Deiezioni d’artista

di Paolo Repetto, 22 novembre 2025

Esattamente cinquant’anni fa, nel mese di dicembre, ai tempi del mio primo incarico presso l’Istituto d’Arte di Valenza, ho assistito a una singolare performance artistica messa in scena da un collega. Era un campano, insegnava una disciplina artistica, non ricordo se scultura o disegno, e portava barba e capelli alla bohemienne, un look all’epoca già demodé. Aveva costruito una grande croce in legno, che si caricò sulle spalle per trascinarla fino ad una collinetta di sabbia gelata sulla sponda del Po. Si denudò, rimase con uno straccio avvolto ai fianchi a mo’ di perizoma e si fece legare alla croce con corde che gli stringevano i polsi e i polpacci. Un paio di amici provvidero poi a issare la croce dentro un supporto già predisposto. Rimase appeso giusto il tempo per farsi fotografare per dritto e per traverso, poi si fece “depositare”.

Gli inverni allora erano ancora una cosa seria, non c’era il cambiamento climatico, si viaggiava per due o tre mesi sottozero: per cui quando scerse l’amico era blu come un puffo, con screziature nere sulle dita delle mani e dei piedi, e continuò poi a tremare per i tre o quattro giorni successivi.

Di quell’evento non è rimasta traccia nella storia dell’Arte, mentre forse qualche traccia è rimasta nei suoi bronchi, e non ho mai ben capito quale fosse il senso della “provocazione” artistica che aveva inscenato. Ho pensato volesse opporre alla gioia posticcia del Natale che era prossimo la mestizia della passione, o forse voleva denunciare la condizione dell’artista nella società moderna, la persecuzione nei suoi confronti. Non lo so, non gliel’ho mai chiesto, anche perché la mia valutazione critica era stata perentoria: una cagata, e scemo io che vi avevo preso parte.

Pochi giorni fa, dunque mezzo secolo dopo, un’opera di Maurizio Cattelan è stata battuta all’asta da Sotheby per dodici milioni e passa di dollari. Praticamente svenduta, perché si tratta di un water d’oro massiccio dal peso di cento chili, e il prezzo copre giusto il valore della materia prima impiegata. Il surplus conferito dall’aura artistica è pari a zero.

La cosa è stata commentata in vari modi, ma non ha suscitato un particolare scalpore. C’era già stata pochi mesi fa la banana dello stesso Cattelan venduta per sei milioni, e prima di quella un sacco d’altre “provocazioni” che si possono ammirare nei musei d’arte contemporanea di tutto il mondo. Alla lunga, provocare stanca.

Tra i commenti che ho letto c’è quello postato da Marco Belpoliti su DoppioZero, dove si dicono cose giustissime, ma che scade nel finale in un truismo (“lo si riconosca o no, credo che tra lui [Cattelan] e Klimt non ci sia confronto: vale di più il viennese”) giocato sul significato di “vale”, dal momento che un’opera di Klimt è stata battuta nella stessa asta per 236 milioni di dollari. Sembrerebbe dirci che il mercato è in fondo capace di riconoscere, di distinguere tra ciò che è un tentativo, nemmeno tanto originale, di denuncia e di presa in giro, e ciò che per via di una immaginazione visiva particolarmente ispirata si pone al di là delle regole di mercato e le fa saltare.

Vediamo di raccapezzarci. Per me bisogna risalire parecchio a monte. Il mercato dell’arte esiste da sempre, da quando nelle caverne i nostri progenitori paleolitici affidavano ai “pittori” migliori la decorazione delle caverne, in cambio di vitto e alloggio assicurati. Ha continuato ad esistere, e si è evoluto col mecenatismo religioso e con il collezionismo pubblico e privato, nel mondo classico e in quello moderno, conferendo al ruolo dell’artista una dignità superiore. E gli artisti migliori ne hanno approfittato per ritagliarsi ampi margini di libertà, anche quando lavoravano su commissione, e quelli capaci di sottrarsi ai canoni estetici vigenti nella loro epoca e a superarli hanno finito per incontrare maggior successo. Ma nell’età contemporanea si sono illusi, o sono stati illusi, di poter denunciare i meccanismi del mercato e l’ipocrisia di fondo ad esso sottesa rimanendoci comunque dentro, e il mercato li ha immediatamente “normalizzati”, fagocitando anche ogni loro azione provocatoria e rigettandola in forma di merce. Per questo ritengo sia opportuno parlare di storia dell’arte solo sino a tutto il XIX secolo o ai primi di quello successivo, e di storia del mercato dell’arte per quel che è venuto dopo.

Si può vedere la cosa anche da un’altra angolazione. In ulteriori commenti alla vicenda del water di Cattelan ho trovato citato più volte il nome di Slavoj Žižec, filosofo e sociologo sloveno, autore dieci anni fa di un libro, Il trash sublime, nel quale spiega con un’interessante analisi la differenza tra l’arte del passato e quella di oggi. Per l’arte tradizionale – dice – il problema era decorare un luogo per qualche motivo “sacro” o speciale, un tempio, una piazza, un palazzo, con oggetti all’altezza, che ne completassero ed esaltassero la sacralità, l’unicità, la bellezza. Col tempo però questi oggetti si sono per così dire autonomizzati, hanno acquisito un valore “artistico” in virtù delle proprie caratteristiche, cioè indipendentemente dallo spazio che potevano occupare. Ma contemporaneamente l’oggettificazione dell’opera, la possibilità di replicarla, di serializzarla e di trasformarla in merce ne ha annullate la portata e la valenza artistica.

Ora, cos’è che può sfuggire a questa mercificazione? Solo gli oggetti non “serializzabili”; ovvero gli scarti. Ma gli scarti sono fuori luogo per antonomasia, sono le cose prive di valore, non traducibili in denaro, che indicano una resistenza alla pervasività del consumo, alla logica del capitale e al circuito del mercato. E assumono valore “artistico” non per caratteristiche positive intrinseche, ma quando sono collocate nei luoghi sbagliati. Quando sono appunto fuori luogo. Questo non può che farci riandare all’orinatoio-fontana di Duchamp, e trova poi la sua massima espressione nelle Merde d’artista di Piero Manzoni: «Le feci di Manzoni, in quanto “esposte” nel chiuso di un barattolo di latta, divengono oggetto d’arte perché, scarto tra gli scarti, è sotto gli occhi di tutti e non nel privato del bagno di casa Manzoni».

È senz’altro una lettura interessante, ma mi convince sino a un certo punto. Senz’altro non è stato azzeccato l’oggetto simbolo: perché anche la merda si presta a una produzione seriale, e considerata nel contesto della produzione artistica contemporanea, Cattelan compreso, non appare così fuori luogo. Ne è anzi la più riuscita sublimazione simbolica.

A pensarci bene siamo comunque alla chiusura del cerchio. Le deiezioni di Manzoni, a sessantacinque anni dal loro inscatolamento, hanno finalmente trovato il luogo più congeniale in cui essere esposte, tornando là dove giustamente dovrebbero esse. Nel frattempo però gli “scarti tra gli scarti” sono stati anch’essi serializzati. Sono contenuti in novanta scatolette da trenta grammi ciascuna, e il valore loro attribuito è quello del pari peso in oro. Gettati nel water finirebbero per intasarlo, esposti in un museo irridono a tutto quel che è venuto prima e tolgono significato a quel che è venuto dopo, compresa la illuminante analisi di Žižec.

Rimango dunque fermo al giudizio mio di cinquant’anni fa. E mi sembra anzi più che mai in tema.

Perché una statua in piazza?

di Paolo Repetto, 2 giugno 2025

Anni fa l’amministrazione comunale di Gavi decise di collocare nella piazza centrale della cittadina una scultura di Arnaldo Pomodoro. Erano i tempi dei vitelli grassi, per cui lo stanziamento coprì, oltre al costo della statua (un monolite cilindrico in bronzo, alto tre metri) anche una cerimonia di presentazione intitolata “Perché una statua in piazza”, cui parteciparono Umberto Eco e altre personalità della cultura, alessandrina e non. In realtà più che di presentazione l’incontro risultò essere giustificatorio, perché si tenne qualche settimana dopo l’inaugurazione ufficiale, a seguito delle perplessità manifestate nel frattempo dai cittadini.

Il problema nasceva, oltre che dall’enigmaticità dell’opera, che aveva le fattezze di un grande fallo rugoso, dalla scelta del luogo di collocazione: era infatti piazzata al centro del quadrivio nel quale convergono le arterie principali d’ingresso e di uscita da Gavi, e creava negli automobilisti un effetto di sorpresa e di curiosità che li distraeva dalla guida; tanto che nel giro di tre mesi si contarono nella piazza una ventina di incidenti causati dalle mancate precedenze. Al termine dei tre mesi, e a dispetto dalla dotta ed entusiasta perorazione di Eco, la statua venne rimossa. Non so che fine abbia fatto, non so se per l’arte sia stata una sconfitta, ma so per certo che a Gavi nessuno oggi la rimpiange (e sul web non è assolutamente ricordata).

Credo allo stesso modo che nessuno in Alessandria lamentasse sino ad oggi l’assenza di una statua dedicata al pontefice Pio V Ghisleri. Già esistono in città e nei suoi dintorni chiese a lui dedicate, addirittura un complesso monumentale a Bosco Marengo, per cui il nome dell’illustre conterraneo non rischia di cadere nell’oblio: e sono d’accordo sul fatto che questo non debba accadere. Ma per motivi un po’ diversi da quelli che hanno evidentemente animato gli ideatori di questo ritardato omaggio.

Devo sgombrare però preventivamente il campo da equivoci. Non sono contrario per principio alla statuaria commemorativa, ai monumenti insomma, e ho anzi zero stima per quelli che li abbattono o li imbrattano, anche se in qualche caso (che non è certo quello della cancel culture, ma ad esempio quello della caduta di una dittatura) posso comprendere perché arrivino a farlo. Le statue, ma anche i busti, i bassorilievi o le lapidi non mi fanno né caldo né freddo, a meno che siano orribilmente brutte o eccezionalmente belle. So che in genere sono dedicate a personaggi che meriterebbero ben altro, ma penso che la loro presenza, se accompagnata da una solida conoscenza storica e da una corretta informazione, possa comunque giovare alla manutenzione della memoria. Questo almeno valeva sino a qualche tempo fa, e di quanto poi giusto dispensiere di glorie o d’infamia sia il tempo lo testimoniano i nomignoli irridenti coi quali sono state ribattezzate in genere le sculture celebrative di illustri nullità o di insigni farabutti.

Oggi direi che la statuaria di questo tipo ha ben poco senso, anche se non celebra più despoti spietati o militari con licenza di massacro, ma uomini di spettacolo o “eroi” dello sport (e ultimamente anche i “migliori amici dell’uomo”): nel frattempo è infatti mutata radicalmente la finalità. Ciò che una volta negli intenti doveva proporre o celebrare modelli esemplari a fini patriottici o di memoria culturale, è scaduto oggi a suppellettile dell’arredo urbano, con finalità meramente turistiche (o in qualche caso, come quello di cui sto parlando, per “marcare” politicamente il territorio). Per questo la decisione di inaugurare a giorni in una piazzetta della città l’ennesima statua di papa Ghisleri non mi entusiasma. E i motivi della mia freddezza sono più d’uno.

Il primo è di ordine pratico: se proprio si aspira alla manutenzione della memoria, con la somma stanziata (150 mila euro: non da privati, ma almeno in parte da un ente pubblico) si sarebbero ad esempio potuti disboscare e risanare un po’ di tetti della Cittadella, o sistemare alcuni locali della caserma Valfrè, per tenere in piedi il complesso e ricavarne spazi utili per mostre, convegni, iniziative le più svariate, o per futuri probabili lazzaretti o centri vaccinali, prendendo due piccioni con una fava.

Il secondo riguarda il contraddittorio e oggi più che mai ambiguo rapporto tra verità, storia e memoria. So che è diventato quasi un chiodo fisso nei miei interventi, una monomania, ma in questo caso la distanza tra la prima e la terza riesce così evidente, e così disinvoltamente e artatamente giocata, da non consentirmi di passarci sopra.

L’altro motivo è infine di opportunità. Non che faccia grande differenza dedicare una statua a Francesco o a Giovanni XXIII o a Paolo VI, ma con tutti quelli che c’erano proprio un personaggio controverso come Pio V dovevano andare a scegliere? Capisco che fosse alessandrino, e che di glorie da celebrare da queste parti ne siano circolate poche, ma almeno fosse “vera gloria”, almeno offrisse una sola ragione in positivo per essere ricordato.

Proviamo invece a vedere cosa ha saputo combinare quest’uomo nel breve tempo del suo pontificato (è rimasto sul soglio per soli sei, anni). Gli va riconosciuto senz’altro di non essere rimasto con le mani in mano e di avere dato un impulso decisivo alla Controriforma. Cosa che sotto il profilo morale è molto dubbio si possa considerare un merito, ma sotto quello professionale, dell’efficienza organizzativa, lo è senz’altro.

Purtroppo quell’efficienza è costata cara a un sacco di gente. Si è esercitata infatti sia contro gli oppositori interni, eretici o dissidenti di varia natura, sia contro quelli esterni, in primis ebrei e mussulmani, e ha escogitato nuove modalità di controllo e di censura e di indottrinamento.

La carriera di Pio V si svolge infatti tutta all’insegna dell’Inquisizione.

Nel 1542, a meno di quarant’anni, è nominato commissario della Santa Inquisizione a Pavia, ma fa sentire la sua mano anche nei dintorni, ad esempio a Parma. Visti gli ottimi risultati ottenuti, nel 1550 è inquisitore a Como e a Bergamo, e l’anno successivo diventa commissario generale dell’Inquisizione romana. Nel 1556 ricopre l’incarico di inquisitore generale a Milano e in Lombardia e due anni dopo tocca il vertice, diventando Grande Inquisitore presso la sede romana. Ricoprirà quella carica per otto anni, fino alla elezione a pontefice.

Anche in questo ruolo il buon Ghisleri non perde il suo tempo. Durante il suo pontificato vengono processati e mandati a morte gli umanisti Pietro Carnesecchi e Aonio Paleario, oltre al letterato Niccolò Franco. E questi sono naturalmente solo i più famosi. Già in precedenza si era però distinto come difensore della fede in qualità di capo del Sant’Uffizio, facendo massacrare nel giugno 1561 centinaia di valdesi a Guardia Piemontese, in Calabria, dopo aver mandato al rogo la loro guida spirituale, Gian Luigi Pascale. Qualche altro migliaio li fa cacciare in prigione e li costringe, non certo con le prediche, ad abiurare. Chi rifiuta viene scannato o bruciato vivo. Il numero totale delle vittime è incerto, ma è stimato dagli storici da un minimo di 600 a un massimo di 6.000. Queste cose quando le hanno fatte, e tuttora le fanno, altri, sono definite genocidio. Nel caso di Pio V a quanto pare sono considerate prove di santità, e sono oggetto di reverente memoria.

Non da parte degli ebrei, comunque: non è particolarmente tenero neppure con loro. Intanto li fa rinchiudere a Roma nel ghetto istituito per l’ occasione, sul modello veneziano, dopo averli obbligati a vendere tutte le loro proprietà: poi li costringe a subire una pressante campagna di indottrinamento. Infine ne sancisce l’espulsione dallo Stato Pontificio, ad esclusione di coloro che accettano di risiedere nei ghetti cittadini.

Le pulizie le fa però anche in casa. Mette in riga i vari ordini religiosi, sopprimendone alcuni (tra cui quello degli Umiliati, presente sino quel momento anche in Alessandria), cancellando varie congregazioni eremitiche e costringendo gli adepti a rientrare nei ranghi associandosi agli ordini riconosciuti (preferibilmente a quello domenicano, dal quale lui stesso proviene).

Infine istituisce l’Indice dei Libri Proibiti, ovvero l’elenco dei testi sottoposti alla censura ecclesiastica, dal quale mancano magari inizialmente le opere dell’Aretino, ma non quelle di Copernico e di Keplero, e di lì a poco quelle di Galilei.

Mi fermo qui, ma direi che i meriti per vedersi dedicata una statua se li è guadagnati abbondantemente, e anche se in vita aveva già provveduto a non lesinare la propria immagine a pittori e scultori, un ritratto in più non guasta. Anche nel caso alessandrino penso che l’errore stia soprattutto nella scelta della collocazione. Anziché piazzare la statua di fronte al carcere si sarebbe potuto, con uno spostamento di pochi metri, collocarla dentro le sue mura. Sarebbe stata una sede più consona al personaggio, che magari anche lì avrebbe potuto operare miracoli.

Invece abbiamo assistito (si, perché c’ero anch’io, volevo vedere a che livello si poteva scendere, e sono stato ampiamente accontentato) ad una farsesca cerimonia di disvelamento dell’opera, con tanto di onorevoli e presidenti di banche e alti prelati che si sono succeduti a cantare per un’ora le lodi del celebrando, edificatore di ospedali (altro che la sanità attuale!) e di scuole (altro che la pubblica istruzione!) e di alleanze continentali anti-barbariche (altro che l’Unione Europea!), senza fare il minimo accenno al suo tutt’altro che trascurabile curriculum di “disinfestatore” e di costruttore di ghetti. Una perfetta “lectio magistralis” di ipocrisia e di post-verità, un po’ guastata ad essere sinceri dalla “rivelazione” della pochezza dell’opera: l’ultimo simulacro di Pio V ha la postura e l’espressione di un cercatore di funghi che abbia appena adocchiato un porcino.

Peccato. Fosse ancora vivo Umberto Eco si sarebbe data l’occasione di mettere in piedi un bell’evento, non al teatro comunale perché ancora non si sono trovati i soldi per risanarlo, e nemmeno alla Cittadella o alla Valfré, ma insomma, uno spazio si poteva trovarlo. Eco con l’Inquisizione ci sarebbe andato a nozze. E magari avrebbe giocato sul fatto che una statua prospiciente da un lato l’ospedale e dall’altro il carcere una qualche inquietudine può suscitarla, e suffragato questa inquietudine con gli incidenti nei quali i passanti impegnati a toccarsi o a fare altri gesti scaramantici senz’altro incorreranno. Forse tra due o tre mesi, alla chetichella, il Grande Inquisitore sarebbe stato indotto a migrare.

Non voglio però chiudere così questo intervento, senza qualche estemporanea (e desolante) notazione. Si dà il caso che qualche giorno avanti l’inaugurazione della statua sia capitato proprio nel complesso monumentale di Bosco Marengo, e abbia visitato la chiesa voluta dal santo e a lui intitolata. Ho potuto visitare la cripta, dove per secoli un gran numero di domenicani sono stati sepolti, si dice in posizione seduta, così che potessero idealmente continuare a svolgere il loro lavoro: ma ho anche visto l’enorme monumento funebre, quasi un mausoleo, che Pio V si era fatto erigere nel transetto (e nel quale non riposa la sua salma, che sta invece a Roma, in Santa Maria Maggiore, in un altro monumento altrettanto offensivamente sfarzoso). Già quello è testimonianza sufficiente di una vanità e di una megalomania spropositate, e consente di prendere immediatamente le misure al personaggio, senza neppure disturbarsi a ricostruirne la storia.

Infine. Durante la cerimonia alessandrina di “svelamento” guardavo la piccola folla dei celebranti, tutti bardati negli smilzi completi blu elettrico, stile Di Maio o agente Tecnocasa, con la giacchetta che non arriva al sedere e il pantalone stretto alla caviglia, abbinati a calzature improbabili e ad ancora più improbabili fenotipie, che anziché trasmettere una immagine di solennità sacrale davano l’idea di buzzurri col vestito della festa; ho pensato che erano un campione perfettamente rappresentativo di chi ci amministra, di chi rastrella i nostri soldi, di chi dovrebbe garantirci l’informazione, di chi vigila sulla nostra sicurezza e sulla nostra salute, e ho avuto più che mai netta la percezione dello sfascio, ma quel che è peggio soprattutto quella della mia assoluta impotenza. Mi sono infatti chiesto se valesse la pena provare a guastare un po’ la festa, intervenendo ad aggiungere la parte di storia che avevano dimenticato, o che nemmeno conoscono, perché dubito che per questa occasione qualcuno si sia dato pena di andarsela a vedere: ma ho dovuto rispondermi che no, che sarebbe stato del tutto inutile, che avrei anzi contribuito allo squallido spettacolo messo in piedi, aggiungendogli un po’ di sale, senza intaccare minimamente le coscienze.

E mi sono cascate le braccia.

I gelsi e noi

catalogo della mostra svolta a Castellazzo Bormida il 12 e 13 ottobre 2024

di Paolo Repetto, 30 ottobre 2024 – dall’Album “I gelsi e noi

Hanno esposto le loro opere: Mariangela FONZEGA, Maria Cristina MACCAGNO, Marina PAIUZZI, Lucia PARODI, Enza PIGNATO, Bianca SPRIANO.
I ritratti delle pittrici sono stati eseguiti da Enrica AMELOTTI.
I testi e ricerca delle immagini non originali sono stati curati collettivamente dalle partecipanti alla mostra.
La mostra è stata organizzata col patrocinio del FAI e ospitata nei locali della SOMS di Castellazzo Bormida.

I gelsi e noi

Sollevando lo sguardo durante le peregrinazioni nelle nostre campagne ci siamo spesso imbattute nella discreta presenza di forme a tratti spettrali nel baluginante fluttuare delle nebbie invernali, rattrappite e quasi urlanti dopo le drastiche potature all’inizio della primavera e tuttavia nel giro di poche settimane testimoni di rinnovato vigore con una esplosiva fioritura di virgulti. Poi ancora ne abbiamo ammirato il manto lussureggiante di fogliame e frutti in un contrasto ardito con l’arsura estiva dei campi.

Perché i gelsi?

Riflettendo quindi sulla ammirevole capacità di cambiamento, adattabilità, energia ci siamo chieste perché questi elementi, un tempo connaturati ai nostri paesaggi, oggi appaiano sempre più rarefatti, ovvi, scontati, forse inutili.
Non è sempre stato così; infatti, a seguito di alcune ricerche, ci è apparso evidente che il gelso ha una lunga storia e ha rivestito un ruolo di grande rilevanza per le generazioni passate.
E allora ci è sembrato interessante attribuire con i nostri lavori un’attenzione speciale al gelso, protagonista nei secoli passati delle tante storie della nostra pianura.

Il gelso tra storia e leggenda

In natura sono presenti una decina di specie di questo albero ma le più note sono il Morus alba, ovvero il gelso bianco, e il Morus nigra, il gelso nero.
Il gelso nero è originario della Persia e fu introdotto nel Mediterraneo in tempi remoti, coltivato già nell’antichità classica per i frutti che fornivano un vino leggero e un distillato da cui si ricavava un’ottima grappa.
Il gelso bianco è originario della Cina ed ė giunto in Europa in antichissima data. Le cronache antiche riportano che intorno al 550 d.C. un monaco di ritorno dalla Cina avesse trasportato in una canna di bambù che gli serviva da bastone sia i semi dei gelsi che le uova di una varietà di bachi nutriti unicamente con le foglie del gelso, riuscendo così a superare i controlli degli ispettori. Le autorità cinesi proibivano infatti l’esportazione dei preziosi filugelli, dai quali si ricava miracolosamente un preziosissimo filato: la seta.
Secondo la leggenda quest’ultima era stata scoperta per caso dalla moglie di un imperatore cinese che aveva fatto cadere accidentalmente nella sua tazza di tè uno dei bozzoli, di solito conservati come ornamento in un vaso. Il bozzolo, a contatto con il liquido caldo, si sciolse e diede origine ad un sottile lunghissimo filo.
La seta divenne quasi subito un prodotto di somma importanza anche per l’economia europea. L’allevamento del baco entrò a far parte della vita contadina, così che la coltivazione dei gelsi assunse un nuovo ruolo e si diffuse in molte aree. La cura dei bachi da seta era un lavoro svolto principalmente dalle donne, mentre gli uomini e i bambini si occupavano di prelevare le foglie in gran quantità per nutrire i bachi, sempre più voraci via via che procedevano nel loro sviluppo.
La coltura dei bachi e la filatura della seta avvenivano inizialmente in ambiente domestico, ma dal 1600 l’introduzione di strumenti tecnologicamente sempre più avanzati fece sì che la filatura si trasferisse dalle case alle filande, luoghi dove avveniva la trasformazione dei bozzoli in matasse di seta grezza. Da questo momento in poi la manifattura serica conobbe un notevole impulso.
Verso la metà dell’Ottocento una malattia parassitaria letale colpì il baco da seta, con il conseguente crollo della produzione di bozzoli. Solo con incroci fra specie orientali e nazionali si riuscì ad ottenere un nuovo “seme baco”, resistente al parassita. Tuttavia, al termine della prima grande guerra l’attività serica subì una graduale diminuzione, per poi andare incontro a una definitiva cessazione dopo la Seconda guerra mondiale, quando i prodotti tessili importati dall’Oriente e in special modo dalla Cina divennero competitivi sui mercati europei. 

Enza Pignato

Bianca Spriano

Mariangela Fonzega

Lucia Parodi

Maria Cristina Maccagno

Marina Paiuzzi

Il gelso nella letteratura

… nella poesia latina

[…] Arbor ibi niveis uberrima pomis,
ardua morus, erat, gelido contermina fonti (89-90)
[…] Nec mora, ferventi moriens e vulnere traxit
et iacuit resupinus humo: cruor emicat alte,
non aliter, quam cum vitiato fistula plumbo
scinditur et tenui stridente foramine longas
eiaculatur aquas atque ictibus aëra rumpit.
Arborei fetus adspergine caedis in atram
vertuntur faciem, madefactaque sanguine radix
purpureo tingit pendentia mora colore (120-127)
[…]  At tu, quae ramis arbor miserabile corpus
 nunc tegis unius, mox es tectura duorum,
 signa tene caedis pullosque et luctibus aptos
 semper habe fetus, gemini monimenta cruoris». (157-160)

[…] Là vi era un albero, un alto gelso, feracissimo di bianchi frutti, contiguo ad una fresca fonte. (89-90)
[…] E si conficcò nel fianco la spada della quale era cinto e senza indugio già moribondo la strappò fuori dalla ferita gorgogliante e giacque supino sulla terra. Il sangue zampillò in alto, non altrimenti che quando un tubo si spacca per difetto del piombo e attraverso la piccola stridente apertura sprizza acqua e riga l’aria con lo zampillo. I frutti dell’albero, per gli spruzzi del sangue si mutano in colore scuro e la radice che se ne era bagnata tinge del colore della porpora i gelsi pendenti. (120-127)
[…] E tu, albero, che ora copri con i tuoi rami il miserevole corpo di uno solo e tra poco coprirai quelli di ambedue, conserva il segno della strage ed abbi sempre i tuoi frutti di colore scuro e convenienti al lutto, ricordo della doppia morte”. (157-160)

OVIDIO, Metamorfosi, libro IV

… in quella cinese

A primavera quando le giornate si fanno tiepide
ecco che il rigogolo canta,
le fanciulle, con le loro ceste,
vanno lungo i sentierini
a prendere ai gelsi la tenera foglia …

CHE KING VI (III secolo a.C.)

Una ragazza abita nella casa dei Qín,
una bella fanciulla che chiamano Luó Fū.
 Luó Fū conosce i gelsi che nutrono i bachi.
Ne raccoglie le foglie accanto alle mura …

Ballata popolare (VI secolo d.C.)

Lo Fo, la bella donna della terra di Ch’in,
coglie foglie di gelso, sulla sponda del fiume.
Alza le mani nude, lassù, sui verdi rami …

LI PO (VIII secolo d.C.)

… in quella italiana

Il gelso, che del sangue
de’ duo miseri amanti era vermiglio,
tornò viè più che pria candido e bianco,
e delle foglie belle
raddoppiò l’esca al’ingegnoso verme…

GIOVAN BATTISTA MARINO, da Orfeo

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sè distenda un velo
ove il nostro sogno giace

GABRIELE D’ANNUNZIO, La sera fiesolana

[…] Tre volte tanto brucano foraggio
così cresciuti. Ma tre volte tanto
 verdeggia il gelso al puro sol di maggio.
Due rose aperte tu porrai da un canto.
Sognino nella stanza solitaria
d’essere in Cina, i bachi, e per incanto
errar sui gelsi tra i color dell’aria!

GIOVANNI PASCOLI, I lugelli, dai Nuovi Poemetti

Di gente ricca solo
coi bachi e le lande credo
non ci sia più nessuno. Ma una volta
nel Comasco o a Bergamo, da dove viene la mia famiglia,
molte fortune si contavano a gelsi
o con quante ragazze venivano a filare
i bozzoli scottati per ammazzare le farfalle
nelle fredde officine.

GIOVANNI RABONI, da Barlumi di storia, 1988-91

Raccogli la foglia raccogline tanta
Nella prima dei bachi
 ci vuole verde e non bagnata
portane a casa una gerla piena.
[…] Vai avanti a raccogliere la foglia
 vai avanti raccogline di più
 che è un affare d’oro
avere i bachi

Canto popolare lombardo dell’800

… nei classici della letteratura

Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo […].

ALESSANDRO MANZONI, da I promessi sposi, cap. II

… e nella narrativa del Novecento

popolo o prima o poi andavano o erano andate in landa, con orari, salari, condizioni di lavoro che riescono oggi quasi incredibili. […] Polenta e cipolla, polenta e anguria. Le landiere uscivano a mezzogiorno, rientravano alla “cuca” tra la mezza e un botto. Per questo breve lunch non tutte correvano a casa; quelle che venivano da lontano si sedevano lungo i marciapiedi, di qua e di là della strada. Dai cartocci di carta gialla tiravano fuori la polenta e lo stupefacente companatico. […] Nelle case si allevavano i bachi da seta, i bizzarri “cavalieri” che si spargevano come un minuto seme nero (la “semenza”) e a mano a mano che diventavano piccole miniature di bruchi, poi si vedevano crescere di giorno in giorno, si allargavano su ampi territori ombrosi e tiepidi di tralicci accatastati a ripiani, invadevano le stanze, brucando con forza sempre più grande la “foglia” di moraro. La vita di queste creature colla pancia piena di seta somigliava a una febbre: il livello saliva di giorno in giorno, aggravando la fame dei malati. Già mangiavano dalle tre, poi dalle quattro; il piccolo brusio che in principio si avvertiva appena tendendo l’orecchio, diventava una vibrazione intensa, e infine un rombo. Gli uomini e i bambini arrampicati sui morari pelavano la foglia sempre più in fretta, arrivavano coi sacchi: frane di lucida foglia seppellivano i mostri deliranti che la sbranavano in pochi minuti. Ora i cavalieri mangiavano di furia: qualcuno andava in vacca, una specie di Tisi dei cavalieri che spegneva la febbre. La sera marciva dentro e si liquefaceva, gonfiando la pelle traslucida: a pungerlo con uno spillo il mostro si sgonfiava spargendo uno zampillo di tabe. Gli altri, paralizzati dalla febbre e da tutto quel mangiare, s’intorpidivano e venivano deposti nel “bosco” (le siepi di fascine in granaio) dove in pochi giorni, nello spazio abbuiato dagli schermi di carta sulle finestre, avveniva in segreto il miracolo, poi si trovavano nei rami secchi i giocattolini d’oro lustri e leggeri.

LUIGI MENEGHELLO, da Libera nos a Malo

Se anche il gelso non è albero della mia terra montana, mi è caro per un particolare ricordo che risale alla tarda primavera del 1941. In quell’anno, con la resa della Grecia, avevamo finito di penare freddo e fame tra le più alte montagne dell’Albania dove la tormenta non dava mai requie. […] mi imbattei in alcuni alberi grandi e forse antichi che tra i rami portavano frutti che per la forma mi ricordavano i lamponi. […] Ce n’erano di bianchi, di rosa, di rossi quasi viola e questi mi lasciavano il loro colore sulle dita e attorno alla bocca. Gli alpini del Garda mi dissero che erano “morari” e mi venne da pensare che forse erano stati impiantati al tempo della Repubblica di Venezia quando questa aveva il commercio mondiale della seta, dopo che un frate aveva portato dall’Estremo Oriente le uova del filugello dentro una canna di bambù che gli faceva da bastone.

MARIO RIGONI STERN, da Arboreto selvatico

Era il 1861. […] Hervé Joncour aveva 32 anni. Comprava e vendeva. Bachi da seta. […] partì per il Giappone il primo giorno di ottobre. Varcò il confine francese a Mezt, attraversò il Wurttemberg e la Baviera, entrò in Austria, raggiunse in treno Vienna e Budapest per poi proseguire fino a Kiev. Percorse a cavallo duemila chilometri di steppa russa, superò gli Urali, entrò in Siberia, viaggiò per quaranta giorni fino a raggiungere il lago Bajkal […]. Ridiscese il corso del fiume Amur, costeggiando il confine cinese fino all’Oceano, e quando arrivò all’Oceano si fermò nel porto di Sabirk per undici giorni, finché una nave di contrabbandieri olandesi non lo portò a Capo Teraya, sulla costa ovest del Giappone. A piedi, percorrendo strade secondarie, attraversò le province di Ishikawa, […] raggiunse la città di Shirakawa,la aggirò sul lato est e aspettò due giorni un uomo vestito di nero che lo bendò e lo portò al villaggio di HaraKei.
[…] presto al mattino, Hervè Joncour partì. Nascoste tra i bagagli, portava con sé migliaia di uova di baco, […] il lavoro per centinaia di persone, e la ricchezza per una decina di loro.

ALESSANDRO BARICCO, da Seta

… e infine, ne La Compagnia del Gelso di Franco Faggiani

“Mi raccontò, in sostanza, come vennero al mondo molti piccoli paesi marchigiani. Grazie al magico potere di aggregazione dei gelsi. Questi, secondo il racconto dell’onorevole, che aveva messo insieme frammenti di vecchi libri agricoli e di filosofia locale, erano di solito piantati al limitare dei campi e delle proprietà, per dividerle una dall’altra e renderle ben distinguibili, qui d’abitudine si intersecavano anche le piccole strade bianche che portavano alle varie fattorie dove c’erano abitazioni, magazzino, stalle, orti. Gli anziani che ci vivevano da tempo e che ormai non avevano granché da fare, spesso nella buona stagione, si ritrovavano in tre o quattro o anche più, ai crocicchi, seduti sotto i gelsi. Perché questi spargevano ombra immensa, garantivano frescura e offrivano frutti succosi. […] Qualcuno, forse un oste, poi pensò di sistemare anche un paio di panche e un tavolaccio su cui appoggiare mezzi litri di bianco e di rosso, le uova sode e soprattutto le sardine salate […]. Allora anche il fabbro non volle essere da meno: se di lì passano i viandanti, i mulattieri e i carrettieri, forse è il caso di attrezzare in un angolo una piccola fucina […]. Stesso ragionamento fece il prete: se ai crocicchi si ferma così tanta gente, forse è il caso che io ci pianti un crocifisso […] e poi arrivò un altro tipo che allestì una piccola bancarella per vendere granaglie, sementi […].
In questo modo, un po’ alla volta, nacquero i paesi […] nei luoghi dove c’erano i gelsi agli incroci delle strade di campagna.

Tutti i giardini delle grandi dimore francesi vennero trasformati in gelseti. Come quello delle Tuileries, nel centro di Parigi

Aprii e lessi: Alla fine del 1800 l’Italia è il primo produttore di seta in Europa e secondo alla China. Nel 1895 in Italia sono stati prodotti 41.158.318 kg di bozzoli […].

Dunque: il baco viveva dai trenta ai quaranta giorni e naturalmente il suo ciclo vitale doveva coincidere con la foliazione del gelso, in genere in aprile, perché quelle foglie sono il suo unico nutrimento. Il fogliame […] rimaneva sulla pianta anche fino all’inizio dell’autunno, ma era assai coriaceo, quindi poco gradito, perciò era quasi inutile allevare bachi, anche se qualcuno lo faceva. Insomma, il baco buono, produttivo, si poteva allevare un mese o due e non di più.
Nel suo ciclo vitale dunque il baco mangia senza sosta e con assoluta voracità, tranne durante le mute, che sono quattro. Tra una fase di sviluppo e l’altra fa quindi una pausa alimentare, che dura un giorno appena. E non mangia neppure nei quattro o cinque giorni terminali della sua vita, quando costruisce intorno a se la sua candida prigione di seta. Perché dopo aver cercato un rametto naturale o artificiale sul quale inerpicarsi, dedica tutta la sua attenzione e la sua energia a creare il bozzolo usando le ghiandole salivari. Più il baco si era prima ben nutrito, più è consistente la ‘tappezzeria’ finale, costituita da una trentina di strati sovrapposti di seta.
I bozzoli ‘finiti’ vengono fatti essiccare per due o tre giorni, poi vengono immersi nell’acqua bollente, dove si scioglie la sericina, cioè la sostanza naturale che tiene compatto il bozzolo, il quale così si srotola, diventa un filo che galleggia, mentre il baco, ormai morto, finisce sul fondo del contenitore d’acqua. Recuperare il filo è operazione che richiede pazienza anche perché è lungo dai 500 fino ai 1.200 metri, a seconda della tipologia del baco. […] In media da un quintale di bozzoli che sono capaci di produrre circa 50.000 bachi, si potevano ottenere tra i 20 e i 25 chilogrammi di seta cruda, più qualche chilo di cascame […].

Avevo appreso che la bachicoltura poteva essere definita la prima industria tutta al femminile. Perché in sostanza erano le donne ad occuparsi di ogni cosa: dalla selezione dei soggetti sani da far accoppiare alla raccolta e alla conservazione del seme; dallo sminuzzamento delle foglie per l’alimentazione quotidiana di migliaia e migliaia di soggetti alla pulizia delle lettiere; dalla cura degli ambienti fino alla delicata raccolta dei fili di seta e della loro vendita. […] Comunque erano sempre le donne a incassare il denaro, che veniva messo da parte per le future doti di matrimonio delle loro figlie femmine.

Le filande

Nelle filande lavoravano soprattutto giovani donne o addirittura bambine (le filerine, filandere o filerande), sottoposte a turni che potevano arrivare da 12 a 16 ore al giorno. Nel caso di bassa qualità o quantità del prodotto venivano anche multate. Il lavoro era faticoso e malsano, per via dei vapori delle vasche, delle mani tenute nell’acqua calda (80 gradi), della polvere e dei salari da fame. Per aiutarsi a sopportare queste dure condizioni le filerine cantavano in coro:

Cos’è, cos’è
Che fa andare la filanda
È chiara la faccenda
Son quelle come me.
Ormai lo so
Tutto il mondo è una filanda
C’è sempre chi comanda
E chi ubbidirà

Giovanni Migliara, Filanda Mylius a Buffalora sul Ticino (1828)
Pietro Ronzoni, Filanda nel bergamasco (1825)

Le filande di Castellazzo

In Italia la massima produzione di seta risale alla seconda metà del 1800. Anche a Castellazzo l’allevamento dei bachi era molto diffuso, e nei periodi più favorevoli nelle filande hanno lavorato più di 400 operaie, tra le quali molte bambine dai dodici anni in su, ma spesso anche più piccole.
Attualmente in paese rimangono quattro filande, ormai abbandonate da circa un secolo, altre sono state demolite o riutilizzate diversamente. Costruite in mattoni a vista, sono caratterizzate da un’alta ciminiera che in tre edifici è ancora ben visibile, seppure ridotta rispetto all’altezza originaria, forse per motivi di sicurezza. Due sono situate in aree centrali del paese, due sono più esterne.

La solitudine del gelso

Foto di Sergio Maranzana

Ringraziamenti

Avremmo voluto ringraziare singolarmente tutti coloro che ci hanno aiutate a ideare e ad allestire questa mostra, ma sono davvero tanti, e l’elenco minacciava di diventare troppo lungo e di risultare magari anche incompleto. Lo facciamo quindi collettivamente, fiduciose che chi ci ha offerto la sua disponibilità si riconoscerà comunque, e ottimiste nel pensare che alla fin fine si sia divertito quasi quanto noi.

Prospettive (a/o)ccidentali

di Paolo Repetto, 24 giugno 2024

(Questo testo è stato concepito come introduzione al volume IX delle Opere complete dell’autore, la cui uscita sembra rimandata sine die per analfabetismo digitale dello stesso. Ve lo anticipiamo comunque, in attesa che ritrovi la sua originaria destinazione.)

Nel lessico architettonico la prospettiva accidentale (detta anche angolare) è quella che identifica sulla linea dell’orizzonte due punti di fuga, uno a destra ed uno a sinistra rispetto al punto di vista. Questo avviene quando il piano sul quale si situa l’osservatore non è parallelo all’oggetto osservato, ma angolato. Per intenderci, quando si visualizza e si rappresenta un oggetto non frontalmente, ma di sbieco. È la modalità di rappresentazione che incontriamo con maggior frequenza nel disegno architettonico moderno (ad esempio, negli scorci urbani futuristici di Sant’Elia), perché suggerisce l’idea di una visione “casuale”, di una “istantanea”, e in qualche modo, invece di fissarla, movimenta l’immagine. Per ottenere tale effetto è anche opportuno che la figura risulti sfalsata rispetto al quadro prospettico secondo angoli diseguali (non cioè due angoli di 45°), e che il punto di vista scelto sia quello che offre lo scorcio più “interessante”.

Se questa modalità la si trasferisce su un piano simbolico, ci offre la metafora perfetta del rapporto che è venuto a crearsi nel corso dell’età moderna tra il soggetto osservante e il mondo che lo circonda: e questo vale tanto per il rapporto spaziale (l’uomo e la natura, l’individuo e la società) che per quello temporale (l’uomo e la storia). Vorrei usarla quindi come tale, ma prima cerco di spiegarmi meglio, e per farlo devo fare un passo indietro e partire da lontano.

Accade questo. Nel Quattrocento e nel corso del Rinascimento si compie nelle arti visive quella che viene definita la “rivoluzione prospettica”. Si adotta cioè un punto di vista esterno rispetto all’oggetto da rappresentare: si frappone uno spazio tra soggetto e oggetto, come se l’uomo, che aveva vissuto sino a quel momento “dentro” la natura (e, aggiungerei, dentro una qualsivoglia comunità di specie, tribale, religiosa, militare, ecc …) da un lato sentendosene parte, ma dall’altro rimanendone in balìa, cominciasse a guardare ciò che lo circonda da una finestra, e a staccarsene. La finestra, come avverrà più tardi con l’obiettivo fotografico, “in-quadra” il mondo osservato, definisce la separazione dell’osservatore, e induce quest’ultimo a scegliere un posizionamento (il punto di vista) che renda possibile concentrare la sua attenzione su quanto riveste per lui uno specifico e immediato interesse. La messa a fuoco avviene seguendo delle linee ideali, le cosiddette “linea di fuga”, che non si fermano sull’oggetto, ma si prolungano sino a incontrare in un “punto di fuga” il piano dell’orizzonte. In questo modo si determina una distanza, una separazione dall’oggetto: ma poi si reintegra quest’ultimo in uno spazio “geometrico”, quello che il soggetto gli crea attorno, davanti e dietro. In sostanza si inventa, o si riconosce, una nuova dimensione esterna, quella della profondità, in opposizione alla quale cresce, si evidenzia e si proietta a sua volta quella interna dell’individualità.

Prospettive occidentali 02

L’introduzione della profondità modifica infatti radicalmente il rapporto con tutto ciò che sta fuori. Andate a rivedervi Masaccio, Paolo Uccello e La scuola di Atene di Raffaello e capirete di cosa sto parlando. Mentre lo spazio piano, che era caratteristico della cultura classica e di quella medioevale, consentiva al suo interno una differenziazione eminentemente qualitativa, nella quale valeva un gioco di corrispondenze e di similitudini che prescindevano da ogni computo, quello prospettico ne introduce una quantitativa, sconosciuta agli antichi. In altre parole, il soggetto si “appropria” dell’oggetto inserendolo in una dimensione profonda che consente di rilevare i volumi, lo inscrive in una struttura geometrica, e quindi lo “quantifica”: e si appropria anche dello spazio (non solo di quello fisico, ma anche, ad esempio, di quello politico e relazionale), perché lo ridisegna.

In questo modo l’umanità può controllare un mondo dal cui abbraccio si è divincolata, e “razionalizzarlo”. È come se per millenni avesse ammucchiato mattoni, magari associandoli per grandezza o per colore, e adesso cominciasse a disporli e organizzarli secondo le linee e gli angoli di un progetto ben preciso di edificazione. Non solo: ogni successivo arretramento della linea dell’orizzonte, prodotto dalla proiezione del progetto nel futuro, induce una crescente curiosità nei confronti dell’incognito, sempre meno frenata da paure e superstizioni e sempre più sorretta da nuove potenzialità previsionali. Questa è non a caso l’età delle scoperte geografiche, che abbandona la navigazione a vista e introduce il calcolo delle rotte. La profondità può essere percorsa, comporta possibilità inedite di movimento e di relazioni, e le distanze da coprire sono tradotte in tempi e costi (o vantaggi).

Le implicazioni che discendono a catena da questa modalità di rappresentazione del mondo non riguardano dunque solo la percezione dello spazio. Anche la concezione del tempo è strettamente connessa all’adozione della prospettiva, e anch’essa conosce una dilatazione, sia della profondità storica che della progettualità nei confronti dell’avvenire. Ad un remoto spaziale si associa insomma anche la consapevolezza di un remoto temporale, passato o futuro. L’idea che noi occidentali abbiamo del tempo dipende infatti, oltre che dall’assunzione a modello percettivo del ritmo biologico e della linearità della vita individuale, dal modo in cui ci rappresentiamo lo spazio. Questo lo aveva già capito Aristetele, quando diceva che il tempo è quello “spazio” che intercorre tra il prima e il poi, e in quello spazio si dà il movimento, e quindi il tempo è il “numero”, la misura del movimento.

Malgrado ciò, nel ‘500 l’associazione spazio-tempo non è ancora così immediata: lo dimostrano le fogge nelle quali sono abbigliati, nelle rappresentazioni di vicende dell’antichità classica o della storia testamentaria, i protagonisti, o le architetture rinascimentali entro le quali questi si muovono. Ma la profondità dell’ambientazione, con la possibilità di immaginare al suo interno un movimento delle figure, già di per sé “storicizza” quanto viene mostrato. Per rimanere nell’esemplificazione iconografica, alla fissità atemporale dei vari Cristi crocifissi o delle Madonne in trono succedono le rappresentazioni “drammaticamente” ambientate delle Annunciazioni o del pagamento del tributo. Questo implica, nel caso delle prime, la “storicizzazione” della vicenda evangelica, la costruzione di una biografia del Cristo distesa nel tempo; nel secondo caso la separazione tra ciò che attiene al sacro e quanto ricade nel profano, e al tempo stesso la legittimazione ad esistere di quest’ultimo.

La nuova modalità di conoscenza prodotta dal collocarsi fuori dal quadro identifica insomma in ciò che viene osservato nuovi significati e nuove potenzialità, e li piega ad uno scopo. Impone cioè che si adottino dei criteri di scelta delle direzioni da percorrere e dei progetti da realizzare, e suppone che questi ultimi siano quantificabili in tempi, costi e risultati.

Riassumendo: da un certo periodo in poi il mondo e le azioni che si compiono nei suoi confronti sono visti “in prospettiva”. Le direzioni, i progetti, le aspettative, sono altrettanti atti di volontà di un soggetto che si è separato dall’oggetto della sua conoscenza, negando implicitamente quella organicità indifferenziata di cui in precedenza si sentiva partecipe: le cose non accadono per fatalità o per leggi naturali intrinseche ed immutabili, non scorrono davanti a noi come su uno schermo, o attorno a noi come in una rappresentazione plastica nella quale figuriamo solo come comparse, ma vengono riordinate nella profondità di uno spazio pensato dall’uomo a sua misura, secondo sequenze geometriche e matematiche delle quali ha la regia. All’interno di questo spazio creato dalla prospettiva, che contempla la dimensione della profondità, l’oggetto non risulta più statico, ma diventa passibile di spostamento, e il soggetto acquista facoltà di intervento. Alla fissità della statica subentra il primato della dinamica; lo studio e la riproduzione dei meccanismi del movimento gettano le fondamenta della moderna meccanica. Ora, l’unico modo nel quale si può attraversare lo spazio è il tempo, e lo spazio prospettico matematizzato ha quindi riscontro in una prospettiva temporale nella quale l’uomo comincia a iscrivere il proprio agire, e che sancisce in fondo la vittoria definitiva dell’idea biblico-cristiana della linearità del tempo, introducendo in più quella della fuga in avanti (ovvero, della progressione).

Questo modo di procedere viene definito in un primo momento “iuxta propria principia”, come fosse dettato dai principi stessi naturali, quasi a difenderlo dal sospetto di sacrilegio. In realtà quei principi sono dettati dai modi nei quali la natura è rappresentata, dalla necessità di ricondurre tutto a spiegazioni razionali, anche quando le si cerca col tramite dell’esperienza. In fondo anche Galileo parte dal presupposto che “la natura è un libro scritto da Dio in linguaggio matematico”. Il fatto è che il libro non lo ha scritto né dettato Dio, ma gli uomini, e gli uomini possono leggere solo quello che essi stessi hanno scritto. Non tarderanno ad accorgersene, ma ci vorranno secoli prima che arrivino ad ammetterlo.

Prospettive occidentali 03

Mi accorgo che forse l’ho messa giù troppo pesante, e a questo punto dubito fortemente che la mia sintesi possa risultare chiara: ma ho già trattato l’argomento della “rivoluzione prospettica” in Da Pico a Bacone, e a quel testo rimando. Nell’occasione avevo però badato soprattutto a cogliere le premesse della trasformazione epocale dei modi della percezione, e a documentarne lo straordinario impatto in ogni ambito della conoscenza umanistico-rinascimentale (e, naturalmente, della prassi), fermandomi alle soglie di quella che sarebbe poi stata definita la “modernità”. Proprio quella che invece, sempre in maniera molto sintetica, vorrei provare ad affrontare adesso (anche se, in realtà, ho già sviluppato questa parte in maniera più analitica in un altro testo, La discesa dal Monte Analogo – cfr. il capitolo Razionalizzare il mondo).

La rivoluzione prospettica non va comunque a compimento nel Rinascimento: conosce ulteriori sviluppi, quelli appunto che dovrebbero essere oggetto di queste pagine e che stanno all’origine del nostro attuale “disorientamento”.

Il fatto è che la prospettiva centrale, o frontale, quella adottata per le arti visive nel Rinascimento, dilata indubbiamente lo spazio, ma nella sostanza poi lo richiude, perché fa convergere in un punto preciso (il punto di fuga) le linee di proiezione. Questo è un modo senz’altro efficace per mantenerne il controllo. Un esempio lampante lo possiamo trovare negli sviluppi della conoscenza geografica cui ho già fatto cenno. Le scoperte spostano ripetutamente in avanti la linea dell’orizzonte, aprono sempre nuovi spazi, ma su questi viene immediatamente gettata una rete di linee geometriche che li ingabbiano, li razionalizzano e li quantificano. La conoscenza nuova che si ha del mondo è immediatamente tradotta in distanze, tempi di percorrenza, prospettive economiche.

Sul finire del Rinascimento però questa rete di controllo, che in fondo rispondeva ancora alla concezione classica di unitarietà del mondo, comincia a mostrare le sue falle. Le varie rivoluzioni che si succedono, da quella religiosa a quella scientifica, e prima ancora quelle indotte dalla stampa o dalle armi da fuoco, introducono una molteplicità di punti di vista, e quindi di potenzialità prospettiche. Si comincia a guardare da finestre diverse, con diverse angolazioni, su orizzonti che non solo si spostano, ma mutano. A mano a mano poi che si realizzano una conoscenza e un dominio sempre più ampio e performante sulla natura si scopre anche che ogni nuovo passo apre più problemi e interrogativi di quanti non ne risolva. La “docta ignorantia” di Cusano, che sembrava essere stata messa alla porta proprio con l’introduzione della prospettiva, rientra dalla finestra: solo che non riguarda più le cose di Dio, la Verità, ma le cose del mondo.

Anche in questo caso è l’arte a dare conto nella maniera più immediata ed evidente del cambiamento. Già il barocco, ad esempio, propone preferibilmente angolazioni e soluzioni “eccentriche”, e adotta una fondamentale variante prospettica, quella appunto della prospettiva accidentale. E le “capricciose invenzioni” di Piranesi, frutto di una sensibilità inquieta, precorritrice del romanticismo, vagheggiano la fuga in un mondo ideale che si sottrae ai canoni geometrici rivoluzionandoli dall’interno, e rifiuta ogni commensurabilità. L’esito ultimo della rivoluzione è questo.

Al contrario della prospettiva centrale, che pur dilatandolo chiude lo spazio, quella accidentale infatti lo apre, perché i punti di fuga sulla linea d’orizzonte possono anche uscire dalla scena, trovarsi all’esterno del quadro prospettico, cioè al di fuori dello spazio che vediamo rappresentato. Come scrive un eminente storico dell’arte, Erwin Panofsky, è la “forma simbolica” di un modo di vedere il mondo senza cercare di racchiuderlo nel perimetro dell’immagine. La prospettiva accidentale ci dice che quel mondo non lo si potrà mai rappresentare nella sua interezza, ma solo coglierne scorci, angoli fuggevoli e linee che si perdono oltre il nostro sguardo. In sostanza, la nostra conoscenza ne esce relativizzata.

Prospettive occidentali 04

Quello che accade dopo è davvero troppo complesso per azzardarne una sintesi. È una vicenda che inizia con il moltiplicarsi dei punti di vista e delle angolazioni prospettiche, e procede poi lungo tutta la modernità tra alti e bassi, speranze illuministiche e regressioni romantiche, magnifiche sorti e progressive e tramonti decadentistici. E lungo il cammino assume le caratteristiche di una proiezione squisitamente “occidentale” del posto dell’uomo nel mondo, riassumibile nell’idea di “progresso”, che viene trasmessa o imposta gradualmente a tutte le altre culture. Ma oggi, essendo approdata nella seconda metà del ventesimo secolo al nichilismo relativistico della post-modernità, parrebbe non funzionare più. E qui conviene che citi direttamente da La discesa dal Monte Analogo: faccio prima ed evito di ripetere per l’ennesima volta le stesse cose. Con una avvertenza, però: in quelle pagine riportavo la ricostruzione del percorso della modernità quale è operata dagli anti-moderni (alias anti-illuministi o anti-occidentalisti), che mi trova d’accordo solo sino ad un certo punto, perché si risolve poi nell’ipocrita rifiuto di ogni portato della civiltà “occidentale”, compreso il diritto alla critica del quale si avvalgono. Voglio dire che nelle linee di massima la ricostruzione è corretta, mentre non lo è affatto l’interpretazione che si dà dell’intera vicenda.

«Come abbiamo visto, l’imputazione più generica è di aver usato lo strumento della ragione per impadronirsi del mondo e sfruttarlo, e di aver legittimato questo dominio postulando una naturale convergenza tra sapere e potere (vedi Francesco Bacone). Ovvero, di avere attuato una “razionalizzazione del mondo”, intesa sia come modalità conoscitiva ed esplicativa che come condizione e modello per agire su di esso, per modificarlo e addomesticarlo.

Cosa significa però “razionalizzare il mondo”? Nella interpretazione antimoderna significa in primo luogo ridurne la lettura alle sole operazioni compatibili con quanto la mente umana è in grado di dominare: ovvero, costringere il reale negli schemi totalizzanti dell’unità e della storicità ed escludere il molteplice, tutto ciò che non trova spiegazione entro questi schemi. Vale a dire: supporre che esista una logica interna al tutto, e che tutto ciò che esiste o accade sia sempre spiegabile in termini razionali, e solo in essi. È quanto Hegel aveva lapidariamente riassunto in “Tutto ciò che è razionale è reale; e ciò che reale è razionale”. […]

Con la rivoluzione scientifica entriamo ormai nel pieno della modernità. Bacone, Cartesio e Galileo hanno gettato le fondamenta per una visione meccanicistica del mondo naturale: Hobbes l’ha poi trasferita ai rapporti interumani, postulando che la società sia una costruzione artificiale (un meccanismo, quindi, anziché un organismo) e che il potere abbia una natura contrattualistica, fondata sulla somma delle convenienze individuali. Dopo di lui gli illuministi settecenteschi e i positivisti dell’Ottocento hanno fatto dello studio “scientifico” della società un obiettivo prioritario. “Razionalizzare” significa infatti applicare il parametro razionale non solo come condizione del conoscere ma anche come misura dell’efficienza e della bontà, o della utilità, dell’agire: quindi adottare quell’attitudine che chiamiamo, in genere con un po’ di sufficienza, “pragmatismo”. […]

È insomma accaduto che uno strumento proprio della ragione (nel nostro caso la capacità di immaginare delle coordinate per definire degli spazi o di individuare percorsi non obbligati dalla configurazione del territorio) e funzionale al metodo scientifico, quindi applicabile alla geografia e più in generale alle scienze naturali, è stato trasferito nell’ambito delle scienze umane (nella politica e nell’economia). Questo tipo di sconfinamento è diventato più frequente e scontato mano a mano che si imponeva una conoscenza “geometrizzante” del mondo: in parallelo si affermava infatti la spinta a “razionalizzare” il potere, il dominio, l’economia, la società, e di lì a poco tutta la sfera esistenziale individuale, controllando e pilotando anche desideri ed emozioni.

Imboccando questa strada, secondo i post-modernisti, la ragione ha fatto compiere un salto qualitativo alle sue pretese: intanto si è appropriata in esclusiva di un terreno che avrebbe dovuto condividere con altre modalità conoscitive, non razionali; poi è passata dalla ricerca del logos, della coerenza interna al reale, a quella del senso, ovvero dalla descrizione del mondo alla sua interpretazione. Anziché limitarsi ad interrogare ha insomma costruito anche le risposte, e lo ha fatto naturalmente a propria immagine e somiglianza. Di conseguenza ha favorito l’atomizzazione sociale, perché ha cancellato quei legami comunitari che non erano “matematicamente” controllabili e li ha sostituti con la cultura del diritto, che definisce dei margini di autonomia individuale e consente di quantificare gli spazi e organizzare meccanicamente i rapporti.

Il risultato è che il mondo, inevitabilmente, è stato letto sempre più come il “regno della quantità”: il che comporta dissezionare un organismo e ricomporne i pezzi nei modi della organizzazione, secondo la misura umana. Ovvero separazione, omologazione e appiattimento.»

E individualismo, occorre aggiungere. Perché, tornando alla nostra metafora della prospettiva, ci siamo pian piano allontanati dalla finestra, ma non per uscire fuori e reimmergerci nella natura, cosa di cui peraltro non saremmo più capaci e che comunque non avrebbe senso, bensì per guardare dentro uno specchio. E a differenza di Alice non siamo in grado di andare oltre. Anziché continuare a dilatarsi l’orizzonte si è ristretto, le linee di fuga si sono progressivamente accorciate, fino ad appiattirsi sul piano prospettico. Non vediamo più fuori, la natura, gli altri, abbiamo perso la dimensione della profondità e siamo concentrati su noi stessi e sull’immediato presente. Si potrebbe parlare di prospettiva invertita.

In questo senso posso usare in chiusura una metafora ancor più significativa, quella offerta dal dilagare del selfie. Nel selfie il punto di vista è quello di una macchina, e il soggetto guarda se stesso diventato oggetto. Può ambientare in vari modi la sua presenza, avere alle spalle un monumento, un paesaggio naturale, il gruppo di amici o il personaggio famoso, ma lo scopo è sempre quello di “oggettivarsi”, documentare a se stesso la propria esistenza. Altro che guardare, o vedersi, “in prospettiva” centrale. L’eterno presente, l’assoluta immobilità progettuale in cui è confinato sono l’anticamera della sparizione, e il selfie è un estremo patetico tentativo di scongiurarla. Un’istantanea, appunto, che in realtà testimonia solo della nostra “accidentalità”.

Qui volevo arrivare, con tutto questo giro. Al fatto che il venir meno della fiducia in quella che era diventata la prospettiva “occidentale” crea oggi un vuoto di futuro, uno scombussolamento degli orizzonti, nel quale si cerca affannosamente di trovare non tanto nuovi punti di fuga sui quali convergere, ma delle linee di fuga sulle quali appiattire tutte le molteplicità. E lungo le quali sfuggire alla crescente e angosciante sensazione della nostra individuale irrilevanza.

La rivolta anti-occidentale, con tutte le motivazioni che può legittimamente accampare, non sembra dunque preludere ad un cambio di rotta, a un ricollocamento della specie umana nel mondo che tenga comunque conto della sua “eccezionalità”, del fatto che ormai da tempo – da ben prima che questo fatto fosse sancito dall’invenzione della prospettiva – si è collocata fuori dal quadro, e questo proprio per seguire la sua specifica natura. L’impressione è piuttosto quella di una navigazione a vista, di una visione talmente schiacciata sul presente da non consentirci di avvertire che siamo già sugli scogli. E il naufragare in questo mare ci è tutt’altro che dolce.

Prospettive occidentali 05

Tutto questo sproloquio parrebbe aver poco a che vedere con i contenuti del presente volume. Non è così. A rifletterci, sia le biografie raccolte nella prima parte che gli interventi estemporanei ospitati nella seconda parlano in fondo della prospettiva “occidentale”, raccontando le une il rifiuto nei suoi confronti, le altre la sensazione o la concreta percezione del suo venire meno. Non dicono alcunché di nuovo, ma almeno mi hanno aiutato per il tempo che mi è occorso a stenderle a distrarmi dallo specchio e a guardare dalla finestra. La speranza è ora che aiutino anche altri a farlo.

Che piacere incontrare il signor Lear!

Vita vagabonda di “uno sporco pittore paesaggista”

di Paolo Repetto, 5 giugno 2024, dall’Album “Che piacere incontrare il signor Lear!

Che piacere incontrare il signor Lear copertinaIndice

Introduzione

Vita vagabonda di “uno sporco pittore paesaggista

L’uomo

Il viaggiatore

Il pittore

Lo scrittore

Bibliografia

Appendice 1

Appendice 2

Appendice 3

Introduzione

Che piacere incontrare il signor Lear 03Con una matita del genere,
una penna del genere.
hai seguito uomini lontani,
ho letto e ho sentito che ero lì.
Alfred Tennyson To Edward Lear, On His Travels in Greece

Nel 1846 veniva pubblicato in Inghilterra A Book of Nonsense. Era una raccolta di “limericks”, ovvero di filastrocche strampalate, di giochi di parole surreali, composti però seguendo uno schema metrico fisso (cinque versi, i primi due che fanno rima tra loro e con l’ultimo, mentre il terzo rima col quarto. In genere l’ultimo verso riprende il primo, con una piccola modifica, e il primo deve sempre contenere il nome e una qualificazione del protagonista e l’identificazione del luogo in cui compie l’azione (!?) o dal quale proviene). Ad ogni limerick era collegato un disegno che illustrava in forma caricaturale il contenuto dei versi.

Che piacere incontrare il signor Lear 04Il libro era stato pensato per i bambini, ma piacque molto anche ai grandi. L’autore, Edward Lear (che aveva firmato sotto lo pseudonimo di Derry down. Derry), e aveva realizzato anche i disegni) divenne famoso in tutta l’Inghilterra, e lo è ancora oggi. Da noi lo è molto meno, anzi, direi quasi per nulla. Per vari motivi. Intanto perché i limeriks sono in effetti intraducibili, e volti in italiano perdono la loro valenza giocata principalmente sul linguaggio. Quindi tardarono molto ad essere tradotti, e lo furono quando il pubblico si era ormai assuefatto a ben altre stranezze. Poi perché il limerik è un gioco di finezza, di leggerezza, che non chiama la risata, ma il sorriso. E invita a sorridere non per la comicità di quanto “racconta”, perché in effetti non racconta niente, ma per l’assurdità dell’accostamento di certe parole, di certe immagini, o per l’invenzione di termini assolutamente improbabili. Infine perché fa capo a un senso dell’umorismo molto brithish, lo stesso che circolava centocinquant’anni fa nei giochini poetici di Lewis Carroll e più tardi, nella versione in prosa, nei libri di Jerome o di Woodeouse (qualcosa del genere ancora si può trovare oggi in quelli di Nick Hornby).

Un equivalente italiano non esiste: nella nostra tradizione esopiana sotto sotto deve esserci sempre una morale o una logica. E quando queste non ci sono, non ci si libra leggeri nel bizzarro, ma si scade pesantemente nel demenziale, nel doppio senso equivoco. (Prevengo le obiezioni: ma come? Abbiamo una tradizione che va dal Burchiello a Palazzeschi, su su fino ad Achille Campanile, a Toti Scialoia e a Giulia Niccolai, nonché a Fosco Maraini e se vogliamo anche a Enzo Jannacci. Tutto vero. Tranne che se andate a leggerli vi accorgerete che denunciano invariabilmente uno sforzo mentale, che con la leggerezza infantile di Lear non c’entra un accidente. Quanto a non senso a piede libero l’unica nostra forma letteraria che oggi potrebbe giocarsela col limerik è la cronaca giornalistica: ma in questo caso l’effetto è tutt’altro che giocoso, è addirittura avvilente.)

Non volevo comunque soffermarmi sui limeriks, quanto piuttosto sulla eccentrica e poliedrica figura del loro autore, che fu anche un instancabile viaggiatore. Sulla sua lapide sono incisi i versi che Tennyson gli dedicò, che ho riportato in esergo e che estendo idealmente a tutti gli autori di letteratura di viaggio che mi hanno appassionato.

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Vita vagabonda di “uno sporco pittore paesaggista

Già mi era parsa pesante la situazione di Alfred Wallace, decimo di una nidiata di undici fratelli che dovettero precocemente imparare a cavarsela, con un padre che passava da una bancarotta all’altra: ma al quasi coetaneo Edward Lear era andata ancora peggio. Nella sua famiglia i fratelli erano ventuno, lui era il penultimo, e il padre, a seguito di un dissesto finanziario, trascorse anche qualche tempo in galera per debiti. Inoltre, mentre il primo viveva in campagna, dove era più facile cavarsela, il povero Edward crebbe a Londra (dove era nato nel 1812), all’epoca il luogo più inquinato della terra, e non meraviglia che sin dall’infanzia fosse asmatico e anche epilettico. A quattro anni dovette lasciare la famiglia, in seno alla quale immagino si dovesse stare piuttosto stretti, per andare ad abitare con la sorella Ann, più anziana di lui di oltre vent’anni. Anche più tardi, quando la situazione economica migliorò, i genitori non lo riaccolsero, e la sorella continuò a fargli da madre per tutta la vita. Indubbiamente Edward ne soffrì molto, ma questa fu per certi aspetti anche la sua fortuna, perché in famiglia avrebbe avuto scarsissime probabilità di essere seguito, mentre la sorella incoraggiò e coltivò le sue attitudini artistiche.

Che piacere incontrare il signor Lear 06Questo, almeno, è quanto Edward stesso ha raccontato nei cenni autobiografici disseminati qua e là nei suoi scritti. Un’infanzia e un’adolescenza da romanzo dickensiano. Secondo alcuni suoi biografi però ha un po’ romanzato, o almeno caricato, le circostanze e gli avvenimenti, quasi a giustificare la successiva condizione di disagio e di scarsa autostima che lo accompagnò per tutta la vita. Di fatto ci furono comunque l’abbandono da parte dei genitori e il precoce manifestarsi di crisi epilettiche, forse conseguenti al drammatico distacco, o forse proprio alla sua origine.

Lear chiamava l’epilessia il suo “demone”: “Ad appena otto anni — e forse anche prima — questo Demone mi schiacciò, senza che io ne comprendessi l’ingiustizia e la sofferenza. Ogni mattina nello studiolo, mentre mi dedicavo alle mie lezioni — tutto il giorno e sempre la sera e la notte. Né potevo avere più di sei anni, credo — perché ricordo intere annate prima di andare a scuola a undici anni. È sorprendente che questi attacchi non siano mai stati scoperti, ma siccome li sento arrivare in anticipo, mi ritiro nella mia stanza”. Sembra si trattasse di crisi tutto sommato leggere, ma frequentissime, che esplodevano generalmente al mattino presto o in tarda serata. Edward continuò per tutta la vita a vergognarsi di questa sua patologia, e a ingegnarsi per tenerla nascosta. Annotava però diligentemente le crisi nei suoi diari, indicandole con una croce ed un numero progressivo, e arrivando sino a registrarne diciotto in un mese.

Ma non era tutto. A sette anni cominciò a manifestare anche una certa tendenza alla depressione (e ne aveva ben donde), attraverso sintomi che definiva “morbosità” (the morbids): “La prima di tutte le morbosità che ricordo deve essere capitata più o meno verso il 1819, quando mio padre mi portò in un prato nei pressi di Highgate, dove c’era un’esibizione ginnica di clown di campagna ecc. — e un’orchestra […] Ricordo che piansi gran parte della notte dopo la fne del divertimento — e anche di avere sofferto per giorni al ricordo della scena ormai svanita”.

Che piacere incontrare il signor Lear 07Insomma, era un ragazzino estremamente sensibile, malaticcio e timoroso di tutto (una delle sue principali fobie riguardava i cani), affetto tra l’altro da una forte miopia, e ben presto si sentì in dovere di anticipare preventivamente, attraverso una impietosa autoironia, le critiche che pensava potessero essergli rivolte per il suo carattere e per l’aspetto goffo e impacciato. È anche comprensibile, stanti la sua situazione psicologica e le modalità impietose nelle quali veniva impartita l’educazione scolastica inglese, perché la sorella abbia cercato il più a lungo possibile di risparmiargli l’impatto con un mondo che quasi certamente lo avrebbe spezzato. Frequentò quindi la scuola solo piuttosto tardi (dopo i dieci anni), e per un periodo molto breve.

Poi, “all’età di quattordici anni e mezzo fui abbandonato a me stesso letteralmente senza un centesimo, e senza alcun mezzo per procurarmi di che vivere se non i miei propri sforzi”. Anche questo non è del tutto esatto, dal momento che poteva contare, oltre che su Ann, anche su un’altra sorella, Sarah, la meglio accasata di tutta la progenie dei Lear.

È vero comunque che a soccorrerlo fu soprattutto una straordinaria attitudine al disegno, in particolare a quello di tipo naturalistico-zoologico, una dote che aveva cominciato a manifestare sin da bambino durante le passeggiate per le stradine di campagna attorno ad Highgate, che le sorelle intelligentemente incoraggiarono e che gli consentì di guadagnarsi da vivere già dall’ adolescenza. “Ho iniziato a disegnare per pane e formaggio intorno al 1827”, scrive “ma producevo solo schizzi di soggetti strani e insoliti, vendendoli a prezzi stracciati”.

Che piacere incontrare il signor Lear 08In questo campo fu praticamente un autodidatta, cosa di cui non si rammaricava affatto: “Quasi ringrazio Dio di non avere mai ricevuto un’istruzione, poiché mi sembra che novecentonovantanove di coloro che la ricevono, con grande spesa e notevoli sforzi, l’hanno già dimenticata prima di arrivare alla mia età e rimangono, come gli Stulbrugg di Swift, indifferenti per tutta la vita e non usano minimamente i tesori che hanno accumulato in precedenza, mentre invece io sembro essere sempre sul punto di acquisire nuove conoscenze”.

In realtà col tempo avrebbe cambiato idea. In una lettera scritta nella maturità al pittore preraffaellita William Holmar Hunt, amico e compagno d’avventura in diversi viaggi, scriveva: “Mi sarebbe piaciuto frequentare l’accademia come hai fatto tu, così avrei potuto lavorare da allora in poi al tuo fianco! Arrivando così tardi a comprendere il senso della verità in pittura, quando ormai le mie abitudini si erano formate e i miei occhi e le mie mani non erano duttili come avrei voluto, non sono potuto diventare un grande pittore. Inoltre i miei interessi topografici per differenti paesi, e la mia dedizione alla musica e all’ornitologia e ad altri campi hanno finito per confondermi e frenarmi”.

Non sarà diventato un grande pittore, ma è indubbio che come illustratore dimostrò sin da subito un eccezionale talento, e non tardò a farsi conoscere.

I suoi schizzi furono infatti notati dal curatore del museo della Zoological Society, che a partire dai sedici anni lo prese sotto la sua ala e lo associò come “disegnatore ornitologico”. A diciott’anni aveva già un nutrito gruppo di allievi cui insegnava privatamente, e gli venivano commissionate serie di incisioni per la stampa. In questo periodo conobbe tra gli altri l’ornitologo e artista John Gould, autore di alcune delle più belle pubblicazioni naturalistiche della sua epoca, col quale avrebbe a lungo collaborato. Tra il 1830 e il 1832, quindi prima di compiere vent’anni, Lear poté pubblicare una bellissima opera illustrata dedicata ai pappagalli, Illustrations of the family of Psittacidae, or Parrots, con 42 tavole litografate e colorate a mano da lui stesso. I soggetti rappresentati erano tutti ritratti dal vivo, e non da esemplari impagliati come all’epoca si usava, e i particolari erano riportati con precisione quasi maniacale. L’opera non ebbe il successo economico nel quale forse l’autore sperava, ma lo fece apprezzare in tutta l’Inghilterra dagli specialisti del settore.

Questo gli aprì altre porte e conoscenze, prima fra tutte quella del tredicesimo conte di Derby, lord Stanley, alle cui dipendenze lavorò per quattro anni come pittore naturalista. Il conte aveva allestito presso la sua tenuta, Knowsley Hall, vicino a Liverpool, una sorta di zoo privato, e commissionò a Lear le riproduzioni a colori di tutti gli animali del serraglio. In breve il giovane artista seppe farsi benvolere da tutta la famiglia, tanto da essere trattato come un ospite piuttosto che come un dipendente, e a Knowsley Hall ebbe modo di incontrare “alla pari” i molti personaggi illustri che frequentavano l’aristocratica dimora.

Che piacere incontrare il signor Lear 09Proprio a questo periodo risale l’invenzione dei limericks, composti per divertire i nipoti del conte e diventati in breve oggetto di divertimento per tutti. Inoltre, ora che la vita aveva iniziato ad incanalarsi per il verso giusto, consentendogli di godere di una amicizia tanto altolocata e di una relativa indipendenza economica, Edward poteva permettersi di dare sfogo a un’altra sua grande passione: quella di viaggiare. E iniziò subito (anzi, aveva già iniziato, compiendo nel 1829 un lungo tour a piedi in Inghilterra), battendo in lungo e in largo le campagne, soffermandosi nelle regioni più pittoresche, come la Cornovaglia e il Distretto dei Laghi, esplorando i Monti Wicklow in compagnia di Arthur Stanley, il futuro decano di Westminster, e sconfinando in Irlanda (1835-36). Queste esperienze, e i problemi alla vista che si aggravavano, lo indussero però molto presto a lasciar perdere le illustrazioni zoologiche, che richiedevano uno studio minuzioso dei particolari, per dedicarsi completamente a una nuova carriera di pittore paesaggista.

La svolta decisiva arrivò nel 1837, quando grazie a una dotazione elargitagli da lord Derby poté realizzare il sogno che nel frattempo aveva cominciato a coltivare, quello di studiare per due anni la pittura a Roma, e più in generale in Italia, proprio in funzione della nuova direzione artistica che intendeva intraprendere. Così annunciava la novità ad una amica: “La possibilità di intraprendere questa strada è dovuta a un atto di bontà, o meglio di munificenza, e di amicizia senza precedenti e per il quale non ho alcuna possibilità di dimostrare a sufficienza la mia gratitudine. Con mia enorme sorpresa una lettera di tre giorni fa mi ha portato una somma sufficiente a vivere a Roma per il periodo che ho appena menzionato”.

La seconda vita di Lear, quella del viaggiatore, e quella appunto che vorrei sommariamente ricostruire, comincia dunque di qui. In realtà ho trovato molto difficile seguire i suoi spostamenti: per farlo ho dovuto basarmi sui pochi stralci dei suoi diari o del suo epistolario rintracciati sul web, e desumerli soprattutto dalle datazioni dei suoi schizzi, perché l’unica biografia esauriente è praticamente introvabile e neppure in rete sono riuscito a reperire delle sintesi passabilmente attendibili. È quindi possibile che incorra in qualche approssimazione cronologica.

A luglio del 1837 Lear parte per Roma, dove approda solo in dicembre, dopo aver attraversato con molta calma il Lussemburgo e la Germania meridionale, e aver apprezzato alcuni magici scorci della Svizzera e dell’Italia settentrionale (ad esempio i laghi di Lugano e di Como, e soprattutto quello d’Orta, al quale rimarrà affezionato e che tornerà a ritrarre più volte in seguito). Nel corso del viaggio visita anche Milano e Firenze.

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A Roma gli sembra di toccare il cielo con un dito. Tutto procede sin da subito benissimo: entra in contatto con altri artisti, trova un mercato per i suoi dipinti, e già intuisce che il soggiorno in Italia si prolungherà oltre il previsto. Roma rappresenterà infatti nel successivo decennio la base di riferimento per una serie ininterrotta di escursioni, che lo portano a esplorare gran parte dell’Italia settentrionale (Piemonte, Lombardia, Liguria, Toscana) e in maniera più sistematica tutta quella centro-meridionale. Non ha terraferma: la caccia al “pittoresco” diventa ossessiva, e lo dimostra la messe impressionante di bozze di paesaggi che produce. Nell’estate del 1738 si trasferisce temporaneamente a Napoli, in compagnia di un altro aspirante artista, James Uwins, e frequenta gli esponenti della scuola paesaggistica napoletana (tra i quali il padre di Giacinto Gigante): la città tuttavia non gli piace affatto, troppo rumorosa e turbolenta: “Credo sia il luogo più rumoroso del mondo – scrive alla sorella – puoi immaginare come possa piacere a me, che odio il rumore! Si ha l’impressione che l’intera popolazione sia completamente pazza, delirante.” Di lì si sposta dunque ben presto sulla costiera amalfitana, che definisce “un paradiso”. Nel 1842 lo troviamo in Sicilia, e subito dopo si avventura in una prima escursione in Abruzzo: è conquistato dai luoghi incontaminati che vi scopre, tanto da tornare a ritrarli già nel 1843 e poi nel 1846. Nel frattempo percorre la campagna laziale e il Molise, e arriva sino alla Puglia. I suoi itinerari virano ormai quasi sempre verso il sud.

Durante un breve rientro in Inghilterra, nel 1846, ha l’onore di essere chiamato a Buckingham Palace dalla regina Vittoria, per un corso di disegno in dodici lezioni. Incontra qualche difficoltà con la servitù, che inizialmente, a causa della sua barba incolta e del suo aspetto trasandato, rifiuta di ammetterlo a palazzo, ma le sue lezioni vengono poi molto apprezzate. La sovrana scrive nel suo diario: “15 luglio. Ho avuto lezione di disegno dal signor Lear, che ha disegnato davanti a me e insegna straordinariamente bene”. È anche l’anno nel quale vengono pubblicati per la prima volta i limericks, che ottengono immediatamente uno strepitoso successo (anche se per qualche tempo continueranno ad essere attribuiti a Lord Derby, ed Edward Lear sarà considerato solo uno pseudonimo: cosa che in un primo momento il nostro accetta a denti stretti, salvo poi rivendicare con modalità eccentriche la propria esistenza e la paternità delle filastrocche, cominciando ad andare in giro con cappello, fazzoletto e borsa “marchiati” col suo nome).

Quella inglese, che gli procura anche le prime soddisfazioni economiche come pittore, è però solo una parentesi. I viaggi e l’Italia sono ancora lì ad attenderlo.

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Nel 1847 è dunque la volta della Calabria. Ci arriva dalla Sicilia. Ha in mente di setacciare la regione a tappeto, procedendo a zig zag da costa a costa, rigorosamente a piedi, accompagnato dall’amico John Joshua Proby, un inglese conosciuto a Roma, da una guida di nome Ciccio e da un cavallo che trasporta il bagaglio. Ad ogni tappa corrispondono uno o più bozzetti nuovi, a corredo di un taccuino che sarà poi pubblicato col titolo “Diario di un viaggio a piedi” e che è rivelatore dell’atmosfera, del clima politico, delle abitudini e dei costumi di una zona che all’epoca era senz’altro la meno conosciuta d’Italia. Ma è rivelatore soprattutto dell’intento col quale Lear si muove, la ricerca delle “più suggestive scene che si possano trovare nella bella Italia”.

Il progetto iniziale di Lear si scontra però ad un certo punto, dopo un mese e mezzo, quando ha percorso solo la provincia più meridionale dello stivale, con una situazione politica che si sta facendo pericolosa, per lo scoppio di moti che preludono chiaramente ad una insurrezione. È costretto quindi a tornare a Reggio, dove riprende per mare la via del ritorno.

L’anno dopo è comunque nuovamente per strada. Esplora l’Irpinia, l’alto Vulture e la zona di Melfi, e s’imbarca poi per l’Albania. Ancora una volta rimane affascinato dai panorami selvaggi, tanto da affrettarsi a tornare anche nella primavera del 1849. L’Albania rappresenta però in questo caso solo la tappa iniziale di un itinerario che lo porta dal Montenegro sino alla Grecia meridionale, a Malta, dove conosce Franklin Lushington, che gli sarà compagno per il resto del viaggio, alle isole dello Ionio (Zante, Itaca, Cefalonia, Corfù, ecc…) e a Costantinopoli, per poi allungarsi fino all’Egitto. Qui visita il Cairo, esplora la zona di Suez e il Sinai e risale il Nilo fino al suo tratto sudanese. È un primo assaggio, periferico, del Vicino Oriente, che visiterà in profondità e a più riprese qualche tempo dopo.

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Per il momento, a partire dal 1850 e per alcuni anni, l’attività di viaggiatore di Lear si fa meno intensa. Rientrato per l’ennesima volta in patria decide infatti di trattenervisi e di frequentare un corso pluriennale di pittura presso la Royal Academy. Vuole migliorare la sua tecnica, che ritiene ancora insufficiente, soprattutto nelle composizioni ad olio: ma ne approfitta anche per partecipare ad alcune mostre londinesi e farsi conoscere dal grande pubblico.

In realtà non riesce a stare fermo a lungo. Nel 1853, dopo aver fatto scalo a Gibilterra è infatti nuovamente in Grecia (dove ritrae le Termopili e le Meteore), e nel 1854 è ancora in Egitto, per scendere lungo il Mar Rosso sino ad Aden.

Nel 1855 procede ad un nuovo cambiamento: stabilisce infatti la sua base a Corfù. È motivato dalla prossimità dell’isola a quelle che sono le porte dell’Oriente, ma anche dall’incontro con colui che diverrà di lì innanzi il suo inseparabile compagno di viaggio, Gjergi (Giorgio) Kokalli.

Con Giorgio intraprende nel 1856 un altro intenso safari paesaggistico in Grecia. Trascorre due mesi al Monte Athos, godendosi il paesaggio ma detestando il cibo e la sporcizia e l’atmosfera dei monasteri. “Tutto così cupo, così sorprendentemente innaturale, tutta quell’atmosfera era per me così solitaria, così bugiarda, così terribilmente odiosa”. Vede tra le altre cose Smirne e il sito di Troia. Nel 1857 rimbalza invece dall’Albania meridionale a Venezia, poi all’Irlanda, e di lì a Parigi e in Germania, per rientrare infine a Corfù.

Finalmente, l’anno successivo, compie l’agognato viaggio in Palestina e in Libano. Visita Gerusalemme (che definisce immonda: “Se volessi impedire che un turco, un ebreo o un pagano diventasse cristiano, lo manderei direttamente a Gerusalemme”), poi Gerico, Petra, Baalbeck, e si sofferma a lungo sulle sponde del Mar Morto. A Petra se la vede brutta: un gruppo di palestinesi lo aggredisce, lo malmena e lo deruba. La prende con una certa filosofia: si ritiene già fortunato ad aver riportato a casa la pelle.

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Nel 1859 è ancora una volta in Albania. Torna in Grecia nel 1860, mentre nel 1861 visita nuovamente il Libano e attraversa in questa occasione la Siria, sino ai confini occidentali della Persia, dopo aver trascorso un breve periodo a Damasco. Durante il viaggio produce un’altra incredibile quantità di disegni paesaggistici, bozze per futuri dipinti.

Dopo un periodo trascorso nuovamente in Inghilterra, approfondisce nel 1861 la conoscenza dell’Italia ormai unita, spostandosi prima a Torino, poi a Firenze, Lucca e Pisa, e tornando infine in Valle d’Aosta e nell’Alta Savoia.

Nell’aprile del 1864 è a Creta (di questa visita lascerà una testimonianza pubblicata come The cretan Journal), che in precedenza aveva solo toccato. Nello stesso anno si concede poi una pausa “occidentale”, passando per Genova e Nizza e percorrendo (e ritraendo) la costa mediterranea della Francia. Ma nel 1865 lo ritroviamo a Gerusalemme, che trova “sporca e odiosa come sempre”, nel 1866 ancora a Malta, mentre nel 1867 da Costantinopoli scende per la terza volta fino all’Egitto.

Nell’aprile del 1868 visita la Corsica, dove torna anche l’anno successivo. Neanche il tempo di rientrare a Corfù e riparte ancora per l’Egitto, allungando l’itinerario fino alla Tunisia e al Sudan.

Che piacere incontrare il signor Lear 14Nel 1870 sembra deciso a mettere almeno simbolicamente radici. Si avvia ai sessant’anni, non ha mai goduto di una gran salute, anche se ha opposto ai suoi malanni, compresa la progressiva miopia, una volontà di ferro, e comincia a risentire degli strapazzi dell’incessante vagabondaggio. Sente anche il bisogno di raccogliere un po’ le idee, di riordinare e mettere a frutto l’enorme messe di materiale paesaggistico raccolto in più di un trentennio, traducendone almeno una parte in dipinti o in pubblicazioni illustrate. Negli ultimi anni ha frequentato ripetutamente, nelle pause estive tra un viaggio e l’altro, la fascia costiera che va dalla Costa Azzurra alla riviera dei Fiori, trovandovi un clima adattissimo a salvaguardare la sua salute. La elegge a sua nuova dimora, e tra i vari luoghi ameni che la riviera gli offre sceglie Sanremo, all’epoca un po’ meno mondana e chiassosa della vicina Cannes (“Sanremo è un paese quieto e stupido”). Lì si fa costruire una villa che affaccia sul mare e che prevede anche una Galleria dove raccogliere gli oltre settemila disegni cumulati. Per un anno si dedica interamente al progetto, curando minuziosamente anche gli arredi, e alla fine del 1871 può finalmente insediarvisi.

Ciò non significa tuttavia impoltrirsi: Lear non è ancora rassegnato al pensionamento e non ha rinunciato affatto a muoversi. Sfrutta ogni pausa per spostarsi, torna nello stesso anno a Roma e a Napoli e visita per la prima volta Bologna e Padova, mentre in quello successivo rientra ancora una volta in Inghilterra.

Il canto del cigno arriva col più lungo dei suoi viaggi, che lo porta a percorrere gran parte del sub-continente indiano tra il 1873 e il 1875 e a realizzare un sogno coltivato sin dall’infanzia. Lo intraprende su invito del viceré inglese Thomas Baring, un amico di vecchia data, tacitando con l’entusiasmo le rimostranze di un fisico giustamente logoro e tutte le fobie relative a malattie tropicali, animali pericolosi, insetti velenosi, clima e alimentazione pessimi, alle quali era già per natura particolarmente soggetto.

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Che piacere incontrare il signor Lear 16Non è un soggiorno da villaggio-vacanze. Lear viaggia ininterrottamente per quasi due anni, con ogni mezzo di trasporto, in treno, in barca, in carrozza, a cavallo, a dorso di cammello o arrampicato su un elefante, e naturalmente a piedi. In questi due anni, che definisce meravigliosi, visita Bombay e Lucknow, viaggia da Benaras a Calcutta e a Darjeeling, e poi a Simla, a Kasauli, a Golconda, a Coonoor, e arriva anche a Ceylon. Ha sempre con sé, oltre al fedelissimo Giorgio, il suo diario e il suo album, il primo per raccogliere nei più minuti dettagli le sue esperienze, il secondo per gli schizzi acquerellati coi quali vuole fissare le impressioni della luce e dei paesaggi naturali. Realizza oltre duemila tavole, uno straordinario reportage iconografico che ci rimanda l’immagine dell’India quale passerà poi nei libri di Kipling. Conosce momenti di stanchezza, e incidenti e arrabbiature, ma supera e liquida sempre tutto con la sua inesauribile verve umoristica.

Che piacere incontrare il signor Lear 17Dopo la lunga avventura indiana Lear si ferma davvero. O meglio, riduce drasticamente l’attività di viaggiatore, limitandosi per qualche anno ai trasferimenti estivi al Monte Generoso, una montagna al confine tra il cantone svizzero del Ticino e la Lombardia, e a qualche sempre più sporadica rimpatriata. Per il resto si dedica anima e corpo al completamento delle sue opere, agli acquarelli, che prima di morire vorrebbe vedere raccolti anche in pubblicazioni illustrate, assieme ai diari, e ai dipinti, che vorrebbe trovassero sistemazione in musei o in gallerie private. Nei primi anni Ottanta si fa anche costruire una nuova villa (che porta il nome di Villa Tennyson), sempre a Sanremo. È identica a quella precedente, alla quale nel frattempo l’edificazione di un grande albergo sul litorale ha però sottratto la vista sul mare. Giustifica questa decisione con la volontà di non far sentire spaesato il suo gatto Foss, l’ultimo compagno rimastogli, che morirà nel 1887, pochi mesi prima del suo padrone. Lear muore infatti nel gennaio 1888, per una malattia cardiaca dalla quale era affetto da qualche tempo. Secondo la testimonianza di una conoscente, il suo funerale è una cerimonia mesta e solitaria: non gli è rimasto nessuno. È sepolto a Sanremo: sulla sua tomba, sotto la scritta “Landscape painter” sono riportati i versi di Tennyson che ho citato in esergo: accanto ad essa, vicinissima, ce n’è un’altra, che reca incisi i nomi dei suoi due fedeli servitori, Giorgio e Nicola Cocali, padre e figlio. In realtà questa ospita i resti solo del secondo, che ha preceduto Lear di qualche anno.

Ecco riassunto per sommi capi l’ininterrotto vagabondare di Edward Lear. Vorrei ora dedicare un paio di riflessioni allo spirito col quale i vagabondaggi Lear li ha vissuti, e alle opere, pittoriche e non, che ne ha derivato. Nessuna velleità critica o psicanalitica. Solo qualche considerazione a caldo, e da fermo, dopo tanto andirivieni.

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L’uomo

Come ho già anticipato, Lear ha fatto dell’umorismo e dell’autoironia lo scudo dietro il quale trovare riparo da una condizione esistenziale disagevole. Era timidissimo, non si accettava perché si percepiva diverso – per molti aspetti effettivamente era tale – e cercava di farsi accettare dagli altri chiamandosi fuori dalla competizione, assumendo atteggiamenti eccentrici e buffoneschi. È significativo che dopo aver casualmente colto la conversazione di due suoi connazionali, che lo definivano “uno sporco pittore di paesaggi”, abbia poi adottato quella definizione nelle autorappresentazioni. Allo stesso modo, nella poesia dal titolo “By way of preface” (A mo’ di premessa) che allego in calce a questo schizzo biografico, si presenta con tratti sia fisici che psicologici grotteschi:

Che piacere incontrare il signor Lear 19… alcuni pensano che sia scorbutico e strano
… piange sulla riva dell’oceano,
piange in cima alla collina …
ha un grosso naso,
un viso più o meno orrendo,
una barba che somiglia a una parrucca …
un corpo perfettamente sferico …

Minimizza anche le proprie capacità: non accenna al disegno e alla pittura e scrive “legge ma non parla lo spagnolo …”, mentre in realtà sembra sapesse parlare e scrivere correntemente in sette lingue, compresi il greco e l’albanese. Fonda insomma la difesa sul gioco d’anticipo.

La sua vicenda si inserisce perfettamente nel novero di quelle dei “disagiati”, dei “quasi adatti” che sono andato rincorrendo nei miei modesti tentativi di divulgazione biografica. Nel suo caso (ma a ben vedere, in quasi tutti i casi che ho scelto) il disagio si è manifestato precocissimo, e sembra poter essere attribuito a cause ben individuabili.

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Lear soleva dire che il suo problema era stato l’essere allevato da donne, “e per giunta male”. Credo cogliesse nel segno. In effetti era cresciuto in un ambiente quasi esclusivamente femminile, con sorelle maggiori che cercavano in primo luogo di educarlo a un cristianesimo evangelico (dal quale avrebbe presto preso le distanze), e di trasmettergli poi quel poco che a loro stesse era stato riservato: un minimo di conoscenza degli autori romantici, una rudimentale istruzione musicale e artistica (quest’ultima limitata naturalmente al disegno e all’acquarello). Soprattutto badavano però a difenderlo dalle offese che la vita o i suoi coetanei potevano arrecargli, e per questo motivo non gli avevano fatto frequentare scuole regolari e lo avevano tenuto lontano dall’attività fisica e, come diceva lui, “da ogni esercizio virile”. Il che da un lato lo aiutò senz’altro a svilupparsi secondo le proprie inclinazioni, ma dall’altro gli creò non pochi problemi ad emanciparsi, a uscire dalla bolla protettiva entro la quale era rimasto tanto a lungo immerso. In effetti, non ne uscì mai.

Che piacere incontrare il signor Lear 22L’attaccamento nei confronti della sorella Ann era quasi morboso. Quando era in viaggio Edward le inviava regolarmente, almeno ogni quindici giorni, lettere piene di espressioni affettuose, di pettegolezzi, di frivolezze e di umorismo, per rassicurarla sulla sua salute e sul suo benessere psicologico. Dal canto suo quest’ultima, che non si sposò mai e aveva assunte in toto mansioni e ansie materne, sembra aver trovato in questo ruolo la compensazione per una vita avara di altre soddisfazioni. Riversava su Edward tutto il suo amore e pretendeva di riceverne da lui altrettanto, e in esclusiva. Voleva essergli necessaria, e non mancava di farglielo sentire. Lear ne era assolutamente condizionato, ciò che spiega probabilmente la sua tendenza a mantenere anche nella maturità un comportamento bambinesco. Scriveva: “Mi ha cresciuto fin dalla più piccola infanzia e quando se ne andrà, tutta la vita cambierà completamente”. In realtà, non riuscì mai a cancellare la compulsione al gioco, che forse era già in parte insita nel suo carattere, ma che indubbiamente in quella anomala sfera famigliare era stata incoraggiata. Lear in fondo conosceva solo quel modo per attirare l’interesse e l’attenzione, e semplicemente lo trasferì dalla sorella al suo pubblico.

Non è necessario essere psicologi per capire quanto questa dipendenza, e la voglia di uscirne, possa aver influito sui suoi orientamenti affettivi. Lear era costantemente in cerca di una persona che potesse rinnovare in una dimensione matura il rapporto affettivo e le attenzioni speciali goduti nell’infanzia. Naturalmente era destinato a non raggiungere mai questa realizzazione romantica, né con un uomo né con una donna. Ebbe molte importanti amicizie maschili, con i coetanei che di volta in volta lo accompagnarono nei viaggi in Italia, in Grecia e in Oriente, e anche con artisti come William Holmar Hunt o poeti come Alfred Tennyson. Ma dubito che il rapporto si sia mai spinto oltre i confini dell’amicizia virile. Nei libri di viaggio dell’Ottocento, soprattutto in quelli inglesi (ma non solo), rapporti di questo tipo sono quasi la regola (si pensi ad esempio a Von Humboldt e Bompland).

Che piacere incontrare il signor Lear 23Per Lear si può parlare con certezza di un innamoramento solo nei confronti di Franklin Lushington, col quale girò la Grecia, ma che ricambiava con molto minore entusiasmo i suoi sentimenti. I due rimasero amici per tutta la vita, anche se Edward soffrì molto il non essere totalmente corrisposto (e forse fu questo sempre il suo problema: coltivava aspettative di trasporto e di esclusività troppo alte). Ebbe anche tentazioni nei confronti dell’altro sesso, sia pure sempre solo vagheggiate e non espresse, e fu sul punto di chiedere in sposa un’amica di vecchia data, Augusta Bethell, che probabilmente avrebbe accettato di sposarlo: ma in questo caso incontrò l’opposizione ferma della sorella Ann.

Per farla breve, nella vicenda di Lear torna un tema che ho già affrontato più volte (cfr. La più grande avventura, o Humboldt controcorrente, oppure, ultimamente, Sven o della solitudine), e sul quale un’eccessiva insistenza rischia di apparire morbosa. Vorrei chiuderlo con un paio di argomentazioni sin troppo semplici, ma che a me paiono già più che esaustive.

Che piacere incontrare il signor Lear 24Non sono particolarmente raffinato nell’analisi dei sentimenti, ma il fatto che buona parte dei personaggi, sia maschi che femmine, incontrati nel corso delle mie ricerche sui viaggi fossero omosessuali non mi sembra affatto casuale. Non penso naturalmente che tra le due cose esista una correlazione genetica, che si tratti degli esiti complementari di un determinismo biologico: non tutti i grandi viaggiatori sono omosessuali e non tutti gli omosessuali sono grandi viaggiatori. Esiste invece una consequenzialità indotta dalle condizioni esistenziali, o per meglio dire delle pressioni ambientali, che spingono chi non si sente in sintonia con gli orientamenti sessuali della società e dell’epoca cui appartiene a cambiare aria, sia per poter esprimere liberamente i propri senza incorrere nella riprovazione, quando va bene, o nell’emarginazione, o addirittura nella criminalizzazione, sia per evitare l’imbarazzo o il rifiuto o la costrizione da parte della propria cerchia famigliare. Questo vale in modo particolare nell’Ottocento, in società come quella vittoriana e più in generale negli ambienti del puritanesimo nordico. Nella gran parte dei casi la rottura non è definitiva, nel senso che i fuggiaschi continuano a lottare con se stessi nel tentativo di reprimere, di negare questa “identità”; ma la resistenza si fa meno ferma col crescere delle distanze e al contatto con società sotto questo aspetto più disinibite o tolleranti. A volte invece, soprattutto verso la fine dell’Ottocento e nella prima metà del secolo successivo, la scelta del viaggio è già mirata a trovare gli ambienti ideali per abbandonarsi senza remore ai propri istinti sessuali (vedi le “colonie” inglesi in Spagna o nell’Italia meridionale, da Samuel Butler e Norman Douglas, a Auden e Isherwood). Le cose sono evidentemente cambiate nella seconda metà del Novecento, perché le motivazioni di cui sopra sono venute meno.

Tutto questo mi pare assodato: ma ci tengo a ribadire che sono sempre esistite anche forme di amicizia virile che non comportano necessariamente implicazioni sentimentali o sessuali, e che gran parte dei rapporti che oggi vengono letti in questa chiave, quasi a volerli liberare da un velo di ipocrisia che era stato a suo tempo loro imposto, in realtà non erano affatto vissuti come tali dai loro protagonisti. Ovvero, che l’amicizia, la solidarietà, il cameratismo, esistevano ed erano coltivati come valori spirituali in sé. Non so fino a che punto e in che modo Lear sia stato capace di viverli, ma certamente li ha desiderati e cercati per tutta la vita.

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Il viaggiatore

In questi termini ho interpretato dunque il pressante e costate impulso a viaggiare di Edward Lear. Il nostro protagonista arrivava da un’infanzia che la premura sororale cercava di prolungare, spingendolo ad esprimersi e a comportarsi in maniera fanciullesca e impedendogli di diventare un uomo. Viaggiare per lui era allo stesso tempo una fuga dalla sua inadeguatezza a rapportarsi con gli altri e la ricerca della maturità in una relazione perfetta con un altro essere umano.

Che piacere incontrare il signor Lear 26Naturalmente sono poi intervenuti altri fattori. La passione per il paesaggio lo ha incoraggiato ad essere un viaggiatore, in qualche modo anche un esploratore, e non solo un turista. La decisione di diventare un paesaggista itinerante Lear la faceva derivare dai suoi malanni, ai quali mal si addiceva il clima britannico, e soprattutto dal costante peggioramento della vista, che non gli consentiva più di riprodurre con la precisione di un tempo i dettagli richiesti dalle illustrazioni ornitologiche: “Devo dirti che i miei occhi hanno subito un notevole peggioramento — soprattutto quando mi dedico a piccoli disegni zoologici variopinti, — e in effetti quanto meno rimango seduto tanto meglio è, sia per i polmoni che per gli occhi” scriveva già poco più che ventenne.

Che piacere incontrare il signor Lear 28Per viaggiare Lear dovette vincere una serie notevole di handicap, sia fisici che psicologici. Se c’era una persona apparentemente poco attrezzata per questa attività, quella era proprio Edward Lear. Alla debolezza della salute (che peraltro l’aspetto fisico mascherava, perché era alto e grosso, “con spalle di larghezza pari a quelle di Ulisse”, e portava una folta barba che lo faceva apparire ancora più imponente) univa un’incredibile serie di fobie, che andavano dal terrore per i cani (“Cani di ogni specie, piccoli e soprattutto grandi, erano il suo terrore di giorno e notte”, scrisse William Holman Hunt) all’orrore per i cavalli, alla paura dei rivoluzionari (“li considerava dei demoni al servizio di Belzebù”), alla ripugnanza per gli insetti e al disgusto per le navi e per i viaggi in mare.

Che piacere incontrare il signor Lear 31In effetti, dai suoi diari non viene fuori un compagno di viaggio ideale. Ne aveva sempre una: una volta è stato sbalzato da un cavallo imbizzarrito e ha rimediato una contusione alla spalla, un’altra è stato morso ad una gamba da un orrendo millepiedi, o da qualcosa di simile, e l’arto s’è gonfiato; un’altra ancora ha dimenticato l’ombrellino e si è beccato un’ustione da sole: a Creta è stato inseguito da una incavolatissima capra e ha rischiato l’infarto. Insomma, incidenti comuni per i viaggiatori dell’epoca, che tendevano però a minimizzare o a non parlarne affatto, mentre Lear nelle contrarietà sembrava crogiolarsi.

Lo stesso Hunt scriveva però: “Era un ragazzo dolce e poco combattivo, che avrebbe preferito essere ucciso che usare una pistola, ma era allo stesso tempo l’essere più caparbio nell’affrontare il pericolo”. Come uno così, di costituzione massiccia, affetto da asma, bronchite e epilessia, abbia potuto affrontare tutti i viaggi che ho raccontato è quasi incredibile: significa che dietro quell’ indole così mite e paurosa c’erano in realtà un coraggio e una determinazione sorprendenti. Lo dimostra il fatto che la paura di navigare non gli impedì di girare in lungo e in largo nell’Egeo e nel Mediterraneo, e di sfidare anche, in età avanzata, l’oceano Indiano. E quella dei cavalli di percorrere, a cavallo appunto, l’Abruzzo, l’Albania e mezza Italia meridionale.

Che piacere incontrare il signor Lear 29In effetti Lear era tutto un groviglio di contraddizioni. Al momento in cui decise di mettersi per il mondo le condizioni in cui si svolgevano i viaggi, segnatamente nei luoghi in cui si aggirò per trent’anni, erano tutt’altro che allettanti. Trasporti lentissimi e disagevoli, strade insicure, banditi, malattie, luoghi di sosta squallidi e spesso disgustosi. Di tutto questo si lagnava continuamente e lo annotava nei suoi diari, ma non rinunciò mai a portare avanti i suoi progetti. Lamentava la scomodità e la lentezza delle carrozze, ma programmava poi lunghissimi itinerari a piedi. Dove possibile si procurava lettere di presentazione e contava sull’ospitalità dei locali, ma era poi pronto ad affrontare anche i bivacchi, o a dormire nelle stalle.

Che piacere incontrare il signor Lear 30Non era comunque il tipo di viaggiatore che cerca grosse emozioni, se non quelle traducibili in immagini pittoriche. All’occorrenza si adattava, sia pure con qualche mugugno, ma in linea di principio non intendeva rinunciare ad un minimo di comodità e di accorgimenti. Scriveva: “Il viaggiatore dovrà munirsi di una buona scorta di utensili da cucina, piatti di stagno, coltelli e forchette, bacinella, e poi di un materassino leggero, lenzuola e federe, mantelli e coperte. Due o tre libri. Strumenti per il disegno, meno vestiti possibile. Chinino, indispensabile. Riso, curry, pepe”.

Al cibo prestava una particolare attenzione. Gli dava anche un valore simbolico, nel senso che nella sua condivisione vedeva un’espressione di genuina amicizia, mentre scorgeva nella golosità (compresa la propria) un esecrabile atteggiamento egoistico. Non a caso anche nei limericks i golosi finiscono sempre puniti.

Nelle pagine dei suoi ultimi diari sono comunque annotati giorno per giorno tutti i pasti, sempre accompagnati da un giudizio o da un commento. Vale in occasione dell’ospitalità sontuosa riservatagli nelle nobili dimore degli aristocratici calabresi, degli sceicchi egiziani o dei rajah indiani come per quella parca offertagli da umili famiglie contadine o dai pastori albanesi, oppure per le soluzioni gastronomiche inventate nei momenti di necessità. In viaggio per Salonicco, ad esempio, si ritrova ad un certo punto in una zona della costa completamente disabitata, senza nulla di commestibile a disposizione: “Cominciammo a riflettere come Giorgio potesse cuocere le grosse meduse che venivano rigettate dal mare. Trovammo anche un paio di granchi: proposi allora, visto che c’era una gran quantità di more nei paraggi, di far bollire le meduse con la gelatina di more e di arrostire i granchi con un goccio di rhum e mollica di pane, una prelibatezza culinaria”. Oggi gli verrebbe offerta una rubrica gastronomica televisiva.

Che piacere incontrare il signor Lear 32In India sembra determinato a scrivere una guida Michelin. A Benares gli servono “zuppa buona, e un pollo bollito con riso appena tollerabile. Nient’altro però che fosse commestibile, montone crudissimo, anatre stufate dure. Faccio eccezione, però, per un budino di pane e burro”. A Darjeeling apprezza un ottimo pasto a base di cotolette di pollo fritte e buone patate arrosto, un’alzavola fredda arrosto e due bottiglie di soda. A Delhi invece il pasto è misero: “uova, agnello freddo, pane e sherry freddo”, mentre a Simla “lo stufato irlandese era rovinato dal troppo pepe ma le patate erano deliziose. Queste persone hanno patate paradisiache, le migliori della vecchia Inghilterra”.

Che piacere incontrare il signor Lear 33È di una golosità davvero bambinesca, che si rivela anche nell’uso costante di metafore o di immagini relative al cibo nella sua scrittura più confidenziale, nelle poesiole come quella già citata (“Compra frittelle e lozioni, / e gamberetti di cioccolata al mulino”) o nella corrispondenza, quando buffoneggia in favore degli amici e soprattutto delle amiche. Le lettere, dice, sono l’unica gioia della vita “a parte le sardine e le omelette”. La sua speranza per il post-mortem è un posto in mezzo agli alberi e ai fiori dal quale si vedano il mare, le colline, le pianure le montagne, e nel quale i pasti saranno cucinati dai cherubini. Non devono però esserci galline: “No, nessuna! Io ho rinunciato alle uova e alle galline arrosto per sempre!”.

Per il resto, le lettere inviate ai corrispondenti inglesi e i diari che diligentemente aggiorna offrono l’impressione di un atteggiamento sempre leggermente sfalsato rispetto alle situazioni che vive. È minuzioso e preciso nelle descrizioni, ma sembra non essere granché scalfito dagli avvenimenti. Ad esempio, gli capita a Civita Ducale di essere scambiato da un “carabiniere” addirittura per il ministro degli Esteri inglese Palmerston, e di essere tratto in arresto (gli inglesi in quel periodo non erano molto popolari nel reame borbonico). La vicenda si risolve velocemente in positivo, per l’intervento di un conoscente, senza il quale però avrebbe potuto prendere una piega spiacevole: ma nella penna di Lear diventa solo il pretesto per un quadretto umoristico: «La nobiltà si impone a certe persone. Nonostante tutte le mie rimostranze, egli aveva deciso che io dovessi essere il Visconte Palmerston. Non c’era niente da fare, così fui fatto trottare ignominiosamente per la via principale, mentre a tutti quelli che erano sull’uscio o alla finestra il carabiniere urlava: “Ho preso Palmerstoni!” Per fortuna Don Francesco Console stava facendo una passeggiata e ci incontrò. A questo punto seguì una scena di scuse per me e di rimproveri per il militare, che si ritirò sconfitto. Così, invece di andare in prigione, tornai a Rieti che era già notte».

Nel suo atteggiamento, però, forse proprio in forza della disposizione un po’ stranita, non c’è mai ombra di un qualche pregiudizio razziale. Si lamenta, si stupisce dei costumi, si meraviglia, ma non giudica, se non in base a criteri vagamente estetici. E anche quando non può fare a meno di rilevare i segni della miseria e dell’arretratezza, non è mai troppo severo; guarda con occhio in fondo benevolo una realtà sociale molto povera, le condizioni di disagio derivanti dalla mancanza di strade, l’isolamento che pare aver fermato il tempo in quelle contrade. Quell’isolamento e quella povertà avevano consentito in effetti la conservazione integrale degli aspetti naturali primordiali di cui andava in cerca e che tanto lo affascinavano.

Ciò non significa che i suoi diari e i disegni che li corredano ci trasmettano un’immagine idilliaca, trasfigurino la realtà: al contrario, proprio questa “estraneità” del soggetto narrante ci offre una fotografia la più realistica e la più veritiera. Che era poi l’intento di fondo della sua poetica pittorica.

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Il pittore

Nel 1886 John Ruskin collocava Lear in testa all’elenco dei suoi artisti preferiti. Era una stima di ritorno, perché poco tempo prima Lear lo aveva ringraziato “per avermi, con i tuoi libri, indotto a usare i miei occhi per guardare al paesaggio di un periodo che risale a molti anni fa”: ma esprimeva un apprezzamento sincero. Lo stesso Ruskin aveva infatti appuntato sulla lettera ricevuta da Lear “E questo sarebbe il poeta delle sciocchezze?

Si può senz’altro dire che Lear sia stato almeno negli intenti l’interprete più fedele delle teorie del suo eminente connazionale sul senso e sul valore della pittura. Ne condivideva appieno le idee sulla “conservazione”, solo che anziché applicarle al restauro e alle rovine le estendeva a tutto l’insieme del paesaggio, in particolare di quello naturale. Era tutt’altro che un innovatore (e non solo in campo artistico). Temeva e detestava ogni forma di rivoluzione, e non era attratto dalle nuove correnti artistiche, anche quando queste professavano un recupero dei canoni estetici del passato. Attraverso l’amicizia con Hunt ebbe contatti con l’ambiente dei preraffaelliti, ma non se ne lasciò influenzare. E anche se ammirava moltissimo la pittura di Turner, rimase sempre legato alla scuola paesaggistica inglese dei primi decenni dell’Ottocento, e continuò a dipingere delineando con precisione i contorni degli oggetti e tenendo ben separati i campi del colore.

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Nel rapporto con la propria arte Lear viveva la stessa girandola di contraddizioni che segnò ogni altro aspetto della sua esistenza. Coltivava nell’intimo l’ambizione di essere riconosciuto come un grande paesaggista, ma al tempo stesso era consapevole (come già abbiamo visto) dei propri limiti. Provò a superarli attraverso la disciplina, la diligenza, la volontà, ma questo ne condizionò pesantemente la vivacità e l’immediatezza rappresentativa. I quadri ad olio, ai quali affidava la sua gloria futura, e che all’epoca erano discretamente apprezzati, appaiano oggi, ad uno sguardo educato a modelli estetici “moderni”, piuttosto anonimi e convenzionali. E in fondo già negli ultimi anni, quelli dell’isolamento sanremese, era costretto a constatare come l’apprezzamento dei critici e del pubblico si andasse alquanto raffreddando. La cosa lo amareggiava, ma non la visse come una sconfitta.

Lui stesso infatti precisava, un po’ per mettere com’era suo costume le mani avanti, ma senz’altro anche per un sincero convincimento, i limiti del suo impegno artistico. Il suo proposito era di fare bene ciò che stava facendo, che è qualcosa di diverso dal creare capolavori: perseguiva piuttosto una sorta di mappatura per immagini del mondo, almeno di quello che aveva attraversato. Una sorta di grande reportage pre-fotografico. Scriveva: “Mi piacerebbe, diventando vecchio (se questo avverrà), elaborare e completare la mia vita topografica, pubblicando tutti i miei diari illustrati e le illustrazioni di tutti i miei dipinti: perché dopotutto, se uno dedica la propria esistenza a qualcosa e non è un perdigiorno, quello che fa deve avere pur sempre un valore, se non altro il valore della perseveranza”.

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Al contrario di quanto sarebbe avvenuto per la sua pittura “professionale”, nei confronti dell’immensa produzione di schizzi e di acquarelli, quelli che l’autore considerava solo come appunti o come materiale da trasferire in un secondo momento in bella copia, è maturato col tempo un notevole interesse. Intanto perché queste immagini non solo denotano una notevole competenza tecnica, ma sono animate dall’urgenza di catturare e fissare sul foglio un sentimento di stupore e di ammirazione, e quindi esprimono una felice libertà espressiva. Poi perché effettivamente ci consegnano l’estrema testimonianza visiva di un mondo destinato a sparire di lì a poco, realizzata da chi aveva consapevolezza che nulla più sarebbe stato come prima. “Lontano, sotto di noi, c’era Casalnuovo, una delle città che sono state ricostruite dai frammenti del fatale periodo di devastazione […]. Situata sopra la piana, questo moderno e poco pittoresco successore della prima città presenta strade lunghe, affiancate da case basse a un piano, con chiare tegole rosse e nessun lato della sua composizione offre qualcosa da ammirare o caratteristiche pittoresche” scrive nel suo diario del viaggio in Calabria. E ancora: “[…] siamo saliti a Terranova, una volta la più grande città del distretto, ma completamente distrutta dal terribile disastro del 1783. La vecchia città, completamente distrutta, è seppellita negli abissi e sotto spaccature e vallate, e la sua erede è formata da una singola sbandata strada con umili case di apparenza malinconica”. In alcuni casi, come quello degli acquarelli realizzati in Albania, si tratta davvero delle uniche attestazioni visive rimaste di monumenti ormai scomparsi (come, ad esempio, l’acquedotto di Girocastro).

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Che piacere incontrare il signor Lear 37Le immagini sbozzate da Lear presentano una stupefacente precisione topografica, e al tempo stesso si sottraggono ad ogni vincolo accademico. Conservano la vivacità e la forza comunicativa di ciò che non viene dipinto per compiacere i critici o la clientela, ma per rispondere di getto all’emozione suscitata da scorci inimmaginabili, e conservarne memoria. Durante il cammino Lear tracciava rapidi schizzi a matita, che completava poi in studio ripassandoli ad inchiostro e stendendo i colori in grandi campiture. Anche in queste bozze era molto attento alla precisione nei volumi e nelle relazioni prospettiche, e a cogliere nei limiti del possibile i particolari. Rappresentava paesaggi quasi sempre deserti, e se talvolta inseriva minuscole figure umane era solo per far risaltare le proporzioni degli elementi architettonici o paesaggistici. Questa scelta era in parte dettata dal fatto che Lear si sentiva scarsamente dotato nella rappresentazione di figure umane, anche se nei diari dimostra una notevole attenzione a cogliere le particolarità dei costumi e dell’abbigliamento. C’era tuttavia, a monte, una motivazione meno contingente: il realismo delle sue vedute passava infatti già all’origine per il filtro dell’idealità, e in un mondo ideale, come nelle città ideali del Rinascimento, gli umani sono solo scorie, e rimangono nel colino. Lear non li butta, ma li spedisce in un altro mondo, quello del nonsense.

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Rinascesse oggi, Lear sarebbe senz’altro sorpreso del ribaltamento dei valori attribuiti alle sue opere. E probabilmente anche parecchio deluso. Già in vita comunque aveva dovuto abituarsi al fatto che la sua notorietà fosse legata ai limericks piuttosto che all’opera pittorica. La cosa lo irritava, e non sopportava i “volgari sconosciuti” che si recavano presso il suo studio non per ammirare i quadri ma per conoscere l’autore del Nonsense Book. Chissà cosa avrebbe pensato nel vedere che persino le caricature abbinate alle sue filastrocche erano destinate a sopravvivergli meglio dei suoi dipinti.

Che piacere incontrare il signor Lear 39In effetti, più o meno inconsapevolmente Lear ha esercitato il suo talento su due piani diversi. Sul primo c’era il lavoro diligentemente e pervicacemente svolto di ricerca e di rappresentazione del “pittoresco”. Il pittoresco, colto nella scala del campo lungo, del panorama, si pone al di fuori del tempo e della storia, esclude dalla visibilità il movimento e ogni attività umana di trasformazione. Ciò gli consentiva di estraniarsi da un presente caotico nel quale non viveva a proprio agio e da un mondo che lo escludeva, e di rifugiarsi in una dimensione nella quale anche le architetture si fondevano nella perennità e immutabilità naturale: i disegni e gli acquarelli (soprattutto i primi) sono l’espressione genuina del suo ammirato stupore per un sublime che non è mai drammatico, che infonde un senso di tranquillità e di superiore equilibrio.

Sull’altro piano c’è invece la creazione di un universo parallelo, incoerente e deforme, ma di una deformità che viene riscattata dalla esagerazione caricaturale, e che attraverso l’iperbole perviene a una sua bellezza. Era un mondo nel quale anche la sua diversità trovava spazio e si confondeva, perché le regole della “normalità” erano sospese, e persino irrise. Un’utopia strampalata, che tra l’altro gli consentiva comunque di rappresentare gli umani senza farsi problemi per la sua scarsa abilità. E al tempo stesso era una terra di nessuno, avulsa da ogni connotazione di tempo e di spazio, da ogni convenzione nei rapporti, da ogni necessità utilitaristica. Non a caso le figurine caricaturali si muovono in uno spazio vuoto, senza una linea di panorama e senza alcuno sfondo, naturale o architettonico. Lì il simpatico signor Lear, al pari di tutti gli altri personaggi, non è mai fuori posto, semplicemente perché non c’è un posto al quale stare, un rango, una classe sociale. E quindi non prova paure, non teme punizioni, non deve travestirsi o nascondere i suoi malanni e le sue debolezze. I personaggi che animano queste “vignette” si abbandonano alla pura follia, mangiano esageratamente e bevono come trogoli, vestono abiti bizzarri ed enormi cappelli, fanno le cose più insensate. Anticipano in fondo la dimensione surreale dei cartoni animati della Warner: sfuggono ad ogni logica non contrapponendosi, ma prescindendone.

Dunque, nel il mondo che vien fuori dai versi e dalle figurine dei limericks non c’è alcuna denuncia, nessuna intenzionalità satirica: Lear non è apparentabile né al Goya dei Capricci né a Swift (lo si potrebbe accostare semmai al suo contemporaneo francese Granville, autore di Un autre monde, edito giusto un paio d’anni prima del Book of Nonsense). È tutta un’altra dimensione, libera non solo dai condizionamenti ma anche da risentimenti, orrori, amarezze e rivendicazioni. Contempla tutte le immaginabili potenzialità di movimento che si offrono a una mente fervida e a uno spirito fuggiasco: compresa quella di andare a “far capriole” oltre lo specchio.

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Lo scrittore

Che piacere incontrare il signor Lear 42Le capriole, con le idee e con i versi, oltre che con le immagini, e anche con le sue strampalate missive, Lear continuò a farle sino alla fine. Non arrivò mai a considerarsi uno “scrittore”, ma in compenso scrisse moltissimo. Soprattutto diari di viaggio (quaranta volumi, sei dei quali pubblicati in vita) e lettere (in vecchiaia ne scriveva fino a venti al giorno), oltre naturalmente alle “sciocchezze”, i nonsense ai quali deve in effetti la sua maggiore fama.

I diari erano concepiti a supporto dell’opera pittorica, per fornire una cornice ai disegni, agli acquarelli e ai quadri ad olio. Con l’andar del tempo acquisirono però sempre più una valenza autonoma, e la mantengono tutt’oggi non solo per il valore documentario, ma anche per la qualità stilistica. Lear scriveva bene, in uno stile necessariamente sobrio, dettato dalle condizioni in cui redigeva i suoi taccuini: era obbligato a cogliere e a trasmettere l’essenziale, senza abbandonarsi ad enfatizzazioni romantiche. Il verso di Tennyson (… ho letto e ho sentito di essere lì) sintetizza perfettamente il risultato che otteneva.

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Poi, naturalmente, davanti a certi fantastici spettacoli naturali non poteva semplicemente tirar dritto: emerge ripetutamente la sua particolare sensibilità per i colori, ricompare il giovanissimo illustratore naturalista che coglie il dettaglio, urge la necessità di associare alle immagini mute quelle sensazioni fisiche e quelle emozioni spirituali che non possono essere affidate alla matita, e che persino la penna ha difficoltà ad esprimere: “Le descrizioni di questo posto meravigliosamente incantevole sono semplicemente sciocche, poiché nessuna parola può descriverlo affatto. Che giardino! Che fiori!… effetti di colore assolutamente sorprendenti, il grande centro dell’immagine è sempre il vasto Taj Mahal bianco avorio scintillante, e l’accompagnamento e il con trasto del verde scuro dei cipressi, con il ricco giallo verde degli alberi di ogni tipo! e poi l’effetto degli innumerevoli voli di pappagalli dal verde brillante che svolazzano come smeraldi vivi; e delle poincianne scarlatte e di innumerevoli altri fiori che risplendono luminosi nel verde scuro!

Che piacere incontrare il signor Lear 44Al di là di questo, però, e della puntigliosa descrizione dei menù, la presenza di Lear nei diari è tutt’altro che invadente, così come nei suoi quadri e nei suoi disegni. Lo sguardo è quello del vedutista, costantemente rivolto all’esterno. E se anche paga tributo al sentire romantico, lo fa con estrema discrezione. “Durante la notte, la distesa del lago era calma e lucente, che sembrava d’argento, sotto la finestra del palazzo al chiarore della luna piena; l’antico castello proiettava le sue lunghe ombre sulla città addormentata. (A Celano, in Abruzzo, a fine agosto del 1843)

E tuttavia Lear riesce a speziare anche la narrazione “oggettiva” di un humor sottilissimo, tutto particolare, che consente di guardare alle stravaganze umane con tollerante e divertita benevolenza, e di comprendere le ragioni altrui, anche quando sono lontanissime dalle proprie. “All’ora del pranzo, il bravo vecchio Don Giovanni Rosa ci ha divertiti e intrattenuti con la sua amabile semplicità e buona educazione. Lui è stato solo una volta in vita sua (ed ha 82 anni) a Gerace, e mai più in là. «Perché dovrei andare?» ha detto, «Se, quando morirò, come dovrò ben presto, troverò il Paradiso come Canolo, sarò molto felice. Per me «Canolo mio» è sempre stato come un Paradiso — sempre mi sembra Paradiso, niente mi manca”. (A Canolo, in Calabria)

I diari non contraddicono insomma lo spirito riversato nella scrittura più “disimpegnata”, quella dei nonsense e delle lettere. Potremmo anzi considerare i limericks come l’equivalente letterario degli schizzi paesaggistici. Sono scorci tratteggiati in versi con immediatezza e rapidità: la differenza sta nel fatto che ritraggono un altro mondo, quello al quale accennavo nelle pagine precedenti. La formula poetica mista, parole più immagini, non è stata inventata da Lear, esisteva già da tempo, ma Lear l’ha consacrata e codificata, facendone un genere. E facendolo al momento giusto. Il particolare successo dei Nonsense Book è infatti dovuto anche all’essere apparsi attorno a metà Ottocento, in coincidenza con l’avvio di uno straordinario sviluppo dell’editoria illustrata di massa, reso possibile dall’invenzione della litografia e dal perfezionamento delle tecniche di riproduzione da incisione.

Nel mondo del nonsenso Lear ci sguazzava; lì poteva dare sfogo a tutta la sua autoironia e, una volta superato il disappunto per un successo che non arrivava da dove avrebbe voluto, anche la sua vanità. Si divertì sino alla tarda età a rappresentarsi caricaturalmente in termini quasi dispregiativi, anche quando il suo carattere era diventato più aspro e irritabile, accentuando gli aspetti giullareschi, sia nel fisico (il naso enorme, gambe lunghe e sottili come quelle degli insetti) che nell’abbigliamento e nel comportamento (la palandrana bianca, la postura da danzatore agitato, costantemente librato in aria). L’essere riconosciuto e quasi idolatrato come il divertente Mr. Lear non gli spiaceva affatto. “È strano” scriveva ad un amico, dopo il successo immediato di More Nonsense (pubblicato nel 1871), “io sono l’uomo che sta facendo ridere tutte assieme tre o quattromila persone in Inghilterra”.

Che a quel successo ci tenesse molto più di quanto fosse disposto ad ammettere lo dimostra il fatto che continuò, sia pure dopo un quindicennio di silenzio, a scrivere e a pubblicare “sciocchezze”. A differenza dei primi Limericks, i successivi due volumi (Nonsense Songs e More Nonsense, pubblicati rispettivamente nel 1870 e nel 1872) contengono poesie e canzoni più lunghe e più complesse, tra le quali “The Owl and the Pussy-cat” (Il Gufo e la Gattina), destinata a diventare popolarissima non solo nel mondo anglosassone. È ancora Lear, ma un Lear più pensoso e a tratti addirittura malinconico, che sembra voler “nobilitare” le sue Sciocchezze stupendo il lettore con le invenzioni linguistiche. I limericks sono ormai diventati un gioco per adulti, e per adulti linguisticamente molto raffinati.

Nelle ultime composizioni è anche più accentuato il contrasto tra gli eccentrici protagonisti, che sono sempre individui soli, e i non meglio specificati “loro”, la folla anonima dei conformisti che li deride e li perseguita. L’unica affinità Lear sembra trovarla ormai solo con gli animali, fatta eccezione naturalmente per i sempre odiatissimi cani. D’altro canto, proprio con gli animali aveva iniziato la sua carriera artistica.

Che piacere incontrare il signor Lear 45Nella corrispondenza si può dire che Lear prosegua l’opera di caricaturista con altri mezzi. Voleva essere brillante con gli amici e con i congiunti, rimanere all’altezza della fama di eccentrico conquistata coi limericks, e sapeva che ormai i suoi corrispondenti si attendevano da lui proprio quello: non delle informazioni, ma delle stravaganze. Questo accadeva anche nelle lettere alle sorelle, e dopo la scomparsa di queste nel carteggio con Emily Tennyson, la moglie del poeta, divenuta la sua più intima confidente: ma era la norma in quelle ai suoi amici più cari, soprattutto ad uno dei destinatari più frequenti, quel lord Carlingford col quale era in già rapporti prima della pubblicazione dei nonsense. Nell’ultima fase della sua vita, però, la cosa gli prese la mano, e il suo umorismo stravagante divenne quasi manierismo.

Le prime sono lettere di questo tenore: “Andare su e giù per le scale mi preoccupa, e io penso di sposare qualche gallina e poi di costruirmi un nido su una pianta d’ulivo da dove vorrei scendere soltanto a lunghi intervalli nel resto della mia vita”, e immagino che per un po’ abbiano divertito chi le riceveva. Ma quando da Sanremo, dove un Lear sempre più stanco e scorbutico si era rintanato, partivano missive nelle quali il gusto per il gioco non riusciva più a mascherare la tristezza e ad attenuare la tensione, penso che l’effetto fosse solo di malinconico disagio. Pochi anni prima di morire scriveva a lord Carlingford: “Volevo dirti che la Foca si è sistemata nella mia grande cisterna da dove può facilmente venir fuori, dato il basso livello dell’acqua. Le dò quattro biscotti e una tazzina di caffè all’alba e questa mattina credo di andare al mare sulla sua schiena. Mi è capitato già di percorrere più di metà del tragitto per la Corsica perché nuota in modo estremamente veloce”. Anche per chi lo conosceva bene ed era abituato alle sue stramberie, i dubbi sulla tenuta mentale dovevano essere molti.

Infine, a completare il quadro dell’eccezionale versatilità artistica di Lear, devo aggiungere che il nostro poeta-viaggiatore-pittore-scrittore possedeva anche un discreto talento musicale. Suonava il piano, ma anche la fisarmonica, il flauto e la chitarra, e compose musica “di ambientazione” per molte poesie di autori romantici e vittoriani, prime tra tutte quelle del suo amico Alfred Tennyson. Naturalmente musicò anche molte delle sue canzoni senza senso, tra cui “Il gufo e la gattina”, che si divertiva ad eseguire solo per una cerchia ristretta di amici.

Insomma, direi che c’è materia più che sufficiente a farne un personaggio degno della nostra memoria. Come lui stesso scriveva “dopotutto, se uno dedica la propria esistenza a qualcosa e non è un perdigiorno, quello che fa deve avere pur sempre un valore, se non altro il valore della perseveranza”. Nel suo caso gli andrebbe riconosciuto senz’altro ben di più.

A proposito di conoscenza. Ho voluto allegare a queste pagine tre appendici “documentali”, che probabilmente aiuteranno a capire Lear molto meglio di quanto abbia fatto io. Si tratta della poesia-autoritratto che ho citato nel testo, di alcuni Limericks tratti in parte da A Book of Nonsense (1846) e in parte da More Nonsense Pictures, del. 1872 (questo accostamento rende possibile cogliere la differenza nel tratto dopo un quarto di secolo) e di una serie di incisioni che illustravano la prima edizione del Journals of a landscape painter in Southern Calabria.

Per le traduzioni non mi assumo responsabilità. Stento già a leggere l’inglese quando è “sensato”.

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Bibliografia

Raffaele Gaetano – Edward Lear. Giornale di viaggio a piedi in Calabria – Laruffa editore, Reggio Calabria, 2023.
Raffaele Gaetano – In viaggio con Edward Lear – Laaruffa, 2023.
Edward Lear – Lettere dall’Italia (1837-1879) – Abramo ed.
Edward Lear – Viaggio in Basilicata (1847) – Osanna Edizioni, Venosa, 1996
Edward Lear – Diario di un viaggio a piediReggio Calabria e la sua provincia (25 luglio – 5 settembre 1847) – Laruffa editore, Reggio Calabria, 2003
Edward Lear – Limericks – a cura di Ottavio Fatica, Einaudi, Torino, 2002
Edward Lear – Indian Journal – Jarrolds, 1953
Edward Lear – In Greece. Journals of a Landscape Painter in Greece and Albania –William Kimber, 1965
Edward Lear – Journal of a Landscape Painter in Corsica – R. J. Bush. 1870
Atanasio Mozzillo (a cura di) – Viaggiatori stranieri nel Sud – Comunità, 1982
Vivien Noakes – Edward Lear, The Life of a Wanderer – London, 1968
Giuliana Randazzo, Il “Sicilian giro” di Edward Lear: itinerari e visioni inedite – Rubbettino, 2021
Antonella Viola – Edward Lear, un vedutista inglese in Basilicata – Suppl. a “La provincia di Potenza” n. 1/98

Che piacere incontrare il signor Lear 46

Appendice 1

The Self-Portrait of the Laureate of Nonsense.

“How pleasant to know Mr. Lear!”
Who has written such volumes of stuff!
Some think him ill-tempered and queer,
But a few think him pleasant enough.

His mind is concrete and fastidious,
His nose is remarkably big;
His visage is more or less hideous,
His beard it resembles a wig.

He has ears, and two eyes, and ten fingers,
Leastways if you reckon two thumbs;
Long ago he was one of the singers,
But now he is one of the dumbs.

He sits in a beautiful parlour.
With hundreds of books on the wall;
He drinks a great deal of Marsala,
But never gets tipsy at all.

He has many friends, laymen and clerical,
Old Foss is the name of his cat:
His body is perfectly spherical,
He weareth a runcible hat.

When he walks in a waterproof white,
The children run after him so!
Calling out, “He’s come out in his night-
gown, that crazy old Englishman, oh!”

He weeps by the side of the ocean,
He weeps on the top of the hill;
He purchases pancakes and lotion,
And chocolate shrimps from the mill.

He reads but he cannot speak Spanish,
He cannot abide ginger-beer:
Ere the days of his pilgrimage vanish,
How pleasant to know Mr. Lear!

L’autoritratto del laureato delle sciocchezze

Che piacere conoscere il signor Lear!
Chi ha scritto tanti volumi di sciocchezze!
Alcuni lo ritengono scorbutico e strano,
ma altri lo ritengono abbastanza gradevole.

La sua mente è concreta e meticolosa,
il suo naso è notevolmente grande;
Il suo volto è più o meno orribile,
la sua barba ricorda una parrucca .

Ha orecchie, due occhi e dieci dita,
almeno se si contano due pollici;
Molto tempo fa era uno dei cantanti,
ma ora è uno degli stupidi .

Si siede in un bellissimo salotto,
con centinaia di libri sul muro;
Beve molto Marsala,
ma non si ubriaca mai.

Ha molti amici, laici ed ecclesiastici;
Old Foss è il nome del suo gatto;
Il suo corpo è perfettamente sferico,
indossa un cappello runcibile.

Quando cammina vestito di bianco impermeabile,
i bambini gli corrono dietro così!
Gridando: “È uscito in
camicia da notte, quel vecchio pazzo inglese, oh!”

Piange in riva all’oceano,
piange in cima alla collina;
Compra pancake, lozione e
gamberetti al cioccolato dal mulino.

Legge ma non sa parlare spagnolo,
non sopporta la birra allo zenzero:
prima che i giorni del suo pellegrinaggio svaniscano,
che piacere conoscere il signor Lear!

Che piacere incontrare il signor Lear 73

Appendice 2

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Che piacere incontrare il signor Lear 51

Che piacere incontrare il signor Lear 52

I limericks che seguono sono tradotti da Pietro Scarnera
(da “Viaggiare in un limerick”)

Che piacere incontrare il signor Lear 53C’era un vecchio signore di Ischia,
Che si lanciò sempre più nella mischia;
⁠Ballò su corni e su gighe,
Mangiò migliaia di fichi,⁠
Quel vivace signore di Ischia.

There was an Old Person of Ischia,
Whose conduct grew friskier and friskier;
⁠He danced hornpipes and jigs,
⁠And ate thousands of figs,
That lively Old Person of Ischia.

Che piacere incontrare il signor Lear 54C’era un vecchio signore giù in Puglia,
La sua condotta era un poco citrulla;
Crebbe venti bambini
⁠Quasi solo a panini,
Quel bizzarro signore di Puglia.

There was an Old Man of Apulia,
Whose conduct was very peculiar;
⁠He fed twenty sons
⁠Upon nothing but buns,
Che piacere incontrare il signor Lear 55That whimsical Man of Apulia.

C’era un vecchio signor negli Abruzzi,
Così cieco da non vedersi i pieduzzi;
“È il tuo alluce!”, gli dissero,
Lui rispose, “Lo è davvero?”
Quel sospettoso signor degli Abruzzi.

There was an Old Man of th’ Abruzzi,
So blind that he couldn’t his foot see;
⁠When they said, “That’s your toe!”
⁠He replied, “Is it so?”
That doubtful Old Man of th’ Abruzzi.


Che piacere incontrare il signor Lear 56C’era una giovane donna di Lucca,
Che per amore andò fuori di zucca;
⁠Salì sopra un pero,
⁠E disse, “Pippero!”
Che imbarazzo per la gente di Lucca.

There was a Young Lady of Lucca,
Whose lovers completely forsook her;
⁠She ran up a tree,
⁠And said, “Fiddle-de-dee!”
Which embarrassed the people of Lucca.

Che piacere incontrare il signor Lear 57C’era un vecchio che stava sul Vesuvio,
E studiava tutti i libri di Vitruvio;
⁠Quando il fuoco li bruciò,
⁠Lui a bere incominciò,
Quel fissato di un signore del Vesuvio.

There was an Old Man of Vesuvius,
Who studied the works of Vitruvius;
⁠When the flames burnt his book,
⁠To drinking he took,
That morbid Old Man of Vesuvius.

Che piacere incontrare il signor Lear 58C’era un vecchio signore di Livorno,
Il più piccolo che mai si vide intorno;
⁠Ma una volta, poveretto,
⁠Fu afferrato da un cagnetto,
Che divorò quel signore di Livorno.

There was an Old Man of Leghorn,
The smallest that ever was born;
⁠But quickly snapped up he
⁠Was once by a puppy,
Who devoured that Old Man of Leghorn.



Che piacere incontrare il signor Lear 59C’era una giovane donna di Parma,
La sua condotta era sempre più calma;
⁠Le dissero, “Ci sei?”
⁠Rispose solo, “Ehi!”
Quella dispettosa ragazza di Parma.

There was a Young Lady of Parma,
Whose conduct grew calmer and calmer;
⁠When they said, “Are you dumb?”
⁠She merely said, “Hum!”
That provoking Young Lady of Parma.

Che piacere incontrare il signor Lear 60C’era un vecchio signore ad Aosta,
Aveva una mucca, ma si era nascosta;
“Ma non vedi”, gli dissero,
⁠”Che è salita su un albero?
Tu odioso signore di Aosta!”

There was an Old Man of Aosta,
Who possessed a large cow, but he lost her;
⁠But they said, “Don’t you see
⁠She has rushed up a tree?
You invidious Old Man of Aosta!”

Che piacere incontrare il signor Lear 61C’era una vecchia signora di Pisa,
Con le figlie era molto decisa;
Le vestiva di scuro, le picchiava, lo giuro,
Tutto attorno alle mura di Pisa.

There was an old person of Pisa,
Whose daughters did nothing to please her;
She dressed them in gray, and banged them all day,
Round the walls of the city of Pisa.

Appendice 3

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Konrad Vilhelm Mägi. Nuvole nell’anima

di Paolo Repetto, 20 aprile 2024 – dall’Album “Konrad Vilhelm Mägi. Nuvole nell’anima

Konrad Vilhelm Mägi Nuvole nell’anima copertinaCredo che nove italiani su dieci (è una stima ottimistica) non saprebbero rintracciare l’Estonia su una carta geografica. Figuriamoci poi conoscere qualcosa dell’arte estone. Quest’ultima lacuna valeva anche per me, fino a quando non ho visitato una mostra di Konrad Mägi, a Torino, quattro anni fa, l’ultimo giorno utile prima della serrata per Covid. Forse per questo la mostra mi è rimasta così impressa. Ma in realtà credo che i motivi siano altri.

Mi aveva colpito soprattutto l’eccentricità della pittura di Mägi. In senso letterale: la lontananza da ogni centro, la non riconducibilità ad alcun modello. Avevo sì l’impressione di riconoscervi di volta in volta riferimenti alle correnti artistiche precedenti o a quelle sue contemporanee, dall’impressionismo al fauvismo, dall’espressionismo all’Art Nouveau e alla pittura metafisica; ma erano così rimescolati e sovrapposti da dare origine a qualcosa di assolutamente originale. E poi, ad amalgamare il tutto, una dimensione onirica, il senso di solitudine che pervade i paesaggi, i colori marcati, suggestivi, che esplodono fuori dalla tela. Insomma, dietro quei quadri ho percepito una personalità irrequieta, profondamente depressa, persino instabile.

Konrad Vilhelm Mägi Nuvole nell’anima 02

E infatti. Magi nasce nel 1878 in Estonia, ma si trasferisce nell’adolescenza a Tartu, in Finlandia, dove lavora come apprendista falegname e frequenta anche corsi di disegno. Sviluppa interesse per l’arte figurativa, senza dargli però uno sbocco; fino a quando, ormai venticinquenne, si sposta a san Pietroburgo, in cerca di fortuna, ma soprattutto di un indirizzo da dare alla sua vita. Qui partecipa agli eventi della rivoluzione del 1905, e subito dopo, per sfuggire ad una’atmosfera divenuta pesante, cerca rifugio per un certo periodo nelle Isole Åland, all’imbocco del golfo di Botnia, dove esiste una comunità quasi anarchica di artisti e letterati. Non ci resiste però a lungo. Non è uno scapigliato, è anzi molto elegante, distinto e attento alle forme (anche alla cultura fisica, che è uno dei suoi pallini), tendenzialmente solitario: le stravaganze se le tiene dentro. In quell’ambiente dipinge i primi quadri e matura la consape volezza di aver preso la strada giusta, ma anche quella di avere ancora molto cammino da fare per raggiungere risultati soddisfacenti.

Questo cammino lo porta inevitabilmente a Parigi, dove approda nel 1907, dopo un anno trascorso lavorando ad Helsinki per far su qualche soldo. Il contatto con un mondo culturale vivacissimo, così diverso da quello del baltico nordorientale, da un lato lo attira, dall’altro lo spaventa e lo respinge: in più c’è il problema economico, perché la vita nella capitale francese è carissima, e lui è ridotto letteralmente alla fame, al punto da ritrovarsi con una salute irrimediabilmente minata. Di lì a poco si trasferisce dunque in Norvegia, dove comincia a dipingere compulsivamente e a guadagnarsi la vita con la sua arte. Può così permettersi nuovamente una paio di escursioni in francia, e segnatamente in Normandia, ma il richiamo del suo Nord lo fa rientrare, soprattutto dopo che le sue opere hanno conosciuto un buon successo in occasione di una prima mostra in patria.. Nel 1910 è di ritorno a Tartu, e poi dal 2012 in Estonia, dove fonda una scuola d’arte decisamente avveniristica per i luoghi e per i tempi.

Konrad Vilhelm Mägi Nuvole nell’anima 03

Le peregrinazioni non sono tuttavia terminate. La rivoluzione d’Ottobre rimette scompiglio nel precario equilibrio che Mägi ha raggiunto. L’Estonia ottiene l’indipendenza, ma la situazione è pesante. La meta dell’ultimo espatrio (siamo ormai nel 1920) è l’Italia, dove soggiorna per quasi due anni, visitando Venezia, Roma e Capri. La luce e i colori del mare e dell’isola lo affascinano, così come hanno affascinato moltissimi suoi ex-connazionali in esilio (Konrad era stato sino a quel momento cittadino russo): tanto che pensa di aver trovato una seconda patria. Ma anche questa volta non tarda a ricredersi: è ossessionato dal trascorrere del tempo (e le rovine della classicità rinfocolano questa ossessione), dalle forze che lo abbandonano, dall’angoscia di dover lasciare lo straordinario spettacolo che la natura mediterranea gli offre. Il suo equilibrio psicologico è gravemente compromesso, e anche quello fisico è minato ormai da diverso tempo. Rientra così nuovamente a Tartu, dove si spegne lentamente a quarantasei anni, dopo aver dipinto in maniera “professionale” per non più di quindici.

La tormentata vicenda esistenziale di Mägi non ha conosciuto requie, e ha lasciato un segno progressivamente più profondo nella sua arte: che è tutta volta a fermare, nel senso di sottrarre al tempo, alla caducità, alla dissoluzione, gli straordinari momenti di bellezza, sia umana che naturale, dei quali la natura ci fa partecipi. Questo sembrano volere, con la forza del segno e del colore, sia i suoi paesaggi che i suoi ritratti, Se poi negli uni e negli altri cominciano a comparire delle nuvole, che si affacciano dietro le alture e i profili delle montagne, fino a creare nell’ultimo periodo atmosfere sempre più cupe, questo non fa che testimoniare la sua consapevolezza di addentrarsi in tempi bui, e non solo per la sua personale situazione. E anche una singolare e contingente preveggenza: il giorno successivo alla mia visita tutti i musei, assieme ad ogni altra attività pubblica, erano chiusi. Le sue opere, dopo essere state bandite in patria per tutto il tempo della dominazione sovietica, avrebbero dovuto attendere altri sei mesi per tornare visibili al pubblico italiano.

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Nikolaj K. Roerich. Le cattedrali di pietra

di Paolo Repetto, 14 aprile 2024 – dall’Album “Nikolaj K. Roerich. Le cattedrali di pietra

Nikolaj Konstantinovič Roerich Le cattedrali di pietra copertinaLa cultura russa della prima metà del Novecento ha sfornato palate di personaggi bizzarri e controversi, ma questo è davvero singolare. La figura di Nikolaj Konstantinovic Roerich, nato a San Pietroburgo nel 1874, è talmente sfaccettata da non poter essere incasellata in alcuna definizione. Era un pittore, un archeologo e un esploratore, ma anche un appassionato di religioni orientali e di studi cabalistici, e si reinventò da ultimo maestro del pensiero, fondando una filosofia esoterica (la Agni Yoga) che pescava dalla teosofia di Elena Blavatskij, dal cristianesimo ortodosso, dal buddismo, dall’induismo, dallo sciamanesimo nonché dal burkhanesimo (una religione diffusa nella regione russo-asiatica degli Altai). Ancora oggi questa filosofia ha i suoi bravi seguaci, soprattutto nella Russia asiatica, ma sparsi anche un po’ in tutto il mondo. Per converso, Roerich è considerato da molti solo un ciarlatano, e si sospetta addirittura che abbia agito come spia del regime staliniano.
Le cattedrali di pietra 02Andiamo però con ordine. Roerich coltiva precocemente i suoi interessi artisti e filosofici, e soprattutto frequenta sin da giovanissimo gli ambienti culturali all’avanguardia. Collabora come scenografo e costumista alle messe in scena di Sergej Diaghilev, il creatore del balletto russo, e firma con Stravinsky la scenografia del balletto della “Sagra della Primavera”.
La grande svolta nella sua vita avviene però nel 1901, quando sposa Elena Ivanova Shaposhnikova. Da lei, che già ha tradotto in russo le opere della Blavatskij e scritto sui fondamenti del buddismo, riceve la spinta verso gli interessi esoterici. Al termine del primo conflitto mondiale i due danno inizio a una serie di viaggi diretti dapprima verso occidente, in Svezia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, poi decisamente a oriente, in India, nel Turkestan cinese, negli Altai, in Mongolia e in Tibet. Visitano anche la Manciuria cinese, raggiungendo poi Shanghai e Pechino e spingendosi fino a Tokyo.
I loro viaggi nell’Asia centrale, in un’area che negli stessi anni vede in azione Sven Hedin e gli archeologi dell’Ahnenerbe himmleriana, si traducono presto in vere e proprie esplorazioni. Oggetto della ricerca è il mitico paradiso buddista di Shambala. Di qui dovrà partire la rigenerazione dell’Umanità, una nuova era guidata da una figura femminile, Urusvati (nella quale non è difficile riconoscere la stessa Elena Ivanovna), che insegnerà all’umanità l’amore per la natura e la sintonia con le energie emanate dalla terra. L’armamentario per una filosofia di vita precorritrice della New Age c’è tutto, compreso il vegetarianesimo e il culto delle vette “sacre”.

Le cattedrali di pietra 03

Il pensiero di Roerich è stato indubbiamente condizionato, e in maniera pesante, dall’influenza della moglie. Di suo, lui ha saputo tradurlo da un lato in visibilità e successo, e in qualche modo in una sorta di lasciapassare, dall’altro in ispirazione per la sua pittura. Verso la fine degli anni Trenta ha lanciato un “Patto Roerich”, una sorta di “Croce Rossa della cultura”, sancito alla Casa Bianca alla presenza di Roosevelt, che aveva come scopo la protezione dai danni della guerra di monumenti, chiese, biblioteche, istituzioni culturali di ogni tipo. Nel frattempo ha continuato a girovagare per la Russia e per il mondo senza subire restrizioni dalla polizia politica staliniana, e sempre godendo di notevole disponibilità economica. Di qui i sospetti su una sua possibile attività spionistica al servizio del regime.
A noi interessa però eminentemente la sua opera. A prima vista è difficile che questa ci conquisti. Sembra anzi presentare diversi limiti: un segno pesantemente calligrafico, quasi esasperato nella semplificazione dei tratti e dei contorni; un cromatismo monocorde, vincolato alla successione disciplinata delle sfumature; il ripetersi degli stessi soggetti, colti da un’angolazione quasi simile. Come ad essere in presenza di un lavoro diligente, piuttosto che ispirato. Ma subito dopo la percezione cambia: si capisce che quelli che possono sembrare difetti di “manico” o di “maniera” sono in realtà l’esito di una “sublimazione”, mirata a creare una dimensione metafisica, nella quale il peso dei massi rocciosi, dei grandi volumi montani inscritti in ideali solidi geometrici, che pure è sottolineato proprio dalla semplificazione del segno, non ci grava addosso, è solidità, è base sulla quale poggiare i piedi e la vita.
E allora ne siamo attratti: da quelle vette (ma anche dagli edifici religiosi, dagli scorci di villaggi) ci arriva un richiamo, e la loro distanza non ci esclude.
Che poi Roerich fosse o meno un ciarlatano, o un fanatico religioso, o addirittura un agente dell’NKVD, e che le sue opere vengano riprodotte oggi sui cuscini o nelle tappezzerie, poco importa. Ci ha lasciato l’idea di un mondo nel quale, forse, l’utopia era ancora possibile.

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Breve nota sull’immaginario della sinistra

di Paolo Repetto, 15 novembre 2023, introduzione a Prolegomeni a una nuova sinistra

Per una volta siamo di parola. Ecco infatti il secondo intervento di Beppe Rinaldi, promesso un paio di settimane fa.

Rinaldi prende spunto nel testo che segue da un piccolo saggio di Aldo Schiavone (Sinistra!, edito da Einaudi nel 2023), per guidarci in una riflessione sullo stato attuale del pensiero di sinistra e sulle sue future prospettive. In effetti ne abbiamo un gran bisogno, sia di riflettere con un po’ di calma che di poter contare su un pensiero di sinistra libero da residuati ideologici. L’argomento non è affatto nuovo per il sito dei Viandanti: direi anzi che in modi e in misure diversi, esplicitamente o sottotraccia, ricorre in tutti gli scritti ospitati, anche in quelli che parrebbero andar per lucciole. La differenza sta nel fatto che in questa occasione è affrontato con la sistematicità analitica e con la lucidità critica di cui solo uno studioso di lungo corso come Rinaldi può essere capace. Sul salto di livello che qui si opera può essere illuminante il confronto con un paio di tentativi miei di fare un’operazione di questo genere, uno già lontano nel tempo (L’ultimo in basso, a sinistra, 1999) e l’altro più recente (Tre manifesti sul futuro dell’umanità, 2021). Tra l’altro, già in quest’ultimo l’occasione era offerta da un precedente testo di Schiavone, L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria, nel quale venivano anticipate quasi tutte le tesi poi riprese in Sinistra!

Ciò non significa che il pensiero dello storico campano del diritto sia diventato per i Viandanti un riferimento obbligato: significa invece che Schiavone, al contrario dei “grandi maestri” cui guarda con acritica reverenza lo pseudo-anticonformismo postmoderno, ha il coraggio di affrontare senza troppi giri di parole o ingorghi di citazioni il tema dell’essenza e dell’esistenza di una sinistra. Lo fa a modo suo, magari entusiasmandosi troppo per prospettive difficilmente condivisibili, ma almeno parla chiaro e va dritto al cuore dei problemi, invogliando così anche animi stanchi come i nostri a discuterlo (e a mettersi in discussione). Ma tutto questo lo troverete appunto nella serratissima analisi che Beppe Rinaldi va a proporvi.

Due parole vanno invece ancora spese sull’ iconografia inserita dalla redazione a corredo del testo. Le immagini scelte non sono un espediente per alleggerire la densità di quest’ultimo (intesa come peso specifico delle argomentazioni e non certo come caratteristica dello stile) e neppure vogliono ridursi a un puro e semplice reliquiario iconografico: sono state inserite ritenendo che abbiano una qualche attinenza con lo scritto, in quanto, sia pure sommariamente, raccontano le trasformazioni di un’idea, della concezione stessa di “sinistra” e delle modalità di appartenenza a questa categoria politica. La trasformazione può infatti essere letta anche attraverso l’evoluzione (o l’involuzione, a seconda dei punti di vista) dei manifesti che celebrano ricorrenze o avvenimenti significativi del calendario liturgico della sinistra, in particolare di quelli relativi alla festa del Primo Maggio. Naturalmente le chiavi di lettura possono essere svariate: quella che molto schematicamente proponiamo ha solo un valore esemplificativo.

Al netto dei mutamenti del gusto intervenuti nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, che attraverso le successive correnti artistiche hanno naturalmente influenzato anche l’illustrazione politica, ci sono in questi manifesti altre evidenze, non prettamente estetiche, relative ai contenuti piuttosto che allo stile, che balzano immediatamente agli occhi.

In quelli risalenti all’ultimo decennio dell’ Ottocento e ai primi del secolo successivo, ad esempio, la sinistra è personificata in immagini quasi esclusivamente femminili: sono allegorie botticelliane, adattate ai canoni dell’Arts and Crafts di William Morris prima e a quelli dell’Art Nouveau dopo. L’atmosfera e le posture leggere delle giovinette, che sembrano sempre pronte a librarsi in volo (quando già non stanno volando) riflettono in fondo le ottimistiche speranze della Belle Époque in un crescente benessere. A tutto questo non è naturalmente sotteso alcun riconoscimento particolare del ruolo della donna nella realizzazione di una futura società egualitaria. Sono solo rappresentazioni simboliche: e tuttavia quella che trasmettono è l’idea di una possibile transizione armonica. L’immagine femminile non ha nulla di minaccioso, al contrario, si fa garante di un futuro di bellezza. E i seni generosamente esposti al vento, oltre a sfidare il farisaico moralismo borghese, promettono abbondanza e libertà.

Al volgere del secolo cominciano a comparire invece sui manifesti delle figure maschili, di solito in pose statuarie, o immagini di coppie o di gruppi. Dall’idealizzazione allegorica si plana verso una rappresentazione “realistica”, sia pure virata in chiave epica. Cambia anche l’atmosfera. La guerra mondiale ha fatto strage delle vecchie speranze, mentre la rivoluzione bolscevica ne alimenta di nuove, almeno in apparenza più concrete. L’iconografia sovietica è esemplare in questo senso. Un trionfo di solidità e concretezza. Quella italiana invece per tutto il ventennio semplicemente scompare. Nel frattempo si impongono sempre più i loghi, che caratterizzano un modello comunicativo mirante più a creare una immediatezza identitaria che a infondere emozioni: l’immancabile falce e martello, il pugno chiuso, e poi trattori, strumenti di lavoro, paesaggi industriali di taglio futurista.

Nel secondo dopoguerra all’iniziale “realismo” di ispirazione sovietica (ma anche hollywoodiana) succede, soprattutto in Italia, un “razionalismo” di chiara matrice architettonica, che punta sulle geometrie dei volumi e allude al titanico impegno della ricostruzione. Ma non sono solo le immagini a perdere levità. Alla loro maggiore pesantezza corrisponde quella dell’atmosfera sociale (lo dicono esplicitamente gli slogan: non di una festa si tratta, ma di una lotta): non è più tempo di famiglie felici e di serenità, ma di guerra fredda, di contrapposizione dura. In quest’ultima direzione muovono a partire dagli anni sessanta i manifesti della sinistra sindacalizzata e radicalizzata, pre e post-sessantottina, mentre quella storica e partitica tende a mettere la sordina al conflitto (è l’epoca del centro-sinistra e poi del compromesso storico) optando per simboli rassicuranti: la rosa in luogo della falce e martello, campi e officine sempre più stilizzati. Nei decenni successivi anche il lavoro cede gradualmente la scena ad altri temi: l’ambiente, la questione di genere, l’informatizzazione, l’integrazione. Questo mentre si completa l’auto-intestazione della ricorrenza da parte dei sindacati e dei partiti, o addirittura delle loro guide storiche.

Col nuovo secolo i manifesti praticamente scompaiono. L’informazione e la celebrazione passano ora attraverso i nuovi media. Scompaiono anche, assieme ai cortei e ai comizi, le ultime occasioni per sentirsi bene o male accomunati da una idealità e da una lotta. Lasciano il posto a un’idea di festa di tutt’altro tipo: non si marcia nei cortei, non ci si aduna pei comizi, ma si balla, si urla e ci si sballa ciascuno per proprio conto al concertone. Ricordandosi ogni tanto di alzare il pugno chiuso o di scandire gli slogan lanciati dal palco.

L’immaginario della sinistra ha un gran bisogno di essere non solo rinnovato, ma addirittura rifondato, se vuol tornare a librarsi in qualche modo oltre la desolante realtà del presente: e a questo scopo diventano indispensabili le preliminari disincrostazioni, le ripuliture dalla zavorra ideologica operate da Beppe Rinaldi. Buona lettura, dunque.

Il surreale inferno di Leon Spilliaert

di Fabrizio Rinaldi, 29 gennaio 2023 – dall’Album “Il surreale inferno di Leon Spilliaert

Il surreale inferno di Leon Spilliaert copertinaSono in libreria, in cerca di regali per Natale, quando l’occhio viene attratto da una raffinatissima copertina della Biblioteca Adelphi, nella quale la linea nera scontorna un paesaggio solitario, reso con colori tenui e linee quasi geometriche.

Leon Spilliaert 06Il libro è Dall’inferno, di Giorgio Manganelli, e si rivelerà anche interessante. Ma a catturarmi è stata la copertina e non è certo la prima volta. Ormai le librerie sono diventate delle gallerie d’arte. Le copertine – oserei dire soprattutto quelle dei piccoli editori – sono davvero belle e accattivanti (non sempre si può dire altrettanto dei contenuti) e offrono occasioni di inediti incontri con il mondo delle immagini, mentre i grafici hanno affinato la conoscenza delle diverse capacità attrattive dei colori e dei font. Non sono cose banali: ricordo con un fastidio anche tattile la moda in voga negli anni Novanta, che imponeva titoli dai caratteri enormi, colori fosforescenti e, in particolare, i caratteri in rilievo. Facendo scorrere le dita su certi Oscar Mondadori avevi già la certezza che il contenuto poteva essere evitato.

Leon Spilliaert 03Tornando al libro di Manganelli, nel risvolto leggo che il quadro riprodotto in copertina è di Leon Spilliaert (1881-1946), un pittore belga che raffigurava per lo più paesaggi di campagna e spiagge del mare del Nord, creando atmosfere piuttosto cupe.

Spilliaert non arrivava da studi accademici, era praticamente un autodidatta, ciò che non gli impedì di trovare una sua personalissima forma stilistica. Continuò tuttavia a covare per tutta la vita l’insoddisfazione per non vedersi valorizzato dalla critica dell’epoca.

In effetti visse ai margini della cultura belga, conducendo nella nativa Ostenda un’esistenza abitudinaria e isolata, assieme alla moglie e ad una figlia. Nella scarsa considerazione che gli fu riservata in vita come pittore c’entra senz’altro il fatto che la sua attività ufficiale e prevalente, quella che dava da vivere a lui e alla sua famiglia, era di illustrare di romanzi per adulti, peraltro in un’epoca nella quale l’illustrazione faceva tutt’uno con il testo. E questa pratica la si riconosce pienamente anche nelle scelte stilistiche e cromatiche della sua pittura. Era poi tormentato da diversi problemi fisici che gli producevano una costante irrequietezza e una insonnia cronica, sedate con lunghe e solitarie camminate notturne fino all’alba, lungo la spiaggia del suo paese. Traeva ispirazione da ciò che vedeva non allo spuntare del sole, ma negli attimi appena antecedenti, quelli in cui il cielo comincia a mutare colore, passando dalle sfumature più scure alle tonalità meno cupe: e questo spiega le tele intrise di solitudine e le atmosfere surreali, oniriche e misteriose.

Vi compaiono in genere figure umane che camminano su spiagge deserte, lungo sentieri che si perdono in lontananza: o in altri casi vagano nella notte, fra edifici scuri appena abbozzati dalla luce dei lampioni, unico appiglio cui aggrapparsi per uscire dall’incubo.

Come si può immaginare, Spilliaert amava sia la letteratura onirica di Edgar Allan Poe (di cui aveva illustrato alcuni testi) che la filosofia eversiva di Friedrich Nietzsche. E nei suoi dipinti sono rintracciabili riferimenti ai paesaggi romantici di Caspar David Friedrich e a quelli inquietanti di Edvard Munch e di Vilhelm Hammershøi, mentre l’uso marcato di giochi prospettici anticipa i lavori di Giorgio De Chirico.

Leon Spilliaert 02L’impiego di pochi colori e la predominanza del nero accentuano la tensione introspettiva; al tempo stesso l’uso di tinte terrose e marine, dalle quali emerge uno sprazzo di luce gialla o bianca, crea l’impressione che l’osservatore emerga dalle tenebre. Un lampo di speranza che squarcia l’atmosfera tetra. Le sue insicurezze e i suoi dubbi tornano poi nei giochi di specchi che caratterizzano gli autoritratti.

A dispetto di tutto e di tutti Spilliaert ha creduto fino in fondo nella propria poetica ed è considerato oggi uno dei massimi esponenti dell’Espressionismo belga.

Leon Spilliaert 04

L’immagine della copertina, come dicevo, mi ha molto colpito. Ma evidentemente sono un po’ strano, perché – a differenza dei molti che sono andato a consultare – non trovo i suoi dipinti così inquietanti, tetri e intrisi di solitudine. Li considero invece piacevoli e rilassanti, quasi rassicuranti, come mi accade per molte opere di Mark Rothko. La semplicità con cui suddivide gli spazi, i colori tenui, mai urlati, hanno un ché di pacato e meditativo.

Ci vedo comunque una speranza, una luce che s’intravvede nelle tribolazioni quotidiane. Dunque, sono proprio strano …

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Collezione di licheni bottone

Ariette 14.0: Dai tempi di Noé

di Maurizio Castellaro, 11 gennaio 2023

Il Principato di Monaco consiste in 2 chilometri quadrati insensati in cui risiedono 40.000 persone asserragliate intorno al vecchio Casinò. Enormi colate di cemento violentano mare e terra, per dare spazio a boutiques esclusive, parcheggi sotterranei, ascensori scavati nella roccia. Poco più avanti, Cannes è un piccolo clone di Los Angeles. Ospita da oltre 70 anni il più importante festival della fabbrica dei sogni, ed esibisce al termine della sua Croisette un Casinò, yatchs arroganti e ville con 20 stanze e 20 bagni, che vende a decine di milioni di euro ciascuna. Solo a pochi chilometri nell’entroterra, in piccoli paesini come Vallauris, Vence, Saint-Paul, geni come Picasso, Matisse e Chagall sono stati attivi dopo la guerra per decenni, idolatrati da collezionisti di tutto il mondo, ricchissimi e forse ignari. Nella mia memoria vorrei riuscire a scindere il ricordo dello skyline di Montecarlo dal segno essenziale e spirituale che Matisse ha lasciato sui muri della Chapelle du Sainte-Marie du Rosaire di Vence. Allo stesso modo, vorrei riuscire a separare l’immagine della neve finta davanti al Casinò del Principato da quelle delle tele sublimi dipinte a Nizza da Chagall, e ispirate dal Cantico dei Cantici. Ma non ci riesco. Questi due ordini antitetici di immagini vanno tenuti assieme, perché li lega una connessione segreta, perché forse questi due livelli di realtà sono uno la verità dell’altro, in perenne e insostenibile tensione. E forse perché proprio la loro inscindibile antitesi senza sintesi ci ricorda che, se mai ci sarà salvezza per noi, essa passerà dalla ricerca della bellezza e della purezza in mezzo a ciò che bello e puro non è, e sarà comunque una salvezza individuale, e mai collettiva. È una storia antica, già vecchia ai tempi di Noè, quando ancora nel mondo la pioggia cadeva.

Ariette 14.0 Dai tempi di Noé 01

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