Ragione e sentimento

di Paolo Repetto, 1999

Editare un proprio libricino non è del tutto inutile. Quanto meno ti aiuta a capire come scrivi. Certe cose infatti le puoi cogliere solo quando tagli finalmente il cordone ombelicale, suggellando con la stampa un distacco definitivo ed entrando nei panni di un improbabile lettore. Rileggendolo tutto (perché malgrado lo conoscessi quasi a memoria la tentazione l’ho avuta), e soprattutto rivedendo il brano sul Perché scrivere, ne ho tratto queste considerazioni:

  • La mia scrittura è destinata ad un pubblico molto ristretto. Praticamente solo a chi mi conosce di persona. Credo che ad altri non possa offrire alcun diletto (sempre che ne offra ai primi). Non ha senso quindi (e sono contento di averlo capito subito) pensare ad una forma di pubblicazione che non sia quella scelta.
  • Il limite di questa scrittura, sempre che tale lo si voglia considerare, è che è di testa. Io ragiono con la testa, e mi comporto col cuore. Ma sulla pagina finisce quello che penso, non quello che faccio. Trasmetto considerazioni, forse idee, qualche volte magari emozioni: ma mai sentimenti. Non è problema di riuscirci o meno. Non mi interessa trasmetterli. I sentimenti sono una cosa mia (e poi i miei sono talmente aggrovigliati che sfido chiunque a distenderli su una pagina).
  • Una volta accettato questo limite, che mi esclude in fondo solo dalla scrittura creativa, deve prendere atto di altri, ben più gravi. Parlavo di messa in circolo di idee: ma si tratta di idee mai rivoluzionarie o innovatrici, di quelle che aprono scenari nuovi, ecc… Non sono nemmeno idee riciclate o usate o orecchiate, questo no. Semplicemente sono convincimenti ai quali sono pervenuto attraverso un percorso molto personale, molto extra-vagante, frutto di scelte e curiosità mai lineari. Per farla breve, in genere arrivo a dire cose che per me sono nuove, e che lo sono magari per qualcun altro, ma che già circolano, o delle quali si sente l’odore. Ma non ci arrivo fiutando il vento, bensì attraverso un mio particolare menù. E queste idee funzionano come le indicazioni di una caccia al tesoro, che appena le trovi ti spediscono da un’altra parte.
  • Non solo. Queste idee quando si sono “concretizzate”, hanno assunto una configurazione meno nebulosa, finiscono in genere per confliggere con i miei sentimenti. Nello stesso momento in cui arrivo a pensare certe cose diffido e dubito per istinto di ciò che sto pensando. O almeno, dubito della sua importanza. Mi importava arrivarci, ma una volta raggiunte certe consapevolezze queste mi appaiono ovvie e scontate (o, in qualche caso, incomunicabili).
  • Il limite maggiore della mia scrittura è comunque un altro: è l’autocompiacimento. La mia è una scrittura che si autocompiace. Credo che tutte le scritture, letterarie o saggistiche, tendano in qualche modo a patire questo difetto: ma nella mia esso è quanto mai evidente. Si sente lo spartito, la volontà di tenere il suono del discorso sempre sotto controllo, di eseguire perfettamente lo schema. Come nelle sinfonie, lo schema è circolare, e un discorso circolare si morde la coda, non porta avanti. Ma io so scrivere solo così.

 

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Istruzioni per l’uso

di Paolo Repetto, 1999

  1. Questo volumetto raccoglie gli scritti occasionali, editi o inediti, composti nel corso di un quarto di secolo. Non comprende quindi gli studi a carattere storico già comparsi altrove o non pubblicati, le introduzioni ai saggi tradotti e gli interventi di carattere politico-polemico non più rintracciabili. L’eterogeneità dei temi e la distanza dei tempi di composizione dovrebbero almeno in parte giustificare il vario stile, e comunque non rendere illeggibile quella trama che, pur esilmente, tiene assieme il tutto.
  2. Sillogi come questa, che contemplano la raccolta o la scelta degli scritti di un Maestro, sono in genere concepite in occasione di anniversari (e quindi di vite) “importanti”, dal mezzo secolo in su, o meglio ancora post mortem: e oneri ed onori vengono demandati alla pietà filiale o alla devozione di amici e discepoli. Io il mezzo secolo l’ho superato, non provo ancora alcuna fretta di andarmene e soprattutto ho l’impressione di non aver molto da aggiungere: inoltre, un po’ per carattere, un po’ per esperienza, preferisco non attendermi che altri facciano ciò che non farebbero o farebbero peggio. Ho pertanto ritenuto giunta l’ora di raccogliere gli sparsi stracci di una quasi trentennale militanza, tanto assidua negli intenti quanto disordinata e sterile negli esiti, ma non per questo meno sofferta e genuina, e di farne omaggio a pochi fortunati amici.
  3. Il contributo culturale che questo libretto può offrire è pari a zero, e per ammetterlo non ho nemmeno bisogno di fingere il ricorso alla falsa modestia: anzi, ci tengo a precisare che esso non vuole assolutamente offrirne alcuno, e che nasce dalla mia presunzione di essere già sufficientemente in pari con qualsivoglia erario, culturale ed esistenziale. Vuole dunque essere soltanto un oggettino curioso, che potrà magari tornare utile un giorno a chi ripensando a me volesse chiedersi (ma perché mai dovrebbe farlo?): “chi era costui, cosa voleva davvero?” Leggendo queste righe non capirà di certo chi io sia: ma saprà in compenso come avrei voluto essere. Ed è solo questo ciò che tengo a trasmettere.
  4. Nel concepire questa operazione contavo, per conservarne il controllo, sul mio proverbiale distacco, sulla mia inossidabile autoironia. Salvo accorgermi che nel momento in cui si affida ad una stampante (e forse già alla penna) una qualsiasi propria riflessione l’autoironia la si è già messa a dormire. Ora, al momento di licenziare queste pagine, mi sento scoperto e indifeso contro l’ironia altrui, ma provo anche un incredibile senso di liberazione. Come un profondo respiro dopo un lungo periodo vissuto in apnea. E tuttavia già ho paura dell’embolo, già temo che il sonno dell’autoironia diventi pesante e generi mostriciattoli: inspiro dunque profondamente, e torno ad immergermi.
  5. Quand’anche non dovesse portare giovamento o svago ad altri, questo lavoro si giustifica per i piccoli piaceri che ha dato a me. Mi ha soprattutto colpito, e mi ha spinto a riflettere, nel rileggere cose scritte oltre due decenni fa, la sostanziale identità della consapevolezza e, assieme, la radicale diversità del sogno che ne conseguiva. Oggi la consapevolezza si è soltanto un po’ allargata, mantenendo invariato il fuoco dello sguardo, mentre il sogno si è ristretto, si è ripiegato su se stesso, e stenta ormai a superare l’uscio della coscienza e ad affrontare la luce del giorno. Se questo è un segno di maturità, avrei sinceramente preferito non crescere.
  6. (e poi basta) Questo libricino è opera rozzamente artigianale, stampato alla meglio e impaginato e incollato alla peggio. Se ci tenete a conservarlo leggetelo reggendolo con due mani, con delicatezza, comodamente seduti, o non leggetelo addirittura. Fate un po’ come volete, ma sappiate che non ne avrete un altro.

 

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Non di solo pulp (2)

di Marcello Furiani, da Sottotiro review n. 7, settembre 1997

G.T. è un giovane valtellinese di 34 anni, che lavora attualmente come fattorino in una banca di Milano. Ha studiato sino alla terza ragioneria, poi ha smesso per andare a lavorare, prima come contadino e poi come camionista. Non aveva più preso la penna in mano dall’ultimo giorno di scuola. Due anni fa, all’improvviso, ha iniziato un carteggio con un suo amico professore. Ecco lo stralcio di una delle sue lettere.

Cari professori,
… la vita mi va abbastanza bene, il lavoro mi piace (è sicuro) e riesco ad apprezzarlo maggiormente provenendo da una realtà lavorativa piuttosto dura e sempre incerta per il futuro. Un mondo duro, che però mi dava delle soddisfazioni, specie quando con il mio camion fuoristrada 6X& andavo in posti impensabili, con il pericolo sempre in agguato, e la paura che mi assaliva le gambe per salire su fino al cuore, per poi fermarsi in gola, dove si arrestava con la consapevolezza di liberare la mente per dare il massimo e non farsi prendere dal panico nei momenti in cui serviva tutta la concentrazione possibile. Però alla sera tornando a casa mi sentivo soddisfatto, orgoglioso del mio operato; anche questa volta ce l’avevo fatta senza alcun danno o addirittura senza essermi rovesciato o peggio (alcuni dei miei colleghi, poveretti, non possono più raccontarlo). Ero il “Tavio”, uno che non si è mai tirato indietro davanti a niente, un colpo di clacson, un cenno ai colleghi con la mano valevano più di mille parole, ero qualcuno.

Ora tutta questa stima per me stesso sul lavoro non l’ho più, sono un semplice commesso a Milano, in un mondo dove onestà, sincerità, buon cuore, altruismo lasciano il posto a carriera a colpi di spalla e piedi in testa, conformismi moderni che lasciano quello che trovano (cioè niente) invidia, falsità e buon viso a cattivo gioco per arrivare un giorno alla pensione con una buona posizione sociale, qualche soldo in più e una vita bruciata da tappe che non ti danno il tempo di godere la vita per quello che offre. Tutto questo per non essere meno degli altri. Questo nuovo ambiente mi ha preso impreparato e da un po’ di tempo è nata in me la voglia di fare qualcosa per emergere non come uomo in carriera, ma come persona. Essere buoni e bravi non basta, bisogna saper parlare e farsi valere con parole e discorsi appropriati. Ho letto e sto tuttora leggendo libri di psicologia, per capire soprattutto me e gli altri, libri che pesco un po’ a caso in una grossa libreria di Milano …

Un’altra cosa della quale avrei voluto parlarvi oggi e che risponde alle parole “Novità, G.?” tutte le volte che sento L: al telefono, riguarda una stupenda bambolina milanese dai lunghi capelli dorati, per la quale sono in ginocchio con il cuore a pezzi. È arrivata in banca circa un anno fa e da allora è iniziata la mia rincorsa, la mia voglia di cambiare, di migliorare per potermi adeguare alla situazione. Sapevo fin dall’inizio che la strada sarebbe stata in salita, e così è stato. In salita per tante cose: innanzitutto per l’ambiente di lavoro, per i suoi 10 anni in meno e poi, diciamolo francamente, sarò bravo e buono, ma assomiglio poco ad Alain Delon, il soprannome che mi avevano dato in un silos per la camicia bianca che indossavo guidando il camion. La concorrenza in banca non è mai stata spietata, forse per quel faccino angelico che ispira solo tenerezza, A vedersi sembra una madonnina. Siamo diventati subito amici, tutti i giorni mi fermavo a parlarci, qualche piccolo regalo banale, un paio di giorni siamo anche andati in piscina assieme. Intanto mi preparavo. Ho migliorato il modo di vestire, il taglio dei capelli, ho eliminato la barba e ho addolcito il linguaggio valligiano …

Tutto andava bene, lei si fidava di me, dei miei apprezzamenti gentili, del mio interessamento senza mai chiedere niente in cambio (e anche la differenza di età esercitava un certo fascino su di lei, le davo sicurezza), D’altro canto cercavo di prendere tempo, di migliorare, di lasciarla crescere e di non bruciarmi subito come hanno fatto alcuni colleghi …A quanto pare, però, devo aver preso troppo tempo; tre mesi fa è arrivato in banca un nuovo impiegato, suppergiù della sua età, un giovane di bell’aspetto, e qui è arrivata la fregatura, la bambolina in tutto questo tempo è maturata, si è trasformata in una donna meravigliosa, sia nel portamento che nel vestire, e si è anche rivelata molto saggia e piena di sentimenti. Rientrando dalle ferie mi sono accorto di aver perso il controllo della situazione: alla bambolina piace un sacco il giovane scudiero (scudiero=giovane cervo che accompagna il capobranco e che ogni tanto fa fesso il vecchio e gli frega una cerva), A questo punto mi sono visto perso, in preda alla disperazione ho accelerato i tempi, complice il fatto che il giovane ha la morosa e anche da parecchio tempo. Poi un bel giorno accade una cosa bruttissima, una di quelle cose che non dovrebbero mai succedere. Un nostro collega di 24 anni è morto in preda ad un attacco d’asma mentre in autostrada stava tornando a casa dal lavoro. L’hanno trovato nella scarpata con ancora la bomboletta in mano, morto solo come un cane per un attacco d’asma e per il freddo. Era un bravo ragazzo, si era appena diplomato alle serali con 42, e per il suo aspetto un po’ grassottello tutti lo schernivano bonariamente, senza sapere che quel gonfiore era dovuto al cortisone che prendeva per tirare avanti. Ma lui di tutto questo non s’era mai lamentato con nessuno. È morto da eroe, nel silenzio di chi soffre. Penso che tra tutti i colleghi chi ne ha sofferto di più siamo stati proprio io e la bambolina… Era la prima volta che piangevo in età adulta, non l’ho fatto nemmeno quando è morta la nonna, la mia seconda mamma; ma a 84 anni fa parte del gioco, morire, a 24 no. Non ho pianto neanche quando sono morti in tempi e luoghi diversi 2 colleghi, compagni dei precedenti lavori. Colleghi padri di famiglia, dei duri però, che avevano osato sfidare la morte più di una volta. Ma questa volta era diverso, era morto un collega buono dall’aspetto gracile, forte però della volontà di continuare a lottare malgrado la malattia che gli toglieva le forze.

Quindici giorni dopo, nel frattempo le ero stato parecchio vicino per quello che era successo, forte del fatto che lo scudiero fosse già impegnato, le ho chiesto di uscire, magari anche di domenica se avesse avuto problemi la sera. Non era un semplice invito ad uscire, tremavo come una foglia secca al vento d’ottobre … Ci ha pensato un po’, facendo roteare quei due stupendi occhietti, sorridendo senza scomporsi. Ha detto che ci pensava e che mi avrebbe fatto sapere, le spiaceva dirmi di no subito; però le si leggeva in faccia che era così. Allora le sono andato incontro dicendole che non importava. “Non te la prendere” mi ha detto. E io le ho risposto: “no, figurati, siamo sempre amici”.(Per me non è mai stata un’amica, ma un sogno. Ma i sogni difficilmente si realizzano, specie con una ragazza così speciale) In quel momento ho sentito come la lama di un coltello che mi entrava nel petto e mi apriva il cuore a metà …

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Non di solo pulp (1)

di Marcello Furiani, da Sottotiro review n. 7, settembre 1997

Abbiamo prima accennato a diverse possibilità della letteratura nel rispondere ad esigenze profonde di trasformazione. I racconti di Alessandro Milanese che seguono indicano il tentativo di interloquire con il proprio presente, le sensibilità, le tendenze e anche le mode correnti contemporanee misurandosi, magari inconsapevolmente, con l’ingombrante memoria della letteratura e sfuggendo ad ogni subordinazione espressiva e ideologica. Il linguaggio di questi racconti, proponendo la bellezza e insieme il malumore di una provincia archetipica, rivendica lo spazio e il ruolo specifico della scrittura, recuperando la tradizione del romanzo di formazione in un confronto con i tempi, i miti, i sentimenti e gli stereotipi di una cultura giovanile, dove convivono rapporti difficili da capire, amori più o meno infelici, relazioni più o meno distanti con gli adulti e un irrisolto riconoscimento con il mondo e con la sua illusoria compiutezza.

 

L’inserzione

Di che gruppo era il cantante Morrissey.

Gli Smiths.

Bravo.

La voce femminile dall’altra parte del filo sembrava stupita per l’ennesima risposta giusta, promise di farmi chiamare al più presto per comunicarmi l’esito.

.La sera stessa mi telefonarono e mi fissarono un appuntamento per la mattina seguente alle dieci. Quelle a cui avevo appena risposto erano una decina di domande di un questionario per essere assunti come magazziniere in un ingrosso di dischi. Era stata mia madre a notare l’inserzione su un giornale locale.

“CERCASI ESPERTO DI MUSICA POP-ROCK”

Io esperto non potevo esserlo di sicuro, visto che non avevo mai lavorato in vita mia, ma le centinaia di dischi che avevo a casa, frutto di creste colossali sulla spesa dei miei dovevano ben servire a qualcosa

Durante la notte non chiusi occhio pensando a quello che significava per me un vero lavoro: tutto sarebbe cambiato all’improvviso.

Al mattino feci una lunga doccia, misi la meno brutta delle mie camicie, un paio di Levi’s, le Clarks, e piangendo raggiunsi quello che sarebbe diventato il mio posto di lavoro.

 

Domenica mattina

Quella stupida lucidapavimenti faceva più rumore del solito, la donna alla guida aveva un camice rosso e la faccia di una persona che avrebbe preferito la miniera a quel corridoio d’ospedale, la domenica mattina.

Io mi trascinavo a stento fra quei muri bianchi e l’odore di cloroformio.

Dentro l’ascensore fissavo con insistenza i miei occhi azzurri circondati dal viola riflessi nel vetro.

Non avevo dormito molto negli ultimi giorni, un po’ per il cambio di stagione e un po’ per tutti quei problemi che la primavera si porta dietro ogni anno. Dovevo salire all’ottavo e ultimo piano in medicina 2, era quello il reparto in cui mio nonno trascorreva le sue giornate da più di due mesi.

Dopo aver dato l’ultima rapida occhiata alla mia faccia uscii dall’ascensore incamminandomi nel reparto.

Due infermiere parlavano ad alta voce della questione albanese:

-Dovrebbero affondarli tutti. Disse una.

-Non dirlo a me, ho paura persino ad uscire di casa. Rispose l’altra.

Pensai che anche il più scellerato di Albanese si sarebbe guardato bene dal toccare quella specie di cassapanca parlante, ma era domenica mattina e non avevo alcuna voglia di fare delle discussioni inutili.

Arrivato in camera trovai mio nonno disteso sul letto e mia nonna accanto.

Lanciavano urla in dialetto monferrino, sembravano inviperiti.

-Ciao nonno.

-Ah ciao.

-Ma perché siete sempre dietro a litigare?

-Ma, sai com’è, passa il tempo più in fretta se facciamo qualcosa.

.Sorridendo mi avvicinai alla finestra.

A qualche centinaio di metri la città viveva la sua giornata.

Nel parco, proprio davanti all’ospedale, c’erano cani che rincorrevano bastoni lanciati da padroni, giovani in bici con anziani che leggevano.

Erano tutti così lontani da quella stanza di Medicina 2 all’ottavo piano.

Erano tutti così lontani da me, che appoggiato al marmo del termosifone li guardavo mentre vivevano la loro vita.

accompagnata da un’ironia consapevole diventa compiacimento, esibizione, spettacolarizzazione – ingenua e fragile a dire il vero – circa un sottoprodotto per nulla sconvolgente della ferocia e dell’atrocità gratuite del tempo che intende descrivere.

 

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Il bohemien anarchico

Omaggio ad Erich Muhsam

di Marcello Furiani, da Sottotiro review n. 6, maggio 1997

Ben lontani dalla presunzione di voler “riscoprire” un autore, operazione che sottende ad un’interpretazione inedita e più acuta di quelle che l’hanno preceduta, ci limitiamo ad additare il nome di un autore scarsamente tradotto nella nostra lingua e raramente frequentato dagli editori (e dagli Intellettuali) di casa nostra.

Nato a Berlino nel 1878 e morto in un lager nazista nel 1934, Erich Muhsam era uno scrittore. Uno scrittore anarchico. Attivista politico, giornalista di manifesta lotta rivoluzionaria con esiti lucidamente anarchici sulle vecchie radici marxiste-socialiste.

Per Muhsam l’attività giornalistica era da intendersi come una vera e propria forma di azione diretta di carattere eversivo. Sullo stesso registro si muove la sua attività letteraria, maneggiando un linguaggio formale che procede dalla vecchia scapigliatura del cabaret satirico (che pervade anche i suoi testi poetici, ben lontani da soluzioni intimistiche) verso gli accesi stilemi retorico-estatici dell’espressionismo. Le sue composizioni, pur essendo volontariamente anche arte di propaganda, sono sicuramente espressione di un’epoca e di un ambiente culturale vissuti in prima persona. Si pensi alle movenze Jugendstil del primo periodo, soprattutto come filosofia della vita più che come stile artistico, in cui un’utopia estetizzante è il sogno, nell’era industriale, di una società senza classi e di un uomo senza peccato: un paradiso in terra dove la natura e la bellezza sarebbero state le difese contro il fragore e l’alienazione della moderna civiltà. Oppure si notino la trama espressionistica d’alcune sue opere di mezzo, la concretezza realistica e documentaria fino al modello di teatro-documento degli altri lavori. Per inciso, si ricorda che Erwin Piscator, gran maestro del teatro di agitazione politica, s’interessò ai testi di Muhsam, alla loro trasparenza, alla forma onesta e chiara, priva di giochi tecnici e stilistici d’alcun genere.

Muhsam non si premurò delle tendenze o delle possibilità offerte dalla prassi teatrale e letteraria di allora, in cui si passava dal vecchio dramma naturalistico, con contaminazioni dialettali e duplicazioni da “tranche de vie”, all’ancora assiduo dramma storico in versi o in prosa di discendenza schilleriana, pindarico e vivace, copioso di alti ideali e drammatici duelli ostentati come stendardi;  oppure al neo-oggettivismo, radicato nella Storia, della Neue Sachlichkeit, aspro e pungente, ma con l’esito, nella presunzione di un’efficace rappresentazione disadorna del reale, di proporne un calco automatico ed artificioso, quasi frutto di un congegno meccanico.

Continuamente perseguitato e incarcerato in quanto ebreo ed anarchico, ma mai rassegnato al silenzio, fu collaboratore instancabile di giornali e riviste – sulle quali disputava dei problemi della democrazia e scagliava acuti e polemici attacchi alla borghesia, alla sua morale, alle tendenze nazionalistiche, agli impulsi del militarismo, alla chiesa – frequentatore assiduo dei circoli e dei gruppi culturali e politici, dei cabaret letterali e delle organizzazioni operaie della Berlino del primissimo ‘900 – nutrendo nei confronti dell’uomo del sottosuolo” un sentimento d’autentica adesione e di non ipocrita condivisione delle sue miserie.

Ben lontano dal filisteismo di molti scrittori dell’espressionismo e del naturalismo poetico – che ritrassero l’umanità dei “reietti” condividendone la degradazione, senza però farsi carico del gesto che ne spartisse la sofferenza – Muhsam s’avvicinò a questa classe sociale identificandola come “l’avanguardia di una società migliore” potenzialmente rivoluzionaria, i cui personaggi esemplificano e compendiano la disubbidienza sociale. Si sviluppa l’esempio della figura di Caino – ormai già riabilitata nel secolo del romanticismo attraverso anche apporti nietzscheani, dell’uomo superiore isolato nel seno di una società gregaria – prototipo del ribelle cui è negato ogni diritto elementare, “come il Prometeo mitico” che incarna in rifiuto di un’etica della sottomissione e delle fede cieca, in nome di un’insopprimibile esigenza di libertà.

Chi dopo la morte vuole andare in paradiso è chi in vita vuole avere il potere, e chi in vita ha il potere è chi consola le sue vittime con la prospettiva del Regno dei Cieli dopo la morte.
Chi ama la libertà ed ha accettato in sé, definitivamente, l’idea che l’uomo sarà libero quando lo sarà la società, ma che la società della libertà può essere creata soltanto da uomini interiormente liberi, comincerà da se stesso e nel suo ambiente l’opera di liberazione. Egli non sarà lo schiavo di nessuno e saprà che non è schiavo soltanto colui che non vuole più essere padrone di nessuno. È libero l’uomo che lascia a tutti gli altri uomini la libertà e sarà libera la società che vivrà nell’uguaglianza del cameratismo e nella libertà.
Se non avessimo avuto la spensierata incoscienza di viaggiare per il mondo sempre senza programmi, col solo denaro per i biglietti, e di affidare al caso e al nostro buon genio tutelare il problema dell’alloggio e del cibo durante il viaggio, adesso me ne starei qui con i miei cinquant’anni, non avrei visto Firenze né Parigi e non avrei nostalgia di una giovanile paura piccolo borghese per un po’ di fame e per le cimici di qualche misero ostello italiano.

                                                                                                       ERICH MUHSAM

Emerge qui l’aspetto più singolare dell’autore: la sua coscienza anarchica, continuamente alimentata da un’insoddisfatta tensione alla ribellione e alla libertà, convive in misura apparentemente eccentrica con la seduzione della bohéme. Come rileva opportunamente Luisa Coeta nella postfazione all’edizione italiana de “La psicologia della zia ricca” – a cui si rimanda per un ritratto esauriente dell’autore – “anarchia e bohème rappresentarono le due anime di Muhsam” e gli permisero di essere espressione fedele, attenta ed anticipatrice di un periodo e di un paesaggio culturale vissuto in prima persona.

Da Parigi a Vienna, da Monaco a Berlino – passando anche per la ricerca di modelli alternativi di vita (si veda l’opuscolo “Ascona”, resoconto dell’esperienza nell’omonima comunità nata come resistenza alla civiltà industrializzata) – Muhsam fu un instancabile giornalista, polemista, saggista e scrittore che amava esprimersi soprattutto per mezzo della stampa. I fatti e le circostanze occasionali del tempo assurgevano ad una questione sociale più ampia, diventandone espressione e al tempo stesso indizio di chiaro rilievo.

Il suo pensiero, disperso in numerose glosse e saggi, pur non essendo agevolmente condensabile, si presenta comunque lungimirante e lucido soprattutto nella distanza che operò dallo stalinismo e dal fascismo, considerando il primo come il conclusivo ed immobile esito dell’idea di stato e il secondo come caratteristica ineliminabile di una società capitalistica, capace di camuffarsi e di modificarsi nel superamento d’ogni crisi che ne minacci la sopravvivenza. In questa sua capacità di scorgere, smascherare e denunciare con anticipo e lungimiranza le mistificazioni, le intolleranze e i pericoli che si insinuavano nel tessuto sociale del suo tempo si trova il movente dell’accanita persecuzione di cui fu vittima Eric Muhsam, mentre l’impossibilità, dopo la sua morte, di liquidarne e delimitarne il pensiero in una facile e semplicistica definizione spiega l’oblio e la negligenza nei confronti della sua opera e della sua persona.

 

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Battere il colpo

di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 5, novembre 1996

Il primo numero della nuova serie di SOTTOTIRO (il numero quattro) ha ormai fatto la sua strada. Le centocinquanta copie stampate sono state distribuite brevi manu, con un criterio se vogliamo “selettivo”, che non sarà il massimo per quanto attiene alla “democraticità”, ma ci assicura che almeno in parte siano state lette. Era questo l’obiettivo che ci si poneva e i riscontri ottenuti ci fanno credere di averlo centrato.

La nuova serie nasce dalla collaborazione di due gruppi che hanno annullato la distanza nello spazio con la prossimità negli ideali: il Circolo Reds di Vecchiano, ideatore della testata e redattore della prima serie, e i Viandanti delle Nebbie di Ovada. A dimostrazione che i problemi, i bisogni, i sogni sono gli stessi ovunque, e che le risposte, al netto dalle diversità delle istanze e delle urgenze locali, coincidono. In questo numero la collaborazione e la fusione diventano ancora più strette. Ma non intendiamo fermarci qui. Vogliamo provare a dar voce ad una sotterranea identità di sentire che riteniamo diffusa, anche se minoritaria, e che non soltanto non trova spazio nel supermarket dell’imbonimento informativo, ma nemmeno lo cerca. Crediamo cioè che esistano migliaia di altre coscienze cui ripugna esporsi sui chilometrici scaffali della coazione e dell’uniformazione al consumo, confondersi con mille offerte speciali, tutte confezionate alla stessa maniera, sterilizzate, plastificate, valide per un giorno e destinate in quello successivo all’immondezzaio dell’effimero.

Le pagine della rivista sono dunque aperte: aperte ai singoli o ai gruppi che si riconoscono nella testarda riproposizione di idealità forti, nel rifiuto di omologarsi ai parametri dell’imbecillità patinata e televisiva, nell’opporre una resistenza estrema al martellamento dei surrogati di sogno che sta facendo terra bruciata degli anni e degli intelletti. Ragazzi, se ci siete battete un colpo!

[…] Guai! Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’uomo, e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare! Io vi dico: bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante. Io vi dico: voi avete ancora del caos dentro di voi. Guai! Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non partorirà più stella alcuna. Guai! Si avvicinano i tempi dell’uomo più spregevole, quello che non sa disprezzare se stesso.
Ecco! Io vi mostro l’ultimo uomo.
F. NIETZSCHE

 

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La poesia di Beppe Salvia

di Marcello Furiani, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996

Non è frequente, nella poesia degli ultimi vent’anni, imbattersi in versi lievi eppure compatti, leggeri eppure solenni come quelli di Beppe Salvia. Sottile e fluida la sua poesia è lo specchio di un vuoto da cui, senza un grido, si figura un sentimento d’esilio che intride il sangue e lo guasta irreparabilmente.
Le ferite del poeta sono immedicabili, come per un veleno sottile o per invisibile contagio, eppure la voce preserva un tono pacato, il verso si distende in un endecasillabo gentile, da cui traspare come in filigrana un disperato desiderio d’essere dentro le cose, dentro la vita e, contemporaneamente, la consapevolezza di non esserne capace.
La vita sognata, l’“aerea vita” appare continuamente a portata di mano, attraverso i piccoli oggetti quotidiani, i brevi “sentimenti paghi di letizia”, ma nessuno riuscirà ad esserne all’altezza, ad essere cosa tra le cose, vita nella vita, a contenere – proprio in senso etimologico – l’insostenibile leggerezza, l’insopportabile superficialità della vita. La profondità del senso dell’esistere richiede alla nostra grevità una levità, una vaghezza di cui siamo incapaci.
Il vivere lamenta ad ogni passo una mancanza, un’assenza: la voce s’imbriglia in un sentimento di nostalgia, “nostalgia delle cose impossibili”, del vuoto e del nulla, di una condizione quasi prenatale, di ciò che non è stato e non sarà, di ciò che non nasce e quindi non s’infetta e non perisce.
La nostalgia in Salvia è lo scacco, la tragedia senza catarsi, poiché la nostalgia dell’assenza è al di là delle passioni e della vita, pur se la sua poesia è così felice-mente, e perciò dolorosamente, abitata di cose e colori, di odori e giorni, capaci di fermarsi ed indugiare il tempo innamorato di un ascolto.

Beppe Salvia è nato a Potenza nel 1957. Tra i fondatori della rivista “Braci”, ha pubblicato alcuni testi su “Nuovi Argomenti”. È sempre vissuto poveramente, mantenendosi con lavori occasionali e con l’aiuto di alcuni amici. È morto suicida a Roma, durante la Pasqua del 1985.

(Quanto fu lunga la mia malattia,
e tanto amara la mia vita in quella
fu stretta e spiegazzata come un cencio,
e io pallido e stanco come un mondo
intero dovessi sopportar tutto
sulla mia schiena, faticavo tanto,
m’immaginavo mondi tutti assai
più lievi e volatili di questo mio,
che tanto m’affliggeva e tormentava,
e vaneggiavo di nascoste verità
e cieli quieti di pensieri chiari
ove più mio l’animo affranto potesse
dimorare, e non trovavo queste
cose che non esistono, e soffrivo)

I miei malanni si sono acquietati,
e ho trovato un lavoro. Sono meno
ansioso e più bello, e ho fortuna.
È primavera ormai e passo il tempo
libero a girare per strada. Guardo
chi non conobbe il dolore e ricordo
i giorni perduti. Perdo il mio tempo
con gli amici e soffro ancora un poco
per la mia solitudine.
Ora ho tempo per leggere e per scrivere
e forse faccio un viaggio, e forse no.
Sono felice e triste. Sono distratto
e vagando m’accorgo di che è perduto.

M’innamoro di cose lontane e vicine,
lavoro e sono rispettato, infine
anch’io ho trovato un leggero confine
a questo mondo che non si può fuggire.
Forse scopriranno una nuova legge
universale, e altre cose e uomini
impareremo ad amare. Ma io ho nostalgia
delle cose impossibili, voglio tornare
indietro. Domani mi licenzio, e bevo
e vedo chimere e sento scomparire
lontane cose e vicine.

fui prigione di cifre d’alfabeto
e delle loro forme allineate
e dello sciocco mistero che non mai
muti maestri insegnano a noi.
mai mi fu detto e constenti imparai
che non v’è ossa e sangue nelle cose
morte, di che si possa, meravigliose
dimenticarne, eterne. E non più mai
le perfezioni del pensiero a queste
cose inanimate san provvedere
che sian così mutevoli e leggere
da non imprigionare i vivi. Tanto
noi siamo, d’aerea vita soltanto
nuda dimora della vita e tanto
basta ad aver caro il grave, il centro
imperfettibile, d’ignoto peso.

 

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Ma allora esiste?

di Marcello Furiani, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996

  1. La poesia esiste tuttora, vitale e numerosa, e continua a servirsi dei poeti, purché essi siano disposti all’incredibile sforzo che costa assottigliarsi tanto da ottenere la necessaria trasparenza.
  2. La ferita è al centro della poesia.
    Come una ferita le parole si aprono sempre più mentre la parola si chiude in un proprio arcaismo intimo. Accostate per ferirsi e scoprirsi, le parole non sono i guitti adatti all’avanspettacolo di un teatrino dell’io, ma compiono ritualmente i gesti crudeli che la sperimentazione liturgica richiede: urtandosi nei piccoli chiostri dei suoi metri, finiscono per scorticarsi, per perdere la superficie.
    Metafore nel senso più primordiale del termine, il cuore, il sangue, le ciglia, la bocca sono propriamente parti per il tutto: non devono ricongiungersi o accordarsi: compiono la fatica poetica, al tempo stesso non venendo meno all’inevitabile funzione di risarcimento della piaga esistenziale, della mancanza di un senso, cui accenna Blumenberg.
  1. Un verso è il luogo destinato alla missione delle assonanze, allitterazioni, reiterazioni: in quello spazio ristretto e sconfinato esse devono dire, pronunciare i loro couplets, le piccole ariette imbarazzate e legnose, cariche di furia, di garbo o di scontrosa ritrosia: marionette tinte nelle vernici futuriste o dada, ormai un poco essiccate o fanèes, o annerite nel sangue di un espressionismo poco caritatevole. La concentrazione del fuoco sulla bambolesca disperazione di questi espedienti retorici non fa che suscitare quanto vi è di viscerale nei taciuti, negli omessi corporei ed erotici di una poesia che non può che essere antilirica e rabbiosamente antiatmosferica: come un negromante il poeta circuisce ed allude, e tanto più mentre ostenta di stendere i tappeti della reticenza e della preterizione sul buio ed il terribile dell’assenza e della mancanza cui non si rimedia. Il poeta richiama le parole a formare le loro figure, le loro costellazioni, di danza e di rito, ed esse si scontrano, ognuna portatrice d’intrasmissibili malanni, senza contagiarsi mai, scambiandosi testimoni come in una gara di spietate coreografie.
  2. La serietà invernale delle narrazioni contenute nei versi denuncia quanto gravosa sia l’ipoteca mitica che il poeta ha acceso sul suo patrimonio lessicale ed iconografico.
    Dalla secca stenografia accostativa all’immagine di maternità surrealista, dalla rima infrequente sotto forma di titubante assonanza ai richiami camuffati all’interno del verso, la devozione notturna della poesia non lascia dubbi: non si tratta di mises indossate ad un defilè di tendenza, ma della sostanza profonda di un’originaria matrice magica ad essere rivissuta e messa in gioco.
  1. Sentinella di frontiera, trasferitasi interamente in quelle laboriose solitudini, il poeta ascolta il misterioso telegrafo del celato ticchettargli gesti, ritmi, cadenze con le quali comporre gli incendi subitanei delle sue miniature. Nel territorio della poesia parole, oggetti, fatti non gettano ombra: nonostante l’apparente éclat delle figure, nessun alone circonda e soffonde le minime mònadi che di volta in volta vengono a costituirla.
  2. Antiepica nelle forme, la poesia è epica nella sostanza più intima e, personalmente, prova ne sia il chiamare in causa la figura femminile, rigorosamente invocata in quanto assente. Invece di compiere incantesimi, essa raggruma le magie della poesia e contemporaneamente ci conferma quanto sia sostanziale l’esperienza dell’altrove assoluto nel quale si svolge l’atto dello scrivere. La poesia non può essere detta e risuonare senza il “tu” di questo femminile, che garantisce i pur brevi ristori di una narrazione. Soltanto dalla lontananza da costei si possono indirizzare i versi, soltanto nella lontananza i versi possono conservare la caratteristica, così effimera, di appunti del viandante, come in un lehrreise che ritorna sullo stesso, malinconico ossessivo percorso.
  3. La poesia esiste tuttora, e le ferite della memoria, che ci fanno vivere, sono tenute aperte soprattutto grazie ai poeti.

22.
Cuore che imprimi prèmiti

e impunito mi tieni
versi esilio nel torace e torci
il verso, il gesto breve.

Sbianca le labbra lo sguardo
così aspro da dire
dove cade il respiro e raggela
la parola, il pallore sottile.

9. (winterreise)
D’un inverno dimora d’ombra

sta come un cortile nel gelo
l’asciutto andare se corto
se incerto nel sogno sfigura
d’un tempo il malo modo
la premura il nodo al cuore.

XXVI.
Il primo polso si placa
ma incompiuto nella corta
quiete dell’osso e intende
a lungo tra la scheggia del cuore
e la pioggia volgersi e sostare.

10.
Divide il respiro e svoglia

tardiva memoria che veglia
sul disgelo la gola taciuta
saliva in filo che impiglia
e non vede e non veduta.

18.
È un’ombra questo andare
senza impronta tra crudi
congedi simile alla morte
questo andare immaginando
tra un corto sguardo che perde
il cuore ma nella saliva
cerca un filo per tornare.

 

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Perché scrivere?

di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996

Scrivere sottintende una volontà di riconoscersi. Qualche volta. Più spesso sottintende invece solo l’ambizione di essere riconosciuto. Riconoscersi significa prendere coscienza di sé, essere riconosciuto significa rinunciare a questa coscienza e accontentarsi di apparire. Messo giù così suona chiaro ed essenziale. Lapidario. Sono tentato quasi di congratularmi con me stesso, quando mi viene in mente che le lapidi si prestano male ad aprire un discorso. Di norma lo chiudono. E allora, come esordio non ci siamo. Perché le cose poi, nella realtà, non sono così semplici come negli aforismi. Per fortuna.

Proviamo allora a complicare un po’ il discorso.

Partiamo dal riconoscersi, dal prendere coscienza di sé. Nella accezione più semplice riconoscersi significa sottrarsi all’inautenticità, al conformismo, all’omologazione, alle opinioni in serie (maggioritarie o minoritarie, conformiste o trasgressive che siano): in parole povere, avere il coraggio di pensare con la propria testa. In effetti, l’esercizio di riflessione che la scrittura postula può aiutarci a trovare questo coraggio. L’economia dello scrivere ci impone linearità e conseguenza, ci obbliga a far chiarezza nella nostra mente. Ma in questa operazione il riflessivo (riconoscersi) non può prescindere dal transitivo (riconoscere). Scrivendo conosciamo meglio noi stessi perché siamo costretti a fare il punto sullo stato della nostra conoscenza (se si vuole, della nostra ignoranza). Quindi per riconoscerci indirizziamo lo sguardo al nostro interno, ma solo per vedere come si rispecchia in noi ciò che sta fuori: e di questa auto-indagine la scrittura è uno strumento prezioso.

Scrivere, tuttavia, non è solo una forma di razionalizzazione: è soprattutto un atto di mediazione. La parola scritta, spogliata delle inflessioni, delle tonalità e delle sfumature vocali, in qualche modo si stacca da noi (dalla nostra presenza, dalla nostra corporeità), si assolutizza: diviene riassuntiva, al livello più semplice, delle svariate implicazioni e interpretazioni di ogni singolo fonema, si pone come un minimo comune denominatore sul quale soltanto è possibile fondare la comunicazione allargata (quella cioè che non passa tra interlocutori che si confrontano fisicamente). Essendo un tramite “povero” nel senso della individuazione, perché elimina tutte le particolarità e le singolarità espressive, la scrittura facilita il “riconoscimento” in quei denominatori che possono costituire la base di un rapporto culturale. Riconosciamo cioè che, al di là delle contingenze del nostro sentire e del nostro vivere, coltiviamo idee, diamo interpretazioni del mondo che sono state, sono e si spera saranno condivise da altri: non moltissimi (purtroppo), ma non importa. Questa coscienza ci aiuta a sconfiggere l’angoscia della solitudine e dell’insignificanza, e al tempo stesso giustifica e impone che usciamo allo scoperto. Scrivendo dunque ci riconosciamo negli altri, ma ci attendiamo anche di essere riconosciuti dagli altri. E allora scriviamo per essere riconosciuti, oltre che per riconoscerci. Con buona pace della lapide iniziale.

 

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Compagno, se ci sei batti due fogli

di Paolo Repetto, da Contro n. 4, 1980

Mi permetto ancora un breve intervento su quello che avrebbe dovuto essere il dibattito sullo stato della nuova sinistra e sul suo ruolo, auspicato e lanciato qualche mese fa da questo giornale. Dico “avrebbe dovuto essere”, perché in effetti l’iniziativa si è arenata subito, e al momento sembra che i compagni non abbiano alcuna intenzione di farla marciare.

Ora, non mi nascondo che la cosa potrebbe anche sembrare positiva, visto che i dibattiti, assieme al colera, alle inchieste e ai congressi vanno ormai annoverati tra le calamità endemiche del nostro paese, e che ci si “dibatte” a sinistra, al centro, nel sindacato, sull’ecologia, sulla masturbazione, sulla Panda, ecc… , coi risultati che si conoscono. Sono anche convinto che sia senz’altro difficile prendere ancora seriamente in considerazione uno “strumento d’analisi” che è stato usato persino da Craxi (!!), quando faceva Livingstone alla ricerca delle sorgenti ideologiche del suo partito (le ha poi ritrovate nel petrolio arabo). In linea di massima, quindi, ogni dibattito che non si fa potrebbe essere considerato un successo, un trionfo del buon senso e della serietà. E tuttavia, confesso di aver nutrito una mezza speranza che questa volta la noia e il sospetto, e soprattutto quel pizzico di “puzza al naso” che la banalizzazione e l’abuso osceno del dibattere hanno indotto, potessero essere ancora superati. Credevo cioè che di fronte alla possibilità di dimostrare come il riflusso abbia portato con sé solo i sugheri i compagni si sarebbero sentiti stimolati ad un ripensamento e ad un tentativo serio di analisi sul perché e sul come del loro essere nella sinistra.

Forse mi ero fatto delle illusioni, forse, va a sapere, il ripensamento si presenta ponderoso, e allora dobbiamo aspettarci, senza fretta, dei parti teorici di grossa levatura. Vorrei sperarlo: ma in verità ci credo poco. Ho l’impressione invece che la sfiducia e l’afasia si siano veramente impadronite dei compagni. Che anche coloro che non si sono dati alla meditazione trascendentale o all’apicoltura intensiva siano ridotti ad una militanza abitudinaria, vadano avanti per forza d’inerzia.

L’impressione non nasce solo da questo fatto assolutamente contingente del mancato dibattito: si è maturata anche nei contatti personali, negli incontri, nei tentativi di aggancio, di ricostituzione di un tessuto umano e politico della nuova sinistra locale meno sfilacciato di quello attuale. C’è molta stanchezza, veramente, in giro. Si incontra troppa gente che non capisce come per uscire da questo torpore occorra riscoprire la necessità, magari anche solo ad uso personale, dell’impegno concreto, rivedendone senz’altro i termini, legandolo al privato quanto si vuole, evitando di connotarlo in senso missionario o penitenziale, ma dando un senso a questa benedetta esistenza, a questo trascorrere dei giorni e delle leggi speciali.

E molti hanno magari paura di fare discorsi inutili, o scontati, o utopistici, e per questo non parlano. È anche vero, ci sono già quelli che parlano troppo e inutilmente, basta accendere il televisore o aprire un qualsiasi giornale: ma non è diventando muti che li si combatte. Diventando muti li si lascia solo parlare. e anche se dicono cazzate diventano loro i padroni del discorso. Invece bisogna togliere loro la parola proprio parlando, gridando, sussurrando, sibilando, usando il linguaggio in tutte le sue potenzialità, distruttive e creative. Parlando soprattutto tra noi, incontrandoci, discutendo, dibattendo. Può darsi che serva a poco o niente, ma cristo, perlomeno ci si prova.

Bisogna ritrovare la forza di arrabbiarsi. Ogni volta che appaiono Andreotti o Longo o Emilio Fede o Costanzo o tutti gli altri sul video le viscere debbono rivoltarsi, il cibo deve andare di traverso, il colesterolo deve salire; ogni volta che leggiamo le loro dichiarazioni o i commenti alle loro dichiarazioni sul giornale un senso di nausea deve scendere fino al nostro stomaco. Se ci abituiamo a digerirli con il cappuccino o con la cena siamo spacciati. Loro non cercano altro: vogliono essere assimilati. Gliene frega assai del consenso: quello è un problema che al più può ancora interessare Berlinguer. Non vivono mica sul consenso: vivono sulla paura, sull’ignoranza, sugli interessi capillarmente diffusi, sulla malafede e sulla rassegnazione e sui silenzi nostri.

Che c’entra questo col dibattito? C’entra eccome! Il dibattito dovrebbe servire se non altro a scaldarci, a risvegliarci, a rispolverare vecchie ire e vecchie speranze, a mandare in culo il telegiornale, il tam tam e il telefilm serale, a riprendere contatto con la realtà senza esserne fagocitati o annichiliti, vedendola non come ciò che è e si impone, ma come ciò che va cambiato. A trovare, nella coincidenza o nella discordanza d’idee con altri compagni, stimoli e indicazioni. A ridarci un parametro sul quale misurare e rifiutare e irridere i vaniloqui dei segretari politici, delle triadi sindacali, dei sommi pontefici, dei procuratori capi e via dicendo.

Quanto ai primi interventi, magari erano poco stimolanti, presuntuosi, vaghi, noiosi, tutto quel che si vuole. Ma c’erano, che diavolo, non fosse altro per essere controbattuti o ridicolizzati; insomma, un senso, positivo o negativo, lo avevano, una indicazione, da elaborare o da rifiutare, la davano. Invece, niente! Sembra che chiunque possa ormai azzardare qualsiasi oscenità, fare qualsiasi proposta, non succede niente! E allora questo spiega tutto: spiega Piccoli ed Evangelisti, spiega il morto quotidiano da eroina e tutto il resto. Che sia davvero già troppo tardi?

 

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