di Paolo Repetto, da Contro n. 4, 1980
Mi permetto ancora un breve intervento su quello che avrebbe dovuto essere il dibattito sullo stato della nuova sinistra e sul suo ruolo, auspicato e lanciato qualche mese fa da questo giornale. Dico “avrebbe dovuto essere”, perché in effetti l’iniziativa si è arenata subito, e al momento sembra che i compagni non abbiano alcuna intenzione di farla marciare.
Ora, non mi nascondo che la cosa potrebbe anche sembrare positiva, visto che i dibattiti, assieme al colera, alle inchieste e ai congressi vanno ormai annoverati tra le calamità endemiche del nostro paese, e che ci si “dibatte” a sinistra, al centro, nel sindacato, sull’ecologia, sulla masturbazione, sulla Panda, ecc… , coi risultati che si conoscono. Sono anche convinto che sia senz’altro difficile prendere ancora seriamente in considerazione uno “strumento d’analisi” che è stato usato persino da Craxi (!!), quando faceva Livingstone alla ricerca delle sorgenti ideologiche del suo partito (le ha poi ritrovate nel petrolio arabo). In linea di massima, quindi, ogni dibattito che non si fa potrebbe essere considerato un successo, un trionfo del buon senso e della serietà. E tuttavia, confesso di aver nutrito una mezza speranza che questa volta la noia e il sospetto, e soprattutto quel pizzico di “puzza al naso” che la banalizzazione e l’abuso osceno del dibattere hanno indotto, potessero essere ancora superati. Credevo cioè che di fronte alla possibilità di dimostrare come il riflusso abbia portato con sé solo i sugheri i compagni si sarebbero sentiti stimolati ad un ripensamento e ad un tentativo serio di analisi sul perché e sul come del loro essere nella sinistra.
Forse mi ero fatto delle illusioni, forse, va a sapere, il ripensamento si presenta ponderoso, e allora dobbiamo aspettarci, senza fretta, dei parti teorici di grossa levatura. Vorrei sperarlo: ma in verità ci credo poco. Ho l’impressione invece che la sfiducia e l’afasia si siano veramente impadronite dei compagni. Che anche coloro che non si sono dati alla meditazione trascendentale o all’apicoltura intensiva siano ridotti ad una militanza abitudinaria, vadano avanti per forza d’inerzia.
L’impressione non nasce solo da questo fatto assolutamente contingente del mancato dibattito: si è maturata anche nei contatti personali, negli incontri, nei tentativi di aggancio, di ricostituzione di un tessuto umano e politico della nuova sinistra locale meno sfilacciato di quello attuale. C’è molta stanchezza, veramente, in giro. Si incontra troppa gente che non capisce come per uscire da questo torpore occorra riscoprire la necessità, magari anche solo ad uso personale, dell’impegno concreto, rivedendone senz’altro i termini, legandolo al privato quanto si vuole, evitando di connotarlo in senso missionario o penitenziale, ma dando un senso a questa benedetta esistenza, a questo trascorrere dei giorni e delle leggi speciali.
E molti hanno magari paura di fare discorsi inutili, o scontati, o utopistici, e per questo non parlano. È anche vero, ci sono già quelli che parlano troppo e inutilmente, basta accendere il televisore o aprire un qualsiasi giornale: ma non è diventando muti che li si combatte. Diventando muti li si lascia solo parlare. e anche se dicono cazzate diventano loro i padroni del discorso. Invece bisogna togliere loro la parola proprio parlando, gridando, sussurrando, sibilando, usando il linguaggio in tutte le sue potenzialità, distruttive e creative. Parlando soprattutto tra noi, incontrandoci, discutendo, dibattendo. Può darsi che serva a poco o niente, ma cristo, perlomeno ci si prova.
Bisogna ritrovare la forza di arrabbiarsi. Ogni volta che appaiono Andreotti o Longo o Emilio Fede o Costanzo o tutti gli altri sul video le viscere debbono rivoltarsi, il cibo deve andare di traverso, il colesterolo deve salire; ogni volta che leggiamo le loro dichiarazioni o i commenti alle loro dichiarazioni sul giornale un senso di nausea deve scendere fino al nostro stomaco. Se ci abituiamo a digerirli con il cappuccino o con la cena siamo spacciati. Loro non cercano altro: vogliono essere assimilati. Gliene frega assai del consenso: quello è un problema che al più può ancora interessare Berlinguer. Non vivono mica sul consenso: vivono sulla paura, sull’ignoranza, sugli interessi capillarmente diffusi, sulla malafede e sulla rassegnazione e sui silenzi nostri.
Che c’entra questo col dibattito? C’entra eccome! Il dibattito dovrebbe servire se non altro a scaldarci, a risvegliarci, a rispolverare vecchie ire e vecchie speranze, a mandare in culo il telegiornale, il tam tam e il telefilm serale, a riprendere contatto con la realtà senza esserne fagocitati o annichiliti, vedendola non come ciò che è e si impone, ma come ciò che va cambiato. A trovare, nella coincidenza o nella discordanza d’idee con altri compagni, stimoli e indicazioni. A ridarci un parametro sul quale misurare e rifiutare e irridere i vaniloqui dei segretari politici, delle triadi sindacali, dei sommi pontefici, dei procuratori capi e via dicendo.
Quanto ai primi interventi, magari erano poco stimolanti, presuntuosi, vaghi, noiosi, tutto quel che si vuole. Ma c’erano, che diavolo, non fosse altro per essere controbattuti o ridicolizzati; insomma, un senso, positivo o negativo, lo avevano, una indicazione, da elaborare o da rifiutare, la davano. Invece, niente! Sembra che chiunque possa ormai azzardare qualsiasi oscenità, fare qualsiasi proposta, non succede niente! E allora questo spiega tutto: spiega Piccoli ed Evangelisti, spiega il morto quotidiano da eroina e tutto il resto. Che sia davvero già troppo tardi?