Tsundoku – Breve Respiro

di Vittorio Righini, 1° settembre 2025

Tsundoku, in giapponese, più o meno significa: l’abitudine di accumulare libri con l’idea di leggerli in futuro. Esiste un’ossessione corrispondente, e più accentuata, che è quella di accumulare i vinili. Componenti fondamentali per i libri, e ancor più per i dischi in vinile, sono: a) l’edizione b) le condizioni c) la copertina. Ma con i libri conta anche la qualità e l’odore della carta.

Il contenuto è il più delle volte già noto nei vinili, è quindi un dato scontato, non si compra un vinile raro se sappiamo che il contenuto non è nelle nostre corde; più casuale il libro.

Ma qui arrivano le differenze: su un mercatino si trovano libri a 1, 2 o 3 euro, che comprati al tempo della loro pubblicazione sarebbero costati 10 o più migliaia di lire, o decine di euro. Il mercato è quello dello sgombero, lo dico in senso oggettivo, si fanno magnifici affari (ieri, mercatino di Acqui, trovato Napoli ‘44 della Adelphi, di Norman Lewis, a 2 euro … Signori, di cosa stiamo scrivendo!? Al banco di fronte mio figlio compra il vinile L’Indiano di De Andrè, copertina buona, vinile discreto, a 30 euro e il tipo sembra gli faccia un regalo).

I vinili sono già finiti in mano ai commercianti; conosco persone che, smesso il loro lavoro abituale, lo fanno di professione.

Baristi modesti, messi comunali in pensione, saltimbanchi d’ogni genere e forma che di musica hanno sempre saputo e capito poco o niente, e che oggi si ritrovano alle fiere del vinile e pontificano, convinti di avere di fronte a loro degli ignari, da imbonire con stronzate micidiali. Quando li incontro, faccio un sorriso e passo oltre, a favore di vecchi malati di musica, che vendono per campare ma sanno cosa propongono. Certo, i vinili sono più rari dei libri, ma c’è un limite a tutto.

Invece nel mondo dei libri l’offerta è tale che è difficile da valutare. Io spesso compro senza conoscere quel libro … sì, ma a 1 euro, 2 o 3. Non a 30/40/50 come ti chiedono per un vinile. Ne sto facendo una questione di vil denaro? anche.

Compulsivo, un termine di moda oggi; chi si compra una valanga di libri ad ogni mercatino spenderà poche decine di euro, ma a meno che non sia Matusalemme avrà ben poche possibilità di leggerli tutti. Però il piacere di possederli (e la gioia dell’Ikea che vende migliaia di librerie Billy, pur incocciando a volte con la pazienza delle mogli) è impagabile.

Un compulsivo del vinile deve avere un reddito notevole per paragonarsi a un compulsivo del libro (del libro normale per intenderci, non certo il collezionista di libri antichi e rari, quello vive su di un altro pianeta).

E la pigrizia dove la mettiamo? io non sono definibile “esagerato” per la quantità di libri che possiedo (vinili ne avrò 1500, ma li compro dal 1970, mentre i libri sono tantissimi, ma in parte per averli ereditati dai genitori, lettori accaniti, e in parte acquisiti negli ultimi 30 anni), eppure ho 7/8 librerie piene. Ho provato a tenerli in ordine, ma ormai i libri non letti sono in parte finiti in mezzo a quelli da leggere, c’è un certo caos, complicato da gestire in fase di ricerca.

L’altra sera prendo in mano Un sorriso nell’occhio della mente di Lawrence Durrell; il racconto narra di un conoscente cinese di Durrell che gli prospetta la filosofia Tao, e lo inizio con entusiasmo, per rendermi conto dopo le prime pagine che l’ho già letto e che mi era pure piaciuto … beh, che c’è di male? niente, basterebbe solo essere più ordinati, ma chi se ne fotte.

Tsundoku, termine nato nell’era Meiji (1868-1912), per la verità ha un significato più sottile di quello che ho indicato all’inizio: significa accumulare libri in casa senza sapere se mai li leggeremo, e questa interpretazione ci apre la mente ad altre e ben più curiose riflessioni. C’è chi ritiene che si tratti di una forma di dipendenza (ecco l’acquisizione compulsiva di cui scrivevo prima), chi ritiene invece che si tratti di una forma di umiltà, avere tanti libri per migliorare se stessi. Io ne propongo una terza, una via di mezzo: una insaziabile curiosità che spinge ad accumularli, i libri.

Leggo, in un articolo sul web, che l’altra parte della barricata è quella che dice che avere troppi libri in casa genera ansia, nella convinzione della brevità della vita, per la nostra incapacità di leggerli tutti, quindi per la nostra mancanza di tempo. No, non sono d’accordo; ottimista di natura, vedo l’accumulo dei libri in casa mia come Paperon de Paperoni vede il mucchio di monete nel suo mega salvadanaio a forma cubica (impresto i libri, non ho problemi, ma li timbro con l’ex-libris e sparo con un fucile a canne mozze a chi non me li rende, perché sono uno di buon cuore e non voglio far soffrire).

Sempre nello stesso articolo, leggo che lo psicologo, nel caso, consiglia di farsi un sacco di domande prima di comprare l’ennesimo libro, e rispettare regole come l’ordine, l’elencazione, la motivazione, la registrazione di ogni acquisto … no, no grazie. Mi perderei tutto il meglio, che razza di Tsundoku sarei?

Ps: esiste un libro che si chiama: Tsundoku. L’arte giapponese di accumulare libri, Raito Taiki, editore Giunti 2025, ma non ho la più pallida idea se ne valga la pena. A me basta andare due o tre volte l’anno da Paolo Repetto, a Lerma, dove il mistero viene svelato in tutta la sua pienezza.

Pps: cosa c’entra Breve Respiro? più di venti anni addietro, in occasione di una sosta nel Comune di Zogno (BG), mi invitarono a pranzo in una vecchia trattoria proprio sotto i monti, con a fianco un ponticello in pietra che scavalcava un minuscolo torrente, per poi inoltrarsi in una ripidissima mulattiera. I montanari, nel passato, si fermavano a bere un bicchiere o mangiare un piatto di casoncelli caldi prima di affrontare la salita, cioè prendevano un breve respiro. È quello che propongo anche io con la lettura di queste due semplici paginette: purtroppo mi mancano casoncelli e vino. Come dire: dopo aver letto dedicatevi a cose più serie.

Disciplinare dello haiku

di Mario Mantelli, 28 marzo 2025  (terminato di scrivere il 30 ottobre 2012)

Tra pochi giorni correrà il quinto anniversario della scomparsa di Mario Mantelli. Uso “correre” non a caso: questi cinque anni sembrano essere letteralmente volati, e non mi hanno affatto abituato alla sua assenza (così come penso accada per tutti i suoi amici). Immagino che in realtà non ci abitueremo mai: perché Mario rimarrà sempre il convitato arguto e stimolante nei nostri incontri e nei nostri pensieri.
Per continuare a rivivere con lui momenti di puro piacere penso che nulla valga meglio della rilettura dei suoi elzeviri, dei libretti curatissimi che editava in esemplari limitati per la sua personale casa editrice, il Bravo Merlo, delle introduzioni a opere altrui o dei commenti a quei piccoli “eventi di provincia” che sapeva davvero trasfigurare e rendere significativi; nonché naturalmente dei suoi libri di ricordi, che sono in realtà dei sorprendenti trattati di semiologia.
Una buona parte di questi materiali è già presente sul nostro sito. Ci proponiamo di completare al più presto il recupero di quelli restanti (impresa non da poco, perché Mario ha scritto moltissimo e ha disperso un po’ ovunque i suoi interventi). E partiamo alla grande, dall’ormai quasi introvabile Disciplinare dello haiku. Per chi già lo conosce sarà una gradevole rimpatriata: per gli altri sarà occasione del felice incontro con una intelligenza umile e straordinaria.
di Paolo Repetto, 28 marzo 2025

Disciplinare dello haiku

 

 

Haiku: … genere poetico giapponese, ha accanto all’epigramma la forma forse più concisa che esista: 5 – 7 – 5 sillabe: una brevità che può creare un capolavoro come pure un effetto di tela imbrattata. (Cento Haiku scelti e tradotti da Irene Iarocci, Longanesi, Milano 1982)

 

Freschezza dello haiku

Come le stelle
sul cofano, nel freddo,
le orme del gatto
scadenza: 20 marzo

Compiuto il verde
ben presto la mattina
chiacchiera il merlo
scadenza: 20 giugno

S’apre l’estate,
più forte esala in via
l’odor di cena
scadenza: 22 settembre

Ad un balcone
scoloriti colori.
Alzo il bavero
scadenza: 20 dicembre

 

Gentile Signore/a,
mi fa piacere che Lei abbia colto in tutta la sua rilevanza il problema della certificazione dello haiku. Sarebbe urgente al proposito stilare i punti essenziali di un disciplinare che ne regoli la denominazione d’origine controllata e garantita (docg).
Va detto in primo luogo che lo haiku, pur non essendo soggetto a scadenza, deve essere un prodotto contrassegnato dalla freschezza, per cui sarà opportuno che ne venga dichiarata in calce non solo la stagione e il kigo (cioè il riferimento stagionale, che può essere un animale, una pianta o altro), ma direi anche il giorno della sua stesura.

Come per il moscato può aversi il corrispettivo passito lasciando essiccare l’uva in appositi locali o sulla vite anche per lungo tempo fino alle gelate, così saranno ammessi haiku che potremmo definire conservati. Ad esempio, se accanto al caminetto o più prosaicamente al calore del termosifone, mi viene da pensare ad uno haiku sulla cinciallegra che canta nel viale davanti a casa mia o sulla raccolta del grano nella piana di Marengo, dovrò specificare la data e il luogo effettivi della stesura, ma sarebbe opportuno dare un’idea del mese o della stagione rammemorati, usando espressioni del tipo: “composto accanto al caminetto riandando col pensiero a un primo annuncio di primavera” oppure “composto stravaccato in poltrona con i piedi sul termosifone, ricordando un caldo giugno nella Fraschetta”. Il tutto contrassegnato dalle date giuste.
Tale ipotesi non è comunque da ritenersi la prassi consueta. Lo haiku va, come si usa dire, “cotto e mangiato”, o meglio, usando la più appropriata metafora del frutto, “colto e mangiato”. Vedremo in seguito qualche esemplificazione.

Diciamo al momento che il processo di produzione ideale dello haiku ha un andamento di questo tipo.
Per prima cosa rimango colpito da un’emozione improvvisa causata da un evento che segna l’inizio o l’intenso manifestarsi di una stagione oppure sono sorpreso da un’esperienza sensoriale, magari rapida e sfuggente, ma capace di richiamare sensazioni profonde e lontane oppure ancora mi accorgo di qualcosa che si collega inevitabilmente a un senso transeunte del Tutto.
A questo segue il desiderio di catturare con un pugno di parole questo tipo di emozioni (che sono sempre totalizzanti) perché ne rimanga qualcosa. Nello stesso tempo mi rendo conto che un frammento di prosa o una tradizionale poesia già costituirebbero un discorso troppo lungo e finirebbero per annacquare quel sentimento puntiforme che ho provato poco prima.
Mi accorgo, un po’ confusamente, di essere alla ricerca di un corrispettivo oggettivo di quel momento magico. Lo haiku ha qualcosa di questo corrispettivo: è come se fosse un piccolo oggetto, fatto com’è di sole 17 sillabe (un quinario, un settenario, ancora un quinario). Se è steso in bella calligrafia su un pezzetto di carta, finisce per assumere tutte le caratteristiche di un oggetto-ricordo che possa continuare l’evocazione del momento ineffabile che ho provato.
Per oggetto-ricordo intendo un oggetto d’affezione, di dimensioni tali che uno lo possa sempre portare con sé o lo possa tenere come soprammobile, come succede per i souvenirs di viaggio, per i portafortuna e le palline anti-stress, per i taccuini e i libri in sedicesimo, insomma per tutti gli indispensabili oggetti di sopravvivenza psicologica che usiamo portarci dietro. Ognuno di questi oggetti-ricordo ha avuto il suo momento particolare di freschezza, che abbiamo avvertito quando c’è stata la sorpresa della sua scoperta (il ritrovamento, l’acquisto), quando, diciamo così, tale sorpresa investe ancora con la sua aura la funzione di ricordo che avrà l’oggetto: pensiamo alla gioia un po’ euforica che segue il momento in cui abbiamo raccattato da terra una bella pietra che ci è piaciuta, la gioia di aver trovato un tesoro, che è cosa diversa dalla gioia di possedere un tesoro.
Lo haiku, in questo simile al taccuino di schizzi di viaggio, può avere momenti di una freschezza ancora più piena perché ricca di ben tre elementi legati fra loro: l’evento (dell’emozione provata), la produzione (cioè la stesura dello haiku) e poi il ricordo, tre fattori che arricchiranno il presente di quella determinata giornata, lo dilateranno di echi.
Ho trovato un esempio di tutto ciò in un ritaglio di giornale (anche il ritaglio di giornale, se eseguito e conservato con cura, è un oggetto-ricordo). Si tratta di un articolo di Bruno Ventavoli (Tuttolibri, supplemento de La Stampa del 6 febbraio 1993). Viene riportata la seguente testimonianza di Vittorio Maria Brandoni, che tenne il primo corso di haiku in italiano, di cui si dà notizia nell’articolo: “Ero su un pullman a Kyoto e c’era un’anziana signora malferma sulle gambe. Mi sono alzato per cederle il posto anche se sapevo di comportarmi in maniera diversa da un giapponese. La regola impone alle donne di stare in piedi. La signora mi ha ringraziato molto. Ha armeggiato nella borsa, ha estratto un piccolo cartoncino, una penna e ha vergato sopra degli ideogrammi. Prima di scendere me l’ha regalato. Era un Haiku, immediato, spontaneo. Aveva voluto esprimere la sua gratitudine, per sempre, tramite la poesia”.
Dette queste cose sul valore dello haiku nel suo complesso e in particolare sulla sua freschezza, un disciplinare sulla docg (denominazione d’origine controllata e garantita) dovrebbe prendere in considerazione i terreni favorevoli alla sua produzione e così pure i tempi e le stagioni, dovrebbe inoltre fornire una campionatura che illustri i modi di produzione e infine dovrebbe fare qualche cenno, per così dire, al packaging.

Terreni dello haiku

Questa nota è dedicata a chi intende comporre haiku.
Perché lo haiku si sviluppi vigoroso e senza magagne, al suo cultore sarebbero consigliabili, nel tempo libero, alcuni hobbies. Essi richiederebbero due difetti (nel nostro caso pregi) che sono in contraddizione, cioè a dire il Nostro dovrebbe essere contemporaneamente un presbite e un miope della percezione.

 

Terreni della presbiopìa percettiva

DELLA LUNA

Chi ambisce a comporre haiku dovrà essere lunatico alla Baudelaire e perciò dovrà andare a rileggersi con attenzione “I benefici della luna” nei Piccoli poemi in prosa. Dovrà essersi posto il problema dell’uguaglianza o della diversità della luna a seconda dei luoghi e aver optato in cuor suo per la prima: ha visto sorgere la luna sopra il cavalcavia ferroviario della sua città di provincia e ha pensato che immaginare quella luna identica in quello stesso momento a Praga o a New Orleans nobilitasse molto quel cavalcavia e quell’ora magica (non rendendosi conto che l’astronomia propone risultati visivi diversi, ma il Nostro, non dimentichiamolo, ha sempre la testa sulla luna). Ha inoltre la serena e segreta consapevolezza che il primo haiku della sua vita era di Bashō, stava nell’antologia delle medie del fratello maggiore e gli fu letto (perché non andava ancora a scuola) cogliendo famigliarmente lo humour che vi è contenuto:

Nessuna faccia
graziosa nel gruppo
che guarda la luna
(traduzione di Giuseppe Rigacci)

Va fatto notare che mentre per i giapponesi contemplare la luna fa parte quasi di un rito, da noi chi guarda la luna ha sempre qualcosa del licantropo e questo ostacola la pratica di contemplazione dell’astro, molto più diffusa nell’Ottocento (un nome per tutti: Leopardi).

 

DELLE NUVOLE

Il compositore di haiku dovrà esercitarsi, qualora non vi sia portato spontaneamente, ad essere un acchiappanuvole. Deve fare orgogliosamente sua la massima di Chang Ch’ao: “Soltanto coloro che prendono comodamente quello per cui si affaccenda la gente del mondo, possono affaccendarsi per quello che la gente del mondo prende comodamente”. Quindi, animo! Dedicarsi ogni volta che si può a contemplare le nuvole. Vanno bene le nuvole dipinte dai nostri grandi Quattrocentisti o quelle borghesi e misteriose di Magritte, ma la realtà, ammettiamolo, certe volte è insuperabile, quando ti butta su per il cielo quegli enormi cumuli di panna o quei giganteschi cavolfiori! E, appena si sente il bisogno di classificare ciò che abbiamo visto, sarà bene ricorrere, piuttosto che ai trattati scientifici sull’argomento, a Il nuvolario. Principi di nubignosia, di Fosco Maraini, se è possibile nell’edizione Semar (collana “Visioni” n.7), Roma 1995, probabilmente uno degli ultimi libri “ordinari” con fettuccina segnalibro incorporata.
Anche per le nuvole bisognerà porsi il problema: sono uguali dappertutto? Nel senso che esistono nuvole che possono formarsi soltanto in Piemonte o nella Galizia oppure, sotto determinate condizioni, possono formarsi sia in Piemonte che nella Galizia? Personalmente propenderei per quest’ultima ipotesi, ma ci ho ripensato da quando ho letto l’opinione di Saul Steinberg: “C’è anche un’equivalenza fra il paesaggio e il modo in cui si riflette nelle nuvole: una forma di riflesso della natura. In Arizona, nel deserto dei Navajos, dove si ergono gigantesche formazioni di rocce rosse, le nuvole assumono delle forme ugualmente monumentali. Anche i laghi producono le loro specifiche nuvole” (Riflessi e ombre, Adelphi, Milano 2001).

DEL GUARDAR LONTANO

L’autore di haiku dovrà possedere un imprinting delle meraviglie del guardar lontano. E chi non lo ha avuto? Dovrà avere pratica di orizzonti. E chi può sfuggire ad essi? Potrà essere la distesa del mare o una sconfinata pianura e sappiamo che sono ancora più presenti dietro a una siepe o a un monte. Tuttavia avrei una leggera predilezione per colline e montagne lontane, là dove si possa far pratica dell’“azzurro color di lontananza”, come dissero Pascoli e Gozzano e come intendeva dire molto tempo prima Leonardo con la sua prospettiva aerea. Da noi, dalle parti di Alessandria d’Italia, sono gli Appennini a presentarsi più sovente azzurri in lontananza, mentre le Alpi, bianche e rosa al mattino come una sposa novella, solo a sera si presentano in un azzurro cupo, vedovile, che tende al viola. E ancora mi sovvengono i nostri Quattrocentisti, così esperti di lontananze da collocare sulle colline dei loro sogni, laggiù, dietro Madonne e Santi, dei piccoli colossei in miniatura o dolcissime elicoidali torri di Babele, graziose come lumachine, quasi volessero dirci che la lontananza è abitata di utopie e di sogni del passato.

DEL GUARDAR PER ARIA

Il facitore di haiku a volte lo si riconosce dall’abitudine che ha di guardare per aria. Sta allenandosi: spesso conta le sillabe, ma più sovente si tratta di un allenamento all’ispirazione. I poeti, specialmente quelli contemporanei, guardano per aria. Montale ce lo fa capire quando ne I limoni dice: “… nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra/ soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase”.
Giova molto all’ispirazione guardare per aria: si scoprono sempre cose curiose fra i cornicioni e le grondaie. Sono molto interessanti anche i comignoli. Ne esistono ancora di mattoni oppure ci sono quelli cilindrici in cotto, che paiono piccole case di gnomi che hanno abbandonato il sottobosco, per andare in una loro villeggiatura montana sui tetti. Scomparse quasi ovunque le banderuole, si sono conservate invece molte croci in ferro battuto, aeree, leggere, alla sommità di piccole cappelle campestri o sugli oratori delle confraternite. Anche certe chiese dei nostri paesi e delle nostre frazioni hanno di queste croci, fatte di linee di contorno e a volte raggiate. Per queste chiese le dimensioni sono maggiori e in un nostro sobborgo ne esiste una che si può ammirare da vicino, forse caduta dalla sommità o pericolante e successivamente murata sulla parte inferiore della facciata. Appare grande e questo ci fa stupire, perché tutte le cose che stanno in alto ci appaiono piccole; ha qualcosa dell’angelo ferito e caduto, ci fa capire meglio il mistero del guardare per aria. Questo mistero ha le sue radici più profonde in chi guarda il cielo di notte e si ferma a contemplare astri, stelle cadenti e massimamente la Via Lattea. Chi finirà per comporre haiku ha nella sua memoria la prima volta che gli è apparsa la via lattea su un’aia contadina, fuori da ogni inquinamento luminoso, e associa questa visione-ricordo ad una rappresentazione egizia della volta stellata a forma di ippopotamo o di rapace dalle grandi ali, non sa bene (ma deve trattarsi piuttosto di una sua elaborazione fantastica).

Terreni della miopìa percettiva

DELLE ERBE SPONTANEE

La vocazione di chi costruirà haiku è generalmente indicata dal felice rapporto che ha intessuto da bambino con le erbe spontanee. Da bambini sono delle interlocutrici privilegiate perché si offrono allo sguardo piuttosto vicine. Lo stupore aumenta a trovarsele in luoghi incongrui, come fra le traversine della ferrovia o tra le commessure dei marciapiedi ma, insomma, guardare da bambini con attenzione alle erbacce non può che portare da adulti a due esiti: mettere assieme begli erbari oppure comporre haiku. Le erbe che più si prestano sono a volte quelle più umili e insignificanti, come nel famoso esempio di Bashō:

Allungo gli occhi:
sotto la staccionata fiorisce
la borsacchina
(traduzione di Elena Dal Pra)

Ma ispirano molto anche quelle erbette di forme graziose che spuntano nascoste negli angoli più appartati e umidi:

Strisciante eliso
cui è mancata l’aria
la cimbalaria

Come non parlare poi del senso di sconfinata libertà che danno le ombrelle della carota selvatica; ne parleremo infatti in un apposito paragrafo.

DEGLI ANIMALI AMATI DA ALCUNI INCISORI

Favorisce la riuscita dello haiku l’incontro con quei piccoli animali che, se ci fate caso, sono quelli preferiti da alcuni incisori perché, se li osservate bene, sono un po’ come dei gioielli e quindi sono un modello ideale da ritrarre da parte di quegli artisti idealmente miopi che sono gli autori di acqueforti. Parliamo della Wunderkammer, diffusa in natura, e vivente, delle lumache, lucertole, ranocchie, rospetti, farfalle, persino certi ragni. E poi il merlo, che fa di tutto, con il suo canto, per richiamare all’opera l’autore di haiku.

DEI PROFUMI NELL’ARIA E DEI COLORI NELLA LUCE

Del potere evocativo dei profumi è già stato detto tutto e non vi è nulla da aggiungere. Sottolineeremo ancora una volta la loro capacità di rievocare il passato e di annunciare le stagioni, quindi il loro altissimo valore haikugenetico. Le fioriture e i frutti, da febbraio a ottobre, mandano messaggi odorosi che marcano i mesi, per cui febbraio è il calicanto, giugno è il tiglio, questo per lo meno nella nostra fascia temperata, mentre settembre è l’uva fragola. I colori sono a volte il loro corrispettivo visivo. Fate attenzione a luglio, se per caso è il vostro mese di nascita. Ci vuole quasi una vita per scoprirlo, ma il profumo di luglio è un profumo permeante e denso, un misto di pesca matura, di petunia e un pizzico di bella di notte dopo il tramonto e l’innaffiatura, mentre il colore di questo mese è l’arancione, a metà strada fra quello dell’albicocca tardiva e quello della bignonia.

DEI MODI PER ASCOLTARE IL TEMPO

C’è stata un’esperienza fondamentale per il compositore di haiku, specialmente durante la sua infanzia: i momenti in cui non succedeva assolutamente nulla: pause pomeridiane, pomeriggi oziosi oppure, a tutt’oggi, quei momenti in cui si rimane incantati a fissare l’acqua che scorre, il fuoco che si muove a modo suo, la fila implacabile delle formiche. E poi c’è il vento, la brezza: in questo caso veramente si sperimenta anche il suono, più o meno percepibile, il rumore del tempo, ci si interroga sul suo modo di passare o di ritornare.

 

Stagione e pratica dello haiku

Lo haiku è buono per tutte le stagioni, anzi è nato proprio per celebrare tutte e quattro le stagioni, tant’è vero che deve contenere dentro di sé il kigo che è, abbiamo visto, un riferimento alla stagione trattata. Tuttavia mi si permetta di indicare una predilezione compositiva per quel periodo che va all’incirca da metà aprile a metà giugno, il periodo dell’anno in cui l’aria è più profumata e i verdi sono più freschi e luminosi, che potremmo definire della seconda primavera. La pratica dell’haiku che verrà da adesso in avanti illustrata andrà vista come la preparazione, la celebrazione e la conseguenza di questo periodo, così come si sono configurate per me nell’estate 2012 appena trascorsa, come se si trattasse di un raccolto (agricolo) di quest’anno.

1)

È un periodo dell’anno (questo della seconda primavera) che si preannuncia fin dai freddi tremendi che possono esserci ancora alla fine di febbraio, come è successo quest’anno. Tuttavia incomincia ad esserci qualcosa nell’aria. Sappiamo di stare ancora dentro al mese delle febbri, ma uscendo per andare verso il supermercato scorgiamo dietro la sua mole delle nuvole rosa. Tira vento, ma quel rosa è come se preannunciasse qualcosa. Il vento sembra rafforzare quel qualcosa, soffiando dietro le nuvole verso di noi. Vorrei esprimere il concetto che, nonostante faccia ancora freddo, c’è come l’inizio di un cambiamento, ma non mi ci sta la parola “ancora” dopo le cinque sillabe di “vento di febbre” del primo verso. Non parliamo poi dell’indicazione “dietro le nuvole rosa”, che mi porterebbe via da sola ben otto sillabe. E poi bisogna che ci metta un verbo, per dire quello che mi è successo. Risolvo così:

Vento di febbre
che chiama di lontano
la primavera
(26 febbraio)

Spero che in quel “di lontano” il lettore scorga le nuvole rosa.

2)

Uno sfondo d’Alpe ancora innevato, illuminato dalla luce rosata del mattino mi appare ad aprile avanzato e questa volta non è l’avanguardia della primavera, ma la lenta, lentissima ritirata dell’inverno. Là sui monti c’è ancora la neve mentre qui, nella pianura è tutto un trionfo smaccato di verdi teneri e di fioriture. Il contrasto è ora quello fra la festa di primavera, pagana, boeckliniana, che mi circonda e quell’orlo rosato, così simile a certi sfondi montuosi della pittura zen, lontananza che sperimentavo fin da bambino guardando in direzione del castello di Redabue, dalla spianata rasserenante che fa da sagrato infinito al cimitero di Oviglio.

Qui regna Aprile.
L’orlo dei monti è un soffio
rosa lontano
(21 aprile)

Sono contento di aver trovato la similitudine del soffio per quel modo che ha certa pittura orientale di rendere la lontananza delle montagne. Sono soddisfatto anche per la lieve ambivalenza di quel “rosa lontano”, dove appositamente non ho messo la virgola fra i due termini, dato che l’espressione può essere interpretata come una coppia di aggettivi, ma anche come un aggettivo per così dire unico, denotante una qualità del colore, un “rosa lontano” così come esiste un “rosa antico”, una specie di rosa “color di lontananza”.

3)

Il 4 maggio di quest’anno mi accorgo della piena fioritura delle gaggìe mentre sono ancora splendenti i fiori degli ippocastani. Mi pare un fatto piuttosto insolito. Da come mi pare di ricordare, i due generi di fioritura hanno tempi un po’ diversi. Probabilmente il freddo che c’è stato fino a non molto tempo fa ha fatto ritardare gli ippocastani e poi il caldo che è esploso recentemente ha fatto anticipare le gaggìe. Fatto sta che mi pare un’emozione mai provata; ma come renderla con sole diciassette sillabe? Mi aiuta la forma dei fiori: in fin dei conti sono tutte due forme a grappolo: sia il cono a punta dell’ippocastano (un grappolo per così dire rovesciato), sia la forma più sfrangiata e ricadente della gaggìa. In comune hanno il colore bianco e poi tutta quell’aria euforica di festa al solo vederli! Certo, adesso ci sono! Si tratta di una vendemmia speciale, una vendemmia di grappoli bianchi, una vendemmia di primavera, una vendemmia in bianco!

L’ippocastano
vendemmia in bianco oggi
con la gaggìa
(4 maggio)

4)

Ripercorro, con il preciso scopo di ritrovare delle vecchie emozioni, la strada principale del paese, dove c’erano il negozio di commestibili, la macelleria, la farmacia, la società operaia di mutuo soccorso, il barbiere, l’ufficio postale. In lontananza prosegue più solitaria (da sempre), costeggiando la casa canonica lungo la salita che porta alla chiesa. Questo tratto mi offre la visione beata di una carreggiata metà all’ombra e metà al sole, con uno stacco netto che, chissà perché, mi riporta indietro nel tempo; una visione da ora meridiana.
A un certo punto rimango colpito da un odore di minestrone, anzi di pomodoro che cuoce nel minestrone. Ah, allora c’è ancora un po’ di vita in questi paesi! L’odore di cucina è sempre rassicurante e rende disponibili, disarmati: l’abbandono al passato diventa più intenso.
 Ma come trasferire tutto questo in diciassette sillabe? Devo dire un sacco di cose: che mi trovo in paese, che inseguo con gli occhi quel confine dell’ombra sulla strada, che l’azzurro riempie di sé gli spazi non occupati dalle cose e poi c’è da dire che la parola minestrone, essenziale in questo caso, porta già via da sola quattro sillabe. Sembra proprio impossibile.

Strade in paese
tra l’azzurro e l’odore
di minestrone
(14 maggio)

Ho contravvenuto al divieto che Borges impone per la parola “azzurro”, assieme a “ineffabile” e “mistero” (“Esecuzione di tre parole”, da Inquisizioni, Adelphi, Milano 2001). Ma qui mi è parso nodale e spero che la combinazione strade-azzurro sia come un liofilizzato per il lettore che, aggiungendo l’acqua della sua fantasia, ricrei la bibita fresca del paesaggio che ho visto io: contrasto luce-ombra, ora meridiana, paese dell’infanzia e tante altre cose.
Mi sono dispiaciuto all’inizio di non poter usare “strade di paese” (sarebbe diventato un senario anziché un quinario), ma poi ho trovato l’inevitabile “strade in paese” (quinario) più dotato di sprezzatura (ci sono strade in paese … in quel paese che tu lettore e io sappiamo bene …).

5)

È da ieri che agisce in me la vista dei pappi che danzano e sfuggono sul pavimento di marmo nero di un luogo che fa inevitabilmente pensare a un buio Altrove. Ero passato in paese a vedere se la bufera del giorno prima avesse fatto danni. No, non è successo niente, ma quel gran movimento d’aria ha imprigionato le lanugini del pioppo, che si muovono nello stretto ambiente con una rattenuta frenesia gioiosa come se vi volessero portare a tutti i costi la primavera. Se fai per afferrarle il movimento del braccio le allontana, come se volessero giocare. “Sfuggenti” è dunque la parola chiave, poi bisogna trovare un paragone con le cose che in natura sono più morbide e si disfano in un niente e poi ancora far capire la gioia massima che si prova di fronte a questi fenomeni fatti di cose lievi. Verrebbe:

Pappi sfuggenti
come nuvola o neve:
c’è gioia altrove?
(15 maggio)

Solo adesso, trascrivendo e commentando, mi accorgo che il subconscio ci ha messo lo zampino e riaffiora nella sua crudezza il luogo in cui ho visto i pappi e “c’è gioia altrove?”, da domanda di sfida a trovare altrove la gioia assoluta di quel momento, può diventare l’amaro interrogativo senza risposta terrena: “c’è gioia nell’Altrove?”.

6)

Quante volte il profumo dei tigli ha scatenato in me il desiderio di comporre haiku! Quante volte ne ho parlato! Tante volte che ora basta. Argomento esaurito. Ma rimane un piccolo rovello, una piacevole ossessione: la variante, nel susseguirsi degli anni, della data del primo giorno in cui si sente nell’aria il profumo dei tigli pasticcieri. Che io sappia non c’è stato mai nessuno, meteorologo o botanico, che si sia preso la briga di registrare, di anno in anno, l’esordio della fioritura del tiglio nel luogo dove abita. Eppure è un riferimento per la nostra memoria. Ad esempio, mi ricordo benissimo che nel 1964 la fioritura avvenne intorno al 15 giugno: era la lunga vigilia degli esami di maturità e attraversavo a piedi tutta la città da un capo all’altro, fino agli Orti, per consegnare degli appunti a un compagno di scuola, da cui andavo per ripassare. Ma allora il profumo è rimasto impresso perché collegato a un momento importante dello studio. Con il passare degli anni, invece, ho registrato (ma in maniera distratta e discontinua) la data del primo giorno in cui sentivo il profumo dei tigli e ne ho notato la variabilità, ritornandoci su con il pensiero come se fosse una cosa curiosa e persino importante (poi ho capito che l’importanza sta nel fatto che la fioritura profumata contrassegna lo scoccare di un altro anno e poi che questo evento avrà un numero fatalmente limitato di ritorni e perciò è tanto prezioso).

Un po’ diversa,
data del tiglio in fiore,
ad ogni anno
(6 giugno)

Lo so, sarebbe stato più elegante dire “la data del tiglio in fiore”, avrebbe fatto più “traduzione dal giapponese”, ma sarebbe stato un ottonario anziché un settenario e ho voluto attenermi rigidamente alle regole, con un vocativo in cui mi rivolgo alla data, personificandola con un po’ di retorica barocca.

7)

Nel cortile acciottolato e nelle sue parti dove furono tolti i sassi per fare un po’ d’orto cresce ogni cosa, basta che lo faccia spontaneamente: tutta colpa o merito mio. Incerto se essere seguace di Renzo Tramaglino o del guru francese del giardinaggio Gilles Clément, mi limito a tagliare l’erba e a guidare un po’ la crescita di tutto quello che spunta. Si imparano un sacco di cose sul mondo meraviglioso delle erbacce, che il languido e asettico coltivatore di rose senza profumo e di sempreverdi in similplastica ignora totalmente. È da un paio d’anni che tengo d’occhio l’erba cipollina per due ragioni: l’acuto e sempre imprevedibile odore di cipolla che si sprigiona al taglio con la falce messoria e la bellezza dei frutti, a forma di mora, anch’essi di un colore viola ma come sovrapposto tenuamente al giallo-paglia che, seccando lo stelo, diventerà predominante. Sul frutto a volte rimane la spoglia del fiore, come un’ala d’insetto dotata di uno speroncino.
È un raccolto tutto mio, buono e meritato raccolto di un coltivatore pigro che lascia fare al tempo, alla natura e alla stessa affezione di quelle piante, ogni anno, per quella determinata porzione di terreno. Raccolto-emblema di una solitudine tutta mia in quel cortile abbandonato, solitudine fantasticante su mondi chiari, che rinserrano ancora dentro di sé illusioni di futuri e di scoperte, ancora oggi!
Poi un regalo ulteriore, mentre apro la porta della macchina accucciata nel vicolo fra il portone e il muretto, butto il mazzo del raccolto sui sedili posteriori, con rimbalzo morbido, senza rompere nulla, porto a casa quel tesoro che trionferà nel vaso nordico squadrato e azzurro. Un regalo ulteriore, dicevo: è così che accolgo le prime gocce di pioggia, pioggia che arriva da quei mondi a cui stavo poco prima pensando:

Di altri mondi,
globi di cipollina,
siete i pianeti
(8 giugno)

8)

Nella fortunosa avventura di tenere erbe aromatiche sul balcone, quella che si è comportata meglio è stata la lavanda. All’inizio un ciuffetto di foglie non meglio identificate, da me qualificate con il nome, molto approssimativo, “di rosmarino, ma un po’ più grasse e chiare”. Hanno reagito bene alle innaffiature e si sono accese di steli fioriti dall’inconfondibile colore e profumo. “Accese”, ecco il termine, ma mi occorreva un paragone meno banale di quello con la luce o con il fuoco; lucciola mi è parso il termine giusto, affiorato forse per via del parallelo pianta-insetto, per l’allitterazione lavanda-lucciola, perché l’effetto di lucetta accesa veniva fuori bene alla sera, con la luce crepuscolare che smorzava le tonalità del verde delle foglie. Il primo stelo che si apriva, poi, mi aveva colpito molto e quasi emozionato.

Prima lavanda,
nel monocromo verde,
lucciola viola
(11 giugno)

9)

Sul cambiamento improvviso d’umore si potrebbero scrivere dei volumi. Tralasciamo il passaggio dall’umore sereno al veder tutto nero: lo conosciamo bene. Con un po’ di attenzione scopriamo quali siano i punti sensibili che scatenano questo cambiamento e, per quanto possiamo, cerchiamo di tenere la situazione sotto controllo. Ma il passaggio inverso, dalla depressione alla gioia, rimane un impenetrabile mistero: persino Leopardi, che un po’ si era occupato della felicità, non aveva contemplato la gioia inaspettata (e ingiustificata, o meglio, giustificata dal fatto di essere inaspettata). Qualche volta capita e vale la pena di registrare l’evento. Di malumore, senza ancora esserti ripreso completamente dal trauma del risveglio, apri la porta di casa per la prima uscita …

Scale. Al mattino.
Sùbita gibigianna,
mi cambi il cuore
(12 giugno)

La parola gibigianna, che ha il difetto di rubarmi ben quattro sillabe, ha però il pregio di indicare con precisione il riflesso di luce provocato da un vetro in movimento. La ritrovai a quattordici anni leggendo Il bel paese di Antonio Stoppani (un libro della biblioteca scolastica) e ricordo ancora adesso il piacere che provai nel constatare che un effetto così allegro di luce, tanto da essere utilizzato come gioco, aveva un nome. Vale la pena riportare l’intera nota (la 14 della Serata X, paragrafo 9), così scopriamo che ne aveva molti di nomi. La nota è apposta al termine solino: “Il barbaglio prodotto dal riverberare de’ raggi del sole sull’acqua, sugli specchi, su ogni cosa che lustri molto e si mova. Ha, nel popolo e negli scritti, di molti anni: occhibàgliolo, sguizzasole, illuminello, colombina, indovinello, lucciola, ecc. Peccato che la voce solino lo confonda con quella parte della camicia che cinge il collo. – A Milano gli danno un nome, secondo il solito, molto poetico; lo chiamano la gibigiana”.
Essendo voce dialettale settentrionale trovo giusto italianizzare raddoppiando la enne: gibigianna.

10)

Il 21 giugno, inizio dell’estate, è sempre un momento fatidico, come un compleanno: verrebbe voglia di passare oltre e di pensare ad altro. Può aiutare molto l’esplosione del caldo, per cui l’unico pensiero è un po’ d’aria:

Inizio estate.
Il massimo regalo
un soffio a sera
(21 giugno)

Lo haiku serve anche per ristabilire un contatto: sembra fatto apposta per inviare un sms, è a misura di messaggino e mi meraviglio di non avere ancora letto che la pratica dello haiku sia stata modificata dall’uso del telefonino, ma prima o poi succederà. Se poi, come in questo caso, si sa che la persona che lo riceverà è solita recarsi la sera del solstizio d’estate in un luogo deputato, come faceva Bashō con la baia di Uaca per salutare la partenza della primavera, allora c’è speranza che il messaggio arrivi, magari non subito, ma agisca a distanza di tempo. Lo haiku ha il tempo dalla sua.

Ho raggiunto la Primavera
nei giorni del suo partire
lungo la baia di Uaca.
(traduzione di Giuseppe Rigacci)

11)

Ritorno al paese di primissimo pomeriggio: un appuntamento con due vecchi amici per un lavoro da fare alla casa. Come è costume della gente di una volta sono arrivati in larghissimo anticipo e sono seduti sotto la lea. Fa caldissimo, ma sotto l’ombra folta delle foglie c’è, non dico fresco, ma riparo dal caldo. Butto l’occhio fra i rami là dove sono più radi e vedo le nuvole navigare tranquille, in un mare di cielo azzurro: l’estate, la piena estate, l’estate archetipica come mi si era stampata in mente proprio da quelle parti durante villeggiature lontane. Sdraiato sulla panca sotto la topia o prima ancora a comperare l’uva sotto i pergolati della casa sulla prima collina appena usciti dal paese, avevo visto quello stesso cielo carico di durata e di promesse. L’estate, con questo caldo, è ritornata per qualche attimo ad essere la stagione del futuro (sono nato all’affacciarsi della costellazione del Leone e la Terra mi ha accolto forse cuocendomi un po’: ho trovato il fatto naturale e in parte lo trovo ancora oggi).

Oltre le foglie
cielo e nubi in cottura.
Ristoro d’ombra
(11 luglio)

12)

Non è vero che il passato sia trascorso completamente: esistono ancora copiose lungo i fossi le ombrelle bianche delle carote selvatiche ed esiste ancora il medesimo incantamento che provavo guardandole quando ero bambino. Incantamento durato una vita e sempre con la stessa forte intensità. Ricordo la gioia che provai quando scoprii che quei fiori sono delle carote selvatiche (Daucus carota). Era come se qualcuno fosse venuto a conoscenza di un mio segreto e me ne svelasse le ragioni della meraviglia. Quel qualcuno era Ippolito Pizzetti, che trattava l’argomento sull’Espresso del 6 agosto1978.

Ombrelle bianche
di carote campestri.
La mente vola
(17 luglio)

Due piccole notazioni: se usavo il verso “di carote selvatiche” avrei composto un ottonario. Costretto al settenario mi è venuta in soccorso la parola “campestre”, che prepara meglio il verso seguente, sia per l’allitterazione con “mente” sia per il fatto che i campi sono adatti al volo di un qualcosa: una farfalla, un’allodola, una mente.

Seconda notazione: con “la mente vola” ho voluto indicare quella condizione di uscita dalla realtà che solitamente viene attribuita al sogno o all’assunzione di sostanze inebrianti o stupefacenti, senza pensare invece alla rêverie, cioè alla fantasticheria, al sogno ad occhi aperti, promossa a categoria massima della conoscenza da Gaston Bachelard.
A proposito: quali sono le cose che mi fanno volare la mente? Certi aforismi, le parole e le frasi del mio lessico famigliare, le illustrazioni dei libri per i ragazzi del Novecento, le erbacce, l’urbanistica sentimentale, la geografia letteraria, ogni tipo d’oggetti d’affezione, le tracce del tempo…

13)

Viene un momento, nella seconda metà di luglio, in cui sembra che l’estate sia già finita. Poi vengono delle giornate che smentiscono questa impressione. C’è un luogo che si presta a ravvedimenti di questo tipo. È la pianura dove scorre l’“Orba selvosa” di manzoniana memoria; ora la selva è ridotta al minimo e in compenso lì corre tutta una distesa di stoppie e granoturco, tutta in piano ed ariosa, dopo Portanuova andando verso Retorto. La macchina si lancia sul rettilineo e la campagna corre come in un film. Il cielo, saturo d’azzurro da non poterne più, si accompagna con le nuvole di panna all’orizzonte, mettendo insieme un bel technicolor: non solo l’estate, ma persino la vita sembra non dovere finire più.
Sì, ma se voglio comporre il mio haiku dovrò evitare le tre sillabe di “nuvole” e optare di nuovo per il più economico bisillabo “nubi”, dovrò anche rinunciare al paragone con la panna, anche se è il più verosimile, perché mi pare poco “prezioso” e originale; troverò “biacca”, un bianco usato nella pittura. Lo svolgimento della composizione non poteva che prendere allora questa piega pittorica:

Nube di biacca,
ancor lunga è l’estate
dentro il tuo quadro
(22 luglio)

Ecco che una parola, “biacca”, ha indirizzato il ricordo di un’impressione viva e solare verso un’immagine un po’ imbalsamata, un paesaggio ottocentesco ammirato in un’anticamera in penombra.
Ma, a pensarci bene, esiste un’immagine più gloriosamente estiva di “Tetti al sole” di Raffaello Sernesi? O di altre opere sue o di Odoardo Borrani? Anzi, arrivati a questo punto, sarebbe auspicabile una scuola di haiku dedicata esclusivamente ai quadri dei Macchiaioli.

14)

È pericoloso ma, per chi non cambia città, inevitabile passeggiare da anziani per i medesimi viali percorsi nell’adolescenza:

Nube sul viale
aperta su un futuro
che è già passato
(11 agosto)

È pericoloso per i compositori di haiku lasciarsi incantare sempre dalle nuvole e poi, per economizzare sulle sillabe per dire più cose, parlare di “nubi” anziché “nuvole”: il manierismo è in agguato.
Il tempo è sicuramente il contenuto principe dello haiku; non solo il tempo delle stagioni, ma anche l’attimo fuggente e sfuggente del “qui ed ora”. Però ho notato che, per lo meno a partire da Issa, compare un “terzo tempo” che è quello, praticabile solo dal vecchio, di un sentimento globale della vita come se fosse vista dall’alto o meglio come se si fosse trovato il punto di scorcio giusto per riconoscere la sua vera forma, prima nascosta in un’incomprensibile anamorfosi. Il “terzo tempo” dello haiku è quello della vita vista come totalità di breve durata, là dove infanzia e vecchiaia si toccano o dove essa si scopre nella sua sublime nullità, accomunandoci tutti. Dice Issa:

È di rugiada
è un mondo di rugiada
eppure eppure
(traduzione di Philippe Forest – Gabriella Bosco)

Già l’haiku numero 14 si riconosce in questo “terzo tempo”. Così pure i prossimi tre di cui parleremo (e forse non è un caso, perché la temperie d’agosto ha già in sé qualcosa di autunnale, più favorevole alle rimeditazioni sulla vita).

15)

Non avrei mai immaginato, prima di comporre questo haiku, che ci potesse essere una correlazione tra il portale di un garage e il grande pittore tedesco del rinascimento Albrecht Dürer, contemporaneo di Leonardo.
Scendo la rampa che porta al garage e, per una sorta di riflesso condizionato, mi viene da guardare verso l’alto e vedo che, da una bordura dello spazio pubblico trascurata, spuntano molto decorativamente delle spighe un po’ piumose: sembrano pronte per essere dipinte e il più adatto a farlo sarebbe stato, a quanto ho visto e ricordo, proprio Dürer. Solo che poi, documentandomi, mi rendo conto che si tratta del pabbio comune (Viridis setaria), che mi viene dato come originario dell’America. Quindi è difficile che Dürer l’abbia dipinto o disegnato. Ma che importa: ciò che conta è l’amore per le erbe spontanee, che ci commuovono!

Quel ciuffo d’erba:
ha consolato Dürer,
parla a me ora
(18 agosto)

16)

Lucerta ferma
sul consunto portone:
chi è più antico?
(19 agosto)

Varrà la pena di notare come in questo caso ci sono tre tempi espliciti: l’attimo del “fermo immagine” della lucertola, i milioni di anni che evoca l’animale, dinosauro in miniatura, e il tempo più che centenario del portone avito; poi, implicitamente, ci sono tutti i decenni che si sente addosso l’autore. Il termine “lucerta”, che il Devoto-Oli dà come arcaico, poetico e dialettale, mi ha fatto risparmiare una sillaba e mi ha fatto rientrare nel quinario. Stavo già pensando di sostituirlo con “ramarro”, ma sarebbe stato più improbabile e meno realista, sebbene più prezioso.

17)

Suon di campane,
mattino d’agosto.
Pasque lontane!
(6 settembre)

Esempio insolito di haiku “antedatato” (avevamo parlato all’inizio di haiku postdatato, che è quello del ricordo). Qui, invece di parlare di un’emozione provata tempo prima e ricordata a settembre (quindi postdatata), si parla di un’emozione che si prova a settembre ma, viste queste estati protratte (da grande cambiamento climatico in atto), è forse più propria di un agosto declinante e quindi si attribuisce ancora all’agosto appena trascorso. Da notare però che il mattino è già fresco. È abbastanza importante, tant’è vero che avevo impostato il settenario così: “fresco mattin d’agosto”. Ma, passi per “suon”; non si può poco dopo dire “mattin” per risparmiare una sillaba e non si può dire “mattin” in assoluto: è ottocentesco, anzi è parodia dell’Ottocento.

In questo testo sono riassunti i tre tempi dello haiku:
il qui e ora: il suono delle campane;
la stagione: il primo fresco d’agosto richiama la lontananza temporale della Pasqua, che sta agli antipodi dell’agosto, ma in un clima che le si avvicina;
il “terzo tempo”, quello esistenziale complessivo: le Pasque lontane sono quelle dell’adolescenza, in cui molto più forte era il sentimento di questa festa. E forse, ai fini della riuscita dello haiku (finora non ne abbiamo mai parlato), la rima aiuta (campane-lontane).

18)

Alla base di questo haiku c’è una visione, o meglio c’è il tentativo di rendere una visione: un esile alberello d’albicocco piantato questa primavera, che ha svolto il suo ciclo completo di albero da frutta e ora le sue poche foglie prendono un colore aranciato incredibilmente bello. Nello stesso posto, prima di lui, un vecchio albicocco contorto è seccato qualche anno fa e poi è stato abbattuto, ma mi ricordo che anche morente affrontava l’inverno con la sua scorza brunita e forte, con un vello di muschio simile ad una pelle d’orso, una specie di cappotto vegetale. Questo qui invece ha il tronco dello spessore di una canna e chissà se ce la farà a passare l’inverno. Da questo avrete capito che l’albicocco per me è una pianta totemica: è bizzarro, anarchico, a volte generoso di frutti, se non potato gareggia col tempo in altezza con la casa. Tende ad avere i caratteri di un animale, per cui l’albicocco novello (mi raccomando: varietà Reale d’Imola!), quando l’ho preso dal vivaista, mi è parso più un bracchetto o un puledrino piuttosto che un alberello. C’è da dire che la visione autunnale che ne ho avuta data a venerdì 26 ottobre, ancora con un bel sole, ma l’haiku m’è venuto in mente domenica 28, con la prima consistente ondata di vento freddo e con il cielo precocemente abbuiato dal maltempo e dal ritorno dell’ora solare. Naturalmente nell’haiku non ci sono tutte queste cose, ma se fosse minimamente riuscito dovrebbe farle oscuramente sentire. L’haiku è un’essenza-assenza (tante sono le cose che non riescono a stare nelle diciassette sillabe!). Comunque per me il presente haiku ha un valore perché chiude questa “Stagione e pratica dell’haiku”, questa lunghissima estate.

Ai primi freddi
le foglie d’albicocco
sognano i frutti
(28 ottobre)

Lo haiku come oggetto e packaging dello haiku

Consiglierei di scrivere lo haiku con inchiostro nero, con un pennino tagliato in modo che la punta sia larga un po’ meno di 2 mm. Personalmente ho adottato da una vita una pseudo-calligrafia che mi permette di scrivere il normale corsivo che abbiamo imparato tutti alle elementari (ora non più?), ritrovandomi ugualmente l’effetto di una piacevole alternanza di tratti fini e grossi, senza stare a “costruirli” come succede nella calligrafia vera e propria. Il segreto sta in un certo uso delle grazie. Queste semplici grazie “fanno calligrafia” al punto che riescono a nobilitare persino una scrittura a biro, che è il massimo del segno uniforme. Mi ispirai al Berling Italic di un catalogo Letraset. Ma se volete applicarvi un po’ alla calligrafia dedicatevi a quella “rotonda”, facile da tracciare, caro retaggio della scuola italiana dei nostri padri e dei nostri nonni, indispensabile per fare una “e” accettabile anche per la mia pseudo-calligrafia, che altrimenti produrrebbe “e” goffe e scomposte.

Oppure: come non detto. Usate la scrittura che vi viene ma non scrivete, vi prego, sulla carta pesante per fotocopiatrici e stampanti da 80 grammi al metro quadrato, quella che vi ritrovate dappertutto in risme: è indigesta. Usate l’extra strong (da 60 grammi), che una volta era la più diffusa per via delle macchine da scrivere ed ora si trova in block notes. Comunque con un po’ di buona volontà potete trovare persino nei supermercati carta da 55 grammi (sempre in block notes). Ne guadagnerete in leggerezza. Ricordatevi che se la prima qualità dello haiku è la freschezza, la seconda è la leggerezza.

Sarà molto elegante uno haiku scritto su un foglio quadrato, che ricaverete facilmente dal formato A4, che è quello in cui si presentano i fogli che abbiamo indicato (210 x 297 millimetri). Parliamo quindi di un quadrato di 21 centimetri di lato.

Arrivati a questo punto possiamo decidere che ne sarà dell’oggetto-haiku. Vogliamo farne un biglietto da consegnare? La soluzione più essenziale è quella di piegare il quadrato di partenza più volte a metà, in modo da formare un totale di 16 quadratini di 5,25 cm di lato. Si scriverà lo haiku nella campitura quadrata centrale di 10,50 cm. Si chiuderà il biglietto piegando all’interno strisce di cornice larghe 5,25 girando tutt’attorno e ottenendo un biglietto quadrato di 10,50 che racchiude lo haiku e su cui si può scrivere il nome del destinatario (l’intascatura dell’ultimo quarto del biglietto che si è venuto formando, troppo difficile da spiegare a parole, dà un tocco di eleganza in più ma non è strettamente indispensabile).

Nel caso in cui si scrivesse lo haiku sul foglietto quadrato di 21 cm di lato senza farne un biglietto ripiegato ci sarà bisogno, perché non voli via, di un ferma-haiku. Al proposito avrei in mente un’“invenzione” di design naturale italiano che, anziché egoisticamente brevettare, propongo gratuitamente a tutti i miei lettori. Ma c’è un “ma”: devono avere un bel po’ di tempo dalla loro, tempo e pazienza. Mi spiego: il ferma-haiku che propongo consiste in una triade di sassolini di dimensioni comprese fra i tre e i cinque centimetri circa, uno verde, uno bianco e uno rosso (tonalità naturali). Poggiati su un angolo del foglietto dove c’è scritto l’haiku formeranno una nota di colore arieggiante la bandiera italiana, a sottolineare la docp dell’haiku italiano. Va da sé che la provenienza dei sassolini deve essere rigorosamente da torrente o fiume nazionale, con opportuna licenza regionale e seguendo le procedure del caso secondo l’apposita legge e relativa delibera d’attuazione (alla voce relativa si dovrà specificare: per solo uso di ferma-haiku). A meno che non vi capiti come è capitato a me, ma allora la ricerca può durare anche anni, perché dobbiamo affezionarci ai sassolini.

 

Il mio ferma-haiku

(I colori dei sassolini sono nell’ordine di ritrovamento)

Rosso

Non è tanto un sassolino: è già un ciottolo a tutti gli effetti, sebbene sia da annoverarsi fra i più piccoli. Ha la forma di una sfera molto schiacciata, una specie di Terra piatta, come l’immaginavano gli antichi o meglio, visto anche il colore (un bruno rossastro con riflessi di un carnicino chiaro) un pianeta Marte in miniatura con i suoi canali e i suoi anfratti. È con me da una trentina d’anni, si tiene bene in pugno, mi è sempre servito da fermacarte, l’ho verniciato; poi, trovando molto meglio l’opacità naturale, l’ho sverniciato. L’avevo trovato scavando superficialmente nel terreno dove sorgeva la stalla della casa di campagna, che aveva il pavimento in terra battuta. Come mai fosse finito lì era un mistero, ma era bello di colore e di forma, proveniva dalle profondità della casa degli avi e tanto bastava perché diventasse un fermacarte-gioiello di famiglia, tutto mio perché il tesoro l’avevo trovato io e nessuno poteva contendermelo.

Verde

Questo veramente può chiamarsi sassolino o meglio, dato che il sassolino è quello che può entrare nella scarpa, lo chiameremo sassetto: fate conto un 5 x 3 cm x 1,5 di spessore. Sembra riprodurre il disegno della pelle del serpente (quindi potrebbe essere un ofiolite), ma è ancora più raffinato: su un fondo verde cupo, quasi nero, c’è un motivo filamentoso grigio-verde chiaro che richiama dei rami di pioppo ricchi di foglie, ricreando un’immagine simile a certe illustrazioni liberty. Lo scoprii per caso tre o quattro anni fa, davanti a un ingresso di una casa del quartiere Pista, accostato al cordolo delimitante il riquadro di terra attorno ad un albero del viale. Avevano fatto da poco lavori lì attorno e c’erano diverse tracce di pietrisco. Faceva parte di quelle tracce. Gioia, piccolo sobbalzo al cuore, come se avessi scoperto un oggetto prezioso. In effetti la bellezza è veramente singolare, ma al momento ho altri pensieri o forse voglio capitalizzare l’aspettativa verso quella gioia. Lo nascondo sotto l’erba ricadente dal cordolo: “Tanto,…a chi vuoi che interessi un sasso”. Ripasso l’indomani. Non c’è più. Panico. “Che cretino, potevo raccoglierlo ieri! Quella tua maledetta abitudine di rinviare una gioia, chissà, per il desiderio di farla durare più a lungo o, come fa il giocatore, per la soddisfazione che dà il rischio di perderla. E così sei rimasto fregato!”. Cerco meglio tutt’attorno, ma con la convinzione segreta di cercare l’impossibile. Poi, forse calmate le esigenze dell’inconscio che non vuole quella gioia, ritrovo il sassetto che stava proprio al suo posto. Ero io che avevo sbagliato a ricordare. Grande soddisfazione dopo averlo raccolto. Nel tragitto verso casa lo lavo alla fontanella: luccicante, è veramente un gioiello e in quel momento era arricchito dalla seguente morale: “Per trovare una cosa davvero meravigliosa bisogna almeno una volta credere di averla perduta”.

Bianco

Mi ha subito ricordato, fin dal primo momento del ritrovamento, un piccolo teschio (un 3 x 4 x 2,5 cm), ma con il vantaggio che l’astrazione ha cancellata ogni traccia di macabro. Ha comunque la forma di una testa primitiva, massiccia, con una bocca rinserrata e increspata come di chi è arrabbiato o sta compiendo uno sforzo e ha un unico occhio da ciclope. L’ho trovato meno di un anno fa proprio vicino alla soglia della casa di campagna, avanzo del pietrisco portato per i lavori della casa di fronte. Colpito dalla compiutezza della sua forma, ho subito pensato: “Ecco la terza pietra che manca alla mia collezione”.

Ma questo è solo un esempio. Ciascuno parta alla ricerca della propria significativa terna di sassetti per il proprio ferma-haiku, cosciente di realizzare un vero, naturale prodotto di design popolare made in Italy.

Per motivare ulteriormente chi si accinga a partire verso questa impresa propongo la lettura dei seguenti due brani: il primo paragrafo, intitolato “Una giornata di pioggia”, della Serata XVI de Il bel paese di Antonio Stoppani e il paragrafo “Il Sé: simboli della totalità” del saggio Il processo di individuazione di Marie-Louise von Franz, contenuto ne L’uomo e i suoi simboli di Carl Gustav Jung.

Nel primo brano il manzoniano Stoppani fa l’elogio per così dire opposto a quello del cielo di Lombardia, cioè parla della bellezza ineguagliabile dei selciati di Milano sotto la pioggia: “Se si vuol vedere qualche cosa di bello non c’è che tenere il capo basso e guardare il selciato. Il selciato?… Sì, il selciato di Milano … così bello, così vario, così bizzarro, che, a cercarlo, non se ne troverebbe un altro simile in tutto il mondo. E pensare che egli è tutto un musaico di pietre pellegrine …”. Nel secondo brano la junghiana von Franz ci spiega perché le pietre ci attraggono tanto: perché sono simboli del Sé, cioè, per dirla in breve, della parte più intima e ideale di noi stessi. Proprio come gli haiku.

 

La retorica e la “Gramatica”

ritorno nei bagni pubblici di Tokyo

di Paolo Repetto, 26 gennaio 2024

Bah! l’ultima delle cose che intendevo fare era tornare sul film di Wenders. Mi sembra di aver già detto tutto quello che avevo da dire. Un amico mi ha però segnalato una recensione molto negativa di Lorenzo Gramatica (Contro la retorica delle piccole cose, pubblicato su Lucysullacultura.com), specificando che lo condivide: opinione più che legittima, ma che mi fa sentire un po’ tirato per la giacchetta. E allora è forse il caso di qualche chiarimento, perché a me invece la recensione non è piaciuta affatto.

Non m’è piaciuto innanzitutto il tono, o se vogliamo l’intenzione che sta sotto l’articolo.

Gramatica trova irritante, lezioso, falso il film. Ha tutto il diritto di farlo. Ha pagato un biglietto per vederlo, non è rimasto soddisfatto e lo dice apertamente. Ma poi fa di più: smonta il film pezzo per pezzo, e ci offre una lezione su cosa è o dovrebbe essere il cinema e su cosa è o dovrebbe essere la vita. E qui diciamo, tanto per adeguarci subito all’argomento, che la fa un po’ fuori dal vaso. Sembra essersi auto-investito di una missione salvifica, quella di svegliare le anime belle e grulle che si son bevute la favoletta “della vita semplice, dei piccoli gesti, della gioia che c’è nell’accontentarsi”. Ora, io ho visto lo stesso film, e sinceramente riesco solo a immaginare spettatori che per due ore o sono stati presi o si sono addormentati: non credo che avremo una marea di aspiranti ai prossimi concorsi per operatori ecologici municipali (attualmente mi risulta vadano deserti). Sono entrati in sala come me, per assistere a una proiezione, a uno spettacolo, mica sono andati in un ashram o in una sala di meditazione per farsi intortare da un discepolo di Osho. Nessuno degli amici che hanno visto Perfect Days e coi quali l’ho commentato ha manifestato l’intenzione di darsi alla pastorizia o di ritirarsi in un eremo. Ma questo riguarda l’idea generale del ruolo del cinema, sulla quale torneremo.

La retorica e la Gramatica 02 - Perfect Days

Rimaniamo per ora sullo specifico di Perfect Days. Gramatica scrive che il film è, “superficialmente, un elogio della vita semplice, dei piccoli gesti, ecc …”. Ora, l’avverbio messo così, tra due virgole, può voler dire due cose: che il regista tratta l’argomento solo in maniera superficiale, o che sotto la superficie vuol dire altro. Il recensore secondo me lo usa in entrambe le accezioni. Rispetto alla prima mi chiedo dunque: cosa avrebbe dovuto fare Wenders per non rimanere in superficie? Un’inchiesta sui pulitori di cessi di tutto il mondo (tranne naturalmente dell’Italia, perché qui i cessi pubblici non ci sono, e se ci sono non li lava nessuno)? Gramatica ci ha appena comunicato che la commissione era per uno spot pubblicitario, perché “di questi bagni pubblici Tokyo è molto fiera” e “Ci si tiene molto, insomma, a questi bagni” (l’avevamo capito da soli, e aggiungo di mio che anch’io ci tengo molto a trovare bagni così – vedansi i miei criteri di giudizio sulla civiltà di un popolo). Wenders ne ha fatto un film, che sarà pure una furbata per far arrivare il messaggio a miliardi di utenti e in forma più accattivante, ma la ragione sociale del committente è stampata ben visibile per tutta la durata della storia sulla tuta da lavoro del protagonista, per cui non lo si può certo accusare di pubblicità occulta. Da buon maestro del sospetto però Gramatica insiste: “è strano non vedere praticamente mai macchie di piscio in un film dove il protagonista di mestiere è addetto alle pulizie”. In realtà è meno strano di quanto a lui appaia, perché siamo a Tokyo, dove probabilmente ti educano anche a centrare il buco, e dove magari c’è sempre qualcuno che rimedia ai lanci fuori bersaglio, Quindi, via il sorrisetto ironico: sono contento che qualcuno ci tenga a farmi trovare servizi puliti. A Roma non ci tengono, e non auguro a nessuno di averne bisogno (a proposito, non oso nemmeno immaginare lo scandalo di Gramatica davanti alle strade romane senza rifiuti mostrate ne La grande bellezza). Wenders ha fatto dello spot una cosa godibile (almeno per me, ma a quanto pare non sono il solo): pretendevamo ne tirasse fuori un Viaggio al termine della notte?

La retorica e la Gramatica 03 - Perfect DaysE qui subentra la seconda accezione. Cosa non ci ha fatto vedere Wenders gabellandoci la superficie di una vita dolcigna? Eleggendo a protagonista della storia un tipo che “conduce una vita esangue? […] Che non ha moglie, non ha figli, non ha animali da compagnia, non ha affetti stabili? La cui vita “è scandita da azioni che si ripetono identiche o quasi ogni giorno, che sorride benevolo e grato quando la giornata è bella, quando un bambino lo saluta, ecc… Che sorride, sorride e sorride ancora guardando le cose che accadono, e in definitiva della vita è osservatore defilato, perché le cose non accadono a lui, accadono agli altri?”.

Per Gramatica questa è pura malafede: cosa ci viene a raccontare Wenders? “La disciplina! La bellezza delle piccole cose! La felicità che si ottiene attraverso la reiterazione dei gesti e la ricerca del piacere nella quotidianità! I giorni perfetti!” Insomma, “tutto lo stucchevole repertorio di luoghi comuni a cui si ricorre in questi casi?” Ma non sia mai! “La vita non è poetica: è difficile, dura, imprevedibile, dolorosa, buffa, ridicola, insensata, crudele. Non è ordine, è caos; il silenzio è spesso sovrastato da un rumore assordante e dal rovello incessante dei pensieri, a volte angoscianti e ossessivi, altre stupidi o turpi, che facciamo ogni giorno.” Alla faccia del bicarbonato di sodio, avrebbe detto Totò, e si sarebbe toccato. Io che non sono superstizioso non mi tocco, ma mi chiedo cosa non abbia funzionato nella vita di Gramatica. Il quale dice ancora: “Ma chi vorrebbe invecchiare come Hirayama? Come si può invidiare chi trova consolazione e salvezza negli oggetti, chi cerca la bellezza in una foto e non nei rapporti umani sfaccettati e imperfetti […]. Quello dei rapporti umani che non riesce a costruire, per timidezza e incapacità, è uno dei drammi di questo protagonista, anche se il dramma non ci viene presentato come tale. – Hirayama è un uomo solo […] che non sembra avere desideri di alcun tipo. Ha, in alcuni momenti, dei crolli emotivi che dovrebbero suggerire anche al commentatore più distratto e ottimista, che dietro al fondale di sorrisi e sguardi benevoli, si nascondono i calcinacci di una vita irrisolta.” Eh, la Madonna! Vedi un po’ cosa può nascondersi sotto la superficie ipocrita di un’esistenza sdolcinata. Intanto “una metodica, cinica e insincera ricerca dell’approvazione e della commozione dello spettatore”. Per ottenere la quale si ricorre anche “ai mezzucci narrativi. Ad esempio: un ragazzo con disabilità cognitive e un malato di cancro all’ultimo stadio sono due personaggi che compaiono nel film quasi solo per manifestare la loro condizione patologica, funzionale alle prese di coscienza del protagonista”.

Che con me a quanto pare non ha funzionato, perché non mi sono commosso, mi sono divertito. E perché, da paziente oncologico, non penso che per essere onesto un film debba per forza ricavare uno spazio non “funzionale” per disabili o malati terminali, e naturalmente nemmeno per le presenze femminili, o quelle fluide, o quanto altro richiesto dal “politicamente corretto”.

La retorica e la Gramatica 04 - PatersonMa non finisce qui. Perché ora viene fuori la proposta esistenziale alternativa del recensore, quella che avevamo già cominciato ad intravvedere. “Sospetto che la simpatia e la benevolenza che sono state accordate al film, risieda anche in questa mancanza di ambizioni del protagonista, scambiata forse per umiltà.” Perlomeno in un film paragonabile a questo, Paterson di Jim Jarmusch, il protagonista “è un autista di autobus e poeta dilettante, che scopre però di voler ambire alla pubblicazione. In lui si annida un desiderio, sopito, da risvegliare. E oltretutto non è solo: ha una moglie, un cane, degli affetti”.

Ecco dove si voleva arrivare. “Quest’uomo ha scelto davvero di pulire i bagni?” E figuriamoci! “A me Hirayama pare un po’ triste, con un lavoro poco gratificante a cui si dedica con ossessività alienante.” E, diciamolo, neanche solo triste: uno che “passa il sapone, togli la macchia, ma poi quale macchia? In questi bagni di design dove è tutto candido, immacolato, splendente prima ancora che il protagonista si metta al lavoro!” è evidentemente anche un povero sempliciotto. Come noi spettatori, d’altronde, irretiti dalla “retorica un po’ semplicistica delle grandi dimissioni”. Per cui: “C’è qualcosa di vagamente consolatorio nel pensiero che qualcuno non voglia migliorare la propria condizione, scelga di non competere in amore e nel lavoro, a differenza di noi spettatori, che possiamo bearci dell’infelicità di Hirayama perché rifiutiamo di considerarla tale”.

Immagino invece la felicità di Paterson, che scopre di ambire alla pubblicazione, che ha una moglie, desideri sopiti da risvegliare e soprattutto un cane, da portare a spasso nelle mattinate invernali, con il cappottino. Mi corre un brivido lungo la schiena.

La retorica e la Gramatica 05 - Paterson

Qui ci starebbe ora una puntuale confutazione della lettura che Gramatica dà del film e dell’esistenza. Ma l’ho già tirata sin troppo in lungo, e quindi cerco di dare un taglio virandola sull’autobiografico. Anche perché, ripeto, da quella lettura mi sento tirato direttamente in causa.

La retorica e la Gramatica 06 - Perfect DaysIntanto, sul lavoro poco gratificante. Non mi sono mai dedicato alle latrine pubbliche, pur attribuendo loro un grande significato, ma ho dovuto forzatamente occuparmi in più occasioni di ripristinare fognature, e non solo le mie. Il terreno dietro casa ogni tanto va a farsi un giro, e ha la cattiva abitudine di portare con sé le tubazioni. Non c’è verso a trattenerlo. L’ho fatto quindi non per scelta, ma per necessità, vincendo le prime volte lo schifo e abituandomi poi all’idea che si tratti di un lavoro come un altro. Non mi sono divertito come a tirare con l’arco o a giocare a calcio, ma una volta portato a termine il lavoro mi sono sentito gratificato: era una cosa che andava fatta, e possibilmente bene. Anche sapendo, dopo un paio di volte, che poteva diventare routine. Sono il prigioniero di una concezione vetero-borghese del lavoro, un alienato che non si accorge di aggirarsi tra i calcinacci della vecchia facciata?

Poi, sull’ambire alla pubblicazione. Ho avuto la ventura di veder pubblicate le cose che scrivevo attorno ai venticinque anni, tra l’altro presso una casa editrice piuttosto seria. A trenta ho deciso che non era la mia strada: mi impegnava troppo, su un fronte unico, e mi impediva di correre dietro ai miei molteplici e confusi interessi. Da allora continuo a scrivere per me e per pochi amici, giusto quelli che mi stanno leggendo. Mi dà molta soddisfazione, non mi sento affatto irrisolto o frustrato. Anzi, mi reputo fortunato, o meglio ancora, sono sicuro di esserlo, perché ho potuto scegliere, e perché a conti fatti ho scelto bene. Per cinquant’anni mi sono occupato solo di quello che davvero mi interessava, nei tempi e nei modi che ho ritenuto più opportuni, e ho interagito solo con interlocutori dei quali avevo stima. Sono un’anima bella, infarcita di luoghi comuni, sorda al grido di dolore che arriva dalla vita vera?

La vita vera, appunto. Che la vita non sia tutta poesia lo so anch’io. Lo sa chiunque non sia un perfetto idiota. Di lì però a pensare che sia solo dura, imprevedibile, dolorosa, buffa, ridicola, insensata, crudele, e che i nostri pensieri quando non sono angoscianti e ossessivi siano stupidi o turpi, ce ne passa. Posso capire che alcuni, molti addirittura, abbiano seri motivi per non sentirsi particolarmente felici (e Gramatica evidentemente, da quel che scrive, è tra costoro. Altro che Hirayama): ma ritengo anche che molti l’infelicità se la creino e se l’alimentino, mossi da un risentimento sordo che poi, spesso, si manifesta anche in un malinteso “impegno”, contro tutto e contro tutti. Sono coloro che si sentono in costante credito nei confronti della vita. Questo risentimento nasce proprio dal pensare che la vita debba essere competizione sempre, affermazione di sé in ogni ambito, nell’amore come nel lavoro: e allora non è sopportabile vedere qualcuno che quell’ambizione proprio non ce l’ha, che si impegna piuttosto a dare senso a quel che gli passa il convento, a farselo piacere.

Personalmente non mi sono mai sentito in competizione né in amore né sul lavoro. Ho amato e ho lavorato cercando di trarre tutto il piacere e il divertimento possibili dall’una e dall’altra cosa, e non per vincere una qualche gara. Non ho alcuna necessità di cercare consolazioni. E non mi passa nemmeno per l’anticamera del cuore o del cervello di bearmi dell’infelicità di Hirayama, perché davvero non la considero tale. Di più: amo la pulizia e l’ordine, segnatamente in bagno, in qualche caso aziono due volte lo sciacquone. Non ho tutta questa nostalgia delle macchie di piscio che sembra provare Gramatica. Sono un ipocrita, falsamente umile (oltre che ecologicamente scorretto)?

La retorica e la Gramatica 07 - Perfect Days

Ancora, sul ruolo da attribuire al cinema (e quindi sui criteri in base ai quali giudicare un film). Avendo vissuto da infante e da adolescente l’epoca d’oro della cinematografia, quella tra l’immediato dopoguerra e l’avvento della televisione, so per esperienza diretta quanto un film potesse incidere sulla formazione di un ragazzo, ma anche sugli orientamenti di un adulto: uso il congiuntivo remoto perché oggi naturalmente questo potere si è trasferito ad altri media, e il cinema si trascina lungo un viale del post-tramonto, illuminato da luci artificiali. So anche però che il cinema è come la montagna, ci trovi quello che ci porti. Per cui, se lo frequenti con lo spirito giusto può a volte suscitarti una maggiore consapevolezza rispetto alle tristi realtà che ti circondano, ma altre volte può offrirti dei parametri ideali. Ideali, appunto, ai quali guardare laicamente, con la debita attitudine critica. E sufficienti comunque ad aiutarti a capire che abbiamo noi stessi la possibilità e la responsabilità di dare un senso al caos che Gramatica sconsolatamente (non gli piacciono le cose vagamente consolatorie) vede regnare.

A me piacciono i film western. Sono un appassionato di John Wayne e di Clint Eastwood, ma non per questo mi faccio largo a cazzotti o ho mai sfidato qualcuno a duello. Mi hanno solo aiutato a capire che nella vita non ci sono solo interpretazioni, ma fatti; non solo opinioni, ma valori. E che rispettare i valori in cui credi (e magari farlo per quanto possibile con eleganza) è già dare una direzione, e addirittura un senso, alla propria esistenza. Sono un fascista, nemmeno consapevole di esserlo?

Per finire. Penso che i rapporti umani possano essere coltivati anche con il silenzio e la cortesia, che non siano necessariamente inibiti dalla timidezza e dalla discrezione. Lo dice uno che non è né timido né particolarmente riservato, ma intrattiene rapporti sinceri e profondi con persone che sanno camminare leggere su questa terra, e considera questo un privilegio. Ho anche una raccolta cospicua di musicassette anni sessanta, tra le quali quelle degli Animals, di Patti Smith e di Otis Redding: solo che a differenza di Hirayama non ho nemmeno il riproduttore per ascoltarle. E la sera, prima di dormire, addirittura leggo. Sono un disadattato?

E chiudo davvero. Mi accorgo di recitare da sempre un mantra più ripetitivo del rituale giornaliero di Hirayama. Dovrei essermi stancato (probabilmente ho stancato gli altri). E invece no. L’unica cosa che mi stanca è la piccineria di gente che ha risvegliato la propria ambizione, in realtà neppure troppo sopita, e si firma, come il nostro recensore, Editor-in-Chief.

La retorica e la Gramatica 08 - Perfect Days

P.S. (Ti pareva!) Proprio stamane ho avuto necessità di usare i bagni pubblici nel mercatino di Borgo d’Ale. Mi sono divertito comunque, ma mi sono venuti subito in mente Wenders e Gramatica. Se quest’ultimo proprio ci tiene a vedere macchie di piscio, gli do appuntamento per la prossima terza domenica del mese.

Haiku sull’Appennino: un diario

di Marco Grassano, 27 giugno 2023

Haiku sull’Appennino copertinaUna postfazione anticipata – di Paolo Repetto

Giugno giapponese in Val Curone

Giugno 2013

Bozzetti di luglio e agosto 2013

Haiku 2014

Haiku 2015

Altri haiku

Una postfazione anticipata

Mi sono chiesto se avesse senso presentare un’opera che si illustra già benissimo da sola. In genere, soprattutto se si tratta di raccolte poetiche, patisco le presentazioni. Se non arrivo da solo a capire quello che l’autore voleva dirmi, a condividerne sensazioni e riflessioni ed emozioni, ricreandole poi a mia misura, delle due l’una: o non ha saputo parlarmi lui, o non sono in grado di ascoltare io. In entrambi i casi il piacere della lettura va a farsi benedire.
Ma questo libretto non è una raccolta di poesie. O meglio: lo è, anche, ma è soprattutto qualcos’altro. Il che giustifica almeno una postfazione: non un’esegesi critica, ma una postilla con la quale dare conto dei criteri che ne hanno determinato e guidato la pubblicazione.
Il libretto nasce in primo luogo da una comune amicizia, quella con Mario Mantelli. È la migliore risposta possibile ad una delle tantissime sollecitazioni che il “musagete” ha lasciato in eredità, mostrandoci come ciascuno possa percorrere del proprio passo la via dell’haiku rimanendo comunque fedele all’ortodossia formale. Come cioè la disciplina non mortifichi affatto la creatività, ma anzi la stuzzichi, e la fortifichi. Nasce quindi come un “esercizio” poetico, ma prende subito un’altra strada, trova un’espressione tutta sua, originale. Diventa esplicitamente un “diario poetico” (implicitamente, tutte le raccolte poetiche sono diari), nel quale le poesie hanno la duplice funzione di rappresentare “fotograficamente”, quasi come istantanee, la realtà naturale, traducendo la parola in immagine, e nel contempo di fermare il sentimento che l’immagine ha suscitato, riconducendolo da questa alla parola.
Mentre lo leggevo ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte ad un album di foto dei primi anni Cinquanta, quelle di dimensioni ridotte, quadrate, in bianco e nero e con il bordo bianco dentellato. Le foto sono accompagnate da didascalie semplicissime: il tempo, il luogo, l’occasione dello scatto. Proprio per la loro essenzialità e discrezione le didascalie diventano parte integrante dell’immagine. Sono il bordo dentellato.
Per cercare di restituire questo effetto ho adottato soluzioni grafiche a dir poco rudimentali, le uniche d’altronde di cui disponevo: voglio credere però che trasmettano almeno un poco della genuinità e della immediatezza dei contenuti. Voglio crederlo perché queste piccolissime magie mi affascinano e mi commuovono, ravvivano la speranza che ci sia ancora qualcuno in grado di condividerle.
Il libretto che avete in mano è un umile frutto di quella speranza.

di Paolo Repetto, 19 giugno 2023

Haiku sull’Appennino 07

Giugno giapponese in Val Curone

Trasferito per l’estate, a partire da venerdì 14 giugno 2013, in Val Curone, dove gli stimoli naturali agiscono sui sensi con maggiore intensità, ho cominciato ad avvertire il bisogno di tradurre in qualche modo queste sensazioni, tentando di trasporre in italiano il metro dell’haiku giapponese (tre versi: 5, 7 e 5 sillabe), secondo quanto suggerisce il “geo poeta” Kenneth White: “Ho trovato che la forma più propria a questo genere di contesto è l’haiku, basato su un gioco delicatissimo fra il fenomeno presente e il tutto che ci circonda; ecco perché ho proposto, anni fa, quella che ho definito la passeggiata-haiku, consacrata all’ecologia delle mente, alla filosofia naturale e alla conservazione durevole del mondo”. Ma mi ha anche invogliato l’intrigante “Disciplinare dell’haiku”, dell’amico Mario Mantelli, e mi hanno confortato, a mo’ di esempio, i diari lirici di Matsuo Bashō.
Ecco cosa ne è venuto fuori…

Haiku sull’Appennino 06 mod

Giugno 2013

Il mattino di domenica 16 giugno 2013 non c’erano nuvole, e il pendio che scende verso Bregni e Restegassi, per poi risalire verso il Giarolo, istoriato di boschi naturaliformi e di campi coltivati, sfavillava di tanti verdi diversi:

Splende la valle
in curve e ampi riquadri
di vario verde.

Il pomeriggio, vedendo l’effetto delle nubi in movimento e della loro ombra proiettata sulla montagna, che sembrava, così maculata, la pelle di una salamandra, però ovviamente verde, mi è venuta questa immagine:

Sembra il Giarolo
una verde salamandra
d’ombra e di sole.

Alla sera, uno stormo di corvi ha cominciato a strepitare, volando in cerchio sopra i calanchi che dominano la vicina frazione di Fontanelle, e subito dopo l’oscurità ha cominciato a farsi densa. Ecco:

Strida di corvi:
in tondo sulla rupe
chiamano il buio.

La sera prima, sabato 15 giugno 2013, il cielo al tramonto era pieno di nubi spostate dal vento, che stormiva nel bosco sopra casa con un suono di risacca.

Tramonto mosso.
Il vento su nel bosco
imita il mare.

Poco dopo, il sole da casa nostra non si vedeva più, ma la sua luce spennellava di morbido viola la montagna.

Sera di giugno.
La luce sul Giarolo:
velluto viola.

Mercoledì 19 giugno 2013, al pomeriggio, siamo andati in piscina a San Sebastiano. Dopo aver giocato in acqua con mia figlia, mi sono sdraiato sull’asciugamano e sono stato colto da una dolce sonnolenza, favorita, anziché disturbata, dai rumori dell’acqua e dalle voci dei bagnanti.

Stesi in piscina.
Sciacquii e continue voci
danno sopore.

(sopore: Saffo, nel frammento n° 2, “Invito al tempio”, dice “koma” – da cui anche il nostro termine medico “coma” – intendendo, appunto, un piacevole assopimento, meno profondo rispetto al sonno, “hypnos”).

Saliti alla nostra casetta, mentre aspettavo di cenare ho osservato, lungo il crinale – la “Costa” – che separa la vallata del Curone-Museglia da quella del Borbera (e affluenti), arrivando fin contro il Giarolo, un ampio campo di grano già biondo, in mezzo ai verdi variegati di tutto il resto del paesaggio.

Sopra la Costa
tra i verdi si distende
grano maturo.

Dopo cena, quando l’oscurità si stava già diffondendo, mi sono messo a rincalzare, legare e innaffiare le lavande che ho piantato a inizio maggio. I grilli cantavano, e la loro flebile vibrazione era portata da un venticello leggero (“debole sistro al vento d’una persa cicala”, scriveva Montale), mentre in cielo la luna traluceva da una nuvola che le stava passando davanti. Mi sono sentito anch’io un po’ (ma solo un po’…) monaco giapponese al lavoro nel giardino del convento. Allora ho provato ad usare il metro tanka, scoperto nella raccolta di antiche liriche “La centuria poetica” – compilazione attribuita a Teika Fujiwara (in pratica, aggiungendo a un haiku due versi di sette sillabe).

Grilli alla brezza.
L’alone della luna
dietro una nube.
Nel buio che si addensa
curo le mie lavande.

Mattino di venerdì 21 giugno 2013. L’arrivo del giorno si intuisce dagli uccelli, che cominciano via via a intrecciare le loro note, e una melodia si sovrappone all’altra.

Canti di uccelli:
intrecci sovrapposti,
fanno il mattino.

Sempre mattino del 21 giugno. Il vento, abbastanza energico, fa correre alte nuvole nel cielo pulito; sui pendii, dondolano alla sua spinta le ginestre, che solo adesso (con oltre un mese di ritardo: è curioso come la Natura faccia convivere fianco a fianco piante che fioriscono sulla base del rapporto luce/buio, come i biancospini, con altre che si attivano a seconda della temperatura media, come le ginestre…) iniziano la piena fioritura. Viene in mente l’Anacreonte tradotto da Quasimodo: “Vibra il cupo fogliame / del lauro e del verde pallido ulivo”.

Il vento spinge
i cirri nell’azzurro
e fa oscillare
sulle ripe il recente
giallo delle ginestre.

Alla sera del 21, il sole tramontante esaltava il verde variegato delle pendici del Giarolo, mentre la luna, quasi piena, sorgeva da dietro la punta della montagna:

In pizzo al monte
la luna del solstizio
è quasi piena.
L’ultimo sole obliquo
fa sfavillare il verde.

Sabato 22 giugno 2013 è stato tutto abbastanza ventoso. Alla sera, ondate d’aria scuotevano gli alberi, li facevano dondolare. La luna si è alzata argentea dal Giarolo, appena a destra della punta, in un tondo quasi perfetto. Poco dopo, i corvi hanno preso a girare ad ampio raggio nel cielo, ripetendo monotonamente, come una preghiera, il loro aspro verso:

Tra soffi d’aria
la luna, ostia d’argento,
si alza dal monte.
La litania dei corvi
risuona tutt’attorno.

Domenica 23 giugno 2013, siamo andati a pranzare a Lunassi. Il cielo, nettato dal vento, era di un intenso blu, costellato di grandi nubi marmoree; la luce, così intensa, rincuorava.

Pranzo a Lunassi.
Il cielo, a smalto e nubi,
rischiara il cuore.

Dopo cena, il vento era freddo. Non solo sopra il Giarolo, ma anche sulla Costa e verso Dernice, ammassi di nubi sbrindellate (bluastre per lo più, molte grigie e anche qualcuna rosea) si muovevano al soffio.

Nubi a brandelli,
livide, grigie e rosa,
vanno nel vento.

Lunedì 24 giugno 2013, al mattino presto. Nella notte è piovuto, con lampi e tuoni. Ne residuano nuvole sparse, tutte scure. Ma contro di esse si staglia, sopra l’orlo delle colline a est – sopra Restegassi, dal nostro angolo di visione – un grosso batuffolo candido.

Un bianco sbuffo
di nubi sul crinale;
livide le altre.

Giovedì 27 giugno 2013, pomeriggio avanzato. La lavanda comincia a sventagliare i suoi cespi violetti, attirando i primi imenotteri, soprattutto bombi. Sulle lavande che fiancheggiano il muraglione, un insetto con antenne che ricordano, nella divaricazione, le corna di una lumaca, e con un rostro lungo e sottile, vola spostandosi piano, succhiando, senza posarsi, come un colibrì, da un fiore e dall’altro – e poi schizza via fulmineo (ricompare dopo cena, sulle lavande grosse del praticello). Si tratta, come ha osservato anche Darwin nel suo Viaggio di un naturalista attorno al mondo, di una farfalla sfinge (Macroglossum stellatarum).

Cuscino viola,
profuma la lavanda.
Ronzio di bombi.
Tra i fiori lungo il muro,
un colibrì d’insetto.

Verso sera, inizia a lampeggiare, a tuonare, a piovere nel vento. Il paesaggio verso il Giarolo si vela della nebbia sottile che appare, di solito, durante i piovaschi dell’estate avanzata.

Il temporale
appanna valle e clivi
come ad agosto.

Ma mi raccontano che ieri sera, col buio, hanno preso finalmente a pullulare, tra gli alberelli e i cespugli del pendio sopra casa, le lucciole.

Lucciole in volo
tra i rami della ripa:
un firmamento.

Dopo cena, verso le 21, per pochi minuti il sole si apre uno squarcio fra le nuvole a ovest, e proietta una fascia di luce rossastra a metà Giarolo.

Squarcio di nubi.
Fulgore porporino
a mezza costa.

Al mattino di venerdì 28 giugno 2013, fa piuttosto freddo: 11 gradi, rispetto ai 22 della scorsa settimana, alla stessa ora. Ancora nubi, irregolari, con squarci luminosi tra una e l’altra. Il sole, passando da una di queste aperture, batte sui campi appena sopra Restegassi, e li fa brillare.

Tra nubi scure
il sole chiazza i campi
di lucentezza.

Arrivato sotto Monleale, ho visto il paese immerso in due piccole nuvole che, come una caligine autunnale leggermente scura, ne ombravano e opacizzavano le forme.

Spegne i colori
Monleale, in nuvolette
simili a nebbia.

Nel pomeriggio, sopra al Giarolo si vedono nuvole marmorizzate in bianco e grigio, come dipinte ad acquerello, e accanto, o dietro, altri vapori esili, striati, simili a un gesso cancellato male sulla lavagna.

Cielo sfumato:
marezzi di acquerello,
sbaffi di gesso.

Sabato 29 giugno 2013, dopo pranzo, il cielo è velato, e il sole riesce a malapena a far trapelare il suo sfolgorio dalle nuvole. A più riprese cadono gocce, in un accenno di pioggia.

Opale ardente
nel cielo opaco, il sole.
Gocciola piano.

Vado al Guardamonte per l’inaugurazione della Casetta didattica. Dalla cima scendo agli scavi archeologici. Il bosco e il fitto sottobosco sono più bui per effetto della nuvolaglia. Salgo sulla rupe. Il paesaggio si dispiega ampio come ai tempi dei primi abitanti, e restituisce le stesse antiche emozioni.

Il bosco è scuro
sotto il cielo velato.
Ma dalla rupe
ritrovi lo stupore

dei primi insediamenti.

All’inizio della cengia che sottolinea la cima della rupe, alcuni gonfi e alti cespugli di ginestra colpiscono coi loro petali squillanti e con l’intenso aroma emanato.

Alta ginestra
a globi apre la cengia:
giallo e profumo.

Domenica 30 giugno 2013, finalmente, si svegliano tutti gli insetti dell’estate. Nel pieno giorno, le cicale, sulle piante in basso e nel bosco sopra casa, friniscono forte, e non lasciano più udire i versi degli altri animali.

Frinendo in alto,
coprono le cicale
ogni altro verso.

Subito dopo cena, mentre il Giarolo si scorge nitidissimo in ogni dettaglio, col sole che lo illumina da ovest, si odono le cavallette.

Netto diorama,
di sera, il monte; ortotteri
zillano intorno.

E ancora più tardi, mentre innaffio le lavande della staccionata, e il Giarolo è ormai rosso nell’ultimo sole, si sentono anche i grilli. Subito dopo, il monte rimane livido, mentre, prima di illividirsi anch’essa, una cresta di nubi, che pare la cima del Monte Rosa, spunta velocemente, per pochi minuti, a sinistra della montagna, all’inizio del suo triangolo.

Il sole cala.
Il monte ora si arrossa.
Cantano i grilli.
Fugace marmo rosa
si affaccia verso Varzi.

Haiku sull’Appennino 03 mod

Bozzetti di luglio e agosto 2013

Incapace di elaborare alcunché stando ad Alessandria, ritrovo spirito di osservazione e voglia di descrivere appena ritorno in Valle. Continuo, così, coi miei esercizi pseudo-giapponesi.

Sera di venerdì 5 luglio 2013, dopo cena. Il Giarolo si erge in un crepuscolo di vago bianco sporco tinto di rosa antico. I campi di frumento, o di altre graminacee, sono ormai tutti gialli, e un po’ giallognoli iniziano a essere anche gli appezzamenti rinselvatichiti. Si sentono vibrare le ali delle cavallette, dei grilli e di qualche sparso imenottero ancora in volo. Come sottofondo sonoro, l’avifauna continua a intrecciare i suoi richiami complessi.

Contorna il monte
crepuscolo rosaceo.
Il giallo cresce
nei campi. Insetti vibrano.
Sferruzzano gli uccelli.

Solo con l’oscurità, poi, si vedono le lucciole: non solo nel bosco sopra casa, ma anche nell’erba del sentiero che sale verso l’ovile del Bruno.

Col buio pulsa,
mobile, uno stellato
tra l’erba e i rami.

Il pomeriggio di sabato 6 luglio 2013, il cielo era di un azzurro più pallido, quasi velato di una sottile caligine. Su di esso, grandi blocchi di nuvole, come zatteroni, si muovevano, con colori dal bianco al grigio scuro.

Nel cielo smorto
vanno le nubi a chiatte
di bianco e grigio.

Mentre andavamo a Lunassi, verso le 19.30, passando da Magroforte inferiore, Magroforte superiore, Costa dei Ferrai e Serra, si osservava un pennacchio di nube bianca, circondato e in parte coperto da altre nubi scure. Suggestivo era l’accostamento tra i pendii illuminati dal sole, coi loro colori, e il tono bluastro delle nubi nel cielo.

Smagliante effetto
tra nube bianca, nembi
e ripe al sole.

Arrivato in paese, ho seguito Via Marchesi Malaspina, una stretta stradina asfaltata che costeggia, da sotto, le case e sovrasta il dirupo che scende al Curone. Lì, verso il torrente, accanto a un capanno avvolto di rampicanti e col tetto di fibrocemento, ho notato una palmetta come quella della piscina di San Sebastiano.

Piccola palma
dalle foglie a stiletto
sotto Lunassi.

Il mattino di domenica 7 luglio 2013, le cicale attaccano a cantare assai presto, già verso le 7.30, quasi il sole desse inizio al loro verso raggiungendo coi suoi raggi i rifugi tra le foglie.

Via alle cicale,
appena il sole tocca
i loro nidi.

Le lavande, adesso, oltre che di imenotteri, sono piene di farfalle (bianche, marrone chiaro, marrone scuro, qualcuna anche nera) che svolazzano attorno. Soffia, per qualche secondo, una brezza che fa staccare e planare al suolo, in un nugolo, le foglie gialle delle robinie.

A un soffio d’aria,
foglie – farfalle gialle –
volano al suolo.

Alberi e cespugli oscillano all’unisono, in una specie di danza diretta dal vento.

Vento coreografo,
fa dondolare a ritmo
alberi e arbusti.

Appena dopo pranzo, nel cielo c’erano nuvole che poi si sono pigramente disfatte, sfilacciandosi, a ovest.

Tenui acquerelli
di nubi, in indolente
sfarsi verso ovest.

Mentre scendeva il buio e io innaffiavo le lavande, sul Giarolo indugiavano nubi pastellate, tra le quali il cielo appariva di un azzurro fosco, da pietra dura (verso Est, invece, le nuvolette erano scure contro un cielo ancora ardente).

Blu di zaffiro
tra le nubi, al crepuscolo,
borda il Giarolo.

Alla mattina di lunedì 8 luglio 2013, quando mi sono alzato, appena dopo le sei, si sentiva un sonoro ronzio sulla pianta di tiglio dei vicini, che intensamente profumava. Sulle lavande, gli insetti erano ancora pochi.

Mattino presto.
Sul tiglio gli imenotteri
ronzano forte.

La sera di mercoledì 10 luglio 2013, sul versante sinistro del Giarolo, un accenno di temporale che si è poi risolto in nulla.

Si affosca il monte.
Qua e là spacchi di folgore.
Rotola il tuono

Mattino di domenica 14 luglio 2013, ore 9.00. Stavolta l’haiku basta da solo.

Sopra il paesaggio
un lieve appannamento.
Il cielo è smorto.

Stesso giorno, ore 11.40.

Nasconde il capo
il Giarolo fra nubi
di tenue grigio.

— o —

Per un po’ di giorni sono stato impegnato in altre scritture. Ma ho ripreso le annotazioni a fine mese. Al mattino di mercoledì 31 luglio 2013, verso le 7, scendendo a valle, il borgo di Restegassi appare ancora in ombra, perché il sole rimane basso dietro il crinale.

Le case bianche
di Restegassi attendono
il primo sole.

E, i giorni di martedì 30 e mercoledì 31 2013, una mietitrebbia rossa stava lavorando nel grande campo accanto a Vigana, tra la frazione e il sentiero per Dernice, a sinistra sopra la sorgente: come per le ginestre, con un mese di ritardo rispetto alla tabella di marcia normale (il grano è generalmente pronto verso il giorno dei SS. Pietro e Paolo).

Accanto al borgo
soltanto a fine luglio
mietono il grano.

Domenica 10 agosto 2013, verso le sette del mattino, ma poi anche durante buona parte della mattinata (col velo che tendeva a dilatarsi e a farsi più impalpabile), un lago di filamenti nebbiosi intrecciati ricopriva tutta la conca di Restegassi e si prolungava, sempre più lieve, passando sopra Bregni, fino a destra della frazione, quasi a rimarcare l’intera mole del Giarolo. Il cielo era purissimo.

Su Restegassi
fitta garza di nebbia
sfuma oltre Bregni;
con un cielo purissimo,
sottolinea il Giarolo.

A notte, dopo la pizzata coi vicini, ci siamo sdraiati a terra sugli asciugamani da spiaggia, di fianco alla stalla che ci schermava i lampioni, per guardare il cielo di San Lorenzo. Ho visto due piccole, rapidissime meteore scivolare fra gli astri: chissà se esaudiranno i desideri affidati loro…

Due tenui e effimere
scie uniscono le stelle
recando auspici.

Domenica 17 agosto 2013, nel pomeriggio, dopo essere salito (sabato 16) sull’Ebro, ho fatto una passeggiata fino alla Rivarossa e, tornando, sul Barilaro. Nelle parti boscate del sentiero, anche lungo il tratto che aggira il monte e scende all’inizio della sterrata per Costa Merlassino, diversi tronchi di castagni, deformati e contorti dalla veneranda età, parevano enormi feticci pellerossa.

Castagni totem
ai lati del sentiero,
carichi d’anni.

Martedì 19 agosto 2013, verso le 6.15, ad Est (guardando dalla stradina della Piana, sopra il tetto di casa), un livido ammasso sfilacciato di nubi bioccose, quasi a pecorelle, era tinto di rosso, nelle superfici esposte ai suoi raggi, dal sole nascente.

Sole che sorge:
su scure nubi a biocchi
spennella il rosso.

La sera di domenica 24 agosto 2014, è scoppiato un violento temporale. Nubi scurissime sul tratto di cielo sopra il cimitero. Lampi vicini e tuoni fragorosi.

Fosforo crepa
il livido dei nembi
sul cimitero.

Dopo i temporali serali di domenica 24 e lunedì 25 agosto 2013, martedì 26, verso le 6.15, pareva autunno. Le luci di Vigana tralucevano dalla nebbia (o dalla nube), offuscate come in pianura a novembre. E tutto, attorno, era filtrato dalla caligine. Quando sono partito, verso le 7, la compattezza della bruma si era aperta e il sole giocava con le velature sparse, sopra e sotto casa, dando a questi appannamenti colori diversi, dal giallo zolfo vagamente marroncino al livido. Svoltata la prima curva a sinistra dopo la frazione, mi sono trovato immerso in una soluzione di anice, che è durata fin dopo Fontanelle, dove il sole ha acceso tutto l’ambiente di una luce opalescente e dorata, in cui le particelle d’acqua sospese facevano da catarifrangente, da moltiplicatore.

Primo mattino:
velo di bruma. Quindi
il sole squarcia,
variopinge i vapori,
irradia opalescenza.

Il mattino di venerdì 29 agosto 2013 è l’ultimo nel quale sono partito da Vigana per venire in ufficio. Quando mi sono alzato, il sole non aveva ancora varcato il crinale ad Est, verso Varzi, ma vi erano, sparse in tutto il cielo, nubi allungate e sfilacciate, assai lievi, che riflettevano la sua luce: in verità più rossa che rosea, anche se Omero ha ripetuto, sia nell’Odissea che nell’Iliade, il verso formulare “Quando, mattiniera, apparve Aurora dalle dita di rosa (rododàktylos Eos)”. Ma nell’Iliade aveva anche detto “Aurora dal peplo di croco (krokòpeplos Eos)”, facendo pensare piuttosto al colore tra giallo e rosso-bruno dello zafferano e di alcuni preparati chimici, come il cinabro (o solfuro mercurico: HgS). Saffo, nel suo raffinato dialetto isolano, si limita a definirla “lucente Aurora (faìnolis Auos)”.

Strisce leggere
di nubi in tutto il cielo,
rosse d’aurora.

Per concludere il mese e il soggiorno in Valle, domenica 31 agosto 2013 ho voluto camminare sui monti attorno a Bruggi, che non avevo ancora percorso.

Dal paese sono salito, un po’ a casaccio, verso Est, tra pinete e faggete. Una capanna di tronchi e di assi grossolanamente squadrate ricordava quella di Thoreau a Walden Pond, per dimensioni e struttura (dentro, una tavola lunga con panche, una stufetta in ghisa, un ripiano – addossato alla parete – sul quale ci si può anche sdraiare).

Ho salito faticosamente ripidi pendii, anche dove non trovavo tracce umane cui affidarmi, fino al Monte Rotondo (1568 metri). Ho seguito in saliscendi (sotto gli alberi del crinale, ove il sentiero corre pianello, pozze di fango) la Via del Sale. Ho quindi abbordato il Chiappo (1700 metri), la cui cima appariva nascosta in una nube livida. Ho mangiato qualcosa ai piedi della statua di San Giuseppe, poi ho proseguito fino al Prenardo (1654 metri) e alla Bocca di Crenna, da dove sono ridisceso a Bruggi per la lunga e tortuosa carrozzabile inghiaiata alla quale si unisce la pista del Rifugio Orsi.

Duro sgambare
sui monti attorno a Bruggi,
lungo salite
di pini e faggi, fino
al Chiappo nella nube.

Nella pineta
un capanno di tronchi
ricorda Walden.

Haiku sull’Appennino 04 mod

Haiku 2014

Lunedì 6 gennaio 2014 sono andato a Vigana per fare qualche lavoretto e concedermi alcune ore di solitudine e silenzio (senza neppure il telefonino) all’aria pulita di lassù. Ho spostato una piantina di lavanda, penalizzata dall’ombra dei ciuffi più grandi, per sostituire una di quelle messe a dimora la primavera scorsa, che, dopo aver fatto i suoi fiori, è inspiegabilmente seccata. Ne è seccata anche un’altra, vicino a lei; tutte le altre hanno invece attecchito. Ho carezzato un po’ di lavande e di rosmarini. Il profumo che i cespi emanano toccandoli è benefico. E credo che il beneficio della carezza lo avverta anche la pianta. Il tatto come veicolo di positività… Mentre percorrevo il viottolo che dalla provinciale sale ripido a casa nostra, ho visto la corolla di una pratolina (Bellis perennis) biancheggiare sul verde dell’erba.

Epifania:
una margheritina
sull’erta erbosa.

Domenica 9 febbraio 2014 ho approfittato del sole del pomeriggio per una gita a Vigana. In tutta la Valle l’acqua colmava i fossi e a volte traversava a rivoletti la provinciale. Salendo da San Sebastiano, poco prima della casa del pittore Bagnasco, a Fontanelle, uno smottamento di terra invadeva il lato sinistro della carreggiata. Anche a Vigana, a una decina di metri dal cartello che precede la curva a gomito, il terreno era franato verso valle, e un pezzo di asfalto aveva ceduto. Il cielo era di un azzurro nitido. Soffiavano sbuffi d’aria, abbastanza freddi. L’acqua ruscellava tra l’erba in pendio, a fianco della strada, e gorgogliava nel tombino sotto il grande cespuglio di more. Filava rapida lungo la cunetta. Il Giarolo, nelle radure delle pendici e sui prati di vetta, appariva luminoso di chiazze innevate.

Cielo pulito.
Nei chiari del Giarolo
cenci di neve.
Rivoli d’acqua e d’aria.
Smotta il terreno intriso.

Domenica 23 febbraio 2014 sono andato a Vigana per sostituire la compostiera. I cespugli di lavanda si mostravano proni, così li ho legati alla staccionata per tenerli su. Ho pulito dalle erbacce le lavandine della staccionata nuova. Ho riposizionato ai lati della porta le piccole tuie in vaso. Nei punti dove il sole batteva con più insistenza, si vedevano le corolle delle viole, disposte come se qualcuno avesse spruzzato macchiette del loro colore. Tra l’erba del prato, già di un bel verde luminoso, erano fiorite le margheritine. Il Giarolo si mostrava appannato dalla foschia, ma il cielo era azzurro e il sole caldo. La neve indugiava ormai solo sui prati attorno alla vetta.

Monte appannato.
Sui prati del crinale
neve residua.
Spruzzi di viole al sole.
Pratoline nell’erba.

Domenica 2 marzo 2014 sono voluto andare a Vigana con l’intenzione di mettere mano a qualche lavoretto, come falciare i prati o pulire la fila di lavande e rosmarini ai piedi del muro. Ma ho trovato una sorpresa… L’intero paesaggio, compresa la rupe dietro casa, sembrava un presepe: la neve velava, o chiazzava, o impolverava di bianco tutte le superfici non protette dagli alberi, o sulle quali gli alberi crescevano più radi. Il cielo era coperto di nuvole irregolari, bruscamente sfumate. Nelle nubi era celata anche la punta del Giarolo, le cui pendici venivano colpite, di quando in quando, da prolungati sprazzi di sole che le accendevano di una nitida tridimensionalità. Attorno, una stereofonia di acque stillanti. Mi sono seduto guardando il monte, e ho scritto:

Giarolo acefalo.
La neve segna ovunque
le aree scoperte.
Il cielo è marezzato.
Gocciola tutt’attorno.

Sabato 8 marzo 2014. Finito di pranzare, e tra un lavoro di giardinaggio e l’altro, posso sedere al sole a torso nudo, leggendo pagine di Walden. Alzo gli occhi al Giarolo: la neve indugia abbacinante sui prati di vetta e in tutte le sfumate radure del versante nord. Più tardi, i raggi sghimbesci del tramonto stendono sulla cima e sulle pendici una solenne velatura violacea.

Neve nei chiari
sul lato nord del monte;
il sole avvampa
quando è alto, ma al tramonto
lo tinge di vinaccia.

Venerdì 14 marzo 2014. I mandorli (uno a Fontanelle e i due sopra la nostra aia) sono le sole piante fiorite che ho visto in Valle. Il Giarolo è velato dalla foschia, di giorno e di notte. La luna, piena e alta, illumina l’intero paesaggio. Quando parto per l’agriturismo, un tasso (Meles meles) sta acquattato sulla stradina verso la Piana, col furbo musetto a strisce e gli occhietti vispi. Appena mi avvicino, si arrampica agilmente su per la ripa dei fichi d’India. Lungo la provinciale, il cartello di Vigana è ormai franato anch’esso, sprofondando verso il campo del Bruno.

Mandorli in fiore.
Giarolo nei vapori.
La luna è piena.
Un tasso sul sentiero.
Smottato anche il cartello.

Sabato 15 marzo 2014. Mentre scendo a San Sebastiano per la spesa, noto che la Natura è ancora ferma, in generale, e infatti le roverelle conservano sui rami le foglie secche. Già al mattino presto, l’aria era mossa da sbuffi di brezza, anche abbastanza vivaci. Il sole è velato da nuvole discontinue, e l’intero paesaggio è appannato, con una leggera caligine che incombe su di esso.

Le roverelle
mantengono il fogliame.
Brezza animata.
Screziature di nubi.
Lieve foschia su tutto.

Sabato 29 marzo 2014, la Valle è piena di germogli, sugli alberi e nei prati. I pescheti sono tutti rosa, come nella pantomima del secondo episodio del film “Sogni”, di Akira Kurosawa. I cespugli selvatici paiono esplosi in nuvolette di petali bianchi. A casa, sento il ronzio dei primi imenotteri, sulla legna del fienile e sui fiori dei rosmarini, e, tutt’attorno, gli strumenti musicali di tanti uccelli diversi.

Teneri verdi.
La danza giapponese
dei peschi in fiore.
Sbuffi bianchi i cespugli.
Ronzii. Flauti di uccelli.

Domenica 30 marzo 2014. Dopo aver terminato i lavori in giardino, sistemando le lavande (che stanno poco a poco riprendendo vita), e dopo aver frugalmente pranzato, mi sdraio sotto un sole velato di nubi caliginose, con una brezza appena percettibile, di fronte a un paesaggio reso sbiadito dalla foschia. Seguendo le ondate del dormiveglia, mi giungono alla coscienza i richiami primaverili, fittamente intrecciati, degli uccelli, e il sibilo lievissimo dell’aria fra i rami.

Leggera brezza.
La lavanda si sveglia.
Paesaggio smorto.
Sonnecchio al sole opaco
e ascolto la Natura.

Domenica 6 aprile 2014, arrivando a Lunassi un po’ prima dell’una, osservo il cielo interamente velato da una foschia leggera e irregolare. Qualche rara nuvoletta in giro. Sulla parte sommitale del monte che si affaccia a sudest del paesino, la neve continua a ricoprire gli spazi aperti, ed è luminosa di sole.

In tutto il cielo
caligine screziata.
Poche le nubi.
La neve ancora brilla
a sudest, sul crinale.

Alle 15 esco dal Circolo. Il cielo mi pare più pulito, ma le nuvole stanno aumentando, verso sudest (a partire dalle 17.30, a Vigana, sentirò qualche sporadico rombo di tuono provenire in direzione del Giarolo). Si odono cantare gli uccelli, e la voce liquida del Curone che sale dallo strapiombo a sud. Le piante stanno buttando il fogliame novello e sono in piena fioritura.

Nubi in arrivo.
L’azzurro è un po’ più terso.
Canti di uccelli.
Lo scroscio del torrente.
Attorno, verde e fiori.

Per andare a Vigana, valico a Serra e attraverso Costa dei Ferrai e Magroforte. Scendendo verso Montacuto, vedo la falda del Giarolo, che dichina alle poche case, disseminata di chiazze variopinte, verdi (in varie gradazioni), bianche, fulve, marroni, grigie, come schizzate dal pennello di uno scaltrito paesaggista.

Scavalco a Serra.
Spruzzi multicolori
su Montacuto.

Sabato 12 aprile 2014 vado su a Vigana per piantare un Caco-mela e per fare un po’ di manutenzione al giardino. La valle è ormai in preda ai mille verdi della primavera. Terminata la fioritura rosea dei peschi, sono adesso i meli a impennacchiarsi di bianco. Il Giarolo si mostra torbido, incorniciato da un ammasso nuvoloso.

Sommerge tutto
un profluvio di verdi.
Meli fioriti.
Sul Giarolo impigliate
nubi grigie e foschia.

Quando esco dall’agriturismo, la luna proietta sulla caligine che la vela un ampio cerchio luminoso, dall’orlo quasi iridato. Il vertice del Giarolo sfuma nell’invisibilità. Arrivato a casa, avverto il soffio gradevole di un venticello leggero, che però non riesce a liberare il cielo notturno dai suoi tediosi fumi.

Luna alonata.
La punta del Giarolo
non si distingue.
Soffia dolce la brezza
senza pulire il cielo.

La mattina di domenica 13 aprile 2014 il cielo è coperto. Prima che io scenda a San Sebastiano per qualche acquisto, iniziano a cadere goccioline impalpabili. La montagna rimane bluastra di foschia. Gradualmente, le nubi si fanno dense e scure, e la coprono del tutto.

Fine pioviggine
da un cielo grigio chiaro.
Giarolo fosco.
Poi il nuvolo si addensa
e copre la montagna.

Nel primo pomeriggio il tempo si schiarisce. Il Giarolo non si sgombra ugualmente.

Trapela il sole.
Si alleggerisce il cielo.
Cresce la luce.
L’azzurro si fa spazio,
ma il monte resta opaco.

Il sole riemerso ha però l’effetto di far sbocciare di colpo un intero zodiaco di stelle di Betlemme (Ornithogalum umbellatum) in vari punti della salita erbosa tra la Provinciale e il lato sud di casa nostra. Ieri ne avevo vista una sola, sul bordo del prato delle lavande.

All’improvviso
le stelle di Betlemme
sulla salita.

— o —

Nelle vacanze di Pasqua (17-21 aprile 2014) ho annotato alcune immagini, che non hanno bisogno di particolare commento.

Giovedì 17 aprile 2014, dalle 20, ora a cui sono arrivato, alle 22, quando sono andato a dormire)

Giarolo viola.
La sera oscura avanza
nel cielo puro.
Sfolgorano le stelle
e un’aria preme fresca.

Venerdi 18 aprile 2014, ore 10.45, di ritorno da San Sebastiano)

Fruscio di vento.
Il canto del cuculo.
Abbaia un cane.
Liquidi cinguettii.
Ronzii sui rosmarini.

Verso le ore 17.00, durante una passeggiata nel bosco sulla rupe

Vento molesto.
I trilli degli uccelli
quasi zittiti.
Il sole filtra appena
e nega il suo tepore.

Sabato 19 aprile 2014, verso le 10.00, scendendo a San Sebastiano; è poi piovuto tutto il giorno

Pioggia insistente.
La nuvola ci avvolge.
Ma a Restegassi
si scende sotto l’orlo
e la visuale è nitida.

Domenica 20 aprile 2014, Pasqua, verso le 10.00, sul prato dell’aia

Riapparso è il sole.
Sui fili d’erba, iridi.
Azzurro a cirri.
Pennacchi sul Giarolo.
Vociano uccelli e insetti.

Stesso giorno: dopo aver pranzato fuori, al calore del sole, il tempo è tornato cattivo

È fredda, l’aria.
Nubi livido-grigie
e luce avara.
Sui prati della vetta
la neve è ricomparsa.

Stesso giorno, dalle 18.00 alle 21.00

Fa quasi freddo.
Giarolo incappucciato,
nubi bioccose
e cupe intorno, gocce…
ma solo a notte piove.

Lunedi 21 aprile 2014, Lunedì dell’Angelo, ore 8.30 – 9.00, guardando verso Bregni e la base del Giarolo)

Cielo biancastro.
Vapore scorre a biocchi
sui boschi acclivi.
Giarolo cancellato.
È umido, ma non sgronda.

Stesso giorno, ore 15.30, passeggiando lungo la stradina asfaltata della Costa, sopra Vigoponzo, guardando attorno cime più o meno alte, tutte nascoste dai lembi inferiori della nuvolaglia

Un’aria lieve
movimenta le nubi
di grigio e bianco.
Le vette, dalla Costa,
svaniscono offuscate.

Stesso giorno, ore 16.00, proseguendo fino a Caviggino, ma anche più tardi attorno a Bregni

Dalla stradina
si odono i primi grilli
in mezzo ai prati.

Giovedì 24 aprile 2014, arrivando a Vigana alle 19.45, ma anche più tardi, col buio

Anche qui a casa
scampanellano i grilli
nell’imbrunire.

Venerdì 25 aprile 2014, verso le 14.00, coricandomi sul cemento verso sud, infastidito dai moscerini

Sole velato.
Pigolii multiformi.
Moschini addosso.

Stesso giorno e posizione, tra le 15.45 e le 17.15

Tuoni ad oriente;
nubi livide e gonfie
lì e sul Giarolo.
Vanno a coprire il sole
e piove: non per molto.

Stesso giorno, lasciando San Sebastiano, alle 18.45

Le chiome d’albero
sono nuvole verdi
sulla collina.

Giovedì 1° maggio 2014, ore 15.30. Da Brignano in qua, il cielo è a nuvole mosse. Al sole si accompagnano, a tratti, piccoli scrosci, o una leggera pioviggine. Una volta a Vigana, sento tuonare da ammassi livido-bluastri sia a est che a ovest, mentre il soffio d’aria è quasi impercettibile, e tiepido. Mi viene in mente il proverbio dialettale che mia nonna mi ripeteva da piccolo, e che mi lasciava perplesso, spingendomi ad immaginare (all’epoca, prendevo alla lettera tutto quel che mi veniva detto) il sarto del paese inspiegabilmente innervosito dalla meteorologia: “Quanch’ el piöva cu gh’è u su, l’è e’ rabia di sartù”.

Piove e c’è il sole:
“É la rabbia dei sarti”
diceva nonna.
L’acquerugiola è lieve,
la brezza blanda e mite.

Stesso giorno, alle ore 19.00, dopo aver pulito le lavande dalle erbacce

Qualche ginestra
abbozza i primi gialli
lungo la rupe.

Stesso giorno, ore 22.30, tornando dall’agriturismo

Non c’è la luna.
Le stelle nette tremano,
ma è buio pesto.
Sulla strada, una lepre
prima di Fontanelle.

Venerdì 2 maggio 2014, ore 7.50

La nebbia ammanta
di spire le pendici
e cela il monte.
Il cielo è un grigio mosso.
Crepe di chiaro a sud.

Stesso giorno, ore 9.06-10.00

La nebbia lievita,
ricoprendo i crinali.
Umido e grigio
intridono le ossa.
Solo alle dieci piove.

Nel tardo pomeriggio, ore 18.00

Per tutto il giorno
pioggia costante e fine.
Biocchi di nebbia
nascondono le chine
e la cima del monte.

Sabato 3 maggio 2014, ore 10.30 – 11.00

Il sole scalda
ma il monte è inturbantato.
Cirri e altre nubi
chiaroscurano il cielo,
turchese dove appare.

Stesso giorno, ore 14.00

Un po’ di vento
spazza le nubi e asciuga
l’erba e il terreno.

Dopo cena, alle 20.30, vado a fare una passeggiata con Ester, seguendo lo stradone fino a dopo la curva a gomito verso Dernice, e poi, scendendo attraverso il sentiero, tra le case della frazione. Notiamo che un aereo lascia una scia livida, del colore delle nubi, e sentiamo tuonare verso nord-ovest, verso Tortona: dove, infatti, in quel momento fa temporale.

Sopra il Giarolo
cartine al tornasole
di nubi: rosa,
e livide d’intorno.
La luna è al primo spicchio.

Domenica 4 maggio 2014, durante quasi tutta la giornata. Il cielo e l’aria erano pulitissimi, le nubi michelangiolesche. L’intero, curvo paesaggio, che saliva da Bregni al monte e ai crinali, appariva bulinato a rilievo dall’effetto tridimensionale dei chiaroscuri di sole e ombra.

Cristallo azzurro.
Gonfi marmi di nubi
sopra il Giarolo.
Il verde, in sole ed ombra,
dà volume ai versanti.

Domenica 11 maggio 2014, a Vigana per qualche piccola faccenda domestica. Trovo le ginestre, sulla riva che sale a destra, dopo Fontanelle, già coi primi fiori; lo stesso avviene per quelle disseminate lungo tutto il versante sud della rupe, dietro casa nostra (ore 12.00).

Ginestre schiuse:
passata Fontanelle;
qui, per la ripa.

Stesso giorno, ore 14.30 – cade persino qualche piccola goccia

Il vento romba
e agita i rami; grigie
nubi diffuse.

Poco più tardi, ore 14.50, il vento sposta qua e là le nuvole, comprese quelle sul Giarolo: che però, pur piegandosi, rimangono ancorate alla montagna

Sul monte ondeggia
un berretto di nubi
che non si sfila.

Ma la situazione evolve rapidamente, non appena il vento muta direzione – ecco, alle ore 15.40

Girando, il vento
sta ripulendo il cielo,
anche sul monte.

Ore 15.55, guardando in su dall’angolo di casa verso il muraglione

Sopra la rupe,
il cielo è blu profondo,
tra un ramo e l’altro.

Ore 17.40, il Giarolo dà quasi l’impressione di essersi ingrandito nel sole: che, a quest’ora, lo investe dritto, senza chiaroscuri

In puro verde
ipertrofico il monte
al tardo sole.

Sabato 17 maggio 2014, arrivando in Alta Valle, verso le 16.45;

Giarolo torbido
e ombrato dalle nubi.
Sul resto, il sole.

Appena finito di lavorare in giardino, verso le 19.30:

Il sole spalma
sul monte, un po’ appannato,
i tardi raggi.

Una piccola passeggiata, dopo cena, ore 21.00:

Mareggio scuro
del vento fra le piante.
Nuvole grigie
incoronano il monte.
Si odono grilli e uccelli.

Domenica 18 maggio 2014 mi sveglio presto. Esco verso le 5.00 a dare un’occhiata.

Nel cielo puro
luna calante e Venere.
Albori ad est.
Col vento che persiste
il monte si è snebbiato.

Passato appena un quarto d’ora, alle 5.15:

Subito dopo
il pianeta sparisce.
Cinguettii intorno.

Faccio ancora un po’ di lavori, rifinendo l’erba e pulendo lavande e rosmarini; ore 10.40:

Fiocchi di nubi
incandescenti al sole
sopra il Giarolo.

Sempre lavorando, ore 11.00, le ginestre mi fanno venire in mente i versi di Leopardi

Il primo, dolce
profumo di ginestra
consola, al vento.

Mi siedo finalmente al sole, a leggere Lavorare stanca, di Pavese. Alzo gli occhi ripetutamente e osservo la stessa cosa: ore 11.45, ore 12.55… Poi ancora, più volte, nel pomeriggio…

Solo una scia
d’aeroplano, fugace,
graffia l’azzurro.

Domenica 25 maggio 2014, dopo aver votato, salgo a Vigana. Mentre mi preparo il pranzo, verso le 13.00, odo miagolii prolungati e sonori. Nell’aia, la mamma delle nostre gatte e la loro sorella rimasta lassù, quasi uguali all’aspetto, litigano furiosamente, il pelo ritto, le code enormi.

Zuffa tra gatti,
purtroppo madre e figlia.
C’è un lieve vento.
Le nubi si coagulano,
cancellano l’azzurro.

Ore 14.30:

Appena il vento
cheta, il sole traluce
e, un poco, scalda.

Ore 16.30, mentre accudisco parte delle lavande

Tra i cespi in fila,
lavandine fiorite
di viola intenso.

Ore 18.00: dal retro della casa si ode il cucco emettere, in rapida successione, il suo limpido canto bitonale, seguito come da un ansimare di tosse

Note convulse
del cuculo, invisibile
sopra la ripa.

Domenica 1 giugno 2014, verso le 12.40, arrivando a Lunassi dopo essere passato da Vigana:

Le nubi tracciano
acquerelli di grigio
sopra i crinali.

Lunedì 2 giugno 2014, ore 8.30:

Boccioli gonfi
su tutte le lavande;
ginestre fulgide
di giallo; ai bordi, accese
colonie di papaveri.

Ore 11.00:

Si appanna il monte
sotto un velo di cirri.
Il sole è opaco.
Una brezza si leva,
fa vibrare le foglie.

Ore 11.15:

A poco a poco
i cirri si fan nubi
bianco-grigiastre.

Ore 11.35:

Nuvole calano
e coprono il Giarolo
di nebbia grigia.

Ore 13.00:

Svanisce il monte
in livida foschia.
L’aria è più lieve.
Il cielo è ormai coperto

ma non si odono tuoni.

Ore 14.30:

Il sole si apre
un varco e tutti i verdi
sono esaltati.

Ore 15.30:

Quando è coperto
il sole, la campagna
ha un filtro giallo.

Ore 15.50. Mentre vado, per la Piana, a portare la spazzatura, all’altezza del roveto che avvolge il susino, dove tutti gli anni colgo le more, mi imbatto nella carogna di una Mustela nivalis in avanzata decomposizione; restano intatti i denti aguzzi e la coda a lunghi peli marroni. Qualcuno deve averle sparato, perché è difficile sia morta per altre cause, su questo viottolo:

Passando a piedi,
una donnola morta
sulla stradina.

Domenica 15 giugno 2014, il tempo lacrimoso non mi dissuade dal salire ugualmente, per un po’ d’aria e di pace. Poco dopo l’arrivo, alle ore 15.00:

Con questa pioggia,
il verde si è ripreso
quasi dovunque.
Il monte ha una corona
di nuvole a brandelli.

Ore 15.25. Osservando le aree a prato, vicine e (col binocolo) lontane, noto che, dove l’erba è alta, declina a un ricco color paglia.

Le graminacee
alzano spighe d’oro,
ormai mature.

Ore 15.30. Uno scampanio dondolante sale da Bruggi o da Restegassi, annunciando una funzione.

Su dal pendio
si sentono campane
ondare a festa.

Ore 15.45. Affacciato al parapetto delle lavande, ascolto sonori richiami di volatili provenire dal folto degli alberi da frutto sotto la strada, e un verso gutturale cadere dal cielo. Dietro di me, un imenottero nero e dorato svolazza sulle infiorescenze azzurro-rossastre di un cespo di erba viperina (Echium vulgare).

Tra i rami fitti
gorgheggiano gli uccelli.
Un corvo gracchia
volando alto. Sui fiori
dell’Echium ronza un bombo.

Alle 16.45, il tempo si incupisce sulla montagna, per poi alleggerirsi di nuovo mezz’ora più tardi. Una lievissima corrente d’aria, che arriva da ovest, porta con sé tracce minime di profumi.

Livide nubi
sovrastano il Giarolo.
Nell’aria, un vago
sentore di lavande,
ginestre, erba bagnata.

—- o —-

Martedì 15 luglio 2014. Riprendo cautamente a scrivere qualcosa dopo settimane di silenzio, di sconfortante, penosa sfiducia nelle parole, nella loro capacità di rompere il nostro isolamento, di comunicare il nostro dolore. Una sfiducia taoista: “Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao, i nomi che si possono nominare non sono nomi eterni. […] Per questo il saggio si pone al servizio del non agire e pratica l’insegnamento senza parole. […] Quando la fiducia è insufficiente, la fiducia viene a mancare” affermava Lao Tsu. Per la voce in parte ritrovata devo ringraziare le potenti suggestioni naturalistiche del biologo americano David George Haskell, in La foresta nascosta, Einaudi, 2014. Basta accontentarsi del poco che le parole possono fare, e non pretendere da esse cose impossibili. Ad impossibilia, nemo tenetur stabiliva, saggiamente, il Diritto romano: nel Codice giustinianeo e forse già da prima, agli esordi dell’Urbe. Anche Haskell, del resto (che a pag. 4 cita un detto del “filosofo taoista cinese” Chuang Tzu e a pag. 105, direttamente, una riflessione di Lao Tsu), pur usandole con notevole abilità, è abbastanza scettico verso le parole: “Mettiamo a tacere la nostra incapacità di capire nel solito modo: soffocandola con le parole” (pag. 101).

Ho annotato questo alle 13.30, seduto nel prato a sud:

Per tutto il giorno,
lavande piene d’api:
al peso, oscillano.
Bianche, tigrate o d’ocra
– ma lievi! – le farfalle.

Un po’ più tardi, verso le 15, camminando tra il prato sud e la staccionata che ho posizionato lo scorso anno:

Ecco, riappare
l’insetto colibrì
che liba in volo.
Sulle lavande nuove
farfalle marron scuro.

(E pazienza se viene in mente il “brutto tinello marron” di Paolo Conte…).

Domenica 3 agosto 2014. Avrebbe dovuto essere la giornata della festa annuale sul Giarolo, ma una pioggia temporalesca, con lampi e tuoni, bagna l’intera zona fino alle dieci del mattino passate. Solo alle 10.30, quindi, mi metto in movimento. Vado in macchina a Borgo Adorno, e imbocco una ripida mulattiera che parte di fianco al Castello. Ore 11.30:

Da Borgo Adorno
mi inerpico alle Stalle.
Nei boschi fitti
il sentiero è di un fango
che fa pesanti i piedi.

Appena dopo le Stalle il viottolo si ricollega alla stradina che monta da Giarolo, anche questa intrisa maggiormente di pioggia nei punti ombrati dagli alberi. Ma, anziché essere appiccicoso e attaccarsi alle scarpe, il suolo è qui un limo viscidissimo. Ore 12.00:

Si sale, a tratti,
su mota scivolosa:
fatica e rischio.

Ore 12.45:

In cima al monte
un’aria fredda. Stracci
di nubi bianche
si stendono a nascondere
la valle, verso casa.

Per evitare il pericolo di rovinosi capitomboli dovuti al fango, decido di scendere passando dal rifugio dei Piani di San Lorenzo, visto che quel sentiero, secondo quanto mi dice un’escursionista appena salita, è asciutto. Composita (conifere di almeno tre varietà, frutto di piantumazioni mirate; faggi, roveri, sottobosco…) e bella la vegetazione ai lati del percorso.

Ore 14.00:

Scendendo, per i
Piani di San Lorenzo,
pini a sinistra,
a destra latifoglie.
Il sentiero è pietroso.

Martedì 5 agosto 2014, prima delle 20.00, vado a Lunassi per la presentazione del libro Le erbacce nel piatto, dell’amico e collega Carlo Fortunato.

Luna a Lunassi,
crescente sul crinale
ancora al sole.

Venerdì 8 agosto 2014. Accompagno Ester e la sua amica fino alle cascine abbandonate della Crosa, in un viluppo di erbe spinose che hanno invaso l’antica stradina, nel tratto finale non più utilizzata da nessuno. Gli edifici sono in rovina, ma il primo, arrivando, doveva essere una bella costruzione, perché, pur essendo in pietra, presenta una riga di mattoni decorati, a sottolineare la cimasa. Divalla, con una parte del corpo, verso l’ampio incavo del fossato (la “crosa” propriamente detta). Annoto accanto a esso, verso le 17.00:

Giù nella Crosa,
tra rovi e piante irsute,
rami di fico.

Domenica 10 agosto 2014. La notte di San Lorenzo coincide con la luna piena, di dimensioni insolite, in quanto, per ragioni di rivoluzione, più vicina alla terra. Appena sorta, lungo il cateto sinistro del Giarolo, è di una tonda luminosità dorato-rossastra, poi, progressivamente, si imbianca. Difficilmente si riuscirà a vedere qualcosa. Ore 20.50:

La superluna
a sinistra del monte:
ostia di luce.

Ore 21.30:

Sfregano a ritmo
le cavallette e i grilli
i loro archetti.

Ore 22.00:

Saffo ha ragione:
quando la luna è piena
non vedi stelle.
Solo qualcuna, fioca,
affiora nell’argento

Lunedì 11 agosto 2014, poco dopo essermi alzato, facendo gli esercizi mattutini. Ore 6.20:

La luna, scesa
sull’acquedotto, affonda
dietro il crinale.

Domenica 31 agosto 2014, verso le 9.45, poco prima di partire per il ritorno in città, scrivo quanto avevo osservato il giorno prima, a proposito delle lavande lungo il muraglione (tutte, eccezionalmente, riammantatesi di viola, seppure con petali meno fitti) e del vecchio rosmarino: che, come le due santoregge (Satureja hortensis, chiamata anche erba pepe, per il sapore), piantate tra esso e la porta della stalla, appena fuori dall’ombra del fico, è costellato di corolle – azzurre-indaco, il contorto arbusto legnoso; bianche, i piccoli cespi scarmigliati.

In piede al muro,
il rifiorire insolito
delle lavande.
Sbocciati, accanto al fico,
rosmarino e erbe pepe.

Domenica 14 settembre 2014 salgo a tagliare le lavande. Arrivo verso le 11.40, dopo aver fatto un po’ di spesa.

Verde diffuso
fino a San Sebastiano;
da Fontanelle
sulle foglie compaiono
le tinte dell’autunno.

Così il cielo mentre lavoro:

Nubi che passano;
Giarolo incoronato;
azzurro intenso.

Domenica 5 ottobre 2014. Vado a Vigana per prendere un po’ d’aria – e di quiete. Il viale di San Sebastiano comincia a tingersi della stagione. Ore 11.10:

Robinie e tigli
si dorano pian piano
lungo la strada.

Salendo, appena passata la frazione Poldini e il suo torrente, grandi fiori giallo sole ai due lati, ore 11.15:

Topinambours
illuminano i fossi
dopo l’Arzuola.

Prima e dopo Fontanelle, attorno alla Provinciale (ore 11.20):

L’autunno spruzza
di gialli, rossi e viola
tutte le rive.

Quando scendo dalla macchina – ma poi anche per l’intero pomeriggio – il monte è coperto di caligine, più o meno scura e densa, secondo il momento (annotazione ore 15.00):

Giarolo fosco,
nascosto dalla nube
fino alla Costa.

Mentre pulisco le lavande dalle erbacce, noto che in cima alle spighe che non avevo tagliato è ricomparso qualche isolato fiorellino pentagonale (ore 15.15):

Sulle lavande
sporadiche corolle:
stelline viola.

Domenica 9 novembre 2014, nel pomeriggio: una rapida visita per verificare che lassù tutto sia a posto. Salendo lungo la valle, si vedono gli alberi di pesco con tutte le foglie virate a un luminoso rosso-marrone. Altri alberi, come le robinie, portano ancora un certo numero di foglie, verdine in vario grado di pallore. Altri ancora hanno foglie in diverse sfumature di giallo, o, come i tigli, sono già senza foglie:

Aria appannata.
Pescheti rugginosi
come lamiere.
Il resto: verdi, gialli,
o rami denudati.

Davanti a casa:

I vellutini
allargano corolle
di giallo e rosso.

Dalle nuove lavande:

Giù verso il fico
ha l’erba viperina
steli fioriti.

In fondo alla staccionata:

La yucca innalza
cerose campanelle
riunite a spiga.
Le esplora un freddoloso

insetto nero e d’oro.

Trapela il sole
dalla coltre di nubi,
ma non riscalda.
Avvolto nel grigiore,
è invisibile il monte.

Camminando lungo la stradina della Piana, fino a casa del Renzo:

Azzurra luce
dei fiori di cicoria
vicino al forno.

Venerdì 12 dicembre 2014, verso le 18.00, andiamo alla festa del centenario di Guido Delucchi, all’agriturismo Cà dell’Aglio, sul bordo di un’altura che domina Momperone e l’intera vallata. Usciamo appena dopo le 20.00 e, nel buio, vediamo lo spettacolo che di dispiega sotto di noi.

Da Cà dell’Aglio
le luci nella valle:
un firmamento.

Haiku sull’Appennino 06 mod

Haiku 2015

Venerdì 2 gennaio 2015 salgo a dare un’occhiata alla nostra casetta. Annoto, verso le 14.30:

Patina bianca
su suolo, e tetti in ombra.
Ma alla Casuzza
il sole ha già un tepore
che annuncia primavera.

Ore 15.00:

Il monte è a curve,
morbide d’ombra e sole.
Traluce il bianco
sulle aree più scoperte
delle falde inferiori.

Ore 15.35:

Attorno a casa
calendule arancione,
Bellis, tarassachi.
Alcuni rosmarini
osano un po’ di azzurro.

Ore 15.50:

Fruscio di vento
tra i rami della rupe:
ora fa freddo.

Domenica 4 gennaio 2015, verso le 15.00, dopo un po’ che sono arrivato alla Casuzza:

Luce argentata
e cielo trasparente.
Scomparso il bianco.

Vado a fare una passeggiata lungo il sentiero sopra la rupe. Ore 16.00:

Vento nel bosco.
A ondate, l’aria fredda
cresce con l’ombra.

Più tardi, un’oretta dopo la scomparsa del sole (lungo il tratto finale della Costa, verso l’acquedotto), mentre sono davanti a casa. Ore 17.20:

Si alza la luna
dal tetto dei vicini,
nitida e tonda.
Richiami in volo annunciano
che la giornata ha fine.

Dopo cena vado a fare due passi (seguendo la provinciale e tornando poi lungo la stradina) fino a Vigana, osservando le decorazioni natalizie: in un paio di case giù a Bregni, dai Semino, da Renzo, da Silvio e lungo i contorni del Castello. Ore 20.45:

Le luminarie
nelle case abitate
e sul Castello.

Lunedì 5 gennaio 2015, dopo aver fatto colazione e riordinato in casa, mi siedo fuori a leggere. Il cielo è intensamente azzurro, ma alcune nubi sfilacciate, sopra il Giarolo, velano il sole, e la temperatura è ancora bassa. Ore 9.25:

Canti di uccelli
nel freddo del mattino,
lontani e limpidi.

Dopo pranzo, mi siedo ancora davanti a casa, a leggere. Ore 13.50:

Gracida un corvo.
Punge a soffi la brezza,
ma il sole è caldo.

L’arco del sole è breve e basso, in questa stagione. Ore 16.00:

Sorto un po’ a destra
della vetta, tramonta
su Vigoponzo.

Sabato 7 marzo 2015 salgo per qualche lavoretto: ripulire dalle foglie morte il prato anteriore e concimarlo; tagliare – in attesa di piantumarne una nuova – una lavanda delle prime che avevo messo a dimora (lungo la staccionata del muro), seccatasi già in autunno; spostare in basso, per l’imminente raccolta, gli ingombranti accumulati. Arrivo alla Casuzza verso le 11, dopo il viaggio in una natura soleggiata ma dormiente e la sosta a San Sebastiano per un po’ di provviste. Il Giarolo e le montagne che si intravedono ai suoi lati brillano di neve, in tutta la loro parte superiore.

Vette abbaglianti
nei chiari e sotto gli alberi
ancora nudi.

Verso le 11.30, mentre porto via lo strame con la carriola:

Bellis nel prato
e uno spruzzo di viole
scendendo al campo.

Passato mezzogiorno:

Cielo smaltato.
Il sole brilla puro,
ma l’aria è fredda.

Domenica 22 marzo 2015, profittando della propizia pioggerella primaverile, salgo a piantumare le due lavande che ho comprato ieri, in sostituzione di quelle morte. Passato Monleale e poi, appena dopo il Robivecchi, a destra:

Gemmati i peschi.
Sul ciglio della strada
viole a manciate.

Arrivando alla Casuzza, verso le 10.30:

Spruzzi di viole,
mandorli nevicati
e pratoline.

A mezzogiorno:

Monte coperto,
ma cielo luminoso.
Campane a festa
e gocciolio di pioggia.
Un cane abbaia in basso.

Ore 12.23:

Raglia un uccello
in cielo, sulla stalla,
e uno squittisce.

Ore 12.25:

Si scopre il monte
con qualche chiazza bianca,
diffuminata.

Ore 12.35:

Accanto al muro
costellazioni azzurre
di rosmarini.
Sui rosmarini
un bombo già banchetta,
malgrado il tempo.

Ore 13.10:

Passata l’una,
il monte è ritagliato
da nubi a brani.

Ore 16.40:

Nel pomeriggio
si è rinascosto il monte.
Grigia pioviggine.
Di sotto, è la vallata
verde luce sommersa.

Sabato 28 marzo 2015. Vado a fare un po’ di giardinaggio. Verso le 10.40, salendo:

Nel fondovalle:
primo rosa sui peschi,
meli ancor fermi.

Ore 11.00, arrivando:

Neve residua
sui pascoli di vetta.
Non una nube.

Quel che vorrei registrare alle ore 17.30 lo aveva già scritto Virgilio, alla fine della prima Ecloga:
Et iam summa procul villarum culmina fumant
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.
Posso però cercare di tradurlo in un tanka:

“Lontano, i tetti
dei casolari fumano;
più lunghe scendono
dagli alti monti le ombre”:
così scrisse Virgilio.

Non solo nelle case lontane (a Bregni), ma anche in quelle vicine (Daniela, la Carla) comincia a uscire fumo dai camini.

Domenica 29 marzo 2015. Passeggiando verso Cà Vigino, ore 14.30 (ora legale, appena adottata)

La Val Borbera
spinge un brivido d’aria
lungo la Costa.

Ore 15.00:

Per tutto il tempo
il sole è opalescente
dietro le nubi.

Venerdì 3 aprile 2015 saliamo per la Pasqua. Arriviamo alla Casuzza verso le 11. Nel cielo, sole e nuvole sparse, sfilacciate.

Coi nuovi verdi
si sveglia la lavanda,
pian piano. Azzurri
varî dei rosmarini
in piena fioritura.

Nel pomeriggio, ripercorro il sentiero di Sant’Agostino, trovando, stavolta, il viottolo (ripido, erboso, sconnesso) di raccordo con la viuzza che arriva al Museglia, all’altezza della passerella che doveva essere già allora valico sul torrente, attraverso cui raggiungere il borgo di San Sebastiano – e la chiesa.

Scendendo a Sanse,
ai lati del sentiero,
primule e viole
sbocciate a ciuffi sulla
coltre di foglie secche.

Sabato 4 aprile 2015 esco di casa alle 13.30 e, malgrado la pioggia caduta nella serata di ieri e ancora stamattina, vado a percorrere l’altro ramo del sentiero (che si diparte verso sinistra, a poche centinaia di metri dalla chiesetta iniziale), fino al prato che incombe, da presso, sulla compatta frazione Vallescura di Brignano.

Si aprono gemme
in punta ad ogni ramo
dei boschi spogli.
Nubi di biancospini
rischiarano i roveti.

Lunedì 6 aprile 2015, con un bel cielo azzurro attraversato da rapide nubi, riesco finalmente a dirigermi alla Rivarossa. La provinciale per Montebore è franata, all’altezza del muraglione di sostegno, e il tratto venuto meno lo si percorre varcando un passaggio angusto e sconnesso scavato nel versante della collina. Anche la stradina inghiaiata che porta a Costa Merlassino è segnata dalle frane: parzialmente poco dopo l’inizio; totalmente poco prima del bivio per la Rivarossa, dove il fondo stradale è stato spinto via da un’ondata di bosco che vi si è riversata sopra, sconvolgendo ogni cosa e rendendo assai difficoltoso anche il passaggio a piedi. La ripida carraia che sale a destra, segnalata da una bella freccia blu (“Ripa rossa”), non ha invece subito danni. Ne ricavo un doppio haiku, annotato alle 15.07:

Strade e stradine
sbarrate dalle frane
a monte e a valle.
Da Costa fino
al Monte Barrilaro
percorso intatto.

Alle 16.10, poco prima dei ruderi di Rivarossa, guardo in su, a sinistra, lungo un tratto di sentiero leggermente infossato, e mi tornano alla mente i cactus dipinti da Ennio Morlotti a San Biagio della Cima, stagliati in verde, giallo e nero contro un azzurro carico:

A Rivarossa,
su un cielo morlottiano
arbusti incisi.

Torno indietro e salgo il Barrilaro. Bevo un sorso d’acqua, leggo qualche verso dagli “Ossi di seppia” di Montale, che porto nello zaino (“L’albero verdecupo / si stria di giallo tenero e s’ingromma. / Vibra nell’aria una pietà per l’avide / radici, per le tumide cortecce. / Son vostre queste piante / scarse che si rinnovano / all’alito d’Aprile, umide e liete…”). Poi mi metto a osservare l’imponente veduta che spazia ai miei piedi. Sono le 17.05:

Dal Barrilaro
si domina una trama
di creste, valli
e strade bulinate
fra boschi, rocce, campi.

Domenica 12 aprile 2015. Salendo, dopo Monleale, verso le 9.30:

Distesi in schiere,
spumeggiano di petali
meli e susini.

Alla Casuzza, ore 14.30:

Nebbie bioccose
velano il cielo e il monte
di lunghe garze.
Ogni minima vita
che vedo, mi commuove.

Ore 14.40:

Eco di cani
risale la vallata
a onde rifratte.

Ore 15.00:

Cespi fioriti
di rosmarino, a picco
sul muraglione.

Ore 16.30:

Su rive e fossi,
le “Stelle di Betlemme”,
bianche fra l’erba.
Sbocciate anche le croci
dei “Dollari d’argento”.

Sabato 25 aprile 2015, salgo per alcuni lavori di giardinaggio, ore 11.00:

Le viti fogliano.
Sui filari di meli
ancora i fiori.

Ore 12.00:

Verdi molteplici
spruzzano le pendici
in ciuffi tondi.
Astri di fiori gialli
avvampano nell’erba.

Ore 20.30, scendendo all’agriturismo Cà Bella:

Su Restegassi,
per metà illuminato,
il campanile.

Domenica 26 aprile 2015, ore 6:30:

Tutto il paesaggio
è perso nella nube
che ci ravvolge.

Ore 7.55:

Poi, gradualmente,
la foschia si dilegua,
scopre la vista.

Ore 8.23:

Nel fondovalle
si è raccolto il vapore,
vi indugia inerte.

Ore 8.29:

Ma si riespande
fino a inghiottire il mondo,
come all’inizio.

Ore 9.00

Di nuovo, piano,
riprende a ritirarsi,
svela le cose.

Ore 15.45:

Qualche ginestra,
sul Campo dei Morroni,
ha i primi fiori.

Saliamo, la sera di giovedì 30 aprile 2015, per trascorrere in Valle alcuni giorni, profittando della festività del Primo Maggio. Sono un po’ stanco e avvilito, in questo periodo, e non ho voglia di cimentarmi con inutili parole. Ma qualche momento riesce a superare la fascia grigia, a far giungere lo stesso a destinazione i suoi colori e i suoi suoni.

Venerdì 1° maggio 2015, giornata piena di nubi e di vento molto forte, che costringe a rimanere in casa. Ore 19.00:

Aghi di pioggia
mi spruzza in faccia il vento
scuotendo gli alberi.

Sabato 2 maggio 2015, ore 18.00. Bella giornata di sole. Appena la luminosità si attenua (ma si comportano così anche quando la diminuzione di luce è dovuta al velo di nuvole; allo stesso modo, si chiudono le corolle delle Stelle di Betlemme), i grilli attaccano il loro tremulo frinire.

Nel campo, i grilli
cominciano a scrollare
la sonagliera.

Domenica 3 maggio 2015, mentre faccio i miei lavori di giardinaggio e porto nel campo la ramaglia tagliata, sono circondato dalle complesse, elaborate melodie cristalline di tantissimi uccelli:

Tutto all’intorno
lo spessore intrecciato
di mille canti.

Nel pomeriggio, subito dopo pranzo, faccio una lunga camminata (dalle 12.45 alle 16 passate). Sulla Costa, vado fino oltre Cà Vigino, visitando la chiesetta di Sant’Espedito, aperta. Poi, per una stradina fiancheggiata da roverelle, scendo a Cascina Carrano (e qui trovo aperta la cappelletta di Santa Teresa del Bambin Gesù). Poi, lungo la provinciale, risalgo a Zebedassi e a Vigoponzo, e da qui scavallo di nuovo a Vigana. Parto, per tornare in città, alle 17.15.

Sono una festa
le ginestre fiorite,
seppure poche.

Scendendo, alle 17.20, nei pressi dell’agriturismo, osservo una lama di luce obliqua puntare e trafiggere, con umido effetto iperrealista, una parte del paesaggio – un po’ come nella più famosa poesia di Quasimodo.

Sulla Cà Bella
il sole fra le nubi:
raggio nel bosco.

Sabato 9 maggio 2015. Nel pomeriggio salgo a falciare l’erba attorno a casa. Ore 15.00:

La fioritura
delle robinie, immensa,
vela la Valle.

Ore 15.45:

Che giallo intenso
e che profumo fino
han le ginestre!

Notte fra il 9 e il 10 maggio:

Brillano, fredde,
miriadi di stelle,
nitide e dure.
La luna, già sbreccata,
si leva ad alta notte.

Nel “fine settimana lungo” (e/o “ponte”) del 2 giugno mi occupo del giardino e, soprattutto, sgombero la cantina, in vista della successiva ristrutturazione. Lavoraccio impegnativo e faticoso, che mi lascia comunque l’agio di annotare qualche immagine. Domenica 31 maggio 2015, ore 21.30:

Le prime lucciole
indugiano al riparo
dall’aria fredda.

Lunedì 1 giugno 2015, ore 21.10:

La luna è piena.
Profumo di ginestre.
Gemono i grilli.

Martedì 2 giugno 2015, ore 7.45:

Al sole obliquo
del mattino, il paesaggio
ha più spessore.

Sabato 6 giugno 2015, il clima in città è torrido. Solo verso sera riesco ad affrontare il viaggio. Salgo a innaffiare un po’ di vasi e a cenare (ottimamente, e con in più una bella vista sui colli circostanti, verdi e luminosi, un nostalgico sottofondo musicale dei primi anni Ottanta, e un fresco che rincuora) all’agriturismo Cascina Battignana, di San Sebastiano Curone. Stasera mi sento un po’ Montalbano che mangia da Enzo. Ore 19.40, mentre salgo:

Ha già un colore
di paglia, il grano duro,
oltre San Giorgio.

Domenica 7 giugno 2015, all’alba:

La prima luce
apre liquidi suoni
in mille becchi.

Ore 10.30, dopo aver proseguito il lavoro di sgombero della cantina, mi appoggio alla staccionata che dà sul Campo dei Morroni:

Fiori en pendant
dell’erba viperina e
delle lavande.

Lunedì 15 giugno 2015. Da ci ieri siamo di nuovo trasferiti per l’estate. Il tempo è variabile. Ore 13.30:

Stille di pioggia:
più fredde, per il sole
caldo ed il vento.

Ore 18.00:

More di gelso:
preludio dolce e bianco
ai frutti estivi.

Sabato 20 giugno 2015, nel pomeriggio, mi siedo fuori a leggere il bel libro di Patrick Leigh Fermor (terza e conclusiva parte dell’itinerario europeo a piedi, durato tutto il 1934) La strada interrotta, appena uscito in italiano. La fruizione degli spazi aperti della natura, dei boschi e dei sentieri di montagna, che inebria l’autore di gioia fisica, coincide, così, col mio vissuto. Ore 16.20:

Vibrano a ritmo,
tutt’attorno, gli archetti
delle cicale

Domenica 21 giugno 2015, tornando da una squisita “cena del solstizio” (come non pensare a Valéry? “L’anima esposta alle torce del solstizio, / ti sostengo, o mirabile giustizia / della luce, dalle armi spietate!”) presso l’agriturismo “Cascina Battignana”. Ore 22.30:

Esile luna
crescente. A lampi alterni
vagano lucciole.

Per un po’, non ho più voglia di scrivere. Dal 5 al 10 luglio 2015 torno finalmente in Provenza, ma anche lì, sul momento, nulla mi sorge. Vi scatto, però, diverse foto, e cammino molto.

Sabato 25 luglio 2015, al mattino presto, piove abbastanza forte.

Con l’acquazzone,
riprende fiato, intorno,
l’erba patita.

Non avevo dunque più voglia di scrivere. Però domenica 16 agosto 2015, quando percorro il sentiero della Rivarossa, mi incuriosisce il dosso verde del Gavasa, che non ho mai visitato, e decido di affrontare la deviazione. Ore 16.10:

Salendo il monte,
ovattato silenzio
sotto i castagni.

Ore 16.25:

Ma fra le querce
di vetta, qualche grillo
geme, sommesso.

Mando un messaggino coi due testi al “musagete” Mario, che ne rimane soddisfatto…

Haiku sull’Appennino 05 mod

Altri haiku

Domenica 19 aprile 2015, nel pomeriggio, arrivo alla Cascina Cerola, nella frazione Franchini di Altavilla Monferrato, per visitare la mostra fotografica “L’eterno messaggio della natura”, una trentina di intensi scatti artistici commentati, ognuno, da parole di scrittori. Imbocco poi un viottolo di terra, che conduce ad una vigna e da qui, attraverso un albereto, si inoltra fra i colli, in mezzo alla “natura” che le immagini esposte evocavano. Ore 15.35:

In fondo al campo, un
carretto abbandonato,
quasi disfatto.

Ore 15.50:

Mormora l’acqua
nel fosso che costeggia
redola e bosco.

Ore 16.00, raccolgo da terra, a diversi metri di distanza l’una dall’altra, tre uova di fagiano, svuotate da qualche predatore:

Sulla stradina,
i gusci grigio-beige
di uova rotte.

Ore 16.22:

Casali incombono
sui fianchi, un po’ scoscesi,
della valletta.

Ore 16.40:

Il basso colle
è una nube, screziata,
di foglie nuove.
Il filare di abeti
al piede è fuori luogo.

Ore. 17.10, tornando verso la cascina, odo latrati festosi, vociare di persone (“Diana!”), sonagli vibranti (prima, un grosso bovino, sdraiato nell’erba, aveva emesso un muggito sonoro e prolungato), e intravvedo, tra gli alberi, un cagnone dal pelo biancastro scorrazzare attorno ad una piccola mandria. Poco dopo, sono due i maremmani, identici, che vengono rapidamente verso di me, scodinzolando, e mi poggiano la testa contro le gambe, chiedendo coccole:

Stanno allenando
due cani da pastore,
con delle mucche.

Ore 17.30, lungo l’ultimo tratto di percorso, quando già si sente assai distinta la musica del trio che si esibisce nell’aia:

Due giovani asini
mi osservano in silenzio,
grigi e pezzati.
“Qué será será” suonano
fisa, chitarra e piffero.

Domenica 24 maggio 2015, nel primo pomeriggio, accompagno mia figlia a Quargnento, per un saggio di ginnastica artistica in occasione della festa del paese, che ricorda i 385 anni trascorsi dalla peste superata. Esco dal concentrico e mi siedo in un prato stabile di steli già maturi, vicino alle ultime case del borgo, a leggere Desert solitaire di Edward Abbey, magnifico racconto di una stagione passata in solitudine, come ranger, a sorvegliare ed osservare la natura selvaggia dello Utah. Annoto verso le ore 15.15:

Nell’aria asciutta
schiocchi di graminacee
scagliano semi.

Buoni propositi

di Paolo Repetto, 31 dicembre 2021

Sono le otto del mattino del 31 dicembre e ho deciso di accettate la sfida. La sfida è con me stesso, e consiste nel riuscire a buttar giù entro le prossime dodici ore un elenco di possibili temi di discussione con i quali festeggiare (insomma) la dipartita di questo ennesimo anno funesto. È una cosa da fare entro le venti per consentire a Fabrizio di postare il tutto sul sito, ed entro oggi perché immagino una serata in tono minore (o maggiore, a seconda dei punti di vista) per un sacco di gente, soprattutto per gli amici che non godranno della mia compagnia: un capodanno trascorso mestamente in casa, col rischio di intossicazione alcoolica o televisiva. Ho quindi in mente come destinatarie di questo messaggio riunioni amicali o familiari ristrette, di quelle in cui lo spazio per la comunicazione di eventi quotidiani positivi o negativi (accoppiamenti/separazioni, promozioni/problemi sul lavoro, ecc. ) o di gossip ordinario è molto ridotto, perché si sa già tutto di tutti, mentre è per una volta un po’ più ampio quello temporale per affrontare argomenti di stampo diverso. Ma potrebbe anche essere il caso di un capodanno solitario, o di coppia, e in questo caso l’interlocutore potrebbe diventare magari il computer (sono un po’ scettico sul livello del dibattito domestico, a prescindere dall’oggetto dibattuto).

I temi che propongo alla discussione non sono in effetti quelli scelti di solito per riempire l’attesa di un’ora tanto simbolica. Ma anche gli argomenti apparentemente meno distensivi possono essere trattati con un filo di leggerezza, come si conviene alla specifica occasione: ad esempio, riflettendo sul fatto che nelle varie parti del globo quell’ora è diversa, che in Australia quando noi facciamo fare il botto allo spumante si accingono al primo pranzo dell’anno nuovo, mentre a New York escono dal lavoro dell’ultimo giorno di quello vecchio. E che per altri ancora, più della metà dell’umanità, il capodanno arriva in un altro giorno (quello ortodosso, ad esempio, il 14 gennaio) o addirittura in un altro mese (quello cinese il 1 febbraio). Il che sarebbe già più che sufficiente a togliere ogni sacralità e legittimità al nostro festeggiamento, e a farci laicamente decidere di andare a letto (col che il problema di riempire l’attesa non si porrebbe).

Buoni propositi 02Mettiamo però che per qualche loro ragione, fosse anche solo per abitudine, il gruppetto, la coppia o il singolo decidano di tirare dritto e approdare alla mezzanotte. Non possono rimanere con forchetta e coltello in mano dalla cena all’ora x, almeno qui in Piemonte, dove il pasto serale inizia alle 20. Bisogna mettere sul tavolo, oltre ai ravioli, alle lenticchie, ai panettoni e alle bevande, anche qualcos’altro. E non è necessario farlo in maniera ufficiale, dichiarando il tema della serata e inducendo subito tutti a lasciar cadere le braccia e le posate. Si può buttare l’amo con leggerezza, innescandovi un banale riferimento o una battuta: che so, la nascita di un nipote o il rifiuto sempre più diffuso di responsabilità familiari da parte dei figli potrebbe aprire la strada a un dibattito sulla sovrappopolazione; una considerazione sul tipo di fauna che monopolizza i programmi televisivi potrebbe far scivolare verso la questione gender, ecc. L’importante è che poi la discussione e le argomentazioni rimangano su un piano di assoluta levità: ovvero, non scadano nel litigio o nella volgarità, e l’occasione non venga sfruttata per tenere conferenze o impartire lezioni.

Confesso però che quello dell’attesa “impegnata” è solo un escamotage. Non sono così sadico da voler rovinare a qualcuno la serata. Il vero scopo di questo elenco non è quello di nobilitare “culturalmente” la vigilia. L’ho pensato come un’agenda da trasmettere al prossimo anno: una serie di punti che vorrei vedere trattati nell’immediato futuro sul sito, con tutta la serietà possibile, che significa con ragionevolezza e con un po’ di cognizione di causa. La sfida in questo caso non è al tempo, ma agli amici e a tutti i frequentatori del nostro sito. Esistono senza dubbio innumerevoli altri argomenti di altrettanta rilevanza, ma quelli che troverete elencati già bastano ed avanzano per giustificare l’attività di riflessione di un intero anno, e anche di quelli successivi, se verranno. Ed è evidente che nessuno ha la presunzione di dare risposte o scovare formule che salvino il mondo o ne correggano anche in infinitesima parte le storture: semplicemente, si tratta di viverci, in questo mondo, per quel poco di tempo che ci è dato, in maniera per quanto possibile consapevole e dignitosa. Di provarci, almeno.

Col che, bando alle chiacchiere e passiamo a considerare questi possibili argomenti. Non li elenco secondo un qualche criterio di rilevanza, ma semplicemente in ordine di apparizione (alla mia mente)

Buoni propositi 031. L’intelligenza artificiale, ad esempio. Viene per prima perché è lo stimolo che ha fatto scattare tutta questa operazione. Ne ragionavo ieri con Nico, e mi è rimasto in testa. Non è, come dicevo sopra, uno degli argomenti di cui si parla normalmente a tavola, soprattutto in questo periodo, nel quale la pandemia ha fatto uscire semmai allo scoperto un grave deficit di intelligenza naturale. Ma il motivo vero per cui non se ne parla è che le competenze in proposito sono decisamente poco diffuse. Preferiamo lasciare che se ne occupino i matematici, gli informatici e i cognitivisti.

Eppure, con l’intelligenza artificiale già conviviamo da un pezzo. È applicata in campo medico, nel controllo della finanza, nella traduzione e nell’elaborazione di testi. Abbiamo a che farci quotidianamente guidando le automobili di ultima generazione, segnatamente quelle elettriche, e stanno arrivando quelle a guida totalmente autonoma. Oppure, nella comunicazione, interloquiamo costantemente con assistenti telefonici automatici, mentre oltreoceano troviamo addirittura quotidiani già diretti da un software. Il fatto è che, a differenza di quanto accade per i mutamenti climatici, questa presenza non la notiamo granché, ad essa ci stiamo rapidamente assuefacendo. Ma non è nemmeno questo il nocciolo del problema. La domanda è: sarà in grado l’intelligenza artificiale di superare quella umana? E se si, quali possono essere le conseguenze? Io naturalmente qualche idea ce l’ho, e la butto lì come innesco alla riflessione. L’intelligenza artificiale è in grado di viaggiare, nell’elaborazione dei dati e nella formulazione delle risposte, a una velocità infinitamente superiore a quella del cervello umano. Il suo vantaggio è questo. Il suo handicap, paradossalmente, è invece costituito dal fatto che non può sbagliare, almeno in relazione alle cose per le quali è programmata. E noi sappiamo che le conquiste umane, l’evoluzione stessa, si basano sulla possibilità di errore: ogni mutazione biologica è frutto di un errore di duplicazione cromosomica, ogni grande scoperta è frutto di uno scarto da quella che appariva la giusta strada. Quindi: l’intelligenza artificiale, per complessa che sia, non dovrebbe arrivare a superare quella umana. Ma senz’altro può mettere fuori gioco quest’ultima, proprio in ragione della velocità. Abbiamo sempre più bisogno di questa velocità, ma a questo punto l’intelligenza artificiale è diventata autoreferenziale ed è essa stessa a indurre questo bisogno, lasciandoci sempre più indietro. Già si stanno creando le condizioni per le quali non riusciremo più a tenerla a bada. Inoltre, proprio perché organizzata in modo da non contemplare l’errore, l’intelligenza artificiale sviluppa e impone una logica tutta sua, lineare, con la quale interpreta un mondo che lineare non è affatto, che è invece dominato da forze che sfuggono a qualsiasi riduzione ad algoritmo, e abitato da uomini che agiscono in maniera tutt’altro che logica e prevedibile. L’unica cosa che possiamo ragionevolmente prevedere è che, comunque la si metta, non ne verrà fuori nulla di buono.

Buoni propositi 042. Altro argomento poco affrontato all’ora di cena, ma anche in tutte le altre, è quello del sovrappopolamento del pianeta, In questo caso a indurci a glissare sono diversi fattori. Intanto la convinzione che si tratti di un fenomeno ineluttabile, rispetto al quale non c’è politica o scelta che tenga, e che sarà semmai la natura stessa presto o tardi a farsene carico. Poi il disagio, un fastidio da un lato e quasi un senso di colpa dall’altro, che proviamo nel renderci conto come in realtà dalle nostre parti sia in atto già da un pezzo un decremento demografico, mentre altrove, nelle aree che un tempo erano definite sottosviluppate e che in gran parte sono effettivamente tali ancora oggi, la direzione si inverte. Di oggettivo ci sono solo alcuni dati: ci stiamo approssimando agli otto miliardi, e a questo ritmo il prossimo capodanno li avremo superati, perché la popolazione mondiale è cresciuta nell’ultimo anno di oltre ottantun milioni: negli ultimi trentacinque anni è rimasta pressoché stabile in Europa, è più che raddoppiata in Africa, è aumentata di oltre il cinquanta per cento in Asia e in America Latina, e del quaranta per cento nell’America del nord. In Italia il saldo demografico è negativo da dieci anni, il che significa che la popolazione è calata sotto i sessanta milioni, dopo averli abbondantemente superati: quello naturale, il rapporto cioè tra nati e morti, è stato lo scorso anno quasi di uno a due, le nascite sono state la metà dei decessi. Sulle cause di questi differenti fenomeni non mi dilungo, dovrebbero essere appunto il sale della discussione.

Lo stesso vale per le proiezioni: quelle più catastrofiche parlano di una popolazione mondiale che toccherà i dodici miliardi alla fine di questo secolo, altre più ottimistiche si fermano a quasi nove miliardi, prevedendo un picco verso la metà e un calo considerevole nell’ultimo quarto. Ma anche questa seconda prospettiva non modifica significativamente la portata del problema, perché il peso della popolazione è già oggi insopportabile per il globo, e considerando anche lo stato attuale di sfruttamento delle risorse, a partire dall’acqua, la stima di quello ottimale per ripristinare un equilibrio non va oltre i tre miliardi. E non basta appellarsi ad una distribuzione più equa delle risorse: comunque divisa, la torta rimane quella.

Bene, tutte queste cifre spiegano il perché del nostro senso di impotenza e il modo in cui la crescita si differenzia spiega invece il perché del nostro disagio. In sostanza: il decremento demografico in teoria ci va bene, solo vorremmo che si verificasse anche nelle altre parti del mondo. Ma il decremento comporta anche un invecchiamento medio della popolazione, quindi sempre meno lavorativi attivi in grado di garantire il benessere di quelli inattivi. Il che rimanda immediatamente al tema dell’immigrazione. In Italia, ad esempio, abbiamo bisogno di importare forza-lavoro, ma in questo modo importiamo anche culture non sempre compatibili con la nostra (con buona pace dei multiculturalisti): per garantire la sopravvivenza di quest’ultima (sempre che lo si ritenga necessario, e anche su questo le opinioni sono molto diverse) dovremmo invece favorire una politica di incentivazione delle nascite, sul tipo di quelle adottate nei paesi del nord Europa. Contravvenendo però in tal modo a quello che la natura suggerisce. Insomma, un gran pasticcio, del quale siamo decisamente poco consapevoli e meno ancora informati.

Buoni propositi 053. Si parla molto, invece, anche troppo, di identità di genere, e l’impressione è che lo si faccia sempre in termini sbagliati, o quantomeno ambigui. In realtà se ne sente parlare quasi esclusivamente da chi questa identità la vive come un problema, ciò che di per sé sarebbe più che giusto, o da chi l’ha ridotta allo stato “liquido” oggi tanto di moda, e questo invece ci irrita. A disturbarci sono prima di tutto i modi e i luoghi della discussione, l’esasperazione isterica e i salotti televisivi, la sua resa totale alla spettacolarizzazione. Nemmeno questo è dunque un argomento conviviale, sia pure per tavolate ristrette, perché affrontarlo ci mette in difficoltà: da un lato c’è sempre il rischio di urtare la sensibilità di qualcuno direttamente o indirettamente interessato, dall’altro abbiamo timore di essere fraintesi, oppure proviamo la sensazione di tradire la nostra vocazione “di sinistra”, progressista, che dovrebbe vederci disponibili alle più ampie aperture. Finisce così che quando capita di sbatterci contro liquidiamo la faccenda o assumendo posizioni ideologizzanti o trincerandoci sarcasticamente dietro banali battute.

Questo accade perché ancora una volta un problema reale, quello di educare alla parità e al rispetto delle differenze e a considerare le diversità un valore, è stato estremizzato sino all’affermazione dell’inesistenza di differenze tra i sessi biologici, dalla quale discenderebbe la possibilità di variare a piacimento la propria identità sessuale. Leggevo ieri che in Danimarca dall’anno entrante l“appartenenza” sarà anche ufficialmente quella “percepita” dal soggetto, sarà cioè sufficiente dichiararla per cambiare il proprio stato anagrafico. Le ricadute di carattere sociale, giuridico e psicologico sono difficili da immaginare, e infatti sino ad oggi l’esercizio è stato proprio quello di provare a immaginarle, troppo spesso però, anzi, quasi sempre, fermandosi al livello della barzelletta o del paradosso. Anche se personalmente non ritengo che al problema si debba dare una priorità assoluta (contrariamente a quanto abbiamo visto accadere con la legge Zan, che ha provocato addirittura tumulti in parlamento, mentre all’atto della discussione e dell’approvazione di una legge sull’eutanasia Montecitorio era deserto), forse varrebbe la pena di cominciare a trattarlo con un po’ di serietà, lasciando da parte ogni “politicamente corretta” ipocrisia.

Buoni propositi 064. In questo gioco delle ipocrisie la “sinistra”, o quel che ne resta, o quel che ancora si autoetichetta tale, senza dubbio primeggia. Non avendo uno straccio di idea, di progetto, di visione del presente e tanto meno del futuro, vive di continui apparentamenti, insegue movimenti e campagne d’opinione specifiche, cerca di stare al passo con un mondo in trasformazione ma non ha chiara nemmeno la direzione in cui muoversi. La miopia relativa al presente e al futuro nasce dalla rimozione del passato. Voglio dire che la sinistra, quella eterodossa non meno di quella tradizionale, non ha mai fatto una pulizia reale nella propria storia: nel secondo caso l’ha semplicemente messa in soffitta pensando di potersi riconvertire (in cosa?) senza pagare alcun dazio, nel primo continua a trastullarsi con scampoli di nostalgie o con cause abbracciate senza alcuno spirito critico, per avere una qualche bandiera, uno slogan, una kefiah da esporre, e un nemico su cui scaricare i mali del mondo. Mi piacerebbe poter sognare una “rifondazione” della sinistra a partire da alcune basilari prese d’atto, ad esempio quella relativa all’inesistenza di una “natura umana” positiva (alla Rousseau, per intenderci) e alla “naturalezza” invece delle soluzioni culturali escogitate dall’uomo per garantirsi la sopravvivenza, con tutto quel che nel bene e nel male ne è conseguito: ma sembra proprio si continui a viaggiare nella direzione opposta. Anzi, a marciare sul posto. L’antisemitismo sinistrorso riemergente e la riscoperta di un’antropologia ideologizzata (i pacifici cacciatori-raccoglitori del paleolitico, le società libere dei nomadi) sono lì a confermarmelo.

Questo si, è un argomento da tavolata, anche di fine anno. Lo è stato, almeno, ai vecchi tempi prepandemici (gli anni ormai sembrano secoli), quando le tavolate si facevano e parlare di sinistra sembrava avere ancora un senso. Potrebbe essere l’occasione per riprendere in piccolo l’abitudine, e il senso reinventarlo. Mi riferisco naturalmente non alla serata, ma all’anno che verrà, anche se nulla vieta di anticipare un po’ i tempi. Ma in questo caso va fatta attenzione al menù: la discussione sulla sinistra si concilia bene solo col cotechino.

Buoni propositi 075. Il cotechino rappresenta un piccolo tassello di conservazione della memoria. Rimanda al maiale, alla sua importanza nell’economia e nella dieta contadina, ai significati positivi che in quella alimentazione rivestivano i cibi molto grassi e alle simbologie ad essi connesse. Questo della conservazione della memoria è un altro tema particolarmente consono alla serata. In fondo si celebra un rituale tradizionale di rinnovamento, che sia pure in tempi diversi è presente presso tutti i popoli della terra.

Due letture recenti mi hanno indotto, attraverso sollecitazioni molto differenti, a soffermarmi proprio su questo tema. Nel saggio La memoria del futuro Alexander Stille analizza i modi in cui, nel vorticoso avvicendarsi dei mutamenti tecnologici, il nostro rapporto con il passato si sta trasformando. Questo rapporto dipende da come il passato lo registriamo, lo fissiamo, ed è naturalmente molto diverso farlo attraverso la tradizione orale, con la scrittura o con le tecnologie informatiche. Ciò può sembrare lapalissiano, ma la cosa si fa interessante quando consideriamo ad esempio la differente idea di conservazione presente nelle culture architettoniche del legno rispetto a quelle della pietra. I giapponesi, per citare un caso, ricostruiscono ritualmente ogni vent’anni tale e quale un tempio scintoista realizzato nel VII secolo d.C., e affidano la patente di antichità piuttosto all’idea che alla sua espressione concreta. Allo stesso modo in Cina prevale la cultura della copia: dal momento che la maggior parte dei dipinti cinesi erano eseguiti su carta, l’opera degli artisti maggiori ci è stata tramandata nei secoli attraverso la realizzazione di copie. Al contrario, in Occidente hanno prevalso tecniche come l’affresco, la pittura a olio e, in campo architettonico, le costruzioni in pietra. Ha prevalso la cultura dell’“autenticità” materiale.

Buoni propositi 08Ora, questo ha qualcosa a che vedere con le lenticchie e tutto il resto? In un certo senso si, e mi riferisco soprattutto alle modalità conservative orientali, dal momento che quelle che chiamiamo tradizioni son in realtà delle copie, nel nostro caso nemmeno tanto fedeli, di costumi antichi. Ma quel che trovo interessante non sono tanto i modi quanto i moventi alla conservazione. Voglio dire: ha senso tenere in vita queste testimonianze del passato, quando poi nella realtà, al di là di un interesse puramente affettivo o nostalgico (quando va bene), esse non ci parlano più?

Me lo chiedevo proprio ieri, dopo che gli effetti collaterali di una ricerca sul web mi avevano condotto ad un sito che ospitava storie a fumetti complete, tratte dal Vittorioso dei primi anni Cinquanta. Le ho scaricate tutte, di alcune avevo un vago ricordo, altre le ho scoperte per la prima volta, ed emanavano lo stesso fascino che mi aveva ammaliato quando le leggevo a sette o otto anni. Mi è parso di aver ritrovato un tesoro, ma appena l’entusiasmo ha cominciato a scemare ho realizzato che quel tesoro non era più spendibile, era tutto in valuta fuori corso, non avrei potuto trasmetterlo nemmeno a mio nipote.

A questo volevo arrivare. Il cotechino ci sta benissimo, e così i ravioli, o le lasagne, o qualsiasi altro piatto legato al rituale celebrativo. Ma manca l’ingrediente principale, non dico la fame, perché non l’ho mai conosciuta, ma almeno l’eccezionalità del menù, quella che creava e giustificava l’attesa. Vale lo stesso per la storia. Non c’è più fame di storia, perché la storia era un propulsore per l’avvenire, e oggi non c’è più avvenire. Quella che consumiamo è storia ripulita, precotta, offerta in confezioni plastificate, che si può congelare e scongelare a piacere. Spesso non nemmeno tale, è soltanto “memoria”, che oggi tira molto di più. Soprattutto ci viene servita in mezzo a innumerevoli altri piatti altrettanto appetitosi, e i gusti si perdono e si confondono. Qual è allora la vera ragione per la quale ci ostiniamo nell’opera di “conservazione”?

Mi sembra a questo punto che il menù sia già sin troppo ricco: può riuscire pesante. Ma volendo si potrebbero introdurre delle varianti: i temi cui attingere non mancano, soprattutto se si scende ai piatti poveri, e vanno dallo stato pietoso dell’informazione alla rinnovata fenomenologia della stupidità, dal breve risveglio ambientalista allo stordimento culturale ed emozionale da pandemia.

Manca solo il dessert, e quello lo offro io, assieme alla promessa (alla minaccia?) che su questi temi tornerò.

Buoni propositi 09Dunque. Due settimane fa sono andato a prendere mia figlia Chiara che sbarcava a Linate. Tra ritardi e controlli sanitari rafforzati ho atteso più di un’ora davanti al varco d’uscita, cosa che si verifica ogni volta e che tutto sommato non mi spiace più di tanto, perché mi consente una panoramica spesso assai divertente sul mondo dei traveller’s. Stavolta però a guastarmi il piacere c’erano sei cani, che giustamente per tutto il tempo dell’attesa hanno fatto cagnara, con sommo compiacimento dei loro padroni, che al contrario dei cani hanno subito fraternizzato. Non mi era mai capitato prima, credevo anzi che fosse loro interdetto l’accesso. Non solo, ma quando finalmente i passeggeri sono sbarcati, all’apparire dal varco il loro grido di gioia era rivolto non a genitori o fratelli o fidanzati, ma ai cani, e così anche il primo abbraccio. Ora, io mi chiedo, e vi chiedo: tutto questo, vorrà dire qualcosa?

Avete un anno per pensarci. Oppure, se pensare vi costa troppa fatica, prendetevi un cane.

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Sulle tracce di Arnold Henry Savage Landor

di Paolo Repetto, 24 febbraio 2020 – vedi Album Sulle tracce di Arnold Henry Savage Landor

Sulle tracce di Arnold Henry Savage Landor copertinaUna volta esistevano personaggi di questo calibro: un po’ perché così ci nascevano, un po’ perché il mondo fino ad un secolo fa consentiva (o imponeva) di essere tali.  Di essere cioè veri viaggiatori, veri artisti, veri spiriti liberi, di inseguire la propria insaziabile curiosità solo muovendosi, possibilmente lenti, preferibilmente a piedi, e di vederlo davvero il mondo, e di ritrarlo da dentro.

Arnold Henry Savage Landor il mondo lo ho visto, e ritratto, praticamente tutto. Non aveva terraferma. Nato a Firenze (1865) in una famiglia inglese, si è formato sui libri di Verne e sui diari degli esploratori, ha coltivato la sua passione per la pittura negli studi di artisti affermati, ha cominciato a viaggiare giovanissimo in Europa e nei paesi nordafricani. A vent’anni varca l’oceano e per qualche tempo vive dell’attività di ritrattista negli Stati Uniti. Quindi attraversa il Pacifico per approdare in Giappone (1889), e anche qui si impone subito, viene chiamato addirittura a dipingere alla corte del Mikado: ma non è quel mondo a interessarlo. Trova invece i suoi soggetti ideali nell’isola di Hokkaido, tra gli Ainu. E ancora, in Corea (all’epoca praticamente sconosciuta agli europei), e poi in Cina e finalmente in Australia (1891), dove ritrae il primo ministro. Breve riposo in Inghilterra (mostra direttamente i suoi quadri alla regina Vittoria), poi nuovamente in Asia, nel Tibet “proibito”, dove viene catturato dai briganti e torturato. Riesce a scansarla per un pelo e torna in Cina, nel frattempo sconvolta dalla ribellione dei Boxers (1900): di lì in Russia, poi in Persia, in India e nelle Filippine (1901). Ancora negli Stati Uniti, e di qui nuovamente in Africa (in Abissinia fa un ritratto del Negus). Gli manca l’America Latina, ma rimedia subito: Mato Grosso e Rio delle Amazzoni (1911-12), canoa, mosquitos, serpenti, rapide. In Europa torna giusto a tempo per partecipare alla guerra (sul fronte italiano) e per distinguersi come progettista di armamenti avanzati (aerei e carri armati).

Alla fine del conflitto la salute non lo sorregge più. Rinuncia ai viaggi, fa vita semi-mondana tra Roma e Firenze, conosce (e dipinge) reali e diplomatici e attrici al tramonto. Tramonta anche lui, prima di toccare i sessant’anni, lasciando vivacissimi resoconti dei suoi viaggi (chissà perché, mai tradotti in italiano) e un enorme patrimonio iconografico, che ha però trovato scarso spazio nei musei, forse per le ridottissime dimensioni della maggior parte delle sue opere.

Landor riassume perfettamente le caratteristiche dei semi-irregolari del suo tempo. Condivide con Guido Boggiani l’amore per la pittura “documentaria”, per le esplorazioni e per l’etnologia (oltre ad un ironico disprezzo per D’Annunzio), con Albert Robida la passione per le macchine belliche futuristiche, e con l’alter ego di quest’ultimo, Saturnino Farandola, le avventure in ogni angolo del globo.

È coetaneo anche di Gorkji, di London e di Knut Hamsun, e a modo suo esprime il loro stesso spirito vagabondo. Lo fa naturalmente all’inglese, tenendosi in perfetto equilibrio malgrado poggi un piede sulla strada e l’altro sugli scaloni dell’alta società.

Anche nella pittura si muove controcorrente. Ignora tutti i fermenti impressionistici e post-impressionistici, non si cura di rivoluzioni tecniche ed estetiche. La pittura non è la sua vita. Non gli basterebbe, ha ben altro con cui riempirla. L’arte è uno strumento al servizio della sua curiosità, le dà corpo e la riassume. È antropologia per immagini, che si sovrappone ai racconti di viaggio e acquista poi una dignità autonoma. Landor affida la testimonianza agli occhi (e ai pennelli) anziché all’obiettivo, fissa figure, situazioni e ambienti sul legno delle tavolette anziché sulle lastre fotografiche. Può sembrare una scelta snobistica, in realtà è motivata proprio dall’equilibrio tra le sue passioni. Ed è una scelta che alla fine paga. Perché quelle immagini, a differenza di quelle fotografiche, non sono invecchiate col tempo. Gli Ainu di Landor sono nostri contemporanei, mentre quelli delle rarissime fotografie dell’epoca sono scomparsi da oltre un secolo. La sua arte è inattuale, ma inattuale non significa superata: significa mai attuale, ovvero sempre fuori dal tempo e dalle mode.

Che è quanto all’arte si dovrebbe chiedere.

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Quelli che dormono sulla montagna

di Paolo Repetto, 2012

Quando i Viandanti delle Nebbie si misero alla ricerca di riferimenti ideali si imbatterono quasi per caso negli Yamabushi. I riferimenti ideali sono importanti, soprattutto se sono abbastanza lontani nel tempo e nello spazio da rimanere ideali. Per noi gli Yamabushi erano perfetti: stavano dall’altra parte del globo ed erano praticamente spariti dalla circolazione da almeno un secolo e mezzo. In più, anche in piena New Age li conosceva nessuno (tanto che per un attimo l’idea di riesumarli ci ha sfiorato, e resto convinto che avremmo trovato adepti) e i loro rituali erano impegnativi solo sul piano fisico. Adoravano come noi le montagne, le salivano come noi, come noi le rispettavano, senza provare alcun bisogno di domarle e di sconfiggerle. Non c’era da cambiare una virgola nel nostro atteggiamento e nei nostri comportamenti. Gli Yamabushi sono quindi rimasti giustamente in Giappone, ma il loro spirito ha camminato e cammina tuttora con noi, le rare volte che ancora riusciamo ad accostarci ai monti. E, in fondo, anche quando non riusciamo a farlo.

Il testo che segue è tratto dalla prima presentazione del movimento, comparsa in forma ridotta sulla rivista “Sottotiro” e poi raccolta nell’opera fondamentale del sublime maestro Olao P., gli “Appunti per una riforma della filosofia Yamabushi”. Da allora la filosofia yamabushi non è stata riformata, il nostro modo di pensare la montagna, e la vita, forse si.

A differenza di quanto accade in Occidente, il mondo orientale sviluppa precocemente un sentimento positivo della sacralità della montagna, e lo mantiene poi intatto. Il culto delle cime e delle alture è testimoniato nell’Asia orientale già a partire dall’età prestorica, ed è diffuso un po’ dovunque: ma assume un rilievo particolarmente significativo nella cultura religiosa del Giappone. La geografia delle montagne giapponesi disegna un reticolo sacro di derivazione shintoista. I monti sono considerati i troni e le dimore dei Kami, le divinità shinto, che scendono benevole in pianura durante la stagione del raccolto e si ritirano a riposare sulle cime nei mesi più freddi. Tra le vette primeggia naturalmente il Fuji, oggetto da sempre di una timorosa venerazione (in fondo è un vulcano, e fino alla fine del settecento era piuttosto vivace), nonché meta di pellegrinaggi che possono svolgersi con le modalità e le finalità più diverse. Gli adepti della setta shinto Dusokyo lo scalavano ad esempio traducendo man mano l’ascensione fisica corporea in ascesi spirituale, invocando di tappa in tappa la purezza della vista, dell’udito, dell’odorato, del sentimento, e infine quella della percezione non corporea.

La diffusione del buddismo, a partire dal VI/VII secolo, avvenne attraverso la costante contaminazione con lo shintoismo preesistente, facilitata dal comune atteggiamento di rispetto e di attenzione nei confronti della natura. Ebbe successo in particolare una versione autoctona del buddismo, quella Shingon, più esoterica e settaria, e senz’altro più congeniale alla mentalità e alla cultura nipponica, che cercava la via dell’illuminazione nell’isolamento, nella contemplazione della natura e del sé interiore e nelle pratiche di resistenza fisica. Per tutte queste cose la montagna era evidentemente l’ambiente ideale. Si moltiplicarono quindi le scelte di vita isolata e ascetica e i romitaggi negli anfratti di rilievi particolarmente suggestivi e selvaggi, come il monte Hiei, vicinissimo a Kyoto, o il monte Koya, prossimo ad Osaka. Sempre nei pressi di Osaka sembra essersi svolta nel VII secolo d.C. la lunga esperienza eremitica e sciamanica di En-no-Gyoja, figura semi-leggendaria alla quale veniva attribuito, oltre alle doti taumaturgiche e alle reincarnazioni plurime (con vite anteriori sempre interessanti, come imperatore del Giappone o discepolo diretto del Budda), il merito di aver salito per primo (o meglio: di essere volato su) la vetta del monte Fuji. En-no-Gyoja ebbe moltissimi seguaci. I primi e i più antichi agivano isolatamente, vivevano come il maestro da perfetti eremiti ed erano conosciuti con il nome di hijri (i santi). Poi, poco alla volta, seguendo una parabola simile a quella del primo monachesimo cristiano, cominciarono a riunirsi in gruppi e a darsi rigide regole disciplinari, sotto la guida di sendatzu, o capi spirituali.

Dalla fusione di diversi riti shinto col buddismo nacque quindi lo Shugendō (la via dei cimenti: shu è l’illuminazione iniziale, gen la comprensione totale, dō la via che porta al Nirvana). Lo shugendō era praticato dai “maghi della montagna” o yamabushi (“i bivaccatori”,”coloro che giacciono sulle montagne”), i quali ben presto si divisero in due scuole, quella più rigorista del monaco Shobo (IX secolo) e quella “riformata” del monaco Zoyo (XI secolo). I seguaci della prima badavano piuttosto all’interiore redenzione che all’acquisto di poteri, all’identificazione con il Buddha cosmico che alla dominazione dei demoni: quelli della seconda erano più attenti agli aspetti liturgici e ritualistici, erano riuniti in confederazioni monastiche associate a singoli templi e coinvolte nelle vicende politiche. La versione più radicale di questo ramo dello Shugendō contemplava anche lo studio e la pratica delle arti marziali, e finì per assimilare i suoi praticanti ai monaci guerrieri delle tante sette che si confrontavano, destreggiandosi tra la corte imperiale e lo shogunato, nella tormentatissima storia del Giappone. (Balza agli occhi il parallelismo con la vicenda francescana, la divisione in spirituali e conventuali. A dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che si tratta di uno schema ricorrente, di un processo comune a tutti movimenti). Non sono questi però gli aspetti dello spirito yamabushi che a noi interessano.

Ciò che davvero importa è che tutti condividevano una ideologia proto-alpinistica, che prevedeva lunghi periodi di permanenza in montagna, pratiche ascetiche spinte e anche forme di alpinismo quasi acrobatico. Lungo alcuni strapiombi si trovano ancora oggi pioli o catene di ferro vecchi di secoli, che agevolavano il superamento dei punti critici. Ma, soprattutto, gli Yamabushi cercavano nelle montagne la rigenerazione spirituale non aggredendole, non cavalcandole in rapide performances fisiche, ma vivendole con lentezza, con un approccio riverente e intimo al tempo stesso.

Il rituale tipico dell’ascensione era complesso e bizzarro, ricco come abbiamo visto di simbologie legate ai gradi dell’ascesi verso la perfezione. Facendosi preventivamente flagellare e purificare dalle acque gelide di una cascata, lo yamabushi risaliva poi i vari livelli della realtà: progressivamente si identificava con l’inferno, il mondo degli affamati, delle belve, dei titani e degli uomini. Via via che si inerpicava, calzando sandali e munito di un bordone, si fermava ai vari stupa per compiervi il sacrificio del fuoco e per recitare mantra o formule sacre evocanti i poteri delle divinità.

Quando il pellegrinaggio non era solitario, ad un certo punto della salita tutti i componenti del gruppo venivano sospesi a testa in giù sopra un precipizio, perché contemplassero la natura transeunte di tutte le cose e si pentissero del male compiuto. Gli Yamabushi raggiungevano infine una capanna o un tempietto, situati di norma presso le rocce sommitali, spesso appesi su un alto burrone isolato, vi si rinchiudevano nel buio assoluto e immaginavano di morire e di entrare nel grembo della montagna stessa. Nell’ultima notte del rituale essi bruciavano ceppi rappresentanti le ossa del corpo precedente, riducendo così in cenere quanto rimaneva delle loro passioni e illusioni. Il mattino seguente, al momento di scendere dalla montagna, si rannicchiavano in posizione fetale e balzavano in piedi con un grido acuto, simbolo del momento estatico della rinascita e dell’ingresso in una nuova vita che li avrebbe condotti all’illuminazione.

Durante il periodo medioevale molti Yamabushi, dopo aver acquisito poteri ascetici nei luoghi consacrati dello Shugendō, si dedicarono a sviluppare presso le comunità di valle il culto nei confronti di una particolare montagna delle vicinanze. Tra le cime più venerate c’erano il Dewa Sanzan e lo Yudono, e soprattutto lo Ontake-san. A piccoli gruppi di due o tre persone, indossando tuniche bianche, giravano di paese in paese annunciando il loro arrivo col suono caratteristico di buccine, le horagai, ricavate da grandi conchiglie. Erano ricercatissimi come indovini, guaritori, maghi e astrologi. Diffondendosi in questo modo, lo shugendō divenne la forma di religione predominante tra la gente umile del Giappone, fino a quando la restaurazione nazionalistica Meji del 1868 bandì ogni credenza diversa dallo shintoismo puro.

Fu però la rapidissima industrializzazione del paese a liquidare l’arcaica funzione degli Yamabushi. Essi sopravvivono oggi solo come associazioni folklorico-religiose, che hanno lo scopo di mantenere vive antiche tradizioni, come quella dei sacri fuochi. Anche i pellegrinaggi al Fuji continuano, ma sotto la forma di un perenne flusso turistico d’alta quota, agevolato anche da una linea ferroviaria che si inerpica sin oltre la metà della salita. La più sacra delle montagne del Giappone, il luogo per eccellenza del divino e dell’autoliberazione e il simbolo stesso dell’identità nipponica, è diventata, come i grandi santuari occidentali, il più classico dei non-luoghi.

 

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