di Paolo Repetto, 1999
Editare un proprio libricino non è del tutto inutile. Quanto meno ti aiuta a capire come scrivi. Certe cose infatti le puoi cogliere solo quando tagli finalmente il cordone ombelicale, suggellando con la stampa un distacco definitivo ed entrando nei panni di un improbabile lettore. Rileggendolo tutto (perché malgrado lo conoscessi quasi a memoria la tentazione l’ho avuta), e soprattutto rivedendo il brano sul Perché scrivere, ne ho tratto queste considerazioni:
- La mia scrittura è destinata ad un pubblico molto ristretto. Praticamente solo a chi mi conosce di persona. Credo che ad altri non possa offrire alcun diletto (sempre che ne offra ai primi). Non ha senso quindi (e sono contento di averlo capito subito) pensare ad una forma di pubblicazione che non sia quella scelta.
- Il limite di questa scrittura, sempre che tale lo si voglia considerare, è che è di testa. Io ragiono con la testa, e mi comporto col cuore. Ma sulla pagina finisce quello che penso, non quello che faccio. Trasmetto considerazioni, forse idee, qualche volte magari emozioni: ma mai sentimenti. Non è problema di riuscirci o meno. Non mi interessa trasmetterli. I sentimenti sono una cosa mia (e poi i miei sono talmente aggrovigliati che sfido chiunque a distenderli su una pagina).
- Una volta accettato questo limite, che mi esclude in fondo solo dalla scrittura creativa, deve prendere atto di altri, ben più gravi. Parlavo di messa in circolo di idee: ma si tratta di idee mai rivoluzionarie o innovatrici, di quelle che aprono scenari nuovi, ecc… Non sono nemmeno idee riciclate o usate o orecchiate, questo no. Semplicemente sono convincimenti ai quali sono pervenuto attraverso un percorso molto personale, molto extra-vagante, frutto di scelte e curiosità mai lineari. Per farla breve, in genere arrivo a dire cose che per me sono nuove, e che lo sono magari per qualcun altro, ma che già circolano, o delle quali si sente l’odore. Ma non ci arrivo fiutando il vento, bensì attraverso un mio particolare menù. E queste idee funzionano come le indicazioni di una caccia al tesoro, che appena le trovi ti spediscono da un’altra parte.
- Non solo. Queste idee quando si sono “concretizzate”, hanno assunto una configurazione meno nebulosa, finiscono in genere per confliggere con i miei sentimenti. Nello stesso momento in cui arrivo a pensare certe cose diffido e dubito per istinto di ciò che sto pensando. O almeno, dubito della sua importanza. Mi importava arrivarci, ma una volta raggiunte certe consapevolezze queste mi appaiono ovvie e scontate (o, in qualche caso, incomunicabili).
- Il limite maggiore della mia scrittura è comunque un altro: è l’autocompiacimento. La mia è una scrittura che si autocompiace. Credo che tutte le scritture, letterarie o saggistiche, tendano in qualche modo a patire questo difetto: ma nella mia esso è quanto mai evidente. Si sente lo spartito, la volontà di tenere il suono del discorso sempre sotto controllo, di eseguire perfettamente lo schema. Come nelle sinfonie, lo schema è circolare, e un discorso circolare si morde la coda, non porta avanti. Ma io so scrivere solo così.






Cari professori,

Nato a Berlino nel 1878 e morto in un lager nazista nel 1934, Erich Muhsam era uno scrittore. Uno scrittore anarchico. Attivista politico, giornalista di manifesta lotta rivoluzionaria con esiti lucidamente anarchici sulle vecchie radici marxiste-socialiste.



Partiamo dal riconoscersi, dal prendere coscienza di sé. Nella accezione più semplice riconoscersi significa sottrarsi all’inautenticità, al conformismo, all’omologazione, alle opinioni in serie (maggioritarie o minoritarie, conformiste o trasgressive che siano): in parole povere, avere il coraggio di pensare con la propria testa. In effetti, l’esercizio di riflessione che la scrittura postula può aiutarci a trovare questo coraggio. L’economia dello scrivere ci impone linearità e conseguenza, ci obbliga a far chiarezza nella nostra mente. Ma in questa operazione il riflessivo (riconoscersi) non può prescindere dal transitivo (riconoscere). Scrivendo conosciamo meglio noi stessi perché siamo costretti a fare il punto sullo stato della nostra conoscenza (se si vuole, della nostra ignoranza). Quindi per riconoscerci indirizziamo lo sguardo al nostro interno, ma solo per vedere come si rispecchia in noi ciò che sta fuori: e di questa auto-indagine la scrittura è uno strumento prezioso.
