La poesia di Beppe Salvia

di Marcello Furiani, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996

Non è frequente, nella poesia degli ultimi vent’anni, imbattersi in versi lievi eppure compatti, leggeri eppure solenni come quelli di Beppe Salvia. Sottile e fluida la sua poesia è lo specchio di un vuoto da cui, senza un grido, si figura un sentimento d’esilio che intride il sangue e lo guasta irreparabilmente.
Le ferite del poeta sono immedicabili, come per un veleno sottile o per invisibile contagio, eppure la voce preserva un tono pacato, il verso si distende in un endecasillabo gentile, da cui traspare come in filigrana un disperato desiderio d’essere dentro le cose, dentro la vita e, contemporaneamente, la consapevolezza di non esserne capace.
La vita sognata, l’“aerea vita” appare continuamente a portata di mano, attraverso i piccoli oggetti quotidiani, i brevi “sentimenti paghi di letizia”, ma nessuno riuscirà ad esserne all’altezza, ad essere cosa tra le cose, vita nella vita, a contenere – proprio in senso etimologico – l’insostenibile leggerezza, l’insopportabile superficialità della vita. La profondità del senso dell’esistere richiede alla nostra grevità una levità, una vaghezza di cui siamo incapaci.
Il vivere lamenta ad ogni passo una mancanza, un’assenza: la voce s’imbriglia in un sentimento di nostalgia, “nostalgia delle cose impossibili”, del vuoto e del nulla, di una condizione quasi prenatale, di ciò che non è stato e non sarà, di ciò che non nasce e quindi non s’infetta e non perisce.
La nostalgia in Salvia è lo scacco, la tragedia senza catarsi, poiché la nostalgia dell’assenza è al di là delle passioni e della vita, pur se la sua poesia è così felice-mente, e perciò dolorosamente, abitata di cose e colori, di odori e giorni, capaci di fermarsi ed indugiare il tempo innamorato di un ascolto.

Beppe Salvia è nato a Potenza nel 1957. Tra i fondatori della rivista “Braci”, ha pubblicato alcuni testi su “Nuovi Argomenti”. È sempre vissuto poveramente, mantenendosi con lavori occasionali e con l’aiuto di alcuni amici. È morto suicida a Roma, durante la Pasqua del 1985.

(Quanto fu lunga la mia malattia,
e tanto amara la mia vita in quella
fu stretta e spiegazzata come un cencio,
e io pallido e stanco come un mondo
intero dovessi sopportar tutto
sulla mia schiena, faticavo tanto,
m’immaginavo mondi tutti assai
più lievi e volatili di questo mio,
che tanto m’affliggeva e tormentava,
e vaneggiavo di nascoste verità
e cieli quieti di pensieri chiari
ove più mio l’animo affranto potesse
dimorare, e non trovavo queste
cose che non esistono, e soffrivo)

I miei malanni si sono acquietati,
e ho trovato un lavoro. Sono meno
ansioso e più bello, e ho fortuna.
È primavera ormai e passo il tempo
libero a girare per strada. Guardo
chi non conobbe il dolore e ricordo
i giorni perduti. Perdo il mio tempo
con gli amici e soffro ancora un poco
per la mia solitudine.
Ora ho tempo per leggere e per scrivere
e forse faccio un viaggio, e forse no.
Sono felice e triste. Sono distratto
e vagando m’accorgo di che è perduto.

M’innamoro di cose lontane e vicine,
lavoro e sono rispettato, infine
anch’io ho trovato un leggero confine
a questo mondo che non si può fuggire.
Forse scopriranno una nuova legge
universale, e altre cose e uomini
impareremo ad amare. Ma io ho nostalgia
delle cose impossibili, voglio tornare
indietro. Domani mi licenzio, e bevo
e vedo chimere e sento scomparire
lontane cose e vicine.

fui prigione di cifre d’alfabeto
e delle loro forme allineate
e dello sciocco mistero che non mai
muti maestri insegnano a noi.
mai mi fu detto e constenti imparai
che non v’è ossa e sangue nelle cose
morte, di che si possa, meravigliose
dimenticarne, eterne. E non più mai
le perfezioni del pensiero a queste
cose inanimate san provvedere
che sian così mutevoli e leggere
da non imprigionare i vivi. Tanto
noi siamo, d’aerea vita soltanto
nuda dimora della vita e tanto
basta ad aver caro il grave, il centro
imperfettibile, d’ignoto peso.