse del suo livello, cinquantenne bancario palestrato, ma mi sbagliavo; c’era anche gente normale meno giovane. Le ruote si erano appena posate sulla pista che il tipo era già in piedi (quelli che hanno paura di volare di solito fanno così), aveva recuperato lo zaino e tentava, nonostante la riprovazione delle hostess e degli altri passeggeri, di raggiungere la porta di sbarco anteriore, senza darsela che ci avrebbero fatto scendere anche da quella posteriore. Quale occasione migliore per uno come me: mi sono girato verso lo sparuto gruppetto, e ho detto loro: “Siete in cattive mani, con quel tipo; Atene è bella, ricca di piacevoli sorprese e di tanta umanità, e si mangia bene; al contrario di Santorini e Mikonos, dove sarete in mezzo a file di cinesi ad ammirare il tramonto e mangerete molto male. Scusate se mi sono permesso, e buona fortuna”.

A quel punto ho puntato l’uscita posteriore e mi sono defilato, ma il dubbio si era insinuato in quelle menti, ne sono sicuro. Fuori dall’aerostazione ho incrociato il gruppo, e un tizio della mia età mi ha guardato e mi ha fatto ciao con la mano. Avete presente in Perfect Days il bambino che nei bagni pubblici di Tokyo saluta Hirayama con la manina? Ecco, così.

Nella penultima Pasqua greca che ho trascorso a Creta (quella del 2022) mi è successo un fatto analogo: un passeggero al mio fianco spiegava alla moglie che era una fortuna che il volo fosse quello diretto da Milano ad Hania e non facesse scalo ad Atene, tanto là non c’era nulla da vedere, a parte l’Acropoli che già avevano vista. Mi è sembrata una curiosa coincidenza, al di là del fatto che per andare a Creta anch’io preferisco fare un volo diretto, ma non certo per evitare Atene; e poi quella era la moglie, non un gregge di sprovveduti. Così mi sono fatto gli affari miei ed ho taciuto.

In questi giorni ho letto Atene nel Metrò, di Petros Markaris. Questo anziano scrittore è conosciuto per i romanzi del Commissario Charitos, ambientati appunto ad Atene. I primi episodi della serie sono piacevoli, abbastanza originali, e hanno portato una ventata di aria nuova, anche un po’ balcanica, nell’ambiente del romanzo giallo. Negli ultimi tre o quattro racconti invece l’autore ha smarrito l’ispirazione, le storie sono improbabili e da evitare.

Sgatare un mito Atene è brutta 02Di padre armeno, di madre greca, Markaris è nato nel 1937 a Costantinopoli – pardon, Istanbul. Nascere armeno-greco in casa dei turchi non dev’essere stata la migliore delle opzioni. Considerato un apolide fino alla caduta del regime dei Colonnelli, era riuscito a rientrare in Grecia solo nel 1964 ed è diventato un cittadino greco dieci anni dopo. Questo suo Baedeker è basato sulla descrizione di tutto il tragitto dell’Ilektrikò, trenino elettrico appunto, una sorta di metropolitana che viaggia prevalentemente in superficie, inaugurato nel 1869 e poi successivamente ampliato con nuove tratte, che dal porto del Pireo raggiunge a nord Kifisià, il quartiere più ricco di Atene, in ventiquattro fermate. Markaris si sofferma sui quartieri più interessanti, quelli dove è rimasta qualche traccia del passato, che spesso sono i quartieri degli immigrati, quegli stessi greci che nel 1922 furono cacciati dalla Turchia e mal accettati ad Atene. Costoro avevano ben presente il significato di possedere una casa, e infatti le successive generazioni hanno tenuto in piedi più o meno decorosamente le vecchie dimore costruite nella capitale con la prima immigrazione, mentre i greci, gli Elleni, hanno accettato la politica della permuta, e hanno rovinato l’immagine della città. La permuta, sostenuta dal governo di allora, guidato per molti anni dopo il 1974 dal PASOK, consisteva in questo: chi aveva una villetta con un pezzettino di cortile o giardino li permutava con uno o due appartamenti nei palazzoni tutti uguali che gli speculatori stavano edificando in quella zona, e dava il suo contributo ad imbruttire le vie e i viali di interi quartieri. Naturalmente la qualità di quei condomini era modesta, e oggi sono fatiscenti oppure sono già stati abbattuti e sostituiti da edifici moderni, perlomeno più funzionali.

Tutto ciò non impedisce ad Atene di conservare alcune zone davvero belle da vedersi e da vivere: zone in cui la cura della casa è evidente, la collaborazione col vicinato indispensabile per una vita dignitosa, l’assistenza e lo scambio di umanità una cosa normale; dove si possono ancora trovare vecchie taverne e bar, pur in costante diminuzione, e vecchi negozi, in via di essere scalzati dai supermarket, che le rendono comunque meritevoli di una visita, scendendo a una delle fermate dell’Ilektrikò.

Ora non sto a suggerire un quartiere piuttosto che un altro, è tutto scritto chiaramente nel libro di Markaris; ma io ho provato a visitare in parte alcuni dei luoghi che lui segnala, e ho provato davvero sensazioni simili a quelle descritte nel libro. Le mescite con cucina, per esempio, anche queste sempre più rare, ma se ne trovate una non mancate; il mio amico ateniese me ne ha fatta scoprire una in mezzo a un dedalo di viuzze del Pireo, dove non saprei tornare nemmeno col GPS. Di giorno è un negozio di alimentari, nemmeno troppo fornito. La sera si uniscono i tavoli, ci si siede e si mangia quello che è rimasto nel negozio, con un bicchiere di retsina o, spesso, di asprò (vinello terribile, con una punta finale di acidità che qui in Piemonte sarebbe da Codice penale), mentre, dulcis in fundo, qualcuno canta e suona un vecchio rebetiko con un bicchierino di ouzo a fianco.

Sgatare un mito Atene è brutta 03

Il rebetiko merita una pagina a parte: ho scritto vecchio perché non è antico, ha circa un centinaio di anni. È nato come forma di canzone che prevedeva nostalgia, amori complicati, racconti di vendette o della patria lontana, tra un bicchiere di retsina (quella vera, non quella di oggi) e una boccata di hashish, che ai tempi era permesso. Si canta accompagnati da un bouzouki, simile a un grosso e lungo mandolino (sotto i colonnelli era vietato portare il bouzouki in taverna o nelle cantine: allora i liutai inventarono il baglamas, un mini bouzouki sottile e lungo meno di 50 cm., sempre tricordo, così da poterlo nascondere sotto la giacca); ma possono esserci anche altri strumenti di accompagnamento, prevalentemente cordofoni.

Sgatare un mito Atene è brutta 04Vinicio Capossela, che ha pubblicato nel 2012 un album dedicato a questo genere, ha detto “Il rebetiko mi è sempre piaciuto perché fa male, perché è una musica che non ti vuole rendere migliore, ma solo te stesso. Ha una carica eversiva, si ribella a tutto quello che finisce per occultarci a noi stessi”. Una musica che andava presa sul serio. Per esempio, a volte si alzava un ballerino, che chiedeva di ballare uno zeibekìko: quello era un ballo solitario, nessuno poteva parteciparvi, perché era un mezzo per esprimere il proprio dolore, la sofferenza o la nostalgia. Ai tempi del regime, due poliziotti, per offendere un ballerino che era un simpatizzante di sinistra tenuto sotto controllo, ed era sceso sulla pista da solo, si misero a ballare al suo fianco e lo schernirono. Il giorno dopo erano entrambi morti.

Ricordo che una sera ero entrato ad ascoltare musica con un amico ateniese, ed ero stato colpito da un brano particolarmente orecchiabile. Gli chiesi di tradurmi in sintesi il testo, che in sostanza diceva così: “Lavoro tutto il giorno come una somaro, arrivo a casa la sera che riesco appena a mangiare tanto sono stanco, e mia moglie, che sta in casa tutto il giorno, comincia a lamentarsi che manca questo, manca quello, questo non va bene, l’altro non va bene… così, da qualche giorno mi sto chiedendo: ma chi me l’ha fatto fare di sposare una così”?

Certo è un ragionamento che non fa una piega. Come dargli torto.

Oggi il rebetiko è considerato Patrimonio Mondiale dall’Unesco, e una visita ad Atene rende d’obbligo entrare in una taverna dove lo si suona: ma state pure tranquilli, con gli euro al posto delle dracme anche i ballerini solitari si sono dati una calmata.

I palazzi sontuosi che costeggiano i grandi viali mostrano evidente l’influenza del modello architettonico berlinese di Ludwig Hoffmann. La ristrutturazione urbanistica voluta dal sindaco Mercouris nel 1908 ha cambiato il volto della città, e consente ancora oggi lunghe passeggiate in mezzo ad edifici eleganti come se ne trovano in molte altre capitali europee. Poi, di colpo, sul lato compaiono un vicolo, un acciottolato, case basse in mattoni e intonaco screpolato, il cortile di una vecchia taverna coi tavolini tutti sgangherati, un negozio di casalinghi, con scope di saggina e articoli in legno, il piccolo atelier di un pittore locale e un negozietto di LP usati. Un angolo di Costantinopoli.

Di fronte al mercato alimentare coperto, a metà della via Athinas, c’è una piazzetta con banchi di frutta, olive e chincaglieria usata, e in un angolo c’è una taverna, che da fuori non si individua se non lo si sa prima. Si scendono dieci pericolosissimi scalini, aggrappati al corrimano, e si entra in una vecchia cantina. Il pavimento è di un colore indefinibile, i tavolini in legno coperti da tovaglie di carta a quadretti non hanno una gamba uguale all’altra. Sul muro di fronte troneggia una fila di vecchie botti, spero vuote. L’oste è una vecchia sagoma che parla solo greco, ma capisce benissimo se provi a sfotterlo in un’altra lingua. Ti fa segno di avvicinarti e ti mostra dal vivo il menù: due gavettoni da caserma, una minestra di ceci, una di fagioli, eccezionali entrambe. Scegli e ti siedi, poi di secondo arrivano fresche sardine alla griglia. Vino asprò, tiepido. 18 euro. Voi direte: ma chi te lo fa fare: beh io ci torno tutti gli anni, ci ho portato anche Paolo e sua moglie. C’è vita, in quella cantina, storia, tradizione, e i piatti sono buoni. Certo, la zuppa di ceci ad agosto non è il massimo, e no, non c’è la 626, ma pazienza, purtroppo prima o poi arriverà.

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La vecchina che vende fazzolettini di carta sulla scala che scende all’Ilektriko ha il vestito nero e il fazzoletto in testa, tipici di chi è immigrato dall’Asia Minore, dal Ponto, dalla Città (così chiamano Istanbul gli anziani greci). Le dai due euro e dici: “Tenga i fazzolettini, non ne ho bisogno”, ma lei si risente e risponde: “No, lei ha pagato e lei deve prendere un pacchetto”. Il blasone della povertà. Un musicista all’angolo della strada suona il bouzouki, le monete vanno nella custodia. Mi fermo sempre e do sempre qualcosa a chi suona, l’ho sempre fatto, anche sulla metro di Milano, perché è comunque tutta gente che in cambio di un’offerta ti dà musica. Trovo anche una ragazza che suona l’hang (l’hang è una specie di tamburo a mano in acciaio, accordato) e intreccia melodie armoniose e rilassanti; mi fermo mezz’ora, acquisto il suo cd autoprodotto, vorrei portarla a cena con la scusa che potrei essere suo padre (chi ha pensato nonno, peste lo colga), ma viene a prenderla il suo ragazzo, un bulgaro, pare. Entro in un negozio di dischi, in una galleria sotto un palazzo che secondo me potrebbe crollare da un momento all’altro e distruggere tutti quei vinili; compro un introvabile Vangelis Papathanassiou con Irene Papas a 14 euro: l’ho cercato per anni.

Sgatare un mito Atene è brutta 06Salgo al mio alberghetto (salgo è la parola giusta, odòs Emmanouil Benaki è una mulattiera in salita) sotto il Licabetto, poso gli acquisti e vado a piedi in un attimo al parco Lofos Strefi, dove in una taverna sotto gli alberi mi gusto birra e agnello alla griglia, euro 13,50. Il giorno dopo torno al Museo Benaki, forse il migliore ad Atene: c’è la mostra fotografica di Joan Eyre Monsell, lady Leigh Fermor, e compro il suo libro, perché mi rendo conto che la Musa era anche una brava fotografa.

Il giorno dopo prendo l’Ilektrikò e scendo (cioè vado verso sud) al Pireo. Mi fermo al Margaro, una taverna che ha tavoli sotto un bersò, dove fanno sempre e solo le stesse cose: gamberi, triglie e insalata greca, locale aperto dalle dieci del mattino alla mezzanotte.

La sera scendo a piedi dall’albergo, imbocco un viottolo pedonale ricco di alberi (Methonis) ed entro nella Taverna del Professore, perché sento suonare. Bevo birra, ascolto musica e parlo in italiano col Professore, un piccoletto anziano coi baffi che ha studiato a Roma, ed è finito quasi per caso nel 2018 in uno speciale del TG3 sulla musica e sulle taverne di Atene.

Quindi sfatiamo il mito, Atene è tante cose, belle e brutte, e merita sempre un’attenta visita.

P.S.: se volete visitarla con l’aiuto del Baedeker di Markaris, devo darvi un’avvertenza: l’autore, già nei romanzi polizieschi, è fissato coi nomi delle vie; si perde in descrizioni delle code che subisce in auto durante le sue indagini. È ovvio che, in un Baedeker come Atene nel Metrò debba per forza usare una valanga di nomi di vie, viali, piazze, e questo rende la lettura un po’ pesante. Insomma, è un libro per greco-compulsivi, greco-completisti o greco-fissati, categorie di cui sono un degno rappresentante.

Diversamente idioti

di Paolo Repetto e Vittorio Righini, 2 novembre 2023

Pubblichiamo un recente scambio epistolare tra due Viandanti. Non stiamo scivolando in una deriva autoreferenziale. È che spesso da questi scambi nascono delle idee, che vengono poi tradotte in pezzi da postare sul sito: ma questa volta si è preferito puntare direttamente sugli originali, perché si prestavano bene a mostrare come per venire alla luce le idee compiano talvolta strani giri. Non solo: più banalmente, ci sembra testimonino che pure attraverso la comunicazione digitale è possibile un confronto costruttivo. Con buona pace di Mc Luhan, non è sempre il mezzo a fare il messaggio. Qualche volta, se ai due capi del filo c’è gente che pensa con la propria testa, il mezzo rimane ciò che deve essere, uno strumento al servizio della conoscenza.

Diversamente idioti 02 Vincent-Munier-La-Panthere-des-neiges-est-un-hommage-a-la-Beaute

Niente scuse

di Vittorio, 27 ottobre

Diversamente idioti 02 Wilfred ThesigerCiao Paolo, ti scrivo anzitutto per ringraziarti di avermi procurato il bellissimo documentario su Vincent Munier e sulla sua caccia alle immagini del “Leopardo delle Nevi” (così si chiama, ma i francesi, vai a sapere perché, lo chiamano la Panthère des Neiges. Qui ci vorrebbe un consulto con un etologo di lingua francese, che sappia di cosa parliamo e che ci spieghi perché quello che noi – e Peter Matthiessen – chiamiamo leopardo, per loro è panthère). Grazie inoltre per avermi restituito l’autobiografia di Thesiger, che mi è sembrata si interessante come si dice, ma anche complessa come la vita che lui ha vissuto. Io, comunissimo mortale, ne ho letto solo una parte: le straordinarie esperienze raccontate ne La vita a modo mio mi hanno lasciato basito, ma anche intimorito dall’infi nità di luoghi e di persone a noi perfettamente sconosciuti, mai sentiti prima. Non che non sia abituato a leggere storie in paesi fuori dall’ordinario, anzi, sono la mia passione, ma Thesiger, che già mi aveva deliziato con Sabbie Arabe (Arab Sands) e con il meraviglioso Quando gli arabi vivevano sull’acqua (The Marsh Arab), in questa sua biografia mi fa smarrire in un universo troppo ignoto, soprattutto per la parte che si svolge in Eritrea, Abissinia, Dancalia, etc. E poi, diciamolo, è grande anche nei suoi difetti, primo fra tutti la caccia grossa. Certo, erano altri tempi, ma leggere di stragi di animali oggi rari o quasi estinti mi lascia sbigottito, benché io non abbia mai fatto nulla per proteggerli, se non dedicare loro un amorevole pensiero, e coltivi un’innata repulsione verso le armi. Insomma, mi si perdoni ma non riesco a leggere questa biografia mettendomi nei panni dell’autore.

Vengo però al dunque, al motivo principale per cui ti scrivo. Come ricorderai, all’inizio del nostro ultimo viaggio in Grecia, già in volo tu leggevi un testo piuttosto pesante, che hai presto giustamente abbandonato (le scelte errate del paio di libri da portarsi in vacanza ci puniscono severamente). Hai poi recuperato con il libro di riserva, quel Nero. Storia di un colore, di Michel Pastoureau, che ti ha accompagnato per qualche giorno. Un gran bel libro, immagino, che non ho letto ma che riesco ad immaginare, perché ho apprezzato l’originalità e l’enorme cultura dell’autore in un’altra opera, nella quale sui colori fa una panoramica completa.

Poi hai finito di leggere anche Pastoureau, e siccome il nostro era un finto viaggio culturale, in realtà una settimana di scazzo totale per riposare la mente e il corpo, sei rimasto senza carburante. Allora io, che avevo provveduto a portarmi il succitato Thesiger e, per rilassarmi, una trilogia di romanzi gialli di un autore che non conoscevo, ho lasciato questi ultimi in sospeso e te li ho passati, attaccandomi invece a Thesiger: ciò che mi ha permesso di arrivare quasi a fine settimana nel nostro viaggio alla ricerca delle fonti della Macedonia (forse, più che delle fonti, delle essenze; oggi dove mangiamo? che cosa mangiamo? cosa beviamo? queste erano le imprescindibili domande che ci ponevamo subito dopo l’ampia colazione). Tra l’Olimpo (un panettone in lontananza) e il Monte Athos (questa invece una vera montagna, una sorta di piramide visibile da gran parte della penisola Calcidica), le montagne del Pindo e i laghi di Prespa, abbiamo avuto la fortuna di fermarci su spiagge poco frequentate (metà settembre, nord della Grecia, da stare molto, molto tranquilli).

Diversamente idioti 03Poi, curioso di leggere questo nuovo autore di romanzi gialli, che tu avevi già divorato, mi sono approcciato alla Trilogia di Adamsberg (la prima trilogia), 8 o 900 pagine, non ricordo, tre storie, di un tale Fred Vargas. Ho letto questi tre romanzi. Mi sono piaciuti? non mi sono piaciuti? non ho una risposta sicura, e anche tu che li avevi già divorati non mi hai dato una risposta convinta. Certo però mi hanno incuriosito, e tornato in patria ho trovato (anche questo usato) la seconda Trilogia di Adamsberg. Comprata al volo, mille pagine. Il primo racconto mi ha entusiasmato, lo ammetto, uno dei più bei polizieschi o noir o come cavolo si definiscono questi racconti, quasi 400 pagine, titolo Sotto i venti di Nettuno.

Bene, mi sono detto, ho aperto una nuova strada di lettura: ora vediamo chi è questo Fred Vargas. Ho scoperto anzitutto che Fred Vargas è una donna, e questo è meglio: a me piacciono tanto la Alicia Gimenez-Bartlett e i suoi polizieschi catalani, ben venga dunque una autrice che posiziona il commissario Adamsberg a Parigi. Lei si chiama in realtà Frederique Audoin-Rouzeau, e Wikipedia mi dice che è ricercatrice di archeozoologia presso il CNRS francese ed esperta in medievistica. Una mente illuminata, che usa uno pseudonimo per firmare i suoi libri (con un cognome improponibile, meglio uno pseudonimo banale). Leggo la sua biografia e mi annoto i vari romanzi polizieschi, poi, poi… leggo che è anche autrice di un pamphlet intitolato La veritè sur Cesare Battisti, 2004. In questo testo, la figura di Battisti è portata ad esempio di intellettuale intelligente, non corrotto e assolutamente estraneo ai fatti che la giustizia italiana gli imputa. Secondo la Vargas Battisti è vittima di un governo alla Pinochet e di forze di Polizia corrotte che cercano un capro espiatorio, mandando in galera migliaia di innocenti. In quel periodo al governo c’era Berlusconi, certo non il politico a me più simpatico, ma l’accostamento a Pinochet mi pare inopportuno. Allora approfondisco, e vedo che la Vargas, insieme a molti altri intellettuali della gauche, ha anche firmato una petizione nella quale si chiede giustizia per il mirabile Battisti.

Ora, nel 2019 Battisti, in carcere in Italia, dopo l’estradizione concessa dall’ex presidente del Brasile Bolsonaro, la fuga in Bolivia e il successivo arresto, ammette il suo coinvolgimento nei quattro omicidi e nei tre ferimenti commessi durante gli anni di militanza nel PAC (Proletari Armati per il Comunismo), due compiuti personalmente e due in condivisione.

A questo punto l’Ansa a Parigi va a cercare la Audoin-Rouzeau (Fred Vargas) per chiederle cosa ne pensa, e lei risponde: l’ammissione di colpevolezza di Cesare Battisti per l’omicidio di quattro persone durante gli anni di piombo “non cambia nulla alle mie conclusioni di ricercatrice, lo ritengo ancora innocente”: “Non ho da presentare nessuna scusa – aggiunge – non ritengo di aver difeso un assassino, è l’ultima cosa che avrei fatto. Purtroppo è triste, perché mi prenderanno tutti per un’imbecille. ma è così”. Alla domanda se fosse stata messa al corrente che Battisti, oltre a riconoscere i quattro omicidi durante gli Anni di Piombo, avrebbe dichiarato, dinanzi ai magistrati, di aver mentito ai suoi sostenitori, compresi quelli francesi, Vargas ha risposto: “Le sue dichiarazioni non mi feriscono, mi lasciano indifferente, è possibile che abbia i suoi motivi, forse ci sono delle ragioni, non ne so niente, lo lascio libero di dire ciò che ha scelto di dire”.

Così, sono giunto alla conclusione che si, Fred Vargas Audoin-Rouzeau è una imbecille, perché fin da bambino mi hanno detto che chi non cambia mai idea è un’imbecille.

Diversamente idioti 08

Nulla di buono dal fronte occidentale

di Paolo, 31 ottobre

Caro Vittorio, la tua mail arriva opportuna, perché mi spinge a tornare su un tema che continua a ronzarmi in testa, ma che affronto ormai con sempre maggiore riluttanza. Per più ragioni: intanto per noia, perché sono cose che sto ripetendo da sempre: poi perché a questo punto dubito che sull’argomento ci sia ancora una effettiva possibilità di confronto; infine perché mi trovo a sostenere una causa che con uno straordinario ribaltone è stata fatta propria dal “pensiero di destra”, sia pure con tutte le ambiguità e la smaccata strumentalizzazione che lo caratterizzano. Mi riesce allora difficile mantenere chiari i distinguo, soprattutto se la controparte “di sinistra” ragiona per slogan ideologizzanti. Dubito insomma che valga la pena insistere: ma mi hai servito un assist, e allora ci provo ancora una volta. Cercherò di farlo almeno con altre parole.

Andiamo comunque con ordine, perché nella tua missiva ci sono molte altre cose che mi solleticano.

Diversamente idioti 04Intanto i libri, a partire da quello di Tesson e dalla sua titolazione. In effetti quella francese è la titolazione più fedele al nome scientifico del leopardo, che è Panthera uncia. Ma sul piano pratico, dato che il genere panthera comprende tutti i più grandi felini, dal leone alla tigre, al leopardo, al giaguaro, si prestano molto meglio all’identificazione spicciola i nomi comuni affibbiati alle varie specie. Tant’è che in inglese, in tedesco, in spagnolo, sempre leopard o leopardo rimane. Ora, uno penserebbe che i francesi, che vantano un grande naturalista come Buffon, abbiano mantenuto la terminologia scientifica (sia pure parziale, perché ad esempio quella completa del leopardo delle nevi è appunto Panthera uncia, e gli è stato riconosciuto lo status di panthera solo da poco: prima era uncia e basta) per puro spirito di esattezza, ma non è così. Sai benissimo che appena possono i nostri cugini rivendicano una totale autonomia culturale, rifuggono dalla globalizzazione linguistica e chiamano ad esempio ordinateur quello che in tutto il resto del mondo si chiama computer. Nel nostro caso tecnicamente hanno ragione, ma rischiano di creare confusione sul piano comunicativo, perché panthera definisce solo il genere, e non identifica la specie. Voglio dire che di primo acchito panthère des neiges potrebbe essere tradotto anche con leone delle nevi, tigre delle nevi, ecc. Allora, queste sottigliezze linguistiche possono sembrare assolutamente irrilevanti e pedantesche, ma a mio giudizio un loro rilievo lo hanno, e non solo per pignoli rompiballe come siamo tu ed io: l’imprecisione linguistica moltiplica in maniera esponenziale la confusione mentale già esistente: si parte dalle pantere e si arriva inevitabilmente a Babele.

Diversamente idioti 05Quanto a Thesiger, in effetti anch’io sono stato frastornato dal suo continuo andirivieni da un luogo e da un popolo all’altro. E sono rimasto interdetto davanti alla freddezza con cui ad esempio scrive, a chiusura di un capitolo, “Dopo cena sono uscito e ho ucciso un leone”. Va bene l’understatement inglese, e qui senz’altro Thesiger ci gioca, ma povera bestia, almeno gratifica la sua morte di un minimo di pathos. Per converso, lo stile british, asciutto, spocchioso, determinato fino al limite della cocciutaggine (oggi si direbbe “politicamente scorretto”), in realtà mi piace. Guarda con quale supponenza tratta gli italiani, e che ammirazione tributa invece ai dancali, agli etiopi, alle tribù più feroci dell’Abissinia. Potrà dare fastidio, ma non concede nulla alle “convenienze” o alle aspettative del lettore. C’è coerenza assoluta nel suo atteggiamento: il che non significa non cambiare mai idea, e quindi scadere nell’imbecillità, perché ad esempio nei confronti di alcuni popoli, o di alcuni personaggi, Thesiger la cambia eccome: ma le esperienze, le conoscenze o le constatazioni nuove le rubrica sempre con lo stesso stile. Per questo la ritengo una buona autobiografia: se c’è dell’autocelebrazione, e c’è senza dubbio, viene fatta scorrere tra le righe. In superficie c’è una narrazione secca, da viaggiatore medioevale.

E arrivo finalmente al tema che più mi interessa, quello cui accennavo prima. Mi limito in verità ad un abstract, perché l’argomento è complesso e scivoloso, e non può essere sviscerato in una mail. Ti anticipo comunque che il discorso non riguarda solo Fred Vargas. La Vargas, o come cavolo si chiama, può essere apprezzata o meno come giallista (personalmente non mi entusiasma), ma è senz’altro il perfetto esempio di una curiosa (e molto diffusa) tipologia umana. Applicando la tassonomia linneana la classificherei nella famiglia degli “antioccidentalisti”, nel genere “d’occidente”, nella specie “di sinistra (o orfani della rivoluzione)”. La caratteristica di fondo di questa tipologia è l’odio di sé che molti occidentali (e segnatamente quelli “più a sinistra”) hanno sviluppato, un po’ come si dice degli ebrei. Questo odio, questo “auto da fé” viene poi declinato in tutte le salse: politica, religiosa, filosofica, tradizionalista, progressista, ecc. Quella degli antioccidentalisti è infatti una famiglia molto allargata, che ultimamente ha trovato una sua nicchia ideologica nella post-modernità ma che ha un albero genealogico lungo e ramificato come quello degli Asburgo. E come tutte le famiglie che si rispettano si divide sulle opinioni e sulle aspettative, alcune almeno in apparenza diametralmente opposte, ma si ricompatta poi su una comune conclusione: che la civiltà occidentale, nel suo assieme o quantomeno a partire dalla modernità e dall’ illuminismo, è da buttare.

Occorre però distinguere l’odio di sé di cui parlo dall’occidentofobia che sta dilagando in tutto il mondo, in particolare in quello musulmano. In quest’ultima si combinano rancori di origine storica, (l’anticolonialismo e l’antimperialismo), rivendicazioni di specifiche identità culturali (ad esempio la Cina) e discutibili “risvegli” religiosi (l’islam e l’ortodossia russa): nella sostanza poi quello che ci sta dietro è uno scontro per la futura egemonia mondiale, orchestrato dai nuovi imperialismi militari ed economici. Gli interessi dei diversi attori sono decisamente contrastanti, ma per il momento sono tenuti assieme dalla identificazione di un avversario comune.

Diversamente idioti 06

Ti chiederai cosa c’entra tutto questo con la Vargas e con Battisti. C’entra eccome, anche se per stabilire la connessione occorre fare un giro largo (e non è questa la sede).

Gli anti-occidentali nostrani, infatti, non sono mossi dall’aspirazione a una rivincita, ma covano rancore per una profonda delusione. Che ha motivazioni diverse. Quelli “di destra” sono delusi perché l’ordine gerarchico che considerano naturale (la società tradizionale) è stato stravolto, quelli “di sinistra” perché quell’ordine non è stato rivoluzionato abbastanza. Nei primi c’è di fondo una concezione egoistica, conflittuale, dell’uomo: vale la legge del branco, nel quale emergono quelli fisicamente o intellettualmente più dotati e a ciascun individuo è assegnato un ruolo preciso, funzionale alla sopravvivenza e alla perpetuazione della “comunità”. A loro giudizio la responsabilità maggiore per lo sfaldarsi della società tradizionale è da attribuirsi al monoteismo (da cui l’antisemitismo e l’interesse per il paganesimo e le società politeistiche orientali).

I secondi sono invece eredi della convinzione rousseauiana che in origine la “natura umana” fosse buona, pacifica e altruista, e che il suo “lato oscuro” sia stato creato o almeno portato allo scoperto da un progressivo condizionamento ambientale (la cosa vale per l’intera umanità ma anche per ogni singolo individuo: in altre parole, nessuno nasce carogna di suo, e se lo diventa è colpa “della società”). Hanno nostalgia, insomma, del “buon selvaggio” e del paradiso terrestre che avremmo perduto per colpa del prevalere di una “ragione calcolante”, asservita alla pura crescita economica, individuale e collettiva. Le grandi imputate della deriva occidentale sono pertanto nel loro caso la scienza e la tecnica, dalle quali si generano gli strumenti politici, sociali ed economici del dominio. In sostanza, quali che siano le cause indicate, sia per gli uni che per gli altri i risultati della civiltà occidentale sono l’individualismo, la rottura con la natura, la volontà sfrenata di potenza, il capitalismo, l’imperialismo, il colonialismo, lo sfruttamento, etc., fino ad arrivare al disastro ambientale.

Le cose ovviamente non stanno così. In natura l’unica legge comune, al mondo animale come a quello vegetale, è quella della sopravvivenza, individuale o specifica. I mezzi per garantirsi quest’ultima sono la sopraffazione, nei confronti della natura o dei propri simili, o la cooperazione: la via che viene scelta dipende poi senza dubbio anche dalle condizioni ambientali o storiche. Ma l’egoismo o l’altruismo non sono iscritti in una “natura umana primordiale”, sono frutto di selezioni attitudinali verificatesi nel corso dell’evoluzione. E la selezione non agisce secondo i criteri di buono e di cattivo che noi abbiamo “culturalmente” elaborato, ma secondo quelli naturali dell’utile o del dannoso. L’idea di una natura buona corrotta poi dal progresso, dalla tecnica, dalle stratificazioni sociali, ecc …, è puramente consolatoria, serve soltanto a distrarre l’attenzione da una realtà di fatto che non vogliamo accettare: siamo animali e ci comportiamo, in linea di fondo, come tali. Ed è anche un’idea decisamente incoerente, perché predica il ritorno alla natura e nel contempo nega le leggi di natura. Per questo, se le cose non vanno come vorremmo in base a ciò che incoerentemente crediamo, dal momento che la nostra mente ha elaborato anche il concetto di causalità (ogni effetto ha una causa) dobbiamo responsabilizzare qualcuno, trovare un capro espiatorio.

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E qui tornano in ballo la nostra amica Vargas e il suo amico Battisti, ma entrano in scena anche altre vicende, molto più recenti, e altri protagonisti. Il rancore dell’occidentale occidentofobo di sinistra si esprime nella ribellione contro una civiltà che considera corrotta e colpevole di ogni sopraffazione, interna o esterna. Questa ribellione può rimanere su un piano puramente intellettuale di appoggio o scendere su quello pratico della violenza, e nel secondo caso l’ambiente intellettuale fornisce il brodo di coltura, le motivazioni e le giustificazioni, mescolando in un confuso coacervo la lotta di classe, le avanguardie rivoluzionarie, la sollevazione dei popoli non occidentali, il terrorismo ecologico o quello puro e semplice, ecc… In questo bailamme Cesare Battisti, un delinquente senza scrupoli e senza un briciolo di dignità, assurge a limpida figura di “resistente”, come colui che ha combattuto le storture della civiltà occidentale scientista, industrialista, capitalista, pseudo-democratica: e Hamas, un branco di scannatori allevati nell’odio, a simbolo della legittima resistenza contro l’avamposto del male. Quando dici che le dichiarazioni della Vargas la qualificano come un’imbecille hai perfettamente ragione, ma la sua imbecillità non è solitaria: l’appello del 2004 che tu stesso mi hai segnalato, dove si inneggia a Battisti come “uomo onesto, arguto, profondo, anticonformista … un intellettuale vero …” che ha operato “una straordinaria e ineguagliata riflessione sugli anni Settanta” è stato firmato dal fior fiore degli anticonformisti nostrani e d’oltralpe: Agamben, naturalmente, e Nanni Balestrini, Pennac e Cacucci, Loredana Lipperini e Christian Raimo, Massimo Carlotto e Gianfranco Manfredi, e un sacco d’altri. L’unico che a posteriori ha ritirato la sua firma è Roberto Saviano, che aveva firmato a quanto pare a sua insaputa, come i proprietari di attici prospicienti il Colosseo: “Mi segnalano la mia firma in un appello per Cesare Battisti …”. Il livello è questo.

Vedi, tu parli nella tua missiva di personaggi, Tesson e Thesiger, che sono rimasti fedeli alle loro idee per tutta la vita. Noi stessi, tu ed io, non siamo particolarmente flessibili per quanto concerne i nostri convincimenti. Ma come i due che tu citi abbiamo imparato dalla vita stessa che un conto sono le idealità, che possono indirizzare la nostra esistenza ma responsabilizzano e mettono in gioco solo noi stessi, e che in questo modo dal confronto con la realtà non possono mai uscire sconfitte, e un conto sono le ideologie, che invece tirano in ballo tutti gli altri, e finiscono solo per deresponsabilizzarci nei loro confronti e scaricare su di loro i nostri insuccessi. Come avrebbe detto Totò, chi persegue delle idealità è un uomo, chi si trincera dietro le ideologie è un caporale.

Non mi sembra però il caso di tirare ulteriormente in lungo quello che minaccia di diventare un comizio. Mi riservo semmai di argomentare più diffusamente le mie idee in una trattazione futura (in realtà ho già tentato di farlo ne La discesa dal Monte Analogo, ma ne è venuto fuori un pippone noiosissimo). Tu nel frattempo, vincendo una più che giustificata ripugnanza, prova a seguire fino a quando lo stomaco ti regge gli attuali dibattiti televisivi sulla vicenda israelo-palestinese, o fai un giro sul web cliccando semplicemente le voci Hamas, Gaza, Palestina, ecc … Capirai il mio imbarazzo, a trovarmi a condividere almeno in parte le opinioni di figuri come Capezzone o addirittura Paragone, e a dover sopportare le ambiguità o la cretineria palese di chi in nome di una “sinistra” viscidamente pacifista chiude gli occhi davanti all’ evidenza. Oppure, meglio, rileggiti un buon saggio su questi temi, ad esempio l’Elogio dell’Occidente di Franco La Cecla (Elèuthera 2016). Potrai farti un’idea molto chiara di ciò di cui sto parlando.

Ci risentiamo presto, spero.

Leggere in viaggio

di Vittorio Righini, 30 ottobre 2023

Stavo leggendo un interessante contributo scritto da Fabrizio sui Viandanti, Con-versare e Con-dividere, che alla fine cita sei righe di una bellissima poesia di Wislawa Szymborska. Non la conoscevo, si riferisce a un quadro del Vermeer, intitolato ‘‘La Lattaia’’, e dice:

Finché quella donna del Rijksmuseum
nel silenzio dipinto e in raccoglimento,
giorno dopo giorno versa il latte
dalla brocca nella scodella,
il Mondo non merita
la fine del mondo.

Mi è tornato alla mente Brian Eno, che sono andato a onorare a Venezia alla Fenice per il suo concerto del 21 ottobre 2023, e che il giorno dopo è stato premiato alla Biennale col Leone d’Oro alla carriera. Lo seguo musicalmente dalla metà degli anni settanta, è un uomo intelligente, corretto e umile, che rifiuta il titolo di genio e pure quello di musicista, ma accetta quello di manipolatore di suoni. In una bella intervista ha dichiarato (restringo la sintesi) che a dispetto di tutte le storture e di tutti gli orrori che contraddistinguono i nostri tempi riesce ancora a vedere un po’ di luce e di speranza in alcune cose, nell’arte ad esempio (pittura, poesia, etc.). Un po’ come Szymborska, se me la passate. E da queste due letture ho maturato che la poesia, come la pittura, riesce effettivamente a fare un po’ di luce in questi tempi bui, e ho pensato che era giunta l’ora, anche per uno come me, di leggere poesie.

Tutte le volte che la sera prima di partire per un viaggio riempio la borsa (sempre piccola, morbida, esente da tentativi di estorsione ai gates delle compagnie di bandiera low cost, Easy Jet su tutte) mi pongo il problema di cosa portare da leggere. Ci vogliono sempre due libri: sbagli il primo, ti appoggi al secondo e cerchi di farlo durare il più a lungo possibile. L’altro giorno leggevo un’intervista a Sylvain Tesson. Alla domanda: In viaggio la lettura ha un ruolo importante? rispondeva: Per me, solo se nella forma della poesia. Quando devi portare ciò che ti serve sulla schiena, fino a dieci chili, ogni grammo è decisivo e i romanzi sono proibiti. Ma la poesia è lettura necessaria perché inesauribile: può essere riletta all’infinito. È sufficiente una piccola antologia, leggerissima, per nutrirci profondamente.

Da questa risposta, e in base a quanto ho scritto all’inizio, ho cercato di trarre un’utile insegnamento: dei due libri consentiti uno sarà di poesia (dico due e non uno perché non arrampico in montagna, non porto 10 kg. sulla schiena a 5000 mt., nell’alta valle del Mekong o in Tibet alla ricerca del Leopardo delle Nevi, al contrario vago su un’utilitaria o una moto a noleggio per le strade meno note della Grecia continentale o di qualche isola nel Mediterraneo, o nel sud Italia con la suddetta borsa – quella anti-Easy Jet – Quindi due libri me li posso permettere comodamente).

Il problema è che di poesia proprio non mi intendo. E quindi non so se poi rileggerò più volte la stessa poesia, dipende da cosa ne ricaverò, da come mi sentirò in quel momento, da come mi funzionerà la mente (meglio se obnubilata da un po’ di retsina e di raki o, se fuori dalla Grecia, da altra bevanda alcolica), da come sarà l’umore, e se il carattere quel giorno tenderà al riflessivo o all’aggressivo. Bisognerebbe provare, ma fare le prove a casa non vale, ci vogliono tre giorni in un posto tranquillo per misurarsi al debutto con la poesia. Almeno, mi sono fatto questa idea.

Leggere in viaggio 02

Come posso leggere in casa la poesia, se poi mia moglie mi dice di chiamare il muratore, comprare i coppi che si sono rotti, e rifornire la casa di pellets, che lei lavora e giustamente non ha il tempo per farlo mentre io faccio il pensionato e mi gratto etc. etc.? Non posso mica darle torto, ma non mi metto nemmeno a leggere poesie se ho mia moglie vicino; leggo un noir, al massimo dieci pagine di Thesiger o di qualche altro viaggiatore, e sono certo che qualcuno di voi, sposato, mi capirà.

Da questo sofistico ragionamento nasce però una cosa buona: devo trovare un posto, da qui al grande freddo, in cui filarmela tre giorni, e data la stagione la soluzione è sempre a sud, a sud del nord intendo, cioè della pianura padana, che è l’estremo nord per me. Le isole sono un rischio per il vento sempre in agguato (avete fatto caso che quando guardiamo il meteo sul web controlliamo se c’è il sole, un’occhiata alla temperatura, ma mai al vento? sono arrivato una volta alle Azzorre con l’aereo che ha abortito due volte l’atterraggio, e abbiamo perso tutti – i passeggeri intendo – un anno di vita in quei minuti).

Le città sono caotiche ancor più che al nord, le zone dell’entroterra anche al sud sono fredde, insomma ci vuole un minuscolo borgo di pescatori dove, se hai la fortuna del tempo mite, anche in inverno riesci a sederti su una panchina fronte mare senza congelare, niente famigliole di bagnanti che ti disturbano, solo con te stesso e il tuo libro di poesie.

Una volta pagai 12 euro un’andata e ritorno a Trapani con Ryan Air; 53 euro Chania, Creta; 77 euro Pantelleria. Oggi sono solo bei ricordi, i prezzi dei voli sono lievitati (che brutto termine, mi fa pensare al pane, non ai soldi, e non posso nemmeno usare “levitati”, sebbene parliamo di aerei in volo, quindi mi rifugio su un comune “aumentati”) come molte altre cose, si può sperare di trovare a prezzo solo se si provvede tre mesi prima, e non fa al caso mio. Se decido di portarmi via tre giorni, lo faccio tre giorni prima, ma in questo modo i costi restringono di gran lunga la scelta della località. D’altronde, la ricerca della località è di gran lunga la parte migliore del viaggio, quindi non voglio lamentarmi troppo e soprattutto non esulare dal contesto di queste poche righe, tornando alla poesia.

Leggere in viaggio 03Non ho libri di poesia, pochissimi, alcuni mai letti. Sono di una ignoranza abissale in merito. Per colmare la lacuna e cominciare un nuovo percorso, ho comprato a quattro soldi Quarantasette poesie facili e una difficile, di Vladimir Chlebnikov, invogliato nella scelta dal fatto che il libro è curato da quel simpaticone di Paolo Nori, grande amico di tutta la letteratura russa e, pur con un italiano tutto suo, abile istruttore di “volo letterario” russo.

Come libro di scorta ho preparato Viaggio in Cina e Giappone, di Nikos Kazantzakis, uscito da poco presso la stimatissima Crocetti editore.

Ora non mi resta che trovare a) una data utile b) un volo/treno economico c) una pensioncina accogliente. Quando partirò ve lo dirò; anzi, ve lo dirò quando torno, come è andata con le poesie.

Nell’Ellade profonda

Note a margine di una scappata in Macedonia

di Paolo Repetto, 30 settembre 2023

In genere le note corredano un testo “importante”, di argomento storico o scientifico: difficilmente vengono inserite nei resoconti di viaggio. Nel mio caso però la cosa funziona diversamente. Io non so raccontare i viaggi, almeno i miei, perché non ho capacità di sintesi: sono eccessivamente cosciente di quanto in una narrazione di questo tipo va perduto, mentre non vorrei tralasciare nulla. E allora il racconto del viaggio diverrebbe lungo quanto il viaggio stesso. Faccio dunque prima a saltare a piè pari il testo e andare direttamente alle note.

In realtà sono un appassionato lettore dei viaggi altrui, proprio perché non sapendo cosa mi perdo riesco a godermi quel che mi viene offerto: ad appassionarmi però non è la parte strettamente diaristica, quanto piuttosto le considerazioni, spesso tutt’altro che pertinenti, che il viaggio induce. Brevi illuminazioni, flash, accostamenti peregrini, analogie, ecc. Quando si viaggia si è costantemente spiazzati, e questo porta a vedere le cose, non solo quelle che ci scorrono davanti, ma anche quelle che scorrono dentro, da angolazioni inedite. Le note che seguono sono per l’appunto frutto di questi spiazzamenti.

Alcune coordinate essenziali devo però fornirle, perché un improbabile lettore possa poi ricostruire l’itinerario con l’ausilio di un atlante o di una carta stradale. Dunque. Ho girovagato con Vittorio per la Grecia “continentale”, dall’Epiro alla Macedonia ellenica, alla Tessaglia settentrionale e alla Calcide, per nove giorni, nell’ultima decade di settembre. Da Atene abbiamo percorso in costa il Peloponneso sino a Patrasso, poi su a nord per Neapoli e Giannina, quindi dritto a est fino a Salonicco e di lì sino a Sithonia e al monte Athos. Successivamente abbiamo puntato la barra tutta ad ovest verso i laghi di Prespa, abbiamo toccato in barca i confini con la Macedonia del Nord e con l’Albania, e poi virato nuovamente a sud-est per arrivare all’Olimpo, Ci siamo ripetutamente bagnati in un Egeo quasi tiepido, durante la risalita del golfo Termaico e il periplo di quello di Cassandra, abbiamo valicato per dritto e per traverso i passi del Pindo e attraversato le afose pianure tessale. Tutto questo a bordo di una spompatissima Peugeot 108, praticamente una scatola di sardine. Nel corso di questo giro non abbiamo visitato né siti archeologici né musei, ci siamo dedicati piuttosto alle indagini gastronomiche e a quelle antropologiche. Insomma, siamo andati a zonzo. D’altro canto, quello che “dovevamo” vedere della Grecia “classica” l’avevamo già visto in visite precedenti.

Non aspettatevi dunque granché. Quanto segue non sarà di alcuna utilità per chi abbia in mente di muoversi sulle tracce di Pausania, e tutto sommato per nessun altro. In linea con l’assunto del nostro viaggio, risponde solo alla poetica del vagabondaggio.

Nell’Ellade profonda 02

Sulle strade. Oltre che dalla facile reperibilità di servizi igienici, per il viaggiatore automunito una civiltà si misura anche dallo stato delle strade. Uno si aspetta dunque che una Grecia da sempre economicamente in ginocchio sia quasi impercorribile, che il fondo stradale sia dissestato, che la segnaletica sia obsoleta o latitante (oltre che ostica, per via dei caratteri alfabetici). Invece è tutto il contrario. Manti asfaltati lisci come biliardi, e questo vale per tutta la rete stradale, anche quella che corre in zone dove non si scorge un casolare per decine di chilometri. Da chiedersi che tipo di bitume adottino, come già mi era accaduto in Islanda, in Spagna, persino in Turchia (ma soprattutto, che schifezza viene sparsa sulle strade in Italia). Tutto questo a fronte del fatto che lungo l’intero percorso non abbiamo trovato nessun restringimento per lavori in corso (da noi, sull’A26, nel solo tratto tra Voltri e Casale ne ho contati quattordici). E che non ho mai visto qualcuno lavorare alla manutenzione. Non solo: quasi ovunque, dove sia previsto il duplice senso di marcia, persino nei viottoli più stretti, le corsie sono divise da una doppia riga bianca. Non ho capito se questo serva a rafforzare il concetto, se cioè le autorità non si fidano del rispetto degli automobilisti per le norme: resta il fatto che la doppia riga già solo visivamente dissuade dal superarla, almeno noi che non siamo abituati.

Una parziale spiegazione di tanta scorrevolezza me l’hanno fornita le fila di pali di legno per le linee telefoniche ed elettriche che corrono ai lati delle strade, quelli che in Italia sono stati sostituiti da tempo da linee intubate sotto il manto stradale. Sembra di tornare indietro di almeno trent’anni, ma all’atto pratico da noi ad ogni novità (fibra, allacciamenti idrici e fognari, ecc…) le strade vengono sconquassate e poi rappezzate alla meno peggio, finendo per trasformarsi in autentici percorsi da cross. E per i servizi igienici? Beh, in questo la Grecia è più in linea con l’Italia che con i paesi nordici. Irreperibili. Per chi non può bere più di un paio di caffè al giorno sono problemi.

Rimanendo in tema di auto e di strade, non ho visto una sola Cinquecento L (ne possiedo una, e questo mi porta per riflesso condizionato a notarne la presenza o l’assenza). Le auto in circolazione sono nella stragrande maggioranza tedesche. Mi aspettavo, visto che la Merkel era ritenuta una decina d’anni fa la maggiore responsabile dello strozzamento dell’economia greca e che il risentimento antitedesco dura dalla seconda guerra mondiale, una qualche forma di boicottaggio, di rifiuto. Non è affatto così, la Germania è ancora la maggiore partner commerciale della Grecia. Forse questo fatto dovrebbe far riflettere i nostri più accaniti antieuropeisti sulle dinamiche reali dell’economia.

Con i cani. Varrebbe la pena riflettere (e far riflettere) anche su un altro problema, che in Grecia si presenta immediatamente, appena posi i piedi fuori dall’auto. Qui i cani randagi sono come le mucche sacre in India. Vagano per i paesi e persino al centro delle grandi città, pattugliano le spiagge e si appostano ai bordi delle strade di montagna, ti si affiancano supplichevoli o minacciosi ai tavolini dei caffè. Pare siano quasi un milione, e che la crisi galoppante ne stia moltiplicando il numero. Tra l’altro, per una legge naturale di sopravvivenza del più forte, sono tutti di grossa taglia, e non tutti sono pacifici. Il fenomeno mi aveva già colpito dieci anni fa, ma allora pensavo fosse transitorio: invece è diventato un problema endemico. Destinato purtroppo a presentarsi (e in molte regioni già presente) anche da noi.

La trama si ripete infatti ovunque sempre identica. Appena cresciuti un po’ i meravigliosi cuccioli che calamitavano e restituivano tanto affetto, che giocavano coi bimbi e alleviavano le solitudini, o che semplicemente facevano status, diventano un peso: e questo vale tanto più quando anche gli umani devono cominciare a tirare la cinghia. Li si abbandona allora senza troppi complimenti alle cure della comunità, che in realtà con questi chiari di luna non può permettersi di farsene ufficialmente carico, e neppure di sterilizzarli. Eliminarli significherebbe incorrere nelle ire degli animalisti, e allora li si lascia al proprio destino, sperando che incidenti e aggressioni rimangano entro limiti percentuali “tollerabili”. Anche da queste cose si misura lo stato di salute di una civiltà. E direi che c’è molto di cui preoccuparsi.

Geometrie post euclidee. Durante i precedenti viaggi in Grecia avevo maturato la convinzione che il paese si fosse risparmiata l’età dei geometri, quella che ha sconvolto il paesaggio italiano negli anni del boom: e ciò non in virtù di una scelta estetica ma a causa di una arretratezza economica prolungatasi sin quasi alla fine del secolo scorso. Percorrendo però le zone più prossime alle spiagge dell’Egeo ho dovuto ricredermi. C’è stata, e sembra molto recente o addirittura in corso, una fioritura di villette di una bruttezza imbarazzante, con tutta evidenza costruite in economia, ma senza risparmio alcuno di soluzioni architettoniche bizzarre e presuntuosamente avveniristiche. La crisi recente ne ha lasciate inoltre molte incompiute, e così piccoli scheletri di cemento irti di tondini rugginosi occhieggiano tristemente dalle aperture vuote: ruderi senza storia, un’archeologia da day after. Le une e le altre sorgono poi in genere su terreni spogli, con nessuna cortina di verde a nasconderle, per cui si ha l’impressione di un effetto sia voluto, di una stravaganza orgogliosamente esibita.

Nelle zone montuose dell’interno, invece, ma anche nelle vaste pianure coltivate della Tessaglia, è inquietante l’assenza di case coloniche o di piccoli nuclei abitati. Per lunghissimi tratti non si scorge l’ombra di un tetto, anche là dove si susseguono i campi, gli uliveti, i frutteti. Mi chiedo dove abitino gli agricoltori, dove ricoverino i loro attrezzi e macchinari. Mi riesce difficile ipotizzare per questa terra un’antica storia di latifondi e di concentrazioni abitative, come accade invece per la Sicilia. So troppo poco dei sistemi di proprietà bizantino prima e ottomano dopo. Immagino comunque lo sgomento di un viaggiatore che fosse rimasto in panne prima dell’avvento dei cellulari: e anche oggi dev’essere un’esperienza tutt’altro che divertente.

Menù turistico. Le zone che abbiamo attraversato non presentano particolari attrattive turistiche, almeno per quanto concerne il turismo di massa, salve le fasce costiere del golfo di Salonicco e della Calcide. Abbiamo conosciuto però una frequentazione diversa, per certi aspetti inaspettata: il turismo bulgaro. La cosa di per sé non sarebbe strana, tutto il lembo di Grecia che si spinge lungo la costa dell’Egeo sino alla Turchia europea confina con la Bulgaria, e la distanza di quest’ultima dal mare non supera mai gli ottanta chilometri: quindi per la gran parte dei bulgari l’Egeo è più vicino che non il mar Nero (e senz’altro è più caldo). È invece l’idea stessa di un turismo bulgaro a risultare spiazzante. In effetti siamo portati per molti motivi a dimenticare l’esistenza della Bulgaria: al momento non è invasa da nessuno, non ci manda quasi immigrati, non è una partner commerciale particolarmente significativa. Ce ne ricordiamo al più quando le statistiche ci dicono che il salario minimo in Bulgaria è il più basso d’Europa (un euro e mezzo l’ora), che lo stipendio medio di un bulgaro è meno di due terzi di quello di un greco, che a sua volta è poco più della metà di quello di un italiano. Rimane difficile dunque immaginare la famigliola bulgara che parte per fare le proprie vacanze in un paese in cui vige l’euro (in Bulgaria sarà adottato solo tra un paio d’anni). Probabilmente sarà un’infima minoranza a potersele permettere, sufficiente comunque a dare l’impressione che la Calcide sia la riviera adriatica dei bulgari. E la cosa non può che rallegrare.

Nell’Ellade profonda 03

Il turismo bulgaro non è la spia di un costo della vita particolarmente basso. La benzina costa in Grecia esattamente quanto nel nostro paese (il che smentisce la credenza che le accise ci siano solo in Italia), e di conseguenza le tariffe dei servizi pubblici, le consumazioni al bar e i prezzi nei supermercati sono più o meno sullo stesso livello. Solo le sigarette costano meno, ma questo riguarda esclusivamente la minoranza oppressa di cui faccio parte. Per la ristorazione il discorso è più complesso. Nelle tabernas il costo di ogni portata è grosso modo paragonabile a quello medio italiano, ma è la consistenza a fare la differenza: un secondo piatto greco ha il valore proteico e calorico di un intero pasto italiano, per cui quando l’hai capito ci sopravvivi per tutta la giornata. E comunque, un piatto colmo di ottime olive in un ristorante in riva al mare ci è costato due euro: in Italia per quella cifra ti davano giusto il piattino.

Il valore nutrizionale della cucina greca lo si può dedurre anche dalla taglia tendenzialmente robusta della popolazione, di quella maschile ma soprattutto di quella femminile. È una robustezza “solida”, da cibo, diversa da quella nordica da birra. Questo spiega anche perché le atlete greche siano particolarmente presenti e brave nelle discipline più pesanti (peso, disco, martello e giavellotto).

Nero ellenico. Un’altra caratteristica che balza immediatamente agli occhi è la preferenza dei greci, maschi e femmine, per il colore nero nell’abbigliamento. Nulla di strano, c’è dietro una tradizione millenaria e non è un costume esclusivamente ellenico, è comune nel Nordafrica, nel vicino e nel Medio Oriente e anche, da quanto ho potuto constatare, tra i bulgari. Ma in questa occasione mi ha colpito particolarmente, forse perché mi ero portato appresso lo studio sul “Nero” di Michel Pastoureau, che ne illumina tutta la storia. Non so perché, continuava a ricorrermi in mente il titolo di una tragedia di O’Neil, Il lutto si addice ad Elettra (novenario perfetto). Pare comunque che quella della mise nera sia una moda crescente anche dalle nostre parti; lì dava però l’idea di non obbedire, nemmeno nei giovanissimi, ad un capriccio stagionale. Sembrava piuttosto esprimere una rivendicazione identitaria, il che indurrebbe a supporre che i giovani greci sentano ancora fortemente il legame culturale col passato del loro paese. Che non è solo quello classico, ma quello tragico e accidentato degli ultimi duemila anni. Voglio dire che il nero delle magliette e dei pantaloncini italiani arriva dai social, quello greco dai libri di storia.

Nell’Ellade profonda 04

Montagne sacre (ortodosse). Il principale movente per questa nuova scappata in Grecia è stato senza dubbio il monte Athos. Mi intrigava l’idea di una repubblica semiautonoma tutta maschile, ma non riuscivo a immaginarla e propendevo a liquidarla come folklore tenuto artificialmente in vita a scopi turistici. Non avevo in realtà idea di quale fosse l’effettivo peso della chiesa ortodossa nella vita del paese. In pochi giorni me ne sono fatta una, e anche senza mettere materialmente piede entro i confini del monte Athos, e vedendolo anzi solo dai cinquecento metri di distanza imposti ai battelli, ho realizzato che la cosa è molto più seria di quanto pensassi. Almeno a livello di impatto dell’immagine, perché poi di come materialmente si svolga la vita dei duemila e cinquecento monaci che ancora lo abitano ne so naturalmente quanto prima.

Comunque, ho constatato che almeno localmente la chiesa greco-ortodossa è una potenza, e interferisce nella vita pubblica e nel gioco politico quanto e forse più del Vaticano in Italia. Questo perché, come tutte le altre chiese che, pur essendo “autocefale” fanno comune riferimento all’ortodossia, predica una sorta di nazionalismo religioso. Ne abbiamo visto qualcosa in Russia negli ultimi tempi, ma mentre là è l’autorità politica a condizionare (e a scegliere, addirittura) quella religiosa, qui sembra funzionare diversamente. La chiesa è tra le istituzioni più apprezzate, e può contare su un sentimento religioso diffusissimo: metà dei greci adulti si dichiarano “altamente religiosi”, e lo dimostrano tangibilmente. Seduto un tardo pomeriggio a poca distanza dal sagrato di una chiesa, ho visto decine di persone di ogni età farsi il segno della croce nel transitare lì davanti. E ho notato che sui parabrezza degli autobus, come di moltissime auto private, accanto alla bandiera bianco-azzurra compaiono comunemente le icone ortodosse.

La religione qui è considerata una cosa seria, anche perché ha una forte valenza identitaria, riconducibile al modo stesso in cui è nato lo stato greco, da una rivoluzione contro gli ottomani. Il clero ortodosso è stipendiato dallo stato, ma non esita a prendere posizione contro qualsiasi “modernizzazione” i governi tentino di introdurre. Tsipras ha perso le elezioni del 2019 proprio per aver insistito sulle riforme, e il clero ortodosso non ha preso le distanze da Alba Dorata quando il partito dell’estrema destra si è fatto paladino della tradizione in suo nome. I pope hanno una presenza discreta, ma vuoi per la barba vuoi per l’obbligo di indossare l’abito tradizionale (la rjasa, una tonaca “esterna” – nera, naturalmente – con cintura, che s’indossa sopra un’altra tonaca interna, più leggera) mantengono un aspetto fortemente ieratico, malgrado siano in realtà molto più “secolarizzati” di quelli cattolici (possono anche sposarsi).

Insomma, comunque la si pensi sui suoi monaci e sulle icone, il monte Athos non ha nulla a che vedere con i mega-complessi per la produzione di miracoli sul tipo di Pietralcina, o con le Madonne che piangono (giustamente) in ogni angolo del nostro paese: e già il fatto di non ammettere la presenza femminile costituisce una garanzia in questo senso.

Nell’Ellade profonda 05

Montagne sacre (pagane). Sempre a proposito di luoghi sacri (ma pagani), ho visto finalmente il monte Olimpo. Non l’ho asceso, e non per una qualche proibizione esterna o reverenza interna, ma semplicemente perché il dislivello da superare per arrivare in vetta era decisamente proibitivo per lo stato attuale delle mie gambe. L’ho quasi soltanto intravisto, e sono stato fortunato, perché è nascosto da ogni lato da una corona di altri monti e perché in via, a quanto pare, eccezionale non era coperto di nubi. Ho capito comunque perché gli antichi Elleni ne avessero fatto la dimora degli dei. Una volta superati lungo una serie di cenge i corridoi delle vallate di accesso, ti si para davanti con una prominenza di oltre duemila metri, fino a sfiorare i tremila, e la sommità non è più visibile. Dal basso sembra davvero inaccessibile, il luogo ideale per nascondersi agli occhi e alle piccinerie degli umani. Il nome stesso sembra significasse anticamente barriera, impedimento. E almeno ufficialmente pare che la sua sacralità sia stata rispettata sino al 1913, data della prima ascensione ufficiale. Penso che chi l’ha realizzata avrebbe potuto risparmiarsi la fatica: i vecchi inquilini se n’erano andati da un pezzo.

Sì, viaggiare. L’impressione che ho riportata dell’Olimpo sarebbe sufficiente a giustificare tutto il viaggio. Ma in realtà il nostro vagabondare ci ha gratificati di altre bellissime immagini: le sterminate e semideserte spiagge dell’Egeo; le montagne del Pindo, che presentano paesaggi diametralmente opposti nel volgere di pochi chilometri, nel passaggio da una valle all’altra; i laghi di Prespa, più vasti del lago Maggiore e racchiusi tra sponde pressoché disabitate; i villaggi costieri e le fantastiche baie della penisola Calcidica. E mi fermo qui, per evitare di scadere nello spot.

Piuttosto, mi sono posto per l’ennesima volta la domanda cruciale: ha ancora senso viaggiare? In genere me la ponevo prima di intraprendere un viaggio, e la risposta arrivava dall’eccitazione per l’uscita dalla consuetudine, dal flusso di adrenalina prodotto dallo spostamento. Era dunque una risposta provvisoria, occasionale. Stavolta lo faccio invece a posteriori, e forse riuscirò a darmi motivazioni meno effimere. Per il momento mi limito però ad una raccomandazione. Questi luoghi saranno ancora lì, tra cinque o dieci o cento anni, ma forse già dal prossimo non saranno più gli stessi. E difficilmente cambieranno in meglio. Vale la pena quindi vederli ora, subito, e farlo senza assilli e programmi e aspettative. Non per spuntare qualche nome dalla lista delle mete obbligate, ma per riconciliarci in tutta serenità col mondo che ci circonda, per renderci conto di quanta bellezza ci è stata concessa. Potremmo farlo senz’altro anche dietro casa, ma il paesaggio e i costumi abituali perdono per forza di cose il potere di stupirci. E così anche le loro trasformazioni. Credo che il confronto con le meraviglie di una natura inconsueta risvegli il nostro senso estetico intorpidito, così come quello con la diversità nei costumi mette alla prova il nostro sentire etico: e credo che tutto questo ci aiuti a guardare ogni volta con occhi nuovi, più attenti e critici, a ciò che c’è e a ciò che accade nel nostro cortile. Ad apprezzare diversamente quanto abbiamo, e a trovare lo stimolo e la forza per difenderlo.

Quanto a me, non ho nemmeno disfatto la valigia.

Nell’Ellade profonda 06

Ariette 18.0: Che cosa resta

di Maurizio Castellaro, 28 agosto 2023

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

È arrivato tardi, ma non troppo tardi, il mio viaggio in Grecia. Alcuni pezzetti del puzzle della mia frammentata cultura sono andati a posto, si incomincia a intravedere un quadro d’insieme in grado di resistere meglio agli scrolloni. Ma cosa resta, oltre alle scoperte non così scontate che i greci sono i nostri fratelli maggiori, e che nella nostra storia abbiamo avuto non una ma due superpotenze globali, prima Roma, e poi la grande Venezia? Dodona, Delfi, Corinto, Tebe, Micene, Termopili, il palazzo di Nestore, l’Acropoli, l’Agora, l’Accademia. Pietre, terraingrata, polvere, perimetri incomprensibili, ecco quello che ho visto. Ma sono quelle pietre, quella terra ingrata, quella polvere, quei perimetri. Tutto ciò che sono stati realmente non esiste più da millenni (erano rovine mute già per i romani distruttori del II secolo A.C.). Ma ciò che sono davvero è il filo che ha tessuto la tela dei sogni, delle fantasie e dei ragionamenti che hanno fatto di noi, poco o tanto, le persone che siamo. Ho visto ad Eleusi la Fonte Partenia cara a Demetra, garante del ciclo delle stagioni. Era un foro nella pietra, ma cos’era davvero quel foro l’ho avuto chiaro solo rileggendo sotto il sole l’inno omerico del VII sec. A.C. a lei dedicato: “Lungo la via (la dea) sede’, col cuore serrato d’angoscia, presso la fonte Partenia, d’onde acqua attingevan le genti, all’ombra — e sopra lei cresceva un arbusto d’ulivo —”. Le parole scritte, e le storie e i pensieri che queste parole hanno covato nel silenzio della mente di ogni uomo che le ha meditate. È questo il vero dono della Grecia, quello che resta. Un superpotere che ha permesso ai Greci di vincere tutte le guerre mentali che hanno ingaggiato nella storia, e di rinascere sempre sotto altre forme, come hanno fatto con i Romani, con i Cristiani, con i toscani e i fiamminghi del Quattrocento. Come hanno fatto anche con me.

Risvegli

di Paolo Repetto, 29 luglio 2023

Nelle Vite dei maggiori filosofi Diogene Laerzio racconta di un giovane cretese, Epimenide, che fu mandato un giorno dal padre in campagna a cercare una pecora dispersa. Dopo aver girovagato a lungo il ragazzo, sfinito per il caldo e la fatica, si addormentò in una caverna, per risvegliarsi solo cinquantasette anni dopo. Devo dire che Diogene Laerzio non è particolarmente attendibile, tirava un po’ all’enfasi sensazionalistica, e che altri che hanno scritto di Epimenide prima di lui, come lo stesso Platone e poi Plutarco, non fanno cenno a questo episodio, mentre colui che fu probabilmente la sua fonte, lo storico-geografo Pausania, parla di “soli” quarant’anni. Anche nelle trasposizioni moderne della leggenda (Goethe ne Il risveglio di Epimenide e Washington Irving ne La leggenda di Rip Van Winkle) le cifre sono discrepanti: cinquant’anni di sonno per il primo, venti per il secondo: ma c’è una spiegazione, e la vedremo.

La sostanza della storia è comunque che, a prescindere dalla durata del riposino, al suo risveglio Epimenide trovò il mondo molto cambiato, quasi irriconoscibile (e si parla di sei o sette secoli prima di Cristo). A quanto pare già in gioventù il bell’addormentato era un tipo poco convenzionale (ad esempio, portava i capelli lunghi, contro l’uso dei tempi) ed è naturale che al momento in cui rientrò dal mondo dei sogni la sua eccentricità apparisse ancora più marcata. Ma nelle società antiche la stranezza, se da un lato era vista con sospetto, dall’altro veniva letta come spia di facoltà speciali, in questo caso divinatorie. Epimenide cominciò dunque ad essere chiamato in tutta l’Ellade per fornire consulenze su situazioni difficili. Lo interpellarono anche gli ateniesi, prostrati da un’annosa pestilenza, e il nostro risolvette in quattro e quattr’otto il loro problema, identificandone le cause; poi se ne andò, schivo di onori e rifiutando oltretutto qualsiasi compenso (era davvero un eccentrico). Pare invece che, come sempre accade, non fosse particolarmente apprezzato dai suoi compatrioti, dei quali infatti diceva: “Cretesi, cattive bestie, ventri pigri, mentitori sempre” (questa invettiva gli è attribuita da Paolo di Tarso). Di qui il famoso paradosso del mentitore, per cui, essendo lui cretese, se tutti i cretesi mentono nemmeno lui è credibile, e le sue accuse sono infondate.

Ma non è questo che mi interessa. Mi interessano invece la capacità divinatorie, perché interrogato sull’origine dei suoi poteri Epimenide si scherniva asserendo di non vaticinare rivolgendo lo sguardo al futuro, ma sulla base della conoscenza del passato. Mi pare un’affermazione tutt’altro che scontata, degna nel caso specifico di una riflessione più approfondita: credo infatti che il filosofo-vate non volesse affermare semplicemente che pensare al passato è fondamentale per capire il presente e orientare il nostro futuro, cosa abbastanza ovvia (anche se oggi non lo è affatto). Intendeva dire, sulla base della sua straordinaria esperienza, che chi per qualche motivo è rimasto più strettamente vincolato al passato, o non ha vissuto direttamente i cambiamenti, quando se li trova di fronte è in grado di apprezzarne la reale portata, si rende conto più nitidamente della di-stanza intercorsa. È in fondo ciò che accade a noi tutti, che non avvertiamo i mutamenti che avvengono in noi stessi e nelle persone con le quali abbiamo maggiore consuetudine, mentre li constatiamo sgomenti in coloro che abbiamo perso di vista per venti o più anni.

La cosa mi coinvolge perché in qualche modo un’esperienza simile a quella di Epimenide la sto vivendo anch’io. Provo sempre più spesso la sensazione di risvegliarmi da un lungo letargo e di trovarmi di fronte ad una realtà nella quale non mi raccapezzo. Ne avrei tutti i motivi, perché nel frattempo la trasformazione del mondo ha conosciuto un’accelerazione esponenziale. I cambiamenti che mi sorprendono in realtà io li ho vissuti da dentro, sono passati sulla mia pelle, sul mio corpo, sulle mie speranze e aspirazioni (lasciando anche cicatrici evidenti): eppure, sarà senz’altro per effetto dell’età e del rimbambimento senile, che induce anche patologiche nostalgie, il mondo nel quale mi risveglio ad ogni notizia di telegiornale, ma anche ad ogni esperienza di quotidiana banalità, non lo riconosco, non mi piace, mi respinge (il che potrebbe in fondo essere un bene, perché avrò meno rimpianti al momento di lasciarlo). Insomma, l’impressione è di essermi addormentato sessant’anni fa pieno di certezze e di speranze e di risvegliarmi oggi pieno di dubbi e di delusioni.

Per esemplificare questa sensazione ricorro ad alcune notazioni che ho appuntato in una giornata tipo della scorsa settimana. Non tengo un diario, ma assicuro che è andata proprio così, non sto inventando nulla.

Dopo aver tentato invano di chiudere gli occhi per più di un paio d’ore consecutive, e troppo stanco per leggere, mi piazzo ad un un’ora antelucana davanti al televisore, lasciando scorrere distrattamente le immagini mute e sperando nel loro effetto soporifero. Ad un certo punto però mi imbatto in un vecchio film-documentario, di quelli in voga nei tardi anni cinquanta, che giocavano maliziosamente col pretesto del cinema-verità per offrire agli spettatori immagini che all’epoca apparivano pruriginose. Si tratta di Europa di notte, di Alessandro Blasetti, che quella moda l’ha inaugurata. Mi sono perso tutta la parte “spettacolare”, ma mi godo invece lo spezzone finale, quello davvero documentale, che mostra in bianco e nero una Roma percorsa ai primi chiarori dell’alba dalla cinepresa, a raccontare un lento risveglio dopo i bagordi notturni: una Roma semideserta (per le strade ci sono solo i netturbini e distributori dei pacchi dei giornali alle edicole), grigia ma pulitissima (è quella dei film tardo-neorealistici, tipo Poveri ma belli – quella sporca comincerà ad apparire solo tre anni dopo, con Accattone).

Il caso (?) vuole che uno dei servizi del telegiornale trasmesso immediatamente dopo sia dedicato proprio all’immondizia che sta sommergendo ormai da decenni la capitale. Roba da chiedersi come abbia fatto una città che un tempo dominava il mondo – e già all’epoca era abitata da più di un milione di persone – a ridursi ad un tale letamaio. E non c’è in giro un Epimenide da consultare (se ci fosse se ne andrebbe via di corsa), o meglio, ne vengono consultati una miriade, ma si limitano a intascare il compenso. Soprattutto non c’è l’ombra di netturbini (anche se a ruolo paga ne risultano duemilaquattrocento).

Con la prima sigaretta arriva anche la prima riflessione: allora la mia non è solo una percezione distorta, falsata dalla nostalgia: il mondo che ho conosciuto prima di addormentarmi era molto più pulito, nelle città come nelle campagne, lungo le strade di montagna come sul greto dei fiumi. Come ho già raccontato altrove, nelle campagne non si producevano rifiuti: tutto veniva riutilizzato, legno e carta per le stufe, l’organico per gli animali o come fertilizzante, la plastica non esisteva e le bottiglie di vetro erano preziose, i mobili, gli abiti e persino la biancheria passavano di padre in figlio. Persino le cicche venivano disfatte per recuperare il tabacco. Lungo le strade che salivano al paese e nelle vie interne le cunette erbose erano rasate ogni tre o quattro giorni, a ciascun cantoniere competeva la manutenzione di un tratto e c’era una vera e propria gara a chi lo teneva più in ordine. Anche nelle città funzionava una raccolta minuziosa. A Genova, dove ho trascorso nell’infanzia brevi periodi presso una zia portinaia, lo smaltimento dei rifiuti era quasi un rito, i netturbini erano implacabili con chi non rispettava i tempi e i luoghi del conferimento. Certo, la mia è una visione di superficie, ma almeno la superficie era pulita.

Risvegli 02

Mentre attendo che il caffè gorgogli nella moka il telegiornale prosegue. Un automobilista ubriaco, tra l’altro già privato un sacco di volte della patente, ha sterminato una famiglia che passeggiava tranquillamente a bordo strada. Gli omicidi stradali danno ormai vita ad una rubrica quotidiana, come i femminicidi e le previsioni meteo. Quando mi sono assopito, sessant’anni fa, naturalmente queste cose non accadevano. Mi si obietterà che circolavano forse un cinquantesimo delle auto odierne, ma la realtà è che c’erano anche molti meno ubriachi, alla faccia delle statistiche che vengono sbandierate ad ogni occasione, e quelli che c’erano in genere potevano fare del male solo a se stessi. Durante tutta l’adolescenza e la giovinezza non ricordo comunque di aver mai visto un mio coetaneo sbronzo. C’era sì qualche adulto o qualche anziano che alzava il gomito, ma al massimo capitava di trovarlo steso in una cunetta, dove aveva trascorso la notte dentro la neve, protetto dall’antigelo che circolava nel suo corpo. Oggi, a quanto mi arriva, lo sballo e la sbornia sono diventate abitudini giovanili, riti di passaggio che tendono a protrarsi poi all’infinito, e hanno anche cancellato le differenze di genere.

Al contrario di quanto faccio al solito, dopo il caffè non spengo il televisore. Una sindrome masochistica mi spinge a seguire anche le notizie internazionali. A meno di duemilacinquecento chilometri da noi, distanza che un aereo di linea percorre in tre ore, è in corso una guerra. Dopo quasi un anno e mezzo di carneficina, della quale non conosciamo nemmeno approssimativamente i costi reali, in vite umane, in sofferenze e in distruzioni, siamo a constatare che la cosa potrebbe durare all’infinito, così come evolvere all’improvviso in un disastro globale. Ci siamo già assuefatti, e le notizie dal fronte arrivano ormai di spalla, dopo le polemiche sulla Santanché e su La Russa.

Risvegli 03

Nessuno dei miei coetanei, nati a immediato ridosso dell’ultimo grande conflitto, avrebbe mai immaginato sessant’anni fa una cosa del genere. Si parlava di guerra fredda, è vero, veniva evocato ad ogni piè sospinto lo spauracchio nucleare, ma almeno dalle nostre parti (intendo in Italia, e penso anche al resto d’Europa) nessuno ci ha mai creduto veramente. A differenza che negli Stati Uniti, le aziende produttrici di rifugi antiatomici da noi hanno chiuso velocemente i battenti, e i pochi che sono stati venduti erano più intesi ad esibire uno status che a garantire una improbabile sicurezza.

Questo non significa che le guerre non ci fossero, che non fossero sanguinose e che non ne avessimo notizia. Sapevamo dell’Algeria, del Congo, del Biafra, del Vietnam e di tutti gli altri conflitti in corso in ogni angolo del mondo. Ma almeno li percepivamo come gli ultimi sussulti di un imperialismo in agonia, speravamo che avrebbero chiuso definitivamente la vergogna dello sfruttamento coloniale e aperto ad un mondo più giusto. Non è certamente il caso di quest’ultimo scontro: ed è indubbiamente assai più concreto il rischio di una deriva nucleare, anche se lo si esorcizza parlando di “atomiche tattiche”. Sembra che il mondo si sia rassegnato alla ineluttabilità di questo esito.

Di fronte a tutto ciò appare ancora più colpevole e scandalosa l’impotenza dell’Europa. All’epoca l’Unione Europea era ancora in fasce, esisteva solo per determinati settori economici, ma davvero si credeva che avrebbe potuto evolvere in una realtà politica. Magari eravamo tutti molto più ingenui, e non solo noi ragazzi, ma a volere questa unione era una classe politica che aveva vissuti gli orrori della guerra ed era determinata a non consentire che si ripetessero. Se potesse assistere allo spettacolo offerto dalle istituzioni politiche europee odierne inorridirebbe.

In appendice alle immagini della guerra arrivano quelle degli sbarchi dei migranti dall’Africa e dall’Asia. Nella sola giornata di ieri se ne sono contati settecento, e si sospetta che almeno un centinaio siano scomparsi nelle acque dello Ionio. Non riesco a seguire le polemiche e le dichiarazioni su accoglienza, respingimenti e ricollocazioni: un teatrino nauseante. Da neo-risvegliato mi colpiscono invece la natura e la dimensione del fenomeno. Mi ero assopito più mezzo secolo fa nella convinzione che la grande novità del terzo millennio sarebbe stata costituita da un terzo mondo finalmente libero e indipendente, capace di giocare un ruolo da protagonista: non mi aspettavo certo che la cosa prendesse questa tragica piega. Anche se non sono mai stato facile agli entusiasmi “rivoluzionari” del terzomondismo (voglio dire, niente Cuba, niente libretto rosso, niente Angola, ecc…), se guardo alla situazione geopolitica mondiale con gli occhi di allora non posso che rimanere allibito. È accaduto tutto il contrario di quanto speravo: il colonialismo ha cambiato pelle e ha trovato nuovi interpreti (la Cina, la Russia, gli stati arabi del golfo, …), le classi dirigenti indigene, in Africa come in Asia come nell’America Latina, hanno dato di sé pessima prova, dimostrandosi tutte egualmente incapaci e corrotte, quale che ne fosse l’estrazione o l’ideologia di riferimento, l’ONU è un baraccone privo di qualsiasi credibilità e potere, mentre tutte le agenzie specializzate che ha partorito, come l’UNESCO, la FAO e compagnia cantante sono diventate delle greppie inefficienti alle quali si nutre un numero scandaloso di funzionari, reclutati per lo più nei paesi “in via di sviluppo” e affamatissimi. Certo, hanno concorso gli stravolgimenti climatici, la desertificazione, lo sfruttamento criminale delle risorse operato dalle potenze neocoloniali: ma quello che balza agli occhi è ad esempio il fallimento di ogni progetto di “negritudine”, quello che aveva ispirato i primi anni dell’indipendenza africana. Altro che terzomondismo: e infatti, persino il termine è sparito dal vocabolario politico (così come “negritudine”, che da bandiera è diventata un insulto), e l’eredità è stata raccolta dall’azione “caritatevole” delle organizzazioni non governative, che anche quando sono in buona fede sembrano travasare l’acqua dell’oceano con un cucchiaio.

Risvegli 04

Le previsioni del tempo completano il quadro. Mezza Europa è prostrata da temperature torride, una buona parte è devastata da roghi che mandano in cenere il poco che rimane del patrimonio boschivo, mentre l’altra mezza è bombardata da fenomeni atmosferici estremi, trombe d’aria, bombe d’acqua, grandinate. Questo accadeva senz’altro anche sessant’anni fa, e seicento, e seimila: ma si trattava di situazioni eccezionali, ed erano percepite come tali. Oggi rappresentano la nuova “normalità” meteorologica, al di là dei titoli strillati sui quotidiani e del sensazionalismo isterico dei notiziari televisivi: una “normalità” percepita attraverso lo stravolgimento mediatico, nel quale all’afa e alla grandine si aggiungono le inconcludenti polemiche tra catastrofisti e negazionisti (che, è sin troppo scontato dirlo, lasciano il tempo che trovano). La chiusa finale, prima del diluvio pubblicitario, reca almeno una nota comica, ma di una comicità desolante, priva di qualsiasi umorismo: sono i consigli dispensati degli esperti, che tutti seri in volto e qualche volta supportati dall’autorevolezza di una divisa suggeriscono di bere molta acqua e di stare all’ombra, o nel caso opposto di rimanere in casa durante i nubifragi e non cercare riparo sotto gli alberi.

È ora di spegnere e di staccarsi dal divano. Una passeggiata solitaria mi porta al Capanno, dove trascorrerò il resto della mattinata trafficando e leggendo. Ma lungo il percorso mi guardo attorno. Sessant’anni fa questa passeggiata la ripetevo quattro volte il giorno, con un passo decisamente diverso, oppure in bicicletta. L’ultima casa del paese era in fondo al viale, dopo partivano i vigneti. Non c’era un metro di incolto, e a vista d’occhio i filari coprivano le colline più prossime ma anche quelle al di là del fiume. Dalla tonalità di verde delle foglie potevi capire dove maturavano il dolcetto, la barbera, il moscato. Oggi la macchia ha riconquistato tutti i declivi. Nella Valle del Fabbro non c’è più una sola vite, l’unico fazzoletto di coltivo è costituito dal mio frutteto, anch’esso purtroppo in via di inselvatichirsi. Per certi versi può apparire un angolo paradisiaco, ma è il paradiso dei rovi, e anche se egoisticamente me lo godo non può non trasmettermi la sensazione triste dell’abbandono.

Per la lettura mi rifugio in alcuni fascicoli de Le vie del mondo, risalenti agli anni in cui mi sono addormentato. Ho conferma di ciò che scrivevo sopra quanto alle aspettative su un mondo più libero, più giusto, più pacifico. E noto anche come non ci sia traccia di razzismo nella descrizione di paesi e di popoli lontani, appena emersi dal limbo della storia: c’è solo una gran curiosità, checché ne dicano gli odierni cancellazionisti, per i costumi, per le tradizioni, per le prospettive future che ciascuna di queste culture potrà perseguire senza negarsi. L’occidente non ha atteso i cultori della memoria particolaristica per farsi un esame di coscienza, come ben sa qualsiasi appassionato del western classico: nel cinema degli anni Cinquanta dietro ogni rivolta o scorreria o massacro operato dagli indiani c’erano la mano o le mene di mascalzoni bianchi.

Nel pomeriggio cerco consolazione dal Tour de France. Un tempo, nel dormiveglia di fine secolo scorso, andavo a seguirne dal vivo qualche tappa alpina. E prima della metà degli anni Sessanta lo vivevo attraverso le radiocronache. Ho tifato e ho urlato anch’io, ma quella che vedo oggi è una mandria di idioti assiepati lungo le salite, che intralciano con bandiere e cartelli la fatica dei corridori, corrono al loro fianco mezzi nudi per scattarsi un selfie, rischiando ad ogni passo di buttarli a terra, o si parano davanti alle moto bardati da cerebrolesi per strappare un attimo di visibilità internazionale. Non mi si venga a dire che è sempre stato così, che anche Bartali e Nencini erano stati ostacolati: si tratta di cose ben diverse. Là c’era di mezzo uno sciovinismo esasperato, stupido ma ingenuo: qui vediamo invece manifestarsi platealmente gli effetti del rincretinimento mediatico, della spettacolarizzazione di tutto, e in primis della stupidità. Lo sciovinismo, il tifo, sono degenerazioni della sportività: questa è invece degenerazione assoluta, una crescente tabe antropologica.

Non riesco neppure ad attendere l’arrivo della tappa, sono disgustato. Esco a fare un giro per strada. Il paese sembra un villaggio fantasma. Non un’anima, neppure un cane o un gatto (oggi vivono in casa), e non certo per via del Tour. È già l’ora nella quale dalle porte delle case che si affacciano in via Benedicta o dai vicoli che ne dipartono uscivano sedie e sgabelli, e zie e nonne e mamme si riunivano in capannelli lungo la strada, dandosi sulla voce da un gruppo all’altro, commentando ogni passaggio e facendo la tara ad ogni acquirente che uscisse dai negozi aperti sullo stradone. Oggi i capannelli non ci sono più, in compenso malgrado il divieto ci sono auto posteggiate lungo tutta la via, e non ci sono più nemmeno i negozi (erano dodici, oggi ne rimane uno). Se muore qualcuno paradossalmente se ne ha notizia solo il giorno dopo, dai manifesti affissi nella bacheca, se qualcuno è malato o finisce all’ospedale lo si viene a sapere quando ricompare, per i pettegolezzi ci si può rivolgere solo all’agenzia informale che opera davanti al bar, ma con gravi ritardi e scarsi dettagli. Insomma: non c’è più alcun controllo sociale, e questo in un paese di meno di mille abitanti. Figuriamoci in città. L’unico controllo è quello che passa attraverso gli iphone, ma è tutta un’altra faccenda.

In tre quarti d’ora, misurando il passo e cercando di cogliere i minimi indizi di cambiamento, di interventi edilizi, di restauro dei muri e degli infissi, dei segni di vita insomma, faccio il giro completo del paese. Incrocio quattro persone, e non ne conosco nemmeno una. Più della metà degli attuali abitanti è arrivata recentemente da fuori, attratta dai costi stracciati delle case – che nonostante ciò rimangono invendute per anni.

Alla metà del secolo scorso, quando i residenti erano quasi il doppio, li conoscevo benissimo tutti, sapevo dove abitavano, che attività svolgevano, che carattere avevano, se fossero affidabili o meno. Oggi mi sento uno straniero nella terra nativa. Continuo a non chiudere a chiave la porta la notte, ma in realtà non sono più così serenamente fiducioso.

Risvegli 05

Scende finalmente la sera, e con essa torna purtroppo anche l’incubo dell’insonnia. Una volta era costume tirar tardi in cortile, dove confluivano vicini, dirimpettai e passanti occasionali: ma dopo la morte dei miei genitori la consuetudine si è rapidamente persa.

La televisione naturalmente non aiuta, i film sono gli stessi già trasmessi cinquanta volte, persino i western sono inguardabili, ridotti a uno spezzatino in un mare di pubblicità, i talk show sono un oltraggio costante al pudore intellettuale. Non restano che i libri, ma anche la dondolo a quest’ora è scomoda, e a letto ogni posizione di lettura è immediatamente stancante. Spengo la luce, chiudo gli occhi e mi concentro.

Realizzo che per tutta la giornata ho comunque fatto uso senza pensarci affatto di strumenti (il computer, il cellulare, il forno a microonde, ecc …) dei quali sessant’anni fa nemmeno avrei sospettato l’avvento, e di altri dei quali non avevo la disponibilità (auto, telefono, televisione, …). Che ho mangiato cibi conservati in confezioni di plastica, e lo stesso vale per le bevande. E che tutto sommato, a dispetto della consapevolezza negativa, ho anche pensato secondo gli schemi conseguenti a tutto questo modo di vita. Solo ora mi rendo conto di quanti bisogni artificialmente indotti ho cumulato, di quanto ne sono diventato dipendente. Mi vien da pensare di essermi mosso per tutto questo tempo come un sonnambulo. Di fatto, mi piaccia o meno, mi sono adeguato a tutti i cambiamenti, a tutte le novità. Non dico di averli digeriti o capiti tutti, ma quantomeno ci ho convissuto. E nemmeno ho scordato come il mondo preletargico non fosse propriamente un Eden. Diciamo che ho vissuto in uno stato di coma vigile, e che forse sono meno convinto di quanto credo di volerne davvero uscire.

Comunque ci provo. Può essere che stavolta mi addormenti, per risvegliarmi sessant’anni addietro. Non con sessant’anni di meno, non è questo a interessarmi. Eden o no, ciò che rivoglio, almeno per un attimo, è quel mondo.

P.S. Ho accennato inizialmente alle discrepanze sulla durata del sonno di Epimenide (alias Rip Van Vinkle) che si trova nelle versioni moderne della leggenda. Me ne do questa spiegazione. Goethe scrive Il risveglio di Epimenide nel 1814. Dietro l’opera c’è una motivazione politica autogiustificatoria. L’autore cerca di spiegare il suo cinquantennale silenzio di fronte agli straordinari accadimenti dell’ultimo secolo, rivoluzioni americana e francese comprese, e soprattutto rispetto a quelli che hanno profondamente toccato la vita della Germania. Sembra voler dire che il suo non è stato un atteggiamento di fuga e di non compromissione con la realtà, ma di osservazione della realtà dall’alto di una speciale consapevolezza indotta dal sapere artistico. E infatti, dopo tanti sconvolgimenti, le cose sono tornate al loro posto (Napoleone è appena stato sconfitto), l’ordine è stato ristabilito. Al contrario Irwing, che scrive il Rip van Winkle pochi anni dopo (1819) in Inghilterra, ma lo ambienta in America, constata che in vent’anni le cose sono cambiate moltissimo, sia sul piano politico che su quello economico e sociale. Si è addormentato in una colonia inglese e si risveglia negli Stati Uniti, rischiando addirittura di essere linciato quando in perfetta buona fede dichiara la propria lealtà alla corona britannica. Ma soprattutto prende atto di una rivoluzione ancora più importante, quella industriale, che viaggia sulle ferrovie e sui battelli a vapore, e del fatto che le trasformazioni sono destinate a diventare sempre più veloci. Nessuno attribuisce a Rip facoltà divinatorie, ma molti credono alla sua storia e invidiano la sua esperienza, non fosse altro per il fatto che gli ha consentito di sfuggire alla tirannia della moglie. In sostanza, secondo Irwing, due decenni sono sufficienti a cambiarti la vita e a trasformare il mondo.

Direi che alla luce degli ultimi due secoli abbia visto ben più lontano di Goethe.

Risvegli 06

Può una nuova traduzione arricchire un libro?

di Vittorio Righini, 1 giugno 2023

Può, certo. Ma non solo perché è migliore di un’altra. Se prendiamo ad esempio libri in lingua inglese, la principale lingua nel mondo (ma anche in quella francese, molto utilizzata), abbiamo l’imbarazzo della scelta tra tanti eccellenti traduttori italiani. Possiamo così valutare chi ci convince di più nella interpretazione di un testo classico, ma anche di un grande racconto di viaggio. Naturalmente questa capacità presuppone una conoscenza ben più che scolastica dell’inglese (o del francese). E questo vale altrettanto naturalmente anche quando si affronta la lettura del testo originale.

Io ho letto diversi libri in lingua inglese, ma ho sempre avuto l’impressione di perdermi qualcosa. Quando non capivo mi rifugiavo nei dizionari (una volta), e oggi, grazie alla tecnologia, mi aggrappo al web: rimango però sempre dell’idea che nel leggere in una lingua che non sia quella madre, almeno per quelli come me, spesso si perdono sfumature importanti. Ma non solo: se il libro che sto leggendo è un poco obsoleto (i libri tradotti dall’inglese che leggo io sono prevalentemente del secolo XX o più vecchi), a volte mi ritrovo con dei dubbi sull’interpretazione di quello che leggo.

Con le traduzioni i problemi sono altri. Quelle vecchie dall’inglese (diciamo quelle fino a metà del ‘900) sono spesso laboriose, a volte un po’ troppo pretenziose, a volte uno specchio del traduttore, a volte troppo British. Invece le nuove traduzioni, quelle della seconda metà del Novecento, sono molto più pragmatiche e realistiche, soprattutto nel settore della narrativa di viaggio. Così è anche per i vecchi libri in francese, che per quanto appaia più simile al nostro dialetto rispetto alle astruse disfonie linguistiche degli anglosassoni, resta una lingua che nasconde comunque molte insidie.

Comunque, ripeto, i problemi sono di altro tipo. Faccio un esempio: se voi, come penso tanti italiani, avete letto in passato Zorba il greco di Nikos Kazantzakis, sarete incappati nell’unica versione Italiana, uscita la prima volta nel 1955 con la traduzione – DALL’INGLESE – di Olga Ceretti Borsini. Quello c’era: una buona traduzione, s’intende, ma non dalla lingua madre. Il romanzo era stato pubblicato ad Atene nel 1946, ma ha avuto risonanza internazionale soprattutto grazie al film di Michali Cacoyannis e alla magistrale interpretazione di Antony Quinn, nel 1964. Si intitolava originariamente Vita e imprese di Alexis Zorbas, e a dire il vero in patria fu quasi ignorato: ma nel 1954 venne riscoperto in Francia ed esaltato come miglior libro straniero. Ecco quindi arrivare l’anno successivo la versione italiana, con il titolo semplificato di Zorba il greco, ma di seconda mano, perché basata sulla traduzione in inglese. Mondadori ha poi ripubblicato il romanzo nel 1966, negli Oscar, con la medesima traduzione, e io quello ho letto anni addietro, e riletto di recente.

Può una nuova traduzione arricchire un libro 02Ma qui comincia un’altra storia. Ad Atene, nel 2007, le edizioni Kazantzakis pubblicano il testo definitivo in greco, con il titolo abbreviato, Zorba il greco, utilizzato sia per il film che nel mercato internazionale.  Qualche anno dopo viene incaricato della traduzione in italiano il grecista Nicola Crocetti, nato a Patrasso nel 1940 da padre italiano e madre greca, residente a Milano da tantissimi anni, fondatore della Crocetti Editore, che tanti importanti libri di ispirazione balcanica (e non) ha pubblicato.

La Crocetti è sempre stata una piccola casa editrice, con limitate capacità di stampare tutti i titoli interessanti che arrivano da quelle aree, ma che si è sempre barcamenata decentemente. Poi, grazie al recente e fortunato incontro tra il titolare e il cantante Jovanotti, e la pubblicazione di un libro di quest’ultimo (Nicola Crocetti / Jovanotti – Poesie da spiaggia, maggio 2022), entrato subito nella top ten con molte decine di migliaia di copie vendute (caso più unico che raro, in Italia, per un libro di poesia), la piccola casa editrice ha ricevuto una iniezione di fondi coi quali ha potuto lanciare titoli davvero importanti che sino ad ora aveva tenuto nel cassetto, e, soprattutto, ha destato l’interesse dei giganti dell’editoria.

Recentemente ho quindi potuto leggere in quelle edizioni Addio Anatolia di Didò Sotiriù, considerato il libro “nazionale” greco, che racconta attraverso la storia di una famiglia la cacciata dei greci dalla attuale Turchia e la fine dell’ellenismo in un vastissimo territorio, dopo migliaia di anni; è stato definito il Guerra e Pace greco. Ho letto anche Capitan Michalis, Rapporto al greco e La mia Grecia, sempre di Nikos Kazantzakis, non tutti capolavori ma degni di lettura; Madre di cane di Pavlos Matesis, storia nuda e cruda di una madre greca che si adatta alla guerra grazie anche alla convivenza con un militare italiano invasore che le permette dignitosamente di sopravvivere; Tre Estati di Margarita Liberaki, il racconto del passaggio dall’adolescenza di tre sorelle in un tranquillo quartiere di Atene nella prima metà del Novecento. Ora ho in programma Il Lago, di Kapka Kassabova e Il Tredicesimo Passeggero di Ghiannis Maris, considerato il padre del romanzo poliziesco greco. E molti altri titoli si possono trovare sul sito http://www.crocettieditore.it, anche di autori non necessariamente greci o balcanici.

Nicola Crocetti cura inoltre da anni la rivista Poesia, il suo grande amore, che è di nicchia ma molto apprezzata dalla critica. Copio e incollo da Pangea: «Da sempre, Nicola Crocetti lavora perché la poesia sia per tutti. D’altronde, è un editore, non si è mai sognato – vezzo comune – di scrivere versi. Al contrario, ha tradotto moltissimi versi altrui. Per questo – lui direbbe: “suscitare un putiferio, cogliere tutti di sorpresa, incantare” – ha fondato una rivista di poesia, Poesia, l’ha voluta in edicola, a prezzo popolare, sbattendo il viso del poeta “in prima pagina”. Chi conosce Crocetti non ritiene un’incongruenza la sua corroborante schifiltosità – non sopporta la falsa poesia, l’incultura, la modestia verbale, la mancanza di disciplina – con la necessità di divulgare la poesia. Ha fede nella poesia a prescindere, è la sua ortodossia; a più di ottant’anni la sua giovinezza è ormai un canone, non ha nulla da perdere, nulla ha, evviva. Putiferio, sorpresa, incanto: parole che indicano una strategia, una poetica; sembra ovvio, a Crocetti, che un grande poeta sia un grande uomo, soltanto i miseri, d’altronde, possono spendere tempo per scrivere brutti versi».

Crocetti, nel 2019, ha poi dato alle stampe il gigantesco poema Odissea di Kazantzakis, 33.333 versi, da lui tradotto in molti anni di lavoro, e che riprende da un Ulisse annoiato a casa (Penelope si era troppo abituata a tessere?) e desideroso di nuove avventure, stavolta senza meta e senza fine; infine, nel 2020 – ed è qui che il cerchio si ricongiunge e arrivo dove volevo approdare – ha terminato finalmente la traduzione della versione integrale di Zorba. Nello stesso anno, Crocetti riceve un’offerta da Feltrinelli che gli garantisce, oltre alle dovute retribuzioni, la diffusione nazionale della rivista Poesia, diventata bimestrale e distribuita in libreria con la conseguente valorizzazione della piccola casa editrice milanese.  Feltrinelli apre inoltre a Crocetti l’accesso a molti autori, tra cui Ghiannis Ritsos, Rainer Maria Rilke, Mariangela Gualtieri, Adrienne Rich, Alejandra Pizarnik, Giorgos Seferis, Costantino Kavafis, Thomas Bernhard, Edna Sant Vincent Millay, il Nobel Odysseas Elitis e Nikos Kazantzakis: in cambio ottiene, con vari altri lavori, la prima traduzione in lingua italiana appunto dell’Odissea kazantzakisiana (considerata, almeno in Grecia, la singola opera letteraria più ambiziosa del XX secolo) e, appunto, la nuova edizione di Zorba tradotta da Crocetti.

Ecco dunque che nella collana “2 libri a € 9,90” compare nelle librerie Feltrinelli, a inizio 2023, Zorba il greco. La lettura di questa nuova edizione “definitiva” (e “definitivamente ben tradotta”) mi coglie impreparato. A volte devo confrontare il vecchio libro con questo nuovo, e le differenze si sentono, anzi pardon, si leggono. A volte son piccole sfumature, a volte ti accorgi di leggere un libro più aperto, più scorrevole, più agile e più simile al vero Zorbas come lo disegnava Kazantzakis. Ne esce un uomo libero, guidato dal carpe diem, dal “niente possiedo, nulla temo, credo solo all’istante”, che spesso comunica le sue sensazioni con la danza, perché a parole non ne sarebbe capace, o col suono del suo salterio. Per lui il denaro non conta, i preti non sono amici; e in certi punti questo libro è di una crudezza inaudita, ma sono sempre e solo l’uomo e la donna la causa di ciò. Si, anche la donna, che ha un ruolo estremamente periferico per la gente di quei tempi, ma che Zorbas, a suo modo, rispetta fino alla morte.

Può una nuova traduzione arricchire un libro 03Questo era dunque Alexis Zorbas. No, non posso dire di aver letto un nuovo libro, ma, pur conoscendo il finale, ho letto con estrema lentezza le ultime pagine.

Chissà in quante altre occasioni una traduzione non ne valeva un’altra…

Viaggiando in rimoti paesi

Carlo Vidua e il destino della Virtù

Viaggiando in rimoti paesi copertina Quadernodi Paolo Repetto, 6 maggio 2023, vedi il Quaderno

Introduzione

Un’educazione casalese

I primi viaggi

Romantico controvoglia

Dalla Lapponia all’Equatore

Nella culla della civiltà europea

In America!

Verso ovest e verso sud

Nell’Estremo Oriente

Morire nelle isole della Sonda

Sulle consonanze

Una bibliografia commentata

Viaggiando in rimoti paesi 02

Introduzione

Un uomo che logorò la sua vita
viaggiando in rimoti paesi,
e morì nell’Oceanica.
(Vincenzo Gioberti a Pier Luigi Pinelli, 1834)

Leggetelo. È il libro di un saggio;
un po’ arretrato, come me.
(Gino Capponi a Niccolò Tommaseo, 1834)

Non ho un buon rapporto col Romanticismo italiano. Forse perché un autentico Romanticismo in Italia non c’è mai stato, e coloro che più gli si avvicinano in realtà ne hanno preso le distanze: Leopardi vale per tutti, e Manzoni è quanto di meno romantico riesca ad immaginare. Dal momento però che non può essere applicata al fenomeno una denominazione di origine controllata, ma soprattutto che le mie idiosincrasie non interessano giustamente a nessuno, mi limito a dire che come tutti i prodotti culturali d’importazione il Romanticismo è stato recepito da noi con le cautele e i distinguo e le ammortizzazioni del caso (vedi appunto Manzoni), sino a farne un’altra cosa, oppure si è ridotto ad una serie di dignitosissime cover degli originali nordici (vedi Berchet o D’Azeglio). Il che, intendiamoci, per quanto mi riguarda non implica alcun giudizio negativo o riduttivo: se I promessi sposi fosse stato scritto in uno stile più autenticamente romantico ne sarebbe uscito un feuilleton o una telenovela. Che poi mi ci riconosca o meno, è un altro discorso.

Eppure, a volerlo cercare, qualcuno che interpreta appieno quello spirito (per come, appunto, lo intendo io), negli intenti, nella pratica e purtroppo anche negli esiti, lo si trova. Personalmente l’ho trovato nella figura di Carlo Vidua, che ho incontrato troppo tardi perché potesse entrare nel mio ristrettissimo Pantheon, ma che si è senz’altro guadagnato il diritto di non finire nell’armadio degli accumuli inutili. Se proprio volessimo classificarlo entro gli schemi canonici, Vidua potrebbe essere ascritto alla scuola tedesca, a dispetto del fatto che la sua lingua madre fosse praticamente il francese: è apparentabile per molti più versi a Goethe e ad Alexander von Humboldt che a Chateaubriand (che pure amava particolarmente) e a Lamartine (che non amava affatto). Col che, chiudo le etichettature e passo al nostro protagonista.

La vita di Vidua è un emozionante romanzo di vagabondaggio, e proprio di questo voglio raccontare, del fuoco che ardeva nei suoi polpacci (e che fuor di metafora letteralmente glieli bruciò): cercando tuttavia di non trascurarne gli aspetti e gli interessi meno “avventurosi”, quelli che ardevano nella sua mente, a partire dalla politica (intesa in senso “globale”) sino alla linguistica, all’archeologia e alla musica. Nei limiti di questa breve presentazione cercherò dunque di dare spazio anche ad essi, anticipando, quando mi parrà il caso, quelle che dovrebbero essere considerazioni conclusive. Insomma, si sarà già capito che proverò a documentare il più possibile il Vidua “autentico”, ma che ne uscirà soprattutto l’idea che di Vidua mi sono fatto.

Viaggiando in rimoti paesi 03

Un’educazione casalese

Carlo Vidua nasce conte di Conzano, paesino a metà strada tra Alessandria e Casale Monferrato, nel 1785. Tanto per “contestualizzarlo”, nasce lo stesso anno di Manzoni (li separa una settimana). Troppo tardi dunque per partecipare, anche solo emotivamente, all’infervoramento per la rivoluzione e agli umori contrastanti del periodo napoleonico, e troppo presto per vivere con ardore giovanile i primi moti carbonari. Diciamo che arriva giusto in tempo a beccarsi in pieno l’ondata reazionaria.

Si spiega così quello che potrebbe apparire un suo “disimpegno”: Vidua non è disimpegnato, è piuttosto un “non allineato”, che non si riconosce in alcuno dei modelli politici del suo tempo. È invece intrigato dalla loro varietà, quella che va emergendo mano a mano che gli orizzonti europei si allargano e nuovi popoli e nuove istituzioni si affacciano alla ribalta. Inoltre è un provinciale, e come Leopardi vive tutta la giovinezza lontano dai grandi centri dove la politica la si fa e la cultura ha i suoi luoghi deputati: cosa che in genere, e alla sua epoca ancor più, concorre a far vedere le cose con maggiore distacco (e, oserei dire, anche con maggior chiarezza).

Sempre come Leopardi, ha un padre convinto legittimista, col quale lo scontro è inevitabile, anche se per motivi che poco hanno a vedere con le opinioni politiche. Pio Vidua è un conservatore prudente, che ha evitato di compromettersi col bonapartismo ma anche di rovinare i propri interessi opponendoglisi apertamente, e che ottiene nel 1814 la nomina a ministro degli Interni nel primo gabinetto della restaurata monarchia sabauda per meriti puramente cortigiani. Non si segnala per spirito d’iniziativa o per particolari capacità politiche: è solo un passatista arroccato in difesa del prestigio e del rango del proprio casato. Per questo si opporrà sempre testardamente alle ambizioni e alla natura dell’unico figlio maschio, dal quale si attende solo la continuità della stirpe. Fino a quando gli è possibile ne condiziona quindi pesantemente le scelte, costringendolo a studiare privatamente con precettori religiosi (non gli consente nemmeno di iscriversi all’università e gli compera una laurea vaticana) e a tenersi lontano dagli ambienti “pericolosi”. Con tutto ciò, credo che quest’uomo abbia amato sinceramente, anche al netto delle motivazioni dinastiche, un figlio che ai suoi occhi pareva cercare ogni maniera e ogni pretesto per scontentarlo.

Da parte sua il giovane Vidua non riuscirà mai ad emanciparsi del tutto dalla soggezione filiale: anche se da un certo punto in avanti farà ciò che vuole, arrivando sino alla rottura insanabile, vivrà sempre la propria ribellione con un pesante senso di colpa. Continuerà a considerare sino all’ultimo il padre il suo principale interlocutore (delle 286 lettere di Carlo raccolte e pubblicate da Cesare Balbo la metà sono indirizzate a lui), e cercherà costantemente di rabbonirlo e consolarlo informandolo degli incontri con le massime personalità e autorità in ogni angolo del globo, del rispetto portato al suo nome e di come in fondo egli stesso contribuisca a farlo conoscere nel mondo e ad onorarlo. E comunque, quanto alle restrizioni impostegli in gioventù, il giovane patrizio ne fa buon uso, perché oltre che nelle lettere e nel diritto si impratichisce nel disegno e nella musica, e si sfoga con la scherma, l’equitazione e la danza.

Diversamente da Manzoni, Carlo non ha una madre (l’ha persa a quattro anni) che gli spalanchi le porte dei circoli intellettuali più avanzati. Ha in compenso un nonno materno che è stato un grande viaggiatore, dal quale eredita la passione, sia per via genetica che attraverso le rievocazioni serali (ed erediterà poi anche i mezzi per coltivarla). Lui stesso racconta che ancora molto piccolo, avendo udito un giorno il nonno narrare degli antipodi che abitano l’altra faccia della terra, aveva cominciato a scavare in giardino per andare a conoscerli. Credo che questo episodio, se anche fosse inventato, aiuti a capire per quale motivo Carlo rimanga tutto sommato estraneo al movimento patriottico e costituzionalista nel quale saranno coinvolti tutti i suoi migliori amici: nutre una conservatrice diffidenza nei confronti delle cospirazioni carbonare, ma soprattutto ha orizzonti e ambizioni più vasti.

Queste ultime le manifesta sin dalla giovane età. La matrigna Elisabetta, attenta ai sentimenti del ragazzo indubbiamente molto più del padre, scrive che “covava un fuoco segreto sin dall’età di otto anni e solo l’affliggeva il pensiero di non aver forse l’ingegno da farlo”. Un ritratto perfetto dell’animo di Carlo. Un ritratto che torna a più riprese nel diario e nelle lettere di quest’ultimo: “Se non sono gettato in un tourbillon io non farò mai e poi mai niente […] io, a venticinque, ventisei anni, voglio qualcosa di buono o nulla”. E continuerà a ribadirle (e a rimpiangerle), sino all’ultimo: “Ho tardato troppo, ho dilungato, nulla lascio di finito, e questa fama che sarà od è vanità, ma il cui desiderio mi animò tutta la vita, non la potrò conseguire fuor di pochi amici o parenti che in quarant’anni saran finiti, nessuno saprà che ho esistito” scriverà poco prima di morire.

Dunque: dobbiamo immaginare un’infanzia e un’adolescenza tutt’altro che libere e spensierate, ma in realtà molto meno oppressive di quanto a posteriori Carlo le ricordi (arriva a definire a più riprese la villa di Conzano “un carcere”). Più di una volta, mentre sta dall’altra parte del globo, gli capiterà di confrontare i paesaggi e le atmosfere con quelli della sua adolescenza monferrina, di trovare questi ultimi sempre superiori e di provare nostalgia per il grande giardino e per le cavalcate e le passeggiate, anche notturne, nelle “selve” e sulle colline tra Casale ed Asti (“Malgrado la presenza di briganti e ladri”, sottolinea). Queste “uscite” sono già una manifestazione dello spirito avventuroso e un po’ avventato che lo caratterizzerà, nonché di una propensione al protagonismo, e sono comprensibilmente viste con una certa apprensione in famiglia. La sorella, in una lettera alla nonna, scrive: “Sapevo già, cara nonna, delle scappate che il nostro giovanotto ha fatto quest’inverno, da un lato ne ho piacere, perché il movimento e le scappate con qualche amico gli sono necessarie e giovano alla sua salute, poi se lui prende le cose sempre in maniera un po’ eccessiva mi pare lo si possa perdonare a causa della sua età, tutti i giovani sono così”. A quanto pare, così prigioniero poi non era.

La nostalgia per l’aria di casa è tuttavia ogni volta smentita, non appena rimette piede nel regno di Sardegna. Non lo infastidisce solo la pressione dei familiari, ma tutto il vuoto apparato di convenzioni nel quale la classe cui appartiene si muove, quelle che lui stesso definisce “coglionerie”. “La mia solita felicità mi abbandona solo quando voglio fare ritorno in Piemonte; pare, che qualche genio me ne volesse allontanare per forza. Se fossi ai tempi degli antichi greci crederei che v’è una divinità nemica che mi caccia lungi dal Piemonte, come Ulisse lungi da Itaca.”

Se si escludono comunque pochi casi, ad esempio quello di Foscolo, la sua educazione non è diversa da quella dei giovinetti suoi contemporanei di condizione nobiliare o agiata. Ed è comprensibile che nei ritagli di libertà dagli impegni di studio e dai rituali domestici il ragazzo abbia cercato di evadere a piedi o a cavallo nei dintorni, e almeno con la mente negli spazi più remoti. Con la differenza, rispetto agli altri, che di là non è poi più rientrato.

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Da Casale Monferrato, dov’è cresciuto, Carlo si trasferisce poco prima dei vent’anni con la famiglia a Torino. Lì frequenta i circoli letterari e politici “che contano”, stringendo amicizia particolarmente con Cesare Balbo, futuro patriota, ideologo (Le speranze d’Italia), storico e primo ministro del regno di Sardegna, nonché suo primo biografo. Con Balbo e coi rampolli di altre famiglie dell’aristocrazia torinese fonda un sodalizio (la Società dei Concordi), avente come scopo niente meno che il riscatto dell’Italia dal ritardo culturale in cui giace, e in particolare dalla soggezione, non solo politica, nei confronti degli occupanti francesi. Nel gruppo Vidua (che ha assunto il soprannome de “L’allungato”) mantiene una posizione defilata: da un lato è senz’altro una figura di riferimento, per la sua intelligenza e la sua erudizione, e anche per sua alfieriana intransigenza: dall’altro si riconosce solo sino ad un certo punto negli scopi della società, sia per una spiccata tendenza all’individualismo, sia perché convinto che occorra guardare oltre gli angusti confini della patria. La sua smania di viaggiare non sempre è compresa dagli altri affiliati, e questo creerà col tempo una crescente distanza.

Lo disturba anche il fatto che alcuni di loro ad un certo punto scendano a patti con quello che egli considera un invasore e un despota. Balbo stesso ad esempio accetta incarichi nell’amministrazione napoleonica a Firenze, e Carlo non esita a rinfacciarglielo. “Oserai tu entrare nella chiesa di Santa Croce? Non temerai l’ombre di quei grandi?” Quanto ad un personale impegno nella politica però è molto restio. Le sue simpatie vanno all’ala più liberale del movimento patriottico piemontese, impersonata da Santorre di Santarosa, piuttosto che a quella moderata facente capo a Balbo: ma nella sostanza, poi, dei destini politici del Piemonte gli importa solo fino ad un certo punto. Lo dimostra anche la scelta dei temi dai lui proposti e trattati nel corso delle adunanze dei Concordi: Pensieri sulla Gloria; Sopra il destino della Virtù; Sull’oblio in cui sono caduti alcuni uomini grandi, ecc…. La dimensione nella quale vuole dare senso e visibilità alla sua esistenza è ben altra.

Oltre a quella per i viaggi, la sua grande passione sono i libri. È un raffinato bibliofilo, ma non è mosso dal puro istinto collezionistico: la sua bibliofilia è sin dall’inizio finalizzata al disegno che va concependo. Dovunque arrivi si procura ogni possibile documento su qualsivoglia aspetto della vita politica, sociale, economica e culturale del paese, e spedisce poi il tutto in patria: nel corso dell’esperienza americana raccoglierà ad esempio oltre milletrecento volumi. Nelle lettere agli amici e ai famigliari ricorre costante l’ansia per le casse zeppe di scritti, oggetti d’arte, cimeli storici, inviate dai luoghi più impensati.

È anche un lettore appassionato e vorace, che rivendica e mantiene una forte autonomia di giudizio rispetto a quanto legge. È significativo, ad esempio, che sia un grande ammiratore dell’intelligenza di Joseph de Maistre, ma che non condivida affatto le idee espresse dal conte savoiardo ne Le serate di San Pietroburgo. O che adori le tragedie alfieriane, ma non esiti a deprecarne gli accenti anti-gerarchici e anti-religiosi. E lo stesso vale per l’Ortis.

Le sue letture sono sterminate: nella prima gioventù si nutre naturalmente, oltre che di Alfieri e di Foscolo, di Chateaubriand ma anche di Vico, dei classici della storiografia italiani e latini, degli illuministi francesi (e un po’ più tardi, quando avrà acquisito una sufficiente padronanza linguistica da quelli inglesi): in seguito si volgerà sempre più specificamente ad opere legate alle mete dei suoi viaggi, per preparare questi ultimi e per poi commentarli. Humboldt, naturalmente, e Ferguson, Gibbon, Montesquieu, Robertson, De Las Casas, ecc…

Come ho già accennato, tra i suoi amori c’è anche la musica. Questo gli è stato trasmesso soprattutto dalla nonna materna, ma in famiglia sono tutti appassionati, compreso il padre. È un ottimo esecutore, oltre che un discreto compositore. Scrive di lui Cesare Balbo: “Studiò la musica su varii strumenti e principalmente sul cembalo. Fece progressi grandi nell’ esecuzione e nell’accompagnamento, e tali poi nella composizione che non solo la musica sua corse il paese e l’Italia, ma egli ebbe il piacere navigando molti anni appresso tra i mari di Grecia d’udir risonare le sue melodie in quei climi così propizi”. Magari Balbo enfatizza un po’, ma pare davvero che il Vidua cembalista riscuotesse un gran successo nei palazzi e alle corti frequentati durante i suoi viaggi. Senza dubbio usava anche la musica come passepartout per entrare in confidenza con gli interlocutori che lo interessavano.

Viaggiando in rimoti paesi 05E sempre a proposito di amori, poco o nulla si sa di una sua vita sentimentale “attiva”. Il giovanile accenno ad una fanciulla morta prematuramente (che si chiamava Teresa, come la Teresa Fattorini di A Silvia) è molto generico, e più che da un moto di commozione sincera sembra dettato dalla moda romantico-sepolcrale dell’epoca: “Io mirava quei flutti: e come l’onda, mio dicevo tra me stesso, che vedo trascorrere e confondersi, ratto così passò la gentile donzella, e già sta per confondersi, o si confonde il suo nome nella notte del tempo, e le sue belle forme tra le altre ceneri del sepolcro […]” . Più tardi ironizza sul fatto che gli sia stato attribuito un innamoramento per una “ninfa sestrina”, chiarendo che: “Nessuna donna possiederà mai una parte del mio cuore. Conviene che questo sesso sia al servizio del nostro divertimento e delle nostre necessità, non che sconvolga l’anima”. Il che lo escluderebbe da ogni sospetto di romanticismo, e parrebbe condannarlo all’aridità sentimentale. Anche se poi, quando arriva il tempo dei bilanci, sembra provare rimpianto quel flirt appena accennato: “[…] ricorderò con dolore di aver seguito i tuoi suggerimenti, e di non aver tolto quella ninfa sestrina di cui nel 1813 ti feci già una sì vantaggiosa descrizione”.

In verità, l’ostinata resistenza che Vidua oppone al destino matrimoniale impostogli dal padre e dagli obblighi del suo status viene sempre da lui stesso intesa come una scelta non definitiva. “La sola ragione che mi indurrebbe ad abbandonare la libertà, che tanto apprezzo, sarebbe consolare mio padre che moltissimo rispetto, e che amo. Vedo dunque che alla fine per compiacerlo, finirò per rinunziare al genere di vita indipendente che finora ho goduto.” La sua opposizione non è ideologica, ma strategica. Ha pianificato la propria esistenza in funzione di un’opera che ne eterni la memoria, e questa opera suppone una conoscenza che può essere acquisita solo attraverso i viaggi. La passione per i viaggi, che in un’ottica del genere diventa strumentale, è tale che tutto di fronte ad essa passa in second’ordine. È l’unica cosa per la quale valga la pena ribellarsi e difendere le proprie scelte, e va vissuta sin a quando si regge. “Io voglio preparare alla mia età matura meno regrets che possa. Ne avrei certo se mi maritassi senza compiere il corso dei miei viaggi.” Una volta appagata – e l’appagamento può venire solo dall’aver completato il giro del mondo e dall’aver conosciuto tutte le civiltà possibili – al resto ci si può adattare di buon grado.

Può anzi essere la condizione indispensabile per tirare le somme e dedicarsi finalmente alla scrittura: “Ma per tutto questo ci vorrebbe tempo, tranquillità, ritiro e compagnia, e in questo inclino al parer tuo, compagnia di una donna, che assorbendo a sé l’affetto, non lo lasciasse più divagare. Hai ragione, è tempo di stabilirsi.”

Non fosse per la smania di muoversi, Vidua potrebbe dunque essere il perfetto protagonista dei salotti romantici torinesi, e permettersi anche il brivido della cospirazione. Tutto questo però non lo soddisfa: “Molte cose ci sono in questo particolare degne di attenzione, che non si possono o malagevolmente apprender dai libri; onde è necessario vederle ove sono, osservare come vengono poste in uso e qual effetto ne procede, per questo motivo i viaggi potranno servire di strumento efficacissimo, onde ampliare le idee e moltiplicare le cognizioni”.

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I primi viaggi

Vallo però a spiegare al padre, che lo vorrebbe sposato e avviato ad una carriera amministrativa o politica di alto livello e che tiene ben stretti i cordoni della borsa. Di fatto Carlo riesce a sganciarsi e ad allontanarsi più spesso da casa solo dopo i venticinque anni, quando comincia a godere di una rendita propria. “Io era dunque così sovranamente stufo di non far niente, di non avere nessuno scopo nella mia vita, così annoiato, senza alcuna speranza nemmeno di poter viaggiare stanti le difficoltà di mio padre, che mi saltò l’idea di partire da Torino, andare in qualche città lontana […].” Lo fa viaggiando nel 1810 per la prima volta fuori d’Italia, in terra francese, compiendo una sorta di pellegrinaggio nei luoghi petrarcheschi. Si porta dietro tutti i suoi pregiudizi nei confronti della patria del giacobinismo (“Più vedo questa Francia e più mi insuperbisco di essere nato italiano.”), pregiudizi che conserverà per tutta la vita, ma matura per Petrarca una vera adorazione. E soprattutto ha la conferma che il suo futuro non può essere che nel viaggio: “Trovo che l’agitazione dei viaggi, il moto, il cambiamento di oggetti, la varietà dei naturali e dei costumi delle persone che vi si incontrano, innalzano l’animo, fanno nascere delle riflessioni, vi tolgono molti pregiudizi e maniere di pensare, vi danno dell’esperienza di mondo, vi accostumano a parlar bene”. E infatti al rientro intraprende subito un lungo giro per l’Italia centrale. Percorre a cavallo tutta la Toscana e buona parte dell’Umbria, riempiendosi gli occhi di arte e di natura e il cuore di emozioni: ad esempio davanti alle selve di abeti di Vallombrosa, che “fanno parer vere le selve incantate dell’Ariosto”. Naturalmente tutto questo, anziché appagarlo, gli alimenta una irrequietudine e una voglia di fuga sempre maggiori.

È costretto però ancora per qualche tempo a mordere il freno, anche se ormai il bisogno di muoversi è diventato quasi un’ossessione: “Se non esco da quel circolo di Casale, Conzano e Torino languirò eternamente senza far nulla di buono”. Il primo vero strappo con la famiglia avviene nel 1813: dopo un lungo soggiorno in Liguria (dove conosce la “ninfa sestrina”, e tra una camminata e una cavalcata lavora a una storia di Firenze – poi perduta), alla fine dell’anno torna in Francia, passando per Ginevra e raggiungendo questa volta Parigi, in tempo per assistere alla caduta di Napoleone e all’occupazione della città da parte degli Alleati. La cosa non lo emoziona più di tanto, non ne parla quasi. Si potrebbe manzonianamente dire che “di mille voci al sonito / mista la sua non ha”. Si limita a commentare: “Quantunque questi avvenimenti siano degni di memoria, nondimeno se fossi io un Tacito preferirei a tutti gli argomenti e le scene che presentano quei giorni quello della condotta e dei sentimenti della nazione vinta; io non ne fui mai gran cosa ammiratore. Chi non è stato in Francia non può ben apprezzare, e poi chi non li ha veduti in questa occasione non può non conoscere in tutta la sua estensione quel misto di leggerezza e di eccesso, di sedizioso e di pieghevole, che non ne fa un popolo unico”. Col che, i francesi sono sistemati.

Questa volta ha deciso l’itinerario autonomamente, all’insaputa della famiglia (anche se di fronte al fatto compiuto il padre provvederà a finanziargli parte delle spese). E ne approfitta. Infatti non rientra, ma durante l’estate del 1814 si sposta in Inghilterra e in Irlanda, e passa poi in Scozia. Oltremanica constata i primi effetti della rivoluzione industriale sul paesaggio, sulle tradizioni, sui costumi e sui caratteri, e ne è disgustato. “Quel che non si sente più è la voce del Bardo. Né più si incontra la dolce ospitalità né la valorosa ferocia. Grazie a quelle malnate novità si sono aperte per ogni dove delle nuove strade, si sono costruiti dei ponti, si tagliarono i boschi. Invece dei famosi guerrieri si ritrovano dei grossi mercanti accorti nel loro interesse […].” In un viaggio successivo sarà invece positivamente colpito dalle istituzioni anglosassoni, soprattutto dopo aver assistito alla sobrietà di una seduta parlamentare. Per ora rientra infine attraverso Belgio e Olanda, ripassando nuovamente per Parigi e rinnovando il suo giudizio negativo.

Nel frattempo è assai cresciuto, e non solo intellettualmente. La descrizione fattane da un corregionale che lo ha incontrato a Parigi nel 1814 ci offre un sembiante ben diverso da quello rimandato dai suoi unici due ritratti esistenti. “[…] grandissimo di statura, ma cotanto magro che di più nol potea essere. La di lui fisionomia era veramente brutta, la pelle giallognola, la bocca squarciata, mostrando denti e gengive in pessimo stato, dimesso assai nel vestire, gonzo nel camminare e vi si aggiungeva la vista breve […]. Ma allorché parlava, era tanta la sua istruzione, tale la sua eloquenza, che tutto facea dimenticare l’orrido della sua presenza […]. Era erudito nelle lingue italiana, latina francese e inglese, e tutte le parlava con facilità e bella pronuncia. Era avido di apprendere le costumanze delle genti ove egli recavasi […].Era tutto originalità del modo suo di vedere e di giudicare […]. Al clavicembalo […] suonava con grande maestria e profonda espressione. Avea una voce perfida, ma la sapea modulare a cagionar diletto.”

Evidentemente i viaggi, soprattutto se affrontati come in questo caso con scarsità di mezzi, lasciano il segno. Sembra davvero il brutto anatroccolo: e il prosieguo del racconto, dove si parla di un suo brutale arresto a Le Havre per sospetto di spionaggio o di contrabbando, e di come il conte abbia atteso di essere portato davanti a un tribunale per palesare la sua identità e impartire una lezione di civismo alle autorità francesi, completa il quadro.

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Romantico controvoglia

La vera vita di Carlo Vidua, quella che a me interessa, comincia dunque proprio mentre si chiude in Europa la parentesi napoleonica. Non è solo una coincidenza. A chi come lui è assetato di gloria la cappa grigia della restaurazione chiude nel vecchio continente ogni orizzonte. Scrive a Cesare Balbo: “Credi tu che gl’istorici dei nostri tempi tra la folla dei nomi da tramandare ai posteri sceglieranno il mio? Mai no: fuori che una qualche circostanza rarissima attacchi il mio nome a qualche grandissimo avvenimento”. Cosa che oggettivamente non solo a Conzano, ma in tutto il Piemonte, per uno che oltretutto rifiuta di entrare nella guardia imperiale, è difficile attendersi. Per qualche tempo, tra il luglio 1815 e la primavera del 1818, torna dunque a muoversi tra Casale e Torino, mettendo mano anche alle osservazioni maturate nel primo viaggio; ma ha ormai chiaro ciò che vuole e già progetta mete lontane (nel mirino ci sono gli Stati Uniti, il Canada e l’America Latina). Coltiva pertanto le amicizie e le conoscenze che possono procurargli agganci e agevolare i suoi futuri spostamenti, si dedica alle studio delle lingue e delle storie, e comincia a maturare il disegno di una grande opera comparativa tra i vari sistemi politici di tutto il mondo, da fondarsi sull’esperienza diretta.

Con tutto questo non rimane estraneo al dibattito culturale acceso in Italia dal clima della Restaurazione, quello che contrappone i “classicisti” ai “romantici”. Vi partecipa anzi tempestivamente, stendendo nel 1816 (o forse già nel 1813) un discorso Dello stato delle cognizioni in Italia che anticipa non solo nei tempi, ma nei modi e nelle conclusioni, il leopardiano discorso Sullo stato presente dei costumi degli italiani, pubblicato otto anni dopo (nel 1824). Lo fa però a modo suo: sia perché sposta il discorso dal piano artistico-letterario e da quello politico all’analisi storico- antropologica, sia perché alla fine non pubblica il trattatello (che verrà dato alle stampe ad opera di Cesare Balbo solo dopo la sua morte, nel 1834).

Nel suo scritto Vidua imputa il ritardo accumulato dalla cultura italiana principalmente a tre fattori. Intanto la tendenza dei nostri intellettuali a oscillare tra l’imitazione pedissequa e idolatra dei classici, che si risolve in pura erudizione, e quella altrettanto acritica degli stranieri. Poi l’ignoranza diffusa tra le classi basse. A questo proposito più tardi scriverà: “Dobbiam confessare per nostra vergogna che in molte parti d’Europa e specialmente in Piemonte v’è molta minor proporzione di persone del popolo che sappian leggere che nelle Filippine e tra’ Cristiani delle Molucche”. Su questa ignoranza hanno fatto sempre leva le classi dominanti (nelle quali Vidua però non fa rientrare la Chiesa: le riconosce anzi una funzione civilizzatrice), usandola strumentalmente per il loro dominio, mentre “ormai la propagazione della lingua, la celebrità della letteratura, ed il vanto delle cognizioni sono divenute una maniera di acquistar reputazione, un titolo di gloria nazionale, uno strumento di potere”. Strumento da utilizzarsi nei confronti del popolo “ad addolcirne i costumi, ad affezionarlo alla patria e ad istruirlo nei rudimenti della religione, della lingua e dell’ agricoltura”.

Viaggiando in rimoti paesi 08Per intanto il primo dei problemi da affrontare è, secondo Vidua, l’assenza di una lingua comune, conseguenza di un desolante provincialismo: “Siamo più stranieri a noi stessi che agli altri: è cosa deplorevole che più differenza e opposizione di idee e di costumi vi sia tra l’una e l’altra delle nostre province e un’altra nazione europea o anche asiatica”. Questo nasce, oltre che dalle contingenze storiche (le diverse dominazioni che si sono susseguite sulla penisola), dal fatto che da noi la classe colta ha continuato testardamente e arrogantemente ad esprimersi in latino, salvo poi nel corso del Settecento volgersi al francese, allargando così sempre più la forbice culturale nei confronti degli altri ceti e non favorendo l’evoluzione dei diversi volgari verso un idioma comune. In realtà, gli esempi per la costruzione di una lingua condivisa esistono, arrivano da tutta la letteratura rinascimentale pre-barocca e possono costituire la base per mettere fine alle sterili dispute in difesa degli usi lessicali localistici. E una volta individuata la direzione, la lingua per Vidua deve essere difesa da un lato contro la “corruzione dei dialetti”, dall’altro dall’“infranciosamento”, dall’adozione di termini e costrutti stranieri che sono le crepe attraverso le quali si insinuano anche le perniciose idee d’oltralpe.

Ciò non implica assolutamente un atteggiamento di chiusura nei confronti delle culture straniere. Il ritardo nei loro confronti è evidente, e Vidua indica naturalmente come rimedio più efficace per ridurlo quello dei viaggi (citando tra l’altro come esempi proprio i fratelli Humboldt, un linguista e uno scienziato-viaggiatore): “Di due fratelli illustri in Prussica, un passava come ambasciatore dall’una ad altra corte d’Europa, mentre l’altro passava come dotto dall’una all’altra Cordigliera del Perù”.

Quanto alla mancata pubblicazione del suo piccolo trattato, Carlo la spiega poi in una lettera lamentando incertezze sullo stile e accampando la necessità di lasciar decantare lo scritto per qualche mese: ma la ragione vera è che ha altro per la testa. Ha superato i trent’anni, è uno spilungone alto più di un metro e novanta e in buona salute, possiede tutti i numeri e la preparazione di base per svolgere un lavoro scientifico serio, compresa la conoscenza di diverse lingue, antiche e moderne, sa conversare piacevolmente, perché sa porre le domande e soprattutto sa ascoltare le risposte, gode finalmente anche di una discreta indipendenza economica per aver ereditato dai nonni materni: non può perdere altro tempo rispetto ai suoi progetti. E, non ultimo, vuole sottrarsi il più possibile al controllo del padre.

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Dalla Lapponia all’Equatore

Per questo continua a scalpitare, e alla fine di aprile del 1818 s’incammina nuovamente per Parigi e Londra, questa volta in compagnia dell’amico Alessandro Doria e di un domestico, Leonardo. È riuscito “dopo qualche difficoltà” a strappare l’assenso del padre – o almeno così lui dice in una lettera alla matrigna, alla quale chiede ora sostegno, e non solo morale: “Il desiderio mio di istruirmi, di non perdere l’occasione di essere con un amico, i grandi vantaggi e per conto della sicurezza e anche pel caso di malattia che derivano dall’essere in buona compagnia, la considerazione che se ritardo ancora a viaggiare, aspetterei poi troppo tardi a maritarmi […] mi spinsero a partir subito ed a fare quanto era in me per non lasciar sfuggire questa opportunità. […]. Ma i viaggi lontani a farli con comodo e senza rischiar la salute esigono assai maggior spesa, a cui lo stato presente dei miei interessi non potrebbero forse bastare, laonde […] la prego volermi aiutare in questa circostanza … Se n’avrò i mezzi, l’idea mia sarebbe di fare tutto in una volta il giro di que’ paesi, che meritano esser veduti, onde poi tornare a casa tranquillo e stabilirmi”.

Dall’Inghilterra, dove si riconcilia se non col paesaggio almeno con la cultura giuridica e politica anglosassone, passa all’inizio dell’estate in Danimarca, e poi in Svezia. Assiste ad alcune udienze concesse dal sovrano ai rappresentanti dei diversi ceti popolari, e le trova decisamente istruttive. Risale quindi la penisola scandinava spingendosi sino alla Lapponia, dove soggiorna per un mese. Ha probabilmente in mente l’esperienza di Giuseppe Acerbi (all’epoca direttore de la Biblioteca Italiana, la rivista dei “classicisti”), che in Lapponia era stato negli anni 1798/99, e aveva poi raccontato i suoi viaggi in due fortunati volumi: ma non è escluso abbia notizia anche del Viaggio settentrionale di Francesco Negri, pubblicato più di un secolo prima. Raccoglie numerose notizie sulla demografia e sui costumi dei Sami, che affida al suo taccuino, e trova e annota le tracce dei viaggiatori che lo hanno preceduto.

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Ridiscende quindi attraverso la Finlandia sino a Pietroburgo (1 ottobre), dove è ricevuto persino dallo zar Alessandro I, e a Mosca, dove dimora per altri due mesi. Sin qui ha in pratica seguito l’itinerario del suo quasi concittadino Vittorio Alfieri, che all’epoca, assieme al Foscolo, è un po’ il modello di tutti i giovani italiani, e in specie dei piemontesi. La Russia, al contrario della Svezia, non gli piace granché: ma vi dimora comunque undici mesi e fa incetta di documenti e di incontri. E non ha nei confronti del dispotismo russo la stessa reazione sprezzante che era stata dell’Alfieri (che non aveva neppure voluto essere presentato a Caterina II).

A questo punto, mentre Doria rientra in Italia, Vidua prosegue per Novgorod e quindi verso il Caucaso. Il viaggio occupa la primavera e l’estate del 1819, e durante questi mesi il conte entra a contatto con Cosacchi, Circassi e Tartari, e partecipa anche alle loro attività di caccia. Per un certo periodo si ferma poi presso i Calmucchi, dei quali apprezza soprattutto i riti religiosi, le danze e la musica. Infine passa in Crimea.

Da Odessa attraversa dunque il Mar Nero e il primo di settembre è a Costantinopoli. Trova i turchi sgarbati ed insolenti, sospettosi e ostili nei confronti degli stranieri, per cui è necessario viaggiare sempre accompagnati da un giannizzero. In realtà ciò che maggiormente lo disturba è la difficoltà nel reperire quei piccoli tesori archeologici dei quali altrove fa man bassa. Lascia dunque la capitale ottomana e visita Smirne e le isole greche, e alla fine del 1819 approda in Egitto. Qui si fermerà per un anno, spingendosi nel corso di varie spedizioni lungo il Nilo sino alla seconda cateratta, nella Bassa Nubia.

Viaggiando in rimoti paesi 11Il trasferimento da Alessandria al Cairo è compiuto con una piccola carovana che consente di farci un’idea di come viaggia Vidua: è accompagnato da due arabi che conducono un cammello, un cavallo e due asini con i bagagli, mentre lui e il suo domestico Lorenzo viaggiano a loro volta a cavallo. Il bagaglio comprende una tenda, due letti, le vesti, la biancheria e le scarpe, i fucili e le pistole, più una batteria da cucina, i viveri e le bevande. Non è l’immagine classica (e romantica) dell’esploratore o del giramondo alla quale noi oggi siamo abituati, ma occorre considerare come all’epoca, e specialmente in quelle terre, non fosse facile trovare sistemazioni notturne e posti di ristoro. Non mancavano certamente gli avventurieri capaci di affrontare i deserti o le foreste africane armati solo del loro coraggio (vedi René Caille o, più tardi, Richard Burton), ma Vidua non è né un esploratore né un avventuriero, è un giovanotto di famiglia patrizia che ha scelto di compiere il suo Gran Tour, il suo viaggio iniziatico, fuori dell’Europa. L’equipaggiamento di cui sopra è comunque praticamente lo stesso col quale si muoveva nei medesimi luoghi, esattamente due secoli prima, un altro viaggiatore italiano, Pietro della Valle.

In Egitto dà la concreta dimostrazione di non essere un viaggiatore per diporto, ma uno studioso dotato di notevole intuito e di metodo nella ricerca. Lo testimonia l’egittologo Frédéric Caillaud, che condivide con lui un breve periodo di ricerca: “Durante il mio soggiorno al Cairo ho conosciuto un viaggiatore assai interessante, il conte Vidua di Torino, che era arrivato in Egitto dalla Lapponia: aveva già visitato i monumenti della Bassa Nubia, disegnato le piante di quei monumenti con la cura più scrupolosa, e usato la stessa esattezza nel copiare le iscrizioni […]. Eravamo insieme sulla via per Suez quando ho scoperto gli alberi pietrificati […]. Ho ascoltato i suoi racconti con viva curiosità, ed egli volle ascoltare con lo stesso interesse la narrazione dei miei viaggi”. Vidua visita appunto tutti maggiori siti storici, corredando i suoi appunti con disegni, e trascrive una serie di iscrizioni trovate all’interno del tempio di Abu Simbel (che pubblicherà dopo il ritorno, unica opera sua edita in vita). Il colpo da maestro è però l’acquisto a nome del governo sabaudo della collezione di antichità egizie raccolte da Bernardino Drovetti, un ex ufficiale napoleonico con l’animo dell’avventuriero e del saccheggiatore, che ha ammassato una quantità di reperti unica al mondo. Questo acquisto porrà le basi per la nascita del museo egizio di Torino, mentre la raccolta di iscrizioni lo farà conoscere a tutti gli studiosi della nascente egittologia, compreso Champoillon, che cercherà di associarlo alle sue ricerche.

Viaggiando in rimoti paesi 12Carlo Vidua non è però uomo da concentrarsi su un solo paese e votarsi a un unico campo di studi. Vuole lasciare la sua impronta un po’ in tutti. Intanto comincia col lasciarla concretamente. In Egitto, ad esempio, incide il proprio nome su tutti i monumenti visitati, tanto da guadagnarsi lo stigma negativo di Flaubert: “Leggiamo nei templi i nomi dei viaggiatori: mi sembra una vana piccineria. Ce ne sono che hanno richiesto tre giorni per essere incisi. Qualcuno si ritrova dappertutto, con una costanza di imbecillità sublime. C’è uno di nome Vidua, che non ci lascia mai […]”. In effetti, la cosa può riuscire fastidiosa: ma è chiaro che nel caso del nostro non è una imbecillità da turista, bensì quasi un marcare il territorio, e inviare un messaggio agli amici e ai posteri. Che a volte lo recepiscono: è già capitato a lui in Lapponia, e quando qualche anno dopo Santorre di Santarosa troverà su una colonna di un tempio di Atene il nome di Vidua, suo amico, inciderà accanto ad esso il proprio.

È comunque evidente che il viaggio non è più per lui solo lo “stromento efficacissimo onde ampliare le idee e moltiplicare le cognizioni”: quando fa incidere su uno dei colossi di Abu Simbel “Carlo Vidua Italiano qui venne dalla Lapponia” posa un mattone per un suo futuro monumento. E lo stesso fa quando racconta in termini “eroici” agli amici le proprie esperienze: “Ho sofferto il soffribile, otto giorni con acqua putrida nel mese di luglio sotto questo sole, tre giorni non avendo altro cibo, né bevanda che quattro meloni, trottar sui dromedari: infine ho voluto provare che cosa era un viaggio al deserto, e ne posso dire qualche cosa”.

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Nella culla della civiltà europea

Ad agosto del 1820 Vidua lascia l’Egitto e risale verso la Terrasanta. Qui compie il rituale pellegrinaggio a Nazareth, a Betlemme e al Santo Sepolcro di Gerusalemme: poi trascorre l’autunno visitando Tiro, Sidone, Damasco, Tripoli e Beirut, e spingendosi sino a Palmira. Nel dicembre finalmente decide di rientrare in Europa, facendo scalo prima a Cipro e poi a Rodi. Il maltempo che osteggia la navigazione lo costringe a sbarcare nell’isola di Cos, e qui la sua imperturbabilità di fronte al genere femminile viene scossa: “Le donne sono molto belle, molto vivaci, molto disinibite, e lungi dal coprirsi il volto come in tutto il resto della Turchia, esse amano guardare e farsi guardare […]. Le ragazze si affrettano ad andare alla passeggiata o a danzare per le vie, dove piazzate davanti alle porte delle loro case stuzzicano gli uomini con proposte piccanti, e si divertono a ridere, a motteggiare, a sostenere conversazioni sfrontate”. Sembra di leggere pari pari l’elogio delle donne di Cos tessuto due secoli prima da Della Valle. Quindi, delle due l’una: o Vidua ha letto i Viaggi di Della Valle, o le donne di Cos sono davvero sempre state così, belle e impudenti.

Durante la successiva navigazione nell’Egeo deve addirittura sostituirsi al comandante della nave su cui viaggia, visto che “[…] il capitano, il pilota e tutti i marinai erano nelle tenebre”. Approda ad Atene nell’aprile del 1821 e vi si ferma per sei settimane. La città è in rivolta contro il dominio ottomano, ma il conte non sembra affatto essere emotivamente partecipe della vicenda. L’unico suo coinvolgimento arriva da una palla di cannone che gli entra in camera durante il bombardamento turco: “Una palla di cannone venne a trovarmi in camera, mentre ero ancora a letto, senza far altro che guastare un poco il muro […]. Quanto alle palle di fucile, ne vennero molte in casa mia, senza far danno né a me, né ad altri. Se i turchi avessero saputo […]”. Per il resto, passeggia tranquillamente per la città mentre piovono le bombe. Sembra il tipico understatement inglese, un po’ cinico e decisamente antiromantico, ma in realtà è lo stesso atteggiamento col quale Leopardi (ancora lui) prendeva le distanze dai patrioti “progressisti” del circolo Viesseux. È uno sguardo disincantato sulle cose e sulla storia, che non significa rassegnazione, ma ricerca di senso, per sé e per il mondo, in ideali filosofici ed estetici più alti delle infatuazioni patriottiche o delle lotte per le cause perse. Insomma, per dirla in altre parole, Vidua è senz’altro in cerca di gloria e di fama personale, ma vuole guadagnarsi l’una e l’altra con qualcosa che vada oltre il bel gesto o l’atto di insensato coraggio. A combattere con i Greci è invece il suo domestico Leonardo, che rompe gli indugi, lascia il padrone dopo avergli sequestrate tutte le armi e passa nelle fila dei rivoltosi, facendo una carriera militare rapidissima. “A quest’ora sarà diventato generale”, commenta sarcasticamente Carlo quando ne dà notizia al padre. E licenzia il domestico.

Viaggiando in rimoti paesi 14Intanto, le vicende rivoluzionarie che potrebbero magari direttamente coinvolgerlo (i moti piemontesi del 1821), e che vedono protagonisti i suoi amici Balbo e Santorre di Santarosa, si stanno consumando in sua assenza. Ma anche su quelle, a posteriori, il suo giudizio non si spingerà oltre la personale simpatia per gli sfortunati (e ingenui) patrioti.

A risparmiare a Carlo la necessità di schierarsi interviene comunque il caso. Ripartito da Atene dopo aver assistito alla sua capitolazione, si trova nuovamente bloccato per due mesi a Smirne, dove nel giugno del 1821 assiste inorridito alle stragi compiute dalle milizie ottomane. Anche il resto del viaggio è travagliato, o quanto meno interminabile, tanto da fargli scrivere: “Pareva che fossimo incaricati di disegnare le coste, o di dar l’ispezione ai porti”. Arriva infatti in vista di Marsiglia solo alla fine di settembre del 1821. Qui però deve scontare un lunghissimo periodo di quarantena (due mesi senza poter sbarcare dalla nave e altri due confinato in un lazzaretto della città), perché proveniente da località nelle quali imperversa la peste. La descrizione che fa di questo soggiorno conferma i lati migliori del suo carattere: “Io del resto mi trovo qui molto bene. Ho una buona camera con due gabinetti. In uno dormo io, e nell’altro un Francese molto civile e cortese […]. Egli suona bene del flauto. Mi sono fatto affittare un buon cembalo per opera del console che mi mandò anche della musica. Così facciamo de’ concerti, io compongo delle piccole arie per flauto, egli le eseguisce. Inoltre possiamo aver comunicazione colle nostre signore – Esse vengono la sera in camera mia, e come ce ne sono tre giovani che cantano, io le accompagno, gli altri quarantenari vengono ad ascoltarci, e così passiamo una delle più dolci quarantene che si sieno mai fatte”.

Viaggiando in rimoti paesi 15Le “nostre signore” di cui parla sono le componenti di una bizzarra famiglia di otto donne, che così ha prima descritto: “Una bisava decrepita – due sue figlie vecchie, di cui una ha tre figlie, una delle quali maritata ha una serva indocile, e una bambina che completa la quarta generazione, e ch’è la sola persona tranquilla di tutta la famiglia. S’immagini tutta questa gente col loro cane rinchiusi con me ed un altro passeggiero (negoziante Francese assai buona persona) in una piccola camera, gridando, piangendo, disputando fra loro, con noi, col capitano; la bambina che stride, la decrepita che tosse, il cane che abbaia, non è un vivere, ma è continuo morire. La notte, per caldo che faccia, vogliono restar stivati nella camera colle finestre chiuse, e cento altre indiscrezioni colle quali corrispondono alle cortesie ed attenzioni, che abbiamo usato verso loro”. Il quadretto è fantastico, per l’essenziale efficacia della scrittura ma soprattutto perché dimostra che Vidua è un viaggiatore vero. Riesce prima ad adattarsi ad una simile infernale situazione, e a reinterpretarla poi simpaticamente come una “dolce quarantena”.

Si capisce comunque molto bene da un’altra lettera dello stesso periodo perché questo indugio non gli pesi affatto. “Il mio viaggio è terminato. Non ho scordato che tu (n.b. il Marchese del Carretto) ne facilitasti il principio, Tutto sta nell’uscir una volta di prigione. Ora vado a costituirmi di nuovo. Veramente il solo stimolo che mi v’induca, e credo il solo piacere che avrò nel rivedere il paese natio sarà quello di rivedere mio padre, mia sorella, e qualche raro amico. come te, e come pochi altri. E che vi farò? Durante il mio viaggio ho trovato de’ peregrini pari miei, che anelavano al momento di finire le loro peregrinazioni. Altri che mi dicevano: oh, quando sarete ritornato in Piemonte sarete un oggetto di curiosità, Vi opprimeranno d’interrogazioni […] io rideva, e pensavo tra me stesso: eh quanto poco conoscete il Piemonte! È vero che altrove i viaggi danno buona riputazione, da noi piuttosto la tolgono. Buono per me, che non li ho intrapresi per vanità ma per mia istruzione, e particolarmente per mio diletto. Posso dire di aver vissuto in questi tre anni e mezzo, e se avrò lunga vita le memorie che ne serbo faranno il divertimento della mia vecchiaia”.

Finalmente agli inizi della primavera del 1822 rientra nel regno di Sardegna. Non è un ritorno trionfale, come Carlo aveva ben presagito. I moti ‘patriottici’ sono stati soffocati da un pezzo, alcuni amici sono in carcere, altri in esilio, e il clima, in generale e in casa Vidua in particolare, è decisamente pesante: lo constata appena mette piede in Piemonte, allorché gli viene imposto di tagliare immediatamente i baffi che aveva lasciato crescere alla turca e che portava da due anni (c’è un’ordinanza reale apposita). Non ha così modo di mostrarsi ai familiari nel suo nuovo look orientaleggiante, spettacolo per il quale si era munito di caffetani e turbanti. Ma, ciò che più importa, non è ancora rientrato che già il padre e tutto il parentado tornano all’attacco con le insistenze sul matrimonio.

Carlo riesce a prendere respiro per altri tre anni opponendo una resistenza passiva. Trova mille motivi per procrastinare: deve stendere le relazioni dei suoi viaggi (ma ha molti dubbi sull’interesse che possono destare nei piemontesi), redigere un libro sulle iscrizioni antiche che ha raccolto in Egitto e in Grecia (le Inscriptiones antiquae a comite Carolo Vidua in Turcico itinere collecte, unica opera sua edita in vita, Parigi 1826), ma soprattutto deve curare la fase decisiva dell’affare Drovetti, che si conclude solo nel 1823 con l’acquisizione della collezione da parte del governo sabaudo, e comporta ora la sistemazione museale dei materiali.

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In America!

All’inizio del 1825 lo troviamo nuovamente in Francia: l’aria di casa si è fatta irrespirabile. A Parigi questa volta conosce Alexander von Humboldt. La mia prima curiosità nei confronti di Vidua è nata proprio da questo incontro, dalla menzione che Humboldt ne fa sia nelle sue lettere, lodando il libro sulle iscrizioni, sia nel Kosmos, dove parla di “un viaggiatore dalle molte peregrinazioni e libero ricercatore, il mio amico piemontese conte Vidua”. Il grande viaggiatore-scienziato tedesco è in quegli anni una vera star, ammirata in tutta Europa, ed è estremamente disponibile nei confronti dei giovani animati da curiosità scientifica e spirito d’avventura. Vidua possiede entrambe queste caratteristiche, e in più è fortissimamente determinato a metterle a frutto. E Humboldt gliele riconosce subito. Un loro contemporaneo (il conte Federico Sclopis) qualche anno dopo la morte del viaggiatore racconta: “Ho incontrato in questa biblioteca il signor Humboldt, col quale abbiamo parlato dei viaggi di Vidua, che egli ha personalmente conosciuto e che sembra tenere in grande considerazione. Egli ritiene che l’idea dominante in Vidua fosse quella della politica, e che guardasse soprattutto a quella in tutti i suoi viaggi […]. Il signor Humboldt non conosceva che le iscrizioni raccolte da Vidua nel suo viaggio mediorientale, le ritiene importanti e si è fatto l’idea che questo viaggiatore dovesse avere una grande conoscenza delle lingue antiche”.

È vero che Humboldt ha conosciuto praticamente mezzo mondo, e che tendenzialmente andava d’accordo con tutti, ma l’apprezzamento espresso nei confronti del casalese, anche molti anni dopo la scomparsa di quest’ultimo, è decisamente lusinghiero. Dimostra che i due si sono trovati e subito intesi. Vidua d’altra parte non è lì per caso: sta per mettere finalmente in atto il suo progetto americano. Ne espone al barone le motivazioni e le linee principali e riceve un profluvio di consigli sulle mete, sui tempi di percorrenza, sull’equipaggiamento; ma soprattutto ottiene una serie di lusinghiere commendatizie, che gli permetteranno di incontrare le figure più importanti della politica americana del tempo. Non poteva godere di un viatico migliore.

Viaggiando in rimoti paesi 17Molto diversa, com’era da attendersi, è la reazione paterna. Carlo ha meticolosamente programmato e preparato il viaggio in America, ma non ne ha mai discusso in famiglia. Tutto rischia quindi di saltare quando a Marsiglia, poche settimane prima della data fissata per la partenza, arriva un ordine restrittivo dello stato sabaudo nei suoi confronti, fatto emanare probabilmente proprio dal padre. Il giovane non si rassegna, e in una lettera al genitore fa chiaramente intendere che da un rimpatrio inglorioso non uscirebbe offuscata solo la sua immagine. A quanto pare tocca il tasto giusto, perché l’ordine è rapidamente revocato. Carlo si imbarca dunque per l’America alla fine di febbraio del 1824, salpando dal porto di Le Havre.

In questo periodo l’America non è ancora meta di migranti economici in fuga dal nostro paese, come lo sarà alla fine dell’Ottocento: è frequentata invece dal fior fiore della intellighenzia italiana. I giovani si recano oltreoceano per viaggi più o meno lunghi, come nei casi di Paolo Andreani e di Francesco Arese, o per trapiantarsi definitivamente, spesso in ruoli di prestigio, come il librettista Lorenzo da Ponte, gli storici e politici Filippo Mazzei e Carlo Bellini, il militare e trapper Francesco Vigo, o addirittura per portarne a compimento l’esplorazione, come Costantino Beltrami. In molti casi si tratta di fuorusciti politici, reduci dalla militanza napoleonica o dalle rivoluzioni costituzionaliste degli anni venti (Pietro Maroncelli è uno di questi). Sono attratti da un’istituzione repubblicana che sembra funzionare e si propone come alternativa ai dispotismi restaurati in Europa: ma anche dalla vastità di un mondo aperto sull’Ovest, nel quale è pensabile ogni esperimento sociale, ogni realizzazione economica, ogni fuga dall’avanzata del moderno o, in alternativa, da ogni ritorno dell’antico. Carlo Vidua in qualche modo riassume in sé tutte queste motivazioni.

La traversata oceanica è tutt’altro che tranquilla: la nave passa da un fortunale all’altro, impiegando quarantatre giorni per raggiungere il nuovo continente. Ma anche in questa occasione il conte non si smentisce: mentre fuori infuriano i marosi si distrae suonando la spinetta. Sembra un atteggiamento alla Chateaubriand (che durante la traversata si tuffava in mare dalla nave per fare un po’ di moto – salvo poi dover essere fortunosamente recuperato), un’esibizione per impressionare gli altri passeggeri e farsi precedere da un alone di imperturbabile eccentricità: ma direi che è in linea con la sua personalità, e se anche l’aneddoto, che dobbiamo al protagonista stesso, fosse inventato, sarebbe comunque verosimile.

Vidua approda a New York nei primi giorni di aprile. Di lì prosegue per Filadelfia, e visita in successione Boston, Washington e Monticello. Grazie alle lettere di presentazione di Humboldt e a quelle che si è procurato nelle varie ambasciate ha modo di incontrare durante questo tour tre ex-presidenti e il presidente in carica, prima separatamente e poi eccezionalmente tutti assieme. Certamente l’essere figlio di un ministro di uno stato europeo e l’essere munito di commendatizie autorevoli gli apre le porte: ma è poi lui, col suo genuino interesse e la sua intelligenza a guadagnarsi una sincera e spontanea ospitalità, perché gli americani ci tengono a che il loro sistema di governo sia correttamente conosciuto nel vecchio continente. Tutti coloro che lo incontrano ne sono conquistati.

Eppure Vidua è molto diverso dal barone tedesco che lo aveva preceduto vent’anni prima, e che a sua volta aveva suscitato entusiasmo negli stessi interlocutori. Non li lascia storditi e quasi in soggezione: è al contrario uno che fa domande, è curioso di quel mondo e apprezza l’immediatezza e la semplicità che caratterizza anche i rapporti con persone di altissimo rango. Per questo piace molto ad esempio al presidente Quincy Adams, che così annota nel suo diario: “Il conte è davvero curioso […] è un ottimo concertista al pianoforte, ci ha suonato due o tre arie […]” e ancora “[…] è una persona di grande intelligenza e conoscenza”. A sua volta a Vidua piace Adams, perché è un moderato e perché dotato di un forte senso etico: non a caso il presidente una volta tornato all’avvocatura assumerà, diversi anni più tardi, la difesa degli schiavi ammutinati dell’Amistad, e ne otterrà l’assoluzione. Tra i due si instaura una calda simpatia, tanto che Vidua viene trattenuto a colloquio e a pranzo dal presidente più volte in pochi giorni. “La prima visita fu un dialogo lungo e animato di un’ora. Lunghi discorsi tenemmo pure il giorno che mi invitò a pranzo, ed un’altra sera che passai seco, e se mi fossi fermato lungamente a Washington avrei potuto vederlo bene spesso, giacché mi fece padrone di andare a passare ogni sera con lui.”

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La cosa si ripete a casa di Thomas Jefferson, dove si trovano in visita altri due ex-presidenti, Madison e Monroe, oltre allo stesso Quincy Adams. “I momenti che si passano con uomini di questa sorta sono preziosi, ma ordinariamente perduti, perché la presenza di altre persone e la circospezione impediscono di interrogare e di rispondere. Qui invece eravamo in villa, eravamo soli, io straniero, essi ritirati dagli affari, sicchè la conversazione non potè essere né più libera né più interessante. E siccome essi non si mostravano schivi di rispondere, io non mostrai paura di interrogare.” Credo di non sbagliare pensando che i quattro si fossero riuniti lì appositamente per conoscere lui, incuriositi dagli elogi che Adams junior ne aveva tessuto. E credo anche che posti di fronte a domande come: “Quanto tempo è credibile che la loro propria (repubblica) duri senza separarsi?” abbiano capito di avere davanti uno che vedeva lontano.

Un altro ex-presidente, John Adams (il padre di Quincy), incontrato qualche tempo dopo, ne riceve evidentemente un’immagine altrettanto positiva: “[Adams] le aveva parlato molto di me, dicendole che certo io avevo studiato bene la loro storia, e che di tanti viaggiatori che gli erano stati presentati nessuno gli aveva mai fatto interrogazioni di quella natura, che gli avevo fatto io”. E anche il sindaco di Boston scrive: “Analitico, curioso, intelligente, […] Vidua è intento in modo non comune nella ricerca della storia e dello stato attuale di questo paese”.

Questa la favorevolissima impressione che Vidua desta (e che ricambia, parlando dei singoli personaggi). Ma che impressione matura riguardo le istituzioni e le prospettive della giovane repubblica? Quando da Boston e da Washington si sposta a New York incontra un altro tipo di americani. “New York – scrive – non mi piace quanto Boston. È vero che or molta gente è in villa, e poi queste gran città commerciali non sono mai fatte per divertire uno straniero. La gente vi è troppo occupata a far denari.” E anche a fare politica, ma in maniera diversa da quella dell’aristocrazia schiavista della Virginia. Gli uomini nuovi sono i grandi imprenditori, i mercanti alla John Jacob Astor, i lobbisti e i finanzieri come Aaron Burr e Martin Van Buren, che condizionano la macchina elettorale e di lì in poi determineranno la politica americana.

La nube sul futuro degli Stati Uniti è rappresentata per Vidua da personaggi come Andrew Jackson, già candidato alla presidenza e all’epoca probabile futuro presidente, mercante di schiavi e odiatore degli indiani, fondatore del partito democratico e sostenitore del protezionismo: il tipico self made men semi-analfabeta che ha fatto carriera per la sua spregiudicatezza e irruenza, quanto di più lontano dall’aristocrazia intellettuale che ha così benevolmente accolto il giovane conte europeo.

Più in generale, Vidua sembra essersi fatto questa idea. La rivoluzione americana è stata gestita da una minoranza di privilegiati che aveva come scopo principale quello di sostituire la propria egemonia a quella inglese. Lo stesso vecchio Adams gli ha confermato che la maggioranza degli americani era contraria all’indipendenza o era indifferente. Ma tutto sommato gli artefici della rivoluzione, pur partendo da concezioni di fondo molto diseguali, e pur adottando nella competizione politica e nell’ accaparramento del consenso mezzi molto spregiudicati, hanno creato un sistema equilibrato, anche se fragile per l’esistenza nelle diverse ex-colonie di esigenze economiche spesso contrastanti. È un sistema che garantisce in primo luogo le libertà, quindi costituisce un esempio cui guardare. Vidua è colpito ad esempio dalla tranquillità nella quale si svolgono le operazioni di voto: “Ho assistito ad una elezione nello stato del Maine; ciascuno andava a portare il suo biglietto, la gente di diverso partito s’incontravano senza dir nulla, ciascuno dava il voto al suo candidato, i signori di città ne tenevano registro, un silenzio, una quiete, non si sarebbe sentito volare una mosca; quando scadde il tempo fissato per dare i voti, fu fatto lo scrutinio ossia il sommario dei voti in presenza di tutti, e fu dichiarata l’elezione senza gridi, senza tumulto”. (mi chiedo cosa penserebbe oggi!). O ancora, dall’ordine e dalla sicurezza che regnano nelle ex-colonie: “Sui costumi e sulla religione di questo popolo vi sarebbe molto che dire; ma esso merita questo grande encomio, che sebbene si governi da sé, e la forza pubblica vi sia debolissima, pure le persone e le proprietà vi sono talmente sicure che si viaggia ad ogni ora, e le case sono aperte fin di notte, senza serrature, senza chiavi e senza feriate” (anche su questo, avrebbe forse dei ripensamenti).

Ritiene però che quello americano sia un modello difficilmente ripetibile al di qua dell’oceano. In effetti, le condizioni sia fisiche (gli spazi) che sociali (l’eguaglianza dei diritti) degli Stati Uniti sono ben diverse da quelle europee. Inoltre, tutto il conclamato egualitarismo, che teoricamente è la base del modello democratico, è clamorosamente smentito dal fatto che una parte considerevole della popolazione, tra nativi che vengono espropriati delle loro terre e schiavi che sono stati importati (e continuano ad esserlo), non partecipa di nessuna liberà, né civile né politica (nel 1830, a fronte di una popolazione di oltre quindici milioni, i votanti sono un milione e mezzo) Col passare del tempo, secondo Vidua, questi problemi diverranno sempre più gravi, e peseranno moltissimo sulla tenuta dell’unione. “Una tranquillità perfetta che continuerà tanto che non ci sia sovrabbondanza di popolazione, una sicurezza personale illimitata, e indipendente dal capriccio dei governanti, una libertà intera di vivere e di scrivere, limitata però dall’uso dei duelli, da processi per calunnia e in certi punti dalla pubblica opinione, nessun timore di potere arbitrario, questi sono beni reali e preziosi, e certo questi beni si godono in America dai cinque sesti degli abitanti. Ma lo spettacolo dell’altro sesto, cioè di due milioni di creature umane staffilate, vendute, affittate come bestie sol perché non hanno la pelle bianca, mi amareggiava continuamente il soggiorno sì vantato della terra di libertà.

Ciò che intravvede, e che non ha potuto poi dettagliare e commentare con calma e in maniera più approfondita, è né più né meno ciò che vedrà Alexis de Tocqueville esattamente cinque anni dopo.

Tocqueville arriva in America nel 1831, con Gustave De Beaumont, inseparabile sodale di una vita. La motivazione ufficiale del suo viaggio è lo studio del sistema giuridico e penale degli Stati uniti, ma il soggiorno di quasi un anno gli consente indagare in profondità le differenze tra la “rivoluzione” americana e quella francese. Studia gli effetti della democrazia, e constata che questa promuove l’uguaglianza a scapito della libertà e l’individualismo a scapito della coesione sociale. Il rischio (a suo parere molto concreto) sul lungo termine è quello della massificazione e del trionfo del conformismo: la democrazia finisce allora per scadere nel dispotismo della maggioranza. Questo il succo de La democrazia in America, il poderoso saggio scritto negli anni immediatamente successivi al ritorno, e destinato a dargli la fama.

Vidua non ha modo di ordinare le sue impressioni, non effettua questi collegamenti, ma coglie già perfettamente quelli che ne saranno i presupposti. Nel resoconto della sua esperienza americana inviato all’amico Roberto D’Azeglio, rispondendo alla domanda di quest’ultimo: “Osserva ben quegli uomini, e dimmi se veramente son più felici degli altri. Vi trovi libertà vera?” scrive: “Non andai in America fanatico, ma a dir vero inclinato in favore. Non ho incontrato nessun dispiacere … nessuno disse male di me, e alcuni dissero più bene che non merito. Lungi dall’aver motivo di disgusto, ho dunque doveri di gratitudine. Ma pur la verità, ch’è il primo dei doveri, mi costringe a confessare che quegli uomini e quel paese mi gustaron pochissimo. … quanta diremo sia la felicità di un popolo che tutto intero corre ansante, senza riposo e senza intermissione in cerca del solo guadagno; in cui le scienze e le arti sono coltivate solo nell’interesse commerciale; in cui l’attività individuale tende ad isolare e a infievolire i nodi più stretti di un popolo sommamente industrioso, è vero, ma privo di fantasia, incapace di passioni generose, tenere o magnanime, del popolo il più freddo e il più calcolatore, che la terra abbia visto giammai? Parlo dell’universale, Dio mi guardi dal calunniare i particolari; son pronto a rendere giustizia a questi, e forse ancora sarei inclinato a riconoscere in favore dell’universale, che que’ difetti medesimi li rendon più capaci di sostenere la libertà, la quale difficilmente si può acquistare, o presto sfugge dalle mani delle nazioni dotate di tempra fervida e di calde passioni. Però, se la libertà si paga a tal prezzo […]”.

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Verso ovest e verso sud

Vidua ha naturalmente letto i libri di Chateaubriand e quelli di James Feminore Cooper, anche se questi ultimi non lo entusiasmano. Cooper l’ha poi anche conosciuto personalmente durante il viaggio. Vuole ora visitare le foreste canadesi teatro delle gesta dell’ultimo dei Mohicani, ma soprattutto completare la sua ricognizione dei sistemi politici nordamericani andando a verificare i modi della colonizzazione inglese: e vuole anche esplorare la frontiera occidentale statunitense, aperta una ventina d’anni prima con l’acquisto della ex Louisiana francese. Negli ultimi mesi del 1825 compie quindi un itinerario che dal Canada lo porta lungo la linea della frontiera sino a st. Louis, nel Missouri. Ha modo di ammirare le cascate del Niagara, delle quali scrive con entusiasmo: “Non mi sazio di vederle: son qui da due giorni e non fo altro che vagheggiarle: la pioggia, la nebbia e soprattutto la luna diversificano in mille modi la scena, e senza essere tacciati di romanticismo si può dire che questo è uno dei luoghi più romanzeschi del globo”. Altrettanto entusiasmo mostra però, oltre che per gli spettacoli della natura, per quello dell’intraprendenza umana, che in pochissimi anni ha creato città come Rochester e Pittsburg, ricche di manifatture d’ogni genere e pulsanti di vita: “È incredibile l’industria e l’attività di questa nazione, qualità in cui essa sorpassa e la Francia e l’Inghilterra che pur sono reputate le nazioni più industriose d’Europa”.

È un percorso più lungo di quello compiuto dallo scrittore bretone trent’anni prima, e anche di quello che di lì a pochi anni intraprenderà de Tocqueville. Tocca l’Ohio, il Kentuky, l’Indiana, l’Illinois e il Missouri: e Vidua si rende conto che il futuro dell’America è proprio nella frontiera.

Tutta questa parte degli Stati Uniti chiamata Western Country, che si estende lungo i grandi fiumi dell’Ohio e del Mississippi, è comparativamente agli altri stati sulle sponde dell’Atlantico, un paese nuovo. […] Questo è il più brillante teatro dell’industria di questo attivissimo popolo. L’americano non ha l’attaccamento al campanile, il rincrescimento di staccarsi dagli amici, dai parenti, da una patria. […] All’età di vent’anni ei si prende una moglie e va a cercare fortuna nell’Ovest. La terra è a buon mercato […] i raccolti di due o tre anni bastano a vivere, a pagare la terra e a fabbricare una cascina. A poco a poco la famiglia cresce, ma crescono le braccia: ed i suoi figli a vent’anni imitano il padre, abbandonando la casa paterna e andando a cercar fortuna sempre più all’ovest.

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Da St. Louis si imbarca su un battello che discende il Mississippi, e nel febbraio 1826 lascia gli Stati Uniti, partendo da New Orleans e recandosi in nave in Messico. È intenzionato a raccogliere materiali per una storia della rivoluzione messicana e più in generale di tutte le recenti rivoluzioni che si sono prodotte o sono ancora in corso nell’America Latina, nelle ex-colonie spagnole: e anche in questo caso non si accontenta di intervistare le massime autorità nei palazzi del potere, ma intende visitare in lungo e in largo i diversi paesi. Vuole ricalcare quasi passo passo le orme di Humboldt, ed aggiornare le considerazioni riportate da quest’ultimo quando l’ondata rivoluzionaria era ancora all’inizio.

In Messico però la delusione è cocente: riguarda il paesaggio (una campagna squallida e deserta), la viabilità (è questo uno dei paesi in cui viaggiare è più costoso, più difficile, più faticoso), gli abitanti, che hanno una fisionomia selvaggia, l’economia, poverissima e se possibile in dissesto, e poi, soprattutto, le istituzioni. La chiesa tollera manifestazioni religiose carnevalesche: “Il giovedì santo, trovandomi in un borgo presso s. Luis Potosi andai In parrocchia dopo pranzo credendo assistere all’ufficio: ma trovai che invece dell’Ufficio sì commovente […] si facevano in cambio tre processioni con grandi mascheroni, con fiaccole, con tiri e spari e musiche di violini come se fosser balli”. La classe politica uscita dalla rivoluzione non promette granché bene: “Qui in tutte le parti sono occupati a costituirsi; con quanta perizia, e quanta scienza politica e governativa nol so”. Vidua presenzia ad alcune sedute degli organismi di governo provinciali, e constata come nei confronti degli spagnoli l’odio sia radicato (e meritato, a giudicare da quel che sente). Ritiene quindi impossibile che la Spagna possa riprendersi le sue colonie. Ma ha anche forti dubbi sulla tenuta del nuovo assetto politico. “Io sono per l’emancipazione, però dopo che ho visto Messico, desidero per loro bene che i Repubblicani arrabbiati non abbian tanta influenza, e che non sia dato loro il potere di piantare il pugnale nelle viscere della loro patria, come sgraziatamente fanno.”

Mentre è in Messico gli capita anche un fatto tra il comico e l’increscioso. “Passando ad altro soggetto, vorrei raccontarti la storia della mia morte, ma non la so bene. Mentre io stava visitando il Messico fu pubblicato negli Stati Uniti il racconto della maniera con cui io era stato ammazzato ne’ deserti dagli Indiani; colà son tanti i giornali! dall’uno all’altro lo ripeterono, e un letterato di Filadelfia, città ove mi aveano conosciuto molto, fece la mia Necrologia, e la fece stampare nel più famoso di que’ fogli periodici […]. Il console generale negli Stati Uniti scrisse al Ministro al Messico per saper s’era vero, ed io poi seppi da lui la mia morte e la mia risurrezione tutto in una volta quando fui di ritorno a Messico. – Desiderava leggere la mia necrologia per la rarità del caso, che al solito non la legge il morto, però finora non l’ho potuta avere. Il suddetto Ministro degli Stati-Uniti al Messico, ch’è mio amico, mi disse ’che m’avean detto molto bene. – Sia un compenso per quelli che dicon male.” Il problema è che la notizia giunge sino in Europa, e solo il sopraggiungere di una tempestiva smentita evita ai famigliari di Carlo un coccolone.

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Anche Città del Messico, dove arriva il 21 giugno dopo aver girovagato per quattro mesi nella zona centrale del paese, non corrisponde affatto alle sue aspettative. La paragona a Torino, per le montagne che le fanno cornice, ma trova che tanto il panorama che la configurazione urbana siano decisamente inferiori. Naturalmente non manca di raccogliere tutto ciò che può, e di spedire dalla capitale il solito stock di casse pieno di libri, tele, statuine, medaglie, ecc…

Nel paese dilaga però la febbre gialla, e decide allora di lasciare il Messico e dirigersi verso il Perù. Non senza concedersi, lungo il cammino che lo porta verso la costa pacifica, un mese di sosta a Guadalajara, che giudica la più bella città del Messico e dove trova ospitalità presso un gentiluomo inglese. In realtà è anche incerto se proseguire nel suo progetto dell’America Latina o volgersi direttamente all’Asia (ha in mente la Persia).

A sciogliere ogni dubbio arriva una missiva della sorella che lo informa del grave stato in cui versa la salute del padre. Sconvolto dal rimorso, Carlo intraprende una galoppata che in un mese lo riporta a Città del Messico, e di lì a vera Cruz, dove trova un passaggio per l’Europa. Si imbarca il 22 febbraio e giunge a Bordeaux nell’aprile del 1827, dopo una traversata ancora una volta tempestosa. Ma sta scritto da qualche parte che il ritorno non sia definitivo. Un duro contrasto epistolare con il padre, nel frattempo ristabilitosi, induce il nostro a non rientrare in patria. I motivi della rottura si possono facilmente immaginare: gli viene dettato l’ennesimo ultimatum, pena l’essere definitivamente diseredato. Carlo non è disposto ad accettarlo e si ritiene quindi sciolto moralmente da ogni vincolo. “Sarebbe stato naturale qualche rincrescimento della strada fatta indietro, e quale strada! Tuttavia pensai che non era possibile pentirsi di aver fatto ciò che si deve, e io sono contento di aver avuto occasione di mostrare in un modo così poco volgare il mio rispetto e affetto per mio padre. Avevo compiuto un dovere. Tal dovere non esistendo più, era naturale di finire ciò che avevo incominciato. Invece di fare il giro della palla da levante a ponente, questo accidente me lo fa fare da ponente a levante.”

Del resto, era già chiaro molto prima, quando a proposito di matrimonio e di carriera scriveva ad un amico: “Se mai mi decidessi, sarebbe unicamente per far piacere a mio padre. Capisco che ei ne dee avere gran desiderio, e s’io fossi a suo luogo l’avrei. Ma la perdita della libertà, l’interruzione de’ miei studi, e soprattutto l’obbligo di dovere vivere in un paese sì diviso, e in mezzo a tante piccolezze, e ad opinioni che per la loro esagerazione da una parte e dall’altra, non si combaciano con le mie idee moderate […]”.

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Nell’Estremo Oriente

Vidua deve aggiornare i suoi programmi, e non impiega molto. Solo tre mesi dopo il rientro, nel luglio del 1827, riparte da Bordeaux per quello che nelle intenzioni dovrebbe essere il suo ultimo viaggio (così almeno scrive alla sorella): la destinazione prossima è l’Estremo Oriente, in particolare la penisola indiana e il sud-est asiatico, ma il progetto è molto più ambizioso: prevede l’Australia e la traversata del Pacifico sino al Cile e al Perù, e quindi di valicare le Ande per toccare Buenos Aires e Rio de Janeiro.

Arriva dunque a Calcutta a metà novembre del 1827 (dopo cinque mesi di navigazione!). Nel gennaio dell’anno successivo risale il Gange fino a Benares, per essere poi a Delhi in febbraio. Il tam tam che lo precede funziona, comincia ad essere conosciuto anche negli angoli più remoti del mondo come “il Viaggiatore”. Le credenziali a questo punto se le firma da solo. Incontra così i massimi esponenti della Compagnia delle Indie ed è presentato personalmente al Gran Mogol. Ha il tempo anche di frequentare i “salotti” coloniali, e di biasimare la spocchia che li caratterizza. Gli inglesi guardano con sprezzo alla sua curiosità per culture che ritengono inferiori: e al contrario degli americani ritengono inferiore anche la cultura sua. Significativo è quanto racconta a proposito di un’accesa discussione a casa di un alto funzionario della Compagnia: “Alla fine milady alzandosi mi disse che ero bigot. Le risposi: è bigot chi attacca, non chi si difende, chi vuol perseguitare, non chi apologizza, io amo i protestanti, non ho declamato contro di essi. È bigot chi fa accuse senza fondamento, chi vuole escludere i suoi compatrioti dall’esercizio di egual diritti, ecc […]”. Questo ci rimanda un illuminante quadretto degli ambienti frequentati da Vidua, ma ci dice anche che lo stesso non ci sta a recitare la parte dell’ospite che si fa andare bene tutto.

È indignato soprattutto dalla netta linea di separazione che gli inglesi hanno tirato tra sé e gli indiani, e dallo sfruttamento di questi ultimi: a Calcutta “io tentai qualche passeggiata a piedi: gli indiani mi fissavano come si guarda un pazzo, sì poco sono avvezzi a veder un bianco muovere le gambe. I cavalli stessi paion riservati solo ad usi nobili, condurre carrozze o portar eleganti cavalieri. Raro si vedon cavalli condurre carrette; bestie da soma son gli indiani, cavalli di stanza son gli indiani, l’ufficio degli asini, dei buoi è fatto dagli indiani: tutte le mercanzie son care fuorché la carne umana”.

D’altro canto, “il pregiudizio della casta è insuperabile, e necessita questo numero considerevole di domestici giacché non ridurreste mai quel che vi veste a servirvi a tavola e quel che vi serve a pranzo a salir dietro il cocchio, uno non può toccar le scarpe perché è pelle di animale; l’altro non può portarvi il brodo perché è bevanda immonda, tutto li contamina, tutto li sporca, gettano il resto delle nostre vivande appena abbiamo finito di pranzare! Indi nasce quel notabile e quasi incredibile contrasto, che cento milioni di uomini rispettano ed ubbidiscono a pochi europei, ciascun dei quali è riguardato da loro come creatura sì nauseosa, sozza, immonda, che nemmeno il più povero non consentirebbe a dividere seco lui un pezzo di pane”.

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In India non si ferma a lungo. Abbastanza però per raccogliere un sacco di materiale, da spedire a casa in un “ricco baule”, pieno di “manoscritti Indiani in differenti lingue, ornamenti donneschi, rappresentazioni de’ costumes ossia abiti delle differenti condizioni di persone, ed altri vari oggetti”. Nell’aprile del 1828 è comunque sui primi contrafforti dell’Himalaya, senza peraltro sembrarne particolarmente impressionato: si limita a prendere atto che le vette sono indubbiamente molto più alte di quelle alpine, e che per salirle occorrerebbe una sosta prolungata, ma le trova molto meno spettacolari.

Poi, tornato alle pianure, si sposta nell’estate a Singapore e trascorre un intero anno tra il porto aperto di Canton e i possedimenti portoghesi (Macao) e spagnoli (Manila).

Canton è diventata verso la fine del secolo precedente la sede ufficiale dei traffici inglesi con la Cina, soppiantando il ruolo che era stato in precedenza dei portoghesi di Macao (a metà dell’Ottocento sarà a sua volta soppiantata da Hong Kong). In una lettera al padre (col quale la comunicazione epistolare è ripresa) Vidua racconta come gli stranieri che risiedono a Canton siano soggetti a forti restrizioni nei movimenti e a continui controlli. In sostanza non possono uscire dalle aree destinate allo scambio commerciale. Qualora ciò accada, c’è il rischio di essere aggrediti e bastonati da una moltitudine di cinesi furiosi. Gli stessi impiegati della compagnia delle Indie non possono risiedere sul territorio cinese per più di sei mesi l’anno, e trascorrono gli altri sei a Macao. Non possono nemmeno portare con sé le mogli o la famiglia.

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La curiosità di Vidua però la vince. Con vari espedienti, come l’accompagnare un medico della compagnia nelle sue visite ai maggiorenti della città, o dietro invito diretto di ricchi mercanti cinesi, riesce ad intrufolarsi in alcuni templi e monasteri, o in grandi ville con magnifici giardini, e persino ad assistere a rappresentazioni teatrali. Si arrischia anche, assieme ad altri tre giovani europei, a sbarcare su una spiaggia deserta a qualche chilometro dalla città, e a fare poi un giro nell’interno della campagna, mantenendosi sempre fuori vista e annotando tutto il possibile sui sistemi di coltivazione, sulle abitazioni rurali, sulle piantagioni del the, ecc. Scrive a suo padre, forse anche per dimostrargli che non va a spasso senza scopo: “La campagna nei dintorni di Cantòn è molto coltivata e le fattorie frequenti, i canali di irrigazione e i diversi livelli del suolo destinato alla coltivazione del riso molto bene curati, indicano grandi progressi anche in Cina in questo settore così importante dell’agricoltura”. È l’occhio del proprietario di risaie in Italia.

Alla fine del febbraio 1829, data del trasferimento semestrale degli europei, il governatore della Compagnia delle Indie gli offre un passaggio per Macao. A dispetto della sosta forzatamente breve Vidua è riuscito a raccogliere una gran quantità di oggetti che forniscono una importante documentazione sulla Cina dell’epoca: statuine di divinità o di personaggi del taoismo, paesaggi in miniatura, mappe locali o del Giappone, carte da gioco, armi, nonché una intera Bibliothèque Chinoise, che spedisce immediatamente al padre.

Il 3 maggio abbandona definitivamente l’Estremo Oriente continentale diretto a Singapore. Durante la primavera ha intanto iniziato la stesura di un trattato politico, in cui intende riunire proprie le osservazioni sugli ordinamenti dei luoghi visitati. Pervenuto a Cesare Balbo e confluito infine nella Biblioteca nazionale di Torino, il manoscritto dell’opera incompiuta è andato distrutto nell’incendio che devastò la biblioteca nel 1904.

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Morire nelle isole della Sonda

A metà del 1829 si trasferisce a Giava, dove rimane sei mesi ed entra in contatto con un sistema di colonizzazione diverso. La compagnia olandese delle Indie pratica una politica più morbida, ma non meno repressiva, rispetto a quella inglese: a Vidua sembra decisamente più intelligente. Ma a Giava, forse per la suggestione del paesaggio, porta avanti un altro progetto, direttamente ispirato dalla Naturgemalde (più o meno, la descrizione della natura) di Humboldt: quello di percorrere e in lungo tutta l’isola e di mapparne l’orografia, determinando con il barometro l’altezza delle principali montagne. In effetti ne scala due che superano i quattromila metri, col risultato di dover poi rimanere a letto e a digiuno per diversi giorni. Giava non è innervata da una vera e propria catena montuosa, ma sulla linea da est ad ovest sorgono ben centoventi vulcani, un quarto dei quali ancora attivi. Vidua si propone di censirli e di redigere poi una serie di tavole che presentino la distribuzione geografica delle piante, che nell’isola varia dalla foresta equatoriale lungo le coste ai boschi di tipo alpino oltre i duemila metri.

Nel marzo del 1830 si sposta alla vicina isola di Madura, e successivamente ad Ambon, nelle Molucche, dove è ospite del governatore olandese. Viaggia sull’Iris, una goletta comandata da Jan Hendrik De Boudyck-Bastiaanse, che gli dedicherà i suoi Voyages faits dans les Moluques, à la Nouvelle-Guinée et à Célèbes, avec le comte Charles de Vidua, de Conzano, à bord de la goëlette royale l’Iris (Parigi 1845). Nel corso della navigazione vengono scoperte alcune nuove isole, e ad una di esse viene dato il nome di Isola di Vidua: ciò che la dice lunga sulla stima e sull’amicizia che “il Viaggiatore”, come ormai è chiamato ovunque, riesce rapidamente a conquistarsi. Il comandante scriverà di lui che era anche un abilissimo navigatore (complimento non comune per un piemontese), e che a bordo lavorava come qualunque altro membro dell’equipaggio.

Viaggiando in rimoti paesi 26L’esplorazione delle isole della Sonda è però solo un’ulteriore tappa di avvicinamento al continente australe, rispetto al quale l’interesse torna ad essere prevalentemente politico. “Il mio scopo nel visitare la Nuova Olanda è di osservare nella sua infanzia una colonia tutta di razza europea, destinata a divenire in cento o centocinquant’anni uno stato importante. Ho visitato gli stati Uniti nell’età giovanile. Visitar la Nuova Olanda è come veder dei secondi Stati uniti ancor bambini […]

È anche ossessionato dalla perfetta salute fisica: non che sia un ipocondriaco, anzi, non manca mai, nelle lettere a parenti e amici, di sottolineare come con tutto il suo viaggiare non si sia mai beccato un malanno: e quando questo accade, nell’ultimo anno, lo rileva con rammarico e stupore, quasi un presagio.

A dispetto delle febbri intestinali, ad agosto Vidua è sull’isola di Celebes, viaggiando sempre con Bastiaanse: e qui avviene la tragedia. Durante un’escursione in una caldara scivola con una gamba nella lava bollente. Un po’ se la cerca; il governatore delle Molucche scrive ad un suo omologo: “La rapida fine del conte Vidua deve essere attribuita all’accidente che gli è capitato nelle contrade dell’interno di Menado, e del quale è stato lui stesso la causa, non avendo voluto ascoltare il capo indigeno che lo aveva avvertito del pericolo e voleva trattenerlo, cosa di cui egli si era mostrato irritato. Il defunto era posseduto da un ardore eccessivo: non concedeva al suo corpo alcun riposo”. L’incidente appare subito molto grave, ma non per questo il casalese vuole rinunciare alla sua esplorazione. Trova però un medico solo venti giorni dopo, a Ternate, la regina delle Isole delle Spezie: e qui deve necessariamente fermarsi. Sfrutta comunque l’immobilità forzata mettendo ordine nei suoi appunti e scrivendo. Spera ancora di poter riprendere il viaggio: ma la situazione si va velocemente aggravando. La cancrena alla gamba sale sino alla coscia: l’ultima flebile speranza è legata all’amputazione.

Il 21 dicembre s’imbarca pertanto per Ambon, dove spera di farsi operare: ma è troppo tardi. Muore durante il viaggio, il giorno di Natale del 1830. In una lettera inviata quindici giorni prima al governatore olandese suo amico ha scritto: “Ciò che rimpiango è di non avere davanti altri tre anni di vita, per poter raccogliere il frutto di tante fatiche, di tante ricerche, di tanto lavoro nelle quattro parti del mondo. Sia fatta la volontà di Dio”. Chiede anche che tutti i suoi scritti vengano distrutti. Il suo corpo è tumulato sulla spiaggia dell’isola, dove il governatore fa erigere un sepolcro. Anche il luogo dove è avvenuto l’incidente porta oggi il suo nome: è il Count Vidua Solfatara Field, sul vulcano Tondano.

Poi, nel 1833 almeno le sue spoglie tornano finalmente a casa. Il padre si attiva in tutti i modi e la salma, con un’ultima lunghissima navigazione che passa per Rotterdam e Genova e che sembra rinnovare postuma le peregrinazioni del Viaggiatore, è traslata a Conzano.

Pio Vidua gli sopravvive sei anni. Un anno dopo, nel 1837, muore anche la sorella. Il timore che aveva angustiato il padre per trent’anni si avvera: il ramo casalese dei Vidua si estingue. Ma si avvera anche, almeno in parte, e almeno fino ad oggi, quello che aveva angustiato il figlio: sul suo nome cade l’oblio.

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Sulle consonanze

Non mi resta ora che spiegare brevemente i motivi della particolare simpatia che provo per Carlo Vidua. Sono tantissimi e diversi, e in qualche caso anche un po’ difficili da spiegare, perché il personaggio è un groviglio di contraddizioni. Provo a riassumerli.

Intanto c’è il suo straordinario curriculum di viaggiatore. L’ho scoperto colpevolmente tardi ma ha calamitato subito il mio interesse, perché nell’Ottocento nessun altro italiano ha viaggiato quanto lui. Quando poi ho saputo dei suoi rapporti con Humboldt l’interesse naturalmente si è moltiplicato. A rendermelo particolarmente caro è stato infine il suo tragico destino, che non solo lo ha strappato alla vita ma lo ha anche relegato in un angolo in ombra della storia. Diciamo che rientra a pieno titolo tra i “quasi adatti” dei quali mi sono prevalentemente occupato: di quei “perdenti” che non inseguendo il successo, ma la virtù e la conoscenza, a volte anche inconsapevolmente, hanno in realtà vissuto esistenze straordinarie.

Che tipo di viaggiatore fosse l’ho già detto. Non è annoverabile tra i grandi camminatori perché si è mosso quasi sempre a cavallo (o su cammello), in carrozza o in nave, in genere con uno o più servitori al seguito. Nemmeno è stato un viaggiatore “eroico”, di quelli che cercano il confronto coi propri limiti o si spostano sempre sul filo della sopravvivenza. Ha visitato un’enorme fetta di mondo ben coperto sia sul piano economico che su quello delle conoscenze e delle credenziali. Era perfettamente consapevole di godere di una condizione di privilegio, non se ne scusava affatto e riteneva semmai doveroso metterla a frutto: “Coloro appunto, cui la fortuna fu larga de’suoi doni, e che talvolta come usarne non sanno, quelli potrebbero agevolmente andar ricercando le contrade straniere, onde giovare alla patria, ed illustrare il loro nome”. Non dunque da turisti, ma da studiosi. Come tale Vidua pianificava meticolosamente i suoi percorsi, solo che questi poi si dilatavano e si ramificavano in ogni direzione, senz’altro perché poteva permetterselo, ma prima ancora perché trovava costantemente nuovi motivi di interesse, scopriva e inseguiva nuove curiosità. Il fine “scientifico” di tutto questo vagare era autentico, almeno negli intenti, anche se credo che con l’andar del tempo sia diventato quasi un pretesto, e che Vidua abbia continuato a spostare sempre un po’ più in là gli orizzonti per non dover affrontare, una volta fermo, l’onere di un bilancio. A dispetto dei reiterati propositi di ritorno e di stabilizzazione definitiva, espressi soprattutto nelle ultime missive, penso che ad un certo punto il viaggio sia diventato per lui, da strumento che era, il fine. O che lo fosse sin dall’inizio.

Cos’ho trovato dunque di particolarmente attrattivo nel Vidua viaggiatore? Senz’altro la determinazione: intraprendeva quasi tutte le sue avventure in compagnia di amici o conoscenti che ad un certo punto, per vari motivi, rinunciavano, mentre lui proseguiva imperterrito. E fino all’ultimo, anche a dispetto del grave incidente occorsogli, non intendeva rinunciare al completamento del giro del mondo. Mi piace poi il suo senso di responsabilità, anche se talvolta può sembrare pretestuoso: se uno sceglie di viaggiare non è giusto, né nei confronti propri né in quelli altrui, che contragga legami ai quali poi non può convenientemente ottemperare: “Quando l’uomo si marita, conviene che rinunci ai viaggi, e stabilisca di tenere compagnia bene o male a quella donna che per sua ventura o disgrazia ha scelto”.

E mi piace infine la capacità di adattarsi. Non mi riferisco chiaramente alle condizioni materiali del viaggio, che erano comunque disagevoli, anche muovendosi col minimo di comodità concesso dall’epoca, ma a quelle psicologiche. Si trovava altrettanto a suo agio ovunque e con qualunque interlocutore, fossero sovrani, presidenti, marajà, governatori coloniali, mercanti o beduini: non adulava, non si umiliava, li interrogava mostrando un interesse genuino, li ascoltava e cercava di trarre da tutti il numero maggiore di informazioni possibili: non era lì per giudicare, anche se poi nelle lettere i suoi giudizi li esprimeva, ma per capire.

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Il Vidua “uomo” mi ha intrigato invece perché sfugge ad ogni incasellamento. È impossibile metterlo perfettamente a fuoco. Lui stesso non ha collaborato granché. Non ha lasciato opere compiute (se si eccettua la raccolta di iscrizioni antiche, che è un lavoro specialistico), fallendo malinconicamente nell’adolescenziale assillo di tutta una vita, la costruzione di una immagine di sé ricalcata su quella degli eroi antichi. Quindi non abbiamo un autoritratto “autorizzato”, la sua versione soggettiva. Ma riesce difficile anche ricostruirne un ritratto sufficientemente oggettivo attraverso ciò che ci è rimasto, perché le sue lettere, che pure di quella immagine sono piene, la cambiano poi in realtà a seconda dei destinatari: la loro scrittura si adatta di volta in volta a trasmettere ciò che Carlo riteneva l’interlocutore si aspettasse.

Viaggiando in rimoti paesi 29Ciò non significa che Vidua fosse uno Zelig, un uomo senza personalità. Era semmai un personaggio un po’ pirandelliano, costantemente lacerato tra la mozione paralizzante degli affetti e quella liberatoria degli istinti. Alla fine ha prevalso la seconda, ma non ha mai soffocato definitivamente la prima: così che ogni esperienza è stata da lui vissuta sotto una doppia luce. Dovessimo giudicare solo dalle lettere al padre, ad esempio, ne verrebbe fuori un aristocratico un po’ eccentrico che si compiace soprattutto delle sue frequentazioni altolocate – oggi sarebbe un cacciatore di selfie con le celebrità –, del rispetto tributato alle sue ascendenze nobiliari e del ruolo di ambasciatore itinerante dello stato savoiardo nel mondo: mentre è evidente che tutto questo serviva solo a tentare di giustificare davanti al genitore la propria disobbedienza, e che la frequentazione di quegli ambienti era strumentale al lavoro che intendeva compiere (e alla fama che sperava ricavarne). Così, in quelle agli altri famigliari la preoccupazione costante è di rassicurarli sul proprio stato di salute, sulla sicurezza dei viaggi e sul fatto che non si dimentica di loro, usando però spesso la formula “è stato un po’ pericoloso, o un po’ difficile, ma comunque sono ancora vivo e sano”, come a tenerli comunque allertati sull’eccezionalità di quanto stava facendo; mentre nelle lettere agli amici si compiace di inserire aneddoti, avventure e osservazioni che rimandino l’immagine di un originale freddo e coraggioso e riscattino la sua apparente diserzione dalle lotte patriottiche.

Le testimonianze esterne trasmettono invece un Carlo Vidua molto diverso: Quincey Adams ne parla come di una persona semplice e alla mano; Caillaud è conquistato dalla sua serietà e al tempo stesso dalla sua disponibilità; il comandante olandese dell’Iris racconta come sulla nave si adattasse volenterosamente a qualsiasi compito, pur essendo un passeggero pagante. Alla fine la versione meno credibile è proprio quella del suo già intimo amico e primo biografo Cesare Balbo, che nell’editarne le lettere ha costruito con tagli mirati una oleografica figurina di eroe romantico, malinconico e sfortunato.

Io mi sono fatto questo personalissimo quadro. Vidua è un personaggio anacronistico. Ma lo è nel senso più letterale del termine; sta fuori dal tempo, e non solo dal suo. Non era un romantico, pur avendone tutte le caratteristiche, non era un illuminista, pur utilizzando tutti i criteri illuministici di interpretazione della realtà. Questo crea l’impressione che non abbia mai veramente capito quanto stava accadendo e avesse idee piuttosto confuse su quanto sarebbe potuto accadere in futuro. Io credo invece che Vidua si sia volutamente (e quindi consapevolmente) rifiutato di capirlo, perché ciò che lo circondava andava a configgere, oltre che con la sua indole irrequieta, con tutte le sue idealità: e non parlo delle convinzioni politiche e religiose, ché quelle sono legate all’ambiente in cui era cresciuto e al periodo in cui ha vissuto, ma delle idealità etiche delle quali si era nutrito sin da bambino. C’è un passo di una sua lettera (a Roberto d’Azeglio) che fa intendere benissimo la sua posizione: “È vero che a Torino, a sentir le esagerazioni insopportabili di certa gente, mi sentivo sì trascinato alla liberalità, che mi facevo forza per non diventarlo eccessivamente. – Così nell’altro mondo le esagerazioni liberali mi disgustavano tanto, che mi facevo forza per non diventare partigiano delle Soirée de st.Petersbourg”. È una frase che avrebbe potuto essere pronunciata da Corto Maltese (tra l’altro, fisicamente Vidua gli somiglia un po’), e che naturalmente sottoscrivo.

Vidua era un aristocratico, ma non un codino. Era un conservatore, ma non un reazionario. Si rifaceva agli ideali degli àristoi greci e latini come raccontati da Plutarco e da Tacito, ma quelle idealità le vedeva reincarnate anche nei crociati e nei paladini cristiani, o nei missionari gesuiti del Paraguay (quelli del film Mission). Tra i contemporanei che più ammirava c’erano i quaccheri americani, perché non si limitavano a professare la fede, ma la praticavano, e il filantropo inglese John Howard, uno che aveva girata tutta l’Inghilterra e buona parte dell’Europa visitando le carceri, denunciandone le atrocità e formulando suggerimenti per il miglioramento delle condizioni di vita dei prigionieri. Ecco, Howard era il suo modello più prossimo: un grande viaggiatore (si calcola abbia percorso più di 70.000 chilometri) e un benefattore dell’umanità, ascoltato dai potenti, riconosciuto e celebrato (almeno nella sua epoca) un po’ ovunque. E Vidua lo contrappone in positivo, ad esempio, al nostro Beccaria, che si era conquistato la fama cercando di applicare alla realtà italiana i principi riformatori d’oltralpe, senza mai muoversi dal suo studio.

Insomma, Vidua era un utopista: ma non di quelli che immaginano un’utopia buona per tutti gli uomini, e cercano sciaguratamente di attuarla, bensì di coloro che se ne creano una individuale e cercano il più possibile di abitarla.

Già questo basterebbe ad assicurargli un posto nel mio cuore. C’è però molto di più. Sono convinto infatti come Machiavelli che i lettori più attenti del presente siano sempre i conservatori, che sanno ciò che perdono con il cambiamento, e non i progressisti, che oggettivamente non sanno cosa troveranno e ritengono che ogni novità sia di per sé positiva. E sono anche convinto che per lo stesso motivo i grandi reazionari (si pensi a De Maistre) siano i più sensibili ai dettagli anche minimi del cambiamento, coloro che ne scorgono prima degli altri gli indizi e ne presagiscono più lucidamente le derive negative. Il bilancio che traccia al termine del viaggio in America è la migliore testimonianza di questa capacità premonitoria.

Altri motivi di consonanza sono forse più banali, ma per me non meno significativi. Dell’ammirazione per Humboldt e di quella per De Maistre ho già parlato: aggiungerei quella per Vico, che all’epoca di Vidua era ignorato dalla gran parte dei nostri intellettuali, e ha continuato ad esserlo almeno sino alla riscoperta da parte di Croce. Ma pure quella per Plutarco e Tacito e Senofonte tra i classici antichi, e per Machiavelli tra i moderni.

C’è poi il legame forte con la campagna. Certo, nel suo caso è il legame che può avere un proprietario di risaie, dalle quali trae la rendita che gli consente di viaggiare, troppo distratto da altri impegni negli ultimi quindici anni di vita per curarne l’amministrazione. Ma dalle lettere traspare comunque un certo orgoglio per la propria origine “rurale”. Si manifesta anche in questo caso la bipolarità di Vidua, diviso tra l’ammirazione per l’industriosità e la crescita economica e la nostalgia per un mondo preindustriale che va scomparendo. Ciò spiega il fastidio per i disboscamenti selvaggi in Inghilterra prima e in America poi, la preoccupazione per perdita della centralità economica dell’agricoltura, che porta con sé il tramonto del millenario assetto sociale ad essa connesso. Ma spiega anche l’attenzione ai tipi di coltivazione, alle tecniche, alle rese, laddove la maggioranza dei viaggiatori suoi contemporanei in genere non distingueva una spiga di grano da un’erbaccia.

Viaggiando in rimoti paesi 30Tale senso di appartenenza gli fa anche ad apprezzare, ad esempio, le musiche della tradizione popolare in ogni parte del globo; e persino le espressioni dialettali, dalle quali vorrebbe liberare la nostra lingua, ma delle quali sente comunque, almeno in particolari contesti, la forza e l’espressività: racconta ad esempio divertito delle esclamazioni cui si abbandonava il suo maestro di musica: “così s’fa pu prest”, o “à l’è na bestia”.

E questo ci riporta al tema della lingua. Nel Discorso sullo stato delle cognizioni in Italia parla, come abbiamo già visto, della necessità per la lingua (e per la nostra cultura in genere) di spiemontizzarsi e sfrancesizzarsi, di “sottrarsi all’imbarbarimento”. Ma non è solo questione di tornare ad una purezza lessicale che in fondo il nostro idioma non ha mai conosciuto, e che semmai andrebbe costruita: ciò che Vidua auspica è una lingua il più possibile aderente all’oggetto, senza fronzoli e ghirigori, semplice ed efficace. Chiede di uscire dalle esasperazioni metaforiche e immaginifiche del Barocco, che nascono dall’assenza di contenuti, ma anche di rifiutare gli orrori e i languori lessicali del romanticismo. Oggi dovrebbe chiedere un risciacquo nella prosa calviniana per liberare il nostro lessico dai tecnicismi forzati, dagli anglicismi superflui, dagli idiomatismi virali, ma anche delle massicce iniezioni di concretezza nei temi e nelle argomentazioni. Sarebbe più anacronistico che mai, e si sentirebbe più che mai estraneo alla sua terra e alla sua gente. Sensazioni che conosco bene, così come conosco quella di incompiutezza, che fortunatamente in me è stata messa a tacere dall’età. Lui è stato meno fortunato.

I motivi dell’affezione per Vidua sono dunque svariati. I più significativi sono paradossalmente proprio quelli legati alle sue “debolezze”, alle incoerenze che anziché farmi avvertire una distanza me lo hanno avvicinato: il rapporto contradditorio col padre e con i luoghi dell’infanzia, l’oscillazione costante tra nostalgia del passato e speranza nel futuro, l’anelito all’assoluta libertà e la giustificazione, pur parziale del dispotismo, l’apertura e la disponibilità al confronto e l’intimo arroccamento su posizioni pregiudiziali. Ci accomuna persino il rapporto con la scrittura. Scrive a Roberto d’Azeglio: “Ho bisogno de’ tuoi consigli sullo scrivere o non scrivere viaggi — e in che lingua — la nostra è la più bella. Pur se li scrivo in Italiano, nessuno li leggerà. — Dall’uno canto ci inclino — dall’altro penso che già troppi viaggi sono stampati”.

Come esco, dunque, dal viaggio compiuto in compagnia di questo personaggio e delle sue lettere? Con un sentimento di rammarico: per lui, perché non ha completato il viaggio attorno al mondo, e soprattutto non lo ha potuto degnamente raccontare. Per me, che il viaggio non l’ho nemmeno iniziato, perché non ho mai visitato l’isola di Cos.

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Una bibliografia commentata

Nell’intraprendere la scrittura di questo pezzo ero pienamente consapevole dell’inadeguatezza delle mie forze (non ho le capacità di concentrazione indispensabili per una ricerca che risponda ai crismi “scientifici”) e anche del fatto che questo lavoro, indipendentemente dal risultato, non avrebbe contribuito granché ad arricchire e a divulgare la conoscenza del suo oggetto. Dovevo farlo per adempiere ad un impegno preso con Vidua diversi anni fa. Diciamo che era diventata una questione tra me e lui. Ho voluto comunque che nel suo piccolo la narrazione fosse la più esatta possibile. Per questo, oltre che dei testi originali delle lettere e dei pochi scritti editi di Vidua, mi sono avvalso di diversi studi a lui dedicati, scoprendo con mia sorpresa che sono molti più di quanto inizialmente reputassi. Quest’ultima constatazione da un lato mi rallegra, dall’altro mi fa deplorare il fatto che non sia ancora stata realizzata una biografia del Viaggiatore capace di sottrarlo al destino di nicchia, una di quelle cose all’inglese che rendono avvincente anche la storia di impiegato del catasto.

I materiali per un lavoro di questo genere sono a mio giudizio già presenti nel lavoro su Carlo Vidua. Un romantico atipico, di Roberto Coaloa e Andrea Testa, edito a cura del Comune di Casale Monferrato nel 2003, che rimane comunque una raccolta di testi redatti in diverse occasioni. Se organizzati in una corretta sequenza narrativa e depurati delle eccessive ripetizioni potrebbero già offrire un’immagine sufficientemente completa e accattivante del personaggio. Per quanto mi concerne, ho saccheggiato spudoratamente da questo testo le citazioni riferibili ai materiali inediti utilizzati dagli autori. Spero non me ne vogliano.

Per chi si fosse appassionato all’argomento sono reperibili (con un certo sforzo) una serie di testi su aspetti particolari della sua vicenda:

Angela Ferraris – Carlo Vidua. La virtù infelice, in “Piemonte e letteratura 1789-1870” – Atti del convegno di S. Salvatore, ottobre 1981

Vincenzo Moretti – Carlo Vidua viaggiatore, in “Piemonte e letteratura 1789-1870” – Atti del convegno di S. Salvatore, ottobre 1981

Gian Paolo Romagnani – Carlo Vidua. Un inquieto aristocratico subalpino, in “Studi piemontesi”, nov. 1986 vol. XV-2

Gian Paolo Romagnani – Carlo Vidua. Viaggiatore e collezionista – Casale M., 1987

Andrea Testa – Carlo Vidua viaggiatore italiano negli Stati uniti, in “Rivista di storia, arte e archeologia per le province di Alessandria e di Asti” CV 1996

Andrea Testa – Riflessioni sugli ultimi viaggi di Carlo Vidua alla ricerca di nuovi mondi – Atti del convegno “L’altro Piemonte nell’età di Carlo Alberto”, ottobre 1999

Esiste anche uno schizzo biografico di misura analoga a quell0 mi0, un po’ datato nell’approccio “ideologico”, ma nel complesso esauriente e piacevole. È Il conte Carlo Fabrizio Vidua viaggiatore monferrino dell’800, di Mario Cappa, comparso sulla “Rivista di Storia, Arte Archeologia per le province di Alessandria e Asti”, anno LXXXII, 1973

Per leggere direttamente Vidua si possono (insomma!) vedere

Carlo Vidua – Relazioni del viaggio in Levante e in Grecia – Olschki, Firenze 2011 (stampato in facsimile)

Carlo Vidua – In Viaggio Dal Grande Nord All’impero Ottomano – Edizioni Dell’Orso, Alessandria (lo si trova a un prezzo che va dai 350 ai 380 euro)

Carlo Vidua – Narrazione viaggio alla Nuova Guinea 1830 (testo bilingue, a cura di Marisa Viaggi Bonisoli), ed. Angolo Manzoni, Torino 2003

Le Lettere sono rintracciabili invece solo nella versione digitale o a prezzo di antiquariato: Lettere del conte Carlo Vidua pubblicate da Cesare Balbo. Tomi I – II – III, presso G. Pomba, 1834, all’indirizzo https://books.google.it/books/about/Lettere_del_conte_Carlo_Vidua.

Per una bibliografia esauriente (ma aggiornata fino al 2003) rimando al volume di Roberto Coaloa e Andrea Testa.

Viaggi nel cuore di Creta (a piedi e senza assilli)

I libri che non mi sono piaciuti (3)

di Vittorio Righini, 1 marzo 2023

Il 27 luglio del 2007 venne pubblicato, per i paesi di lingua inglese, The Golden Step – A Walk Through the Heart of Crete. L’autore, Christopher Somerville, è un rispettabile autore di guide di viaggio (molto apprezzate soprattutto le sue Map Walks, che coprono su tutti i lati il Regno Unito, e sono sicuramente tra le più vendute ed apprezzate da migliaia di camminatori, britannici e non).

Viaggi nel cuore di Creta 01Ho una sua bellissima guida su Creta in inglese che consulto quando vado nell’isola e una sull’Irlanda (l’ho trovata in italiano). Nel 2009, per ragioni che sfuggono alla mia comprensione, dati i tempi biblici di traduzione dei libri inglesi in italiano, è uscito Lo Scalino d’Oro. Viaggio a piedi nel cuore di Creta, grazie alla EDT (siano benedetti da qualunque Dio di loro gradimento per la rapidità nel tradurre e presentare il libro).

Io colleziono libri sulla Grecia, preferibilmente in italiano (perché un po’ di inglese lo parlo, ma finché si tratta della guida di Creta non è un problema, mentre un Roumeli di Patrick Leigh Fermor in inglese, per esempio, mi occupa tempi biblici a volerlo leggere tutto).

Quindi, con gioia ho comprato Lo Scalino d’Oro pensando fosse più che altro una guida: invece mi sono ritrovato un diario di viaggio fatto col cuore, basato sulla necessità di levarsi per un paio di mesi dal lavoro e dalla routine, con la moglie che offriva il viaggio in solitario al marito alla condizione che la lunga camminata sulle creste di Creta non si traducesse in un’altra guida, ma solo in relax.

È un libro per chi ama Creta, certo, ma anche per chi non ne sa nulla e vuole solo leggere una bella storia vera: non è un romanzo e non è una vera guida, ma una esperienza. La particolarità, confermata dal Club Alpino di Creta, era che Somerville tentava per primo la traversata a piedi da solo da Creta est a ovest, per arrivare al Monastero detto appunto dello Scalino D’oro (Chrisoskalitissa), all’estremo ovest della grande isola. Somerville racconta il suo peregrinare, le genti, i luoghi, gli animali, il cibo, il vino, ma poco prima di arrivare è costretto dalla neve a scendere e fare a piedi un pezzo di costa, perché in alto non si può passare. È il primo camminatore che ha fatto il percorso, i cretesi del Club Alpino ne sono lieti, lui non se ne vanta, non è di fondamentale importanza, quel che conta è averlo fatto.

Con il libro in mano, dieci anni fa visito una piccola parte di Creta, utilizzando alcuni riferimenti al suo viaggio. Incontro un suo amico, che gestisce una taverna con camere. Gli spiego che sono lì dopo aver letto il libro, e con la voglia di salire sullo Psiloritis (Il Monte Ida), 2456 mt. soltanto, ma la montagna più alta di Creta, e la più bella. Tra me e il locandiere si instaura un’amicizia che nei giorni successivi mi renderà la vita ancora più agevole; lui mi tratta come se mi conoscesse da decenni, ceno al suo tavolo, vado a far commissioni con lui. Una sera gli chiedo, di fronte a un piatto particolare, se ha un pizzico di peperoncino. Scopro che non lo conosce, non sa cos’è. Tornato in Italia, prendo un pieghevole con fotografie delle varie specie di peperoncino, lo traduco in greco, aggiungo varie bustine di semi differenti e vari campioni freschi e pronti all’uso. Il pacchetto arriva e il locandiere mi manda una affettuosa mail di ringraziamento. Se nella zona di Thronos qualcuno oggi aggiunge del peperoncino alla carne, beh, potrei esserne responsabile.

Viaggi nel cuore di Creta 02

Nel marzo del 2017 viene editato un libro dal titolo: Rapporto a Kazantzakis. La traversata di Creta a piedi, di Luca Gianotti. Un noto sito di vendite online che tutti conosciamo lo presenta scrivendo: “Luca Gianotti ha percorso per primo l’isola di Creta a piedi in 29 giorni, camminando da Est a Ovest, attraversando le sue tre grandi catene montuose per poi camminare in riva al mar Libico”.

Naturalmente mi incuriosisco e compro il libro, che mi lascia del tutto indifferente; dello stesso autore è molto più interessante The Cretan Way, una guida in inglese dei sentieri di Creta che riporta le tracce GPS, ed è quindi certamente molto utile.

Viaggi nel cuore di Creta 03Ma tornando al Rapporto a Kazantzakis, nella bibliografia noto che il libro di Somerville è citato come tutti gli altri, ma solo nella versione in inglese del 2007. Mi permetto allora di scrivere all’autore, che cura un sito dedicato ai cammini e organizza viaggi a pagamento con accompagnatore per escursioni a piedi in molte località italiane ed estere, facendogli notare che il libro di Somerville è disponibile dal 2009 anche in italiano, e che avendo l’inglese fatto per primo questo cammino sarebbe giusto riportare nel sito anche questa informazione.

Apriti cielo: l’autore mi risponde che il primo ad aver fatto il cammino per intero è lui; Somerville verso la fine è sceso e per 10/15 km. ha camminato sulla costa e poi è risalito. Cosa che sapevo benissimo anch’io, ma quando c’è andato Somerville c’era la neve e sono stati quelli del Club Alpino locale a sconsigliare fortemente l’inglese a procedere nell’ultimo tratto (per evitare rischi a se stesso e anche ad eventuali soccorritori), mentre quando è andato Gianotti la stagione era differente.

Ho un carattere puntiglioso, e ho risposto a mia volta che quello mi sembrava un atteggiamento non corretto verso Somerville: ottenendo solo di essere tacciato di vedere il male ovunque. Quando sento queste risposte mi chiudo, e ho quindi immediatamente interrotto ogni rapporto epistolare con questo signore.

Nemmeno ho scritto a Somerville per dirgli che avevo fatto il paladino per la sua giusta causa … ho immaginato che all’inglese non poteva fregar di meno su chi è arrivato uno e chi due …

Ora, se qualcuno obietterà che vado cercando il pelo nell’uovo, stavolta avrà ragione. Ma io credo che la correttezza intellettuale, che è poi senza tanti giri di parole correttezza etica, vada salvaguardata già a partire dalle cose piccole e apparentemente futili. Altrimenti, come dicono quei mattacchioni dell’Accoglienza ligure, si comincia col fare il pesto con le noci e si finisce a letto coi consanguinei. O a fare escursioni a pagamento con accompagnatore.