Thalatta! Thalatta!

di Paolo Repetto, 15 novembre 2024

Mare, mare, mare
ma che voglia di arrivare
(da Mare mare di Luca Carboni,
cover dell’Anabasi di Senofonte)

Questo intervento nasce da una circostanza insolita, un estemporaneo reading nel quale si proponevano brani in prosa, poesie e testi di canzoni aventi per oggetto il mare. Per una peregrina associazione d’idee (peregrina perché ero capitato lì per caso e l’argomento non mi intrigava granché) mi è tornato in mente un piccolo saggio letto diversi anni fa, e poi dimenticato (non del tutto, evidentemente): si tratta di Terra e Mare, di Carl Schmitt. Ho citato la circostanza solo per ribadire un concetto cui sono molto affezionato, e cioè che occorre profittare positivamente davvero di tutto, lasciando sempre aperta la porta della conoscenza (o della reminiscenza), perché le cose passano lì davanti, e trovando aperto a volte entrano, anche senza essere esplicitamente invitate.

Ma veniamo a Carl Schmitt. Il personaggio è controverso: era un filosofo del diritto molto vicino, almeno nella fase nascente, al nazismo, del quale ambiva a diventare una sorta di guida spirituale. Diciamo che voleva “legittimare” il nazismo in punta di diritto, assunto decisamente improbo, vista la considerazione che del diritto, in tutte le sue accezioni, individuali o internazionali, i nazisti avevano. La cosa non garbava assolutamente a Himmler e alle sue SS, per cui il filosofo venne progressivamente emarginato, e quasi esiliato in patria, sino a tutto il secondo conflitto mondiale (una sorte molto simile a quella di Ernst Junger, col quale scrisse poi, nel 1953, un libro a quattro mani, Il nodo di Gordio). Schmitt peraltro non si ricredette e non rinnegò mai le sue posizioni originarie, limitandosi a sottolinearne la distanza da quelli che furono poi gli esiti “giuridici” del regime. Nel dopoguerra ha subito il destino di diversi altri suoi colleghi altrettanto e forse più compromessi, primo tra tutti Heidegger, che dopo un periodo di quarantena sono stati riesumati e reinterpretati. La riscoperta è avvenuta soprattutto all’interno di un filone di pensiero filosofico-politico che fa riferimento genericamente alla sinistra, ma che ormai, dopo che la conclamata fine delle appartenenze ha sdoganato tutto, dovremmo definire più propriamente post-moderno (quello per intenderci che va da Toni Negri ad Agamben, a Vattimo, allo stesso Cacciari, e che paradossalmente arriva a comprendere la “nouvelle droite” francese e il suo “maître à penser” Alain de Benoit).

Thalatta! Thalatta 02Terra e mare è stato scritto da Schmitt nel 1942, in un periodo nel quale il giurista, attento a non crearsi ulteriori problemi discettando di politica, si era dedicato piuttosto agli studi storici, e cercava conferme a una sua lettura quasi gnostica della storia: conferme che non aveva difficoltà a trovare, stante l’infuriare del conflitto e la convinzione di essere in presenza di cambiamenti epocali. Lo faceva presumendo per sé una condizione da iniziato, quella di chi va oltre la pura conoscenza dei fatti e delle vicende contingenti, e si spinge fino a riconoscere la trama segreta (che definisce ripetutamente “arcana”) entro la quale gli eventi si inseriscono e vanno letti. Di chi in sostanza cerca una verità esoterica, nascosta e negata anche agli “addetti ai lavori”, agli storici più qualificati. È un’interpretazione che sotto certi aspetti non esiterei a definire “complottista”, e questo è forse il motivo per cui avevo rimosso il testo: non manca tuttavia di offrire spunti di riflessione che, opportunamente depurati, possono rivelarsi fecondi.

Ci torno su dunque prescindendo per quanto possibile dal passato di Schmitt, dalle sue responsabilità e da qualsiasi giudizio sulle implicazioni politiche del suo pensiero: mi interessa solo seguire la sua particolare versione della storia dell’umanità.

Come premessa Schmitt rispolvera, sia pure in chiave metaforica, la teoria presocratica dei quattro elementi naturali, terra, acqua, aria e fuoco, che stanno all’origine della vita e che a suo parere condizionano la storia, quella naturale ma anche quella culturale. Questo a dispetto del fatto che la scienza abbia destituito di ogni fondamento la natura di sostanza semplice dei quattro elementi classici. “Nella nostra riflessione storica – scrive – possiamo attenerci ai quattro elementi, che per noi sono nomi semplici e intuitivi, caratterizzazioni generali che rinviano a differenti grandi possibilità dell’esistenza umana. […] Gli elementi di cui parlerò qui di seguito non sono dunque da intendere come grandezze meramente naturalistiche”.

Ho parlato di chiave metaforica, ma sono convinto che in qualche modo alle “proprietà” degli elementi primordiali Schmitt credesse veramente. Nel senso, almeno, che riteneva fondamentale l’influsso da questi esercitato non solo sui singoli individui, ma su intere comunità, su interi popoli. Che esistessero cioè «popoli “autoctoni” – cioè nati sulla terra – e popoli “autotalassici” – cioè foggiati esclusivamente dal mare, che non hanno mai calcato la terra e per i quali la terraferma non rappresentava altro che il confine della loro esistenza puramente marittima». E il ricorso ad un senso della natura precedente il “disincanto”, la “dissacrazione” del mondo avviata da Platone e Aristotele prima, e proseguita da Galileo, da Copernico e da tutta la scienza moderna poi, è perfettamente funzionale al percorso che il politico-giurista vuole disvelare.

Secondo Schmitt infatti l’antagonismo tra popoli “di terra” e popoli marittimi è il motore della storia delle civiltà, e il senso di questa storia lo si può intravedere analizzando le fasi dell’ostilità radicale tra ordinamenti tellurici e acquei.

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Ora, è evidente che in linea generale l’uomo ha carattere essenzialmente terraneo. È figlio della terra, “cammina e si muove sulla solida terra […] e ciò determina il suo punto di vista, le sue impressioni e il suo modo di vedere il mondo”. Ma possiamo davvero dire “che l’esistenza umana e l’essere umano sono, nella loro essenza, puramente terrestri, e hanno solo la terra come riferimento? In fondo, nelle reminiscenze remote, spesso inconsce degli uomini, l’acqua e il mare rappresentano il misterioso fondamento originario di ogni vita”. Non solo; anche le recenti ricostruzioni evoluzionistiche ci attribuiscono un’origine oceanica, e sopravvivono ancora oggi “uomini-pesce la cui intera esistenza, l’immaginario e la lingua sono riferiti al mare” (cita ad esempio i navigatori polinesiani, i Canachi, ecc …). Questo apre scenari diversi. Ma non bisogna pensare a una determinazione ambientale, “perché – scrive Schmitt – se l’uomo non fosse altro che un essere interamente determinato dal suo ambiente, non vi sarebbe alcuna storia umana intesa come agire umano e deliberazione umana. Invece l’uomo ha la forza di conquistare storicamente la sua esistenza e la sua coscienza […] gode della libertà d’azione, e in determinati momenti storici può scegliere addirittura un elemento quale nuova forma complessiva della sua esistenza storica, decidendosi e organizzandosi per esso attraverso la sua azione e la sua opera”. Come e quando ciò sia avvenuto è appunto quel che Schmitt vuole raccontare.

Thalatta! Thalatta 04L’evidenza di una conflittualità primordiale tra i due ordini Schmitt la trova già nella narrazione biblica, laddove si fa riferimento a più riprese all’epica lotta tra Behemoth, bestia terrestre, e Leviathan, mostro marino. Non insiste poi sui riferimenti che potrebbe rintracciare anche nella mitologia greca, ma passa direttamente alla protostoria, con la vicenda di Creta, civiltà marittima che impone il suo controllo sul Mediterraneo orientale, e alla storia, con Atene che sconfigge soprattutto sul mare la potenza terranea persiana. Per contro Roma, civiltà “terrestre”, trionfa qualche secolo dopo sulla marittima Cartagine (ma solo in virtù di un rapidissimo adeguamento alla nuova “guerra ibrida”, combattuta sia per terra che sul mare). E dopo il crollo dell’Impero d’occidente, è Bisanzio con le sue navi a fungere da freno (ovvero, come dice Schmitt, da katechon) alle forze storiche avversarie. Nel frattempo a nord e nel Mediterraneo sudorientale si affermano altre potenze marinare: i vichinghi e i pirati saraceni. Poco più tardi le crociate saranno guidate da condottieri che sono espressione di una cultura militare e politica tutta terranea, ma a trarne il maggior profitto sarà la potenza marittima veneziana (stranamente Schmitt ignora quella genovese).

Il bilancio complessivo vede però prevalere fino a questo punto la civiltà terranea. Venezia stessa rimane pur sempre una civiltà costiera, che dispone quasi esclusivamente di navi a remi adatte al piccolo cabotaggio: gli scontri navali si risolvono in abbordaggi e nei combattimenti corpo a corpo sulle tolde delle navi, e soprattutto la navigazione non si spinge negli oceani, ma rimane ancorata al Mediterraneo. Esattamente come accadeva ai tempi di Temistocle e di Euribiade.

In sostanza, non cambia la visione del mondo: per tutto il medioevo il mare non rappresenta un elemento “alternativo” sul quale un popolo può basare le proprie fortune. Il vero cambiamento si ha invece nel XV secolo, con le scoperte geografiche, e prima ancora con le innovazioni che le rendono possibili: tra tutte l’adozione di vele orientabili che consentono di navigare anche controvento, ma anche tecniche costruttive che rivestono gli scafi di un fasciame a prova di oceano o che consentono di governare la nave con timoni a ruota, liberando il ponte. Anche sul piano militare la battaglia navale diventa un’altra cosa, grazie al posizionamento di bocche da fuoco a bordo delle imbarcazioni da guerra, per cui gli scontri si svolgono a distanza e non necessitano più di una superficie che simuli la terra.

A consentire il vero slancio verso il mare è dunque la scoperta di un nuovo mondo, che dischiude gli oceani e offre immensi spazi di conquista: e a questa corsa partecipano, in maniera e misura diversa, tutti i paesi europei, anche se sarà poi solo l’Inghilterra a raccogliere fino in fondo la sfida del mare.

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Cronologicamente Schmitt riconosce una priorità agli olandesi, attribuendo con una certa forzatura alla loro cantieristica la svolta tecnica decisiva (e nella sua ottica questa attribuzione appare giustificata). Tributa poi un romantico omaggio agli uomini che giovandosi di tali innovazioni portano le nuove tecnologie, le nuove ambizioni e il conseguente nuovo punto di vista in ogni angolo del mondo: i pirati, i corsari e i balenieri. Può sembrare una divagazione bizzarra, ma ha anch’essa un suo perché. I balenieri sono per Schmitt, lettore appassionato di Moby Dick, gli eroici scopritori di acque e terre sconosciute, che affrontavano il Leviatano coi loro arpioni nei mari freddi del nord, si fondevano con l’elemento marino e ne conoscevano gli abissi. “Era un combattimento mortale fra due esseri viventi che, senza essere pesci nel senso zoologico, si muovevano entrambi nell’elemento del mare”, nel quale si creava “un intimo legame di amicizia-ostilità tra il cacciatore e la sua preda”.

Quanto ai pirati e ai corsari di tutte le nazioni, sottolinea che tanto gli ugonotti francesi che i puritani inglesi e i calvinisti olandesi, tra i quali soprattutto per due secoli furono arruolati gli “scorridori” dei mari, professavano lo stesso credo protestante e avevano un comune nemico politico, ossia la Spagna, la potenza mondiale cattolica. Ora, il protestantesimo, e massime il calvinismo con la sua idea di predestinazione, ha una vocazione individualista-universalista che trascende lo spazio della comunità, istituendo un rapporto diretto tra il singolo e Dio. Ciò significa che sul singolo ricade una maggiore responsabilità, ma anche che questa ultima è connessa a una maggiore libertà, a una reale possibilità di scegliere il proprio destino (e qui Schmitt pesca più o meno direttamente da Max Weber). Tutto questo produce una serie di risvolti economici, politici e giuridici che vedremo.

Insomma: per Schmitt i popoli cattolici hanno un rapporto con la terra assai più intenso rispetto a quelli protestanti, che sono invece aperti al mare e all’industria. In questo senso, come l’etica protestante ha sospinto lo spirito capitalistico, analogamente può dirsi che l’élite protestante, motivata dalla forte presunzione di una propria “superiorità” morale e spirituale, ha fornito il supporto ideologico e le energie umane alla scelta per il mare.

Esiste anche una connessione significativa tra elemento marittimo e capitalismo. Quest’ultimo nasce dall’arricchimento derivante dal “capitalismo di rapina”. Gli inglesi divengono ricchi navigatori anche in virtù delle grassazioni dei loro corsari, e l’Inghilterra decide infine per il mare, per il capitalismo, per la “deterritorialità” e la “destatualità”, per l’universalismo, non solo ereditando la tradizione marittima e le imprese oceaniche di tutti gli altri popoli europei, ma saccheggiandone le ricchezze necessariamente affidate al trasporto via mare.

Fin qui, come si è visto, lo spunto usato da Schmitt per reinterpretare la storia universale non è affatto originale. Fa riferimento a Hegel, che nei Lineamenti di filosofia del diritto naturale e scienze della terra rigettava il determinismo ambientale proposto ad esempio da Montesquieu (per il quale i diversi caratteri degli uomini e dei popoli sono legati agli influssi del clima e della conformazione del suolo), e considerava invece fondamentale l’opposizione terra-mare per accedere a un livello di interpretazione storico-filosofica più alto e universale. Hegel scriveva ad esempio: «Come per il principio della vita familiare è condizione la terra, cioè il “fondo” e il “terreno› stabile”, così per l’industria l’elemento naturale che la anima verso l’esterno è il “mare”. Nella brama di guadagno, esponendo al pericolo il guadagno stesso, l’industria si eleva a un tempo al di sopra di esso, e soppianta il radicarsi nella zolla e nella cerchia limitata della vita civile, i suoi godimenti e desideri, con l’elemento della fluidità, del pericolo e del naufragio. In tal modo, inoltre, attraverso questo superiore mezzo di collegamento, l’industria ingloba delle terre lontane all’interno del traffico commerciale – cioè di un rapporto giuridico che introduce il contratto –, e in questo traffico rinviene al tempo stesso il massimo mezzo di civilizzazione. Qui il commercio riceve il proprio significato cosmostorico».

L’originalità di Schmitt sta dunque solo nella valutazione che dà di questo processo storico e del suo temporaneo esito, che non è altrettanto positiva di quella di Hegel, e apre comunque altri scenari. Va considerato, tra parentesi, che per entrambi i filosofi tedeschi la vicenda inglese è emblematica, ma mentre Hegel parla di un’Inghilterra all’epoca sua alleata della Prussia, e per molti aspetti riferimento alto di civiltà, Schmitt la vede invece come la potenza nemica per eccellenza del suo Reich. Non parla di “perfida Albione”, ma insomma, non mostra nemmeno una calda simpatia. D’altro canto, qui le simpatie c’entrano poco: deve trattarla per quello che rappresenta nel quadro dialettico che sta tratteggiando.

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Con l’Inghilterra infatti siamo per Schmitt di fronte a un caso unico. La sua peculiarità, la sua unicità consistono nel fatto che “l’Inghilterra compì una trasformazione elementare in un momento storico e in un modo del tutto differenti da quelli delle precedenti potenze marittime, trasferendo cioè veramente la sua esistenza dalla terra all’elemento del mare. Essa così non vinse soltanto molte battaglie navali e molte guerre […], ma anche […] una rivoluzione di immensa portata, una rivoluzione spaziale”.

Analogamente a quanto già fatto nei confronti degli elementi, qui Schmitt si svincola dalle concezioni della spazialità proprie delle scienze naturalistiche. La concezione dello spazio, scrive, muta a seconda dell’osservatore, delle sue esperienze, della sua vita: un contadino, un marinaio o un aviatore hanno evidentemente dello spazio esperienze ben diverse. Anche in questo caso, nulla di particolarmente originale: Jules Michelet, ad esempio, aveva già trattato ampiamente questo tema un secolo prima, ne La mer. Ma per il giurista tedesco le differenze di sguardo sono ancora più grandi e profonde quando si tratta nel complesso di popoli diversi e di diverse epoche della storia dell’umanità. Lo spazio viene infatti costruito e costantemente ridefinito dallo sprigionarsi delle energie storiche. Cambia a seconda dei parametri che si adottano per misurarlo, dei tempi necessari per percorrerlo e dei modi in cui lo si fa. A dimostrazione porta gli esempi di grandi rivoluzioni spaziali avvenute nell’antichità. Quella di Alessandro il Grande, che violò le porte dell’oriente e mise a contatto ravvicinato delle culture prima contrapposte. Quella di Giulio Cesare, che conquistò la Gallia e la Britannia dilatando uno spazio politico che un secolo dopo copriva tutte le coste meridionali del Mediterraneo e arrivava a settentrione all’Atlantico. Quella determinata dalla comparsa sulla scena mondiale dell’Islam, che costrinse per secoli l’Europa a rinchiudersi in se stessa e in un rapporto quasi esclusivo con l’economia (e la cultura) della terra. Quella infine prodotta dalle crociate, a partire dal XII secolo, che riaprì i traffici commerciali e culturali col Vicino Oriente, avviando così nuovi traffici commerciali, e indusse una volta ancora un cambiamento nel concetto di spazio.

Nulla di tutto ciò è tuttavia paragonabile, per Schmitt, a quanto avviene nei secoli XVI e XVII. Non si tratta più soltanto di un adeguamento “quantitativo” nella percezione della spazialità, ma di una vera e propria rivoluzione spaziale, con tutto quello che comporta sotto il profilo culturale. La scoperta di mondi nuovi al di là dell’oceano fornisce la definitiva conferma della sfericità del globo terrestre e prelude anche alla rivoluzione copernicana, all’eliocentrismo, alla definizione delle orbite terrestri, all’idea di un universo infinito, alla formulazione della legge di gravità. Anzi, secondo Schmitt l’ordine andrebbe invertito: è proprio il rivoluzionamento del concetto di spazio ad aver consentito la scoperta di un nuovo continente e di nuovi oceani, piuttosto che il contrario. Altri prima di Colombo avevano toccato le coste americane, ma senza che questo originasse la coscienza di una “scoperta”. La scoperta implica infatti energie spirituali e consapevolezza storica superiori rispetto a ciò che viene scoperto: “Occorre una trasformazione dei concetti di spazio che abbracci tutti i livelli e gli ambiti dell’esistenza umana”.

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Qui Schmitt approda al campo di ricerca che gli è più congeniale. Questo rivoluzionamento del concetto di spazio cambia lo stato giuridico (il nomos) delle terre scoperte (e di chi le abita), che vengono conquistate, spartite e sfruttate dai popoli europei schiavizzando o addirittura eliminando le popolazioni indigene. Lo fanno invocando quali giustificazioni giuridiche la diffusione del cristianesimo prima e la civilizzazione di genti barbare dopo: “Da tali giustificazioni nacque un diritto internazionale cristiano-europeo, ossia una comunità dei popoli cristiani d’Europa contrapposti al resto del mondo. Questi popoli costituirono una famiglia delle nazioni, un ordinamento interstatale” che prevedeva un diritto internazionale dal quale i popoli non cristiani erano esclusi, o rappresentavano al più un oggetto. “L’epoca delle scoperte può essere definita altrettanto bene – e forse in modo ancora più esatto – come l’epoca della conquista di terra da parte dell’Europa”.

Il nuovo diritto non è dunque più quello della medioevale res publica cristiana. I popoli che hanno aderito alla riforma non riconoscono la spartizione (la raya) tracciata dall’autorità papale, e portano avanti una ridefinizione del nomos, del diritto terrestre e marittimo, che culmina in quello che diverrà lo jus publicum europaeum, il nuovo diritto internazionale, dettato dalla potenza inglese in quanto dominatrice dei mari.

Insomma, gli europei considerano i territori d’oltreoceano come terra aperta alla conquista, nella quale non valgono le stesse regole e le stesse autorità valide nel vecchio continente. Questi territori sono intesi, si potrebbe dire, più come una continuazione del mare che come un’appendice del suolo europeo, e in quanto tali consentono libero corso alle ambizioni dei nuovi soggetti politici che si affacciano alla ribalta della storia.

Sto semplificando molto, ma la sostanza dell’analisi di Schmitt è questa. Il disconoscimento dei poteri ai quali faceva riferimento la normativa precedente, il papato e l’impero, determina una crisi di legittimità. L’idea di una casa comune cristiana, sulla quale bene o male tutto il medioevo si era retto, si dissolve, e ciò innesca situazioni di conflitto che sono diverse nelle cause, nei modi e negli esiti da quelle del mondo antico e medioevale. Dapprima almeno ufficialmente questi conflitti mantengono un carattere di scontro religioso (la guerra dei trent’anni, ad esempio), ma assumono poi via via le valenze di guerre civili.

Ora, per comporre queste conflittualità cruente e indiscriminate (l’hobbesiano bellum omnium contra omnes) si afferma sempre più lo Stato “moderno”, che regolamenta gli scontri e definisce la linea amico/nemico, sulla base però di una inimicizia orientata all’appropriazione territoriale. La politica dello stato è una politica di potenza, e funziona giocoforza a detrimento di altre entità statali-territoriali, perché la potenza, nella prospettiva continentale. si misura essenzialmente nella quantità di territorio controllato. Regolamentare gli scontri non significa dunque liquidarli. Significa “formalizzarli”, dettare regole per la loro conduzione (ad esempio, una guerra si inizia con una dichiarazione di guerra e si chiude con un armistizio), per quanto possibile senza coinvolgere i civili e facendo un uso moderato della violenza: in pratica al nemico viene riconosciuto uno status giuridico, ne vengono considerate, anche se non accettate, le ragioni. Tutto questo naturalmente in linea teorica, perché poi la dicotomia amico/nemico può essere estesa fino all’annientamento fisico dell’avversario. È comunque evidente che queste regole valgono solo fino a quando l’elemento di riferimento rimane la terra, sulla quale hanno senso dei confini e le distinzioni che questi impongono. La violenza viene dunque limitata nel Vecchio Continente, ma può esplodere senza vincoli sul mare e nei territori extraeuropei.

Ecco che si chiarisce allora il ruolo dei pirati e dei corsari di cui sopra. Hanno aperto un fronte nuovo, i primi scorrazzando per i mari come nemici di tutti, hostes humani generis, i secondi facendolo come “imprenditori privati”, autorizzati da lettere di corsa rilasciate dai loro governi ad arrembare le navi nemiche. Gli uni e gli altri hanno annunciato la grande trasformazione, anticipando il nuovo equilibrio tra elementi e tra continenti.

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In sostanza: il mare – che appare infinito, illimitato e sempre uguale a se stesso – a differenza della terra rimane libero per la pesca, la navigazione pacifica e la belligeranza. Rimanda in fondo allo stato di natura. La guerra che si combatte su di esso è guerra indiscriminata di preda e di distruzione, coinvolge tutto il naviglio battente bandiera nemica e persino le navi di paesi neutrali che commercino col nemico. La guerra terrestre mirava invece alla conquista di territorio e dunque a preservarne la popolazione, le risorse e l’ordine pubblico. Anche un’occupazione temporanea tendeva pur sempre alla conservazione dell’ordine sociale e dell’ordinamento giuridico vigente, se in linea con lo standard europeo.

La trasformazione agisce ancor più in profondità. Come abbiamo già visto sottolineare da Hegel, l’opzione per un’espansione marittima si è rivelata assolutamente funzionale alla rivoluzione industriale. Le innovazioni tecniche hanno senz’altro facilitato anche gli spostamenti via terra, ma per la traversata e la conquista dei mari sono addirittura cruciali. Il controllo e il dominio progressivo dell’elemento marino si sono immediatamente legati al progresso dell’equipaggiamento tecnico, che ha diminuito i rischi, sollecitato l’azzardo e alimentato la fiducia in una libertà senza limiti. Tradotto in concreto, questi stimoli e le risposte che hanno dettato hanno costituito il volano per le scoperte industriali che tra Settecento e Ottocento hanno valso all’Inghilterra il primato tecnologico ed economico.

L’epoca del libero commercio fu anche l’epoca del libero dispiegarsi della superiorità industriale ed economica dell’Inghilterra. Libero mare e libero mercato mondiale si unirono in una idea di libertà di cui solo l’Inghilterra poteva essere il latore e il custode”. Un’idea di libertà che si traduceva anche nell’aspettativa (non solo da parte degli inglesi, ma di tutto il mondo in via di industrializzazione), legata al rapido incremento della ricchezza, di un Paradiso terrestre millenario.

E tuttavia, durante la fase quasi bisecolare di dominio sul mondo, un dominio che sembrava definitivo, la rivoluzione industriale stava producendo anche una rivoluzione rispetto all’essenza stessa dell’isola e una mutazione antropologica della sua gente: “Da grande pesce il Leviatano si trasformò in macchina […]. La macchina mutò il rapporto dell’uomo con il mare. La temeraria specie di uomini che fino a quel momento aveva fatto la grandezza della potenza marittima perse il suo antico significato. […] Tra l’elemento del mare e l’esistenza dell’uomo si frappose un dispositivo meccanico”.

Secondo Schmitt altro è misurarsi col mare in un corpo a corpo, altro è invece un dominio meccanizzato, dovuto alla tecnologia navale sviluppata. “L’esistenza puramente marittima – il segreto della potenza mondiale britannica – era stata colpita nella sua essenza […]. Il mare rimase un forgiatore di uomini, ma l’azione di quella spinta che aveva trasformato un popolo di pastori in corsari diminuì, e a poco a poco cessò”.

E così, già all’alba del ventesimo secolo lo spazio d’azione delle grandi potenze si era talmente ampliato da non consentire più un predominio marittimo britannico. Si affacciavano sulla scena altri concorrenti, aventi alle spalle un potenziale industriale ben maggiore (gli Stati Uniti, ad esempio, ma anche la stessa Germania). Soprattutto però si stavano aprendo le altre due dimensioni, quella dell’aria con l’invenzione degli aeroplani e le applicazioni dell’elettricità, e quella del fuoco con i motori a combustione e con le bombe deflagranti e detonanti.

Sugli sviluppi futuri Schmitt è molto prudente. Non dimentichiamo che scrive in Germania, nel bel mezzo del conflitto più spaventoso che l’umanità abbia mai conosciuto, mentre la Luftwaffe è appena uscita sostanzialmente sconfitta dalla battaglia aerea d’Inghilterra e l’Operazione Barbarossa ha bruciato oltre mezzo milione di veicoli e milioni di uomini sul fronte russo. Sono avvenimenti che confermano da un lato e smentiscono dall’altro le sue idee sul dominio dell’aria e della potenza di fuoco. Mentre già intravede il fallimento del progetto tedesco di espansione territoriale sul continente, gli riesce difficile immaginare un nuovo assetto dell’ordine mondiale.

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Si limita quindi a constatare che il nuovo stadio della rivoluzione spaziale ha già prodotto un ulteriore mutamento del concetto di spazio. “Oggi non concepiamo più lo spazio come una mera dimensione in profondità, vuota di qualsiasi contenuto pensabile. Lo spazio è diventato per noi il campo di forze dell’energia, dell’attività e del lavoro dell’uomo.” Il che, scritto ottanta anni fa, mostra una notevole capacità di preveggenza, se consideriamo che il fattore produttivo principale oggi è il lavoro immateriale, il traffico di informazioni che avviene appunto attraverso lo spazio aereo.

Inoltre “rispetto all’epoca dei velieri per l’uomo il mondo del mare è mutato elementarmente. Oggi, in tempo di pace, qualsiasi armatore può sapere giorno per giorno e ora per ora in quale preciso punto dell’oceano si trova la sua nave in mare aperto. Ma, se le cose stanno così, viene a cadere anche quella separazione di terra e mare su cui si fondava il legame durato sinora tra dominio marittimo e dominio mondiale”.

Insomma: “Cresce, inarrestabile e irresistibile, il bisogno di un nuovo nomos del nostro pianeta. Lo invocano le nuove relazioni dell’uomo con i vecchi e i nuovi elementi, e lo impongono le mutate dimensioni dell’esistenza umana”. In tutto questo “molti vedono solo un disordine privo di senso, laddove in realtà un nuovo senso sta lottando per il suo ordinamento”.

Che il mutamento si sia verificato, e che sia stato radicale quanto e forse molto più di quello del XVI secolo, è indubbio. Che un nuovo senso si sia affermato, è già più discutibile: o almeno, si è senz’altro affermato, ma sarebbe assai difficile anche per Schmitt riconoscerlo. Direi che se gli antesignani dobbiamo coglierli, invece che nei corsari, nei filibustieri della finanza e nei pirati informatici, allora il futuro si annuncia davvero fosco.

Dovremmo cominciare a prendere in considerazione un quinto “elemento”, ignoto ai filosofi antichi: un virus spirituale malefico e istupidente, capace di convogliare ogni umana volontà di potenza in una voluttà di suicidio di tutta la specie.

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La cosa buffa, o preoccupante, a seconda di come la si vuol vedere, è che in realtà non intendevo fare l’esegesi della Weltanschauung di Schmitt. Spero lo si sia capito, perché altrimenti dovrei vergognarmi del risultato. Non rientrava nel mio progetto iniziale e nemmeno è nelle mie forze. Oltretutto, Schmitt non è affatto tra i miei autori di riferimento. È capitato però che, rileggendo Terra e Mare, mi sia reso conto di aver completamente trascurato in un precedente scritto sulla rivoluzione industriale inglese (Perché l’Inghilterra?) l’aspetto di cui vi si parla: che non sarà determinante quanto lo vorrebbe Schmitt, ma è comunque tutt’altro che trascurabile. Volevo dunque fare parziale ammenda di questa lacuna e nel contempo offrire un po’ di informazione a chi non conoscesse il libro. Ma soprattutto volevo giustificare alcune considerazioni che il reading prima e la rilettura di Terra e Mare poi hanno indotto.

Devo ammettere però che l’argomento mi ha preso la mano e a quel punto le mie considerazioni, che non riguardavano la storia del mondo, ma alcuni particolari aspetti del carattere, del mio e di quello di popoli che un poco conosco, sono passate in second’ordine. Mi limito dunque ad accennarle, ripromettendomi magari di tornarci su in altra occasione. Basterà questo comunque a rendere evidente che non sono in grado di abbandonarmi a una riflessione senza filtrarla attraverso le esperienze letterarie. È così, non posso farci nulla.

Sul mio rapporto col mare

Amo nuotare, ovunque, ma tanto più in mare. Dal momento che lo faccio quasi sempre in Liguria, quando mi spingo un po’ più al largo approfitto per abbandonarmi a galleggiare a morto, rivolto indietro a considerare l’arco dei primi contrafforti appenninici che chiudono lo sguardo a poche centinaia di metri, a volte a poche decine, dalla riva. Confronto quella barriera naturale con l’immagine che ho davanti, un orizzonte piatto e aperto e invitante, che una suggestione culturale mi fa percepire persino leggermente incurvato. E mi chiedo spesso da cosa sono maggiormente attratto. Da un lato c’è la sicurezza della terraferma, tanto più di una riva difesa alle spalle da una recinzione orografica che crea identità territoriale, racchiude un mondo che conosco e che mi è famigliare, anche se tecnicamente ne vivo al di fuori. Anzi, questa distanza mi porta a percepirne forse ancora meglio il particolare carattere aspramente “terrigno”. Dal lato opposto si apre la possibilità di fuga verso altri mondi, quali che siano, dove non valgono le stesse regole, le stesse consuetudini, lo stesso “nomos” direbbe Schmitt, che vale sulla mia terra. La possibilità di essere “un uomo libero, un orgoglioso nuotatore che fendeva l’acqua in cerca di un nuovo destino”, come Il Clandestino di Conrad. Ancora oggi, quando l’età mi ha tolto ogni voglia di sperimentare il nuovo e il diverso, e sempre più volentieri mi rifugio nella sicurezza del consueto, mi capita di rivolgermi la stessa domanda: magari ad una distanza sempre minore dalla riva, per cui la risposta parrebbe già implicita: ma ancora sto a chiedermi se il mio sia stato, al netto di esiti tutt’altro che clamorosi, uno spirito avventuroso o uno tranquillo, talassico o terraneo.

Se provo a interrogare le scienze naturali o quelle psicologiche ricevo risposte contraddittorie, almeno rispetto alle mie esperienze. Per la biologia il contatto e la vicinanza con l’acqua aumentano il rilascio di dopamina e serotonina, le sostanze chimiche collegate alla felicità. Per lo psicologo l’acqua non solo simboleggia la vita, ma anche la rinascita. Il movimento del mare e la sua immensità hanno un effetto quasi ipnotico, che genera una sensazione di tranquillità e benessere che ci permette di rigenerarci. In effetti, anche in molte religioni il mare viene considerato simbolo di purificazione. Per la psicanalisi poi il mare è una delle immagini più frequenti dell’inconscio, di quello personale come di quello collettivo. E via di questo passo.

Devo avere un metabolismo un po’ bizzarro, perché le sensazioni che il mare mi trasmette sono diverse. Su di me l’effetto è adrenalinico, non certo di tranquillità, ma di voglia di solcarlo, di penetrarlo. Non resisto cinque minuti sulla spiaggia, devo entrare in acqua e spingermi al largo. Byron descrive perfettamente questa pulsione ne Il pellegrinaggio del giovane Aroldo:

E io ti ho amato, Oceano,
e la gioia dei miei svaghi giovanili,
era di farmi trasportare dalle onde
come la tua schiuma;
fin da ragazzo mi sbizzarrivo con i tuoi flutti,
una vera delizia per me.
E se il mare freddo faceva paura agli altri,
a me dava gioia,
Perché ero come un figlio suo,
E mi fidavo delle sue onde, lontane e vicine,
E giuravo sul suo nome, come ora.

(e tra l’altro l’ha anche tradotta in vere imprese natatorie, come la traversata dei Dardanelli, ripetuta un secolo e mezzo dopo, a settant’anni, da Patrick Leigh Fermor, e da Charles Sprawson. Io, molto più modestamente, mi spostavo da Quarto a Bogliasco)

In gioventù ho anche navigato, sia pure per un breve periodo, e non su una nave da crociera ma imbarcato come mozzo (all’epoca la dizione, non so se ancora politicamente corretta, era “piccolo di camera”) su una petroliera: ebbene, la sensazione era la stessa: la voglia di andare avanti, di vedere altro mare. Non si trattava certo di una sfida, il natante su cui viaggiavo non era una barchetta a vela ma un mastodonte più che sicuro. Era piuttosto la strana sensazione di stare immerso in qualcosa che visto da riva, come scrive Michelet,” soprattutto quando c’è calma piatta e le onde si frangono tranquille e regolari sulla rena, ti trasmette il senso dell’instancabile eternità”, dalla quale non puoi che essere escluso: mentre visto da dentro, quando lo percorri, non appare più come quell’entità infinita ed eterna che ti respinge e ti annichilisce, ricordandoti la tua diversità. Ho anche constatato di non soffrire affatto il rollio o il beccheggio delle onde, neppure quando in mezzo a una tempesta erano particolarmente accentuati. Ancora dal giovane Aroldo:

Sull’acqua ancora una volta. Malgrado tutto sull’acqua!
E le onde sotto di me scalpitano come un destriero
Che conosce il suo cavaliere. Sia benvenuto il loro mugghiare!
Ovunque mi portino mi guidino rapide!

A quanto pare ho nelle vene un po’ di sangue inglese.

Thalatta! Thalatta 11

… e sul mio rapporto con l’Inghilterra

Qui mi soccorre la lettura di Terra e Mare. Ho sempre nutrito una grande ammirazione per lo spirito inglese, a dispetto di quanto ne dice mia figlia, che vive sull’isola, ne è cittadina, ma non ha dei suoi connazionali una grande opinione. La mia ammirazione ha una matrice letteraria, senz’altro, perché la letteratura inglese è quella cui ho maggiormente attinto sin da ragazzo e che ha alimentato alla grande la mia fame giovanile di viaggi e di avventura. Il riferimento obbligato in questo caso è naturalmente Stevenson. “Per un ragazzo di dodici anni traversare la Manica è come cambiare cielo; per un uomo di ventiquattro traversare l’Atlantico significa appena un lieve cambiamento di alimentazione. Ma io ero ormai uscito fuori dall’ombra dell’Impero Romano, che ci ha dominato dalla culla con le rovine dei suoi monumenti, le cui leggi e la cui letteratura ci assediano da ogni parte, piene di divieti e di costrizioni.” Schmitt avrebbe visto in queste parole una conferma della sua analisi.

Naturalmente parlo dell’Inghilterra di ieri, o perlomeno dell’immagine di sé che quel paese fino a ieri riusciva a trasmettere. Mi son fatto l’idea (e quando mi faccio un’idea rimane ben radicata) che quello inglese sia un popolo che ha saputo mediare tra la volontà di fuga e di rottura e l’attaccamento alla terra e alle convenzioni. Ha attraversato gli oceani non per dimenticare la sua isola, ma per espanderla, per portarne un pezzo altrove, e magari per rigenerarla. Credo anche che il suo rapporto col mare sia stato in gran parte determinato dalle condizioni di temperatura e di violenza di quest’ultimo. Il mare inglese, lo dico per esperienza diretta, non è fatto per starci ammollo ma per essere affrontato: le sue onde, le sue correnti e le sue maree vanno conosciute e rispettate. Conrad ne era consapevole, tanto da scrivere che “Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza”. Ma questo non implica un rifiuto, anzi: “Scoprii quanto ero uomo di mare, nel cuore, nella mente e, per così dire, nel corpo: un uomo esclusivamente di mare e di navi; il mare, l’unico mondo che contasse, e le navi, un banco di prova di virilità, di carattere, di coraggio, di fedeltà e d’amore”. Anche qui mi riconosco.

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Infine: sui popoli di terra e su quelli di mare

Ricordo che mentre leggevo Il Mare di Michelet mi erano tornati in mente proprio i versi di Byron. Mi erano tornati in mente perché l’incipit del libro di Michelet trasmette un’immagine ben diversa: “Un coraggioso marinaio olandese, fermo e freddamente osservatore, che trascorre la sua vita in mare, dice francamente che la prima impressione che si riceve è la paura. L’acqua, per tutti gli esseri terrestri, è l’elemento non respirabile, l’elemento dell’asfissia. Barriera fatale, eterna, che separa irrimediabilmente i due mondi”.

E continua su questo tono, sottolineando come “Gli orientali vedono solo l’abisso amaro, la notte dell’abisso. In tutte le lingue antiche, dall’India all’Irlanda, il nome del mare ha come sinonimo o analogo il deserto e la notte. […] La massa immensa in estensione, enorme in profondità, che copre la maggior parte del globo, sembra un mondo di tenebre. Questo è soprattutto ciò che colse e intimidì i primi uomini […]”.

Quanto al rapporto con l’acqua marina, è l’esatto contrario di quello di Byron: “L’acqua del mare non ci rassicura in alcun modo con la sua trasparenza. Non è la simpatica ninfa delle sorgenti, delle limpide fontane. È opaca e pesante; colpisce forte. Chiunque vi si avventuri si sente fortemente spinto in alto. È vero che aiuta il nuotatore, ma lo controlla; e questi si sente come un bambino debole, cullato da una mano potente, che potrebbe facilmente spezzarlo”.

Il libro è poi in realtà tutto un peana ai doni del mare, ai benefici per la salute e per l’economia, ecc …. Ma con un rispetto che non è quello di Conrad. Intanto “Le piccole libertà audaci che ci prendiamo sulla superficie dell’elemento indomabile, la nostra audacia nell’incontrare questo profondo sconosciuto, sono poche, e non possono fare nulla per il giusto orgoglio che il mare mantiene, in realtà, chiuso, impenetrabile”.

Del resto anche Hegel aveva già affermato che “Il coraggio di fronte al mare deve essere insieme astuzia, perché ha a che fare con ciò che è astuto, con l’elemento più malsicuro e mendace. Questo infinito piano è assolutamente morbido, non resiste affatto ad alcuna pressione, neanche al soffio: ha l’aria infinitamente innocente, remissiva, amabile, carezzevole, ed è appunto questa cedevolezza che cambia il mare nel più pericoloso e formidabile elemento”.

Insomma, si direbbe che i popoli continentali, anche quelli che hanno avuto dei cantori del mare come Victor Hugo, Jules Verne o Pierre Loti, e sono bagnati su tre lati, col mare non abbiano mai conquistato la stessa confidenza degli inglesi. Questo vale tanto per i francesi (quando soggiorna in Bretagna e in Normandia, Michelet constata che i pescatori sono tutti ugonotti) e per gli spagnoli (i loro più grandi navigatori, Colombo e Magellano, arrivano da fuori) che per gli italiani: un po’ meno per i portoghesi e per gli olandesi. Per Hegel, e anche per Schmitt, in quanto tedeschi la cosa è già più comprensibile (ma ad Hegel non piacevano nemmeno le montagne, non piaceva nulla che non fosse immediatamente ric0onducibile sotto il dominio della ragione). Per quanto concerne gli italiani, popolo di santi, poeti e navigatori, in fondo questi ultimi si sono storicamente formati sulle acque relativamente più tranquille del Mediterraneo. Dei santi conviene tacere, ma anche i nostri poeti non mostrano una particolare dimestichezza con l’elemento marino. Quando raramente ne parlano, come Montale in Maestrale, lo fanno dalla riva, avendo di fronte un mare placido:

S’è rifatta la calma
nell’aria: tra gli scogli parlotta la maretta.
Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma
a pena svetta.
Una carezza disfiora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s’infrange e ancora
il cammino ripiglia.

La domanda a questo punto torna ad essere: gli inglesi sono diventati un popolo talassico per forza di cose, dal momento che vivevano su un’isola (ma allora i sardi? o gli abitanti dei Caraibi), o per una scelta spirituale, come in fondo afferma Schmitt e come già argomentava Michelet? (“La razza inglese – scrive quest’ultimo – ha riacquistato una forza straordinaria e un’attività estrema. Il suo rinnovamento lo deve prima al suo grande business (niente di sano come il movimento), poi, va detto, anche al cambiamento delle sue abitudini. Adottò un’altra dieta, un’altra educazione, un’altra medicina; tutti volevano essere forti per agire, commerciare, vincere.”)

Ma soprattutto: non è che il rapporto col mare agisca sui singoli individui come fa a livello delle popolazioni, e che anche là dove non è la causa sia quanto meno l’indizio di una precisa scelta esistenziale? Non c’è alcun giudizio di valore dietro questa domanda. Solo verrei capire se anch’io, sotto sotto, sono un calvinista.

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La breve bibliografia qui suggerita raccoglie sia i libri ai quali ho fatto diretto riferimento nel pezzo, sia alcuni di quelli che, senza comparire, lo hanno ispirato.

George Byron, Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, Kessinger 2010
Joseph Conrad, La linea d’ombra, Rizzoli 2008
Joseph Conrad, Il Clandestino, De Agostini 1982
Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani 2006
Victor Hugo, I lavoratori del mare, Mursia 2016
Raffaele La Capria, Ferito a morte, Bompiani 1961
Pierre Loti, Pescatore d’Islanda, Nutrimenti 2010
Jules Michelet, Il Mare, Elliot 2019
Eugenio Montale, Ossi di Seppia, Mondadori 1951
Vittorio G. Rossi, Oceano, Mondadori 1957
Vittorio G. Rossi, Terra e acqua, Mursia 1988
Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi 2002
Senofonte, Anabasi, Rizzoli 2008
Stenio Solinas, Percorsi d’acqua, Ponte alle Grazie 2004
Charles Sprawson, L’ombra del massaggiatore nero, Adelphi 1995
Robert L. Stevenson, Nei Mari del Sud, Editori Riuniti 2002
Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari, Einaudi 2018

P.S. Una curiosità linguistica. Il mare è designato esclusivamente da un sostantivo maschile solo in italiano e in islandese. In inglese, in francese, in olandese, persino nel greco antico è al femminile, in spagnolo lo stesso termine può essere declinato in entrambi i generi. Vorrà dire qualcosa?

Acufeni?

di Paolo Repetto, 25 novembre 2020

L’acufene non è una malattia, è un sintomo, come la febbre:
aspecifico. Può essere generato da diverse situazioni.
http://www.fondazioneveronesi.it

I domiciliari da Covid hanno almeno un lato positivo, che non è quello ottimisticamente pronosticato da molti all’inizio di tutta la faccenda, la favola delle ritrovate gioie del focolare domestico e del rinnovato rapporto tra genitori e figli o tra i coniugi (mai viste tante violenze tra le mura di casa come in questo periodo). No, sta molto più semplicemente nella forzata possibilità di perdere ogni tanto qualche ora in vagabondaggi nelle nebbie del web, e di misurare uno stato febbrile mentale collettivo che solo in parte è indotto dalla paura ossessiva e maligna ingenerata dal Covid; anzi, quest’ultima lo rende solo più immediatamente visibile.

Quando parlo di lato positivo non intendo quindi piacevole o divertente (oggi al “positivo” si associano ben altri significati); al contrario, è una esplorazione angosciante, ma che ci costringe quanto meno a prendere atto di una realtà che a dispetto del suo manifestarsi principalmente sul web è tutt’altro che virtuale. Non c’è alcuna scoperta, non rivelo niente di nuovo: è una realtà che tutti bene o male già conosciamo, e che all’occasione non manchiamo di deprecare. Ma poi la rimuoviamo immediatamente, con un moto di fastidio più che di preoccupazione, come fosse qualcosa che in fondo riguarda solo gli altri, per tanti che questi altri siano. È lo stesso atteggiamento, per intenderci, che manteniamo nei confronti dell’inquinamento ambientale: assistiamo alla crescita esponenziale del degrado, mutazioni climatiche repentine, ghiacciai che si sciolgono, acque che si acidificano o si plastificano, regioni enormi che si desertificano, come fossimo in trance, pensando tra noi e noi “non sono comunque io quello che può fare qualcosa”.

Ora, credo che fare il punto ogni tanto su questi fenomeni, che sono tra l’altro intimamente connessi, possa servire se non altro a scuoterci per un attimo dalla nostra apatia, a liquidare gli alibi che ci costruiamo e a metterci di fronte alle nostre singole responsabilità. Ciascuno potrà poi decidere se mutare qualcosa del suo comportamento, e nel caso, se farlo individualmente o cercare di agire in concerto con altri: ma se anche non deciderà nulla, non potrà almeno trincerarsi, davanti allo sguardo smarrito delle generazioni future, ma prima ancora di fronte a se stesso, dietro la scusante del “non sapevo, non mi rendevo conto”.

Dunque, parlavo di “febbre mentale”. Era un eufemismo, naturalmente. Quello di cui vado a scrivere è né più né meno che idiozia, cretinismo, stupidità, scegliete voi il termine. Ne ho già trattato ampiamente altrove (cfr. ad esempio Il mondo nelle mani degli stolti), direi addirittura che non ho fatto altro, ma sempre in termini molto generali, teorici, oppure stigmatizzando fenomeni singoli, quasi in forma di un divertissement preoccupato ma in fondo distaccato. Vorrei invece scendere un po’ più in profondità, perché anche il cretinismo, malgrado questo sembri un ossimoro, ha una sua ancestrale profondità, ha delle radici non solo sociali ma anche biologiche, e non va preso sottogamba, come un fenomeno di risulta, un effetto collaterale e solo un po’ fastidioso dell’evoluzione.  

Tra i collaboratori a questo sito c’è per fortuna chi ha conoscenze specifiche ben più ampie delle mie, e in futuri interventi proverà a spiegare in termini scientifici le origini e le motivazioni di questo tipo di comportamento.

Io per ora mi limito invece a produrre alcune pezze documentali ben precise, che ho pescato qua e là nel web. Le riporto seguendo un ordine “verticale” di rilevanza apparentemente decrescente, che induce un altro ordine “orizzontale” di collocazione, come si diceva una volta, da destra a sinistra. Posso garantire che sono frutto tutte della stessa escursione. Il percorso lungo il quale le ho attinte non era affatto preordinato, ma non può nemmeno essere considerato del tutto casuale: cercavo altro, ma se mi sono imbattuto in queste perle è appunto perché non c’è ambito al quale il cretinismo non si sia prepotentemente affacciato.

Sono notizie, ahimé, per nulla divertenti, che parlano di un istupidimento dilagante, trionfante, pericolosissimo, che andrà a toccare e già sta toccando le nostre vite in misura ben maggiore di quanto questa umana degenerazione abbia mai storicamente fatto. Sono il primo ad ammettere (e a scrivere) che da sempre, da Adamo in poi, sono state profetizzate da parte di ogni generazione sventure e apocalissi per quelle a venire: ma è pur vero che queste ultime nella maggior parte dei casi, almeno per i gruppi direttamente interessati, si sono poi verificate. E oggi però, di fronte ad un cretinismo che dispone di armi ben più potenti e incontra difese cerebrali disattivate dal bombardamento mediatico, il rischio si è davvero allargato a tutta l’umanità. È peraltro assodato che a fronte di questo tipo di contagio non si crea immunità di gregge: si crea solo il gregge.

Propongo queste cose nude e crude, così come le ho lette (citando anche la provenienza). Penso che ogni commento sia superfluo. Le lascio dunque alla vostra (spero sgomenta) riflessione, anche se già so che non potrò trattenermi dal tornarci sopra. Non sarebbe male se per una volta lo facesse anche qualcun altro.

QAnon, la teoria più amata dai complottisti americani
(Julia Carrie Wong, The Guardian, Regno Unito, 28 agosto 2020)

Per Donald Trump sono “persone che amano il nostro paese”. Per l’Fbi è una potenziale minaccia terroristica interna. E per chiunque altro abbia usato Facebook negli ultimi mesi potrebbe essere semplicemente un amico o un familiare che ha mostrato preoccupanti segnali d’interesse per il traffico di bambini messo in piedi da una “congrega” di devoti a satana o per teorie del complotto su Bill Gates e sul covid-19.

QAnon è una teoria del complotto basata sul nulla, cresciuta su internet e diventata popolare negli Stati Uniti ad agosto. Per anni i suoi adepti sono rimasti ai margini delle comunità di destra online, ma negli ultimi mesi – mentre negli Stati Uniti si diffondevano i disordini sociali e l’insicurezza dovuta alla pandemia – hanno trovato molta visibilità […].

Secondo questa teoria il mondo è governato da una congrega di celebrità di Hollywood, miliardari e democratici satanisti. Queste persone avrebbero messo in piedi un traffico di bambini e stanno cercando di allungarsi la vita usando un composto chimico preso dal sangue dei bambini vittime di abusi. I sostenitori di QAnon credono che Donald Trump stia conducendo una battaglia segreta contro questa congrega e i suoi collaboratori dello “stato profondo”, per rendere noti questi malfattori e mandarli tutti nella prigione della base statunitense di Guantanamo, a Cuba. Il presidente (che ha un ruolo fondamentale nella narrazione falsa di QAnon) si è naturalmente rifiutato di prendere le distanze: anzi, ha elogiato i sostenitori di QAnon, definendoli dei patrioti.

Esistono molte trame nella narrazione di QAnon, tutte improbabili e infondate: quella secondo cui John Kennedy, presidente assassinato nel 1963, sia in realtà ancora vivo; un’altra che accusa la famiglia Rothschild di controllare tutte le banche; oppure quella secondo cui i bambini rapiti sono venduti attraverso il sito web del rivenditore di mobili Wayfair (non è vero, ovviamente). Hillary Clinton, Barack Obama, George Soros, Bill Gates, Tom Hanks, Oprah Winfrey, la modella Chrissy Teigen e papa Francesco sono solo alcune delle persone che i sostenitori di QAnon hanno scelto come i cattivi di questa realtà alternativa.

Se tutto questo suona familiare, è perché ne abbiamo già sentito parlare. QAnon ha le sue radici in teorie del complotto esistenti, in altre relativamente nuove, e altre ancora vecchie di un millennio.

L’antecedente più recente è il cosiddetto Pizzagate, la teoria del complotto che si è diffusa durante la campagna presidenziale del 2016, quando siti d’informazione e influencer di destra hanno promosso l’idea infondata che i riferimenti al cibo e a una famosa pizzeria di Washington apparsi nelle email rubate del direttore della campagna di Clinton, John Podesta, fossero in realtà un codice cifrato che si riferiva a un traffico di bambini. Gli attacchi online hanno scatenato violenza reale contro il ristorante e i suoi dipendenti, culminati nel dicembre 2016 in una sparatoria per mano di un uomo convinto che nel locale ci fossero bambini da salvare.

Ma QAnon affonda le sue radici anche in teorie del complotto antisemite molto più antiche. L’idea di una congrega onnipotente che comanda il mondo viene direttamente dal Protocollo dei savi di Sion, un documento falso in cui viene descritto un piano segreto degli ebrei per controllare il mondo, e che è stato usato per tutto il Novecento per giustificare l’antisemitismo. Un’altra affermazione falsa dei seguaci di QAnon – l’idea che i membri della congrega estraggano dal sangue dei bambini l’adrenocromo, un composto chimico, e lo ingeriscano per allungarsi la vita – è una variante moderna di un’idea antisemitica calunniosa e vecchia di secoli relativa al sangue.

(L’articolo prosegue raccontando come è cominciata tutta questa vicenda, come funzionano le piattaforme di diffusione e a chi arrivano: “I più importanti gruppi Facebook dedicati a QAnon avevano circa duecentomila membri prima che la piattaforma li mettesse al bando, a metà agosto. Quando Twitter ha preso provvedimenti simili contro gli account QAnon a luglio, la misura ha colpito circa 150mila account […] In generale QAnon sembra essere popolare soprattutto tra gli elettori repubblicani più anziani e tra i cristiani evangelici.”,

quali strategie usano: “realizzare ‘documentari’ infarciti di disinformazione, prendere il controllo di hashtag popolari online per trasformarli in strumenti per diffondere le teorie QAnon; partecipare a comizi di Trump esibendo cartelli con su scritto Q; candidarsi alle elezioni. Una dimostrazione dell’efficacia di queste tattiche è arrivata quest’estate con la campagna #SaveTheChildren o #SaveOurChildren. Questo hashtag all’apparenza innocuo, usato in passato da ONG che lottano contro la violenza sui bambini, è stato inondato di argomenti dal forte contenuto emotivo da parte di seguaci di QAnon, con riferimenti alla più ampia narrativa del movimento”,

quanta  influenza stanno esercitando: “Media matters for America, associazione che monitora i mezzi d’informazione, ha compilato una lista di 77 candidati a seggi al congresso degli Stati Uniti che hanno dichiarato di sostenere QAnon. Una di loro, Marjorie Taylor Greene della Georgia, ha vinto le primarie repubblicane e a novembre con ogni probabilità entrerà al Congresso.”

Chi è Attila Hildmann, lo chef vegano dietro gli sfregi al museo di Berlino
(da  http://www.scattidigusto.it, 22 ottobre 2020)

Attila Hildmann, 39 anni, già star vegana dei masterchef tedeschi, è il principale indiziato per l’attacco che ha danneggiato 70 opere in tre musei di Berlino. Lo scorso 3 ottobre, qualcuno ha spruzzato una sostanza oleosa su decine di capolavori conservati nei musei. Sono stati macchiati e rovinati per sempre sarcofagi egizi, sculture, immagini di divinità greche e quadri dell’Ottocento.

Ieri, la Bild e altri mezzi d’informazione tedeschi hanno adombrato sospetti proprio su Hildmann, ricostruendo l’incredibile parabola che ha cambiato la vita del cuoco berlinese di origini turche. L’ex telechef è passato dal ruolo di amato vip dei fornelli mediatici, con una seconda carriera ben avviata da autore di bestseller culinari, a essere una bandiera dell’ultradestra.

Da quando preferisce agli show per la tv (anche americana) le piazze, da dove tenta, a suo dire, di aprire gli occhi a tutti i poveri stolti alle prese con l’epidemia globale, lo chef xenofobo, complottista, nonché negazionista del Covid-19, si è trasformato in un propagandista della spazzatura complottista sul Coronavirus. È stato lui a diffondere ai 100 mila follower del suo canale Telegram, il messaggio secondo cui il Pergamon Musem non sarebbe stato chiuso per la pandemia. Il vero motivo sarebbe la presenza all’interno del museo del “Trono di Satana”, essendo di fatto il Pergamom il “centro dei satanisti e dei criminali del Coronavirus”.

Martedì Attila Hildmann ha condiviso un link sui social che rimandava a un articolo sull’attacco ai musei. Il suo commento? “Fatto! È il trono di Baal (Satana)”.

Avevano fatto scalpore nel settembre scorso i messaggi pubblicati dal cuoco vegano ancora una volta sul suo canale Telegram. Protagonista la Cancelliera tedesca Angela Merkel, che in realtà sarebbe ebrea e a capo di “un regime sionista” che all’interno del Pergamom Museum consuma “sacrifici umani”.

Ted Huges, il poeta nella black list della British Library
(da http://www.leggo.it 22 novembre 2020)

Il celebre poeta Ted Hughes è stato aggiunto a un dossier che lo collega alla schiavitù e al colonialismo dalla British Library. Il poeta, nato in una famiglia di umili origini nello Yorkshire, è risultato essere un discendente di Nicholas Ferrar, che era coinvolto nella tratta degli schiavi circa 300 anni prima della nascita di Hughes.

Ferrar, nato nel 1592, e la sua famiglia erano “profondamente coinvolti” con la London Virginia Company, che cercava di stabilire colonie nel Nord America. La ricerca, ha riferito The Telegraph, è stata condotta per trovare prove di “connessioni con la schiavitù, profitti dalla schiavitù o dal colonialismo”.

Hughes è nato nel 1930 nel villaggio di Mytholmroyd nel West Yorkshire, dove suo padre ha lavorato come falegname prima di gestire un’edicola e una tabaccheria. Ha frequentato l’Università di Cambridge con una borsa di studio, e lì ha incontrato la sua futura moglie Sylvia Plath.

Quello di Hughes, che morì nel 1998, non è l’unico nome illustre della letteratura inglese identificato dalla British Library come beneficiario dei proventi della schiavitù attraverso parenti lontani: nella lista ci sono anche Lord Byron, Oscar Wilde e George Orwell. Tra gli intenti dell’istituzione, diventare “attivamente antirazzisti” fornendo un contesto alla memoria di personaggi storici sulla scia del movimento Black Lives Matter.

Ma il tenue legame tra Hughes e Ferrar, al quale è imparentato per parte di madre, ha suscitato l’ira tra gli esperti del grande scrittore. Il suo biografo, Sir Jonathan Bate, ha dichiarato: «È ridicolo incastrare Hughes con un legame con la tratta degli schiavi. E non è un modo utile per pensare agli scrittori. Perché diavolo giudichi la qualità del lavoro di un artista sulla base di antenati lontani?». Bate ha aggiunto che Ferrar era meglio conosciuto come sacerdote e studioso che ha fondato la comunità religiosa Little Gidding.

Il poeta romantico Lord Byron è stato aggiunto a questa lista perché il suo bisnonno era un commerciante che possedeva una tenuta a Grenada. Suo zio, attraverso il matrimonio, possedeva anche una piantagione a St Kitts.

Oscar Wilde è stato incluso a causa dell’interesse di suo zio per la tratta degli schiavi, anche se la ricerca ha rilevato che non c’erano prove che l’acclamato scrittore irlandese abbia ereditato alcun denaro attraverso la pratica.

George Orwell, che era nato Eric Blair in India, aveva un bisnonno che era un ricco proprietario di schiavi in Giamaica. Ma la Orwell Society ha specificato che il denaro era già scomparso tempo prima che Orwell nascesse.

Cosa ha detto J.K. Rowling sulle persone transgender e le donne
(www.ilpost.it 11 giugno 2020)

Mercoledì sera J.K. Rowling, notissima autrice dei libri su Harry Potter, ha pubblicato un lungo post sul suo sito per rispondere alle critiche e alle accuse di transfobia ricevute dopo alcuni suoi recenti commenti sull’identità di genere e su quello che lei definisce il “nuovo attivismo trans”, e per spiegare perché si è espressa pubblicamente su questi temi.

«Non mi piegherò di fronte a un movimento che ritengo stia facendo danni dimostrabili nel tentativo di erodere il concetto di “donna” come classe politica e biologica, offrendo protezione ai molestatori come pochi nella storia».

Ha inoltre rivelato di aver subito violenze domestiche e abusi sessuali durante il suo primo matrimonio, citando questa esperienza – insieme al suo passato di insegnante e alla sua convinzione dell’importanza della libertà di parola – come una delle ragioni a sostegno delle sue idee rispetto all’identità di genere e ai diritti delle persone trans.

Negli ultimi anni, Rowling ha più volte espresso opinioni controverse sul concetto di sesso e di identità di genere e sui diritti delle persone trans. Nel suo post ha commentato e cercato di spiegare le volte in cui era successo e ha fatto riferimento più approfonditamente all’episodio più recente, avvenuto lo scorso weekend. Sabato scorso Rowling aveva ironizzato sull’utilizzo dell’espressione “persone che hanno le mestruazioni” nel titolo di un articolo del sito Devex, che usava l’espressione per includere esplicitamente persone trans e non binarie: «Sono sicura che esistesse una parola per queste persone» ha scritto Rowling, «Aiutatemi… Danne? Done? Dumne?».

Il commento implicava una corrispondenza automatica tra le persone che hanno le mestruazioni e le donne: negando così la possibilità che esistano persone che le hanno ma non si identificano come donne (alcuni uomini trans, o persone che non si identificano in alcun genere, ad esempio), e ha generato critiche e discussioni.

Domenica Rowling ha risposto con tre nuovi tweet, affermando di «conoscere e sostenere persone transgender», ma opponendosi a «cancellare il concetto di “sesso”».

Anche questi tweet hanno ricevuto molte critiche e risposte, anche da famosi attori e attrici che avevano lavorato a film tratti dalla sua saga. Lunedì, ad esempio, l’attore Daniel Radcliffe – interprete del personaggio di Harry Potter nella serie di film tratti dai libri di Rowling – ha pubblicato una lettera in cui prendeva le distanze dalle parole di Rowling, evitando di attaccarla personalmente, e in cui esprimeva solidarietà verso le persone transgender e la volontà di “diventare un migliore alleato” (come vengono definite le persone che non appartengono alla comunità LGBTQIA+, ma condividono e sostengono le sue ragioni). Commenti simili sono stati fatti anche dagli attori Eddie Redmayne ed Emma Watson.

L’identità sessuale, oggi, viene definita in base a tre parametri: sesso, genere e orientamento sessuale. Il primo corrisponde al corpo sessuato (maschio-femmina), il secondo al senso di sé (al sentimento di appartenenza, all’identificarsi come uomo o donna a seconda di ciò che il mondo intorno riconosce come proprio dell’uomo e della donna), mentre il terzo riguarda la direzione dei propri desideri (eterosessuali-omosessuali-bisessuali, e altre categorie).

Il sistema sesso-genere-orientamento sessuale (usato oggi in tutto il mondo dalla maggior parte degli psichiatri, degli psicologi, dei sessuologi e dei sistemi giuridici) è però solo una griglia interpretativa e imperfetta della realtà, basata su rigide alternative binarie: la realtà stessa è ben più complessa e ricca di esperienze in cui i tre parametri non sono necessariamente “coerenti” tra loro. Un articolo del National Geographic riporta le esperienze di alcune persone che non rientrano perfettamente nella binarità, alcune dal punto di vista biologico, altre psicologico, più spesso un misto dei due.

La posizione di Rowling rifiuta queste posizioni e si può riassumere come segue: secondo lei esistono due sessi (maschio e femmina), che dipendono da fattori anatomici e fisici (come le mestruazioni); secondo lei, però, l’inclusione nella categoria di “donna” richiesta dalle donne trans rischierebbe di danneggiare le persone biologicamente donne.

(A scanso di equivoci, non sono un fan di Harry Potter, ma alla signora Rowling vanno naturalmente in questo caso tutta la mia stima e la mia solidarietà. Non aveva necessità di tirare in ballo gli abusi per giustificare la sua posizione. Decisamente meno, lo confesso, apprezzo l’opportunismo ipocrita di Daniel Radcliffe.

Mi si potrà inoltre obiettare che la rilevanza, in termini di pericolosità, tra i primi due casi e gli altri due che ho riportato sia molto diversa. Non ne sarei così convinto.)

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I regali di un tempo

di Paolo Repetto, 2013

Io ero stato mandato in Grecia
perché avevo studiato Omero,
e Kreipe aveva fatto otto anni di studi classici.
Sono cose che non esistono più.

Avevo già incontrato Patrick Leigh Fermor a dieci anni, ma senza riconoscerlo. Ho dovuto quindi attendere mezzo secolo prima di ritrovarlo.

Quella prima volta non lo riconobbi perché il film che le sue gesta avevano ispirato era modesto, la trama appariva improbabile e l’interprete, Dirk Bogarde, non mi era simpatico. Questo l’ho capito dopo, naturalmente, quando Leigh Fermor l’ho incontrato davvero: all’epoca non avevo memorizzato nemmeno il nome.

Il film si intitolava “Colpo di mano a Creta”. Apparteneva ad un genere “bellico” che andava per la maggiore alla metà degli anni cinquanta, giusto un decennio dopo la fine del conflitto, quando la gente aveva ormai digerito la paura, i reduci più o meno riadattati alla vita borghese avevano voglia di rivedersi in azione (e magari di far partecipi i figli di quel che avevano vissuto) e soprattutto i vincitori cominciavano a girarla in “epica”, profittando tra l’altro della marea di residuati, navi, aerei, carri armati, divise che si trovavano tra le scatole e che non sapevano come smaltire. (Ricordo altri titoli di film inglesi, come “Birra ghiacciata ad Alessandria” e “Un taxi per Tobruk”, che la dicono lunga sull’aplomb col quale la recente apocalisse veniva raccontata oltremanica, mentre gli americani ci andavano giù più pesanti: in “All’inferno e ritorno” Audie Murphy, presentato come il più decorato soldato d’America, vinceva in pratica da solo la guerra, sul fronte europeo prima e poi, sistemati i tedeschi, anche su quello del Pacifico, facendo più prigionieri del sergente York. Questo però mi era piaciuto).

Ma torniamo a “Colpo di mano a Creta”. Raccontava di un ufficiale dei servizi segreti britannici, paracadutato a Creta in piena occupazione nazista per collaborare coi partigiani greci, che concepisce un’azione clamorosa: il rapimento del comandante tedesco della piazza. L’azione riesce, e l’ufficiale inglese coi suoi amici greci scorrazzano per l’isola sfuggendo alla caccia dei nazi per una settimana, fino a quando non riescono ad imbarcare nottetempo per il Cairo il loro prigioniero.

A dispetto del mio scetticismo le cose erano andate davvero così. Leigh Fermor, l’ufficiale britannico interpretato da Bogarde, aveva vissuto a lungo in Grecia prima della guerra, finendo anche coinvolto nel 1935 negli scontri seguiti alla restaurazione monarchica. Parlava perfettamente la lingua (“milai ta ellinika farsì”, “parla il greco farsì”, dicevano di lui i greci) e amava profondamente tanto la natura come la cultura ellenica. Allo scoppio della guerra, nel ‘39, era rientrato in patria per arruolarsi, e quando i tedeschi avevano occupata la Grecia nella primavera del 1941 (correndo in aiuto dei soliti italiani, che dovevano spezzare le reni e invece si erano spezzati le corna) le sue conoscenze linguistiche e dei costumi della popolazione erano diventate improvvisamente essenziali.

Alla fine di aprile del ‘41 tutta la penisola e le isole dello Ionio e dell’Egeo erano in mano tedesca, tranne appunto Creta, dove nel frattempo erano state inviate in fretta e furia truppe inglesi e australiane. L’isola era considerata strategicamente fondamentale per il controllo del Mediterraneo, e quindi nel maggio dello stesso anno aveva avuto inizio la battaglia per il suo possesso. I tedeschi avevano attaccato con una divisione aviotrasportata, pagando un prezzo terribile: le prime ondate di paracadutisti erano state addirittura sterminate e tra le fila germaniche ci furono più morti che in tutto il resto della campagna greca. Alla fine comunque le truppe alleate erano state costrette alla resa o alla ritirata, e dopo dieci giorni l’isola era occupata. Non completamente, però. Da subito, nel corso della battaglia stessa, aveva avuto infatti inizio la resistenza della popolazione civile, che quando metteva le mani sui paracadutisti tedeschi li massacrava: il che aveva indotto il comando germanico ad attuare feroci rappresaglie (venne applicata per la prima volta la regola dei dieci nemici per ogni tedesco ucciso: o meglio, venne “formalizzata”, con la solita mania teutonica per la precisione. In realtà, rappresaglie del genere, magari praticate a spanne, le avevano sempre attuate tutti, compresi gli Americani nelle Filippine a inizio secolo o gli italiani in Etiopia).

Ed è qui che entra in scena Leigh Fermor. Dopo qualche mese Paddy (così lo chiamavano i commilitoni) viene infiltrato per prendere contatto con i partigiani greci che continuano le azioni di guerriglia, e si muove travestito da pastore (pare un fumetto, ma è proprio così). Sa di rischiare grosso, perché se lo beccano in abiti civili i tedeschi non avranno esitazione ad appenderlo e a scorticarlo vivo: ma è un rischio accettato e voluto. È l’uomo giusto per la situazione, un po’ come lo era stato Lawrence per il Vicino Oriente durante la prima guerra mondiale: e lo dimostra concretamente dopo l’8 settembre del ‘43, quando riesce a portar via sotto il naso dei tedeschi e a far rifugiare in Egitto un generale italiano. Il successo di questa azione lo porta a concepire un’idea ancora più audace: ripetere il colpo, ma questa volta impadronendosi di un generale tedesco. Il piano è stato architettato al Cairo, nell’appartamento di una aristocratica polacca, e sembra il frutto di una mente fuori controllo. Ma i precedenti di Leigh Fermor fanno sì che quando lo presenta allo stato maggiore dei servizi segreti venga preso sul serio, autorizzato e organizzato.

Il 4 febbraio 1944 viene dunque paracadutato sulle montagne dell’isola; poco dopo è raggiunto da un altro ufficiale, Billy Moss, altrettanto pazzo. Il 26 aprile Paddy e Bill, travestiti da militari della Wehrmacht, fermano nei pressi di Cnosso la Mercedes del generale Karl Heinrich Kreipe, comandante in capo delle truppe distaccate sull’isola. Mettono fuori uso la scorta, impacchettano l’ufficiale come un salame, lo nascondono nel bagagliaio (la Mercedes ha sempre avuto bagagliai capienti) e Leigh Fermor indossa la divisa del generale: parla un ottimo tedesco, e questo gli consente di superare almeno una ventina di posti di blocco (era la cosa che nel film mi aveva lasciato più perplesso: ma a quanto pare ai militari tedeschi era sufficiente la vista di un berretto gallonato per scattare sull’attenti). A questo punto l’auto, che ormai scotta, viene abbandonata sulla costa settentrionale dell’isola, con su un biglietto nel quale si precisa che il rapimento è un’azione militare condotta da commandos britannici. In questo modo Leigh Fermor, che ha una mentalità cavalleresca, spera (invano) di scongiurare rappresaglie sui civili. Poi i tre, ai quali si sono uniti due partigiani cretesi, si mettono in cammino a piedi e attraversano le montagne centrali dell’isola, diretti alla costa Sud. Sfuggendo a tutte le ricognizioni aeree e terrestri, che impegnano quasi trentamila uomini, nel giro di una settimana sono ad una rada dove li aspetta ogni notte, come convenuto, una imbarcazione a motore. Caricano Kreipe e il giorno successivo sono al Cairo.

Durante il tragitto naturalmente l’alto ufficiale tedesco cerca di essere il più possibile d’intralcio e mantiene un atteggiamento pesantemente sprezzante, nei confronti soprattutto dei partigiani greci. Ma quando sul monte Ida, dopo una gelida notte all’addiaccio e di fronte ad un’alba fantastica, si vede offrire da Leigh Fermor una sigaretta che crede sia l’ultima (e lo sarebbe senz’altro, se dipendesse dai greci), si lascia andare e comincia a recitare versi in latino. Leigh Fermor nelle sue memorie la racconta così: «Fumavamo in silenzio, quando il generale, quasi tra sé, disse lentamente: Vides et ulta stet nive candidum Soracte (“Vedi come il Monte Soratte spicca bianco di neve profonda”). Era l’apertura di una delle poche odi di Orazio che conoscevo a memoria. Ho continuato a recitare dove lui si era interrotto. “… nec iam sustineant onus silvae laborantes, geluque flumina constiterint acuto” (“e come i boschi affaticati non sostengano più il peso, e come i fiumi si siano fermati per l’acuto gelo”).Gli occhi blu del generale si volsero, lontano dalla montagna, verso di me, e quando ebbi finito, dopo un lungo silenzio, disse: “Ach so, Herr Major!” Fu molto strano. “Ja, Herr General”. Come se per un attimo la guerra avesse cessato di esistere. Ci eravamo abbeverati entrambi alla stessa fonte, tempo prima, e le cose furono diverse tra di noi, per il resto del nostro tempo insieme».

Questa scena nel film non l’avevo assolutamente colta, non so neppure se ci sia: ma se lo avessi fatto, all’epoca, nella disposizione con cui guardavo alla vicenda, con ogni probabilità mi avrebbe anche dato fastidio. A posteriori (l’ho conosciuta dopo che già di Leigh Fermor mi ero innamorato per altre ragioni) è stata la ciliegina sulla torta, perché io stesso, naturalmente in ben altra situazione, al tramonto e non all’alba, ho vissuto un’esperienza simile con alcuni versi di Dante, e ne è nata una grande amicizia.

I due invece per il momento non diventano amici, non c’è nemmeno da pensarci; ma hanno reciprocamente riconosciuto nell’altro il terreno, quello della cultura digerita e vissuta in un certo modo, sul quale le amicizie possono essere coltivate. In effetti si rincontreranno vent’anni dopo, in occasione di un programma televisivo della BBC, e in quella circostanza si abbracceranno, cosa che forse avrebbero voluto poter fare anche sul monte Ida.

In compenso la guerra non ha affatto cessato di esistere: i tedeschi scatenano contro i civili cretesi una repressione sanguinosa, che ottiene solo l’effetto di rendere questi ultimi ancora più determinati e ostili. Dal loro punto di vista i tedeschi hanno ben ragione di essere furibondi. Il colpo di mano di Leigh Fermor e soci risulta per loro più umiliante di qualsiasi sconfitta, perché ha il sapore dell’irrisione e dimostra che di fatto il controllo dell’isola è ancora in mano ai partigiani e agli alleati. Si può ovviare a qualsiasi rovescio, ma non al ridicolo: una volta che ha colpito distrugge ogni credibilità. Agli occhi dei cretesi il mito dell’efficienza e invincibilità germanica è infranto con una beffa, e questo offre loro il puntello morale per proseguire testardamente la lotta. Un altro ufficiale inglese, che come Leigh Fermor ha lavorato con i partigiani greci, racconta che la popolazione li invitava a colpire sempre più duro: dal momento che la repressione ci sarebbe comunque stata, almeno ne valesse la pena. Ci avrebbero pensato poi i cretesi stessi, verso la fine del conflitto, a prendersi le loro vendette, facendo a pezzi tutti i tedeschi che non erano riusciti a sganciarsi dall’isola.

La caduta di un mito ne crea dunque un altro: Leigh Fermor sarà d’ora in poi così famoso e amato dai greci da finire legato alla loro terra per tutta la vita.

A questo punto dobbiamo però chiederci chi è davvero questa sorta di Corto Maltese in ritardo di una guerra, che gira con i generali nel bagagliaio ed è in grado di cogliere e completare a memoria una citazione da Orazio.

Quando l’ho finalmente incontrato, oltre cinquant’anni dopo il film, anche Leigh Fermor aveva fatto un salto nel tempo. Ma all’indietro. Ho preso il suo Tempo di regali (A time of Gifts)solo perché parlava di un viaggio a piedi attraverso il vecchio continente, e mi sono trovato di fronte ad un ragazzo di diciott’anni che dopo l’ennesimo insuccesso scolastico piglia su senza pensarci troppo, parte da casa e si incammina, a piedi appunto, per attraversare tutta l’Europa del 1933 e arrivare in tredici mesi sino a Costantinopoli. Come incontrare in una sola persona Holden Caufield e il Dean Moriatry di On the road.

Per carità, può farlo: non viaggia “senza un soldo a Parigi e Londra” come Orwell, può contare su un modesto appannaggio (50 sterline l’anno) che gli viene accreditato in piccole rate; non deve mantenersi con lavori occasionali, anche se più di una volta gli capita (o è forzato) di cercarne qualcuno; nemmeno lascia a casa una famiglia in angoscia, perché la madre e il parentado sono tutte persone di mondo, e non si scompongono più di tanto; conosce più di una lingua, ed ha referenze presso famiglie altolocate un po’ dovunque; ma insomma, lo fa.

Diciamo che Patrick per cose di questo genere c’è nato. Le congiunture, astrali e non, ci sono tutte. C’è ad esempio l’anno della nascita, il 1915, per cui la madre e la sorella, che devono recarsi in India per raggiungere il padre, direttore del Geological Survey, temendo i siluramenti tedeschi lo lasciano in Inghilterra. Qui, ospite di una famiglia contadina, trascorre un’infanzia campagnola da sogno, priva di ogni regola (“era impossibile disobbedire agli ordini, perché nessuno ne impartiva”), che gli lascia però una indelebile refrattarietà ad ogni sorta di disciplina. Quando i suoi tornano trovano un selvaggio, incapace di resistere in qualsiasi scuola: per la disperazione lo inviano in una sorta di comunità per bambini disadattati, dove trova altri scatenati come lui e docenti adoratori della natura che li lasciano fare, al punto che a pochi mesi dal suo arrivo devono chiudere bottega. I tentativi di inserimento in una scuola normale falliscono uno dietro l’altro. In compenso, quando torna a casa trova porte dipinte da un vicino di casa, Arthur Rackham, il più fantastico illustratore di fiabe che io conosca, una madre che scrive opere teatrali o vola sui biplani e un padre che se lo tira appresso per escursioni naturalistiche sulle Alpi o per le pinacoteche italiane. È chiaro che la scuola, in certe situazioni, è veramente un di più, una perdita di tempo. Finalmente, ad un certo punto capita in un istituto a conduzione familiare dove, pur concedendogli ampi margini di sfogo (dorme per tutto un trimestre in una capanna costruita su un noce gigantesco, alla quale si accede con una scala di corda), lo mettono anche in condizione di superare a quindici anni gli esami per l’ammissione alla King’s School di Canterbury.

Del college gli piace tutto, dall’atmosfera di oscura e polverosa antichità agli insegnanti, e soprattutto alle cose che vi si insegnano. Impara e legge con avidità, si distingue nelle materie classiche e nel pugilato, pubblica poesie; ma non riesce a tenere a bada lo spirito ribelle. C’è molto esibizionismo nelle sue trasgressioni, ma c’è anche un’insofferenza genuina per il sistema di cerimoniali e per la sottile ipocrisia che comunque governa tutti i rapporti, con i compagni come con i docenti. Cerca la genuinità altrove, e la trova nella graziosa figlia di un fruttivendolo, che ha molti più anni di lui. Scoperto, viene cacciato. Ancora una volta ricomincia con lo studio privato, per preparare l’accesso all’accademia militare di Sandhurst, alla quale viene ammesso: e ancora una volta, dopo un breve periodo di tranquillità, alla quale segue una scatenata bohème, torna a galla il ribelle insoddisfatto.

A time of Gifts parte di qui.

Di punto in bianco Patrick prende coscienza che sta bruciando la propria vita. Il bilancio della sua carriera scolastica è disastroso, prospettive non ne vede e quelle che prova ad immaginare non gli piacciono affatto. Capisce che deve ricominciare tutto daccapo, e il modo migliore per farlo è tagliare i ponti con il passato, mettere la maggior distanza possibile tra sé e quel mondo nel quale ha dato il peggio (e fin qui, siamo in un topos classico della letteratura di viaggio). Questo allontanamento non deve però essere una fuga, quanto piuttosto una sorta di espiazione, un percorso iniziatico e rigeneratore, che gli faccia recuperare in conoscenza diretta tutto quello che si è perso con l’intemperanza scolastica. Ha letto i libri di Robert Byron, ed è rimasto affascinato dalla descrizione della “Bisanzio verde drago”. Vuole capire cosa significa, e questo gli dà una meta. Ma evidentemente non è tanto la meta ad attirarlo quanto il viaggio per raggiungerla, dal momento che sceglie la modalità di percorso più lenta e faticosa: arrivarci a piedi, realizzando, come scrive lui, “un viaggio da pellegrino o da palmiere, da chierico vagante o da cavaliere povero”.

Patrick si mette in viaggio con un paio scarponi chiodati ai piedi, un vecchio cappotto militare e uno zaino da alpinista. Lo zaino, tanto per capirci, ha già una sua storia alle spalle, perché ha percorso sul dorso di un mulo gli itinerari più impervi dei Balcani e della Grecia, guarda caso in compagnia di Byron. Dentro, anziché i ricambi di biancheria, ci sono l’Oxford Book of English Verse e, appunto, le Odi di Orazio, oltre ad una scelta di matite di marca con le quali riempire le pagine del diario. Insomma, Leigh Fermor non è un emigrante e nemmeno un uomo in fuga (se non da un futuro che gli si prospetta decisamente incerto).

È il dicembre del 1933, anno tragico per l’Europa. Patrick parte direttamente dai docks di Londra con un piccolo mercantile, che lo trasborda a Rotterdam. Di lì ha inizio il viaggio vero e proprio, in un’atmosfera prenatalizia nevosa, nebbiosa, umida e decisamente stralunata. L’incoscienza del gesto, l’apparire assolutamente disarmato rispetto alla enormità dell’impresa (“Vado a Costantinopoli”, continuerà a ripetere ai sempre nuovi sbalorditi interlocutori), gli creano attorno un’immediata simpatia, quasi una barriera protettiva: e non si può dire che faccia molto per evitarsi i rischi. Il primo giorno a Colonia lo chiude ubriaco in una bettola del porto fluviale; a Monaco sperimenta il Katzenjammer, i postumi della sbornia dura, e gli fregano anche lo zaino. Ma – è lui stesso a dirlo – sembrava che di ogni mondo mi toccasse in sorte la parte migliore. In tutto il viaggio non corre mai alcun vero pericolo, se non quello di perdersi a qualche crocevia in mezzo alla neve.

L’itinerario lo dettano i grandi fiumi che uniscono idealmente il nord e l’Asia bizantina, il Reno e il Danubio: risalendo il primo e costeggiando poi il secondo, a piedi, si compie una traversata naturale, una immersione nella profondità geografica, ma più ancora in quella storica, dell’Europa. E Patrick cerca proprio questa. I paesaggi rurali e gli scenari urbanistici e architettonici che incontra sono rimasti intatti per secoli, non sono ancora stati sconvolti dai bombardamenti del secondo conflitto e dalle successive non meno devastanti ricostruzioni. “Il mondo è avviluppato in un manto bianco che nasconde le strade moderne e i pali del telegrafo, mentre un paio di castelli appaiono in lontananza; ecco che tutto sembra tornare indietro di secoli … ogni cosa risalta in un cupo isolamento sullo sfondo della neve, nitida e solenne”. Mano a mano che avanza verso il centro del continente si sorprende a penetrare in una sorta di Europa originaria (e in effetti, davvero attraversa i luoghi di nascita dell’Europa quale noi la intendiamo), ne respira i tempi lunghi e la lenta continuità, che non può non confrontare con l’accelerazione inglese, ne coglie il crepuscolo, un attimo prima della tragedia, e sia pure confusamente avverte anche le nubi che si ammassano all’orizzonte. Appena entrato in Germania assiste ad una parata di SA che lo lascia perplesso, è incerto se considerarla patetica o minacciosa: e i sintomi si ripeteranno più oltre, sempre più inquietanti. Ma a dire il vero, Leigh Fermor, pur avendo trascritto i suoi diari diversi anni più tardi, non ha voluto attribuirsi una sensibilità premonitrice che all’epoca non gli apparteneva. Le avvisaglie dell’imbarbarimento certamente gli danno fastidio, ma più perché contrastano con la bellezza dei luoghi e delle persone, con l’ospitalità, con l’austera magnificenza delle architetture, con il sentore buono di passato, e di un passato davvero profondo, che per una effettiva sensazione di pericolo. Questa, al massimo, gli viene comunicata da alcuni degli occasionali conoscenti: e comunque, se una sensazione davvero ha, è che il nuovo regime sia guardato con fastidio e timore dalla maggioranza della popolazione.

La Germania che attraversa è ancora cosparsa di fienili e stalle persi nelle campagne, di villaggi nemmeno segnati sulla carta geografica, di soffitte piene di mele, di locande popolate da pacifici bevitori di birra, dediti al canto, ai racconti di gnomi e, soprattutto in Baviera, a fare dell’ironia sui prussiani (persino le SA, quando, finita la parata, si raccolgono attorno ad una tavolata nella sua stessa taverna ad intonare nostalgici lied o chiassosi ritornelli, gli sembrano molto meno truci). E anche, soprattutto nella parte austriaca, di castelli e di schloss: “Era raro che nel panorama mancasse un castello. Si profilavano in lontananza, raggruppati ai margini delle cittadine rurali, posati con sonnolenta grazia barocca su pianori coperti di boschi o sospesi a strapiombo sulle cime degli alberi”. In più d’uno di questi finisce a dormire, preceduto a volte da lettere di presentazione provenienti dall’Inghilterra, a volte semplicemente dal tam tam di villaggio che annuncia l’avvicinarsi di uno strano, giovanissimo viandante: e in essi ha modo di cogliere ancora, forse ultimo, le affascinanti sopravvivenze di un’aristocrazia cosmopolita, dispersa in tutta l’Europa dalla dissoluzione dell’impero asburgico e dalla trasformazione di quello russo. Più spesso, però, sono le locande, le fattorie o i fienili, ad accoglierlo, e Patrick gode e si imbeve allo stesso modo della compagnia o della solitudine.

Il mondo che vede non sarà più lo stesso appena dieci anni dopo. Se lo gusta a passo d’uomo, scorge di fronte a sé le torri della cattedrale di Colonia due giorni prima di arrivarci sotto, e lo stesso vale lungo tutto il viaggio, una sequenza ininterrotta di scatti che impressionano la sua memoria. “Camminai lungo sentieri, sopra cavalcasiepi, attraverso campi e lungo strade di campagna che attraversavano boschi bui per poi sbucare su campi coltivati e pascoli imbiancati. Le vallate erano punteggiate da villaggi che si accalcavano attorno ai tetti a scandole delle chiese, e tutti i campanili si rastremavano e poi si gonfiavano ancora in cupole dalle nervature nere a forma di cipolla che davano loro un aspetto vagamente russo. Per il resto, particolarmente quando alle nude foreste di latifoglie si sostituivano quelle di conifere, il décor era quello delle favole dei fratelli Grimm”.

Non ci sono tempi da rispettare, appuntamenti o luoghi obbligati. Quando vale la pena, o magari nevica troppo forte, o due splendide ragazze ti mettono a disposizione la casa in assenza dei genitori, si può tranquillamente prolungare la sosta. Ogni incontro è a suo modo rivelatore e fantastico: la fattoria isolata raggiunta nel cuore di una notte di neve, con la famiglia uscita da un’illustrazione medioevale che si raccoglie attorno alla tavola per guardare il viandante misterioso scongelarsi e ristorarsi; il pranzo in casa del borghese filonazista, ignorante e grossolano, che ha ricavato un portasigari da una Divina Commedia svuotata; le giornate di sosta trascorse nella dimora dei von Liphart-Ratshoff, discorrendo di libri e ascoltando il monologo di Marco Antonio recitato in quattro lingue. In tutte queste esperienze Patrick entra con occhi pieni di stupore, di curiosità e di gratitudine, e nel raccontarle si riserva la parte di Alice nel paese delle meraviglie. Ma proprio quel che non dice ci lascia intuire degli interlocutori intrigati da un ragazzotto così candido, così desideroso di imparare e al tempo stesso già così ricco di esperienze straordinarie e inusuali.

La riemersione nella realtà del suo tempo avviene soltanto nelle grandi città. A Monaco, ad esempio è colpito dagli effetti devastanti che l’eccesso di benessere e di birra produce nella classe borghese: le immagini che rimanda sembrano uscite dai disegni di Otto Dix o di George Grosz: “Il busto di questi crapuloni era largo come una botte. Lo spazio occupato dalle loro natiche sulle panche di quercia era di poco inferiore a un metro. Si diramavano ai lombi in cosce spesse come il busto di un ragazzo di dieci anni, e braccia di proporzioni analoghe parevano cuscini imbottiti … Mento e petto formavano un’unica colonna e ogni nuca, bella piena, si increspava nei suoi tre ingannevoli sorrisi”. A Salisburgo arriva nel bel mezzo della stagione sciistica, trova un sacco di inglesi e se la squaglia dopo una sola giornata.

Il cammino si snoda per tappe che vengono decise di giorno in giorno, a volte dagli incontri, a volte dal clima o dall’umore. Da Rotterdam muove verso Colonia, e poi su una chiatta fino a Coblenza, scivolando attraverso un panorama di castelli a picco sul fiume, di vigneti imbiancati, di guglie che spuntano da dietro le colline o in mezzo a foreste lontane. Il Natale lo trascorre a Bingen, forse per la prima volta nel calore materiale e spirituale di una vera famiglia; di lì passa a Magonza e si concede quindi una piacevole pausa a Stoccarda. Poi lascia il Reno per intravvedere una prima volta il Danubio ad Ulm. E via di questo passo: Augusta, Monaco, Salisburgo, Vienna, Praga, con in mezzo una miriade di borghi e cittadine che appaiono come visioni nel silenzio incantato della neve. La prima parte della narrazione si chiude qui, alle soglie dell’Ungheria, lasciandoci solo desiderosi di proseguire.

Insomma, davvero non si fa (e non ci fa) mancare nulla, il giovane Patrick. Ed è chiaro che del fascino di un libro come A time of Gifts non si può rendere neppur lontanamente l’idea. Per cui, leggetevelo: è stato tradotto in italiano da Adelphi, appunto come Tempo di regali, nel 2009. Ma sappiate che è solo il volume iniziale della trilogia del viaggio. Il secondo, Between the Woods and the Water, pubblicato nel 1986, è da tempo annunciato nella traduzione italiana, mentre il terzo non è mai stato portato a termine.

A time of Gifts è stato pubblicato solo nel 1977, a quaranta e più anni dallo svolgimento della vicenda, quando Leigh Fermor era già famoso come scrittore di viaggi, e non solo nel suo paese, da almeno venti (dalla pubblicazione di Mani, su cui torneremo). Il ritardo è dovuto ad un complesso di fattori, non ultimo la ricerca perfezionistica dell’autore, ma anche al fatto che la materia prima documentale era andata dispersa durante il conflitto, e ha potuto essere ricomposta successivamente, e solo in parte. Anche i taccuini del diario quotidiano del viaggio, infatti, hanno una storia rocambolesca. Quelli originali del primo tratto gli erano strati rubati a Monaco, assieme allo zaino: aveva dovuto ricostruire tutto affidandosi alla memoria durante le soste successive, ma è chiaro che molte sensazioni immediate sono andate perdute. Dopo l’arrivo a Costantinopoli Patrick, ormai ventenne, passa in Grecia, giusto in tempo, come abbiamo visto, per prendere parte ai combattimenti del ‘35. Di lì, dopo la restaurazione monarchica, va a vivere in Moldavia nel castello della pittrice Balasha Cantacuzene, una contessa conosciuta nell’ultima parte del viaggio, di sedici anni più anziana di lui, della quale si è innamorato. Quando nel ‘39 torna a Londra per arruolarsi lascia a lei i taccuini. Alla fine della guerra la Moldavia passa sotto il regime comunista, e Balasha viene sfrattata senza tanti complimenti dal suo castello, ma porta con sé i taccuini. Tuttavia non può uscire dal paese, né Patrick può entrarvi: quindi i diari torneranno in possesso di quest’ultimo solo diversi anni dopo.

Uno che ha vissuto con questa intensità il suo primo quarto di secolo, e ne ha davanti quasi altri tre, incontra indubbiamente qualche difficoltà a riempirli di altrettanta sostanza. Leigh Fermor lo fa dedicandosi appieno alle quattro cose che più ama: i libri (leggerli e scriverli), la Grecia, i viaggi e le donne. Partiamo da queste ultime. Il suo connazionale Somerseth Maugham, dopo averlo conosciuto ed esserne rimasto poco impressionato, lo definì “Un gigolò di mezza età per donne dell’upper class”. Va detto che Maugham era particolarmente acido, ma è anche vero che Patrick non ebbe mai problemi ad avvalersi dell’innegabile fascino che esercitava sulle donne, in particolare su quelle più mature (come già si era potuto constatare nella vicenda che portò all’espulsione); e in più di un’occasione, a partire dalla convivenza con la pittrice romena, la sua effettiva situazione era quella di un mantenuto.

Ora, sarebbe da stabilire prima di tutto, in linea di principio, se questa è una condizione disonorevole, e se si, perché lo è particolarmente per i maschi; ma nel caso di Leigh Fermor direi comunque che Maugham si sbagliava, perché tutto dipende da come la vivi, quella situazione. Patrick, da parte sua, non si sentiva affatto un gigolò: era un eccentrico, ma i suoi rapporti erano chiari, e lo fu anche quello quarantennale con Joan Monsell, che solo all’ultimo sarebbe diventata sua moglie e che per alcuni periodi provvide ad entrambi. Se si sta assieme si condivide quello che c’è: da ciascuno secondo le sue possibilità (e quando fu il suo turno rispettò il patto). In compenso stava decisamente stretto nei legami, e si sentiva libero di abbandonarsi ai suoi subitanei, molteplici e in genere poco duraturi innamoramenti. Era un gran bel ragazzo, come ci dicono le fotografie giovanili, e mantenne il suo fascino anche nella maturità: le donne gli piacevano, ma la sua scelta di una vita appartata, in un angolo sperduto del Peloponneso, non combacia affatto con l’immagine di un vanesio sciupafemmine. Io ci vedrei invece, tra le altre motivazioni, l’atto di volontà di chi, conoscendo bene se stesso e riconoscendo le proprie debolezze, si impone di non soccombere e di non buttare l’esistenza a rincorrerle. Magari concedendo ogni tanto alla volontà una vacanza.

Quanto ai viaggi, Leigh Fermor in effetti viaggia parecchio e preferibilmente a piedi, da un certo periodo in poi con la futura moglie Joan che gli trotterella dietro; ma non diventa uno scrittore di viaggio “professionista”, anche se oggi viene visto come l’erede di Robert Byron e l’ispiratore di Bruce Chatwin. La continuità tra i due la traccia piuttosto sul piano della ricerca stilistica che su quello del senso del viaggio. Con il secondo poi nasce una strana consonanza, strana proprio perché i due sono molto simili, non solo per la capacità di legare insieme e approfondire temi diversi, per la sensibilità artistica e per la solida cultura umanistica che hanno alle spalle, ma per il loro assoluto egocentrismo, che li rende a volte logorroici e tendenti sempre al protagonismo. Come Maugham aveva stroncato Leigh Fermor, Wilfred Thiesigher, l’altro grande viaggiatore ed esploratore, col quale invece Fermor ha pochissimo in comune, dirà di Chatwin: “parlò per tutto il pranzo e tutta la cena, dopodiché continuò a parlare seduto fuori dalla mia camera da letto, tenendomi sveglio, mentre io speravo che se ne andasse a letto” Avrebbe potuto benissimo dirlo di Leigh Fermor, se lo avesse frequentato.

Viaggia, ma non con l’urgenza di vedere tutto: preferisce vedere bene, e andare oltre le prime immagini e impressioni, scendere in profondità. A testimonianza del fatto che non è un superficiale scrive con parsimonia. Dei suoi lunghi viaggi nel Sudamerica, intrapresi subito dopo la guerra, lascia solo due resoconti: The Traveller’s Tree, del 1950, tradotto in italiano come “L’albero del viaggiatore: viaggio alle isole dei Caraibi”, e Three Letters from the Andes, apparso quarant’anni dopo (1991), oltre a un romanzo ambientato alle Antille (The Violins of Saint-Jacques, del 1953).

Leigh Fermor non è uno scrittore pigro: semplicemente non è mai del tutto soddisfatto del risultato, e ha quindi grossi problemi a pubblicare. Lo dimostra il mancato completamento della terza parte dei diari di Costantinopoli (ma qui c’entra forse il troppo tempo trascorso, la difficoltà di ricostruire i ricordi e, soprattutto, la distanza che ormai separa la nostra epoca da quel mondo). Eppure Mani. Travels in Southern Greece, pubblicato nel 1957 (è stato tradotto in italiano, nel 2006, da Adelphi: Mani. Viaggi nel Peloponneso), il libro che consacra la sua fama di scrittore e che fa scrivere a qualcuno che Leigh Fermor è “il più raffinato scrittore inglese del XX secolo”, oltre che “il più grande narratore inglese di viaggi”, è perfetto. In realtà Mani stenta ad essere contenuto negli schemi della letteratura odeporica. Quello che viene percorso a piedi e descritto è un mondo visto ma soprattutto intuito, ricostruito, dissepolto. Lo spirito col quale il viaggio viene intrapreso è lo stesso che, almeno nella ricostruzione a posteriori, informa il cammino per Costantinopoli: “Tra gli urti della Coca-Cola e della Cortina di Ferro, molto di prezioso e di venerabile, molte vive testimonianze del passato della Grecia vengono ridotte in polvere. Penso che valga la pena di osservare e registrare alcuni di questi aspetti meno famosi prima che il processo sia compiuto. … Mi è parso perciò opportuno attaccare il paese in certi punti prescelti e penetrare, per quanto ne ero capace, in profondità. Queste private invasioni della Grecia si indirizzano quindi alle regioni meno frequentate, spesso di più difficile accesso e di scarsa attrattiva per la maggioranza dei viaggiatori; perché è là che si trova ciò di cui io sono in cerca”.

Il Mani è la penisola centrale del Peloponneso, la più meridionale e la più isolata, un lungo promontorio montuoso che penetra nell’Egeo tra il golfo di Kalamata e il golfo di Lakonia. Le coste scoscese da un lato e l’asprezza del monte Taigeto dall’altro lo hanno reso pressoché inaccessibile tanto ai conquistatori quanto alle contaminazioni culturali con l’esterno. La vita delle sue popolazioni è rimasta inalterata nei secoli, anzi, nei millenni. «Fino al 1830 e oltre non c’era nel Mani una sola scuola e la regione è senza dubbio la più arretrata della Grecia. Donde la quasi totale assenza di letteratura e cultura. Le cupe tradizioni locali si sono mantenute incontrastate per secoli. A parte la generale concentrazione sulla vendetta e sulla morte, di queste tradizioni ci sono altre osservanze sintomatiche. La nascita di un figlio è sempre stata salutata con grande esultanza (“un altro fucile per la famiglia”) […] Per le femmine tutto il contrario. Niente doni, niente esultanza; le femmine servivano solo a procreare “fucili”, a faticare e a cantare lamenti funebri».

Il Mani è un mondo a parte, un’Arcadia selvaggia e violenta, decisamente maschilista. Ma anche il luogo dove è possibile respirare la purezza dei rapporti originari: “Molte cose in Grecia sono rimaste immutate dai tempi dell’Odissea, e forse la più notevole è l’ospitalità verso gli stranieri: più una regione è remota e montuosa, minore è il cambiamento a questo riguardo. […] Non esiste una descrizione migliore del soggiorno di uno straniero presso la dimora di un pastore greco di quella di Ulisse quando entra travestito nella casa del porcaio Eumeo ad Itaca. C’è ancora la stessa accettazione senza domande, l’attenzione ai bisogni dello straniero prima ancora di saperne il nome”. Non meraviglia che Leigh Fermor se ne sia innamorato, al punto da stabilirvi nella maturità la propria dimora; così come è stato affascinato anche da un’altra parte della Grecia, la zona montagnosa centrale nota anche con il nome di Rumeli, sovrastata dal Pindo e bagnata sia dall’Egeo che dallo Ionio, raccontata in Roumeli, del 1966 (non tradotto in italiano).

La produzione letteraria di Leigh Fermor è tutta qui: per uno vissuto novantaquattro anni non è molto. È giusto sufficiente ad assicurargli la fama, ma non sempre la pagnotta. E dal momento che Patrick non svolgeva altre attività, si capisce anche il perché ogni tanto abbia dovuto ricorrere ai “prestiti” delle sue compagne. Il fatto è che Fermor, prima ancora che raccontare la vita, amava vivere, e vivere alla sua maniera, sempre un po’ sopra le righe, ma sempre svincolato da obblighi di immagine pubblica. A settant’anni, ad esempio, attraversa a nuoto il Bosforo, ripetendo l’impresa di Byron (George, questa volta – che però l’aveva compiuta a venti): lo fa per avere una conferma dal suo fisico, non certo per aggiungere un tassello alla leggenda. Che non gli spiace, chiaramente, ma della quale non vuole essere schiavo.

A partire dagli anni cinquanta comincia a risiedere quasi stabilmente in Grecia, proprio ai margini del Mani, dove poco alla volta, coadiuvato da Joan, si costruisce con le proprie mani una casa in una piccola baia. Rientra in patria sempre più raramente; quando c’è non disdegna la frequentazione dell’ambiente aristocratico o delle vecchie biblioteche delle dimore nobiliari, e magari neppure le onorificenze: ma appena può se ne viene via, e cerca rifugio negli antichi monasteri e nei vagabondaggi. È affascinato dalle lingue (ne conosce una decina), dalle tradizioni, dall’idea che comuni origini remote possano ancora unificare gli europei al di là delle barriere nazionali. Il suo ideale rimane sempre quell’impero austro-ungarico del quale aveva potuto vedere e respirare le ultime vestigia durante il viaggio per Costantinopoli.

Un altro originale come lui, il politologo e saggista Christopher Hitchens, ha scritto che “finché Fermor sarà letto e ricordato, l’ideale di eroe sarà un ideale vivo”.

Ma esistono, gli eroi? Kipling (ma non sono sicuro fosse proprio lui) disse una volta che ci voleva più coraggio ad entrare in fabbrica ogni mattina per trent’anni che ad affrontare trenta afgani inferociti. Aggiungerei che per molti, per tutti coloro che convivono con situazioni proprie o familiari pesantissime, è già un atto eroico alzarsi ogni mattina. Il mondo è in effetti pieno di eroi sconosciuti, che anziché essere celebrati sono dati per scontati, e a volta addirittura infastidiscono perché creano interrogativi alla nostra coscienza. Ma anche volendo rimanere ad un livello meno generico, è altrettanto sconosciuta, e a volte addirittura volutamente dimenticata, la maggior parte di coloro che hanno saputo rispondere con coraggio a qualsiasi forma di oppressione e prevaricazione, e hanno pagato con la vita la scelta di non piegarsi. Quanti, non solo tra i nostri ragazzi, ma persino tra i loro insegnanti, conoscono la vicenda di Eric Musham o di altri oppositori tedeschi al nazismo, o sanno che in vent’anni in Russia furono fucilati centotrentamila preti ortodossi, i due terzi del clero, rei di non aver abiurato, o hanno sentito parlare di Camillo Berneri? E cito a caso, perché a voler computare coloro che coscientemente hanno rifiutato il baratto tra la dignità e la vita si stilerebbero elenchi sterminati.

Il fatto è che quando si guarda al corso cruento della storia (“la storia è una tabella di massacri”, scriveva Gunther Anders) è comunque difficile ricondurre quel sangue a specifici individui, quelle sofferenze a persone distinte: forse perché è troppo, ma forse anche perché, come dicevo, il confronto con le singole figure ci pone delle domande imbarazzanti. Eppure dovrebbero essere proprio queste a infonderci speranza, ad alimentare in noi la volontà di non subire passivamente, trincerandoci dietro la nostra debolezza e insignificanza, a ricordarci che se siamo qui ora, nella possibilità di parlare di queste cose, è perché qualcuno ha avuto il coraggio di dire no.

Raccontare un personaggio come Leigh Fermor potrebbe sembrare quindi una scelta incoerente, l’accettazione di un’immagine retorica e romanzesca dell’eroismo: quella, per intenderci, che non piace a Brecht quando definisce “beato” il paese che non ha bisogno di eroi. In realtà sono perfettamente d’accordo con lui, ma solo perché intende qualcosa di molto diverso da ciò di cui parlo io: un conto è infatti l’auspicio di non averne bisogno, cioè di non vivere in quelle condizioni che di norma gli eroi li creano, un altro conto il ritenere non opportuno educare i giovani a comportarsi come tali. Il che, naturalmente, non vuol dire accendere in loro l’anelito al martirio, ma semplicemente abituarli a rispettare se stessi, e in automatico gli altri, e ad esigere di essere rispettati.

Piuttosto, la scelta potrebbe apparire incoerente per uno che da sempre patisce la “sindrome di San Francesco”, il fatto cioè che ci sia gente che può permettersi di fare delle scelte, e viene celebrata quando le fa in una direzione “eroica”, ed altra, molta di più, che le scelte nella stessa direzione se le trova imposte, le subisce e non si vede riconosciuto nulla. Io penso invece che anche il coltivare la memoria di un Leigh Fermor abbia un senso, soprattutto in un’epoca nella quale eroi e miti tendono ad essere quelli dei campi di calcio o televisivi, che davvero con qualsiasi forma di eroismo, comunque la si voglia mettere, hanno nulla da spartire.

Cosa rappresenta dunque Leigh Fermor, che valga la pena di salvare e di trasmettere? Intanto la voglia di vivere una vita della quale, se pur non si può scrivere la sceneggiatura, senz’altro si scelga il soggetto. Il poterlo fare, come abbiamo visto, dipende da una fortunata combinazione di nascita e di condizione fisica. Ma il farlo, e il farlo in un certo modo, dipende invece da un atto di volontà e dagli strumenti dei quali ci si è dotati. Intendo dire che nel fatidico 1933 i diciottenni in condizioni economiche e sociali simili a quelle di Fermor sono probabilmente migliaia, ma solo lui arriva ad immaginare e a compiere un viaggio a piedi sino a Costantinopoli: e sarà lui a guidare il colpo di mano a Creta, perché si è dato la preparazione militare e linguistica per farlo, e ha il coraggio di farlo. Fatta la tara alle favorevoli condizioni di partenza, tutto il resto dipende poi dalle sue scelte. E le sue scelte, per quanto snobistiche, sono frutto di un particolare coraggio. Non solo. Sono frutto anche di una particolare sensibilità culturale, la stessa che lo porta a lasciare incompiuta la trilogia quando subentra in lui il timore di scadere, dalla testimonianza-documento di un’epoca e di un mondo, nel rimpianto senile.

Ho sentito la voglia di raccontarlo quindi per quattro ragioni, e direi che ce n’è d’avanzo: perché era un uomo coraggioso, perché era un intellettuale raffinato, perché era un grande camminatore e perché era uno snob quale solo gli inglesi sanno esserlo. Fermor appartiene alla dinastia dei Byron, George ma soprattutto Robert, quello de La via per l’Oxiana, e risalendo più in su ancora, del bucaniere Dampier, e allungando indietro lo sguardo, dei cavalieri della Tavola Rotonda. E anche di Orwell o di Auden, pronti a combattere per quella che ritengono la causa giusta, e a fermarsi appena hanno l’impressione che tanto giusta non sia, o che comunque non sia più la loro causa. Individualisti, per nulla disposti a sacrificare la loro autonomia di pensiero agli interessi di un’idea che, nel momento in cui non garantisce la massima libertà individuale, non riesce più accettabile.

Ecco, credo che stia lì la radice di tutto: crescendo nella lettura di Malory fin da ragazzino, in quella dei classici nell’adolescenza (ed è da notare che per gli inglesi i classici per eccellenza sono i greci, e non i latini, e l’autore classico più popolare e letto in assoluto è Plutarco. Col risultato che gli studenti italiani conoscono soprattutto Cicerone e Seneca, e per essi la classicità rimanda paradossalmente all’esistenza di uno stato, o comunque di una ragione esterna superiore, alla quale poi in realtà non credono perché se ne sentono vittime, e non protagonisti: mentre al contrario gli inglesi hanno il senso dello stato proprio perché esso sembra esistere apposta per garantire in primo luogo la loro libertà) e con i libri dei viaggiatori e degli esploratori, o comunque di gente che ha girato il mondo in lungo e in largo nella giovinezza (si pensi a Stevenson, a Kipling, a Conrad), se uno poco poco è permeabile si imbeve di un’idea della vita tutta particolare. Quella del mondo viene di conseguenza, ma direi che nella prospettiva inglese è secondaria. Mentre noi ci trinceriamo dietro il Fato, e ci arrendiamo senza troppe resistenze al condizionamento delle contingenze esterne, gli inglesi sono persuasi di poterle tranquillamente governare. Questo spiega perché la nostra letteratura veda come protagonisti di norma degli antieroi, inetti, sconfitti o annoiati, e perché il personaggio letterario che forse meglio rispecchia il nostro sentire sia Don Abbondio, mentre già un secolo prima gli anglosassoni si identificavano in Robinson Crusoe.

Dunque, la prima ragione è in verità che Leigh Fermor era un uomo libero, e questo lo iscrive di diritto nella galleria dei personaggi che vorrei contribuire a tenere in vita. In quanto libero, e intendo libero “dentro”, era di conseguenza coraggioso: al limite della temerarietà, ma non dell’incoscienza. Questo non perché dovesse provare a se stesso, o agli altri, il proprio coraggio: semplicemente, si divertiva. È un atteggiamento che non appartiene alla nostra cultura mediterranea, a dispetto della “solarità” che accampiamo e che gli stessi nordici ci attribuiscono. Noi crediamo di essere allegri, invece siamo solo poco seri e melodrammatici. Recitiamo costantemente una parte della quale non siamo convinti: e nemmeno sappiamo giocare lealmente. Gli inglesi in fondo chiamano “grande gioco” tutta la complicata vicenda che li vede contrapposti ai russi nel Medio Oriente nella seconda metà dell’ottocento. E sono coloro che hanno inventato il concetto moderno di sport, da non confondere con quello postmoderno di industria dello sport. In sostanza, per loro la vita è una cosa seria, e appunto per questo va valorizzata: ma è anche una cosa molto breve, e appunto per questo va presa con il giusto distacco – l’ironia – e con divertimento. Il divertimento nasce solo dal gioco leale, dal concordare delle regole e poi rispettarle. Quindi, gli inglesi prendono la vita come un gioco, e qui sta il loro snobismo, ma sono seri nel gioco, e qui sta la loro forza. (Non sto tessendo il panegirico dello stile britannico, anche se di fatto risulta tale: negli intenti è un panegirico di quello stile che vorrei permeasse qualsiasi atteggiamento esistenziale. Che, chiaramente, non appartiene solo agli inglesi: ma mentre inglesi lo apprezzano, dalle nostre parti – si veda il caso di Berneri – sembra addirittura dare fastidio).

Questo vale anche nei confronti della cultura. Fermor è un autodidatta, ma è anche un intellettuale raffinato, che ama il mondo classico, si crea (viaggiando, prima ancora che studiando) le basi per una profonda competenza artistica e vivifica quest’ultima con uno spirito critico ed intuitivo eccezionale. Non ha quindi remore a spaziare dall’architettura prebarocca tedesca all’arte bizantina, offrendone letture originali e talvolta spiazzanti (è ad esempio intrigante la “formula del lanzichenecco”, con la quale interpreta le costruzioni germaniche cinquecentesche). Ho scovato un’osservazione (negativa, ma al contempo illuminante) di Luciano Canfora a tale proposito (Leigh Fermor era caduto in trappola!), che contesta al viaggiatore inglese di aver peccato, almeno in una occasione, di una troppo affrettata e imprecisa attribuzione. Probabilmente, anzi, conoscendo Canfora, sicuramente il rilievo è fondato; ma non tiene conto del fatto che quella che può apparire solo eccessiva disinvoltura è in realtà coraggio intellettuale, capacità di mettersi in gioco, di azzardare interpretazioni che potranno magari essere confutate, ma che per intanto sollecitano l’interesse e la voglia di approfondimento. Leigh Fermor non si lancia senza paracadute e non fa divulgazione all’ingrosso, ma incuriosisce anche chi all’arte bizantina o all’architettura germanica prebarocca non aveva mai dedicato uno sguardo. Soprattutto, si approssima all’arte e più in generale alle diverse culture di cui parla viaggiando a piedi: il che significa non intrattenere con esse un rapporto puramente libresco, ma immergersi in esse lentamente, traendone oltre alle nozioni e alle conoscenze, delle genuine emozioni. E queste il lettore le sente.

Del camminatore ho già detto. Non è il camminatore classico, non è Thoreau e neppure Seume o Dolomieu. In tutto il racconto di Tempo di regali non c’è una indicazione chilometrica: Fermor non copre delle distanze, percorre degli itinerari, fisici ma anche mentali. Tra una tappa e l’altra non fa mai conti, e questo lo porta più d’una volta a trovarsi in piena notte lontano da qualsiasi centro abitato. Non si ferma quando ha raggiunto il chilometraggio prefissato ma quando è stanco morto, o in presenza di uno scorcio particolarmente suggestivo che gli comanda la sosta. Riempie appunto di profondità, e non di sola linearità, il suo cammino.

Quanto allo “snobismo”, per l’interpretazione che ne do io penso sia sufficiente una frase (dalla prefazione a Mani), che riassume così l’avventura di Creta e tutto ciò per cui Hitchens lo identifica con l’ideale di eroe: “La guerra non interruppe i miei viaggi, anche se ne modificò temporaneamente l’ambito e lo scopo”.

Io credo che gli eroi esistano, e ritengo che anche Leigh Fermor possa essere ascritto alla categoria, sia pure nella cerchia più esterna degli avventurieri; ma soprattutto sono convinto che in un’epoca di cialtroni come la nostra quella frase, che mi piacerebbe incisa sulla sua lapide, debba essere assunta a motto da chi davvero vuol percorrere con stile (che poi altro non è che dignità) il sentiero della vita.

 

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Passeggiate nei boschi narrativi

Il viaggio e l’escursione nella letteratura e nella saggistica per ragazzi (di tutte le età …)

di Fabrizio Rinaldi e Paolo Repetto, 30 maggio 1997

Passeggiate nei boschi narrativi copertinaGli itinerari suggeriti in questa rassegna sono frutto di scelte molto personali, in qualche modo arbitrarie, ma anche di un preciso intento: quello di proporre solo cose che in tempi diversi hanno alimentato e soddisfatto le nostre curiosità e la nostra passione. Sono indicazioni di lettura sul tema del viaggio, e segnatamente sul “camminare” e sullo stretto legame che in­tercorre tra il camminante e l’ambiente che lo circonda. Sono rivolti tanto ai fanciulli di ogni età, quelli anagrafici e quelli che hanno comunque conservati intatti il piacere di viaggiare con la fan­tasia – quando non possono fare altrimenti -, la curiosità genuina per gli altri e per l’altrove e soprattutto la capacità di sognare e di stupirsi in proprio.
A questi Peter Pan (che sono – siamo – molti più di quanto non si creda) le prime rotte per l’isola che non c’è sono state tracciate da Verne e da Salgari, da Tommy River e da Corto Maltese: e queste rimangono ancora oggi rotte piacevolissime da percorrersi. Noi vorremmo suggerirne anche qualche altra, non meno affascinante. Solo per indicare la direzione, s’intende: tolte le an­core, ciascuno è poi capitano di se stesso.

Simbolo mostra Ragazzo che cammina

Alla scoperta del mondo


Incanto di montagne maestose, di gole profonde come abissi, di picchi alti come campanili. Marco Polo, attonito, si imprime nel cuore quelle immagini e tanti anni dopo le ricorda lucidamente: “Vi dirò come sono queste montagne. Sono molto elevate sì che uno deve camminare da mattina a sera se vuol giungere al sommo. Ma, una volta arrivati, si trovano vasti pianori, dove abbondano erbe e le piante, dove le acque sorgive, copiose e purissime, si rovesciano come fiumi giù per dirupi”.

L’Autore ripercorre la storia delle esplorazioni con la competenza che gli è propria e che è frutto non solo di lungo studio e di profondo amore, ma anche di una concreta esperienza.
Dalla collaborazione dello studioso con l’esploratore è nata così un’opera ricchissima e complessa, che non si esaurisce in una esplorazione freddamente storica, ma di­viene un racconto reso vivo e vibrante dall’elemento geografico sempre presente, da brani di diario, da aneddoti che meglio servono a inquadrare figure e avvenimenti, e da un continuo fervore di partecipazione umana alla grande avventura, mai esaurita e conclusa.
Largo spazio è stato dato in queste pagine agli esploratori italiani, che hanno lasciato orme gloriose sulla via di tutti i continenti, senza tuttavia sminuire il valore e l’importanza delle imprese compiute dai grandi esploratori stranieri.
Silvio Zavatti, Alla scoperta del mondo – Storia delle esplorazioni, Mursia 1972

Il libro delle esplorazioniHumboldt sperimentò ampiamente sul suo corpo le difficoltà opposte dal fiume a tutti gli intrusi. La piaga delle zanzare, dei tafani, dei “piumes” e di altri insetti succhia­tori di sangue era intollerabile perfino agli indiani; gli esploratori soffrivano per gli incessanti rovesci di pioggia e la fame li tormentava – il loro nutrimento consisteva in banane, manioca, acqua e talvolta un po’ di riso. […]
Nonostante tutto, Humboldt potè scrivere: “Sono penetrato nell’interno fino alle sor­genti dell’Orinoco … Di oltre cinquanta luoghi ho determinato la latitudine e la lon­gitudine, ho osservato molte comparse e scomparse di pianeti e farò un’esatta carta di questo immenso paese, abitato da più di duecento popolazioni indiane, la maggior parte delle quali non ha veduto ancor mai un uomo bianco; esse parlano lingue di­verse e posseggono culture diverse”.

Questo libro non è un’apologia di eroi.
Avrebbe potuto esserlo facilmente, perché ben di rado una così piccola schiera di uomini ha tanto contribuito alla trasformazione del mondo quanto i navigatori, i con­quistatori e gli esploratori europei dell’epoca delle scoperte. Furono così arditi – o temerari – da spingersi sino ai confini del mondo ed oltre.
Questo libro tenta di descrivere gli avvenimenti come realmente si svolsero, con i loro moventi e atti grandiosi, vili o fortuiti, con la temerarietà, energia, mancanza di scrupoli, abilità e dedizione che resero possibile il successo, allargarono il mondo co­nosciuto e lo trasformarono.
Joachim G. Leithäusen, Il libro delle esplorazioni, Ed. Massimo 1963

L africa Esploratori nel continente neroSono andato con Sekeletu a vedere le cascate che qui chia­mano “Chongué” o “Mosi-oa-Tunya”. Aventi minuti di na­vigazione da Calai si scorgono grandi colonne di vapore. Il panorama è stupendo. Mi sono fatto lasciare in un’isola situata quasi in mezzo al gorgo d’acqua e da lì ho goduto dello spettacolo: il fiume, largo un chilometro, diventa im­provvisamente un’unica massa impetuosa che precipita lungo un abisso stretto appena venti metri. È il passaggio più avvincente che abbia mai contemplato in Africa. Ho dato a queste cascate il nome Vittoria. Dopo aver piantato nell’isola un centinaio di noccioli di pesca e di albicocca e una quarantina di chicchi di caffè, per dar vita a un giar­dino che un indigeno mi ha promesso di cingere con una siepe e di curare, ho inciso su un albero le mie iniziali e, sotto, la data: 1885.
DAVID LIVINGSTONE

All’inizio dell’Ottocento il cuore dell’Africa era ancora una “terra incognita”. Burton, Speke, Baker, Stanley, Livingstone, Brazzà, Miani, Kingsley: con le loro spedizioni, in pochi decenni, sono state scoperte le sorgenti del Nilo, esplorati i bacini del Congo e dello Zambesi, conquistati i Monti della Luna.
L’avventura dei grandi esploratori ha rivelato all’Europa le straordinarie ricchezze del continente nero, alimentando le sue mire imperialistiche. Quando inizia il nuovo secolo, tutta l’Africa è ormai sottomessa alla dominazione coloniale.
Anne Hugon, L’Africa – esploratori nel continente nero, Electa/Gallimard 1994

EsploratoriMarciamo sotto la pioggia, lungo il golfo, che forse ci offrirà qualche sorpresa. Esso, col prolungasi dentro terra, diventa sempre più enigmatico. È quasi impossibile vedere il chiaro specchio delle acque traverso le alte canne palustri delle rive. La speranza di saper qualche cosa sorge e svanisce ad ogni curva di questa landa di sabbia.

La seconda metà dell’Ottocento segna il culmine della penetrazione coloniale in Africa caratterizzata dalle grandi esplorazioni nell’interno della cosiddetta Africa nera. Il capitano Vittorio Bottego, partendo dalla Somalia, compie una serie di esplorazioni lungo il corso del Giuba, attraverso il deserto dell’Ogaden e, infine, alla ricerca delle misteriose sorgenti del fiume Omo nei territori del Kenia, del Sudan e dell’Etiopia. Di questa impresa viene tenuto un diario da parte di due membri della spedizione che riescono miracolosa­mente a trovare la via del ritorno mentre Bottego perisce.
Attraverso territori sconosciuti, che le carte geografiche di allora indicavano unica­mente con una vasta macchia bianca, Bottego, i suoi compagni e la sua carovana pro­cedono in mezzo a mille pericoli e insidie, aggrediti da tribù selvagge, tormentati dalla fame, stremati dalla sete, decimati dalle malattie, ma procedono fino alla meta.
 L. Vannutelli – C. Citerni, Esploratori. Alla ricerca delle sorgenti del fiume Omo, Tasco 1987

I devastatoriSono passati circa duecento anni da quando Carlo Linneo, do­cente all’Università svedese di Uppsala, ebbe a notare con disap­punto che, sebbene gli atti di eroismo compiuti dagli studiosi di botanica non fossero di alcun modo inferiori a quelli che avevano reso grandi “re, eroi e imperatori”, ad essi veniva negato un uguale riconoscimento di valore i immortalità. Sembra anche che aggiungesse, con la cupa seriosità tipica della sua razza: “Quale lavoro è più arduo, quale scienza più faticosa della botanica?”.

L’autore è riuscito a stipare in questo libro più di tre millenni di storia delle più avventurose spedizioni alla ricerca di piante e fiori sconosciuti. “Cacciatori di piante” disposti a tutto pur di raggiungere lo scopo di clas­sificare, identificare esseri vegetali.
 Tyler Whittle, I cacciatori di piante, Rizzoli 1980

 

I racconti del grande nordL’uomo che volge le spalle alle comodità di una civiltà più an­tica per affrontare la selvaggia giovinezza, la primordiale sem­plicità del Nord, potrebbe valutare la sua riuscita in ragione in­versa alla quantità ed alla qualità delle sue abitudini incurabil­mente consolidate. Scoprirà presto, se è la persona giusta, che le abitudini materiali sono le meno importanti. Il rinunciare a un menù raffinato per del cibo grossolano, a delle scarpe di cuoio rigido per dei mocassini morbidi e informi, ad un letto di piume per un giaciglio nella neve, è dopo tutto cosa abbastanza agevole. Ma avrà il suo da fare ad imparare in maniera adeguata a foggiare il proprio atteggiamento mentale verso tutte le cose, e in particolare verso gli altri uomini.

Fra l’estate del 1897 e l’autunno del ‘98 il ventiduenne Jack London visse la più grande avventura della sua vita, intraprendendo un lungo viaggio nel Grande Nord, al confine tra Canada e Alaska, raggiungendo le migliaia di disperati di ogni età e con­dizione partiti per la corsa all’oro nello Yukon. A quell’esperienza straordinaria sono ispirati questi racconti. Queste storie di sogni impossibili, di indiani, ragazzi, cerca­tori d’oro, uomini soli con se stessi nel momento della prova suprema, oltre la quale nulla può esistere, sono tra le più belle che London abbia mai scritto.
 Jack London, I racconti del Grande Nord e della corsa all’oro, Newton 1992

Derzu UzalaDersu camminava in silenzio e guardava tutto con indiffe­renza. Io mi entusiasmavo del paesaggio, lui invece esami­nava un ramo rotto all’altezza della mano di un uomo, e da come era stato piegato, capiva la direzione tenuta dall’uomo. Dalla rottura più o meno recente egli risaliva a quando il fatto era accaduto, indovinava il tipo di scarpe ecc. Ogni volta che io non capivo qualcosa o manifestavo qualche dubbio, mi diceva:
– Hm! Tu essere bambino. Così camminare, scuotere testa. Occhi avere, non vedere, non capire. Tu essere uomo che vivere in città. Non occorre cercare cervo; volere mangiare, comprare. Solo, tu non potere vivere su monti, morire pre­sto.

Dersu Uzala è un diario di viaggio scritto dal capitano Arsen’ev, esploratore e geo­grafo, durante una serie di viaggi nelle lontane e allora (siamo agli inizi del 1900) poco conosciute terre della Siberia.
Nella prima di queste spedizioni conosce e fa amicizia con uno strano personaggio, Dersu Uzala, un uomo senza casa, senza famiglia, che vive tutto l’anno nella tajga.
Si stabilisce subito una affettuosa amicizia fra Dersu e il capitano; quest’ultimo pro­pone al cacciatore di accompagnarlo lungo il viaggio. Dersu accetta, non finendo mai di stupire Arsen’ev per la sua abilità e soprattutto per la sua umanità, facendogli da maestro e da guida.
Fa da sfondo alle varie avventure la natura, selvaggia e pericolosa, ma tuttavia ricca di fascino, di bellezza, ed insieme il fascino dell’uomo che lotta con essa.
Vladimir K. Arsen’ev, Dersu Uzala – Il piccolo uomo delle grandi pianure, Mursia 1984

In cerca di guaiAvrebbe fatto un viaggio! Per me, che non mi ero mai al­lontanato da casa, la parola “viaggio” era quanto di più allettante si potesse immaginare. Presto si sarebbe tro­vato a centinaia di miglia da me, in mezzo a praterie e deserti sconfinati, e sulle montagne del Far West! Avrebbe visto i bisonti e gli indiani, e i cani della prate­ria, e le antilopi, e chissà quante avventure gli sarebbero capitate: lo avrebbero impiccato, magari, o scotennato, si sarebbe divertito un mondo e ce lo avrebbe scritto e sa­rebbe diventato un eroe.

Nel 1861 Mark Twain parte per il Far West al seguito del fratello Orion, nominato Segretario del Territorio del Ne­vada. Dopo ventun giorni di diligenza, in mezzo a pae­saggi stupefacenti popolati di pistoleri, mormoni, pony express, indiani ante-beatificazione e resti di carovane, diventa milionario per una settimana e approda infine, per fame, a quelle corrispon­denze per i giornali che gli daranno la celebrità. Questa è, in grezza telegrafia da terre di frontiere, la materia di In cerca di guai. Come sempre candido e scaltro, trasci­nante umorista e infiammato fustigatore, Mark Twain irride ogni cosa, dal governo centrale ai coyote, e ci offre una sequenza di settantanove capitoli che sono ciascuno un piccolo romanzo, con la prodigalità di un giocatore di roulette che per la prima volta è uscito dalla bisca senza farsi ripulire. Ogni capitolo è una chiacchierata in­torno al fuoco – e la somma di queste chiacchiere è un’epopea. Twain ride per so­pravvivere, e far sopravvivere, in mezzo agli orrori e allo splendore del West. E alla fine ci consegna uno di quei rari libri che divertono in qualsiasi punto li si apra – e dove ancora circola, pungente, il profumo selvatico dell’America.
Mark Twain, In cerca di guai, Adelphi 1993

LatinoamericaEra un mattino di ottobre. Ero andato a Córdoba approfit­tando delle vacanze del 17. Sotto il pergolato della casa di Al­berto Granado bevevamo mate zuccherato commentando tutte le ultime traversie della “porca vita”, e intanto ci dedicavamo alla manutenzione della Poderosa II. […]   Sui sentieri dell’immaginazione arrivammo a remoti paesi, na­vigando per mari tropicali e visitammo tutta l’Asia. E all’improvviso, materializzata dai nostri sogni, sorse la do­manda: e se ce andassimo in Nordamerica?
“In Nordamerica? E come?”
“Con la Poderosa, che diamine!”
Così venne deciso il viaggio, che in ogni momento si sarebbe attenuto alla linea generale su cui era stato progettato: l’improvvisazione. […] Ogni altro problema che non riguardasse la nostra impresa ci sfuggiva in quel momento, vedevamo solo la polvere della strada e noi sulla moto a divorare chilometri nella fuga verso Nord.

La vita di Ernesto Che Guevara e la sua esperienza politico-rivoluzionaria sono note a tutti. Meno nota, forse, è la sua giovinezza, di cui, qui, presentiamo un fondamentale capitolo.
Il diario del Che è il resoconto dettagliato di migliaia di chilometri, dall’Argentina al Venezuela, del viaggio in moto compiuto con il suo amico e compagno di studi Al­berto Granado. Avventure e emozioni inframmezzate da infinite riflessioni sui mille aspetti dell’America, la miseria degli indios, l’emozione di vedere l’oceano … e dai suoi ventitré anni, con la voglia di organizzare uno scherzo, innamorarsi e corteggiare le ragazze, mentre la moto perde pezzi per strada, provocando cadute tragicomiche.
Il diario di Alberto Granado – una collezione di aneddoti e situazioni divertenti de­scritti con la felicità di chi fa un viaggio sognato sin dalla più giovane età – è una te­stimonianza ulteriore sull’amico Ernesto: generoso, intelligente, corsaro, poco lo­quace, tormentato dall’asma eppure sempre entusiasta, in cerca dell’avventura e in­fiammato da quel desiderio di vivere e di conoscere che lo accompagnerà per tutta la sua breve esistenza.
Ernesto Che Guevara – Alberto Granado, Latinoamericana, Feltrinelli 1993

L anello di acque lucentiCapii quella volta che Mij significava per me assai più della maggior parte degli esseri umani di mia conoscenza, che avrei sofferto per la perdita della sua presenza fisica molto di più che per la loro, e non me ne vergognavo affatto.
Stanco di dare la caccia ai pescecani al largo delle isole Ebridi, Maxwell riceve una insolita offerta: una vecchia casa disabitata, un tempo a guardia di un faro, nelle West Highlands: Camu­sfeàrna, la Baia degli ontani. Il suo desiderio di un rapporto di­retto con la natura, non stravolto dalla “civiltà” urbana si realiz­zerà pienamente in questo angolo della Scozia. In questo mondo di scogli e di mare, persone, cose e animali parlano con lui – e col lettore di queste pagine percorse da una profonda sensibilità e da una sottile ironia – il linguaggio del rispetto reciproco, ignorando le sopraffazioni meschine di cui vive la società d’oggi.
Durante un viaggio in Iraq, presso i semisconosciuti arabi delle paludi, Maxwell ac­quista un irresistibile cucciolo di lontra – di una specie, fra l’altro, ancora ignota alla scienza. Da allora la sua esistenza muterà completamente per modellarsi su quella della sua lontra, e delle altre che la seguiranno. E questi animali giocherelloni e im­prevedibili, affettuosi e selvaggi sono i veri protagonisti del libro.
Gavin Maxwell, L’anello di acque lucenti, Rizzoli 1980

Uomini boschi e api2In uno slargo di bosco si sedette sotto un grosso abete bianco, riaccese la sua pipa e serenamente aspettò che ritornassero giù i cacciatori dalla montagna perché gli raccontassero. Nel frattempo ascoltava il bosco.

È il mondo di Rigoni Stern, i suoi inverni, con i segni rossi sulla neve del lepre ferito, le sue primavere, con le coturnici che cantano, e i prati che si riempiono del giallo del tarassaco e di sciami di api e la sua gente.
Mario Rigoni Stern, Uomini, boschi e api, Einaudi 1980

Il bosco degli urogalli

Era una sera di maggio del 1945, come questa. I due alberi c’erano ancora, e c’era la strada dove aveva tanto giocato, c’erano la corte con il cancello e i gradini di pietra; c’era an­cora il colore verde che aveva dato al cancello prima di partire […], sulla porta c’era anche la sedia dove il nonno fumava la pipa guardando i rondoni e la maniglia d’ottone che la madre lucidava con farina gialla e aceto.
Sentì chiamare, gridare, piangere tanta gente attorno a lui. Nella camera c’erano sempre i tre letti di ferro dove aveva dormito con i fratelli. Il suo posto vicino al muro, le lenzuola con su ricamate le iniziali della nonna, i cuscini di piuma con le fodere rosse. Non dormì, ascoltò la casa tutta la notte finché le rondini incomincia­rono a cantare sotto il portico. In tanti anni non le aveva mai sentite.
Partiva al mattino e ritornava alla sera, girava tutto il giorno per i boschi come avesse da cercare qualcosa, così per tanti giorni. Finché una sera il vecchio zio curvo e bianco lo invitò a vangare l’orto. Quando ebbero finito disse il vecchio: – Domani dobbiamo zappare le patate.

 Il bosco degli urogalli raccoglie storie di cacciatori, di animali selvatici, di cani, di montagne, in cui si respira un senso di spazi aperti, di paesaggi impervi, e soprattutto una calda presenza umana. Rigoni sa rendere la limpida immediatezza delle cose e delle giornate, e insieme ad essa un accento di virile fiducia nella vita. Queste pagine confermano “il dono della semplicità e di poesia che gli è proprio – ha scritto Geno Pampaloni -. Ritroviamo l’accento del sergente Rigoni là dove si narrano storie di caccia, il silenzio del bosco, i villaggi chiusi nell’inverno e il grato fuoco delle cucine e la limpida solitudine delle albe per i sentieri di montagna: quel paesaggio fraterno e familiare e forte come una presenza morale, la cui immagine antica e gentile egli ri­trovava tra i contadini di Russia, nelle povere isbe coperte di neve”.
Mario Rigoni Stern, Il bosco degli urogalli, Einaudi 1981

Storie naturaliIl cacciatore d’immagini
Salta dal letto di buon mattino, e parte soltanto se il suo spirito è chiaro, il suo cuore puro, il suo corpo leggero come un vestito d’estate. Non porta con sé alcuna provvista. Berrà l’aria fresca per la via, e respirerà gli odori salubri. Lascia a casa le armi e s’accontenta di aprire gli occhi. Gli occhi servono da reti, dove le immagini s’imprigionano da sé.
Coglie l’immagine dei grani ondeggianti, delle erbe mediche appetitose e dei prati orlati di ruscelli. Coglie al passaggio il volo d’un’allodola o d’un cardellino.


L’anitra immobile nello stagno, il salto di un pesce a pancia in su, una tacchina tronfia delle sue piume, cigni e farfalle, lucer­tole e lepri: questi e altri animali sono le “prede” di un singolare cacciatore d’immagini: lo scrittore francese Jules Renard.
Appassionato osservatore della natura quotidiana, in queste sue “Storie naturali” Re­nard raduna in uno zoo colorato e domestico gli animali incontrati durante le sue pas­seggiate tra cascine e aie, viottoli e stagni. Ne nasce un “album” unico: “le sue imma­gini – come osserva Italo Calvino nella sua presentazione – sono fantasiose ma sempre con un tono secco ed esatto: non c’è mai zucchero; alle volte un po’ d’amaro”.
Jules Renard, Storie naturali, Einaudi 1977

Mitologia degli alberiNell’antichità solo gli alberi degni di nota e indicati da un segno sovrannaturale diventavano oggetto di un culto, ma non per questo tutti gli altri non possedevano ognuno un’anima corrispondente alla sua particolare specie. A volte si trattava di un essere semidivino di cui la specie portava il nome e che si presumeva averle dato vita; il più delle volte era una ninfa che aveva subito una metamorfosi.

Di questi tempi si parla con insistenza sempre crescente della distruzione dei boschi e delle foreste del pianeta e dei suoi ef­fetti a lungo termine sull’insieme degli esseri viventi. Ma troppo spesso si dimentica che con gli alberi scompare anche un prezioso patrimonio dell’umanità. Perché è esistita un’epoca in cui le piante venivano considerate la manifesta­zione più immediata e concreta della divinità. Alle piante gli uomini si rivolgevano per chiedere protezione e conforto. Intorno ad esse fiorivano miti straordinari che toccavano i cuori e rasserenavano gli animi. E a ciascuna specie, a ogni albero veni­vano attribuite caratteristiche particolari, perché in ciascuno di essi il mistero della natura e quello del divino trovavano un diverso equilibrio.
Jacques Brosse ha ricostruito questo mondo perduto, raccogliendo racconti e tradi­zioni dall’immenso serbatoio delle mitologie egizia, semitica, cretese, indiana, greca, latina, germanica, celtica. Quella così compilata è dunque in primo luogo una piccola ma esauriente enciclopedia dei miti legati alle diverse specie: quercia, pino, frassino, betulla, noce, cipresso, fico, ulivo, melo, vite …
Jacques Brosse, Mitologia degli alberi, Rizzoli 1991

La mia famiglia e altri animaliA poco a poco la magia dell’isola ci avvolse gentile e persistente come un polline. Ogni giorno portava con sé una tale tranquil­lità, una tale durata fuori del tempo da far desiderare che non finisse mai. Ma poi la pelle scura della notte si sbucciava ed ecco un nuovo giorno davanti a noi, lustro e colorato come una decalcomania, e con lo stesso tocco di realtà.

“Questa è la storia dei cinque anni che ho trascorso da ragazzo, con la mia famiglia, nell’isola greca di Corfù. In origine doveva essere un resoconto blandamente nostalgico della storia naturale dell’isola, ma ho commesso il grave errore di infilare la mia fa­miglia nel primo capitolo del libro. Non appena si sono trovati sulla pagina non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno, e hanno persino invi­tato i vari amici a dividere i capitoli con loro”: così Gerald Durrell presenta questo li­bro, uno dei più universalmente amati che siano apparsi in Inghilterra negli ultimi trent’anni. Ma il lettore avrà il piacere di scoprirvi anche qualcos’altro: la storia di un Paradiso Terrestre, e di un ragazzo che vi scorrazza instancabilmente, curioso di sco­prire la vita (che per lui, futuro illustre zoologo, è soprattutto la natura e gli animali), passando anche attraverso avventure, tensioni, turbamenti, tutti però stemperati in una atmosfera di tale felicità che il lettore ne viene fin dalle prime pagine contagiato.
Gerard Durrell, La mia famiglia e altri animali, Adelphi 1991

Il leopardo delle neviDopo un attimo, sollevando lo sguardo, mi pose a sua volte un interrogativo non fa­cile. Mi disse che capiva come mai GS, essendo un biologo, avesse deciso di percor­rere centinaia di chilometri in alta montagna per raccogliere sull’altipiano del Tibet informazioni scientifiche. Ma perché mai ci andavo anch’io? Che cosa speravo di trovare? […]
Come avrei potuto dirgli che speravo di penetrare i segreti della montagna sulle tracce di qualcosa che tuttora ignoravo e che, come lo yeti, continuava a non essere visto proprio perché era l’oggetto di una ricerca?

Il leopardo delle nevi, il più bello e il più raro dei felini, vive sull’Himalaya ad al­tezze inaccessibili, non scende mai a valle e la sua stessa esistenza è avvolta in un alone di leggenda. È nella speranza di vederlo che Matthiessen ha compiuto due spe­dizioni scientifiche nella zona. Egli, colpito da questa figura apparentemente più sim­bolica che reale, si è addentrato nei misteri della spiritualità tibetana.
Peter Mathiessen, Il leopardo delle nevi, Frassinelli 1993

 

Il pollice del pandaMa la storia della vita, per come la interpreto io, è costituita da una serie di dati stabili, punteggiati a intervalli da grandi eventi che avven­gono con una grande rapidità e servono a realizzare il successivo pe­riodo di stabilità.

La natura fa salti, eccome. Il più brillante dei paleontologi ci prende per mano lungo i sentieri e le svolte dell’evoluzione. Si parla dell’intelligenza dei dinosauri, dell’uomo fossile, di Topolino …
Stephen Jay Gould, Il pollice del panda – Riflessioni sulla storia naturale, Ed. Riuniti 1993

 

Viaggio a ritrosoÈ quindi ora, al ritorno, che comincerà la loro vera escursione, poiché la fantasia sarà, d’ora in poi, la loro guida ed essi viaggeranno nei loro ricordi.

Nel 1859 Jules Verne ha trentuno anni e sogna di viaggiare. Gli viene offerta l’occasione di visitare, insieme ad un amico, l’Inghilterra e la Scozia. Partiti da Nantes per sbarcare a Liverpool, sono costretti a pas­sare per Bordeaux, da cui il viaggio “a ritroso”.
Jules Verne, Viaggio (a ritroso) in Inghilterra e Scozia, Biblioteca del Vascello 1990

CamminareLe armi con cui abbiamo conseguito le vittorie più gloriose, quelle che dovrebbero venir trasmesse in eredità di padre in fi­glio, non sono la spada e la lancia, ma l’accetta, la falce, la vanga e la zappa, arrugginite dal sangue di infinite praterie, e annerite dalla polvere di infiniti campi che solo con la dura lotta poterono coltivare.

Camminare è il testo di una conferenza tenuta da Henry David Thoreau per la prima volta al Concord Lyceum il 23 aprile 1851; ben presto diventa il suo testo più noto e preferito e lo legge più volte, negli anni successivi, ampliandolo progressi­vamente. In esso, centrale è il simbolismo legato all’escursione come modello di vita: il quotidiano vagabondare nella natura costituisce una sorta di strategia di sopravvivenza sia reale che simbolica e l’anelito al movimento è nella sua essenza desiderio di liberazione dall’ansia e dal malessere avvertiti nel mondo.
Thoreau si fa così portavoce di un paradosso: il successo, l’assillante corsa al potere e alle prosperità materiali possono essere l’amara ricompensa di una sconfitta, mentre la vita in solitudine e in oscurità può offrire doni preziosi e insospettati.
Henry David Thoreau, Camminare, Mondadori 1991

Walden o Vita nei boschiMi ero ritirato qui, nel grande oceano della solitudine nel quale si vuotano i fiumi della società, ed ero tanto tanto lontano che, per la maggior parte – per ciò che riguardava le mie necessità – solo il sentimento più fine si depositava intorno a me.

Testimonianza di una scelta di vita compiuta al di fuori di ogni schema, Walden è l’affascinante resoconto, redatto in uno stile che sta tra il saggio e il diario, dei due anni di soggiorno solitario che Thoreau trascorse in una foresta del New England.  Da quest’opera – la più famosa fra quelle composte dallo scrittore americano – continuano ancor oggi a tratte ispirazione i pacifisti di ogni tendenza, i cultori d’ogni sorta di anticonformismo, gli alfieri dell’ecologia, della resistenza passiva, della disobbedienza civile, della non violenza.
Henry David Thoreau, Walden o Vita nei boschi, BIT 1995

Il monte analogoNella tradizione fiabesca la Montagna è il legame fra la Terra e il Cielo. La sua cima unica tocca il mondo dell’eternità e la sua base si ramifica in molteplici contrafforti nel mondo dei mortali. È la via per la quale l’uomo può elevarsi alla divinità e la divinità rivelarsi all’uomo.

Un gruppo di singolari ed esperti alpinisti, certi dell’esistenza, in qualche parte del globo, di una montagna la cui vetta è più alta di tutte le vette, decide un giorno di partire da Parigi per tentare di scoprirla e di darne la scalata. Dopo una navigazione “non eucli­dea”, a bordo di un’imbarcazione chiamata l’Impossibile, gli esploratori approdano nell’isola-continente del Monte Analogo, dove trovano una popolazione, dagli usi apparentemente stravaganti, che discende da uomini di tutti i tempi e che, come loro, vive ormai, soltanto, nella speranza di scalare la vetta. Un breve soggiorno nel villag­gio di Porto-delle-Scimmie, e il gruppo dei nostri alpinisti intraprende l’ascensione, arrivando in vista del campo base. A questo punto il racconto si interrompe: siamo soltanto all’inizio di un viaggio – che forse è sempre, continuamente, all’inizio – quando la morte coglie René Daumal, l’autore di questa storia, impedendogli di de­scrivere il seguito della scalata del monte simbolico che unisce la Terra e il Cielo.
René Daumal, Il Monte Analogo, Adelphi 1977

 

La terra di porporaTalvolta, seduto sulla cima del grande, solitario colle che dà nome alla città, fissavo per ore l’ampio paesaggio dell’entroterra, come se potessi distinguere, senza mai stancar­mene, tutto quanto si stendeva davanti ai miei occhi: le pianure, i fiumi, i boschi, le colline, le capanne dove mi ero fermato, e più di un amabile volto umano. Anche i visi che mi avevano mal­trattato o guardato con occhio malevolo mi apparivano ora sotto un aspetto bonario. Ma soprattutto pensavo al mio caro fiume, l’indimenticabile Yí, alla bianca casa ombrosa al margine della piccola città […].

La misteriosa pampa argentina è la terra di porpora: gli anni sono quelli della metà del secolo scorso all’incirca. La guerra ci­vile fermata: la vivono uomini indolenti e selvaggi. Fra essi si muove, pellegrino a cavallo, un bel giovane inglese, Richard Lamb.
L’autore è un inglese che viaggiò per le solitarie praterie della Plata, della Banda Orientale e della Patagonia: era un naturalista, e i suoi viaggi ebbero pretesti scienti­fici.
William Henry Hudson, La terra di porpora, Rizzoli 1975

Unmondo lontanoIo, bambino di appena sei anni ma già capace di andar di galoppo e senza cadere su un cavallo non sellato, invito il lettore, anche lui in groppa a un cavallo – sia pure immagi­nario – ad allontanarsi con me dalla casa per raggiungere, a una lega circa di distanza, qualche posto che sovrasti un poco la pianura circostante. Là giunti, seduti sui nostri ca­valli, potremo dominare un orizzonte più vasto di quello che contemplerebbe anche l’uomo più alto standocene semplice­mente in piedi […].

Un mondo lontano dipinge l’infanzia e l’adolescenza di Hud­son nella pampa argentina, luogo di appassionati e gioiosi incontri con innumerevoli esseri viventi – uccelli, serpenti, piante, fiori – con i quali il protagonista dialoga, felice di sco­prire ogni volta una nuova manifestazione di vita. Avventurieri, mendicanti, guerrieri, allevatori di cavalli, donne pallide e misteriose, gente perduta, adulti e coetanei ap­paiono e scompaiono dopo avere ogni volta manifestato al giovane protagonista un qualche aspetto della vita: l’amore, l’amicizia, la gelosia, l’odio, il sopruso, la delu­sione, il dolore, la morte.
William H. Hudson, Un mondo lontano, Adelphi 1993

La vita delle termitiIn una parola, la natura si è mostrata con lei – quasi come coll’uomo – ingiusta, malevola, ironica, fantastica, illogica o perfida. Ma come l’uomo e – almeno fino ad oggi – qualche volta meglio di lui essa a saputo trar partito dall’unico van­taggio che una matrigna obliosa, curiosa o semplicemente indifferente a voluto lasciarle: una piccola forza che non si vede, che, in lei, chiamiamo istinto e, in noi, chi sa perché, intelligenza.

Nel 1901 Maesterlinck scrive La vita delle api. La vita delle termiti è del 1926. Nei venticinque anni che corrono tra le due opere l’atteggiamento nei confronti della vita del poeta belga è profondamente mutato: “questo libro” scrive l’autore “ potrà essere accostato a La vita delle api: ma il colore e l’ambiente non sono gli stessi. È, in un certo senso, il giorno e la notte, l’alba e il cre­puscolo, il cielo e l’inferno. Da un lato … tutto è luce, primavera, estate, sole, pro­fumi, spazio, ali, azzurro, rugiada e felicità senza uguale tra le allegrezze della terra: dall’altro, tutto è tenebre, oppressione sotterranea, asprezza, avarizia sordida e gros­solana, atmosfera di carcere, di ergastolo, di sepolcro …”.
Maurice Maeterlinck, La vita delle termiti, Rizzoli 1980

I fiumi scendono a orienteL’acqua sommergeva il ponte delle nostre zattere, ed era bellis­simo essere di nuovo liberi, fendere le acque in tumulto, udire i tonfi delle nostre prue contro i grandi fogli si schiuma, e sentirci tutti, io, Jorge e i quattro indios, bagnati da capo a piedi.

A est delle Ande peruviane giace il Gran Pajonal, una sconfinata landa soffocata dalla giungla e solcata da una rete fittissima di fiumi. Leonard Clark è convinto che lì si nascondano le leggenda­rie Sette Città, di quel mitico El Dorado che sin dal XVI secolo gli esploratori cercarono invano.
Con un solo compagno, Clark si addentra nell’inferno verde e, dopo incredibili avventure, arriva finalmente alle città sepolte nella giungla, i cui avanzi testimoniano drammaticamente la dominazione spagnola.
Leonard Clark, I fiumi scendevano a Oriente, Vallardi 1985

I devastatoriNon conviene sapere la storia del detestabile verme per fargli guerra vantaggiosamente e sbarazzare il giardino da questa genìa?”
Tutti furono del parere giudizioso dello zio. Invece di schiac­ciare scioccamente la bestia, era molto meglio esaminarla, an­zitutto per sapere come è fatta, come vive e come s’introduce nel legno. Così si potrebbero, più tardi o arrestare i suoi guasti. Un nemico di cui si conoscono i mezzi d’azione è semivinto. Paolo prese dunque il bruco e lo mise nel cavo della sua mano.

C’è in questi dialoghi dello zio Paolo con i nipoti la semplice grazia degli antichi sillabari naturalistici, come pochi hanno sa­puto scrivere. C’è grazia e c’è fantasia: il libro comincia con una notte di vento, un lillà spezzato e delle lacrime, e di qui passa la descrizione della metamorfosi degli in­setti, compie un continuo cammino a ritroso: dal segno, dalla traccia lasciata dall’insetto che i bambini trovano nel giardino, all’insetto che i bambini trovano nel giardino, all’insetto stesso, che viene cercato, scovato, cacciato e infine descritto, con una narrazione sempre chiara e limpida, con i suoi momenti di invenzione, come quando l’autore per spiegare la moltiplicazione degli afidi, e la progressione alge­brica, narra la storia del dervis e del chicco di grano, e come nell’episodio del mag­giolino, che da occasione per i giochi dei ragazzi nel racconto dello zio Paolo assurge alle dimensioni mitiche di un calamitoso flagello.
J. Henri Fabre, I devastatori, Rizzoli 1984

 

PrateriaE ho anche iniziato a considerare le praterie, poco distanti dalla città in cui sono nato, la mia terra natale, e ho co­minciato ad amarle non perché attirano l’attenzione come i monti o la costa, ma perché la respingono sfidando la ca­pacità di mantenerla sveglia. […]
Qui sembra che l’aria non sia ancora mai stata usata.

Questo libro afferma con forza che oggi, nell’era in cui la televisione trasmette in diretta dagli angoli più remoti del mondo per spettatori che non abbandonano mai la poltrona, è ancora possibile viaggiare. Non solo, è possibile viag­giare con la curiosità dei grandi esploratori, con la loro in­genuità, con la stessa sete di scoperte, e quella speciale scrupolosità nello sguardo.
In Prateria l’autore concentra la sua attenzione su una pic­cola contea del Kansas, la Chase County, lavorando in profondità, quasi come un ar­cheologo, sulle infinite stratificazioni naturali e storiche che sfuggono all’occhio del turista frettoloso. La scelta del Kansas non è casuale: è un luogo apparentemente de­solato e monotono che “sfida la capacità di mantenere sveglia l’attenzione”, ideale per studiare “la terra e ciò che la plasma”. L’intento è scoprire il carattere originario di questa terra, iniziando col descrivere l’erba bluestem (alta più di tre metri), par­lando poi dell’importanza degli incendi per la rigenerazione della terra, e raccontando le alluvioni, il vento, la furia dei tornado, e rileggendo i racconti dei primi coloni, se­guendo le tracce degli indiani Kaw, facendo parlare allevatori e agricoltori, e colti­vando il sogno di un grande parco nazionale della prateria. Canto d’amore per la na­tura che, non solo in America, rischia di scomparire, Prateria è una grande “carta to­pografica di parole”, lo scenario di un’avventura che l’uomo può ancora vivere.
William Least Heat-Moon, Prateria, Einaudi 1994

L arte di andare a passeggioPer assolvere il compito di una passeggiata all’aperto non è necessario andare da soli, ma è ben possibile camminare ac­canto ad un compagno a noi concorde, insieme presi in un tranquillo colloquiare su temi generali della realtà umana, della letteratura, o su alcuni aspetti naturali che ci si offrano durante il percorso, senza che tutto ciò attenui in alcun modo gli effetti della natura sul nostro animo. Ma si deve pur dire che sarà bene, di tanto in tanto, passeggiare da solo, per colui il quale non desideri unicamente registrare impressioni esteriori, ma molto più percepisca l’incoercibile impulso di abbando­narsi al proprio genio e vivere solo con se stesso.
Il campo risveglia alla vista l’idea di una sollecita creatività umana e della conse­guente speranza di un futuro più o meno prossimo. Alla vista di un prato si ottiene, attraverso quella sua calma uniformità, il senso di una tranquilla imperturbabile e ferma contentezza. Un bosco sembra accoglierci nelle sue sacre ombre, perché noi vi si possa soggiornare lontano dai turbamenti dell’animo e della natura.

La passeggiata è attività che avvia il corpo ad un silenzioso collaborare con l’anima in quel momento seria e meditabonda. Il corpo, in attività ma senza disturbare, crea lo spazio, tutto mentale, per il dispiegarsi della catena del pensiero.
L’arte di andare a passeggio è un’istruzione gioiosa, con divagazioni e colti riferi­menti, su come ben condursi e proficuamente nella passeggiata, fragile esercizio etico-estetico.
Karl Gottlob Schelle, L’arte di andare a passeggio, Sellerio 1993

La salitaInizio d’estate, primissime ore del mattino: nel profondo delle Alpi, al punto di congiunzione fra due valli, su sedie verdi di metallo, davanti a un caffè ancora addormentato, sono sedute due figure che l’abbigliamento e l’attrezzatura rendono facil­mente riconoscibili come alpinisti (spessi abiti di lana e cap­pelli di feltro, sacchi da montagna, uno dei quali con la fune arrotolata sopra, lunghe piccozze e pesanti scarpe chiodate: la vicenda si svolge in uno dei primi decenni del secolo).

La prosa scarna ma pregnante di Hohl trasforma la descrizione di un’ascensione in montagna in una parabola sulla vita, con un susseguirsi di interrogativi e riflessioni fulminanti come afori­smi.
Protagonisti sono due giovani alpinisti e il ghiacciaio: uno scenario grandioso dalla cui descrizione minuziosa e al contempo lirica traspare l’immenso amore che Hohl stesso provò per la montagna.
In La salita quasi tutto appare estremo, non ultimo il rigore stilistico, perché la scrit­tura, diceva l’autore deve essere “più leggera di un pezzo di carta”.
Ludwig Hohl, La salita, Marcos y Marcos 1991

L uomo che piantava alberiQuando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole.

Durante una delle sue passeggiate in Provenza, Jean Giono ha incontrato una personalità indimenticabile: un pastore solitario e tranquillo, di po­che parole, con le pecore e il cane. Quest’uomo stava compiendo una grande azione, un’impresa che avrebbe cambiato la faccia della sua terra e la vita delle generazioni future.
Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi, Salani Ed. 1996

Le prolisse passeggiate mi ispirano mille pensieri fruttuosi, men­tre rinchiuso in casa avvizzirei e inaridirei miseramente. L’andare a spasso non è per me solo salutare, ma anche profitte­vole, non è solo bello ma anche utile. Una passeggiata mi stimola professionalmente, ma al contempo mi procura anche uno svago personale; mi consola, allieta e ristora, mi dà godimento, ma ha anche il vantaggio di spronarmi a nuove creazioni, perché mi of­fre numerose occasioni concrete, più o meno significative, che, tornato a casa, posso elaborare con impegno. Ogni passeggiata è piena di incontri, di cose che meritano d’esser viste, sentite. Di figure, di poesie viventi, di oggetti attraenti, di bellezze naturali brulica letteralmente, per solito, ogni piacevole passeggiata, sia pur breve. La cono­scenza della natura e del paese si schiude piena di deliziose lusinghe ai sensi e agli sguardi dell’attento passeggiatore, che beninteso deve andare in giro ad occhi non già abbassati, ma al contrario ben aperti e limpidi, se desidera che sorga in lui il bel sentimento, l’idea alta e nobile del passeggiatore.

La passeggiataLa passeggiata è uno dei testi più perfetti di Walser, il grande scrittore svizzero che ormai viene posto fra i massimi autori di lingua tedesca del nostro secolo. Ma La passeggiata ha anche un significato peculiare in rapporto a tutta l’opera di Walser: è in certo modo la metafora della sua scrittura nomade, perpetuamente dissociata e ab­bandonata agli incontri più incongrui, casuali, e sorprendenti, come lo è appunto ogni accanito passeggiatore – e tale Walser era -, che abbraccia amorosamente ogni parti­colare del circostante e insieme lo osserva da una invalicabile distanza, quella del so­litario, estraneo a ogni rapporto funzionale col mondo.
Robert Walser, La passeggiata, Adelphi 1993

Breviario per nomadiIl seguire un percorso dal principio alla fine dà una spe­ciale soddisfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come struttura narrativa) […]. La necessità di comprendere in un’immagine la dimensione del tempo in­sieme dal principio alla fine dà una speciale soddisfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come struttura narrativa) […]. La necessità di comprendere in un’immagine la dimensione del tempo insieme a quella dello spazio è all’origine della cartografia. Tempo come storia del passato […] tempo al futuro: come presenza di ostacoli che s’incrotreranno nel viaggio, e qui il tempo atmosferico si salda al tempo cronologico […]. La cartografia insomma, anche se statica, presuppone una idea narrativa, è concepita in funzione di un itinerario, è Odissea.
ITALO CALVINO

Soprattutto, non perdete la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, rag­giungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri mi­gliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata … ma stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati … Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene.
SØREN KIERKEEGAARD

Sono come un animale selvatico: mi faccio le mie piste […] non come l’antilope o la zebra né come il bufalo o altri animali da branco: di quelli che si soccorrono, af­frontano in massa le difficoltà per sopravvivere a ciò cui singolarmente soccombe­rebbero, e che tuttavia diventano singole prede e muoiono soli, ciascuno a suo tempo. Io faccio la mia pista privata […]. Forse dovrei dire che anch’io sopravvivo qui, ma conto su me sola; anche nei giorni in cui mi sembra che la terra sia piena di serpenti.
WILMA STOKENSTRÖM

Questa raccolta di citazioni, massime, aforismi e proverbi è dedicata al viaggio, al nomadismo, al territorio da percorrere, fuori e dentro di sé.
Vanni Beltrami, Breviario per nomadi, Biblioteca del Vascello 1995

Viaggiare HesseNoi, vassalli della voglia di viaggiare, passiamo la vita a inse­guire la nostra madre terra in tutte le sue forme ed espressioni, vorremmo perfino fare tutt’uno con essa, pronti alla dedizione assoluta, lo sogniamo, lo desideriamo con tutte le nostre forze. E questa nostra passione, questa nostra caccia alla terra non è in sé, forse, meglio di una qualsiasi altra passionaccia, sia quella del giocatore o dello speculatore, del Don Giovanni e dell’arrivista. Quando la terra ci chiama, quando noialtri eterni camminatori senza sosta prendiamo commiato da casa, non stiamo abbandonando alcunché, non stiamo fuggendo, stiamo semplicemente per tuffarci nel fuoco dell’esperienza. Siamo curiosi del Sud-america, di una qualsiasi baietta ancora inesplorata dei Mari del Sud, dei Poli della terra, vogliamo comprendere il moto dei venti, delle correnti, dei lampi, delle slavine – ma ancor più curiosi siamo della morte, l’ultima e forse più intensa esperienza del nostro esserci. Perché di tutte le esperienze possibili, sono fondamentali, secondo noi, quelle per cui siamo pronti anche a dare la vita.

Per amore o per sfida, per necessità o per fuga, tutti i personaggi di Hermann Hesse, prima o poi, si misurano con il viaggio. Questa raccolta offre un compendio esau­riente e ben organizzato con i migliori scritti di viaggio del giovane Hesse.
Hermann Hesse, Viaggiare, Marcos y Marcos 1994

VagabondaggioSe esistessero molti uomini nei quali fosse così radicato come lo è in me il disprezzo per i confini nazionali, allora non ci sarebbero più guerre né blocchi. Niente è più odioso dei confini, niente è più stupido. Essi sono come cannoni, come generali: sino a quando ragione, senso di umiltà e pace dominano, non se ne ha sentore e di loro si ride, – ma non appena guerra e follia divampano essi divengono importanti e sacri.

Nel mondo poetico e narrativo dell’autore ricorre con frequenza la figura del vagabondo, del cercatore irrequieto, sospinto senza tregua tra boschi e villaggi, sempre a un valico o a una frontiera. In questa condizione di libertà assoluta, di totale disponibilità, il viandante si fa protagonista di un’esperienza superiore, quasi sacrale. In senso e la poesia del vagabondaggio sono chiaramente metaforici: ogni uomo che voglia incamminarsi alla ricerca dell’essenza mistica e spirituale della vita, è da quel momento viandante, uomo solo.
Hermann Hesse, Vagabondaggio, Newton 1992

 

Viaggio nelle CévennesIl sole era già calato dietro a una nebbia dall’aspetto ventoso e […] il nostro sentiero era immerso nel grigio e nel freddo. Un’infinità di stradine secondarie portava qua e là tra i campi. Era un labirinto senza capo né coda. Potevo vedere sopra di me la mia destinazione, ovvero la cima che la dominava; ma qualsiasi di esse scegliessi, le strade finivano sempre per allontanarsene e scendere a serpentina verso la valle o salire verso nord lungo il margine delle colline.

Stevenson racconta in questo libro il viaggio che lo portò ad attra­versare, in compagnia di un asino, le Cévennes, nel sud della Fran­cia. Un viaggio davvero avventuroso, fatto a piedi, con bivacchi sotto le stelle e in­contri insoliti, in un paesaggio dagli ampi spazi e dai grandi silenzi.
Robert Louis Stevenson, Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino, Ibis 1993

Impressioni di viaggioVoglio andarmene sui monti
dove stanne le capanne quiete
dove il cuore si dilata libero
e l’aria soffia libera.

Voglio andarmene sui monti
dove sono gli abeti alti e scuri,
dove i ruscelli mormorano, gli uccelli cantano,
e le nuvole galoppano orgogliose.

Addio, saloni lucidi,
lucidi gentiluomini, signore levigate,
voglio andarmene sui monti
e da lassù ridere su di voi.

I resoconti di viaggio sono da secoli un genere letterario molto comune, quello di Heine fu uno dei meglio riusciti.
Heinrich Heine, Impressioni di viaggio, Istituto Geografico De Agostini 1983

In patagoniaNessun suono tranne quello del vento, che sibilava fra i cespugli spinosi e l’erba morta, nessun altro segno di vita all’infuori di un falco e di uno scarafaggio immobile su una pietra bianca.
Il deserto della Patagonia non è un deserto di sabbia o di ghiaia, ma una distesa di bassi rovi dalle foglie grigie, che quando sono schiacciate emanano un odore amaro. Diversamente dai deserti dell’Arabia non ha prodotto nessun drammatico eccesso dello spirito, ma ha certamente un posto nella storia dell’esperienza umana. Darwin trovò le sue qualità negative irresistibili. Ricapitolando Il viaggio della Beagle tentò, senza riuscirvi, di spiegare perché, più di tutte le meraviglie da lui viste, questo “arido deserto” aveva tanto colpito la sua mente.

Dopo l’ultima guerra, alcuni ragazzi inglesi, fra cui l’autore di questo libro, chini sulle carte geografiche, cercavano l’unico luogo giusto per sfuggire alla prossima di­struzione nucleare. Scelsero la Patagonia. E proprio in Patagonia si sarebbe spinto Bruce Chatwin per trovare l’incanto di viaggiare. All’interno di una natura povera, disabituata all’uomo, incontrerà un arcipelago di vite e di casi molto più sorprendente di quel che ogni esotismo permetta di pensare. Questa terra eccentrica per eccellenza è un perfetto ricettacolo per l’allucinazione, la solitudine e l’esilio.
La Patagonia di Chatwin diventa, per chiunque si appassioni a questo libro, un luogo che mancava alla propria geografia personale e di cui avvertiva segretamente il biso­gno.
Bruce Chatwin, In Patagonia, Adelphi 1982

Ritorno in patagoniaLa Patagonia è la cura per i mali dell’umanità.

Melville usò l’aggettivo “patagonico” per indicare qualcosa di to­talmente esotico, mostruoso e pericolosamente attraente. Un’attrazione che agì anche sul giovane Bruce Chatwin. Fin dall’età di tre anni la Patagonia gli apparve come la Terra delle meraviglie. Poi dall’esperienza nacque In Patagonia, il più bel libro di viaggi dei nostri tempi. Qualche tempo dopo, un altro scrittore di viaggi, Paul Theroux, pubblicava un altro affascinante libro su quella terra, The Old Patagoniam Express. Infine, nel 1985, i due scrittori com­posero, in una sorta di contrappunto a due voci, questo libretto, dove entrambi tornano sulle tracce della loro passione.
Bruce Chatwin – Paul Theroux, Ritorno in Patagonia, Adelphi 1991

Le vie dei cantiDopo la marcia forzata, i portatori rifiutano di camminare e aspettano di essere raggiunti dalle loro anime.
Gli aborigeni non credono all’esistenza del paese finché non lo vedono e lo cantano.
Quasi tutti noi, che eroi non siamo, nella vita perdiamo il nostro tempo, agiamo a sproposito e alla fine siamo vittime dei nostri vari disordini emotivi. L’Eroe no. L’Eroe – e per questo lo proclamiamo tale – affronta ogni cimento quando gli si pre­senta, e accumula punti su punti.

Per gli aborigeni australiani, la loro terra era tutta segnata da un intrecciarsi di Vie dei Canti, un labirinto di percorsi visibili soltanto ai loro occhi. Dietro questo fenomeno, che apparve subito enigmatico agli antropologi occidentali, si cela una vera metafi­sica del nomadismo. Questo libro potrebbe essere descritto anch’esso come una Via del Canti: romanzo e percorso di idee, una musica di idee che muove tutta da un in­terrogativo: perché l’uomo, fin dalle origini, ha sentito un impulso irresistibile a spo­starsi, a migrare?
Bruce Chatwin, Le Vie del Canti, Adelphi 1988

 

E venne chiamata due cuoriMi spiegarono come misurassero le distanze intonando canzoni dai ritmi ben precisi. Alcune erano composte da oltre cento versi, e ogni parola e ogni pausa doveva essere ripetuta fedelmente, né erano permessi vuoti di memoria o improvvisazioni dato che ogni canzone costituiva una vera e propria asta di misurazione.

… e vene chiamata Due Cuori è il racconto romanzato della straor­dinaria avventura umana e spirituale di una donna, Marlo Morgan, che per motivi di lavoro si trova a vivere in Australia e accetta un invito di una tribù di aborigeni. Con sua grande sorpresa, Marlo viene portata nel cuore di una foresta, e inizia da qui il vagabondaggio che durerà per quattro mesi percorrendo a piedi nudi l’Outback australiano.
Marlo Morgan, … e venne chiamata Due Cuori, Rizzoli 1994

Sabbie arabeMe ne andai a zonzo fino a un lontano costone, contento di star solo per un po’, e mi sedetti a guardare le ombre uniformi che screziavano la pianura color terra d’ombra su cui nient’altro si muoveva. Tutto era immobile, con quel silenzio che noi abbiamo cacciato dal nostro mondo.

Wilfred Thesiger, che possiamo considerare in un certo senso l’ultimo dei grandi esploratori britannici di stampo romantico, ci restituisce con questo “diario di viaggi” un affresco vivo e affascinante dei deserti meridionali della penisola arabica.
Dopo aver condiviso per diversi anni, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la dura vita delle popo­lazioni beduine che vivono ai margini di queste immense distese desolate di sabbia, l’autore racconta un’esperienza probabilmente unica, intessuta di particolari quotidiani.
L’andamento narrativo è quello del resoconto di stampo antropologico, che ci porta con immediatezza nell’atmosfera implacabile e silenziosa del deserto, a contatto con le genti fiere e generose che faticosamente trascorrono la propria esistenza in un ha­bitat tanto inospitale.
Wilfred Thesiger, Sabbie arabe – Viaggio nell’Arabia deserta, Mondadori 1991

 

Il viaggiatore delle duneNel mezzo della giornata, la fornace arde; il cielo, da tanto è luminoso, si scolora; il caldo torrido si abbatte dal sole a picco in nastri brucianti; sale dalla sabbia incandescente e dalle pietre surriscaldate. Allora è impossibile posare il piede sulla nuda terra; il suolo può raggiungere gli 80°C.
Tappe. Bivacchi di una sera in luoghi senza nome, che non ri­vedremo più. Partenze, eterne partenze senza arrivo che sono l’immagine pregnante del nostro viaggio interiore per non straziarci l’anima.

Questo libro, risultato di lunghi anni di esplorazione, è un inno al deserto del Sahara, alla sua grandezza opprimente, alla sua selvaggia e pericolosa bellezza, ma è anche un resoconto affa­scinante della fauna, della flora, della storia e della preistoria di questa regione, non­ché una descrizione della vita quotidiana dell’uomo del deserto, con una tale dovizia di dettagli che questo libro potrebbe essere utilizzato come un vero e proprio manuale di sopravvivenza.
Theodore Monod, Il viaggiatore delle dune, Tasco 1990

Arabia felix“Poiché Sua Maestà, malgrado le pesanti preoccupazioni di governo in questi tempi così calamitosi, cerca incessantemente di promuovere la diffusione delle conoscenze e delle scienze e di accrescere l’onore del suo popolo con imprese utili e lodevoli …”
Malgrado questi tempi calamitosi … Forse è proprio in tempi calamitosi che si sogna di partire per l’Arabia Felice.

La meta della spedizione scientifica danese è lo Yemen, terra sconosciuta detta anche “Arabia Felice”. Gli scienziati partono, per scoprire e conoscere, ma in realtà proiet­tano sogni – di sapere, di gloria, di ricchezza – troveranno sofferenze, fatiche, gioie, conquiste, fallimenti, e la morte. Solo uno farà ritorno, partito convinto di non essere all’altezza del suo compito, ma aperto alle esperienze, capace perfino di rinunciare alla propria identità per fare sua la lezione del deserto: “non avere niente, non essere niente”.
Thorkild Hansen, Arabia Felix, Iperborea 1993

Viaggiatore solitarioDopo tutto ‘sto casino, e via dicendo, arrivai al punto che avevo bisogno di un po’ di solitudine proprio per fermare il meccani­smo di “pensare” e di “godere” che chiamano “vita”, avevo bi­sogno di stendermi sull’erba e guardare le nuvole –
È scritto anche nell’antica scrittura: – “La saggezza può essere raggiunta soltanto nella solitudine.”

Viaggiatore solitario è una raccolta di scritti collegati da uno stesso filo conduttore: il viaggiare. I viaggi coprono gli Stati Uniti dal sud alla costa orientale, fino a quella occidentale e al lontano nord-ovest, il Messico, il Marocco, Parigi, Londra, l’oceano At­lantico e quello Pacifico percorsi in nave e vi sono incluse altre città e persone interessanti.
Lo scopo e l’intenzione è semplicemente la poesia o, le descrizioni naturali.
Jack Kerouac, Viaggiatore solitario, Sugarco 1987

Sentieri nel ghiaccioBreve sosta in un boschetto. Vedo la valle, prendo la scorciatoia per prati fradici, sguazzanti; la strada qui fa come un grande otto. Che razza di tempesta di neve; ora tutto torna a placarsi, a poco a poco mi asciugo. […] Dagli abeti piovono ancora gocce sul terreno coperto di aghi. Le mie cosce fumano come se fossi un cavallo. Paesaggio ondulato, molto bosco, e tutto mi è così sconosciuto. Quando ci si avvicina, i paesi fanno finta di essere morti.

Questo libro è la storia di un viaggio in certo modo straordinario: il viaggio a piedi intrapreso nell’inverno 1974 da Werner Herzog, per recarsi da Monaco a Parigi, dove lo aspettava un’amica ma­lata, Lotte Eisner, storica e studiosa del cinema tedesco. Strade, bo­schi, paesi squassati da temporali e bufere di neve, villaggi deserti e campi disabitati: questo il paesaggio che percorriamo insieme a un uomo che compie il più anacronistico dei gesti.
Werner Herzog, Sentieri nel ghiaccio, Guanda 1994

La via per l'OxianaSotto la bufera bianca è avvenuta una straordinaria transizione. Nell’arco di cinque minuti siamo usciti da un mondo di pietra, di fango, di sabbia e di perenne siccità, che ci aveva accompagnato da Damasco in poi, per penetrare in un mondo di legna, di foglie e di linfa, dove le montagne erano ricoperte di arbusti, che diventavano al­beri, e questi, cessata la neve, si raggruppavano in una lucida foresta di tronchi nudi le cui volte frondose velavano il cielo.

Secondo Bruce Chatwin questo libro è il capolavoro dei libri che trattano di viaggio. L’Oxiana è una regione fra l’Afghanistan e l’Iran dove si può procedere sulle orme di Marco Polo.
Robert Byron, La via per l’Oxiana, Adelphi 1993

Verso SantiagoNon è dimostrabile, eppure io ci credo: nel mondo ci sono luoghi in cui un arrivo o una partenza vengono misteriosamente moltipli­cati dai sentimenti di quanti nello stesso luogo sono arrivati o da lì ripartiti. […] Ormai i viaggi non durano anni, sappiamo dove andare e anche le probabilità di tornare sono molto più alte.

Un viaggio spagnolo nello spazio e nel tempo, lungo percorsi inu­suali, attraverso le vie di pellegrinaggio, il labirinto dei ricordi, le suggestioni del paesaggio, l’intreccio di colori, di parole, di leg­gende, l’ispirazione del momento. Da Don Chisciotte a Zurbaràn, da Velàzquez a Garcia Lorca, da una sperduta abbazia cistercense alla solennità del Prado: Cees Nooteboom ci guida alla scoperta di personaggi e luo­ghi di una Spagna profonda e misteriosa, invitandoci ad abbandonare le vesti del turi­sta per diventare veri viaggiatori.
Cees Nooteboom, Verso Santiago – Itinerari spagnoli, Feltrinelli 1996

 

In transiberianaLa steppa ha grandi ondulazioni, come delle lunghissime dune biondastre, separate da grandi distanze l’una dall’altra. Non è priva di colore. Alcuni tratti sono dello stesso bianco-biondo spento dei capelli dei bambini russi. Ma numerose sono le tinte – sempre spente – che serpeg­giano per la distesa come correnti marine. Anche l’aria ha un colore spento.

Un libro e un viaggio su rotaie lunghe trentamila chilo­metri. Dopo i primi tremilacinquecento chilometri da Roma a Mosca, i novemila in Transiberiana, da Mosca a Pechino. E poi, sempre in treno, da Pechino a Shangai. Poi c’è il ritorno, con un unico biglietto ferroviario, dalla foce del fiume Azzurro sino alla Yogoslavia passando, a differenza della andata, attraverso la Mongolia e il Gobi. Al rientro in Italia non si è più gli stessi, anche se si torna a sedersi sulla stessa poltrona. Tra la persona di prima e quella del ritorno c’è di mezzo una buona metà del mondo e straordinari incontri umani. Non è poco.
Allora è giocoforza raccontare.
Angelo Maria Pellegrino, In Transiberiana, Stampa Alternativa 1992

 

Inter rail manFarsi coinvolgere, comunicare sono essenziali per arricchirsi mediante i viaggi. Si potrebbe andare ovunque senza urtare contro qualcosa di nuovo, se si rimane legati al proprio mondo. Oggi è data molta importanza a dove si va, ma forse importa soprattutto come e perché lo si fa.

L’inter rail – un mese di treno a basso costo in giro per l’Europa, il Marocco, la Turchia per chi ha meno di 26 anni – è, per chi lo vuole, disorganizzazione, in una società sempre più inquadrata ed asettica.
L’inter rail è, per chi sa giocarsela bene, libertà in una società che organizza e limita anche l’avventura, la sorpresa, la gioia, il sogno. Abbiamo provato con l’inter rail a disorganizzarci, a riprenderci spazi di li­bertà. Qui lo raccontiamo con le istruzioni per l’uso.
Luca Conti, Inter rail man – Manuale per chi viaggia in treno, Stampa Alterna­tiva 1992

Il libro del ventoIl silenzio ci mette a disagio.
Il silenzio radio viene chiamato “aria morta”, qualcosa da evitare ad ogni costo. Così lo tamponiamo con parole o musica, spesso parole e musica, e troviamo sollievo nello schiamazzo, per quanto possa essere privo di significato. Abbiamo perduto la pausa ricca di significato. Il silenzio durante l’audizione viene invariabilmente distrutto dall’applauso di qualche idiota che pensa che il concerto sia finito.

La prima definitiva storia del vento: come porta la vita nel mondo distribuendo energia e calore, influenzando i fenomeni meteorologici, favorendo la riproduzione delle piante e la migrazione di molte specie di animali, modificando il paesaggio, agendo sul comportamento dell’uomo.
Lyall Watson, Il libro del vento, Frassinelli 1985

Strade bluCosa fa un viaggiatore di notte in una città sconosciuta quando vuole scambiar due parole? Negli Stati Uniti non c’è quasi altra scelta che ficcarsi in un bar. […]
In una angolo c’era una stecca da biliardo spezzata; la piccola stanza laterale era illuminata soltanto dal tremolio di una luce al neon che reclamizzava una birra, quel tipo di luce vacillante che farebbe impazzire chiunque.

Un tempo, sulle vecchie cartine d’America, le strade principali erano segnate in rosso e quelle secondarie in blu. È sulle strade blu che si svolge di tre mesi di un solitario mezzo pellirossa, che, re­stando privo del suo lavoro e della sua donna, va a ricercare un poco di interesse alla vita in un itinerario circolare che lo porta e riporta nell’America settentrionale. E ri­trova, ricostruisce, riscopre l’America periferica, decentrata, provinciale come un al­tro, diverso continente.
William Least Heat-Moon, Strade blu, Einaudi 1995

 

Sulla strada[…] perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e del subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno “Oooooh!”.

Intere generazioni hanno preso a modello i protagonisti di que­sto libro che in trent’anni è diventano un libro di culto. In fuga dalla mediocrità del mondo, in auto, in camper traballanti.
La fuga attraverso gli Stati Uniti e il Messico su malconce auto, traballanti camper, o autobus affollati di umanità americana ed europea. Il ro­manzo dell’amicizia e delle difficoltà, dell’amore, del malessere e della rivolta. Il “manifesto” della beat generation preso a modello da sempre nuove generazioni di giovani.
Jack Kerouac, Sulla strada, Leonando Ed. 1989

Terra e acquaSono qui raccolte alcune fra le migliori pagine di Vittorio G. Rossi: vorremmo dire le più limpide, atte a delineare la sua schietta e spontanea vena di narratore: scritti d’avventura, di viaggi, di “conoscenze”, tutte profondamente umane e sentite.
I giovani potranno invidiare le innumerevoli esperienze dell’autore, che ha fatto “quasi tutti i mestieri rischiosi difficili: il palombaro, il minatore, il navigante, il pescatore di balene, di merluzzi, l’uomo di bordo delle navi-faro”, ma sapranno sco­prire il messaggio racchiuso nelle sue opere: “presi l’uomo come protagonista e feci del viaggio un racconto, come av­ventura umana. Insieme come l’uomo, ho preso come protago­niste le grandi forze della natura, sopra tutto il mare …”. V’è quindi in queste pagine narrative anche una profonda attenzione agli ideali, ai dolori e alle miserie degli uomini. Pur senza perdere nulla della sua vivacità, della sua arguta visione delle cose, del suo stile tutto particolare, Vittorio G. Rossi ci induce a medi­tare su ciò che rappresenta l’uomo nel mondo, su noi stessi, sul senso della vita.
Vittorio G. Rossi, Terra e acqua, Mursia 1966

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