Pubblicare?

di Paolo Repetto, 29 ottobre 2025

Un anatema ebraico, pochissimo conosciuto, recita: “Possa il mio nemico pubblicare un libro”. Non è un augurio, anche se lo sembra, né una professione di tolleranza: è una maledizione. Ora, io non so quanto questo detto sia antico o solo vecchio, e ignorando la lingua ebraica non posso che affidarmi alla fedeltà della traduzione nella quale lo conosco: ma so che poter determinare l’epoca in cui è stato coniato sarebbe tutt’altro che indifferente. Nel caso fosse molto antico infatti quel “pubblicare” andrebbe inteso come “scrivere”, piuttosto che diffondere tramite amanuensi in più copie, e per un popolo che è stato definito “il popolo del libro” mi pare un po’ fuori luogo. Anche se è poi vero che il sospetto nei confronti della scrittura era presente pure nella cultura greca (vedi Platone), e che per gli ebrei poteva essere tanto più giustificato, almeno nei confronti della scrittura “profana”, dall’esistenza di un testo sacro dettato da Dio stesso, da considerarsi quindi rispondente a ogni domanda, esauriente ogni dubbio, definitivo (salvo poi darne infinite interpretazioni).

Propendo dunque piuttosto per la seconda ipotesi, che quantomeno rende il concetto più funzionale a ciò di cui intendo parlare. Il problema a mio giudizio non sta infatti nello scrivere, ma proprio nel “pubblicare” (operazione che assume ben altro significato dopo l’introduzione della stampa), ovvero nel divulgare quanto si è scritto. Sono due cose diverse, mi pare ovvio, perché la seconda presuppone la prima – per ora, in attesa degli sviluppi dell’AI – mentre non vale il contrario: e tuttavia quasi sempre nel linguaggio corrente i due verbi vengono usati come sinonimi, mentre tali non sono. La differenza sta innanzi tutto nell’intenzione che muove alla scrittura, e poi nei contenuti e nella destinazione, che comportano scelte particolari nei modi e nei mezzi in cui sarà diffusa.

Voglio dire che, certo, chi scrive lo fa di norma per relazionarsi col presente e per lasciare traccia nel futuro, ma la scrittura può essere utilizzata anche in forma privata, per memorizzare, per chiarirsi le idee e metterle in ordine, per tenere un diario, per accompagnare un gesto o un regalo, oppure per fare arrivare la propria voce ad amici o confidenti, quando magari si diano poche possibilità di frequentazione. Ad esempio: l’uso che ne faccio io in questo momento, sfruttando una tecnologia che mi permette di dialogare facilmente con uno sparuto gruppo di persone che condivide i miei interessi, ovvero le mie domande e i miei dubbi, rappresenta il limite estremo dell’utilizzo “privato”.

Se si va oltre si accede invece ad un’altra dimensione, quella appunto del “pubblicare”, che come il termine suggerisce significa rendere intenzionalmente pubblico il proprio pensiero. E qui entrano in gioco finalità e ambizioni diverse. Io vorrei occuparmi nello specifico del caso di cui l’intenzione è di orientare o influenzare il pensiero altrui, offrendo al maggior numero possibile di sconosciuti delle “risposte”, delle interpretazioni del mondo e della storia che non possono essere controbattute direttamente, come avverrebbe in un colloquio. Nel formato stampa queste risposte assumono un’autorevolezza che è suggerita già visivamente dall’ordine, dalla nitidezza, dall’irreggimentazione delle righe e dei periodi sulla superficie della pagina. Insomma, la parola stampata incute rispetto, e questo consente di esercitare in qualche modo un potere. E anche se i mass media e le nuove tecnologie e modalità comunicative stanno rendendo obsoleta la stampa, credo che per il momento, e almeno per la mia generazione e per quella immediatamente successiva, l’autorevolezza del pensiero sia ancora legata alla divulgazione cartacea.

Naturalmente ci sono anche, e oserei dire soprattutto, altre finalità: quella pura e semplice di ottenere una qualche visibilità, ad esempio, o di trovare un modo per sbarcare il lunario: oppure, un po’ più ambiziosamente, di combinare il tutto e di proporre, alla maniera di Balzac, sia pure attraverso la finzione, un ampio quadro della reale condizione umana. Sarà il tempo poi a decidere della rilevanza e della sopravvivenza di qualsiasi testo, a farne o no “un classico”, o almeno un riferimento che vada oltre il presente.

Ma mi sto perdendo nelle ovvietà. Ciò che intendevo dire è che attualmente tanto la narrativa, più o meno “impegnata”, quanto la saggistica, rientrano allo stesso modo nei circuiti di un “mercato culturale” che ha acquisito una enorme rilevanza sia finanziaria che politica, e rispondono alle sue leggi, in primis a quelle della “spettacolarizzazione” (un mercato culturale in realtà è sempre esistito, ma senz’altro non aveva come caratteristica dominante quella della spettacolarità). Basti pensare ai tour promozionali cui senza alcun ritegno gli autori si sottopongono, compresi gli scienziati e i filosofi, andando a far marchette nei programmi televisivi, intervenendo ai festival o agli altri innumerevoli “eventi” imbanditi per platee di consumatori totalmente passivi e acriticamente fidelizzati, creando quelli che oggi si chiamano podcast, ecc….

Io ritengo esista però anche una terra di nessuno, quella che ospita i libri scritti non per fornire risposte preconfezionate, ma per suscitare domande, alle quali poi il lettore cercherà di rispondere con un percorso tutto suo. Questi sono per me i soli libri meritevoli di essere “pubblicati”, e non è qui il caso di dettagliare i criteri sui quali baso la distinzione. Emergeranno da soli nel prosieguo del discorso.

Vorrei però fosse chiaro che non auspico alcun tipo di censura preventiva o di esclusione o di protezionismo. Quello culturale è l’unico ambito nel quale sposo il libero mercato. D’altro canto ritengo che leggere e scrivere siano, almeno in linea di principio, le attività meno pericolose per sé e nocive per gli altri, e tra le più piacevoli, che un essere umano può svolgere. L’importante per il “consumatore” è avere sempre ben presente che di un “mercato” appunto si tratta, nel quale i banchi e gli scaffali traboccano di prodotti tra i quali può scegliere. Per come la vedo io, però, per poterlo fare è necessario auto-educarsi a un “consumo culturale” consapevole, e farlo per prove ed errori, prendendo le distanze da tutte le azioni “promozionali” di incentivazione alla lettura. Chi deve essere spinto o incentivato, per non dire precettato, a farsi un’idea, non sarà mai capace di scelte proprie.

Esistono dunque i normali prodotti da supermercato, quelli perennemente in offerta, di per sé abbastanza innocui, perché in fondo nessuno ci obbliga ad acquistarli e a leggerli. Ce ne sono invece altri che sempre all’interno di questo mercato si arrogano un ruolo di orientamento del gusto, si propongono come “bio”, garanti della nostra salute spirituale, e ci gratificano vellicando la nostra ambizione a sentirci al passo coi tempi, o anche un pochino avanti: questi, a dispetto della loro più o meno esplicita ambizione a diffondere sempre nuove e definitive “verità”, andrebbero comunque almeno conosciuti, se non altro per prenderne consapevolmente le distanze. E infine ne esistono altri ancora, che negli scaffali vengono confusi con tutto il resto, ma che bisogna imparare a riconoscere come genuini alimenti per la nostra crescita.

In questa ultima tipologia rientrano senz’altro le opere di George Steiner. Steiner è, assieme a Isaiah Berlin, l’ultimo dei veri “maestri” del ‘900. Uno che scrive: “Quello che mi sentirei di sostenere con fervore è questo: la fede (qualsiasi fede, n,d,r), o l’assenza di essa è, o dovrebbe essere, la parte costitutiva più privata, più gelosamente custodita di un essere umano […]. Pubblicizzare svilisce e falsifica irrimediabilmente il proprio credo”.

Proprio da un suo libro, significativamente titolato I libri che non ho scritto (come gli invidio questo titolo, lo avevo in mente da decenni!), arrivano l’anatema di cui sopra e lo stimolo che mi spinge ora a parlarne.

Nel compendio di uno dei saggi mai scritti, ma fatti assaporare al lettore almeno in forma di spuntino, Steiner sintetizza l’opera e il pensiero di Joseph Needham, eccentrico erudito novecentesco, grande sinologo, che mezzo secolo fa viaggiava ancora sulla cresta dell’onda. Io stesso ho sempre riservato all’unico volume che possiedo del suo Scienza e civiltà in Cina (edizione inglese 1954, italiana Einaudi 1981; primo di tre tomi, s’intitola Linee introduttive e costava un patrimonio) una collocazione di prestigio nella mia biblioteca, sezione storia della scienza. Di Needham però, della sua vita, del suo impegno politico, conoscevo quasi nulla.

Steiner invece lo conobbe personalmente, ebbe diverse occasioni di confronto, e pur riconoscendone la sterminata cultura e tributandogli tutti i dovuti meriti non ne traccia un ritratto positivo. A motivare questo giudizio (che a suo tempo ha indotto Steiner a non redigere una biografia dello scienziato britannico per la quale aveva ricevuto dalla sua università un incarico) sono le posizioni pregiudiziali a partire dalle quali Needham affronta qualsiasi argomento. Il suo approccio è infatti sempre rigidamente vincolato all’ortodossia marxista, una ortodossia peraltro non fedele direttamente a Marx, ma alla lettura che di Marx era stata data, e imposta, dal leninismo. Steiner non mette in discussione le competenze scientifiche di Needham, che era in primo luogo un biologo, né la sua capacità di lavorare su un piano multidisciplinare: ma è il dogmatismo di fondo a respingerlo. Non può fare a meno di mettere in rilievo come tanto le competenze scientifiche quanto quelle umanistiche vengano sempre piegate non ad aprire nuove possibilità interpretative dei fatti, ma ad avvalorare una ipotesi iniziale precostituita. E sottolinea come le incursioni in ambiti specialistici sostanzialmente estranei ai suoi abbiano indotto Needham a prendere per oro colato ogni minimo e discutibilissimo indizio, biologico, antropologico, linguistico, architettonico, che sembrasse portare mattoni alla sua ricostruzione della Storia. Ricostruzione che seguiva le linee di un progetto dettato dal clima ideologico postbellico, dal compiersi della decolonizzazione, dagli entusiasmi del terzomondismo.

In pratica Steiner avverte, dietro il meritevole intento di Needham di portare l’occidente a conoscere e apprezzare l’origine extraeuropea di buona parte dei saperi scientifici e delle tecnologie che ne sono discese, il caparbio proposito di forzare l’entità del debito scientifico occidentale nei confronti di un’area che ai suoi tempi era ancora percepita come sottosviluppata, e sullo sfondo quello di capovolgere (non di equilibrare) le posizioni nel rapporto tra le diverse civiltà. La stessa operazione che trent’anni dopo avrebbe ripetuto Martin Bernal con Atena nera, per provare come la cultura greca classica sia assolutamente debitrice di quella africana e mediorientale (cosa di cui peraltro erano ben consapevoli già Pitagora, Erodoto e Platone).

Insomma, il problema di Needham non sta nell’attribuzione di questi contatti e rapporti e finanche di talune priorità, ma nel darne una interpretazione che nemmeno troppo larvatamente colpevolizza l’occidente: nel voler cioè convintamente affermare che in fondo l’occidente non può vantarsi di aver inventato nulla, e che si è limitato a depredare i patrimoni culturali di altre civiltà (come se il valore intrinseco di una conoscenza fosse nella priorità, e non negli sviluppi e nelle applicazioni che ne discendono). E peggio ancora, nel farlo producendo prove documentarie, linguistiche e archeologiche molto abborracciate e in parecchi casi del tutto irrilevanti, quando addirittura non false.

Ora, tutto ciò, per senza nulla togliere al fascino che i lavori di Needham e di Bernal senz’altro emanano, e al rilievo delle ipotesi interpretative che hanno introdotto, dovrebbe però guidare a una giustificata prudenza nell’accettarne il messaggio di fondo. L’assunzione di un altro punto di vista, o del punto di vista altrui, può scuotere e incrinare una lettura della storia consolidatasi sulla narrazione auto-apologetica dei vincitori, ma non necessariamente ne produce una nuova più veritiera. Semmai dovrebbe indurne una più interlocutoria, più possibilista, e non altrettanto assiomatica.

Questo mi porta a una considerazione solo apparentemente marginale, che concerne la differenza tra gli autori “enciclopedici” del Sette/Ottocento e i “tuttologi” imperanti ai giorni nostri. Enciclopedici, per intenderci, erano gli eruditi eclettici come Diderot, Goethe o Alexander von Humbolt, che ambivano a raccogliere in grandi sintesi lo stato delle conoscenze alla loro epoca. Erano curiosi di tutto, e questo li induceva a non dare nulla per scontato, a considerare i saperi di cui erano depositari come punti di partenza. A dispetto dell’ampiezza e della poliedricità delle loro opere, lo scopo che ad esse attribuivano era di indicare possibili percorsi per la ricerca futura, e anche quando fornivano spiegazioni lo facevano nella consapevolezza di produrre delle congetture. Chi avesse la pazienza di leggere oggi il Cosmos di Humboldt, che nel titolo sembra adombrare un’ambizione sterminata, si accorgerebbe che ogni affermazione viene sempre presentata come provvisoria, e che la frase più ricorrente è “Chissà cosa ci riserverà nel futuro la ricerca in questo campo”. E lo stesso scienziato-esploratore non si limitava ad auspicare, ma incoraggiava i giovani naturalisti a ripercorrere i suoi passi, per verificare e al limite contraddire le sue scoperte e le sue intuizioni, e a tale scopo donava loro anche le sue strumentazioni. Ma non è tutto: si accollò personalmente la pubblicazione dell’opera, e dati i costi enormi finì praticamente sul lastrico.

Tra gli enciclopedici e i tuttologi si collocano proprio Needham e Bernal, che esplorano ambiti nuovi, che producono nuove conoscenze relative ai rapporti e agli interscambi tra le civiltà extraeuropee e la nostra, ma non si limitano ad avanzare delle ipotesi, affermano delle tesi. Sono ancora enciclopedici nel senso che sostanziano le loro opere con l’apporto di saperi diversi, anche se padroneggiati con eccessiva disinvoltura, e spesso con molta approssimazione. Sono già tuttologi perché presumono di dare un significato diverso alla storia, affermandone categoricamente non possibilità interpretative inedite ma linee di sviluppo certe e inconfutabili. Non sono tali però a pieno titolo, almeno nel senso che do io al termine, perché ancora non si avvalgono delle più recenti tecnologie e modalità che portano dalla “pubblicazione” alla “pubblicizzazione” di massa. E alla spettacolarizzazione.

Con ciò vengo finalmente al dunque, prendendo tre nomi a caso (in realtà non proprio a caso) tra i più conosciuti oggi dal grande pubblico italiano: Pier Giorgio Odifreddi, Luciano Canfora e Alessandro Barbero. Già il fatto che possa citarli come largamente conosciuti, come “popolari”, la dice lunga: segna la differenza rispetto agli enciclopedici genuini alla Humboldt, conosciuti soltanto da chi li leggeva (ma questo valeva ancora per Needham e Bernal).

Nessuno può negare le competenze matematiche di Odifreddi, meno che mai chi come me nelle scienze matematiche è un asino; ma quando mi ritrovo in mano testi suoi che sconfinano nell’etica o nella politica mi si rizzano i capelli, perché sono trattazioni che non si propongono all’insegna dell’“io la vedo così”, ma a quella del “è così, e ve lo dimostro”. Odifreddi ha nel mirino soprattutto il cristianesimo, e prima ancora l’intera tradizione biblica, che a suo parere ha impresso alla civiltà occidentale, in tutte le sue componenti, il marchio di una distruttiva pulsione al dominio e alla negazione di ogni alterità: ma spinge costantemente la sua critica sino al limite dell’invettiva, e spesso anche oltre, facendo un solo fascio di tradizioni, istituzioni politiche e giuridiche, indirizzi economici, ecc … Col risultato di scorgervi dietro, a tirare le fila, sempre la lunga mano e il modus operandi del capitalismo, nelle sue svariate versioni pre-moderne e poi coloniali, imperialistiche, liberistiche, liberalistiche e pseudo-democratiche. Quello che denuncia, senza arretrare neppure di fronte ad evidenti anacronistiche forzature, è in fondo un progetto di dominio pluto-giudaico che ha informato tutta la storia occidentale, e che sembra ormai ossessionare più le varie sinistre sedicenti rivoluzionarie che le vecchie destre reazionarie.

Discorso appena leggermente diverso si può fare per Canfora e per Barbero, che quanto meno rimangono nell’ambito della loro disciplina: ma la specializzazione disciplinare si è spinta oggi talmente oltre che è difficile concepire una competenza storica estesa dai Neanderthal alla guerra fredda o ai conflitti attualmente in corso.

L’impressione che ho ricavato dalle sempre più frequenti apparizioni di costoro nei salotti televisivi o come conduttori di programmi disegnati a loro immagine, impressione che si riverbera retrospettivamente su tutta la loro opera, è che la storia venga trattata non come terreno di costante esplorazione, ma come pezza d’appoggio per avvallare dogmatiche certezze. Che riguardano, come per Needham e per Bernal, e per Odifreddi, la nefandezza della cultura e della civiltà occidentale e la denuncia di come è andata sviluppandosi. È evidente che qui non siamo a livello dei vari Galimberti o dei nipotini post-moderni di Foucault e di Vattimo: l’operazione che i nostri conducono è assai più sottile e sofisticata, ma il punto d’arrivo è lo stesso.

Si vedano ad esempio il saggio di Barbero sull’impero ottomano e le conferenze che ne ha tratto. È uno stillicidio di confronti che oppongono la tolleranza, la giustizia, l’uguaglianza, la meritocrazia praticate dalla cultura ottomana all’intolleranza, alle diseguaglianze, alla farraginosità giuridica e ai privilegi correnti nella coeva cultura occidentale. Ora, sarà anche vero che ebrei e cristiani erano molto più tollerati nelle terre del Sultano di quanto lo fossero nell’Europa rinascimentale, e che a Costantinopoli non esisteva una aristocrazia del privilegio ereditario, e che le classe dirigente era reclutata senza badare al censo; ma tanto per cominciare il tutto era arbitrariamente gestito da un despota assoluto, che in alcuni casi poteva essere illuminato e in molti altri no, e il cui potere non conosceva limiti o contrappesi, né religiosi, né politici, né giuridici. C’è poi il fatto che le relazioni dei viaggiatori che per cinque secoli hanno attraversato quelle terre (non moltissimi, perché viaggiare lì era estremamente difficile e pericoloso) concordano tutte nella descrizione di un clima di povertà, di sopruso e di violenza, narrano di massacri continui e spoliazioni, nei confronti ad esempio dei Curdi, degli Yazidi, dei Mandei, dei Copti, o delle popolazioni balcaniche o di quelle elleniche. Checché ne dicessero gli ambasciatori veneziani, che vivevano peraltro nel perimetro della corte, ai quali Barbero attinge tutte le testimonianze, la tolleranza era molto più proclamata che praticata. Vigeva invece senz’altro l’uguaglianza, ma nel senso che la violenza arbitraria davvero non faceva sconti a nessuno.

Per capirci meglio. Richiesto nel corso di una intervista che circola sul web di spiegare cosa significa essere di sinistra, Barbero ha risposto che per lui significa vedere una bandiera rossa o una falce e martello e non averne paura, anzi, provare piacere. “Io se vedo un corteo in piazza con le bandiere rosse che protesta mi piace, e quando vedo che la polizia li picchia non mi piace, mentre a tanti borghesi la cosa fa paura o da fastidio, e pensano che la polizia faccia bene a picchiarli. Basta questo, di base, per essere di sinistra”. Il che, pur essendo una semplificazione provocatoriamente voluta, spiega comunque tante cose. Spero almeno non gli dia gioia anche veder bruciare i cassonetti, simbolo del consumismo borghese, o le bandiere, con l’eccezione naturalmente di quella rossa (o di quelle che vanno al momento per la maggiore): oppure le occupazioni delle università e dei licei, dove si fa resistenza antifascista impedendo a chi non è schierato “dalla parte giusta” di prendere la parola. Stiamo parlando di docenti universitari. Se questo è per loro lo stare a sinistra, stiamo freschi. E soprattutto, io dove sono stato fino ad oggi?

Lo stesso vale per il modo in cui Canfora parla della democrazia occidentale, sottintendendo che le sue storture erano già presenti sin dall’origine e si sono semmai amplificate nella versione moderna, contrariamente a quanto la storia ufficiale vorrebbe raccontarci. Tanto da fargli preferire un sistema come quello spartano, non a caso vagamente “comunista” e livellatore (salvo reggersi, né più né meno come quella da lui definita la pseudo-democrazia ateniese, sulla schiavitù), e da indurlo a mostrare un’evidente simpatia per l’odierno modello putiniano, nonché naturalmente un sincero rimpianto per quello staliniano: “Uno statista può essere valutato per quello che ha fatto per il suo Paese. L’opera di Stalin è stata positiva, anche se aspra, per la Russia al contrario di quella di Gorbaciov”.

Siamo insomma di fronte ad un “odio di sé occidentale” che non trova corrispettivo in altre culture. Tutte le altre civiltà hanno mantenuto bene o male nel corso del tempo un’alta considerazione di sé (gran parte dei popoli si attribuiscono in esclusiva lo status di “uomini”, già a partire dai termini con cui si autodenominano, o considerano la loro terra come il centro del mondo): e attribuiscono le cause della loro decadenza, dei loro ritardi (ammesso che li considerino tali), del loro eventuale asservimento, alla protervia dei competitori, a sfortunate congiunture climatiche o al volere di divinità irritate. La negatività occidentale affonda invece le sue radici in un’attitudine autocritica nata già agli albori della modernità (ma volendo se ne potrebbero trovare tracce anche prima: basti pensare a Erodoto, o alla Germania di Tacito): solo che nel XVI secolo con Montaigne questa attitudine si esprimeva in un equilibrato ripensamento delle modalità di confronto con “gli altri”, e successivamente con Montesquieu nella critica delle istituzioni domestiche, tutte cose che rimanevano nell’ambito di ciò che va perfezionato, rivisto, recuperato. È in fondo questo che ha fatto la differenza, permettendo all’Occidente di spezzare i vincoli della tradizione immobilista, di innovare o cancellare istituzioni sclerotizzate, di sperimentare modelli produttivi e rapporti sociali di convivenza del tutto inediti. Con quali risultati non sta a me qui discutere (in realtà su questo sito se ne è già discusso ampiamente): le scorie dell’idea di “progresso” che sino a ieri l’Occidente ha abbracciato sono tante e tali da non consentirmi di esprimere giudizi e proporre scale dei valori. Oltretutto, se mi guardo un po’ attorno e vedo solo opposti fanatismi e l’idiozia al potere quasi ovunque, qualche dubbio sulle nostre scelte non può non sorgermi. Di certo so però che in pochissime altre culture una discussione come questa sarebbe consentita, e vorrei tenermi stretta questa possibilità.

Già in epoca romantica, però, nel mito esotico del buon selvaggio, il saldo del confronto con altri possibili modelli di civiltà diventava negativo, e nel secolo scorso questo confronto si è tradotto in un vero e proprio rifiuto della civiltà e della cultura occidentali, a partire dai suoi presupposti. Un rifiuto tutto “di sinistra”, perché non fa appello alla tradizione, non chiede un ritorno nostalgico ad altri tempi, ma fa tabula rasa del sistema valoriale sul quale l’occidente si è fondato sin dai primordi della storia. Col risultato di approdare a quello che Nietzsche chiamava nichilismo.

Tanto Odifreddi quanto Canfora e Barbero, che a questo rifiuto si associano, non possono però essere propriamente definiti dei nichilisti: portano avanti convintamente le loro teorie sulla deriva occidentale, che fanno risalire di volta in volta a Euclide, a Pericle o a una non meglio definita “borghesia”. Di certo non vanno annoverati tra gli orfani dell’occidente, e non sono tra quelli che ne vaticinano o ne piangono il tramonto: semmai anzi lo auspicano. Ne vogliono disvelare il “marcio”, e pensano che il frutto sia da buttare e che l’albero non sia da potare, ma da capitozzare radicalmente.

Sta di fatto che interpretano il loro radicalismo anti-occidentale come una missione, e questo li spinge ad essere costantemente presenti, sui teleschermi, sui monitor o in libreria. Ho contato in una bibliografia di Canfora, aggiornata al 2024, centotredici volumi pubblicati, una volta e mezza quelli di Simenon su Maigret. In quella di Odifreddi siamo a soli trentasette, su temi che spaziano da Le menzogne di Ulisse a Caro papa ti scrivo, sino a La democrazia non esiste, ma accanto a un profluvio di audiovisivi e di interviste, più di quattrocento partecipazioni a programmi radio e trecento a trasmissioni televisive. Barbero si attesta per ora a quarantotto volumi (ma è giovane e può dare ancora molto), che a questo punto si può dire abbiano un ruolo secondario rispetto all’intensissima attività da star mediatica. Vorranno dire qualcosa questa grafomania e questo delirio di onnipresenza? Questa fame insaziabile di pubblicazioni e di comparsate? Che ci sia dietro la maledizione talmudica?

Cosa c’è dietro non lo so. Sospetto che ad un certo punto le lusinghe del mercato e della popolarità spettacolare mandino in tilt anche menti di indubbio livello, accendendo ambizioni egoistiche che scadono nella piaggeria (si può essere ruffiani in due modi: salendo sulla carrozza dei potenti o assecondando le rabbie più fumose degli “insorgenti”. Non mi risulta che alcuna lezione universitaria o conferenza dei tre sia mai stata contestata o impedita) Ma credo soprattutto che questo “odio di sé” (rivolto però a un “sé” rappresentato da tutti gli altri condomini che abitano la casa occidentale) nasca da una duplice presunzione: quella di aver individuato cosa c’è di marcio in Occidente (a seconda dei casi: un pensiero tutto fondato sulla “ragione calcolante”, una finzione democratica messa in piedi dalle classi dominanti, una narrazione della storia asservita agli interessi imperialistici): e quella di averlo fatto chiamandosi fuori dalla parte guasta del frutto.

Continuo a chiedermi comunque cosa può indurre persone tanto intelligenti a costringersi in una visione e in un uso del loro sapere così preconcetti. Ammettiamo che possano agire la temperie culturale del momento, le esperienze politiche, le ambizioni di cui sopra, tutto ciò che si vuole: ma il conoscere non dovrebbe indurre semmai a staccarsi progressivamente da ogni certezza, a ingolosirsi di ciò che di nuovo può arrivare, a non chiudersi a riccio dietro le interpretazioni dogmatiche. Come si conciliano le due cose?

Azzardo la spiegazione che mi pare più plausibile. Credo che tutto questo nasca dalla paura. Intendo la paura del vuoto che ci si spalanca davanti se appena apriamo gli occhi e usciamo dal recinto di significati che ci siamo costruiti attorno. La paura di affrontare l’assurdità della condizione umana come raccontata ad esempio da Camus, e prima ancora da Leopardi, e su su fino a Lucrezio, di guardarla negli occhi. Non sono molti quelli che reagiscono a questa consapevolezza rassegnandosi non passivamente all’assenza di uno scopo ultimo, e creandosene uno più modestamente temporaneo attraverso l’autodeterminazione etica. Nei più la paura del vuoto e dell’insignificanza induce l’urgenza di “esserci”, o almeno di apparire, e la necessità di aggrapparsi ad una bandiera (possibilmente a quelle prêt-à-porter, e non a quelle che vengono bruciate). Se poi la bandiera la si sventola o la si “indossa” in testa al gruppo, è più facile finire sui teleschermi e reclutare seguaci.

Infatti. Le arringhe dei guru dell’anti-occidentalismo sono subdolamente conformiste e confortanti, perché scodellano ad un pubblico pigro, smarrito e rancoroso verità “certe”, tra l’altro spacciandole come coraggiose “rivelazioni” che smontano le false pseudo-verità precedenti; in realtà non fanno altro che intrupparsi nella corrente revisionistica alla moda. Sembrano chiudere un lungo discorso di ricerca e di smascheramento, ma la loro ricerca era mirata solo a convalidare una visione ideologica pre-costituita.

Alla fine, ad essere verificato mi pare solo l’anatema col quale ho esordito. Continuando a “pubblicare” libri su libri, a ritmi industriali, e a “pubblicizzarli” spudoratamente abbassandosi a tutte le più perverse dinamiche del mercato, gli impavidi dissacratori della menzognera narrazione occidentale finiscono per rivelarsi i peggiori nemici di sé stessi.

P.S.

1. Needham e Bernal non costituiscono casi eccezionali di acquiescenza al dogmatismo marxista. Nella cultura anglosassone, e segnatamente in Inghilterra, furono molti, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, gli intellettuali che fecero propria questa posizione. Si va dagli scienziati, come J. B. S. Haldane, agli storici, come Christopher Hill o Eric Hobsbawm. Ma all’epoca incombeva sull’Europa la minaccia nazi-fascista, e non tutti avevano la tempra di un George Orwell. Per combattere avevano bisogno di indossare una metaforica divisa.

2. É proprio vero che le immagini a volte sono molto più eloquenti di qualsiasi trattazione scritta. Godetevi le icone dei tre moschettieri dell’anti-occidentalismo. Il quarto non è nemmeno uno scudiero, forse un valletto, ma non può essere considerato solo un intruso. In effetti è la testimonianza vivente che qualcosa nella cultura occidentale è andato storto.

3. Qualcuno tra i miei quattro corrispondenti penserà che queste elucubrazioni siano fini a stesse, frutto di una senile involuzione, e che in definitiva non portino a nulla. Su quest’ultima eventualità sono perfettamente d’accordo, ma credo che ogni tanto vadano comunque fatte le pulizie di primavera. Il cervello sarà di lì a poco nuovamente ingombro e disordinato, ma per qualche tempo almeno le idee potranno circolare un po’ più liberamente. In caso contrario, ci ritroveremo di qui a poco ad ammantarci noi stessi di bandiere, o a bruciarle, a recitare slogan, a rovesciare cassonetti. Ad essere cioè incapaci di relazionarci agli altri e alla storia in maniera civile e consapevole. In parole povere, a odiarci.

Cocco Bill contro i trafficanti di utopie

di Paolo Repetto, 2017

Qualche settimana fa è comparsa in edicola una riedizione dei fumetti di Jacovitti (non è la prima, ma questa sembra filologicamente molto accurata, e farà felici estimatori e collezionisti). Al primo numero era allegato il poster di uno di quei paginoni deliranti e congestionati dove l’autore stipava inimmaginabili bizzarrie. Sono cose che conosco e che mi divertono da sessant’anni, ma nel formato ridotto delle riviste (Il Giorno dei Ragazzi, Il Vittorioso, ecc…) era difficile raccapezzarsi in quella babele di personaggi e situazioni surreali: si mettevano a fuoco un paio di particolari e poi si passava oltre, a seguire le storie. Qui invece la scala ingrandita consente di cogliere ogni dettaglio, in qualche modo coinvolge e fa entrare direttamente nel quadro. Mi sono così ritrovato a guardare per la prima volta da una angolatura e con uno spirito diversi a quel serraglio straripante di uomini carriola, di donne mongolfiera, di corpi tagliati a metà o comicamente deformi, insomma, di totale spiazzante nonsenso. Sembrava una rivisitazione delle più famose tavole di Hieronymus Bosch (ma anche di alcune di Brueghel), brulicanti di forme di vita semiumane, grottesche, assurdamente ibridate. E il qualcosa di nuovo che ci vedevo non mi divertiva affatto, ma addirittura un po’ mi angosciava: perché poco alla volta riconoscevo, dietro le metafore strampalate, il mondo che mi circonda.

Bosch, guarda caso, era quasi coetaneo di Thomas More, il padre biologico del concetto moderno di utopia. Vivevano quindi lo stesso mondo: solo lo raccontavano in maniera diversa. Il primo ci si immergeva ed enfatizzava vizi, depravazioni, deformità morali e fisiche (credo godesse come un riccio a inventarne di sempre più raccapriccianti), mentre More cercava di fuggirne rifugiandosi in una dimensione ideale. La differenza tra i due è che Bosch, con le sue sconcertanti rappresentazioni, sembra inchiodarci a una realtà che rende impraticabile qualsiasi utopia, laddove More, al contrario, dà l’impressione di credere che ripartendo da zero e rifondando completamente le istituzioni si potrebbe cambiare la vita dell’umanità. È solo un’impressione, però: se lo avesse creduto veramente non avrebbe domiciliato il suo sogno in un’isola fuori dal mondo. La differenza è comunque puramente formale, perché nel primo libro di Utopia viene descritta una Inghilterra non molto diversa dall’incubo terreno raccontato da Bosch nel Trittico del giudizio, mentre anche il fiammingo disegna una sua utopia nel Giardino delle delizie.

Il nostro contemporaneo Jacovitti la pensa come Bosch, e non escludo che abbia tratto ispirazione proprio dalla sua opera. Ma si ferma alla parte infernale del trittico. Quello che mette in scena è un universo a prima vista paradossale e inverosimile, nel quale prevalgono l’aggressività, i bassi istinti e la follia. Fatto salvo lo humor, è la fotografia della contemporaneità. Il pensiero non può non correre subito alla “gente”, ai casi umani da piazza o da talk show di cui brulicano la televisione e la rete. E persino i rifiuti, i pezzi di salame, le lische, i torsoli di mela, i vermi con la pipa, i sanitari e gli elettrodomestici rotti coi quali riempie ogni possibile spazio bianco, e poi le scritte sui muri e i segnali stradali impallinati o divelti, fanno parte del nostro panorama quotidiano, mentre i dialoghi insensati e demenziali ne costituiscono la colonna sonora. Le tavole di Jacovitti sono distopie solo apparentemente umoristiche, perché già tragicamente reali. Guarda caso, a dispetto dell’ostracismo decretato dalla cultura “progressista” all’autore, mi sono sempre piaciute moltissimo.

Questo ci riporta, sia pure di sponda, al discorso, poi interrotto, che partiva dalla figura di mio nonno. Forse avrei dovuto davvero chiuderlo lì, perché tendo a ripetermi e penso si sia capito benissimo dove andavo a parare. Ma credo di dovere un chiarimento a quegli amici che paiono sconcertati dalla deriva “conservatrice” dei miei ultimi scritti. Inoltre siamo ormai in clima di celebrazioni sessantottesche (con largo anticipo) e un piccolo contributo, da semplice comparsa, ci tengo a darlo anch’io. Solo un paio di considerazioni sul mio controverso rapporto con l’utopia, prima di archiviare definitivamente l’argomento (ammesso che sia possibile).

Il tema mi ha sempre affascinato, tanto che una delle sezioni più consistenti della mia biblioteca è dedicata proprio alla letteratura utopica. A vent’anni, euforizzato dalla lettura di Lewis Munford, avevo iniziato a scrivere una “Storia dell’Utopia”, neanche fossi Leopardi: non ne ho poi fatto nulla, per fortuna, ma ho continuato per il mezzo secolo successivo a raccogliere materiale. All’epoca, come tutti (si era appunto nel sessantotto), cercavo il modello sociale perfetto: a differenza dei più, però, non ero affatto convinto di poterlo trovare nei socialismi o comunismi più o meno reali e più o meno esotici che andavano per la maggiore. Ero invece sentimentalmente attratto dalla tradizione anarchica, scoperta già nella prima adolescenza in un opuscolo che raccontava la vita di Amilcare Cipriani e di altri come lui (e che ho conservato per anni, mimetizzato in mezzo ai Tex e agli Albi dell’Intrepido). Quella tradizione modelli non ne forniva.

Sulla mia diffidenza per le soluzioni “reali” pesava soprattutto il fatto che conoscevo troppi sedicenti “comunisti” miei compaesani, e non mi convincevano affatto. Nei comportamenti quotidiani non erano diversi dagli altri, e in più apparivano sempre arrabbiati col mondo intero. Di anarchici veri ne conoscevo invece uno solo, che non mi ha mai spiegato come dovrebbe andare il mondo, ma in compenso sapeva viverci libero da invidie e ambizioni, e ricordava a memoria tutta la Divina Commedia. L’aveva imparata in prigione.

Penso anche di essermi portato dietro a lungo l’impressione dei fatti d’Ungheria, che avevo seguito per radio e nei commenti di casa, e dai quali i carri armati sovietici come difensori della libertà non uscivano granché bene. Erano motivazioni senz’altro ingenue, ma mi hanno aiutato a mettere la giusta distanza tra la letteratura utopica e la prassi politica. A tenermi ancorato alla realtà provvedevano poi la terra e la zappa, e gente appunto come mio nonno. I progetti utopici mi incuriosivano, andavo a caccia delle varie formulazioni che ne erano state date, anche le più campate per aria, rilevavo le differenze e le continuità, ma non ho mai davvero creduto in una possibile loro traduzione nel concreto. Piuttosto, mentre mi era sempre più chiaro che si trattava di un bisogno congenito nell’uomo, cercavo di capire cosa non avesse funzionato là dove si era tentato di applicarli.

Non mi ci è voluto molto per realizzare che il problema sta proprio nella materia prima: nell’uomo in generale (il “legno storto” di Kant), che in realtà non crede in una società giusta, o peggio ancora non la vuole, ma in particolare in coloro che professano di volerla, o quantomeno in buona parte di essi (temo siano la maggioranza). Il problema sta lì perché costoro in genere non sono mossi al desiderio di cambiare da un sentimento di benevolenza nei confronti degli altri, ma dal risentimento rancoroso. Questo l’ho percepito, come dicevo, molto precocemente, nel clima che si respirava in una comunità piccolissima, dove tutti conoscono tutti e i sentimenti corrono alla luce del sole. Al di là di ogni idealizzazione, comprese le mie, l’eden che abbiamo perduto era abitato in realtà più dall’invidia che dalla sete di giustizia. Ed era abbastanza evidente anche per me come non fosse sufficiente confidare in un lavaggio del cervello praticato dall’alto, ma si imponesse una completa rigenerazione delle coscienze.

Quando poi sono approdato all’Università, dove mi aspettavo di trovare un livello ben più nobile di relazioni, ho dovuto convincermi che la meschinità abita allo stesso modo e in eguale proporzione ogni tipo di ambiente. Ci sono arrivato tra l’altro giusto in tempo per assistere all’esplosione di un ribellismo fine a stesso, che troppo spesso mascherava dietro parole d’ordine più che legittime gli stessi veleni, le stesse ambizioni e le stesse rivalità personalistiche che voleva denunciare: un ribellismo dissacratore che si alimentava però di nuove Scritture e delle loro infinite interpretazioni, e bruciava su un unico rogo tanto gli scarti quanto le conquiste della cultura precedente.

Avendo letto da un pezzo La fattoria degli animali riconoscevo nelle famose assemblee democratiche il velleitarismo parolaio, i rituali liturgici, il protagonismo dei capetti. Di nuovo c’era semmai la totale mancanza di realismo nell’affrontare qualsiasi problema, ciò che garantiva contro futuri esperimenti “proletari” guidati dai borghesi, ma non contro le derive criminali. Altro che utopia: attorno a me vedevo gente che si riempiva la bocca di proletariato e lotta di classe e giustizia sociale ma viveva oggettivamente dall’altra parte della barricata, e giocava senza la minima convinzione e coerenza con ideali che vanno assimilati dal confronto con la realtà prima che dai libri. Quegli ideali io li avevo fatti miei filtrandoli attraverso una coscienza critica rudimentale, maturata per tappe sulle fiabe di Andersen, sui fumetti del grande Blek e sui romanzi di Jack London prima e piuttosto che sui testi sacri, ma rafforzata dalle esperienze dirette, e ora volevo vederli trattati con serietà. Provavo invece la netta sensazione che se tirato troppo per le lunghe il gioco avrebbe finito per stancare o per degenerare, come in effetti poi è stato. E non mi riferisco solo al terrorismo: già presagivo la strage delle idealità.

Certo, ho conosciuto all’epoca anche gente seria, che credeva davvero in ciò che stava facendo (e in qualche caso agli effetti pratici questo era anche peggio, ma almeno si salvaguardava un po’ di dignità), e altri che ci credevano come me, ma non avevano il coraggio di chiamarsi fuori e difendere la loro posizione critica. Erano comunque una minoranza, e li ho persi quasi tutti di vista. Sono rimasti invece ben visibili (prevedo che lo saranno più che mai per il prossimo anno) quelli che hanno portato alle estreme conseguenze il loro gioco delirante, salvo poi “pentirsi” appena varcata la soglia della galera e precipitarsi a denunciare i compagni, per batterli sullo scatto: quelli che si sono assicurati rendite di posizione, infiltrandosi nelle istituzioni “falso-democratiche” che volevano spazzare via, impegnati oggi soprattutto a difendere i loro vitalizi: quelli che sono saltati giù dalla barca al primo cambio di vento per salire velocemente sui nuovi e vecchi carrozzoni mediatici o aziendali.

Capisco come tutto questo possa sembrare semplicistico. Il sessantotto è stato e ha significato ben altro, nel bene e nel male: ma non ho alcuna intenzione di fare un’analisi o dare dei giudizi politici. Ho solo riportato la mia impressione, il sostanziale disagio nel quale l’ho vissuto. Una volta, all’anarchico di cui sopra un viceparroco particolarmente invadente chiese: “Nonnino, non vi ho mai visto in chiesa. Come mai? Temete il puzzo delle candele”? “Per niente, – rispose Modesto (che tutto era tranne che un ‘nonnino’, e che si espresse volutamente in un dialetto strettissimo) – le candele mi piacciono, portano luce: è il vostro puzzo quello che temo”. Io vivevo quella condizione: da un lato ero attratto dalle idee, almeno da quelle più generali, e avendo vent’anni anche dalla prospettiva della lotta, dall’altro non mi convincevano quelli che le predicavano e non mi fidavo di loro come compagni d’arme.

Ciò ha qualcosa a che fare con l’utopia? Temo di si, almeno in negativo. Non soltanto perché “l’utopia al potere” era lo slogan principe di quegli anni “formidabili”, ma perché da sempre, quando il termine è stato declinato nella sua accezione “sociale”, le cose sono finite allo stesso modo. O anche peggio. Ed è andata così perché in questa accezione il difetto è già all’origine. Non sta naturalmente nel desiderio di mettere un po’ d’ordine e di giustizia nel mondo, quando davvero c’è e non è solo ambizione di potere, ma nel rifiuto di prendere atto che il terreno su cui si vorrebbe costruire è instabile e che tanto i materiali quanto le maestranze sono inadeguati. Oppure nel credere, come ha fatto le maggior parte delle guide “rivoluzionarie”, da Robespierre a Stalin e a Pol Pot, che l’edificio possa essere tenuto in piedi a bastonate. Questo spiega perché i muri che ogni disegno utopistico vuole alzare attorno alla città ideale servono in effetti non a difendere dai nemici esterni, ma ad impedire la fuga di chi sta dentro. Nella realtà poi quei muri vengono abbattuti proprio dall’interno.

Questi effetti perversi non sono imputabili all’utopia. Nascono al contrario da un suo totale travisamento. L’utopia non è la semplice secolarizzazione del messianismo cristiano o giudaico, attuata escludendo l’intervento divino ma conservando una connotazione in qualche modo religiosa, che contempla la realizzazione di un paradiso in terra o la restaurazione di un ordine primigenio perduto. È invece una forma d’idealità decisamente nuova e assolutamente laica, che ha la sua radice storica in un momento ben preciso, quello in cui il vincolo religioso si allenta e non ci si attende più alcuna redenzione dall’alto, ma ancora non si prospettano riscatti dal basso. Nasce non a caso assieme alla modernità, nel periodo delle grandi scoperte – il mondo è molto più grande e vario di quanto si credeva, l’universo lo è infinitamente, il potere non nasce da Dio ma da un contratto –, quando le antiche certezze, fondate su un ordine naturale e su un ordinamento sociale che erano il riflesso di quello celeste, lasciano il posto alle domande.

Le reazioni a questo stato di sospensione nel vuoto sono diverse, vanno dall’euforia allo smarrimento, ma tutte hanno in fondo sotteso un desiderio di fuga: in avanti, all’indietro, da un’altra parte. Le tavole di Bosch sembrano dire “Qui sono tutti matti!” e conducono direttamente a Lutero e alla sua concezione della responsabilità individuale della salvezza (un si salvi chi può, o chi lo merita, che allontana e sposta in secondo piano il giudizio universale), mentre Thomas More opta per un altrove che sarebbe auspicabile ma non c’è, e non ci sarà mai. Tutte le formulazioni utopiche prodotte tra il cinquecento e la fine del settecento, che è il periodo della maggiore fioritura, presentano la stessa caratteristica: si collocano in uno spazio (e da un certo momento, anche in un tempo) abbastanza remoto da non lasciare speranza di raggiungerlo. Non ce n’è una che dia credito qui ed ora all’umanità di “magnifiche sorti e progressive”. Meno che mai poi quelle già venate da un intento satirico (gli Yaoo di Swift, ad esempio, non sono molto diversi dai subumani di Bosch). Ci si sottrae all’incubo rifugiandosi nel sogno, ma nella perfetta coscienza che di un sogno si tratta.

L’interpretazione “operativa”, quella che pretende invece di tradurre il sogno in una realtà sociale e politica concreta, viene dopo, a braccetto con la moderna idea di progresso: magari nell’intento di contestare i modi e le direzioni in cui questa idea è declinata, ma facendola comunque propria. È in qualche misura bruscamente annunciata dalla rivoluzione francese, trova una giustificazione teorica nell’idealismo e nella cultura romantica ed è infine imposta dal marxismo, che peraltro taccia di utopismo le dottrine politiche concorrenti. Proprio l’uso di questo termine per connotare spregiativamente le “fantasticherie sociali” finisce per confondere due piani che in realtà dovrebbero rimanere ben distinti. Da una parte stanno infatti quelle che potremmo definire le utopie “letterarie”, che rivendicano l’appartenenza ad un’altra dimensione già nel nome, e che marcano chiaramente il confine che le separa da questo mondo (e da questa umanità); dall’altra quei progetti riformatori o rivoluzionari che hanno, o vorrebbero avere, i piedi ben piantati su questa terra, ma ripropongono poi fondamentalmente l’aspettativa della redenzione universale, quali che siano i suoi tramiti, la tecnica, il socialismo, ecc…

A questa interpretazione ci si riferisce quando si parla di crisi dell’utopia. È una crisi in atto già da un pezzo, di fine dell’utopia si parla e si scrive almeno da un secolo, di norma con sollievo. Ma se ne parla avendo in mente i grandi progetti di palingenesi sociale che hanno luttuosamente marcato il Novecento, continuando pertanto a confondere i due piani. Cito un esempio recentissimo, quello di Luciano Canfora, che affronta il tema nell’ennesimo saggio su La crisi dell’Utopia. La conclusione cui Canfora arriva è in sostanza che non rimane più spazio per quel tipo di progetti. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire: ma più che in ritardo Canfora appare proprio fuori tempo massimo, visto che molti altri c’erano già arrivati più di ottant’anni fa, e i lettori di Corto Maltese da almeno mezzo secolo: soprattutto però dà l’impressione di non aver capito che di spazio per “quel tipo” di utopia non ce n’è stato mai.

Il che ci riporta al Sessantotto, e a mio nonno, che non c’era per vederlo e se ci fosse stato non lo avrebbe visto. Contrariamente a quanto diffuso dal fraintendimento “sessantottino”, infatti, i veri utopisti non guardano al futuro, ma al passato. Il malinteso, come ho già detto, è stato creato soprattutto dalla vulgata marxista, che ha letto comunque le utopie, anche quando l’intento era di smascherarle, come idealità o ideologie rivoluzionarie, proiettate in avanti, in una parola, progressiste: mentre in realtà esse sono originate si dal progresso, e spesso prendono spunto da alcuni suoi aspetti, ma come reazioni negative. Nella sostanza sono visioni conservatrici. Questo valeva già per Platone nell’antichità, e vale tanto più per Tommaso Moro all’inizio dell’età moderna e per Samuel Butler alle soglie di quella contemporanea. Le utopie nascono per esorcizzare un cambiamento in atto, o già avvenuto, che si avverte come minaccioso e destabilizzante. E nascono quando si ha la netta sensazione che non sia più possibile arginare attivamente lo sfascio: sono la risposta di chi si sente impotente, ma nel contempo non ha nessuna intenzione lasciarsi travolgere dallo smottamento.

Il problema non è dunque se l’utopia possa sopravvivere ai suoi presunti fallimenti (perché in fondo i tentativi di realizzarla sono una contraddizione in termini): è di capire che “quel” modello utopico, l’utopia sociale, che ha come presupposti il consenso unanime (tutti vogliono la stessa cosa) e la negazione delle differenze (di attitudine, di capacità, ecc…) e risolve l’uguaglianza in un livellamento “materiale”, non è stato sconfitto dal confronto con la realtà ma, al contrario, dal suo rifiuto.

A questo punto dobbiamo però chiederci se il fallimento ha travolto anche l’altro modello utopico, quello originale. E per farlo occorre prendere atto di un nuovo scenario, più sconvolgente ancora di quello che induceva alla fuga More e la compagnia degli utopisti doc. Bisogna rendersi conto che siamo già dentro il poster di Jacovitti. Certo, i pazzi, gli idioti e i banditi ci sono sempre stati, e le percentuali non devono essere variate molto dall’età di Pericle ad oggi: ma in realtà il quadro è molto mutato, così come la prospettiva dalla quale guardarlo. Un tempo era ancora pensabile che gli uomini avrebbero potuto arrivare, attraverso una crescita lenta ma continua della consapevolezza (l’uscita dalla minorità auspicata da Kant), a capire che l’interesse e il bene comuni sono la somma degli interessi e dei beni individuali, e anche qualcosa di più. Non dico fosse una convinzione realistica, ma almeno era fondata su un presupposto incontestabile: da Pico della Mirandola a Kant lo strumento della possibile emancipazione è sempre stato individuato nella cultura. Quella convinzione alimentava il sogno, ne era la condizione necessaria.

In teoria potrebbe anche continuare ad esserlo: ridimensionando il sogno, accettando il fatto che la società perfetta non è realizzabile, e che sarebbe comunque una gabbia per uomini imperfetti, si potrebbe tenere in vita l’utopia interpretandola come una meta che orienta il cammino ma si sposta progressivamente in avanti, ad ogni nuova conquista. Oggi però dubito che qualcuno, dopo aver assistito ad un qualsiasi demenziale collegamento televisivo con le piazze dove si dà voce alla “gente”, o dopo aver letto i commenti che si scatenano sui social e nei blog attorno ad ogni cretinata, potrebbe ancora attaccarsi a quello che Bloch chiamava “il principio speranza”.

Non potrebbe perché non è solo questione di una maggiore visibilità dell’idiozia. Nell’ultimo quarto di secolo sono completamente saltate le coordinate sulle quali si orientava l’esistenza, e conseguentemente si sono invertiti i suoi parametri di senso. È praticamente scomparsa quella tensione a crescere che si nutriva dell’attesa di un evento, fosse l’Apocalisse o il trionfo della ragione, e creava l’idea di futuro. È saltato persino il vincolo biologico alla salvaguardia della continuità della specie (pensiamo a come stiamo lasciando la terra ai nostri nipoti, per non parlare delle casse dell’INPS), e si vive come se l’apocalisse dovesse compiersi entro sera. Quanto al trionfo della ragione, lasciamo perdere. Nessuno ci crede più e nessuno ha più voglia di attendere, e senza un orizzonte temporale nemmeno l’utopia itinerante ha ragion d’essere. Allo stesso modo, si è modificata la percezione dello spazio: siamo oggettivamente troppi, la possibilità di divorare le distanze in tempi sempre più brevi ha reso il mondo, o almeno la percezione che ne abbiamo, piccolissimo, e da quando anche gli “altri” hanno cominciato a muoversi ci sentiamo sempre più stretti e cerchiamo di segnare e difendere il nostro giardino.

In un contesto del genere la società dello spettacolo ha avuto buon gioco ed ha stravinto. Oggi impone la sua legge: conta solo il presente, gli eventi sono banalizzati a quotidianità e si consumano senza lasciare traccia, se non si appare non si esiste, e logicamente si appare molto di più se ci si agita, si sbraita, si recitano in coro le litanie intonate dai nuovi demagoghi. La certificazione e la giustificazione di una esistenza non sono più costituite da ciò che questa si lascia alle spalle, ma dal clic, dal selfie, dall’apparizione più o meno momentanea sullo schermo, dal numero di contatti, di amicizie virtuali, di faccine che si riescono a collezionare.

Ciò comporta un totale disprezzo di quello che per millenni è stato il paradigma dell’evoluzione culturale, la conquista da parte di tutti gli uomini di una dignità fondata su scelte libere e responsabili. E questo disprezzo è stato fatto proprio dalla stragrande maggioranza, in nome o dell’accesso al consumo e alla visibilità, sia pure effimera, o della difesa del privilegio. Miliardi di individui formano oggi una massa irrequieta ma sostanzialmente inerte, menata per il naso con specchietti e perline colorate, pesante sulla terra al punto da farla sprofondare. Ha prevalso una voluttà di radicale disumanizzazione, e la direzione intrapresa sembra essere definitiva, perché senza spazio, senza tempo e senza una responsabilizzazione individuale accettata con orgoglio nessuna utopia può sopravvivere.

Ma allora non ha davvero più senso coltivare la speranza? Paradossalmente la risposta è negativa: forse non ha senso, ma è l’unica cosa che ci rimane. Basta naturalmente intenderci sul tipo di speranza cui ci riferiamo. Una volta consapevoli che non ci sono più spazio né tempo per l’utopia sociale, e nemmeno per la fuga, perché le isole sono tutte occupate dai villaggi turistici, gli orienti si sono occidentalizzati e le frontiere occidentali hanno fatto il giro del globo, abbiamo due sole alternative: indossare una maschera ed entrare anche noi nella sfilata carnevalesca, o ritiraci nel nostro particulare e nel silenzio.

Ritirarsi nel particulare non significa però uscire dal mondo. Si può anche stare dentro questo mondo difendendo coi denti quelle poche aree del nostro cervello che ancora non sono state colonizzate. E nemmeno significa chiudersi in casa e limitarsi a coltivare pomodori e melanzane nell’orto, se si ha la fortuna di possederne uno. Si può vivere fuori ignorando che domani è la giornata del coniglio paraplegico, che si tengono in giro festival della mente, della poesia, del cinema thailandese o della zucchina biologica, disertando i cammini di Santiago e ricambiando garbatamente gli inviti dei vaffanculisti di professione. In fondo Cocco Bill sopravvive nei caotici saloon di Jacovitti bevendo solo camomilla (è una metafora, non un consiglio per la salute).

Quanto al silenzio, riguarda naturalmente tutto ciò di cui non vale la pena parlare (vedi sopra) o di cui occorre parlare con cognizione, e spesso questa non c’è. Non è mutismo: al contrario, è piuttosto la riscoperta del fatto che le parole hanno un peso, e un senso, e vanno spese bene e nella direzione giusta. Dobbiamo pensare che non siamo soli. Qui, sulla terra, dico, senza bisogno di cercare nel cosmo altre forme di vita intelligenti, che se ci fossero, proprio per via dell’intelligenza avrebbero qualche problema a rapportarsi con noi. Battere sentieri dismessi permette di riflettere in santa pace, o almeno di viaggiare ai bordi del caos, ma crea anche occasioni di incontro con chi nel traffico si sente a disagio come noi. Incontri veri, nei quali condividere gli umori o i malumori, le piccole scoperte e i piccoli entusiasmi: oppure anche semplicemente il silenzio, seduti a veder consumarsi una sigaretta.

Forse non è esattamente la scelta di mio nonno, ma lui poteva portare sino in fondo la sua perché con la vita era in credito, anche se neppure lo sospettava. Per noi, per la nostra generazione, per me senz’altro, non è così. Il nostro disagio ha radici molto diverse da quelle del suo. Sappiamo che la storia con noi è stata generosa (non con tutti, e non nella stessa misura, ma senz’altro più che con qualsiasi altra generazione precedente) e ci ha offerto più occasioni di quante ne meritassimo, perché non ce le siamo guadagnate noi, ma quelli che ci hanno preceduto, col loro sangue. Non le abbiamo sfruttate al meglio o le abbiamo perse del tutto, ma dovremmo sentire l’obbligo morale di trasmettere almeno ciò che ne resta a chi verrà dopo. Abbiamo figli, nipoti, amici, colleghi che probabilmente ci osservano molto più di quanto vorremmo ammettere e che magari siederebbero volentieri con noi per un attimo al margine della strada.

Guardiamoli una buona volta negli occhi e non raccontiamo loro la favola di un mondo migliore, che non è né dietro l’angolo né in fondo alla strada. Aiutiamoli piuttosto a sopravvivere in questo come esseri umani, a riconoscersi dentro il poster, se è il caso, e possibilmente a tirarsene fuori. E aiutiamo anche noi, perché la volontà di conoscere, l’ostinazione incessante ad imparare non possono essere condivisi se non sono mantenuti vivi.

Agli amici, allora. Immagino che questo sembri un programma da circolo dei pensionati, e forse lo è davvero: ma da quando è franata la collina sulla quale coltivare l’utopia non mi riesce di inventarmi altro. Odio le serre: sono luoghi chiusi, l’atmosfera è opprimente, la vita che ospitano è artificiale. Aspiro ad essere trovato un giorno, preferibilmente tra vent’anni, seduto con la schiena contro il muro esterno del mio capanno, lo sguardo rivolto al Monviso e al tramonto. O magari anche non trovato, per godermela ancora un pezzo, in tutta calma, anche dopo.

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