Prolegomeni a una nuova sinistra

Una breve nota sull’immaginario della sinistra

Breve nota sull'immaginario della sinistra 01Per una volta siamo di parola. Ecco infatti il secondo intervento di Beppe Rinaldi, promesso un paio di settimane fa

Rinaldi prende spunto nel testo che segue da un piccolo saggio di Aldo Schiavone (Sinistra!, edito da Einaudi nel 2023), per guidarci in una riflessione sullo stato attuale del pensiero di sinistra e sulle sue future prospettive. In effetti ne abbiamo un gran bisogno, sia di riflettere con un po’ di calma che di poter contare su un pensiero di sinistra libero da residuati ideologici. L’argomento non è affatto nuovo per il sito dei Viandanti: direi anzi che in modi e in misure diversi, esplicitamente o sottotraccia, ricorre in tutti gli scritti ospitati, anche in quelli che parrebbero andar per lucciole. La differenza sta nel fatto che in questa occasione è affrontato con la sistematicità analitica e con la lucidità critica di cui solo uno studioso di lungo corso come Rinaldi può essere capace. Sul salto di livello che qui si opera può essere illuminante il confronto con un paio di tentativi miei di fare un’operazione di questo genere, uno già lontano nel tempo (L’ultimo in basso, a sinistra, 1999) e l’altro più recente (Tre manifesti sul futuro dell’umanità, 2021). Tra l’altro, già in quest’ultimo l’occasione era offerta da un precedente testo di Schiavone, “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, nel quale venivano anticipate quasi tutte le tesi poi riprese in Sinistra!. Ciò non significa che il pensiero dello storico campano del diritto sia diventato per i Viandanti un riferimento obbligato: significa invece che Schiavone, al contrario dei “grandi maestri” cui guarda con acritica reverenza lo pseudo-anticonformismo postmoderno, ha il coraggio di affrontare senza troppi giri di parole o ingorghi di citazioni il tema dell’essenza e dell’esistenza di una sinistra. Lo fa a modo suo, magari entusiasmandosi troppo per prospettive difficilmente condivisibili, ma almeno parla chiaro e va dritto al cuore dei problemi, invogliando così anche animi stanchi come i nostri a discuterlo (e a mettersi in discussione). Ma tutto questo lo troverete appunto nella serratissima analisi che Beppe Rinaldi va a proporvi.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 02Due parole vanno invece ancora spese sull’iconografia inserita dalla redazione a corredo del testo. Le immagini scelte non sono un espediente per alleggerire la densità di quest’ultimo (intesa come peso specifico delle argomentazioni e non certo come caratteristica dello stile) e neppure vogliono ridursi a un puro e semplice reliquiario iconografico: sono state inserite ritenendo che abbiano una qualche attinenza con lo scritto, in quanto, sia pure sommariamente, raccontano le trasformazioni di un’idea, della concezione stessa di “sinistra” e delle modalità di appartenenza a questa categoria politica. La trasformazione può infatti essere letta anche attraverso l’evoluzione (o l’involuzione, a seconda dei punti di vista) dei manifesti che celebrano ricorrenze o avvenimenti significativi del calendario liturgico della sinistra, in particolare di quelli relativi alla festa del Primo Maggio. Naturalmente le chiavi di lettura possono essere svariate: quella che molto schematicamente proponiamo ha solo un valore esemplificativo.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 05Al netto dei mutamenti del gusto intervenuti nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, che attraverso le successive correnti artistiche hanno naturalmente influenzato anche l’illustrazione politica, ci sono in questi manifesti altre evidenze, non prettamente estetiche, relative ai contenuti piuttosto che allo stile, che balzano immediatamente agli occhi.

In quelli risalenti all’ultimo decennio dell’Ottocento e ai primi del secolo successivo, ad esempio, la sinistra è personificata in immagini quasi esclusivamente femminili: sono allegorie botticelliane, adattate ai canoni dell’Arts and Crafts di William Morris prima e a quelli dell’Art Nouveau dopo. L’atmosfera e le posture leggere delle giovinette, che sembrano sempre pronte a librarsi in volo (quando già non stanno volando) riflettono in fondo le ottimistiche speranze della Belle Époque in un crescente benessere. A tutto questo non è naturalmente sotteso alcun riconoscimento particolare del ruolo della donna nella realizzazione di una futura società egualitaria. Sono solo rappresentazioni simboliche: e tuttavia quella che trasmettono è l’idea di una possibile transizione armonica. L’immagine femminile non ha nulla di mi naccioso, al contrario, si fa garante di un futuro di bellezza. E i seni generosamente esposti al vento, oltre a sfidare il farisaico moralismo borghese, promettono abbondanza e libertà. 

Breve nota sull'immaginario della sinistra 03Al volgere del secolo cominciano a comparire invece sui manifesti delle figure maschili, di solito in pose statuarie, o immagini di coppie o di gruppi. Dall’idealizzazione allegorica si plana verso una rappresentazione “realistica”, sia pure virata in chiave epica. Cambia anche l’atmosfera. La guerra mondiale ha fatto strage delle vecchie speranze, mentre la rivoluzione bolscevica ne alimenta di nuove, almeno in apparenza più concrete. L’iconografia sovietica è esemplare in questo senso. Un trionfo di solidità e concretezza. Quella italiana invece per tutto il ventennio semplicemente scompare. Nel frattempo si impongono sempre più i loghi, che caratterizzano un modello comunicativo mirante più a creare una immediatezza identitaria che a infondere emozioni: l’immancabile falce e martello, il pugno chiuso, e poi trattori, strumenti di lavoro, paesaggi industriali di taglio futurista.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 06Nel secondo dopoguerra all’iniziale “realismo” di ispirazione sovietica (ma anche hollywoodiana) succede, soprattutto in Italia, un “razionalismo” di chiara matrice architettonica, che punta sulle geometrie dei volumi e allude al titanico impegno della ricostruzione. Ma non sono solo le immagini a perdere levità. Alla loro maggiore pesantezza corrisponde quella dell’atmosfera sociale (lo dicono esplicitamente gli slogan: non di una festa si tratta, ma di una lotta): non è più tempo di famiglie felici e di serenità, ma di guerra fredda, di contrapposizione dura. In quest’ultima direzione muovono a partire dagli anni sessanta i manifesti della sinistra sindacalizzata e radicalizzata, pre e post-sessantottina, mentre quella storica e partitica tende a mettere la sordina al conflitto (è l’epoca del centro-sinistra e poi del compromesso storico) optando per simboli rassicuranti: la rosa in luogo della falce e martello, campi e officine sempre più stilizzati. Nei decenni successivi anche il lavoro cede gradualmente la scena ad altri temi: l’ambiente, la questione di genere, l’informatizzazione, l’integrazione. Questo mentre si completa l’auto-intestazione della ricorrenza da parte dei sindacati e dei partiti, o addirittura delle loro guide storiche.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 04Col nuovo secolo i manifesti praticamente scompaiono. L’informazione e la celebrazione passano ora attraverso i nuovi media. Scompaiono anche, assieme ai cortei e ai comizi, le ultime occasioni per sentirsi bene o male accomunati da una idealità e da una lotta. Lasciano il posto a un’idea di festa di tutt’altro tipo: non si marcia nei cortei, non ci si aduna pei comizi, ma si balla, si urla e ci si sballa ciascuno per proprio conto al concertone. Ricordandosi ogni tanto di alzare il pugno chiuso o di scandire gli slogan lanciati dal palco.

L’immaginario della sinistra ha un gran bisogno di essere non solo rinnovato, ma addirittura rifondato, se vuol tornare a librarsi in qualche modo oltre la desolante realtà del presente: e a questo scopo diventano indispensabili le preliminari disincrostazioni, le ripuliture dalla zavorra ideologica operate da Beppe Rinaldi. Buona lettura, dunque. 

di Paolo Repetto, 15 novembre 2023

Prolegomeni a una nuova sinistra 39

Prolegomeni a una nuova sinistra

di Giuseppe Rinaldi, pubblicato su Finestre rotte il 6 marzo 2023

Prolegomeni a una nuova sinistra 021. Il recente libriccino di Aldo Schiavone[1], presentato niente meno che come manifesto, nonostante le riserve che può avere suscitato[2], ha una sua importanza, perché ha il merito di mettere sul tavolo una serie di problemi di cui la sinistra italiana ha completamente smarrito il senso. Osserva infatti l’Autore che: «La sinistra non discute da decenni dei suoi principî: e questo l’ha messa in uno stato di confusione totale. È ora di venirne a capo»[3]. Siamo perfettamente d’accordo. Tanto per chiarire come stanno le cose nello specifico, l’Autore aggiunge che: «[…] lo scadimento dipende non poco dalla rinuncia quasi unanime degli intellettuali, dopo la fine delle battaglie ideologiche del secolo scorso, a esercitare una funzione pubblica di stimolo, di conoscenza, di critica e di suggerimento, e dal loro ritrarsi – pur se spesso non senza qualche ragione – dalla frequentazione della vita pubblica, o di quel che ne resta»[4]. Ci sentiamo di aggiungere che i nuovi politicanti della sinistra hanno volentieri congedato gli intellettuali per restare essi stessi i soli depositari dei futili giochi tra gli improbabili leader dalla scadenza incerta, seppur sempre più ravvicinata. Sul rapporto sempre più evanescente tra la politica e gli intellettuali nel nostro Paese si veda il recente saggio di Giorgio Caravale[5].

Prolegomeni a una nuova sinistra 01Al di là dei meriti del manifesto di Schiavone, esso è senz’altro utile almeno per fissare i punti essenziali che dovrebbero essere oggetto di un dibattito che si prospetta come piuttosto urgente. Ad esempio, nelle recenti mozioni dei candidati per la Segreteria del PD si è vista in opera la tendenza, in voga da un po’, a compilare lunghi elenchi di obiettivi, lunghe liste della spesa, senza dare alcuno spazio alle considerazioni teoriche. In questo saggio discuteremo passo a passo le argomentazioni principali di Schiavone. Anche se dopo le recenti vicende elettorali della sinistra (compreso l’ultimo Congresso del PD) dubitiamo seriamente che in giro ci sia qualcuno che abbia ancora voglia di discutere di simili questioni. Il saggio che il lettore si appresta a leggere è sicuramente pesante e noioso, per la quantità delle questioni sollevate e anche a causa del numero elevato di citazioni. Non sono qui per divertire, e poi le strade più facili sembra non abbiano poi tanto funzionato.

Prolegomeni a una nuova sinistra 032. Diverse pagine del saggio di Schiavone sono spese per mettere in evidenza il fatto, con cui concordo perfettamente, che la sinistra in Italia ha smesso di pensare: «L’aspetto che più salta agli occhi nella condizione in cui si trova la sinistra nel nostro Paese è il vuoto d’idee che la circonda»[6]. Questa situazione, secondo Schiavone, sarebbe dovuta principalmente a due eventi di lunga durata che hanno cambiato completamente la prospettiva della sinistra. Anzitutto la caduta del comunismo. In secondo luogo l’avvento delle nuove tecnologie. Si tratta oltretutto di fenomeni collegati tra loro. Una nota teoria sostiene, infatti, che l’implosione dell’Unione Sovietica sia avvenuta soprattutto per l’incapacità del sistema autoritario real-comunista di convivere con la diffusione di massa delle nuove tecnologie che include la libertà di produzione e circolazione dell’informazione. Perché andare così indietro nel tempo? Semplicemente perché per almeno un secolo e mezzo il concetto di sinistra è stato coniugato col socialismo e il comunismo. Un passato che è stato semplicemente rimosso, con il quale la “sinistra” deve ancora fare i conti.

Più ancora in profondità, la crisi della sinistra odierna sarebbe dovuta – secondo Schiavone – a un mutamento profondo nella prospettiva della eguaglianza. La sinistra che oggi è in crisi veniva da una storia plurisecolare (dopo la rivoluzione industriale) dove il motivo conduttore era il conflitto tra capitale e lavoro. Se si preferisce usare il linguaggio sociologico, possiamo parlare di lotta di classe. Gli eguali sfruttati e coalizzati avrebbero combattuto la fonte stessa dello sfruttamento e della diseguaglianza e avrebbero instaurato una società di eguali. Con ciò emancipando l’intera umanità. L’aspetto rilevante della questione è il fatto inconfutabile che l’obiettivo della eguaglianza che veniva perseguito era direttamente connesso a questo specifico conflitto. Afferma Schiavone che: «Da allora in poi, dovunque, in ogni partito della sinistra, lavoro ed eguaglianza sarebbero apparsi quasi come sinonimi: il binomio dell’avvenire socialista. La forza del lavoro sarebbe stata anche la forza dell’eguaglianza. Il problema era solo di trasformare la spinta socializzante e uniformatrice della classe operaia in regola generale dell’intera società»[7]. Il ragionamento stringente di Schiavone – ricorrente in tutto il saggio – è che il venir meno progressivo del modello tradizionale del lavoro industriale abbia intaccato l’obiettivo fondamentale dell’eguaglianza che si davano tutte le sinistre. La crisi generalizzata della sinistra sarebbe dunque la crisi di un modello epocale di eguaglianza. Ci sarebbe proprio questo dietro la perdita, di cui tanto si parla, del rapporto tra la sinistra e il suo popolo.

Prolegomeni a una nuova sinistra 043. Si tratta allora di fare i conti fino in fondo con quella matrice culturale che aveva istituito quel legame. La sinistra degli ultimi due secoli – quella che Hobsbawm chiama seconda sinistra[8], è stata caratterizzata, in un modo o nell’altro dalla prospettiva marxista. Anche nelle versioni meno rivoluzionarie e più riformiste. Afferma Schiavone che: «Oggi sappiamo che il pensiero di Marx conteneva errori irrimediabili: fra i più decisivi, una sottovalutazione grave dell’importanza della politica in generale, e della democrazia liberale in particolare, e della loro capacità di retroagire sulle strutture economiche e di modificarle, sia pure solo entro certi limiti. Errori che avrebbero aperto la strada a tragedie su cui ora è inutile tornare»[9]. Tragedie che tuttavia dovremmo avere ben presenti, nel momento in cui ci accingiamo a discutere di una nuova sinistra.

Prolegomeni a una nuova sinistra 07aGli errori irrimediabili di Marx non sono ancora divenuti argomento di pubblico dibattito. E continuano ad agire nella nostra storia quotidiana. Alcune delle società post comuniste costituiscono oggi una gravissima minaccia per il Mondo intero. Insomma, l’assetto delle società capitalistiche e della universale lotta di classe era considerato come un assetto permanente ed eterno, un dato di fatto divenuto visione tradizionale del mondo. L’impianto marxiano era divenuto una specie di scolastica ritualistica che ha tarpato il pensiero e che ha reso la sinistra incapace di comprendere i cambiamenti del Mondo. La scolastica marxiana e marxista – grazie anche agli apparenti successi del socialismo reale – è stata mantenuta stoicamente contro tutte le evidenze e poi è stata abbandonata di colpo, alla fine della Guerra fredda, senza alcuna analisi. Spiega Schiavone che: «Nel nostro Paese, sin dalla Liberazione, il marxismo avrebbe costituito l’intelaiatura culturale e ideale dei due maggiori partiti della sinistra: una scelta difesa con ostinazione dal più forte di essi – il Pci – sino alla fine; per essere poi abbandonata di colpo, guardandosi bene dal pronunciare una sola parola. Un comportamento che non saprei dire se più politicamente disastroso o moralmente vergognoso. E tutto questo senza che nessuno – o quasi – degli intellettuali che pure si erano completamente riconosciuti in quella dottrina sentisse il bisogno di intervenire. La vittoria della destra – di questa destra – è cominciata allora: da quell’incredibile silenzio»[10].

Prolegomeni a una nuova sinistra 054. La caratteristica fondamentale dell’intero periodo della seconda sinistra[11] fu dunque – Secondo Schiavone – l’identificazione del lavoro con l’eguaglianza. Che doveva dare luogo non solo a una eguaglianza formale ma anche a una eguaglianza sostanziale. Il socialismo o comunismo reale era concepito come la terra dell’eguaglianza sostanziale. La fine dell’Unione sovietica significò non solo la fine del socialismo, ma anche la fine del connubio tra lavoro ed eguaglianza sostanziale. In altri termini, significò la fine dell’età del lavoro. Ciò non significherà evidentemente la fine effettiva del lavoro, inteso come attività e funzione sociale, bensì la fine del lavorismo, cioè della ideologia del lavoro. Se vogliamo, la fine della identificazione stretta tra il cittadino e il lavoratore. Una traccia di questa identificazione, peraltro del tutto priva di effetti di sostanza, resta nell’art. 1 della nostra Costituzione.

Secondo Schiavone: «Quel che stava accadendo era, semplicemente, che la trasformazione in atto aveva fatto sparire il contesto sociale e culturale in cui avevano vissuto sino ad allora i partiti progressisti in Occidente: e niente potrà mai restituircelo. Perché con l’età del lavoro finiva anche l’età della lotta di classe, che era connessa a un modo di strutturarsi delle società occidentali che oggi quasi non esiste più. Un epilogo che la sinistra non ha ancora assorbito e metabolizzato, e che riempie tuttora di sé il nostro tempo: la cui importanza, sebbene le conseguenze non smettano di colpirci e di disorientarci, non è stata ancora colta né dal punto di vista storico, né da quello concettuale, della teoria, se non da qualche isolato, grande sociologo. I giovani in particolare non se ne rendono conto, a meno che non gli venga precisamente spiegato, anche se – senza esserne consapevoli – ne vivono sulla propria pelle le conseguenze: tanto i più felici tra loro come i più sfortunati. Ed è sotto le macerie di questo mondo che giace il corpo della sinistra, non solo in Italia, ma più o meno in tutto l’Occidente: a pezzi, per quanto ricoperto di alloro»[12]. Il sociologo cui l’Autore allude nel testo è Alan Touraine.

È vero o non è vero che il mondo sociale della seconda sinistra è finito definitivamente? Se si vuol procedere oltre, con una nuova sinistra, indubbiamente bisogna prenderne atto. La fine dell’identificazione stretta tra cittadino e lavoratore ha costituito per la sinistra un processo lungo e travagliato che – almeno nel nostro Paese – non sembra neanche del tutto terminato[13]. Soprattutto per il fatto che la sinistra per un paio di secoli aveva parlato soprattutto di lavoratori e nel nostro Paese aveva poca dimestichezza con le nozioni relative al cittadino e alla cittadinanza, cioè con le nozioni relative al pensiero liberale e democratico (quello che, secondo Hobsbawm[14], ha caratterizzato la prima sinistra).

Prolegomeni a una nuova sinistra 065. Le trasformazioni tecnologiche ed economiche hanno dunque portato al tramonto della prospettiva della lotta di classe e alla sparizione della soggettività stessa della classe operaia. Che costituiva il riferimento sociale della sinistra, il cosiddetto popolo della sinistra[15]. La perdita del riferimento sociale fu dunque soprattutto un effetto dei grandi processi storici che non furono adeguatamente compresi e problematizzati. La poca dimestichezza della sinistra con il pensiero democratico rendeva poco appetibile l’idea che si potesse pensare a un partito semplicemente di cittadini. Il rifiuto della democrazia borghese avvenuto col Manifesto di Marx sembrava irreversibile. Cominciò così un inutile viaggio alla ricerca del soggetto trasformatore alternativo. Si fecero numerosi tentativi. Il Terzo mondo e le sue rivoluzioni, gli emarginati, le donne, i poveri, gli immigrati, gli scontenti della globalizzazione, i movimenti monotematici per le grandi cause. Si fecero vani tentativi di ripetere quello stesso schema che risale addirittura al giovane Marx. Trovare cioè un soggetto politico che emancipando se stesso riesca a emancipare l’intera umanità. Inutile dire che il soggetto rivoluzionario alternativo non fu mai trovato. In realtà le sinistre hanno continuato a perdere consensi e quello che era il popolo della sinistra si è spostato sempre più verso la destra.

Schiavone qui ha il merito di dire con chiarezza quale sia oggi – secondo lui – la sola soluzione possibile: «Staccare […] definitivamente l’idea di sinistra da qualunque idea di socialismo, con la quale ogni politica progressista si era più o meno identificata sin dalla nascita: un’idea che aveva ormai il sapore arcaico del ferro, del vapore e del carbone. E, di conseguenza, staccare l’idea di eguaglianza – che, se poggiata su nuove basi, mantiene, eccome, tutta la sua attualità – dall’idea di lavoro (e di socialismo); e la figura del cittadino da quella del lavoratore. Ricongiungere direttamente, in altri termini, sinistra e (nuova) eguaglianza, senza passare attraverso il lavoro e il socialismo: come non è stato mai fatto nella modernità dopo la rivoluzione industriale. Mettere in campo un’idea diversa di sinistra per un’idea inedita di eguaglianza: lontane tutt’e due dal mito della socializzazione attraverso il lavoro, ma capaci di svilupparsi in un mondo ormai invaso dalle differenze e dal moltiplicarsi delle soggettività. E collocate entrambe in uno spazio culturale e strategico frutto di una prospettiva finalmente davvero inclusiva e globale, che solo ora – non prima, come sbagliando si pensava – è possibile permettersi. Andando oltre la catastrofe irreversibile del socialismo, e oltre la fine della centralità del lavoro operaio: della classe operaia come classe generale che liberando sé stessa avrebbe liberato l’intera umanità, secondo la formula bellissima ma piena di inganni delle nostre illusioni di una volta»[16].

Sono parole, in un certo senso liberatorie, che hanno il merito di dare una sana scrollata a tutti coloro che hanno avuto in passato una formazione di sinistra, a tutti coloro che ancora albergano i fantasmi inconsci del sol dell’avvenire. A tutti coloro che ancora subiscono gli effetti deleteri della diseducazione comunista[17].

Prolegomeni a una nuova sinistra 076. Questo però significa – a nostro modesto avviso – tornare a prima della seconda sinistra, alla prima sinistra, quella liberaldemocratica[18]. La prospettiva, detta in soldoni, è quella di riprendere in mano il filone dell’emancipazione del cittadino. L’emancipazione del lavoratore (che sarà comunque sempre degna di rilievo) sarà solo un’implicazione, una conseguenza della prima. Schiavone addirittura interpreta questo nuovo programma come un recupero di una prospettiva umanistica del tutto coerente con lo sviluppo storico della civiltà occidentale. Una prospettiva la cui realizzazione solo ora è divenuta possibile: «È indispensabile avere chiarezza e saper distinguere. L’idea fondante della sinistra, che ne racchiude tutto il cammino ed esprime un principio che sta nell’anima dell’Occidente sin dall’antichità greca, è l’emancipazione dell’umano, di tutto l’umano; non il socialismo: che è stato solo un mezzo per raggiungere quell’obiettivo, ma non il fine, anche se spesso le due cose sono state confuse. E oggi proprio quella meta è diventata realistica come mai prima, grazie all’aumento vertiginoso di potenza che la rivoluzione tecnologica sta mettendo a nostra disposizione: solo che la si sappia usare nel verso giusto. Bisogna perciò andar oltre, con un pensiero in grado per prima cosa di restituirci un’immagine attendibile del mondo, e con una visione capace di guardare lontano: virtù oggi rare, che dobbiamo saper ritrovare. Non ne va solo del futuro della sinistra. Ne va del futuro di tutti»[19].

Insomma, arrovellarsi perché la sinistra abbia perso il consenso dei poveri (o degli emarginati, o di altre fumose categorie sociali) non serve a nulla. I poveri de facto non rappresentano il modello per costruire la nuova società e per emancipare l’umanità. I poveri non sono l’avanguardia nuova. Non sono il modello di umanità cui ci si debba riferire (anche se, ovviamente, rientrano a pieno titolo in un progetto di emancipazione umana). Infatti nella prassi politica comune – lo si vede tutti giorni – sono perfettamente compatibili con le ideologie e le politiche della destra. Poveri, emarginati e lavoratori votano tranquillamente i partiti di destra. Insomma, in estrema sintesi, il poverismo non è il rimedio ai limiti ormai storici del lavorismo.

7. Chiarita la questione di fondo, possiamo accingerci a passare ai temi del secondo capitolo. Un altro nodo fondamentale, nella ricostruzione della sinistra nuova, è quello della politica. Qui abbiamo ravvisato tuttavia un qualche limite nel ragionamento di Schiavone. Un non sequitur rispetto alle sue precedenti argomentazioni. Il vecchio manifesto marxiano, dopo la descrizione delle condizioni materiali del proletariato che contribuivano a costruire la classe in sé, si affannava a spiegare come quelle condizioni materiali stesse avrebbero contribuito ad alimentare la coscienza di classe, la nuova soggettività che avrebbe lottato per quel modello di eguaglianza e di cittadinanza basata sul lavoro. Il capitolo sulla nuova politica Schiavone avrebbe dovuto scriverlo dopo, alla fine, dopo l’individuazione del nuovo modello di eguaglianza da proporre non più ai compagni ma, evidentemente, ai citoyens. (Si veda oltre). Collocato invece in questa posizione, finisce per risultare sconnesso dal ragionamento generale e dunque piuttosto generico.

Prolegomeni a una nuova sinistra 088. Seguiamo comunque le argomentazioni proposte da Schiavone perché hanno comunque qualcosa di interessante da dire rispetto al dibattito attuale. È universalmente riconosciuto che le democrazie occidentali attraversino una crisi della politica. C’è una enorme letteratura in proposito. Schiavone riconduce questa crisi a due questioni principali. La prima è la selezione della classe dirigente e la seconda è quella della partecipazione politica.

La crisi della politica nelle democrazie occidentali sarebbe strettamente connessa alla diffusione del populismo. Purtroppo Schiavone non è il grado di dire, a partire dal suo modello, se il populismo sia la causa o l’effetto della crisi della sinistra tradizionale. Noi propendiamo per sostenere che il populismo sia piuttosto un effetto. Il populismo altro non è se non la ricerca dell’ennesimo soggetto trasformatore, di un nuovo protagonista della storia. Il popolo (termine quanto mai generico) messo al posto del lavoratore. Secondo la nostra analisi, il crollo della sinistra di classe – è successo visibilmente in tutti i Paesi dell’Est Europa – ha portato alla luce l’etno-nazionalismo e il sovranismo. Quello stesso che si è manifestato nella Ex Jugoslavia e che si manifesta oggi in Russia. Il populismo è l’ultimo disastroso esito della ricerca del soggetto sociale rivoluzionario. Com’è noto, il populismo è assai flessibile e può avere versioni sia di destra sia di sinistra. In Italia, dove gli orfani della sinistra di classe sono davvero molti (questo perché avevamo il maggior partito comunista dell’Occidente), li abbiamo avuti entrambi: la classe operaia, dopo la fine della civiltà del lavoro, ha ahimè riempito le file dell’etno-nazionalismo leghista e ha riempito le file del movimentismo del M5S. Poiché la politica era sempre stata identificata con la lotta di classe (soft o hard che fosse) la fine della lotta di classe è stata percepita ipso facto come fine della politica. La sinistra non conosceva altra politica che quella. Di qui il sostantivo e progressivo declino della politica, che ha portato la sinistra nell’attuale situazione di sfacelo.

Prolegomeni a una nuova sinistra 09In ogni caso Schiavone è ben consapevole nell’esigenza di andare oltre il populismo che poi si sostanzia nell’antipolitica e nel rifiuto dello Stato. Nella proposizione di scorciatoie illusorie, risolutrici di tutti i problemi. Afferma Schiavone: «Riportare i cittadini – e i giovani in particolare – alla politica è dunque il primo compito di una sinistra tornata in piedi. Stare a sinistra questo innanzitutto significa, oggi: riconquistare alla politica lo spazio e il consenso perduti, ridarle sovranità, e con quest’ultima restituirle etica e conoscenza. Garantirle finalmente un orizzonte all’altezza dei problemi e delle opportunità che abbiamo di fronte»[20]. Non si può non essere d’accordo. Tuttavia Schiavone non coglie che con la lotta di classe se n’è andato anche un preciso specifico significato della politica, con tutto quel che era compreso: la partecipazione, la militanza, la specifica cultura politica della sinistra, un preciso modello d’impegno e di socialità. Un effettivo ritorno alla politica (di questo si tratta) dovrebbe essere in grado di produrre un equivalente di quel che si è perso. Su basi diverse, certo. Ma deve essere un equivalente.

Secondo Schiavone, la nuova politica dovrebbe essere connessa indissolubilmente con il progetto politico europeo. Per questo si tratta di andare oltre all’idea di nazione (altra nozione novecentesca da superare, per Schiavone, insieme a quella di classe). Qui Schiavone riprende implicitamente il riferimento alla cittadinanza nella forma di una comune cittadinanza europea. Afferma Schiavone: «Credo sia il momento di lanciare l’idea di una Costituente per la nascita di una sinistra d’Europa – da portare tra i cittadini dei diversi Paesi coinvolti e non solo nel Parlamento di Bruxelles: per la formazione di un partito progressista da Madrid a Berlino, da Parigi a Roma, in grado di proporre obiettivi e programmi condivisi, pur nella pluralità delle sue culture e delle sue ispirazioni»[21]. Evidentemente l’Europa non può funzionare come patria nazionale. Non può essere costruita con l’etno-nazionalismo. Per la costruzione di una comune patria europea non nazionale occorre mettere in campo quello che Habermas ha chiamato patriottismo della costituzione. Ne ha parlato a lungo il nostro Rusconi.

Val la pena di aggiungere, da parte nostra, anche l’esigenza improrogabile di un sindacato unitario europeo. Chi scrive ha iniziato la sua prima esperienza sindacale una cinquantina di anni fa, sentendo continuamente pronunciare, in quegli ambienti, la litania della unità sindacale. La divisione delle sigle sindacali poteva avere un senso all’epoca della cinghia di trasmissione tra lotta economica e lotta politica, nel contesto della civiltà del lavoro e della lotta di classe. Ora i residui divisivi di quella stagione continuano a intralciare la lotta economica dei cittadini/ lavoratori. A maggior ragione poi, le organizzazioni sindacali – nate tutte nella stagione della seconda sinistra – dovrebbero essere in prima file nel darsi una struttura europea, poiché i problemi dei cittadini / lavoratori sono sempre più dipendenti dal livello decisionale europeo. Schiavone non ne parla ma penso sarebbe perfettamente d’accordo. Adombra perfino l’esigenza di un coordinamento globale dei progressisti, almeno in Occidente. Si tratterebbe di una continuazione della vecchia idea dell’Internazionale dei lavoratori, che nella sua versione originaria fu più o meno limitata all’Europa ottocentesca. Una democratica Internazionale dei cittadini.

Prolegomeni a una nuova sinistra 109. L’altro problema connesso alla crisi della politica è quello della crisi dei partiti. L’analisi di Schiavone qui mi è parsa ahimè piuttosto sbrigativa e decisamente carente. Mi proverò ad aggiungere qualcosa di appena più sostanzioso. Com’è noto, la tradizione dell’eguaglianza lavorista europea aveva dato origine a un modello di partito di massa (il partito della tradizione socialdemocratica tedesca) che aveva una caratteristica fondamentale: quella di riprodurre nel partito le procedure egualitarie della democrazia formale. Sappiamo bene che quelle strutture non erano perfette, tanto che furono minuziosamente analizzate e criticate[22]. Tuttavia quelle strutture ebbero una loro efficacia e si diffusero tosto anche presso i partiti notabilari, tanto da caratterizzare poi un’intera epoca della politica europea. Restavano fuori da un lato il modello di partito nord americano (una tradizione notevolmente diversa, dove comunque la democrazia era recuperata sul piano dell’investitura diretta del leader/notabile) e dall’altro dai modelli di partito di stampo leninista (dove la democrazia interna era sacrificata in nome della compattezza “militare” dell’organizzazione). È rilevante il fatto che sia il modello socialdemocratico, sia il modello leninista si mostrarono funzionali in un modo o nell’altro al quadro storico della lotta di classe. Si tratta allora di capire se – essendo venuta meno la civiltà del lavoro e della lotta di classe – la sinistra nuova debba anche rinunciare alla sua forma partitica tradizionale, quella di derivazione socialdemocratica (quella leninista la possiamo trascurare poiché non ha passato il test della storia). Si tratta cioè di capire se, modificando i contenuti, la forma organizzativa si può salvare.

Indubbiamente, la crisi dei tre partiti di massa italiani che più di tutti avevano adottato e impersonato il modello organizzativo tedesco (PCI, DC, PSI) ha comportato anche l’insorgenza di una sfiducia verso quel modello. E la ricerca di nuovi modelli sperimentali. L’unico partito nuovo che ha adottato un modello approssimativamente leninista è stata la Lega Nord (oltre a qualche cespuglio di estrema sinistra). Abbiamo avuto poi l’epoca dei partitini personali, le cui regole di democrazia interna lasciavano alquanto a desiderare. Compresi i movimenti personali, che poi hanno sviluppato la deriva populista. Abbiamo nel nostro Paese due casi principali di sperimentalismo di nuove strutture organizzative: il M5S e il PD. Non possiamo qui entrare nel merito, ma col senno di poi si può dire che abbiano fallito entrambi. Lasciando una pesante incertezza su quale sia la forma partito adatta per la sinistra nuova. Il modello partitico/ movimentista del M5S è stato indubbiamente il più ambizioso, essendo fondato sulla pretesa novità del direttismo[23] e sullo strumento organizzativo della rete. Dopo un successo momentaneo, dovuto anche alle doti personali di Beppe Grillo nel gestire le adunate e gli spettacoli di piazza, il modello organizzativo grillino ha mostrato le gravi insufficienze tanto da divenire un partito proprietario, da produrre una sequela di espulsioni/scissioni da partito staliniano, e da mostrare un livello di dibattito politico interno prossimo allo zero. Alla faccia della democrazia diretta! Il PD ha invece scimmiottato il modello della democrazia americana, un modello con forti residui sette-ottocenteschi, una democrazia del leader che ha costantemente confuso il dibattito circa la linea politica con la scelta delle persone attraverso le primarie. Su questo argomento ho avuto modo di produrre una serie di analisi approfondite. Tutte reperibili sul mio blog. Chi abbia voglia di entrare nel merito dei gravi limiti organizzativi del PD odierno può studiare seriamente i due splendidi saggi di Antonio Floridia sull’argomento[24].

Prolegomeni a una nuova sinistra 11In ogni caso, il modello organizzativo del PD ha fallito miseramente, alimentando un sistema correntizio nient’affatto democratico e riducendo il PD stesso ai minimi termini. Gli ultimi ad accorgersene sono proprio quelli del PD. L’ultimo Congresso ha mostrato limiti evidentissimi proprio a livello di democrazia interna e partecipazione, contrapponendo la scelta degli iscritti a quella degli elettori. Al di là della scelta del nuovo segretario, il PD attuale sembra non mostrare alcuna consapevolezza critica circa il fallimento sostanziale del suo modello organizzativo sperimentale originario. Tutte le grandi promesse di cambiamento interno per ora restano sulla carta delle mozioni dei diversi candidati. Staremo a vedere.

Schiavone non entra nel merito della questione della democrazia interna dei partiti – come invece avrebbe dovuto fare, proprio a partire dalla sua impostazione. Secondo l’Autore, veniamo da una stagione di attacco ai partiti e ugualmente da una stagione di tentativi di trovare delle alternative ai partiti. Alternative che sono puntualmente fallite. Dichiara Schiavone: «In realtà, bisogna convincersi che i partiti servono, sono consustanziali alla forma rappresentativa della democrazia, e non se ne può fare a meno. Senza, non c’è politica e non c’è democrazia, almeno nelle forme che oggi conosciamo e che ancora ci appaiono prive di alternative credibili. Il pluralismo delle opinioni, l’articolazione delle differenze, senza delle quali non può formarsi nessuna dialettica democratica che abbia un minimo di affidabilità, richiedono necessariamente la presenza di una mediazione. Che le diversità si solidifichino e prendano consistenza strutturandosi in raggruppamenti politici distinti, in competizione fra loro»[25]. Sembra che Schiavone pensi che i partiti in termini organizzativi siano il male, ma che occorre rassegnarsi perché i partiti servono. Su queste basi non si va molto lontano.

Prolegomeni a una nuova sinistra 12Prosegue nella sua analisi: «Il punto è che il modello che si era delineato in Italia al culmine della «Repubblica dei partiti» – cioè di un partito a trama forte, densa di consistenza burocratica e di apparati territoriali – deve essere oggi rimesso seriamente in discussione senza però che questo significhi in alcun modo rinunciare alla funzione da esso svolta nell’organizzazione della politica. E ci sono molte ragioni per essere convinti che questo tipo di revisione debba riguardare soprattutto la sinistra, e che si debba approfittare della fase costituente di cui comunque non si potrà fare a meno per ridisegnare completamente il profilo del soggetto cui consegnare la rinascita»[26]. Si tratta di una proposta alquanto generica. Schiavone avanza in pratica due proposte: quella del “partito ponte” e quella del “partito laboratorio” che, se non andiamo errati, sono vicine al dibattito portato avanti nel PD da Fabrizio Barca e poi affossato da Renzi. Echi di tutto ciò si sono avuti nelle famose mozioni dei candidati al Congresso del PD. Anche qui, staremo a vedere. Schiavone in generale non sembra prendere sul serio la questione organizzativa, quando invece a nostro giudizio è una delle questioni principali.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1310. Il terzo capitolo del saggio di Schiavone ha per titolo Lo sguardo critico sul presente. Qui l’Autore si occupa dell’avvenuta sparizione della critica dall’orizzonte culturale della sinistra. E cioè anche della rottura della sinistra con gli intellettuali e più in generale con l’attività della produzione culturale. Il posto della critica culturale – questa è una mia aggiunta – è stato scandalosamente preso dall’amministrazione delle cose. Generazioni di grigi amministratori hanno occupato il posto dei politici che un tempo avevano una statura intellettuale, scrivevano saggi impegnativi, dirigevano giornali e case editrici, e soprattutto, sapevano scrivere qualcosa di più dei tweet. Vi è mai capitato di leggere anche solo un articolo scritto di pugno da Bonaccini o dalla Schlein? Ma questi sanno scrivere? O twittano soltanto? Sono loro che scrivono quei libri di autopromozione elettorale che circolano, che nessuno legge e che non resteranno certamente nelle cronache letterarie? Sul divorzio tra intellettuali e politica ho già citato il recente Caravale 2023.

Afferma in proposito Schiavone, riallacciandosi ovviamente alla prospettiva di una critica illuministica: «Non c’è sinistra senza pensiero critico. Non c’è sinistra senza mettere in questione l’ordine del presente. Lo abbiamo a lungo dimenticato. Dobbiamo riportarlo al centro del nostro orizzonte. La sinistra, in Italia e in Europa (per l’America il discorso sarebbe in parte diverso), ha confuso la fine della lotta di classe con la fine di un atteggiamento critico di fronte alla realtà contemporanea. Ha confuso la fine del comunismo con l’obbligo intellettuale, prima ancora che politico, di accettare l’ineluttabilità della disciplina tecnocapitalistica del mondo come oggi si configura. E le sparute minoranze che non lo hanno fatto sono riuscite a opporsi a un simile abbaglio solo nel nome di un impossibile ritorno a ciò che abbiamo perduto. Si sono comportate da orfane del comunismo, ostinate a proporre di nuovo una strada che non esiste più»[27]. Adeguarsi all’esistente o riprodurre la tradizione sono per la sinistra reale solo due facce della stessa medaglia.

Il problema è allora quello di definire in modo nuovo il tipo di critica di cui la sinistra nuova si deve occupare e soprattutto il suo oggetto. Non si può evidentemente tornare al modello della critica marxista al capitalismo. Schiavone indica due principali oggetti intorno ai quali la sinistra dovrebbe recuperare un’attenzione critica rinnovata: la tecnica e il capitalismo. Si potrebbe dire di primo acchito che qui non ci sia nulla di nuovo. In realtà per Schiavone si tratta di mutare radicalmente l’impostazione generale di questa critica. Tecnica e capitalismo – mi permetto di aggiungere – non vanno combattuti con i toni diffusi dei molteplici intellettuali che cantano l’avvento del nichilismo e il declino dell’Occidente[28] – e che si spacciano per sinistra – ma vanno criticati affinché questi possano affermarsi proficuamente nel migliore dei modi, a beneficio di tutti. Alla critica disfattista occorre contrapporre una rinnovata critica progressista. La critica rigorosa non deve necessariamente essere disfattista. Deve essere costruttiva.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1411. Va riconosciuto che Schiavone è uno dei pochi intellettuali italiani postmarxisti che non si è unito all’universale piagnisteo reazionario alla moda contro la tecnica (nonostante alcune sue simpatie foucaultiane che traspaiono anche in questo libretto). Un altro ben noto nel nostro Paese è Maurizio Ferraris.

Dice Schiavone a proposito della tecnica: «La tecnica è potenza. Non è un dato metafisico, non si alimenta di forze incontrollabili. L’idea che essa in quanto tale nasconda una sua malefica oscurità, e che il suo intensificarsi non faccia che allargare questo fondo buio e insondabile, non nasconde una verità originaria da riportare alla luce, ma piuttosto un remoto terrore nutrito dalla nostra specie, connesso alla presa di coscienza delle proprie illimitate capacità. È il timore dell’onnipotenza, ben riflesso nel racconto biblico del peccato originale: del presunto carattere antiumano del troppo sapere, se spinto fino al punto da spezzare la barriera della finitezza. Ma la tecnica è solo storia: dalla prima volta in cui un ramo caduto o spezzato è stato usato come un bastone, fino al funzionamento dell’ultimo acceleratore di particelle. In essa c’è solo la pulsione umana, tutta evolutiva, a padroneggiare ciò che abbiamo intorno e dentro di noi per salvarci dall’ignoto, dal pericolo del non conosciuto. E c’è l’attitudine ad acquisire conoscenza e controllo: una spinta primaria che coincide con la nostra stessa forma biologica. Questione del tutto diversa è invece il suo uso sociale […]»[29].

La tecnica, insomma, non ha nulla di dis-umano. Noi stessi siamo tecnica, come sostiene Ferraris con fondate argomentazioni[30]. Quel che siamo, quel che stiamo diventando, lo dobbiamo alla tecnica. La tecnica comprende in sé eccezionali possibilità di liberazione e di invenzione dell’umano (che dipendono tuttavia dall’uso che ne sapremo fare).

Prolegomeni a una nuova sinistra 15In generale, aggiunge Schiavone sulla tecnica: «Più la tecnica diventa potente, sia pur sempre all’interno di rapporti di produzione capitalistici, maggiore risulta penetrante la sua forza trasformatrice, più rende sicure e stabili le condizioni materiali delle nostre vite (cibo, salute, altri beni di consumo primari), tanto più essa consente alle menti di sentirsi meno dipendenti da costrizioni oggettive, e di allargare le proprie vedute fino a renderle universali. E permette alla nostra etica di non restare prigioniera di vincoli imposti solo dalla limitatezza delle risorse disponibili, e di poter concepire l’interezza dell’umano nella sua unità, senza distinzioni e senza gerarchie: e di dare a questa scoperta la forza di una legge morale, il potere di una regola da non infrangere. Di conquistare alla nostra intelligenza la capacità di scoprire nuove connessioni e nuovi equilibri, e di non confondere pratiche sociali determinate solo dalla storia con principî imposti dalla prescrittività della natura. In altri termini: l’aumento di potenza della tecnica accresce la nostra libertà e la nostra capacità di autodeterminarci. O per essere più precisi: l’incremento di potere della tecnica crea le premesse indispensabili perché l’umano possa liberarsi, fino a concepire sé stesso nella sua totale integrità, e nelle potenzialità infinite racchiuse nelle finitezze delle singole vite che lo esprimono. Non è quindi il progresso tecnologico in quanto tale a diventare direttamente emancipazione. Esso determina solo le condizioni per rendere possibili nuovi dispositivi sociali sempre meno costrittivi, differenti quadri culturali, modelli etici più includenti e tendenzialmente universali. Sono questi cambiamenti a creare più libertà e maggiore emancipazione: le quali a loro volta possono gettare le basi per nuove acquisizioni scientifiche e tecnologiche, e quadri sociali ancora più avanzati a livello globale. Ed è in questo modo, attraverso questo circuito – dove si intrecciavano scienza, tecnica e umanesimo – che l’Occidente, e prima ancora l’Europa, che è stata a lungo la parte tecnologicamente più avanzata del pianeta, sono presto diventati anche il luogo dei diritti e delle libertà: certo molte volte calpestati o negati, ma pur sempre dichiarati come irrinunciabili[31]». Qui Schiavone invoca un radicale cambiamento di prospettiva. La tecnica dunque, con tutte le cautele critiche che si vogliano adottare, accresce la nostra libertà e la nostra capacità di auto determinarci. Altro che nichilismo! Sarà il caso dunque di liberarsi della cultura piagnona dei postmoderni (che sono in gran parte post marxisti), una cultura che è solo una reazione inconsulta di fronte a novità che non si sanno governare.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1612. Lo stesso capovolgimento di prospettiva va fatto sul capitalismo. Per Schiavone si tratta di realizzare una nuova analisi del capitalismo. Il capitalismo è un fenomeno storico e noi stiamo assistendo a un’importante trasformazione del capitalismo. Occorre prendere atto della fine, almeno in Occidente del capitalismo industriale classico, al quale si era contrapposta la vecchia sinistra. Da decenni, dopo uno studio approfondito della letteratura allora disponibile, ci eravamo personalmente convinti che l’analisi marxiana e marxista del capitalismo fosse completamente sbagliata. Già riferita al capitalismo dei tempi suoi. La teoria del valore di Marx non ha alcun fondamento, è solo aristotelismo scolastico. A maggior ragione la sua teoria è inapplicabile al capitalismo odierno. La teoria marxista è oltretutto andata incontro a un’impressionante falsificazione da parte della storia. Le aberrazioni della Cina (tuttora comunista!), la follia criminale di Milošević e di Putin, il delirio di Kim Jong-un. Non dimentichiamo tuttavia anche l’ineffabile Pol-pot che aveva imparato il marxismo a Parigi.

Secondo Schiavone, nella nuova configurazione capitalistica che si prospetta: «[…] lo sfruttamento classico – quello che una volta si chiamava l’estrazione del plusvalore attraverso il pluslavoro, il lavoro cioè erogato ma non retribuito – è riservato solo alle forme di lavoro a più bassa densità tecnologica, dove continua a prevalere l’aspetto puramente quantitativo dell’attività umana. Esso è lavoro ormai senza difesa; diventato economicamente e socialmente marginale, perché attraverso di esso non passa nulla di decisivo per il capitale, e nemmeno per la società nel suo insieme. Mentre quanto più il lavoro incorpora competenze complesse – e oggi accade per fasce sempre più vaste di lavoratori, a diversi livelli – tanto più il suo rapporto con il capitale si fa equilibrato, e la differenza fra i loro redditi tende a diminuire. Perché il valore delle merci dipende ormai dalla tecnologia in esse incorporata, e non più dalla quantità di lavoro vivo necessario a produrle, perciò diminuisce il bisogno di nuovo sfruttamento da parte del capitale (un fenomeno che Marx stesso aveva nebulosamente intuito, senza trarne le dovute conseguenze)»[32].

Si noti che lo Schiavone persiste, nonostante tutto, nell’uso di certo vocabolario marxiano (“lavoro vivo”, …). Segno questo del radicamento dell’apparato concettuale marxiano anche nel nostro linguaggio comune odierno. Anche nel linguaggio “critico”. La critica di Schiavone – se rigorosamente adottata – ha notevoli conseguenze per una nuova sinistra. Si tratta di operare una distinzione, all’interno del capitalismo, tra le persistenze tradizionali del vecchio mondo industriale, che andranno via via superate e il carattere innovativo del capitalismo nell’ambito dei settori più avanzati. Questo significa che la sinistra nuova deve accingersi a convivere nella maniera migliore con il capitalismo, senza pregiudizi e demonizzazioni, criticandone duramente e correggendone gli aspetti deleteri. Questo significa che la nuova sinistra dovrà elaborare una teoria matura intorno alle modalità di rapporto tra Stato e mercato.

Prolegomeni a una nuova sinistra 17Su questo punto Schiavone è oltremodo chiaro: «È chiaro che in questo scenario la creazione di merci materiali a media e bassa densità tecnologica non scompare del tutto; né scompare il lavoro meccanicamente esecutivo: ma entrambi vedranno diminuiti progressivamente i loro addetti, in parte sostituiti da macchine dotate di intelligenza artificiale, in parte delocalizzati in aree geografiche al di fuori dell’Occidente, dove per ora il loro costo è minore. Soprattutto, quei lavori diventano in un certo senso residuali, scaduti rispetto al cuore produttivo del sistema. E poiché non sono collegati a più nulla di decisivo per gli equilibri dell’intera struttura – diversamente da quanto succedeva per il lavoro operaio di una volta, che era invece al centro di tutti i principali processi produttivi di tipo industriale – essi non sono in grado di difendersi da forme anche estreme di sfruttamento, che però non costituiscono più contraddizioni rilevanti rispetto all’insieme del dispositivo economico»[33]. Si tratta allora di distinguere. Indubbiamente ci possono essere dei contraccolpi. Nei settori più arretrati possono comparire addirittura forme di lavoro servile o di schiavitù. I cattivi lavori andranno dunque progressivamente aboliti e sostituiti da lavori più a misura d’uomo. Questo non avverrà automaticamente e dovrà essere posto come obiettivo politico.

Allora: «[…] la sinistra deve ritrovare la forza – intellettuale, prima ancora che politica – di rimettere il capitale sotto la sua lente d’ingrandimento, di sottoporlo nuovamente al proprio esame critico. Non per porre all’ordine del giorno la sua fine, ma per misurarne le azioni e le strategie sul parametro – etico, prima ancora che politico – del bene comune della specie; valutarne l’eventuale distanza, e predisporre quanto necessario perché quella lontananza si riduca il più possibile. Riuscire a opporre cioè la razionalità universale e impersonale dell’umano a quella pur sempre specifica e particolaristica della produzione capitalistica. Questo confronto dovrebbe diventare l’anima della sua politica»[34]. Questo in generale significa che la sinistra deve essere in grado di rigettare il suo attuale piatto pragmatismo, che poi diventa assuefazione, adattamento al mondo così com’è, e sottoporre la propria azione a un indirizzo etico politico che abbia una solida fondazione nella propria visione del mondo, nella propria filosofia, nella propria nuova cultura politica. In altri termini, il capitalismo, l’economia di mercato, va governato e spetta alla nuova politica della sinistra mostrare come questo sia possibile. Rispetto al vecchio marxismo, si tratta di riconoscere una buona volta il primato delle idee, il primato della sovrastruttura, se si adotta il vecchio linguaggio marxiano. Del resto su questa strada Gramsci aveva già fatto notevoli passi avanti. E si tratta di rigettare il machiavellismo, il realismo politico, che quando professato come criterio unico non si ferma al pragmatismo ma scivola inevitabilmente nell’opportunismo e nel qualunquismo.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1813. Nel suo quarto capitolo, Schiavone affronta – in maniera va detto non sempre lineare – una serie di questioni davvero importanti. Senza affrontar le quali la sinistra si confonderebbe immediatamente con un club di gretti individualisti. È tuttavia questo il capitolo più discutibile del manifesto. Il più aperto e certo anche il più meritevole di discussione. Anche perché qui potremo riprendere la questione della cittadinanza.

14. Anzitutto Schiavone affronta una questione particolare, non insormontabile. La questione dell’identità italiana. La questione identitaria è stata posta a lungo negli scorsi decenni, a partire dal dibattito sulla patria e sulla identità nazionale della metà degli anni Novanta[35]. È un dibattito su cui sono intervenuti molti studiosi e intellettuali, tra cui lo stesso Schiavone[36]. Un dibattito che manco a dirlo non ha interessato più di tanto il mondo politico.

Schiavone afferma che: «Tra i molti errori della sinistra c’è di sicuro quello di aver lasciato alla destra il monopolio della rivendicazione identitaria. È un tema che invece si deve riprendere con vigore, esibendone una visione completamente diversa rispetto a quella della destra, ma non meno forte, tutt’altro. L’identità italiana non è un bene acquisito una volta per tutte, che si recupera o si lascia perdere, come si cerca di far credere. Non è qualcosa di scritto nel passato. È un insieme di pensieri, di riconoscimenti e di costruzioni culturali che cambia di continuo, e che ogni generazione ricrea in modo diverso; è un patto di fiducia che si rinnova con la propria storia e con la propria coscienza civile. Ed essa non è alternativa all’identificazione europea, né all’auto percezione – che per fortuna avanza sempre di più – di essere cittadini del mondo, di far parte di una comunità globale. All’Europa e al mondo si aderisce con tanta maggiore consapevolezza, quanto più ci si avverte italiani: anzi, quanto più si sa proteggere e rafforzare questo riconoscimento. Intanto, perché il cosmopolitismo è una nostra antica vocazione, senza la quale, per esempio, il Rinascimento non sarebbe stato quello che è stato»[37].

La sinistra nuova, dunque, ha da essere identitaria ma non sovranista. Ma a mio modesto avviso questa conclusione non basta. Proprio dal dibattito sull’identità italiana mi sentirei di precisare che l’identità di cui abbiamo bisogno non è un’identità di tipo etno-nazionale (cui mira invece consapevolmente la destra), bensì un’identità basata sulla nozione habermasiana della cittadinanza della costituzione. Se si preferisce, del patriottismo della costituzione. Una identità dal carattere fondamentalmente politico e di derivazione illuministica[38]. Si tratta di concetti di una certa complessità che non ho spazio qui per approfondire. I nostri politici medi di sinistra ovviamente nulla sanno di queste distinzioni.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1915. Schiavone comunque cerca di sostanziare, anche se non ne parla esplicitamente, i principi di una cittadinanza della costituzione, attraverso la proposta di un patto. Devo qui dire che personalmente non mi piacciono i patti in questi termini. Non è chiaro perché quando si legge qualcosa che assomiglia a un programma politico o a una mozione ci sia sempre qualcuno che propone un patto di qualche sorta. Si vedano le mozioni dei candidati alla Segreteria del PD che sono pieni di patti. Si tratta per lo più di artifici retorici poiché non si precisano mai le circostanze del patto stesso. Non siamo certo in presenza di un patto repubblicano. Schiavone propone (ahimè, anche lui) un patto di carattere politico, basato sulla costruzione europea e sul contrasto alle diseguaglianze. E qui, comunque, con la cittadinanza costituzionale ci stiamo: «L’intero Patto dovrebbe ruotare intorno a due soli punti: solitari e decisivi. Primo: impegno contro le grandi strutture di diseguaglianza attive nella società italiana. Secondo: impegno per fare del nostro Paese il leader di una nuova fase dell’unificazione europea, vista in una prospettiva di sempre più completa integrazione occidentale e planetaria. Formulato in altro modo, e in una sola frase: meno diseguaglianza, ma senza alcun appiattimento, e senza rinunciare ad alcuna differenza; e insieme: un’idea d’Italia con dentro più Sud, più mare, più Europa e più mondo. È tutta qui – in queste sole righe – la sinistra che aspettiamo»[39]. Il grande compito della nuova sinistra dunque dovrebbe essere quello di determinare l’introduzione di nuove forme di eguaglianza, per lo meno a livello europeo, lasciando massima libertà alle differenze. Un compito chirurgico di grande difficoltà.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2016. La questione delle diseguaglianze è ancora dunque fondamentale anche e soprattutto nella costruzione di un programma politico. In questa ultima parte Schiavone si accinge a discutere in profondità il senso nuovo che la nuova sinistra dovrebbe conferire alla questione della eguaglianza. Si tratta cioè – ricordiamolo – di connettere l’eguaglianza non più con il lavoro bensì con la cittadinanza.

Dice Schiavone: «La storia – sia più antica, sia recentissima – ha sedimentato nel nostro Paese grandi strutture di diseguaglianza, che lo rendono estremamente fragile e che stanno compromettendo la sua vita civile e politica, e il funzionamento stesso della democrazia repubblicana. Con questa espressione – strutture di diseguaglianza – intendo l’esistenza, stratificata nel tempo, di complessi apparati di discriminazione, in ognuno dei quali si combinano variamente in un unico meccanismo amministrazione, economia, società, diritto, mentalità. Essi finora sono stati sempre in qualche modo favoriti o coperti dalla politica, e agiscono come vere e proprie macchine del diseguale, moltiplicando i loro effetti su fasce di cittadinanza sempre più ampie. Mi limito a indicarne quattro, a mio giudizio più significativi: la sanità, la scuola, il mercato del lavoro, il sistema-Mezzogiorno preso nel suo insieme: autonomie, burocrazie, intrecci di affari, politica e criminalità che dal Sud si sono estesi all’intera Penisola. Affrontare questi nodi e almeno iniziare a scioglierli sarebbe il segno di un’autentica rivoluzione italiana»[40]. Per questo occorre: «[…] il disegno di un nuovo progetto che sia in grado di costituire il nucleo di un Patto di eguaglianza da proporre al Paese per la salvezza della sua democrazia. Un Patto che sia già un programma politico, stretto non in nome di una classe – che porti cioè dentro di sé il segno dell’esclusione – ma del «comune umano» come soggetto e come valore includente e globale»[41].

17. È proprio la nozione del “comune umano”, che qui compare, a costituire un qualche problema, una potenziale pietra d’inciampo. Schiavone ribadisce che il programma egualitario andrebbe dunque perfezionato e portato avanti «non in nome di una classe». E questo è il rifiuto esplicito della vecchia prospettiva della giustizia socialista, di cui abbiamo già detto. Qui si pone tuttavia il problema di individuare il punto di vista generale che dovrebbe sostenere il nuovo programma egualitario. Nel linguaggio tradizionale del pensiero democratico si parlerebbe forse del bene comune o di una qualche ricetta per individuarlo. Si tratta in altri termini di definire il senso del nuovo egualitarismo. E, nello stesso tempo, anche il suo retroterra sociale universale.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2118. Cominciamo con il richiamare anzitutto perché non va più bene il vecchio modello di eguaglianza. E questo non è difficile. Secondo Schiavone, il vecchio modello di eguaglianza: «È ora di farlo scomparire del tutto: perché crea solo equivoci, e impedisce a chi ancora lo immagina di interpretare e capire davvero il mondo. Per farlo, bisogna guardare da un’altra parte. Bisogna spostare l’idea di eguaglianza dal piano dell’economia dove l’aveva messo lo sviluppo capitalistico di una volta – per non dire del pensiero di Marx – a quello dell’etica e delle coscienze. Un cambiamento non semplice, ma decisivo: prima impossibile, ma che adesso ci possiamo finalmente permettere, proprio perché le basi tecnologiche della società che sta nascendo ce lo consentono. Oggi infatti l’effetto di prossimità che le nuove tecniche permettono di acquisire rispetto a ogni luogo del pianeta – pensiamo alla difesa dell’ambiente come fatto globale, o all’immaginario delle giovani generazioni in tutti i grandi centri urbani – sta rendendo per la prima volta possibile il formarsi di una visione unitaria e totalizzante dell’umano – che ha appunto l’eguaglianza per sua misura – senza più legarla direttamente a un modo di lavorare e di produrre, bensì a una forma complessiva della vita: non l’unica, ma indispensabile. E soprattutto senza cancellare o mettere in discussione le ineliminabili diversità che pure sopravvivono all’interno di quella rappresentazione unificante: né quelle diciamo così naturali, né quelle sociali. E costruire questa nuova veduta – l’eguaglianza come misura dell’umano – non come l’intuizione di una minoranza, ma come l’autorappresentazione di un’intera civiltà»[42].

Quello che Schiavone vuol dire – credo – è che la messa da parte dell’eguaglianza socialista non deve precipitare in un tipo di società sul modello di Mandeville, dove ognuno persegue ferocemente solo e immediatamente il proprio particulare[43]. Uguali in quanto concorrenti. Se in campo economico è ammesso un settore privato, che è il settore dove si producono le differenze più pesanti, nella sinistra si dovrà dare risalto al momento del pubblico e del comune. Il pubblico e il comune deve avere come riferimento l’umano, cioè l’universale, che poi (credo) può essere interpretato come il cittadino universale di questo pianeta. Sarebbe questo presumibilmente il culmine di un lungo e tormentato processo che ha portato alla universalizzazione dei diritti umani, alla universalizzazione condivisa di un nucleo, in continua espansione, di diritti dell’uomo. Tipico dell’oggi tanto esecrato Occidente.

Prolegomeni a una nuova sinistra 22Secondo Schiavone: «Si riconduce così l’eguaglianza – il suo paradigma e il suo fondamento – a un altro riferimento, non più produttivo e sociale, ma morale e cognitivo, in qualche modo antropologico: una svolta senza precedenti, che libera questo concetto da un ancoraggio ormai assolutamente inattuale: quello della socializzazione operaia. E lo lega invece a un diverso modo, storicamente più adeguato e più proprio, di concepire l’indiscutibile universalità dell’umano, che oggi la nuova tecnica e la sua potenza esibiscono sotto gli occhi di tutti con un’evidenza prima impossibile da raggiungere: a quello della sua nuda impersonalità. Si può pensare e costruire cioè – eticamente, politicamente, giuridicamente – la nuova eguaglianza come la forma per eccellenza dell’impersonale umano, e rendere quest’ultimo, attraverso la sua costituzione istituzionale e sociale, il soggetto cui attribuire i diritti (universali) dell’umano: i diritti di un’universale e impersonale cittadinanza, non più connessa a una forma di lavoro, né a un modo di produzione, ma al riconoscimento di una comune identità, spersonalizzata e perciò totalmente inclusiva, l’identità dell’umano, che ha l’eguaglianza come sua unica misura. Un’identità certo consentita dallo sviluppo tecnocapitalistico, ma che tuttavia l’oltrepassa, sporge oltre di esso e della sua logica, e si apre sull’ignoto»[44].

Spiega ulteriormente l’autore: «[…] diventa non solo concepibile, ma estremamente realistica una figura diversa e complementare, che non si identifichi né con l’“io” individuale della vicenda capitalistico – borghese, né con il “noi” della tradizione socialista, ma con l’impersonalità di quell’ “egli”, di quella “non-persona” che, senza identificarsi con alcuno, permette a ciascuno di esistere e di pensare, e di potersi autorappresentare in quanto umano. Perché ognuno di noi sarebbe nulla se non potesse affondare il proprio sguardo negli occhi dell’altro – di ogni altro della terra – e riconoscerlo come parte di un tutto al quale anch’egli stesso appartiene»[45]. In tutto questo ragionamento sull’universale, il concetto che ci è parso più discutibile e bisognoso di qualche approfondimento in termini definitori è quello della impersonalità. Tornerò sull’argomento.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2319. Nel successivo paragrafo Schiavone fa un tentativo di dar corpo concreto a una definizione più precisa. Se abbiamo capito bene, nella nuova prospettiva l’eguaglianza deve venire a patti con le differenze, che rappresentano un bene altrettanto prezioso. Si tratta allora di definire con cura i campi ove deve assolutamente prevalere l’eguaglianza in nome del comune umano impersonale dai campi invece ove è possibile anzi doveroso lasciare spazio alle differenze. Se invece si lasciano le cose come stanno, si ha la produzione delle disuguaglianze e l’avanzamento sistematico del disumano.

Dice Schiavone in proposito: «Le si contrasta invece – quelle strutture [che producono diseguaglianza, ndr] – attraverso un approccio complessivo, che sia in grado di capovolgerle dalle fondamenta, investendo ciascuna di esse con i criteri di una logica sociale mai prima messa alla prova, che comprenda l’inclusione e la differenza, il pareggiamento e la diversità. Costruendo cioè isole di nuova eguaglianza opposte e simmetriche rispetto alle macchine del diseguale: un’eguaglianza non seriale e ripetitiva, ma riferita in maniera puntiforme unicamente all’accesso a beni e servizi molto precisi e determinati. Zone di parità che punteggiano oceani di differenze individuali, anche molto accentuate, che vanno lasciate intatte al proprio posto. E che però si dileguano fino ad annullarsi completamente quando si avvicinano a toccare aspetti per i quali non devono più esistere singole individualità, ma soltanto il «comune umano», nella sua interezza e nella sua impersonale indivisibilità»[46].

Nel riconoscimento delle universali differenze esistono dunque – secondo Schiavone – degli «aspetti per i quali non devono più esistere singole individualità». Qui sta il nocciolo della questione. Ci sembra di capire dunque che l’eguaglianza vada perseguita solo rispetto al “comune umano” e non rispetto ad altre particolarità, che invece vanno utilmente lasciate indisturbate, magari anche valorizzate. L’eguaglianza insomma non è mai assoluta. Occorre sempre dichiarare “Uguali rispetto a cosa?”. Diventa allora essenziale per la sinistra chiarire e concordare quali debbano essere i terreni dell’eguaglianza, i terreni del comune umano. Qui nascono le grandi fonti di disaccordo con cui la nuova sinistra dovrà comunque confrontarsi: le questioni relative ad esempio alla distribuzione, alla pace o alla guerra, ai diritti individuali, alla cittadinanza, alle limitazioni per la salvaguardia ambientale e quant’altro.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2420. Una gran novità, secondo Schiavone, dovrebbe essere la seguente: «Si tratta di un processo che deve avere al suo centro non i singoli soggetti – gli individui – ma gli oggetti, i beni. Non deve localizzarsi all’interno di ciascuno di noi, ma all’esterno; nel tessuto stesso della realtà, sia naturale, sia artificiale: in quelle sue parti condivise dall’umano nel suo insieme. Una sfera, quest’ultima, in continua espansione, grazie ai meccanismi di controllo e di trasformazione che la tecnica introduce non solo nell’ambiente che ci circonda, ma nella nostra stessa conformazione biologica: sulla materialità dei nostri corpi, determinandone il destino»[47]. Un’eguaglianza di tipo distributivo rispetto a certi beni dei quali nessuno, in quanto umano, potrebbe esser privato? Qui siamo nel campo scivoloso e complesso dei diritti umani, quelli che Bobbio considerava in continua espansione, su cui la nuova sinistra dovrà prender posizione. Ben al di là dei miseri elenchi che circolano nei programmi dei candidati. Personalmente andrei cauto nel riservare la questione dell’eguaglianza solo ai beni, agli oggetti. Abbiamo ancora molti problemi di eguaglianza che riguardano i diritti individuali. A meno che non si voglia considerare anche certi diritti individuali come un tipo particolare di beni. Ad esempio il diritto per coppie omosessuali a sposarsi e ad avere dei figli, il diritto alla cittadinanza per i nati in Italia, e così via.

Così sembrerebbe: «Emergerebbero così segmenti di vita regolati da un’eguaglianza che agisce in modo intermittente e discontinuo, legata alla fruizione di alcune precise risorse, e alla protezione di alcuni beni: l’inviolabilità della vita stessa, prima di tutto, nella pienezza della sua esistenza, dall’alimentazione alla salute, alla formazione. L’ecosistema nella sua interezza; l’accesso al digitale e alle tecnologie in grado di modificare lo statuto genetico dell’umano, e così via. Mentre rispetto a tutto il resto rimarrebbero prevalenti quei criteri di differenziazione e di disequilibrio indotti dalla natura, dal genere, dal mercato»[48].

Prolegomeni a una nuova sinistra 25Aggiunge Schiavone, tanto per chiarire: «Negli ultimi anni la riflessione giuridica sui cosiddetti «beni comuni», come quella sui «beni pubblici globali», entrambi patrimonio dell’impersonalità umana che si fa soggetto giuridico e paradigma etico è andata avanti, con risultati significativi. In queste esperienze ci si riferisce a fasce di beni e di servizi sottratti con apposite regole al controllo da parte del capitale, e affidate a un’altra razionalità economica – un’economia dell’universalità umana, l’autentica economia non capitalistica dell’impersonale, produttrice di valori d’uso e non di merci – con una fruibilità garantita in modo eguale, e comunque al di fuori delle discipline di mercato, all’intera cittadinanza»[49].

Prolegomeni a una nuova sinistra 26Possiamo pensare a qualcosa come l’ambiente bene comune. Possiamo pensare forse a qualcosa come il FAI, oppure i beni che l’UNESCO ha dichiarato come patrimonio dell’umanità. Possiamo pensare a certi progetti che girano su internet di mettere a disposizione di tutti gli umani il patrimonio librario universale. Oggi si adombra l’idea di un’intelligenza artificiale con cui chiunque possa interloquire per ottenere informazioni distillate dall’enorme globale infosfera che l’umanità stessa sta costruendo collettivamente. Si può pensare alla messa in comune di brevetti che abbiano una rilevanza “umana” come ad esempio le cure per le malattie oppure le tecnologie per la produzione di energia pulita. Un’espansione, dunque, della sfera del comune umano a discapito del privato proprietario. Alla fine del paragrafo 3 Schiavone fa alcuni esempi ulteriori presi dal campo della discussione sui beni comuni. Dal campo della scuola e della questione del merito e dal campo del lavoro.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2721. È chiaro che dietro a tutto ciò compare la questione (che in termini pratici diventa poi decisiva) del rapporto tra la sfera del comune e la sfera del mercato, che rimane comunque capitalistico, per quanto possa essere ben regolato dalla mano pubblica. Schiavone precisa che: «In queste esperienze ci si riferisce a fasce di beni e di servizi sottratti con apposite regole al controllo da parte del capitale, e affidate a un’altra razionalità economica – un’economia dell’universalità umana, l’autentica economia non capitalistica dell’impersonale, produttrice di valori d’uso e non di merci – con una fruibilità garantita in modo eguale, e comunque al di fuori delle discipline di mercato, all’intera cittadinanza. Essa rappresenterà un fattore di riequilibrio tra offerta (capitalistica) e bisogni (dei cittadini)»[50]. Su tutto ciò si può anche concordare. Tuttavia Schiavone dimentica una questione decisiva. Tutto ciò può essere realizzato grazie a un intervento deciso dello Stato. Lo Stato è l’ospite sconosciuto di tutti i dibattiti sul futuro della sinistra. Nell’inconscio della vecchia sinistra c’è un’ambivalenza – disastrosa nei suoi effetti – nei confronti dello Stato (e dell’amministrazione), il quale dovrebbe essere il solutore di tutti i problemi ma del quale fondamentalmente si diffida e che non di rado è considerato un nemico. Se la nuova sinistra dovrà far pace con la tecnica e con il capitalismo, dovrà anche far pace con lo Stato. Per far pace con lo Stato e per rafforzarlo l’unica strada è quella del patriottismo della costituzione. Bisognerà adottare la prospettiva per cui «lo Stato siamo noi». Solo così lo Stato potrà limitare il mercato, offrire le garanzie ai cittadini e impedire i soprusi. Questo esclude la prospettiva della deregulation neoliberista, se non in quei casi in cui la regulation si sia mostrata disfunzionale. Bisognerà riprendere i temi della riforma dello Stato, di cui nessuno si interessa. Come bisognerà riprendere il discorso sulle organizzazioni internazionali.

Prolegomeni a una nuova sinistra 29Anche il mercato del lavoro potrebbe lasciar spazio a un altro tipo di mercato, oggi anticipato dal vasto settore del volontariato, basato sul dono alla comunità: «Mentre in società in cui si lavorerà sempre di meno – in modo sempre più qualificato, ma per periodi sempre più ridotti – si potrebbe prevedere di liberare in modo sistematico una parte del tempo di lavoro dal vincolo del mercato, e di destinarlo, sotto forma di servizio alla comunità, ad attività utili per l’insieme della cittadinanza, scelte da chi le compie in base alle proprie competenze e vocazioni. Questa possibilità è oggi realistica perché può passare attraverso una separazione cruciale, una volta improponibile: quella tra il lavoro in forma di merce – la forza-lavoro venduta e comprata sul mercato – e il lavoro in quanto tale, come impegno e fatica per la realizzazione di sé. Un lavoro, quest’ultimo, sottratto al mercato e alla forma di merce, e consegnato invece alla comunità senza la mediazione del capitale. La distinzione era stata finora impraticabile perché le condizioni tecnologiche non la consentivano: tutto il lavoro doveva finire sul mercato per permettere la sopravvivenza materiale e la dignità sociale di intere classi, di larghissima parte della società. Oggi invece comincia a non essere più così»[51].

Prolegomeni a una nuova sinistra 30La chiave di svolta è ancora una volta la natura storica del lavoro e della figura del lavoratore. Schiavone in prospettiva è convinto che: «La quantità di lavoro da destinare al mercato tenderà sempre più a ridursi, perché una sua parte sempre maggiore sarà sostituita dalla tecnica, e questo renderà disponibile per scopi diversi una quota sempre maggiore di energia psicofisica umana. Si libereranno in tal modo risorse che costituiscono un potenziale enorme, ma che oggi, per effetto di una distorsione culturale, sociale ed economica – forse addirittura antropologica – appaiono solo come eccedenza di forza-lavoro non impiegata, spesso con conseguenze drammatiche per le persone escluse dal circuito produttivo; mentre si tratta di una riserva preziosa, finalmente da poter destinare a compiti diversi, lontani dalla sola riduzione del lavoro umano a forza-lavoro in forma di merce. È un ordine di pensieri che si apre su immensi campi inesplorati, e che forse potrebbe anche dirci qualcosa sulla storicità del capitale, sulla sua non eternità. Ma c’è bisogno di studio e di coraggio intellettuale. La costruzione di un diverso modo di essere eguali non può fare a meno di simili ricognizioni»[52].

Prolegomeni a una nuova sinistra 3122. Dicevamo di una certa fatica teorica da parte di Schiavone, in questo ultimo capitolo. In effetti, le diverse questioni sembrano piuttosto affastellate. Tutte cose assai interessanti che tuttavia faticano a trovare un ordine concettuale ben definito. Qui si può tornare alla questione poco chiara del concetto di impersonalità. Occorrerebbe secondo Schiavone: «[…] distinguere le due forme in cui si realizza l’umano – quella individuale e quella impersonale – riservando per ciascuna di esse diverse funzioni sociali, economiche, politiche. Non è del tutto chiaro cosa intenda Schiavone con la nozione della “non-persona” come forma di auto realizzazione. Quando Schiavone parla di impersonalità si riferisce evidentemente a un superamento della “persona”. Si tratta evidentemente – per quel che abbia mo capito – di una nozione di stampo foucaultiano risalente a Roberto Esposito[53]. Queste parentele e connessioni si possono capire ricorrendo allo studio precedente di Schiavone, incentrato proprio sulla nozione dell’eguaglianza[54]. Non abbiamo però capito quale vantaggio si abbia nell’utilizzo di questo concetto. È – a nostro giudizio – un poco disdicevole che Schiavone, intendendo produrre un manifesto politico abbia deciso, nella sua parte centrale basilare, di legarlo ai sofismi di una discutibile filosofia postmoderna. L’impersonale di Esposito/Schiavone, spogliato del linguaggio della bioetica e della biopolitica postmoderna, assomiglia comunque alquanto, a nostro giudizio, al kantiano cittadino del mondo. Quello che ha dato l’avvio alla tradizione moderna del cosmopolitismo. Più in generale, c’è dietro tutta la tradizione umanistica, dai Greci ai giorni nostri.

Prolegomeni a una nuova sinistra 32Schiavone, nelle sue argomentazioni, riprende in realtà più o meno consapevolmente – con un linguaggio talvolta oscuro – tematiche vecchie e nuove che hanno alimentato analoghi filoni di discorso. In campo antropologico si è sviluppato da tempo una riflessione sulla economia del dono[55]. Esiste poi un’ampia letteratura nazionale e internazionale facilmente reperibile sull’economia dei beni comuni. La riflessione di Schiavone sul cambiamento del significato del lavoro, è abbastanza analoga alla riflessione prodotta recentemente da Maurizio Ferraris intorno alla produzione di valore che ciascuno di noi realizza, senza alcun comando, senza alcuna retribuzione, in rete, in quanto utente delle nuove tecnologie. Lavoro che impropriamente viene appropriato dai monopolisti del web e che invece in certa misura potrebbe essere ridistribuito. Si veda ad esempio Ferraris 2015 e Ferraris 2021. Una tematica analoga a diversi esempi proposti da Schiavone è quella del capitale sociale. Si tratta di un concetto di cui si è discusso assai nell’ambito delle scienze sociali e che ha trovato una varietà di formulazioni ma anche una varietà di applicazioni. Un’altra tematica analoga è quella della cultura civica della democrazia[56] a proposito della quale esiste un filone di ricerca e riflessione che dura da decenni.

Prolegomeni a una nuova sinistra 33Insomma, si tratta di uscire dai confini disciplinari della tradizionale eguaglianza lavorista e socialista per dare luogo a una nuova elaborazione culturale che sappia fondere varie disparate riflessioni che ci sono già e che attendono soltanto di essere opportunamente e rigorosamente concettualizzate. E qui ci sarà senz’altro molto lavoro da fare.

Prolegomeni a una nuova sinistra 3523. Schiavone contribuisce dunque, in questo suo manifesto, a delineare un nuovo quadro culturale per una futura nuova sinistra. O, almeno, a manifestarne fondatamente l’esigenza. Una futura sinistra sganciata dall’ ingombrante eredità socialcomunista, sganciata dal lavorismo, capace finalmente di non demonizzare la tecnica e di mettere il capitalismo al lavoro in nome dell’umano e non contro l’umano. Il riferimento politico di fondo è la cultura della democrazia e la individualità autonoma della tradizione umanistica occidentale che ha prodotto il cittadino della polis come migliore forma di vita. Se non piacciono le proposte di Schiavone, non lo si potrà comunque ignorare, perché quelli da lui individuati sono comunque i problemi che vanno affrontati. Hic Rhodus, hic salta!

Prolegomeni a una nuova sinistra 37Schiavone inoltre evidenzia – senza dirlo esplicitamente ma con le sue considerazioni complessive – un altro errore della sinistra tradizionale. L’errore di avere ridotto la democrazia a democrazia formale. Nell’ambito della prospettiva socialista, la democrazia era impegnata a fornire l’elemento formale, mentre l’elemento sociale e culturale era fornito dal sol dell’avvenire. Ora che il sol dell’avvenire sembra tramontato per sempre insieme alla civiltà del lavoro, è quanto mai urgente dar voce a un nuovo elemento contenutistico della democrazia, un nuovo profondo contenuto sociale e culturale, incentrato intorno a una nuova modalità di concepire l’eguaglianza. È quanto Schiavone ha cercato di fare e quanto dovremo continuare a fare noi tutti se vogliamo mettere in marcia autenticamente la prospettiva di una nuova sinistra democratica.

Prolegomeni a una nuova sinistra 36

Appendice

Le tre, o quattro, sinistre. Poiché si parla qui di sinistra, cosa il cui significato è oggi pressoché smarrito, può essere utile un inquadramento in prospettiva storica dell’oggetto in questione. Per rimanere nel campo della sinistra, secondo Hobsbawm[57], nel corso degli ultimi duecento anni, si sono succedute diverse sinistre. Almeno tre.

La prima sinistra è stata quella liberale. È la sinistra che ha combattuto l’aristocrazia: ai tempi di Luigi XVIII e di Carlo X in Francia i Liberali si contrapponevano agli Ultras. Insomma, la prima sinistra sarebbe quella che ha guidato le rivoluzioni borghesi e, parzialmente, i movimenti di costruzione della nazione, soprattutto in Europa. In prossimità alla sinistra liberale, ma anche in contrapposizione, tra Settecento e Ottocento è nata una sinistra repubblicana e democratica. Col passare del tempo, la sinistra liberale e quella democratica hanno trovato una sintesi ormai stabile nella cosiddetta liberaldemocrazia.

La seconda sinistra è quella che ha visto la contrapposizione tra i primi movimenti sociali popolari e la borghesia (in questo caso la borghesia si è spesso trovata spinta su posizioni di destra. È il caso, ad esempio, di Luigi Bonaparte). La seconda sinistra, si è sviluppata come una sinistra di classe, ha una storia molto lunga che, approssimativamente, dal 1848 giunge fino agli anni ‘70 del Novecento. È stata in gran parte egemonizzata dal pensiero socialista e comunista e dalla forma organizzativa del partito di massa. Ha dato un contributo importante alla costruzione della nazione e alla democratizzazione della nazione, nel senso dell’inclusione del maggior numero. Mediante un intreccio con la prima sinistra ha dato vita alla socialdemocrazia.

La terza sinistra secondo Hobsbawm (che scrive nel 1999) sarebbe una manifestazione recente, legata alla crisi progressiva del conflitto di classe, cioè alla crisi delle socialdemocrazie e alla crisi dei comunismi. È una sinistra che nasce sul terreno della società e della cultura di massa, e si caratterizza per avere una cultura politica composita, per il possesso di forme organizzative leggere e, spesso, per il carattere mono tematico (single issue) delle sue campagne politiche. Sembrerebbe meno interessata alle questioni specificatamente nazionali e più aperta a una prospettiva di tipo universalistico.

Le cose non sono andate proprio come previsto da Hobsbawm. Per questo mi sento di proporre una qualche variazione al suo schema. Dal mio punto di vista la terza sinistra è la sinistra populista, emersa (o riemersa) negli ultimi due decenni. La considerazione del populismo come un tipo di sinistra pone alcuni problemi, poiché il populismo si schiera spesso e volentieri anche a destra. Oggi tuttavia, soprattutto in relazione alla situazione italiana e al caso del M5S il problema non si pone. Possiamo pensare alla sinistra populista come uno sviluppo degenerato derivante dalla crisi della seconda sinistra. E forse da taluni problemi non risolti nell’ambito della prima sinistra.

Accanto a queste tre, abbiamo oggi ampi sviluppi (che Hobsbawm non poteva allora presagire) della sinistra single issue, che qui considereremo allora come una quarta sinistra.

Prolegomeni a una nuova sinistra 38

Opere citate

1963 Almond, Gabriel A. & Verba, Sidney, The Civic Culture. Political Attitudes and Democracy in Five Nations, Princeton University Press, Princeton.

2023 Caravale, Giorgio, Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni, Laterza, Bari.

1997 de Mandeville, Bernard, La favola delle api, ovvero, vizi privati, pubblici benefìci, con un saggio sulla carità e le scuole di carità e un’indagine sulla natura della società, Laterza, Bari. [1724]

2007 Esposito, Roberto, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino.

2015 Ferraris, Maurizio, Mobilitazione totale, Laterza, Bari.

2021 Ferraris, Maurizio, Documanità. Filosofia del mondo nuovo, Laterza, Bari.

2021 Floridia, Antonio, Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel Partito Democratico. Postfazione di Nadia Urbinati, Castelvecchi, Roma. [2019]

2022 Floridia, Antonio, PD. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi, Castelvecchi, Roma.

1996 Galli Della Loggia, Ernesto, La morte della patria, Laterza, Bari.

1999 Hobsbawm, Eric J., Intervista sul nuovo secolo (a cura di Antonio Polito), Laterza, Bari.

1950 Mauss, Marcel, Essai sur le don, Presses Universitaires de France, Paris. Tr. it.: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 1965.

1997 Rusconi, Gian Enrico, Patria e repubblica, Il Mulino, Bologna.

2023 Schiavone, Aldo, Sinistra! Un manifesto, Einaudi, Torino. Epub.

2019 Schiavone, Aldo, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, Einaudi, Torino.

1998 Schiavone, Aldo, Italiani senza Italia, Einaudi, Torino.

Prolegomeni a una nuova sinistra 33

Commenti

Prolegomeni a una nuova sinistra 42Riportiamo i commenti di Marco da Roma, amico di Vittorio, a questo pezzo e la risposta di Paolo.

M.: Grazie, lettura interessante. Sembra un vecchio articolo di Rinascita. Osservo solo che se nell’introduzione si scrive “di poter contare su un pensiero di sinistra libero da residuati ideologici” (che poi è una contraddizione) si aggiunge poi, in palese, questa volta, contraddizione che “la sinistra non discute da decenni dei suoi principî”.

Prolegomeni a una nuova sinistra 43P.: Mah, sono contento che qualcuno legga con tanta acribia le cose che pubblichiamo, ma in verità la contraddizione che rileva non esiste. Infatti i principi sono una cosa (libertà, equità, uguaglianza, ecc …) e le ideologie sono una cosa ben diversa: sono la pretesa di dare dei principi un’interpretazione insindacabile. Ad esempio, la concezione di “eguaglianza” che avevano Lenin e Pol Pot rientrava in una interpretazione ideologica, che contemplava una dittatura del proletariato, del partito o comunque di una “avanguardia rivoluzionaria”, e lasciava ben poco spazio ad altre possibili interpretazioni dello stesso principio. Io parlavo di “residuati ideologici”, appunto, mentre Beppe parla di “discussione sui principi”.

Prolegomeni a una nuova sinistra 41M.: Non si tratta di far le pulci a un testo, peraltro la mia preparazione è puramente giuridica e solo nell’ambito dottrinale, ma, nonostante le ineccepibili precisazioni, resto convinto che vi sia una contraddizione di fondo. Per premessa seguo Aldo Schiavone dal 1975 quando lui era, se ben ricordo, anche impegnato con la scuola di partito. Ovviamente PCI per chiarire a Vittorio. Ma se, e velocemente entro nel merito, si vuol separare il principio di pensiero, non volendo chiamarlo ideologia, dalla sua applicazione reale possiamo essere d’accordo ma a questo punto cosa sono i residui ideologici? Perché si scrive chiaramente che un pensiero di sinistra deve esserne scevro. Libertà, equità e uguaglianza devo sparire da un ragionamento di sinistra o sono dei capisaldi per i quali dobbiamo trovare un principio applicativo? Se così fosse cosa cambia rispetto ad un passato sbagliato? Diventerebbe comunque ideologia. Nulla nel ragionamento del Rinaldi e anche di Schiavone, di cui ho letto il saggio (pensavo di essere il solo) mi illumina in merito. E trovo qui la contraddizione. Aggiungo, infine, che non ho rinvenuto alcuna traccia di una controparte, né una qualsiasi valutazione di quale sia e come si sia evoluto nel tempo il sistema di potere economico/politico/sociale eventualmente da cambiare. Se non marginalmente al punto 12. La chiudo qui e mi scuso. Non sono mai stato un intellettuale, ho solo il difetto di essere un vecchio comunista italiano. Posso sbagliare, anzi sicuramente sbaglio ma se devo sbagliare devo farlo con il Partito. Che non c’è più. Come cantava Guccini … godo molto di più

Prolegomeni a una nuova sinistra 44

Note

[1] Cfr. Schiavone 2022. NB: avendo utilizzato come fonte un testo in formato epub e non avendo gli epub una numerazione fissa delle pagine, le citazioni saranno posizionate per quanto possibile in riferimento all’indice del testo. Questo lavoro si serve in gran parte di un montaggio di citazioni. Poiché le citazioni provengono da libri di Einaudi, ho provveduto a uniformare gli accenti delle citazioni alla regola standard.

[2] Si veda la recensione assai critica di Egidio Zacheo, su questo stesso giornale.

[3] Cfr. Schiavone 2022: “Per cominciare”.

[4] Cfr. Schiavone 2022: “Per cominciare”.

[5] Cfr. Caravale 2023.

[6] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 1.

[7] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.

[8] Nella Appendice, con l’aiuto di Hobsbawm, ricostruisco una tipologia storica della sinistra.

[9] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.

[10] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.

[11] Si veda sempre la nostra Appendice.

[12] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.

[13] Ad esempio, la scissione del PD del 2017 ha dato vita a un partito denominato “Articolo 1”, con riferimento palese alla identificazione tra cittadino e lavoratore. Si veda la mia analisi di allora sulla natura di questa formazione politica. Cfr. Finestre rotte: Cosa resterà della scissione del PD?

[14] Si veda in appendice.

[15] L’uso del termine popolo al posto di classe è un pietoso mascheramento per occultare il fatto che la classe – semmai ci sia stata – ora non c’è proprio più.

[16] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.

[17] La diseducazione comunista è quella che – tra l’altro – ha impedito e impedisce tuttora di concepire il cittadino democratico come unico riferimento della politica progressista.

[18] Mi riferisco qui alla catalogazione delle diverse sinistre operata da Hobsbawm (cfr. Hobsbawm 1999). Egli distingue tra una prima, una seconda e una terza sinistra. La prima sinistra è la sinistra liberaldemocratica. La seconda sinistra quella socialista, mentre la terza sinistra è quella che si dovrebbe ancora costruire. Si veda l’appendice.

[19] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.

[20] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[21] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[22] Il Riferimento ovvio va agli studi degli elitisti, tra cui Roberto Michels.

[23] La teoria della democrazia diretta.

[24] Cfr. Floridia 2021 e Floridia 2022.

[25] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[26] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[27] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 1.

[28] Si veda il mio recente intervento, pubblicato su Città Futura, sull’ultimo libro di Diego Fusaro La fine del cristianesimo. Finestre rotte: Note sparse intorno alla fine annunciata della trascendenza.

[29] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 1.

[30] Cfr. Ferraris 2021.

[31] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[32] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[33] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[34] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[35] Il dibattito in Italia fu introdotto da un saggio di Ernesto Galli della Loggia ed ebbe notevoli contributi successivi. Cfr. Galli della Loggia 1996.

[36] Cfr. Schiavone 1998.

[37] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 1.

[38] Cfr. Rusconi 1997.

[39] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 1.

[40] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[41] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[42] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[43] Cfr. de Mandeville 1997 [1724]

[44] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[45] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[46] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[47] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[48] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[49] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[50] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[51] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[52] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[53] Cfr. Esposito 2007.

[54] Cfr. Schiavone 2019.

[55] Cfr. Il riferimento originario è Mauss 1950.

[56] Questa tradizione di studi è stata iniziata da Almond & Verba 1963. Significativo è lo studio realizzato in Italia dal Politologo Robert Putnam, che ha utilizzato anche la nozione di capitale sociale.

[57] Cfr. Hobsbawm 1999.

Breve nota sull’immaginario della sinistra

di Paolo Repetto, 15 novembre 2023, introduzione a Prolegomeni a una nuova sinistra

Per una volta siamo di parola. Ecco infatti il secondo intervento di Beppe Rinaldi, promesso un paio di settimane fa.

Rinaldi prende spunto nel testo che segue da un piccolo saggio di Aldo Schiavone (Sinistra!, edito da Einaudi nel 2023), per guidarci in una riflessione sullo stato attuale del pensiero di sinistra e sulle sue future prospettive. In effetti ne abbiamo un gran bisogno, sia di riflettere con un po’ di calma che di poter contare su un pensiero di sinistra libero da residuati ideologici. L’argomento non è affatto nuovo per il sito dei Viandanti: direi anzi che in modi e in misure diversi, esplicitamente o sottotraccia, ricorre in tutti gli scritti ospitati, anche in quelli che parrebbero andar per lucciole. La differenza sta nel fatto che in questa occasione è affrontato con la sistematicità analitica e con la lucidità critica di cui solo uno studioso di lungo corso come Rinaldi può essere capace. Sul salto di livello che qui si opera può essere illuminante il confronto con un paio di tentativi miei di fare un’operazione di questo genere, uno già lontano nel tempo (L’ultimo in basso, a sinistra, 1999) e l’altro più recente (Tre manifesti sul futuro dell’umanità, 2021). Tra l’altro, già in quest’ultimo l’occasione era offerta da un precedente testo di Schiavone, L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria, nel quale venivano anticipate quasi tutte le tesi poi riprese in Sinistra!

Ciò non significa che il pensiero dello storico campano del diritto sia diventato per i Viandanti un riferimento obbligato: significa invece che Schiavone, al contrario dei “grandi maestri” cui guarda con acritica reverenza lo pseudo-anticonformismo postmoderno, ha il coraggio di affrontare senza troppi giri di parole o ingorghi di citazioni il tema dell’essenza e dell’esistenza di una sinistra. Lo fa a modo suo, magari entusiasmandosi troppo per prospettive difficilmente condivisibili, ma almeno parla chiaro e va dritto al cuore dei problemi, invogliando così anche animi stanchi come i nostri a discuterlo (e a mettersi in discussione). Ma tutto questo lo troverete appunto nella serratissima analisi che Beppe Rinaldi va a proporvi.

Due parole vanno invece ancora spese sull’ iconografia inserita dalla redazione a corredo del testo. Le immagini scelte non sono un espediente per alleggerire la densità di quest’ultimo (intesa come peso specifico delle argomentazioni e non certo come caratteristica dello stile) e neppure vogliono ridursi a un puro e semplice reliquiario iconografico: sono state inserite ritenendo che abbiano una qualche attinenza con lo scritto, in quanto, sia pure sommariamente, raccontano le trasformazioni di un’idea, della concezione stessa di “sinistra” e delle modalità di appartenenza a questa categoria politica. La trasformazione può infatti essere letta anche attraverso l’evoluzione (o l’involuzione, a seconda dei punti di vista) dei manifesti che celebrano ricorrenze o avvenimenti significativi del calendario liturgico della sinistra, in particolare di quelli relativi alla festa del Primo Maggio. Naturalmente le chiavi di lettura possono essere svariate: quella che molto schematicamente proponiamo ha solo un valore esemplificativo.

Al netto dei mutamenti del gusto intervenuti nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, che attraverso le successive correnti artistiche hanno naturalmente influenzato anche l’illustrazione politica, ci sono in questi manifesti altre evidenze, non prettamente estetiche, relative ai contenuti piuttosto che allo stile, che balzano immediatamente agli occhi.

In quelli risalenti all’ultimo decennio dell’ Ottocento e ai primi del secolo successivo, ad esempio, la sinistra è personificata in immagini quasi esclusivamente femminili: sono allegorie botticelliane, adattate ai canoni dell’Arts and Crafts di William Morris prima e a quelli dell’Art Nouveau dopo. L’atmosfera e le posture leggere delle giovinette, che sembrano sempre pronte a librarsi in volo (quando già non stanno volando) riflettono in fondo le ottimistiche speranze della Belle Époque in un crescente benessere. A tutto questo non è naturalmente sotteso alcun riconoscimento particolare del ruolo della donna nella realizzazione di una futura società egualitaria. Sono solo rappresentazioni simboliche: e tuttavia quella che trasmettono è l’idea di una possibile transizione armonica. L’immagine femminile non ha nulla di minaccioso, al contrario, si fa garante di un futuro di bellezza. E i seni generosamente esposti al vento, oltre a sfidare il farisaico moralismo borghese, promettono abbondanza e libertà.

Al volgere del secolo cominciano a comparire invece sui manifesti delle figure maschili, di solito in pose statuarie, o immagini di coppie o di gruppi. Dall’idealizzazione allegorica si plana verso una rappresentazione “realistica”, sia pure virata in chiave epica. Cambia anche l’atmosfera. La guerra mondiale ha fatto strage delle vecchie speranze, mentre la rivoluzione bolscevica ne alimenta di nuove, almeno in apparenza più concrete. L’iconografia sovietica è esemplare in questo senso. Un trionfo di solidità e concretezza. Quella italiana invece per tutto il ventennio semplicemente scompare. Nel frattempo si impongono sempre più i loghi, che caratterizzano un modello comunicativo mirante più a creare una immediatezza identitaria che a infondere emozioni: l’immancabile falce e martello, il pugno chiuso, e poi trattori, strumenti di lavoro, paesaggi industriali di taglio futurista.

Nel secondo dopoguerra all’iniziale “realismo” di ispirazione sovietica (ma anche hollywoodiana) succede, soprattutto in Italia, un “razionalismo” di chiara matrice architettonica, che punta sulle geometrie dei volumi e allude al titanico impegno della ricostruzione. Ma non sono solo le immagini a perdere levità. Alla loro maggiore pesantezza corrisponde quella dell’atmosfera sociale (lo dicono esplicitamente gli slogan: non di una festa si tratta, ma di una lotta): non è più tempo di famiglie felici e di serenità, ma di guerra fredda, di contrapposizione dura. In quest’ultima direzione muovono a partire dagli anni sessanta i manifesti della sinistra sindacalizzata e radicalizzata, pre e post-sessantottina, mentre quella storica e partitica tende a mettere la sordina al conflitto (è l’epoca del centro-sinistra e poi del compromesso storico) optando per simboli rassicuranti: la rosa in luogo della falce e martello, campi e officine sempre più stilizzati. Nei decenni successivi anche il lavoro cede gradualmente la scena ad altri temi: l’ambiente, la questione di genere, l’informatizzazione, l’integrazione. Questo mentre si completa l’auto-intestazione della ricorrenza da parte dei sindacati e dei partiti, o addirittura delle loro guide storiche.

Col nuovo secolo i manifesti praticamente scompaiono. L’informazione e la celebrazione passano ora attraverso i nuovi media. Scompaiono anche, assieme ai cortei e ai comizi, le ultime occasioni per sentirsi bene o male accomunati da una idealità e da una lotta. Lasciano il posto a un’idea di festa di tutt’altro tipo: non si marcia nei cortei, non ci si aduna pei comizi, ma si balla, si urla e ci si sballa ciascuno per proprio conto al concertone. Ricordandosi ogni tanto di alzare il pugno chiuso o di scandire gli slogan lanciati dal palco.

L’immaginario della sinistra ha un gran bisogno di essere non solo rinnovato, ma addirittura rifondato, se vuol tornare a librarsi in qualche modo oltre la desolante realtà del presente: e a questo scopo diventano indispensabili le preliminari disincrostazioni, le ripuliture dalla zavorra ideologica operate da Beppe Rinaldi. Buona lettura, dunque.

Tre manifesti sul futuro dell’umanità

di Paolo Repetto, 3 novembre 2022

Tre manifesti copertina

Sentiamo che il mondo antico sta per finire, ma come sarà quello nuovo? I più grandi intelletti di oggi non sono in grado di prevederlo, esattamente come quelli dell’Antichità non erano in grado di prevedere l’abolizione della schiavitù, la società cristiana, l’invasione dei barbari e tutti i grandi eventi che hanno trasformato il volto terrestre.
(Alexis de Tocqueville)

Due letture recenti mi riportano ad un argomento che ho già trattato in più occasioni (cfr. soprattutto La discesa dal monte analogo). Temo però di averlo fatto piuttosto confusamente, e provo allora ad affrontarlo per l’ennesima volta cercando di essere più chiaro (e di chiarire le idee in primo luogo a me stesso).

Gli scritti che mi hanno offerto lo spunto sono molto diversi. Il primo è un “manifesto” redatto in stile futurista, comparso sulla rivista on line “L’indiscreto” il 14 settembre col titolo “Incivilizzazione”. Anche il secondo si presenta come “Manifesto del grande risveglio”, ma il titolo ufficiale è “Contro il grande reset” e ha la struttura di un vero e proprio pamphlet. Il terzo è un saggio pubblicato a inizio anno da Aldo Schiavone, intitolato “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, che ho letto solo pochi giorni fa.

L’idea di un intervento era già nata in realtà dopo la lettura del primo, ma avevo in mente solo una ironica demolizione; l’incontro con Dugin e il libro di Schiavone mi hanno invece convinto a tentare un approfondimento più serio. Spero non riesca soltanto più pesante.

I tre testi viaggiano a livelli assolutamente diseguali, per valore e per profondità nella trattazione, e un raffronto alla pari non avrebbe alcun senso: ma tutti e tre si prestano altrettanto bene al mio scopo, perché consentono di mettere a fuoco poli diversi, addirittura opposti, dell’atteggiamento nei confronti della civilizzazione “occidentale”, della razionalità e, implicitamente, del futuro della nostra specie. Cerco quindi di trattarli come “documenti”, testimonianze significative di come una stessa atmosfera possa essere interpretata con disposizioni antitetiche.

***

Incivilization: The Dark Mountain Manifesto è uno scritto relativamente breve pubblicato nel 2009 da Paul Kingsnorth e Dougald Hine, per annunciare l’inaugurazione del The Dark Mountain Project. I due militano nella galassia tanto diffusa quanto confusa degli eco-integralisti d’oltreoceano. Nel testo fanno riferimento costante, come ispiratore e nume tutelare del progetto, al poeta Robinson Jeffers, popolare negli anni ‘20 e ‘30 nella cerchia dei bohemiens e dei letterati che affollavano le coste californiane (era un amico di George Sterling e di Edgar Lee Masters, e per un certo periodo ha frequentato anche D.H. Lawrence), ma quasi sconosciuto al di fuori di quel giro (malgrado una sua foto sia stata pubblicata sulla copertina della rivista Time, cosa piuttosto rara per un poeta, e il suo profilo compaia su un francobollo del servizio postale). Conviene partire direttamente da lui.

Jeffers era un personaggio singolare, capace di costruire con le proprie mani una casa con tanto di torre tutta in pietra (“Cercate le fondamenta di granito levigato dal mare,/ le mie dita conobbero l’arte/di sposare pietra a pietra, troverete alcuni resti”), quella che compare nella immagine di apertura, e di vivere poi in essa un’esistenza appartata e austera, ma anche attento ad alimentare il mito che attorno a questa casa e a questa esistenza si andava creando. Ha esercitato senza dubbio una grande influenza sugli scrittori ambientalisti della generazione successiva, come Edward Abbey e Gary Snyder, ma anche Bukowski, cui dell’ambiente non importava un fico, lo idolatrava. (“Mi ha influenzato moltissimo, adoravo la sua selvatica ruvidezza nel verso… Jeffers è il mio dio… non sopportava gli uomini, pensava che la vita umana fosse terribile, come potrei non adorarlo?”) Negli anni settanta-ottanta è stato poi ripescato dalla cultura new-age, continuando però ad essere un autore di nicchia: e per quello che conosco della sua opera mi pare destinato a rimanere tale. Al momento le uniche sue raccolte poetiche tradotte in italiano sono “La bipenne e altre poesie” (1969) e “Cawdor” (1977: è in realtà un vero e proprio poema “epico”), e non hanno suscitato particolari entusiasmi.

Al di là delle eccentricità e dei meriti, però, ciò che davvero qui importa di Jeffres è l’appartenenza ad una tradizione “nobile” della cultura statunitense, che vede tra gli antesignani ottocenteschi personaggi come Thoreau, Muir e soprattutto Ralph Waldo Emerson e i “trascendentalisti”, e che predica un rapporto completamente diverso con la natura, empatico anziché antagonistico. Alle spalle di questi proto-ecologisti c’era un sentire religioso profondo, lontano da quell’ipocrita dogmaticità ecclesiale alla quale gli uomini del nuovo mondo avevano voluto sottrarsi: davanti a loro c’era una natura ancora incontaminata, spazi immensi e solitari nei quali il rapporto col trascendente si imponeva immediato e che andavano salvaguardati dalla colonizzazione distruttiva delle attività umane. Sulla spinta di questa tradizione sono nati infatti i primi grandi santuari naturalistici, come Yellowstone o Yosemite.

Jeffers ne ha ereditato entrambi i presupposti di base, ma è poi andato oltre. Ha predicato una sorta di panteismo che mescola la scienza e il culto mistico della bellezza della natura, nella “convinzione che l’umanità sia troppo egocentrica e troppo indifferente alla sorprendente bellezza delle cose”: e ha coniato per il suo atteggiamento la definizione di “inumanesimo”. Lo definiva esplicitamente come “…uno spostamento dell’enfasi e del significato dall’uomo al ‘non uomo’; il rifiuto del solipsismo umano e il riconoscimento della magnificenza transumana…”.

Per dare voce a questo atteggiamento la sua poesia si compiace di immagini brutali, indulge alla descrizione della violenza (stiamo parlando di un secolo fa: oggi gli stomaci dei lettori sono abituati a digerire ben altro), insiste su un atteggiamento misantropico e su un pessimismo esasperato e addirittura auspica un suicidio liberatorio (per la natura) dell’umanità. E a questo si è voluta attribuire la sua limitata fortuna critica e di pubblico.

In realtà credo che la ragione sia un’altra. L’ambizione di Jeffers era di ridare alla poesia un respiro epico, sul modello del “Paradiso perduto” di Milton, e per farlo era necessario usare una franchezza aspra, creare emozioni ma anche accompagnare con la suggestione di immagini forti il pensiero: “La poesia racchiude ed esprime il tutto, come la prosa non potrà mai. Il suo compito è contenere un mondo intero, all’istante, fisico e sensuale, dell’intelletto e dello spirito… La scienza tende a scomporre le cose per scoprirle; seziona, analizza. La poesia invece mette le cose insieme, facendo scoperte ugualmente valide e allo stesso tempo creando.” La sua era evidentemente una cifra poetica controcorrente, in un’epoca nella quale i suoi contemporanei (da Eliot a Pound agli ermetici italiani) adottavano un linguaggio elitario e infarcito di difficoltà; e quella poetica Jeffers l’ha perseguita con coerenza e in sprezzante solitudine lungo tutta la sua carriera, infischiandosene delle mode e delle correnti, e anzi, bollando l’uso escludente della parola come puro manierismo.

Jeffers leggeva effettivamente la storia dell’umanità tutta in negativo. Era attratto dalla scienza, ma giudicava devastanti i suoi risvolti pratici, la tecnologia sfuggita al controllo. Disprezzava la politica, ma non esitava a prendere posizioni radicali e impopolari (come quella del pacifismo isolazionista all’epoca della seconda guerra mondiale). Questo modo di sentire non era comunque a suo parere né misantropico né pessimista. Piuttosto consentiva “un ragionevole distacco come regola di condotta, invece di amore, odio e invidia … offre magnificenza all’istinto religioso”.

La verità è che Jeffers non nega la violenza né la esalta: la analizza come un dato di fatto, come la caratteristica fondamentale del vivere. Lo fa da un punto di vista “materialistico”, che contrappone a quello “umanistico”. “L’umanesimo ci insegna meglio perché soffriamo, ma il materialismo ci insegna a soffrire”. Scrive: “L’universo esterno divino non è in pace con se stesso, ma pieno di tensioni e violenti conflitti. Il mondo fisico è governato da opposte tensioni. Il mondo delle cose viventi è formato da una lotta continua e da desideri irriconciliabili. Il dolore è una parte essenziale della vita”. Per “materialismo” intende quindi la coscienza darwiniana della lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza.

In sostanza. Per Jeffers il dolore non è stato introdotto in una preesistente serena armonia del cosmo dalla trasgressione umana: quella che è stata introdotta è invece la percezione come dolore di un conflitto che è di per sé intrinseco alla natura. Questa percezione l’uomo non l’accetta, e cerca di liberarsene modificando l’ordine delle cose, abusando quindi dell’ambiente e degradandolo. E non si limita a trasformare la terra, ma la distrugge, condannando la sua stessa specie all’estinzione. In questo senso l’uomo è il peggiore di tutti gli animali, il più dannoso e il più scriteriato. La sua è un’intelligenza malata: attraverso la presunzione razionalistica e le sue ricadute tecnologiche si stacca sempre più dalla natura, e nel contempo però non può non riconoscere la sublime bellezza di quest’ultima, nella quale intravvede l’opera di Dio; ma, ed è questo il paradosso, anziché riconciliarsi con essa è ulteriormente spinto, proprio dalla straziante coscienza di quanto sta perdendo, alla crudeltà e all’autodistruzione. Ciò vale tanto più per i popoli presso i quali il processo di “civilizzazione” è più avanzato, ovvero per la civiltà occidentale, che è avviata ad un palese declino, travolta dall’egoismo, dalle guerre, dalla mercificazione.

E così, solo una volta scomparso l’uomo l’armonia cosmica si ricomporrà, in un’altra forma, ma non ad un livello inferiore. Nel farci capire ed accettare tutto questo la poesia ha un ruolo determinante, e al poeta va tributato un religioso rispetto (che il poeta deve guadagnarsi resistendo alle tentazioni del successo e della fama: “Se Iddio ha avuto la bontà di darvi un poeta/ Ascoltatelo. Ma per l’amor di Dio lasciatelo in pace finché è vivo; niente feste o premi/ Che l’uccidono. Un poeta è colui che sa ascoltare/ La natura e il proprio cuore; e se il frastuono del mondo lo circonda, se è forte saprà sbarazzarsi dei nemici./ Ma degli amici no”.

La coerenza di Jeffers non è forse stata così totale come le sue stesse parole chiederebbero, altrimenti non saremmo qui a parlarne: il mio problema con lui non è però questo, non ho il diritto di essere così integralista. Il problema sta nel fatto che la sua poesia, pure così chiara e diretta, lascia comunque spazio sia a interpretazioni forzate (il Bukowski di cui sopra) sia ad una degustazione puramente “estetica”, per amanti dei sapori forti. Chiama insomma ad essere testimoni passivi del naufragio, o addirittura a compiacersi della violenza delle onde. E non sono del tutto sicuro che nel profondo Jeffers la pensasse davvero così: probabilmente delle onde aveva anche paura.

Una curiosità: Jeffers è quasi omonimo di un altro letterato ambientalista, appartenente però alla tradizione inglese, Richard Jefferies, grande camminatore, naturalista ed esploratore delle campagne britanniche, nonché autore di un romanzo post-apocalittico, “Dove un tempo era Londra” (1885. cfr. il mio Pensare con i piedi). Quest’ultimo immagina che dopo una improvvisa catastrofe, della quale non viene precisata la natura, il paesaggio inglese venga riconquistato dalle foreste, che si mangiano tanto la campagna quanto le strade e le città, e Londra sia ridotta ad una palude venefica. Non so se Jeffrers l’abbia mai letto, non mi risulta che lo abbia citato, ma credo che questa prospettiva gli sarebbe piaciuta.

Tre manifesti 03

Mi sono soffermato a lungo su Jeffers perché gli estensori del manifesto del Dark Mountain Project non si sono sforzati molto: hanno ripreso pari pari la sua visione, aggiornandola alle attuali emergenze ambientali, economiche e politiche. In effetti avevano solo l’imbarazzo della scelta. Cerco comunque di riassumere il loro testo attraverso i passi più significativi.

Il Manifesto parte appunto dalla presa d’atto delle radicali trasformazioni in corso:

Tutt’intorno a noi avvengono cambiamenti che suggeriscono come il no stro modo di vivere stia già passando alla storia. Stiamo cadendo. Viviamo in un’epoca nella quale i limiti cui siamo abituati stanno scomparendo, e le nostre fondamenta ci vengono strappate da sotto i piedi. Dopo un quarto di secolo di noncuranza, durante il quale siamo stati spinti a credere che la bolla non sarebbe mai esplosa, i valori mai crollati, ecco la fine della storia … La Hybris ha ora la sua Nemesi. […] Una storia a noi familiare si sta concludendo. È la storia dell’impero che crolla dall’interno. È la storia di un popolo che ha creduto, per molto tempo, che le proprie azioni non avrebbero avuto conseguenze. È la storia di come quel popolo dovrà fare i conti con la fine del proprio mito. È la nostra storia.

Mentre scriviamo queste righe, nessuno può dire con certezza quando finirà lo sfaldarsi del tessuto finanziario e commerciale della nostra economia. Nel frattempo, fuori dalle metropoli, lo sfruttamento industriale incontrollato sgretola le basi materiali della vita di moltissime parti del mondo, e grava sul sistema ecologico che la sostiene.”

Vengono poi messi in discussione i plinti di fondazione della civiltà:

“La civiltà umana è una costruzione particolarmente fragile. È costruita su poco più che una semplice convinzione: la certezza che i propri valori siano quelli giusti; la fede nel suo sistema di leggi e ordine; la fede nella sua valuta; ma al di sopra di tutto, probabilmente, la fede nel suo futuro.”

Queste convinzioni sono state riassunte e rielaborate, soprattutto nel mondo occidentale, in una narrazione mitologica che ha come protagonista il progresso. La storia di questa mitologizzazione passa attraverso successive declinazioni dell’utopia razional-capitalistica:

“Sulle radici della cristianità occidentale, l’Illuminismo all’apice del suo ottimismo ha innestato una visione del paradiso terrestre, cui le gesta umane, guidate da calcolo razionale, potranno condurci. Grazie a questa guida, ogni generazione vivrà una vita migliore di quella che l’ha preceduta. La storia diventa un ascensore, e l’unica via possibile è verso l’alto. All’ultimo piano c’è la perfezione umana: è fondamentale che questa rimanga fuori portata quel tanto che basta al fine di sostenere l’illusione del moto.”

La storia recente, invece, ha dato un duro colpo a questo meccanismo.

“Il progresso ha, in molti modi, fallito nel suo tentativo di produrre benessere. Le generazioni di oggi sono evidentemente meno soddisfatte, e di conseguenza meno ottimistiche, di quelle che le hanno precedute. Lavorano di più, con meno garanzie, e hanno meno possibilità di lasciarsi alle spalle il contesto sociale nelle quali sono nate. Hanno paura del crimine, del collasso della società, dello sviluppo incontrollato e della catastrofe climatica. Non credono che il futuro sarà migliore del passato.”

E allora? Allora “è tempo di cercare nuovi percorsi e nuove storie, che ci conducano attraverso la fine del mondo per come lo conosciamo, fuori da esso. Pensiamo che mettendo in discussione le fondamenta della civilizzazione, il mito della centralità umana, il nostro immaginario isolamento, possiamo trovare i principi di questi percorsi.

Questo è il Dark Mountain Project. Inizia qui.”

Tre manifesti 04

Uno si aspetterebbe a questo punto lo spiegone che illustra le virtù della nuova società darkiana e indica le vie per instaurarla. Ma rimane deluso. La caduta di tono è repentina e ridimensiona drasticamente le aspettative.

“Dove finirà? Nessuno lo sa. Dove condurrà? Non ne siamo certi. La sua prima incarnazione, avviata assieme a questo manifesto, è un sito web, che indica la strada per i campi. Conterrà riflessioni, scarabocchi, schizzi, idee; lavorerà sull’Incivilizzazione, e inviterà, chiunque verrà, ad unirsi alla discussione.

Gli estensori del manifesto sembrano aver esaurito le forze e le idee nell’anamnesi: per la terapia tagliano corto e si affidano agli otto principi fondamentali dell’“incivilizzazione”.

  • Viviamo in un tempo di disfacimento sociale, economico ed ecologico. Attorno a noi si affollano le avvisaglie che il nostro intero modo di vivere sta già passando alla storia. Affronteremo con franchezza questa verità e impareremo a conviverci.
  • Rifiutiamo la fede nell’idea che le crisi convergenti dei nostri tempi possano essere ridotte a un insieme di ‘problemi’ bisognosi di ‘soluzioni’ tecnologiche o politiche.
  • Crediamo che le radici di queste crisi si trovino nelle storie che ci siamo raccontati. Intendiamo mettere a dura prova i racconti che sorreggono la nostra civiltà: il mito del progresso, il mito della centralità umana e il mito della nostra separazione dalla ‘natura’. Tali miti sono ancor più pericolosi poiché abbiamo dimenticato che lo sono.
  • Vogliamo riaffermare il ruolo della narrazione come qualcosa di più di un mero intrattenimento. È attraverso le storie che intessiamo la realtà.
  • Gli umani non sono il senso e lo scopo del pianeta. La nostra arte avrà inizio con il tentativo di porsi al di fuori della bolla umana. Con prudente attenzione rientreremo in contatto col mondo non umano.
  • Vogliamo celebrare la scrittura e l’arte radicate in un luogo e in un tempo. La nostra letteratura è stata troppo a lungo sotto il controllo di coloro che abitano le cittadelle cosmopolite.
  • Non ci perderemo nell’elaborazione di teorie o ideologie. Le nostre parole saranno elementari. Noi scriviamo con lo sporco sotto le unghie.
  • La fine del mondo per come lo conosciamo non è la fine di tutto il mondo. Insieme troveremo la speranza oltre la speranza, i percorsi che conducono al mondo sconosciuto davanti a noi.

Vediamo allora di ricapitolare. Né Jeffers né tantomeno gli autori del manifesto della Montagna Nera dicono qualcosa di realmente nuovo. Rientrano come già dicevo nella tradizione apocalittica di matrice biblica, che in America, dai Padri pellegrini in poi, ha trovato espressione in una miriade di sette millenariste. La novità sta semmai nel fatto che non contemplano una via di fuga, un eskatòn, ma predicano il ritorno e la resa incondizionata alle leggi di natura. Il legame più diretto, segnatamente per Jeffers, è con i trascendentalisti: come questi ultimi ritiene che l’unica via praticabile dall’uomo per riconciliarsi con se stesso sia quella estetica: nel confronto estetico con la Natura, dinanzi alla sua Bellezza, l’uomo ritrova la propria dimensione spirituale (“Un topo è un miracolo sufficiente a far vacillare miriadi di miscredenti” scriveva Walt Whitman): ma, a differenza che per i trascendentalisti, l’infinita varietà della natura e delle sue forme lo rende anche consapevole della propria irrilevanza e della transitorietà della specie umana. Non lo lascia estatico, ma sgomento e arrabbiato.

Su questa tradizione s’innestano via via, a partire dalla fine dell’Ottocento, da un lato il buddismo importato d’oltreoceano (Pacifico) e rivisitato all’americana (ovvero accentuandone l’individualismo e spettacolarizzandone la ritualità), dall’altro gli echi del pensiero filosofico post-nietzschiano che giungono dall’Europa (il poema Cawdor di Jeffers è pubblicato dieci anni dopo Il tramonto dell’Occidente di Spengler e arriva un anno dopo Essere e tempo di Heidegger). Il tutto dà origine a un singolare e contradditorio miscuglio di religiosità biblica e di sentire panteistico, di misticismo e di nichilismo, di umiltà professata e di presunzione di sé praticata.

Il fatto è che gli americani non hanno alle spalle una storia “profonda”, e tantomeno una mitologia originaria di fondazione. Hanno dovuto reinventarsene una, adattando alla nuova situazione la narrazione biblica, per giustificare il possesso di terre espropriate ad altri (il mito della frontiera) e trovare conferma ad una concezione assolutamente individualistica della libertà. Per questo sono i maggiori mitopoieti dell’età moderna e si esprimono con un linguaggio enfatico che trova supporto nelle nuove modalità espressive, a partire dal cinema (dove un incidente stradale non può vedere coinvolti e distrutti meno di dieci veicoli e una sparatoria non può durare meno di un quarto d’ora). Enfatizzano alla stessa maniera infantile i sentimenti, le tragedie, la malvagità, il coraggio, e ogni aspetto della quotidianità.

Per lo specifico del nostro discorso è esemplare il caso della Tor House, la dimora in pietra di Jeffers, divenuta meta di pellegrinaggio per i suoi ammiratori. In fondo Jeffers ha fatto solo ciò che milioni di pionieri avevano fatto prima di lui, senza peraltro vedere in ogni blocco angolare la mano di Dio. La vita sobria e appartata (sino ad un certo punto) che vi conduceva rimandava a sua volta all’esperienza naturistica di Thoreau, alla capanna che quest’ultimo aveva costruita con le proprie mani nei boschi di Concord e nella quale aveva dimorato per due anni, due mesi e due giorni. Quella capanna è diventata, attraverso le pagine di Walden, l’icona della scelta di una vita rude e solitaria, quando nella realtà non distava più di un miglio dal villaggio (Thoreau avrebbe potuto benissimo andarci a piedi ogni mattina per bere un caffè alla locanda). Entrambe queste esperienze sono state trasmesse dai protagonisti già circonfuse di un’aura ascetica e sapienziale, e come tali sono state poi consacrate dai lettori–spettatori.

Ci insisto perché so di cosa parlo. Anch’io ho costruito un capanno con le mie sole mani (senz’altro più ampio della dimora di Thoreau), e ho tirato su lì attorno decine di metri di muri a secco e posato rustiche pavimentazioni, ma non ho sentito in alcuna delle pietre che sistemavo la presenza di Dio (al più ho visto qualche volta la Madonna, quando mi scivolavano su un piede o al termine di giornate particolarmente faticose). Né ho ritenuto di celebrare poeticamente o filosoficamente la cosa: ho scritto una paginetta sulle origini del capanno solo perché legate ad un aneddoto che mi sembrava divertente. E soprattutto, la bellezza della natura circostante che mi fermavo ad ammirare nelle pause-sigaretta non mi ha mai indotto recriminazioni o violenza: mi ispirava anzi allora e continua oggi ad ispirarmi la determinazione a contaminarla il meno possibile. Sentivo di farne parte comunque, anche quando lavoravo sotto la pioggia o nelle giornate più roventi o afose.

Si sarà capito che ho scarsa simpatia per tutto ciò che puzza di cornici messe alle finestre per dire che sono quadri (in questo caso l’immagine si attaglia perfettamente). Per avere davvero un senso e una credibilità certe situazioni o vicende dovrebbero essere vissute come normali, non è il caso di scomodare l’epos. E lo stesso vale per le idee: non è certo l’incarto nuovo a renderle originali, ha semmai un valore riconoscerne i percorsi pregressi. Il tema dell’equivoco di fondo nel nostro rapporto con la natura era già centrale in Leopardi, sfrondato di ogni verniciatura mistica e pretesa epica; quello della necessità di reintegrarsi in essa stava alla base, oltre che del trascendentalismo americano, dei movimenti proto-ecologici fioriti anche in Europa, principalmente in Germania, agli inizi del Novecento (ma ben prima ancora era presente in Rousseau); le perplessità nei confronti della tecnica, e soprattutto dell’uso che l’uomo tende a farne, erano manifestate da quasi tutti gli scrittori di fantascienza venuti dopo Verne, da Robida a W.H. Hudson a Wells; le prospettive di degenerazione della democrazia erano state già lucidamente indicate da Tocqueville, le colpe del colonialismo e le ipocrisie della cultura occidentale denunciate da Conrad.

Insomma, tutte queste cose Jeffers non le ha spinte solo alle estreme conseguenze, ma le ha condotte in un vicolo cieco, travisando tra l’altro il succo del pensiero dei suoi ispiratori. Thoreau scriveva infatti: “Si dice che la civilizzazione è un reale progresso nella condizione dell’uomo – e io sono convinto che lo sia, anche se solo i saggi migliorano i loro vantaggi”). Jeffers non ne era evidentemente altrettanto convinto, avrebbe piuttosto condiviso con Cioran e con i professionisti del pessimismo l’idea che l’uomo è un intruso, un tragico errore dell’evoluzione, al quale la natura porrà rimedio. Vien da dire, come alla moglie del vescovo Wilberforce a proposito della nostra “discendenza” dalle scimmie: magari è proprio così, ma almeno non facciamolo sapere troppo in giro.

Gli odierni estimatori di Jeffers si fermano un po’ prima. Cercano la speranza oltre la speranza, vale a dire oltre quel poco o nulla cui oggi la scienza e la tecnologia ci consentono di guardare nella ricerca di una improbabile salvezza. E non riescono a trovare di meglio che “mettere a dura prova i racconti che sorreggono la nostra civiltà e restituire l’agire artistico a una pratica ‘incivilizzata’”. Nel fare ciò arrivano quantomeno in ritardo, da almeno un secolo la demolizione dei miti della modernità è diventata lo sport intellettuale più praticato. Se poi gli strumenti di demolizione sono la scrittura e l’arte radicate in un luogo e in un tempo (e cioè?) e praticate con lo sporco sotto le unghie da novelli costruttori di nuraghi, allora le generazioni di oggi hanno tutte le ragioni di non credere che il futuro sarà meglio del passato.

Tre manifesti 05

A questo punto può sembrare non valesse la pena prendere così sul serio il manifesto del progetto della Montagna Nera (e magari anche la poesia di Robinson Jeffers). Non è così. Il documento sarà pure patetico, non fosse altro per la sproporzione tra lo scenario apocalittico che dipinge e la miseria delle soluzioni che propone, ma fotografa perfettamente un atteggiamento molto diffuso nei confronti di un tema come quello della sopravvivenza della civiltà occidentale e, in seconda battuta, della specie umana (intendo quello più diffuso tra chi il problema se lo pone, perché in realtà la maggioranza dà l’impressione di non porselo affatto).

Al fondo di questa disposizione negativa sta una vocazione generalizzata al “risentimento”. Anche se nello specifico degli ambientalisti radicali alla Jeffers potrebbe sembrare il contrario, il loro è né più né meno l’atteggiamento di chi si ritiene perennemente in credito nei confronti della vita e del resto dell’umanità. Avremmo la possibilità di vivere in armonia con la natura, dicono, semplicemente accettandone tutte le leggi, anche quelle che ripugnano alla nostra ipocrita morale “civilizzata”: ma qualcuno o qualcosa ce la sta negando. Come in ogni situazione di crisi occorre identificare i responsabili (i capri espiatori di cui parla René Girard), e responsabili sono naturalmente sempre “gli altri”. Una volta poi individuato quel qualcuno o qualcosa su cui scaricare ogni colpa, ci si può sentire sdegnosamente innocenti. Si è compiuto il proprio dovere di Cassandre, Troia può ora tranquillamente bruciare. Nel nostro caso i capri espiatori sono, secondo una crescente scala di “consapevolezza” dettata dalle singole condizioni culturali ed esistenziali, le multinazionali, i “poteri forti”, il capitalismo, ma soprattutto la civilizzazione occidentale nel suo complesso; e l’imputazione è quella di aver sacrificato al proprio dominio l’armonia del cosmo e la libertà degli umani. Il perno di questa operazione di conquista essendo identificato nella razionalità, la soluzione è quella di liberarsi dai vincoli di quest’ultima. La vittima vera del “sacrificio rituale” che dovrebbe ristabilire gli equilibri, ripristinare l’armonia del cosmo violata, è dunque la ragione.

Non sono stato sconvolto dalla lettura del Manifesto, si tratta di cose trite e ritrite; ma ho avuto la conferma che questo modello di pensiero, a diversi livelli di articolazione, è ormai dominante nella maggioranza. Le tesi che gli estensori del documento banalizzano, e cioè che la civilizzazione, intesa nella sua accezione occidentale, sta portando il mondo allo sfascio, che il progresso scientifico e lo sviluppo tecnologico sono gli strumenti per imporre questo dominio e che le istituzioni democratiche sono la foglia di fico dietro la quale questo dominio si nasconde, sono le stesse sostenute con argomentazioni più complesse e raffinate da una élite culturale agguerrita, che opera al di qua e al di là dell’Atlantico e trova i suoi teorici più accreditati in pensatori come Foucault, Agamben, Negri, Severino, ecc. L’influenza di questa élite sul sentimento delle grandi masse non è naturalmente diretta, arriva attraverso la mediazione semplificatoria e spesso distorcente operata dai suoi epigoni telegenici alla Fusaro o alla Massimo Fini, da comici o da giornalisti in fregola di presenzialismo, da moderni Masanielli in cerca di una qualsiasi tribuna e da politici scafati pronti a saltare su ogni cavallo di passaggio: ma comunque arriva, si innesta su quel risentimento populista confuso e diffuso cui accennavo sopra e a giustificare il quale si parla genericamente di un “disagio” (che esiste davvero, ma è appunto soprattutto mentale, legato alla paura di fronte ad una complessità che appare incomprensibile).

In cosa si traduce questo risentimento? Lo vediamo quotidianamente, lo sentiamo tutt’attorno a noi: nella rabbia indiscriminata verso tutti, nel rifiuto di ogni responsabilizzazione, nel negazionismo pervicace, nella crescita del massimalismo che si accompagna alla volubilità nelle scelte politiche, nella rincorsa costante ai diritti e nella negligenza sui doveri, nell’irrisione delle competenze e nell’esaltazione dell’ignoranza “democratizzante”, nella sfiducia nei confronti della scienza e nella credulità superstiziosa, ecc… E poi ci sono altri sintomi che andrebbero colti, meno clamorosi ma non meno inquietanti.

Un banale esempio può valere per tutti. Negli ultimi mesi avrò visto cinquanta servizi sulle innumerevoli specie animali in estinzione, dal leopardo delle nevi alle foche monache e ai pesci del lago nel deserto, ma non uno sulle guerre che si stanno combattendo ad esempio nel sud-Sudan (oltre 80.000 morti e due milioni e mezzo di sfollati), o nello Yemen. Direi che l’antropocentrismo contro il quale tuonava Jeffers è ampiamente superato, anche se ha lasciato il posto ad una consapevolezza pelosa, che tende piuttosto a escludere l’uomo dalla natura anziché includerlo. L’animalismo ha preso pieghe grottesche (lo psicologo per cani e gatti) e ha spinto fino all’assurdo quella negazione delle differenze che nell’interpretazione corretta era stata uno dei cardini della modernità.

Ma non è tutto. Ultimamente il dibattito sulle intelligenze non umane si è allargato a considerare, oltre quelle animali, anche quelle delle piante. A presto una carta dei diritti vegetali, e i decespugliatori saranno messi fuorilegge.

In compenso l’elenco delle specie a rischio prossimo di estinzione si allunga: ci siamo dentro anche noi. E non per eventi naturali, ma per suicidio da decerebrazione. Finisce cha il presagio di Jeffers si avvera.

Tre manifesti 06

 ***

Tre manifesti 07a

Se la lettura del manifesto Dark Mountain mi ha solo un po’ infastidito, quella di “Contro il Grande Reset. Manifesto del grande risveglio” di Alexander Dugin mi ha lasciato perplesso e preoccupato. Perplesso perché si tratta di un documento decisamente rozzo, o che almeno appare tale in una traduzione che deve essere stata affidata ad un dispositivo digitale o ad un ubriaco, senza più essere rivista nelle bozze. Voglio credere che lo standard delle opere di Dugin sia diverso, altrimenti c’è da chiedersi cosa ci hanno trovato gli “intellettuali” italiani e francesi che da anni lo frequentano (va bene, uno è il solito Fusaro, ma anche Alain de Benoit è un suo assiduo). Probabilmente l’operazione di lancio è stata montata in tutta fretta, per sfruttare l’onda della visibilità offerta a Dugin dall’attentato nel quale è rimasta uccisa la figlia, ma già il testo originale era indubbiamente sbozzato con l’accetta. In copertina è anche annunciata una introduzione di Stefano Borgonovo, che evidentemente è poi saltata, per l’urgenza di mettere on line il documento o per qualche ripensamento del vicedirettore de “La verità” (ho dei dubbi: uno che scrive su “La verità” difficilmente si fa degli scrupoli); o forse più semplicemente perché c’era poco da spiegare.

Ed è proprio questo che mi preoccupa, perché le idee di Dugin, ancorché deliranti, sono terribilmente chiare (nel senso, naturalmente, che persino Borgonovo può intenderle), e l’argomentazione segue una logica elementare di contrapposizione tra cultura occidentale e “idea russa” (o, come vedremo, “eurasiatica”), nell’ottica di un dissolvimento della prima e di un trionfo della seconda. Che tanti occidentali, con una schiera di intellettuali in testa, trovino così affascinante questa idea mi porta a pensare che davvero il deragliamento sia già in corso.

Comunque, procediamo con ordine. Dugin adotta per la sua narrazione un percorso inverso a quello degli estensori del manifesto darkiano. Parte dalla situazione attuale, fa un salto indietro per andare alle origini di quello che definisce un “progetto di globalizzazione e disumanizzazione” e seguirne il percorso nel tempo e analizza infine gli strumenti per contrastarlo (tra i quali non è affatto prevista la poesia). Dal momento che lo fa molto sinteticamente, lascio il più possibile a lui la parola.

L’esordio è da grande complotto. Prende le mosse dal “Great Reset”, un piano che intendeva sfruttare le restrizioni in tempo di Covid per digitalizzare i processi produttivi e le attività sociali, sottoscritto a Davos dal principe di Galles, l’attuale Carlo III d’Inghilterra (il libello è stato scritto prima della scomparsa di Elisabetta, durante l’ultima emergenza pandemica, e non è stato aggiornato), nel quale si delineavano le strategie per avviare un futuro sostenibile.

Tre manifesti 07Nell’interpretazione di Dugin queste strategie sono intese in realtà solo a puntellare l’ordine esistente. “L’idea principale del Great Reset è la continuazione della globalizzazione e il rafforzamento del globalismo dopo una serie di fallimenti”. Gli obiettivi di fondo del diabolico disegno possono essere riassunti in:

  • Controllo della coscienza pubblica su scala globale, che è al centro della “cultura dell’annullamento” — l’introduzione della censura sulle reti controllate dai globalisti (punto 1);
  • Transizione a un’economia ecologica e rifiuto delle moderne strutture industriali (punti 2 e 5);
  • Ingresso dell’umanità nel 4° ordine economico (a cui era dedicato il precedente incontro di Davos), ovvero la graduale sostituzione della forza lavoro con i cyborg e l’implementazione dell’intelligenza artificiale avanzata su scala globale (punto 3).

Adesso sappiamo (più o meno) cos’è il Great Reset. Ma come si è arrivati a programmarlo? E chi c’è dietro? Lapalissiano: “Leader mondiali e capi di grandi società – Big Tech, Big Data, Big Finance, ecc. – si sono riuniti e si sono mobilitati per sconfiggere i loro oppositori: Trump, Putin, Xi Jinping, Erdogan, l’Ayatollah Khamenei e altri”. Il povero Carlo è quindi solo un prestanome, anche se in verità la famiglia reale inglese è chiamata volentieri in causa dagli smascheratori di complotti mondiali. Paga ancora il fio del colonialismo ottocentesco e dell’imperialismo del secolo scorso.

La prima mossa dell’offensiva globalista scatenata “dopo una serie di fallimenti” (l’11 settembre, l’elezione di Trump, il pasticcio afgano, ecc…) è stata la vittoria di Biden, che “ha strappato la vittoria a Trump utilizzando le nuove tecnologie, attraverso la ‘cattura dell’immaginazione’, l’introduzione della censura su Internet e la manipolazione del voto per corrispondenza.” Ma come abbiamo visto il globalismo aveva già approfittato dell’occasione offerta dalla pandemia. Infatti: “L’epidemia di Covid-19 è una scusa. Con il pretesto dell’igiene sanitaria, il Great Reset prevede di alterare drasticamente le strutture di controllo delle élite globaliste sulla popolazione mondiale”.

Nello scacchiere geopolitico il piano si muove attraverso “una combinazione di ‘promozione della democrazia’ e ‘strategia aggressiva neoconservatrice di dominio su vasta scala’”. A tal fine “i progetti ambientali e le innovazioni tecnologiche (in primis l’introduzione dell’intelligenza artificiale e della robotica) si coniugano con l’affermarsi di una politica militare aggressiva”.

La parte più intrigante del “Manifesto” arriva però adesso:

Per capire chiaramente cosa significhino su scala storica la vittoria di Biden e il ‘nuovo’ corso di Washington per il Great Reset, bisogna guardare l’intera storia dell’ideologia liberale, partendo dalle sue radici.

Le radici del sistema liberale (= capitalista) risalgono alla disputa scolastica sugli universali. Questa disputa divideva i teologi cattolici in due campi: alcuni riconoscevano l’esistenza del comune (specie, genere, universalia), mentre altri credevano solo in certe cose concrete — individuali, e interpretavano i loro nomi generalizzanti come sistemi di classificazione convenzionali puramente esterni, che rappresentano ‘suono vuoto’. Coloro che erano convinti dell’esistenza del generale, della specie, attingevano alla tradizione classica di Platone e di Aristotele. Vennero chiamati ‘realisti’, cioè coloro che riconoscevano la ‘realtà di universalia’. Il rappresentante più in vista dei ‘realisti’ era Tommaso d’Aquino e, in generale, era la tradizione dei monaci domenicani. I fautori dell’idea che solo le cose e gli esseri individuali sono reali vennero chiamati ‘nominalisti’, dal latino nomen . La pretesa — ‘le entità non dovrebbero moltiplicarsi senza necessità” ‘— risale proprio a uno dei massimi difensori del ‘nominalismo’, il filosofo inglese William Occam.”

Il progetto ha avuto dunque una quasi millenaria gestazione. Non è figlio della “modernità”, ma piuttosto della “occidentalità”. È nato già con lo “scisma d’Oriente” che nel 1054 ha lacerato la vecchia cristianità (e peraltro anche prima della nascita della Russia).

Sono interessanti le ascendenze che Dugin identifica. La modernità è per lui figlia del francescanesimo, un ordine religioso e un atteggiamento spirituale sempre prossimo alla devianza ereticale – e viene poi presa in carico e affermata dalle sette protestanti. È una lettura genealogica molto rozza, perché non distingue tra luteranesimo, puritanesimo e anabattismo, e non considera il fatto che gli anti-globalisti americani, quelli che più oltre identifica come i “resistenti trumpisti”, sono per lo più animati proprio dalla una fedeltà allo spirito originario del protestantesimo (pietisti, moravi, quaccheri, soprattutto anabattisti e mennoniti-amish, ecc) e arrivano da gruppi religiosi ultra-conservatori. Attribuisce inoltre alla chiesa ortodossa orientale, quella che fa capo al metropolita di Mosca, il merito di aver opposto la maggior resistenza al “nominalismo”. E in questo ha invece pienamente ragione.

Dugin si lancia poi in una cavalcata storica che copre quasi un millennio e chiarisce tutti i nodi fondamentali. “Il ‘nominalismo’ ha gettato le basi per il futuro liberalismo, sia ideologicamente che economicamente. Qui gli esseri umani erano visti solo come individui e nient’altro, e tutte le forme di identità collettiva (religione, classe, ecc.) dovevano essere abolite.

Il nominalismo prevalse prima di tutto in Inghilterra, si diffuse nei paesi protestanti e divenne gradualmente la principale matrice filosofica del New Age (sic: immagino intenda dell’Era moderna) — nella religione (rapporti individuali dell’uomo con Dio), nella scienza (atomismo e materialismo), nella politica (precondizioni della democrazia borghese), nell’economia (mercato e proprietà privata), nell’etica (utilitarismo, individualismo, relativismo, pragmatismo), ecc.

[…] La prima fase è stata l’introduzione del nominalismo nel regno della religione. L’identità collettiva della Chiesa, come intesa dal cattolicesimo (e ancor più dall’ortodossia), è stata sostituita dai protestanti come individui che d’ora in poi potevano interpretare la Scrittura basandosi esclusivamente sul loro ragionamento e rifiutando qualsiasi tradizione. Ciò ha creato un gran numero di sette protestanti controverse.

Parallelamente alla distruzione della Chiesa come ‘identità collettiva’ (qualcosa di ‘comune’), i possedimenti iniziarono ad essere aboliti. La gerarchia sociale dei preti, dell’aristocrazia e dei contadini fu sostituita da indefiniti ‘cittadini’, secondo il significato originario della parola ‘borghese’. La borghesia ha soppiantato tutti gli altri strati della società europea. Ma il borghese era esattamente il miglior ‘individuo’, cittadino senza clan, tribù, professione, ma con proprietà privata.

Fu abolita anche l’unità sovranazionale della Sede Pontificia e dell’Impero Romano d’Occidente, quale altra espressione di ‘identità collettiva’. Al suo posto è stato stabilito un ordine basato su stati-nazione sovrani, una specie di ‘individuo politico’.

[…] La filosofia del nuovo ordine è stata in molti modi anticipata da Thomas Hobbes e sviluppata da John Locke, David Hume e Immanuel Kant. Adam Smith ha applicato questi principi al campo economico, dando origine al liberalismo.

Il senso della storia e del progresso era ormai di ‘liberare l’individuo da ogni forma di identità collettiva’ fino al limite logico.

Tre manifesti 08

Per tutto questo periodo il processo di globalizzazione ha proceduto lineare, ovviamente nei limiti consentiti dalle resistenze opposte dal vecchio mondo. La rivoluzione scientifica e quella industriale ne sono stati la mente e il braccio, e anche i grandi sconvolgimenti politici e sociali, le rivoluzioni inglese, americana e francese, rientravano nel disegno, anzi, ne hanno accelerato l’esecuzione. Le cose si sono invece complicate a partire dal secolo scorso.

[…] Socialisti, socialdemocratici e comunisti hanno contrastato i liberali con identità di classe, invitando i lavoratori di tutto il mondo a unirsi per rovesciare il potere della borghesia globale. Questa strategia si rivelò efficace e in alcuni grandi paesi (sebbene non in quei paesi industrializzati e occidentali dove aveva sperato Karl Marx, il fondatore del comunismo), furono vinte [? Nell’originale sarà ‘vinsero’] le rivoluzioni proletarie.

Parallelamente ai comunisti si verificò, questa volta nell’Europa occidentale, la presa del potere da parte di forze nazionaliste estreme. Hanno agito in nome della “nazione” o di una “razza”, sempre contrastando l’individualismo liberale con qualcosa di “comune”, qualche “essere collettivo”.

I nuovi oppositori del liberalismo non appartenevano più all’inerzia del passato, come nelle fasi precedenti, ma rappresentavano progetti modernisti sviluppati nello stesso Occidente. Ma erano anche costruiti sul rifiuto dell’individualismo e del nominalismo. Lo capirono chiaramente i teorici del liberalismo (Hayek e il suo discepolo Popper), che unirono “comunisti” e “fascisti” sotto il nome comune di ‘nemici della società aperta’, e iniziarono con loro una guerra mortale “.

Da questa guerra nel corso del Novecento sia il comunismo che i fascismi sono usciti sconfitti. Per questo: “Negli anni ‘90, i teorici liberali iniziarono a parlare della ‘fine della storia’. Questa è stata una vivida prova dell’ingresso del capitalismo nella sua fase più avanzata: la fase del globalismo. L’individualismo, il mercato, l’ideologia dei diritti umani, della democrazia e dei valori occidentali avevano vinto su scala globale.”

[…] “A ben guardare, dopo aver sconfitto il nemico esterno, i liberali hanno scoperto altre due forme di identità collettiva. Innanzitutto il genere. Dopotutto, il genere è anche qualcosa di collettivo: maschile o femminile. Quindi il passo successivo è stata la distruzione del genere come qualcosa di oggettivo, essenziale e insostituibile. Gli oppositori esterni hanno ostacolato la politica di genere: quei paesi che avevano ancora i resti della società tradizionale, i valori della famiglia, Combattere i conservatori e gli “omofobi”, cioè i difensori della visione tradizionale dell’esistenza dei sessi, è diventato il nuovo obiettivo degli aderenti al liberalismo progressista.

Con il successo dell’istituzionalizzazione delle norme di genere e il successo della migrazione di massa, che sta atomizzando le popolazioni nell’Occidente stesso divenne ovvio che ai liberali restava un ultimo passo da fare: abolire gli esseri umani.

Dopotutto, l’umano è anche un’identità collettiva, il che significa che deve essere superato, abolito, distrutto. Questo è ciò che richiede il principio del nominalismo: una ‘persona’ è solo un nome, privo di qualsiasi significato, una classificazione arbitraria e quindi sempre discutibile. C’è solo l’individuo — umano o no, maschio o femmina, religioso o ateo, dipende dalla sua scelta.

Pertanto, l’ultimo passo lasciato ai liberali, che hanno viaggiato secoli verso il loro obiettivo, è sostituire gli esseri umani, anche se in parte, con cyborg, reti di intelligenza artificiale e prodotti dell’ingegneria genetica. L’umano opzionale segue logicamente il genere opzionale.

[…] “Questa agenda è già prefigurata dal postumanesimo, dal postmodernismo e dal realismo speculativo in filosofia, e tecnologicamente sta diventando ogni giorno più realistica. Futurologi e fautori dell’accelerazione del processo storico (accelerazionisti) stanno guardando con fiducia al prossimo futuro quando l’intelligenza artificiale diventerà paragonabile nei parametri di base agli esseri umani. Questo momento è chiamato Singolarità. Il suo arrivo è previsto entro dieci o vent’anni.”

Questa la trama. Lo schizzo storico che Dugin abbozza non è poi, per quanto sbrigativo, del tutto peregrino. Voglio dire che le cose sono andate grosso modo così, anche se poi Dugin legge l’accaduto con occhiali deformanti. E non è nemmeno particolarmente originale. Pesca un po’ dovunque nel pensiero occidentale, da Max Weber a Hegel fino a Heidegger e ai postmoderni più radicali, e cuoce il pescato nella pentola della tradizione slavofila. In sostanza, partendo dai danni reali che la civilizzazione occidentale ha prodotto, in parte come effetti collaterali indesiderati, in parte come distorsioni intrinseche alle scelte fatte – danni che stiamo scontando pesantemente, e che la cultura occidentale più consapevole ha comunque sempre denunciato – arriva a metterne in discussione tutto l’impianto. Che è più o meno quanto faceva Jeffers e quanto predicano i militanti della Montagna Nera, con la differenza però che Dugin prospetta una cura molto peggiore della malattia.

La cura è il “Grande Risveglio”. Che procede per gradi, con velocità diverse nelle diverse parti del mondo, ma già è visibile.

Riassumendo il quadro completo della situazione attuale Dugin ammette: “In effetti le norme della democrazia liberale – il mercato, le elezioni, il capitalismo, il riconoscimento dei ‘diritti umani’, le norme della ‘società civile’, l’adozione di trasformazioni tecnocratiche e il desiderio di abbracciare lo sviluppo e l’implementazione dell’alta tecnologia – in particolare la tecnologia digitale — sono stati in qualche modo affermati in tutta l’umanità”.

Ma la storia non è affatto finita. La madre di tutte le battaglie deve essere ancora combattuta.

Il Great Reset ‘non è niente di meno che l’inizio dell’‘ultima battaglia’. I globalisti, nella loro lotta per il nominalismo, il liberalismo, la liberazione individuale e la società civile, appaiono a se stessi come ‘guerrieri della luce’, portando progresso, liberazione da migliaia di anni di pregiudizi, nuove possibilità – e forse anche l’immortalità fisica e le meraviglie della ingegneria genetica, alle masse.

Tutti coloro che vi si oppongono sono, ai loro occhi, ‘forze delle tenebre’. Così inizia a delinearsi un nuovo dualismo ideologico, questa volta all’interno dell’Occidente piuttosto che al di fuori di esso. I nemici della ‘società aperta’ ora sono comparsi all’interno della stessa civiltà occidentale.

Tre manifesti 09

Sono immagini che, ribaltando un po’ (ma non troppo) i ruoli delle forze in gioco, evocano Il signore degli anelli e Guerre stellari, e ho l’impressione che soprattutto al primo siano debitrici (Tolkien è in fondo un alfiere della conservazione, anche se le ‘forze del male’ per lui venivano da Oriente). In realtà comunque i nemici della ‘società aperta’ non sono comparsi all’improvviso. Erano già presenti da un pezzo, ma si muovevano a ranghi sconnessi, senza avere un’idea ben precisa della natura vera dell’avversario, delle strategie da perseguire e degli obiettivi cui mirare. “Erano quelli che rifiutavano gli ultimi fini liberali e non accettavano la politica di genere, la migrazione di massa o l’abolizione degli statinazione e della sovranità.

Allo stesso tempo, tuttavia, questa crescente resistenza, genericamente denominata ‘populismo’ (o ‘populismo di destra’), attingeva alla stessa ideologia liberale – capitalismo e democrazia liberale – ma interpretava questi ‘valori’ e ‘punti di riferimento’ nel vecchio senso piuttosto che nel nuovo senso.

Certo, i campioni di questa resistenza non brillavano per la ricchezza del loro bagaglio culturale o per la finezza delle loro proposte, ma avevano il pregio di coinvolgere attivamente quelle masse popolari che il globalismo stava cloroformizzando:

“Trump non è sempre stato all’altezza del suo stesso articolato compito. E non è stato in grado di realizzare nulla nemmeno vicino al ‘prosciugare la palude’ e sconfiggere il globalismo. Ma nonostante ciò, è diventato un centro di attrazione per tutti coloro che erano consapevoli o semplicemente intuivano il pericolo proveniente dalle élite globaliste e dai rappresentanti di Big Finance e Big Tech inseparabili da loro.”

In realtà: “Trump non stava affatto sfidando il capitalismo o la democrazia, ma solo le forme che avevano assunto nella loro ultima fase e la loro graduale e coerente attuazione. Ma anche questo è bastato a segnare una spaccatura fondamentale nella società americana.

[…] La forza trainante della mobilitazione di massa dei ‘Trumpists’ è diventata l’organizzazione in rete QAnon, che ha espresso la sua critica al liberalismo, ai democratici e ai globalisti sotto forma di teorie del complotto. Hanno diffuso un torrente di accuse e denunce di globalisti coinvolti in scandali sessuali, pedofilia, corruzione e satanismo.

Sono stati i sostenitori di QAnon, in quanto avanguardia del populismo della cospirazione di massa, a guidare le proteste il 6 gennaio, quando i sostenitori di Trump hanno preso d’assalto il Campidoglio indignati dalle elezioni rubate.”

Per Dugin il fattore davvero importante e decisivo per il passaggio da una strategia di resistenza ad una di attacco è rappresentato proprio dall’emersione nel cuore nell’Occidente di un “nemico interiore”, dal quale “la storia degli ultimi secoli con il suo progresso apparentemente ininterrotto dei nominalisti e dei liberali è messa in discussione”.

Torna anche a sottolineare ripetutamente l’esistenza di un fronte esterno che si sta compattando, e che va dalla Russia di Putin alla Cina (Pechino ha usato abilmente il “mondo aperto” per perseguire i suoi interessi nazionali e persino di civiltà), al mondo islamico (nel quale tanto l’Iran sciita quanto la Turchia e il Pakistan sunniti hanno continuato la loro lotta contro l’occidentalizzazione), all’Africa (sia quella mediterranea che quella subsahariana), e che comincia a coinvolgere anche l’India e il Sudamerica: ma ciò che davvero lo conforta nella sua visione è la nascita di un nuovo dualismo ideologico, questa volta all’interno dell’Occidente piuttosto che al di fuori di esso.

Questo dualismo si fa strada anche nell’ambito intellettuale: “Sul piano filosofico, non tutti gli intellettuali hanno accettato le paradossali conclusioni della postmodernità e del realismo speculativo”.

Ma bada a non insistere troppo su questo piano: “Il Grande Risveglio non riguarda le élite e gli intellettuali, ma le persone, le masse, le persone in quanto tali. E il risveglio in questione non riguarda l’analisi ideologica. È una reazione spontanea delle masse, poco competenti in filosofia, che hanno improvvisamente capito, come bestiame davanti al macello, che il loro destino è già stato deciso dai loro governanti e che non c’è più spazio per le persone in futuro.

D’altro canto, quando deve citare qualche “autorevole” intellettuale schierato contro il Great Reset sembra in difficoltà. Si limita a dire che “Steve Bannon ha svolto un ruolo importante in questo processo, mobilitando ampi segmenti di giovani e disparati movimenti conservatori a sostegno di Trump. Lo stesso Bannon è stato ispirato da autori seri antimodernisti come Julius Evola, e la sua opposizione al globalismo e al liberalismo aveva quindi radici più profonde”. Oppure cita Pat Buchanan, Richard Weaver e Russell Kirk, degli illustri carneade, o Alex Jones, che ha il solo merito di aver coniato lo slogan del “grande Risveglio”.

In realtà il materiale non gli mancherebbe, potrebbe pescare persino in Italia, ma preferisce insistere sul carattere spontaneista, genuino e popolare (o populista, termine che usa in una accezione positiva) del movimento: “La tesi del Grande Risveglio non dovrebbe essere frettolosamente caricata di dettagli ideologici, siano essi il conservatorismo fondamentale (compreso il conservatorismo religioso), il tradizionalismo, la critica marxista del capitale o la protesta anarchica per il bene della protesta. Il Grande Risveglio è qualcosa di più organico, più spontaneo e allo stesso tempo tettonico. È così che l’umanità viene improvvisamente illuminata dalla coscienza della vicinanza della sua fine imminente”.

Arriva ad ammettere che “Il Grande Risveglio è spontaneo, in gran parte inconscio, intuitivo e cieco. Non è affatto uno sbocco per la consapevolezza, per la conclusione, per un’analisi storica approfondita. Come abbiamo visto nel filmato del Campidoglio, gli attivisti Trumpist e i partecipanti a QAnon sembrano personaggi dei fumetti o supereroi Marvel. La cospirazione è una malattia infantile dell’antiglobalizzazione. Ma, d’altra parte, è l’inizio di un processo storico fondamentale. Nasce così il polo di opposizione al corso stesso della storia nella sua accezione liberale”.

Consapevole o meno (certo è difficile parlare di consapevolezza in presenza di QAnon), il Risveglio è comunque tangibile. E anzi, è favorito proprio dal sostrato povero ma genuino di cui si nutre:

Liberati da un serio bagaglio ideologico e filosofico, gli antiglobalisti hanno saputo cogliere l’essenza dei processi più importanti in atto nel mondo moderno. Il globalismo, il liberalismo e il Grande Reset, come espressioni della determinazione delle élite liberali di portare a termine i loro piani, con ogni mezzo – compresa la dittatura totale, la repressione su larga scala e le campagne di totale disinformazione – hanno incontrato una resistenza crescente e sempre più consapevole.”

Tre manifesti 10

L’ultima parte del libello è dedicata alle prospettive di tradurre questa resistenza in vittoria.

“Il Grande Risveglio è solo l’inizio. Non è nemmeno iniziato. Ma il fatto che abbia un nome, e che questo nome sia apparso proprio nell’epicentro delle trasformazioni ideologiche e storiche, negli Stati Uniti, è di grande (forse cruciale) importanza.

Se c’è chi proclama il Grande Risveglio, per quanto ingenue possano sembrare le loro formule, questo già significa che non tutto è perduto, che nelle masse sta maturando un nocciolo di resistenza, che cominciano a mobilitarsi. Da questo momento inizia la storia di una rivolta mondiale, una rivolta contro il Great Reset e i suoi seguaci. Il Grande Risveglio è un lampo di coscienza alla soglia della Singolarità. È l’ultima opportunità per prendere una decisione alternativa sul contenuto e sulla direzione del futuro.

Ma andando poi sul concreto, Dugin deve ammettere che: “Naturalmente, il Grande Risveglio è completamente impreparato. Negli stessi Stati Uniti gli oppositori del liberalismo, sia Trump che i trumpisti, sono pronti a rifiutare l’ultima fase della democrazia liberale, ma non pensano nemmeno a una vera e propria critica al capitalismo. Anche la sinistra contemporanea ha dei limiti nella sua critica al capitalismo, sia perché condivide una concezione materialistica della storia (Marx era d’accordo sulla necessità del capitalismo mondiale, che sperava sarebbe poi superato dal proletariato mondiale) sia perché i movimenti socialisti e comunisti sono state recentemente rilevate dai liberali e riorientate dal condurre una guerra di classe contro il capitalismo alla protezione dei migranti, delle minoranze sessuali e alla lotta contro i “fascisti” immaginari”. Questo si chiama vederci chiaro.

Allo stesso modo “La destra, d’altra parte, è confinata nei suoi stati-nazione e nelle sue culture, non vedendo che i popoli di altre civiltà si trovano nella stessa situazione disperata.

Quindi c’è il Grande Risveglio, ma non ha ancora una base ideologica. Se è veramente storico, e non un fenomeno effimero e puramente periferico, allora ha semplicemente bisogno di un fondamento, che vada al di là delle ideologie politiche esistenti emerse nei tempi moderni nello stesso Occidente.

Qualcosa di totalmente inedito, insomma. E tanto per cominciare questo qualcosa ha da scavalcare le logiche di contrapposizione bi- o tri-polari:

Per la salvezza delle persone, dei popoli e delle società, il Grande Risveglio deve iniziare con la multipolarità. Questa non è solo la salvezza dell’‘Occidente stesso, e nemmeno la salvezza di tutti gli altri dall’Occidente, ma la salvezza dell’umanità, Il Grande Risveglio richiede un’internazionalizzazione della lotta dei popoli contro l’internazionalizzazione delle élite.”

In questa prospettiva l’esito dell’inevitabile confronto finale si rivela molto meno incerto. Una rapida carrellata su quelli che potrebbero diventare i poli del Grande Risveglio ribalta i rapporti di forza.

Si parte naturalmente dagli Stati Uniti, che sono già oggi essenzialmente “in uno stato di guerra civile. Sebbene lo stesso Trump abbia perso, ciò non significa che lui stesso si sia lavato le mani, si sia rassegnato a una vittoria rubata e che i suoi sostenitori – 70.000.000 di americani – si siano sistemati e abbiano preso la dittatura liberale come un dato di fatto. Sono stati messi all’opposizione e sono sul punto di diventare illegali, ma un’opposizione di 70.000.000 di persone è seria”.

Pertanto: “Non importa come ci sentiamo nei confronti degli Stati Uniti, tutti noi dobbiamo semplicemente sostenere il polo americano del Grande Risveglio. Salvare l’America dai globalisti, e quindi contribuire a renderla di nuovo grande, è il nostro compito comune”.

Si passa quindi all’Europa. “L’odio per i liberali in Europa cresce contemporaneamente da due parti: la sinistra li vede come rappresentanti del grande capitale, sfruttatori che hanno perso ogni decenza, e la destra li vede come provocatori di migrazioni di massa artificiali, distruttori delle ultime vestigia dei valori tradizionali, distruttori della cultura europea e becchini della classe media. Allo stesso tempo, per la maggior parte, i populisti sia di destra che di sinistra hanno messo da parte le ideologie tradizionali che non soddisfano più le esigenze storiche ed esprimono le loro opinioni in forme nuove, a volte contraddittorie e frammentarie.

L’emergere di un polo europeo del Grande Risveglio deve comportare la risoluzione di questi due compiti ideologici: il definitivo superamento del confine tra Sinistra e Destra (cioè il rifiuto obbligato dell’‘antifascismo’ artificioso di alcuni e di ‘anticomunismo’ inventato da altri) e l’elevazione del populismo in quanto tale – populismo integrale – in un modello ideologico indipendente”.

Per quanto concerne la Cina, “ha sfruttato le opportunità offerte dalla globalizzazione per rafforzare l’economia della sua società. Ma non ha accettato lo spirito stesso del globalismo, il liberalismo, l’individualismo e il nominalismo dell’ideologia globalista.

La Cina è un popolo con una distinta identità collettiva. L’individualismo cinese non esiste affatto e, se esiste, è un’anomalia culturale. La civiltà cinese è il trionfo del clan, del popolo, dell’ordine e della struttura su tutta l’individualità.”

Un grande serbatoio dal quale attingere odio antiglobalista è l’Islam. “Durante il periodo coloniale e sotto il potere e l’influenza economica dell’Occidente, alcuni stati islamici si sono trovati nell’orbita del capitalismo, ma praticamente in tutti i paesi islamici c’è un rifiuto sostenuto e profondo del liberalismo e soprattutto del moderno liberalismo globalista.

Questo si manifesta sia in forme estreme – il fondamentalismo islamico – sia in forme moderate. In alcuni casi, singoli movimenti religiosi o politici diventano portatori dell’iniziativa antiliberale, mentre in altri casi lo Stato stesso assume questa missione. In ogni caso, le società islamiche sono ideologicamente preparate all’opposizione sistemica e attiva alla globalizzazione liberale.” D’altro canto: “Il contesto del Grande Risveglio potrebbe diventare una piattaforma ideologica anche per l’unificazione del mondo islamico nel suo insieme.”

Infine: “Il polo più importante del Grande Risveglio è destinato alla Russia (nessuno ne dubitava). Nonostante la Russia sia stata in parte coinvolta nella civiltà occidentale, attraverso la cultura illuminista durante il periodo zarista, sotto i bolscevichi, e soprattutto dopo il 1991, in ogni fase – nell’antichità come nel presente – la profonda identità della società russa è profondamente diffidente nei confronti dell’Occidente.

L’identità russa ha sempre dato la priorità al comune – il clan, il popolo, la chiesa, la tradizione, la nazione e il potere, e persino il comunismo rappresentava – sebbene artificiale, in termini di classe – un’identità collettiva contraria all’individualismo borghese.

Il significato della storia russa è stato diretto proprio verso il futuro e il passato ne era solo una preparazione. E in questo futuro che si avvicina, il ruolo della Russia non è solo quello di partecipare attivamente al Grande Risveglio, ma anche di esserne in prima linea, proclamando l’imperativo dell’Internazionale dei Popoli nella lotta al liberalismo, la peste del ventunesimo secolo.

La Russia si è rivelata l’erede di due imperi che crollarono all’incirca nello stesso periodo, nel XV secolo: l’impero bizantino e quello mongolo. L’impero è diventato il nostro destino. Anche nel XX secolo, con tutto il radicalismo delle riforme bolsceviche, la Russia è rimasta un impero contro ogni previsione, questa volta sotto le spoglie dell’impero sovietico. Ciò significa che la nostra rinascita è inconcepibile senza il ritorno alla missione imperiale fissata nel nostro destino storico.”

Questa è la nostra missione: essere il katechon, ‘colui che trattiene’, impedendo l’arrivo dell’ultimo male nel mondo.

Pertanto, il risveglio imperiale della Russia è chiamato ad essere un segnale per una rivolta universale di popoli e culture contro le élite globaliste liberali. Attraverso la rinascita come impero, come impero ortodosso, la Russia costituirà un esempio per altri imperi: cinese, turco, persiano, arabo, indiano, nonché latinoamericano, africano… e europeo.

Tre manifesti 11

Che dire? Il testo si commenta da solo (anche la foto sopra). Mi scuso se le continue e lunghe citazioni lo hanno reso di faticosa lettura, ma mi sembrava inutile parafrasare le argomentazioni di Dugin, dal momento che sono esposte già in maniera sintetica e tutto sommato abbastanza chiara. Mi limito pertanto ad aggiungere un’indicazione e un paio di osservazioni.

L’indicazione è per “L’idea russa”, di Bengt Jangfeldt, breviario indispensabile per chi volesse approfondire la storia profonda che sta dietro questo manifesto, a partire dal panslavismo ottocentesco. È un libro snello quasi quanto quello di Dugin, ma di ben altro “spessore”.

La prima osservazione riguarda l’uso o il non uso di determinati termini. In tutto il testo la voce Eurasia compare una sola volta. Eppure riassume l’idea di fondo di Dugin, per il quale la Russia è una realtà culturale e territoriale totalmente autonoma e sostanzialmente compatta, pur se insistente su due continenti diversi (i continenti sono una convenzione geografica). Forse non voleva forzare troppo la mano su questo concetto, che suppone un legame forte, sia culturale che storico-politico, con l’Oriente, e quindi una propensione espansionistica ed egemonica in quella direzione: cosa che non può suonare gradita né alla Cina né all’Islam, gli altri due grandi poli del Risveglio. Tra l’altro, in questo unico riferimento Dugin cita lo storico e antropologo Lev Nikolaevič Gumilëv (figlio di Anna Achmantova), che in realtà non attribuiva affatto al termine Eurasia un significato politico ma lo considerava solo un paradigma storiografico. Piuttosto, il riferimento a Gumilëv è significativo se si considera il concetto da questi coniato di ethnos, inteso come “un collettivo che si differenzia dagli altri per un proprio stereotipo comportamentale e contrappone sé stesso a tutti gli altri collettivi”. Definizione che si presta molto bene a spiegare l’idea che Dugin ha del popolo russo.

Un altro termine che nel testo non compare mai è razionalismo, pure aleggiando costantemente, sotto le specie del suo derivato applicativo razionalizzazione, dietro i progetti dei liberali globalizzanti. Credo che anche questa cosa abbia un senso: Dugin non vuole lasciare in appannaggio agli avversari il monopolio della ragione, e anzi tende a sottolineare la loro perversa devianza da quello che ne sarebbe un uso onesto e corretto: ma non può nemmeno farne la bandiera di un movimento che, per sua stessa ammissione, è nato ed è tuttora mosso da pulsioni irrazionali.

Allo stesso modo, non mette sotto accusa direttamente la scienza, se non per denunciarne l’uso criminale volto ad azzerare le coscienze e a sostituire l’uomo con un suo clone digitale. I richiami costanti all’impero e alla tradizione ortodossa non ne fanno un nostalgico reazionario, così come le strizzate d’occhio al trumpismo e a QAnon non ne fanno un complottista grossolano e ignorante: sono esche per la pesca a strascico, i primi ad uso interno, le seconde lanciate in acque internazionali: allo stesso modo in cui i riferimenti a Tommaso d’Aquino, ultimamente tornato di moda e non solo tra i teologi, lo sono negli ambienti culturali più all’avanguardia.

E ancora. Il termine “democrazia” compare nel testo sempre legato a “liberale”, in una accezione che l’aggettivo rende negativa, perché sta come “rappresentativa”. In luogo della rappresentanza democratica Dugin propone invece quella “comunitaria”: “L’identità russa ha sempre dato la priorità al comune – il clan, il popolo, la chiesa, la tradizione, la nazione e il potere, e persino il comunismo rappresentava – sebbene artificiale, in termini di classe – un’identità collettiva contraria all’individualismo borghese.

Dugin ha in mente (altrove lo cita espressamente), il mir, l’assemblea di villaggio che nella Russia zarista gestiva tutti gli obblighi comunitari nei confronti dello stato, dalle esazioni fiscali al reclutamento per l’esercito. La rievoca a sostegno dell’immagine di un’identità russa che sino alla vigilia della prima guerra mondiale aveva resistito alle sirene della modernizzazione e dell’individualismo. L’idea che ha della democrazia non si scosta molto da quanto scritto da Massimo Fini – un intellettuale antisistema, come lui stesso si definisce – qualche settimana fa su “Il fatto quotidiano” (credo che i servizi russi di controinformazione abbiano sottoscritto l’abbonamento – e forse più di uno – al quotidiano di Travaglio):

Non credo alla democrazia rappresentativa (cfr. Sudditi. Manifesto contro la Democrazia). Credo solo alla democrazia diretta, quella immaginata del ginevrino Rousseau. La democrazia esisteva quando non sapeva di essere democrazia. Nell’ancien régime l’assemblea del villaggio, formata da tutti i capifamiglia, in genere uomini ma anche donne se il marito era morto, decideva su tutto ciò che riguardava il villaggio.” Che è una ricostruzione di quanto avveniva nell’ancien régime piuttosto fantasiosa.

Quella di Fini è solo una delle tante voci – non certo tra le più autorevoli, ma che trova comunque un suo non trascurabile uditorio tra gli indignati a vita e una cassa di risonanza negli organi della “controinformazione” antiglobalista, pentastellata o meno – che propugnano come nuovo (o antico) modello di socialità il comunitarismo. La nebulosa comunitaria offre il migliore spaccato del mare ideologico interno all’Occidente nel quale Dugin può pescare. Di comune c’è in realtà solo la concezione di massima per la quale l’individuo esiste in virtù delle sue appartenenze culturali, etniche, religiose o sociali, ovvero della sua possibilità di creare comunità. Questa concezione può poi essere declinata in varie maniere, che vanno dall’integralismo cattolico all’anti-illuminismo della Nouvelle Droite fino alla ibridazione col marxismo, più rozza in Costanzo Preve e più articolata in Andrè Gorz: e ha forti implicazioni, oltre che sul piano del rapporto individuale con le istituzioni (il concetto di cittadinanza attiva e di partecipazione politica è molto simile a quello della pòlis greca), su quello etico (ad esempio, rifiuta l’aborto).

A questo si riferisce evidentemente Dugin quando parla di una quinta colonna antiglobalista che sgretola dall’interno la “civiltà” occidentale.

La seconda osservazione concerne ancora il tema degli “apparentamenti”. Mentre leggevo il manifesto di Dugin provavo una sensazione di déjà vu, e mi è tornato in mente qualcosa di molto simile in cui mi ero imbattuto diversi anni fa. Ho verificato poi che si tratta della prolusione ad una Conferenza Internazionale sulla Depressione (svoltasi nel 2004). L’autore era il cardinale Javier Lozano Barragán, che al termine di una carrellata ancor più sintetica di quella di Dugin sulla storia del pensiero occidentale arrivava a riassumere così la situazione attuale:

Non vi è unità ma solo frammentazione. La società si trasforma in gruppi di simboli, associazioni, movimenti. La solidità del partito politico, ‘della comunità, della nazione, sono così sostituiti.

L’uomo radicale professa un individualismo totale, possessivo e anarchico; si manifesta in una serie di negazioni: è antifamiliare, antimilitarista, anticlericale, antipartito, antistatale. Alla sua spontaneità attribuisce un valore assoluto, con le conseguenze socio-politiche della liberazione sessuale, dell’omosessualità, del femminismo, dell’aborto, del divorzio, della lotta contro i manicomi, contro le carceri, contro i concordati, per l’abolizione dell’insegnamento religioso, ecc. È l’uomo dell’anticultura radicale.”

Le diverse valutazioni che il cardinale dava del peso da attribuirsi alle vicende storiche o alle successive correnti di pensiero non inficiano la sostanziale omogeneità dello schema di lettura adottato. Ad Occam ad esempio Barragán faceva appena cenno, ma per contrapporlo “ai grandi pensatori che culminano nella Scolastica”, in primis a proprio a Tommaso d’Aquino. Un modo elegante per liquidare il nominalismo, senza per questo tacerne l’influsso negativo. Lo stesso dicasi per gli esiti della riforma protestante. Certo, il documento non prendeva in considerazione il ruolo di ‘resistenza’ del cristianesimo ortodosso, che tanta importanza ha per Dugin, e lo attribuiva invece in toto alla Chiesa cattolica: ma insisteva comunque sull’effetto di disgregazione indotto dalla modernità, e in termini non molto diversi da quelli usati dall’ideologo russo.

Non credo che negli ultimi vent’anni la posizione del mondo cattolico militante sia cambiata molto, se non nel senso di essere diventata ancor più critica nei confronti della “globalizzazione capitalistica”. Questo spiega e “giustifica” le convergenze sul piano della politica internazionale con l’universo ex-sovietico, la comprensione per i regimi che si reggono sull’integralismo religioso, le posizioni filo-putiniane professate recentemente, a fronte dell’invasione dell’Ucraina, non solo dall’ala arroccata su postazioni preconciliari, ma anche da molti esponenti della base (condivise ad esempio dal nuovo presidente della Camera, assieme all’apprezzamento per la “coerenza” patriottica e antiliberale del metropolita di Mosca).

È ciò cui si riferisce Dugin quando afferma che nella battaglia contro il globalismo, per far decollare il Grande Risveglio, tutti i mezzi e tutti gli alleati vanno bene: non è importante partire da una piattaforma di idee comuni, ma identificare il nemico comune. A uniformare le idee e a stabilire i confini si provvederà dopo, e ciascuno degli insorgenti lo farà a casa propria e a modo suo (sempre che i confinanti glielo permettano). Come abbiamo visto sopra, quindi, si parli di “grande risveglio” (che è peraltro l’etichetta usata anche dai gruppi avventisti d’oltreatlantico), di rinascita spirituale collettiva, di Jihad o di sindrome complottista, il banco del quale Dugin aspira ad essere il pesce-pilota è ricchissimo, vi nuotano nella stessa direzione le specie ittiche più diverse, dai pescecani ai tonni. Ma soprattutto è decisamente sguarnito e scarsamente motivato quello dei suoi difensori, o almeno di quelli che pur riconoscendo la strumentale malafede dell’ideologia di Dugin non possono fare a meno di condividerne almeno in parte la lettura storica. Costoro si trovano a combattere su due fronti, stando nel bel mezzo dello scontro, senza vedere alcuna realistica via d’uscita. Non occorre essere apocalittici per capire che si annunciano tempi duri.

Tre manifesti 12

***

I due “manifesti” precedenti (ma a questo punto possiamo dire tre, comprendendo anche quello del cardinal Barragán) ci prospettavano diversi scenari possibili del crollo dell’occidente: il primo per implosione interna, il secondo per un attacco dall’esterno, il terzo per trasgressione delle leggi divine.

Aldo Schiavone non è così pessimista. Ne “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, che non è un manifesto ma ha la densità e le ambizioni di un vero saggio, vede le stesse cose che vedeva Jeffers e che vedono oggi gli “incivilizzati”, parte da constatazioni che sono proprie anche di Dugin, ma lo fa da un angolo prospettico e con una disposizione d’animo completamente diversi. Non potrò seguirlo passo dopo passo come in pratica ho fatto nei due casi precedenti, ma cercherò di ordinarne le tesi in una sequenza ordinata. Andrà persa la ricchezza delle argomentazioni, ma m’importa arrivare al nocciolo.

Già dalla prima pagina si capisce che Schiavone non è un catastrofista; non dice che il mondo va a ramengo, ma che è sempre più complicato viverci.

Viviamo in un mondo che non è mai stato così complesso e anche così caotico – di una complessità̀ che produce (tra molte altre cose) disordine – con due principali componenti che concorrono, sia pure non da sole, a determinare questi caratteri.

La prima è un prodotto delle nuove possibilità della tecnica, che mettendo in contatto realtà finora non comunicanti e anzi drasticamente separate – nello spazio e nel pensiero – ha moltiplicato reti di interazioni sempre più intricate e difficili da decifrare, creando un contesto che è estremamente arduo comprendere e padroneggiare.

La seconda è costituita dalla convivenza intorno a noi – quasi dovunque in Occidente, come esito del salto tecnologico – di due insiemi culturali e sociali del tutto disomogenei, ma intrecciati l’uno nell’altro, ciascuno dei quali condiziona e coinvolge in modo opposto: uno che sta sparendo – in maniera spesso dolorosa e a volte perfino cruenta – mentre l’altro sta appena cominciando a formarsi, e non ha ancora un volto ben definito, anche se già se ne avvertono la presenza e l’impatto.”

Il che significa che gli occidentali non sono sgomenti e passivamente rassegnati come vorrebbero tanto Dugin che Jeffers (sia la natura o siano altre culture a metterli sotto attacco), ma sono senz’altro sconcertati.

Prima di spiegarci il perché di questo sconcerto, Schiavone chiarisce cosa intende per Occidente: “Occidente si dice in molti modi, per lo più contrapposti. È una parte del mondo o la matrice di valori universali? Lo spazio in espansione della democrazia o quello del suo declino? La terra del tramonto o l’alba di un nuovo inizio?

Per Schiavone c’è intanto un Occidente geopolitico (il global North), che è definito in linea di massima dal maggiore sviluppo industriale, e di conseguenza dalla maggiore ricchezza individuale, sia pure distribuita inegualmente. Questi parametri sono al momento attuale invalidati dalla crescita rapidissima di altre potenze economiche, fino a ieri relegate nel global south, quello che una volta si chiamava terzo mondo: l’accezione “economica” va quindi perdendo rilevanza, perché corrisponde sempre meno alla reale situazione.

Il termine assume poi un secondo significato, che designa invece una categoria universale dell’incivilimento umano, una forma di civiltà. Questo Occidente – dice Schiavone – è “un insieme di cultura, acquisizioni tecnologiche, economia, rapporti sociali, modelli e valori politici e giuridici, stili di vita, sviluppatosi originariamente in Europa, poi trapiantato in America e diffuso nel mondo fino a presentarsi ormai come tendenzialmente delocalizzato”. Ed è a questo secondo significato che l’autore farà costante riferimento.

Ad una percezione superficiale, quella che tiene conto soprattutto dei parametri economici, vince l’impressione che al rapido scombussolamento in corso degli assetti economici corrisponda una crisi ben più profonda, quasi un crollo, della intera “civiltà” occidentale. Non è cosa nuova: già nella prima metà del Novecento, quando ancora l’Occidente dominava in pratica tutto il resto del globo, si moltiplicavano le voci di un suo imminente rovinoso collasso (Spengler per tutti, ma anche Freud o i francofortesi, o economisti come Schumpeter e sociologi come Revel, o distopisti come Orwell e Bradbury). “[…] Possiamo dire sin d’ora che in tutte le predizioni di declino o addirittura di rovina dell’Occidente c’è un tratto comune, al di là degli eventuali elementi di verità che in qualche caso possono contenere.” Il tratto comune sarebbe appunto l’aumento, divenuto esponenziale, della complessità.

Tre manifesti 13

E tuttavia, a dispetto di eventi catastrofici (crisi economiche, conflitti mondiali, ecc.) il crollo non c’era stato, o non era stato comunque così rovinoso. Anzi, verso la fine del secolo, con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, che per quasi l’intero secolo aveva rappresentato il principale competitor, il modello liberal-capitalistico era parso uscire definitivamente vincitore, così da far ricomparire un cauto ottimismo (espresso ad esempio da Fukuyama ne “La fine della storia”)

Le cose sono rapidamente cambiate dopo l’ingresso nel nuovo millennio: prima con l’11 settembre 2001, con la guerra in Afghanistan e la fine della “pace americana” nel mondo; poi con il dissesto finanziario ed economico esploso nel 2008; quindi con l’epidemia del Covid-19 e infine con la guerra nel cuore dell’Europa, il tema è tornato in voga. Sono cadute in pratica le certezze sul proprio ruolo-guida che l’Occidente aveva maturato nel corso degli ultimi cinquecento anni. Si sono dissolte sotto la spinta dei “risvegli” altrui, ma soprattutto per una esasperazione del sentimento autocritico che da sempre ha controbilanciato la presunzione di superiorità (persino un apologeta della civilizzazione occidentale come Arnold Toynbee ammetteva che “Nell’incontro fra il mondo e l’Occidente, in corso da ormai quattro o cinque secoli, la parte che ha vissuto un’esperienza significativa è stata finora il resto del mondo, non l’Occidente. Non è stato l’Occidente a essere colpito dal mondo; è il mondo che è rimasto colpito – e duramente colpito – dall’Occidente”).

Per Schiavone il risultato è che si sta diffondendo “una sorta di sindrome occidentale […]; uno stato d’animo che ha dato origine a una vera e propria cultura della paura e della crisi […]; tensioni che, in alcuni ambienti e circostanze soprattutto europei, hanno assunto caratteri propriamente anticapitalistici e antiamericani […]; orientamenti riconducibili a una specie di fondamentalismo antitecnologico, che fanno coincidere la tecnica con l’Occidente […]; un illanguidirsi delle appartenenze e delle identificazioni nazionali; la maggiore permeabilità sociale e personale tra i generi […]; la minor presa dei legami familiari; la trasformazione dell’etica del lavoro […]; le nuove forme di solitudine […]; l’appannarsi e il relativizzarsi del sentimento religioso, e in specie della comune identità cristiana – paragonata al fervore dell’Islam […]”.

Sono elencati in pratica tutti quei sintomi che abbiamo visto comparire nei tre precedenti manifesti, segnatamente in quello di Dugin, ma che là erano letti “positivamente” come segnali di risveglio, o quanto meno di una presa di coscienza. Schiavone li interpreta invece come frutto di “una lettura (apologetica e nostalgica) del passato, trasformata in previsione e in giudizio (fortemente negativi) sul futuro”.

Tre manifesti 14

Questa lettura “emotiva” è alimentata dalla deplorevole tendenza a trascurare gli studi storici a favore dei “cultural studies”, che alla ricerca di una sia pur imperfetta “oggettività” sostituiscono le interpretazioni delle vicende. La storia come la conosciamo e come veniva insegnata sino a ieri è accusata di essere una ricostruzione “occidentale”: ad essa viene opposta la “memoria storica”, che non è una disciplina, nel senso che non prevede il confronto sulla base di regole e criteri il più possibile oggettivi e condivisi. Ora, se i risultati del dibattito storico non danno la verità assoluta, ma almeno una verità sempre in fieri, le ricostruzioni operate sulla base della memoria ci rimandano ad esperienze singole o collettive che quasi mai sono state vissute e percepite allo stesso modo dagli altri protagonisti (e meno che mai dagli antagonisti). Si dice che la storia è scritta dai vincitori, ed è vero: ma è altresì vero che poi la correggono o la riscrivono gli storici, e che il compito di costoro è di arrivare, attraverso il confronto, ad una ricostruzione che regga il vaglio degli strumenti critici. In questo senso, con tutte le cautele del caso, si può affermare che la storia è una disciplina scientifica.

È la storia che ci può aiutare a capire, – scrive Schiavone – che può rendere possibile questo radicale ma indispensabile cambio di prospettiva, aperto sul futuro. Non soltanto la storia, probabilmente: ma lei di sicuro. Ed è innanzitutto un difetto di adeguata storicizzazione a impedirci di mettere nella giusta luce quel che si vede dal nostro oggi, e a farci confondere l’alba con il tramonto, l’incompiutezza con il declino. Quasi avessimo smarrito la capacità di connettere gli eventi secondo strutture di senso che solo se colte attraverso la loro storicità possiamo sperare di rappresentare nella loro completezza, e quindi di conoscere veramente. Come se la ragione delle cose che stanno accadendo avesse sovrastato la razionalità del pensiero che dovrebbe comprenderle: una condizione che se durasse a lungo, allora sì, che potremmo dire di essere perduti.

Tre manifesti 15

A dire il vero, quella che emerge dal libro è una concezione non particolarmente scientista: sembra anzi riprendere la filosofia della storia hegeliana, in quanto Schiavone cerca nel futuro le chiavi per l’interpretazione del passato, anziché viaggiare in senso opposto (e va aggiunto che anche Hegel vedeva nell’Occidente – quello che era tale alla sua epoca, quello europeo – il principale motore della storia universale, o addirittura l’unico.)

Per l’autore “la storia correttamente letta ci insegna che l’umano ha un futuro. Questo è indubbio. Come è altrettanto indubbio che l’umano, non essendo vincolato a un’essenza in forza di una legge di necessità, sta cambiando e continuerà a farlo, a oltrepassarsi, in una dimensione post-umana che lo ha accompagnato non da oggi ma da sempre, in una lotta infinita con i propri limiti”.

Dopo quanto accaduto negli ultimi decenni l’Occidente sembra però avere persa la sua capacità di guardare avanti: “L’Occidente immagina il futuro o come un prolungamento indefinito del presente o come un luogo abitato da ansia e paura. Un luogo di incertezza e di peggioramento della propria condizione sociale ed economica. Un luogo di perdita di vita complessiva della propria dignità. Arroccati nella nostalgia di un passato ormai esaurito, perdiamo la direzione complessiva del processo in corso, il suo senso d’insieme.”

Questo accade proprio nel momento in cui si annuncia una trasformazione epocale. “E così non vediamo il salto di civiltà che abbiamo di fronte. Non sappiamo sintonizzarci alla svolta che viviamo. Orientarsi in questo intrico, venire a capo delle sue sconnessioni, è tutt’altro che facile. Come se fossimo finiti in una zona morta della nostra capacità di vedere.”

La svolta di cui Schiavone parla sta nel fatto che “oggi la storia evolutiva sta smettendo di essere un presupposto immodificabile e sta per diventare un risultato delle nostre scelte. Questo perché nel giro dei prossimi decenni, non dei prossimi secoli, avremo una capacità inedita di incidere sulla nostra struttura e sulla forma biologica delle nostre vite e di modificarla.”

È questa l’idea portante che attraversa tutto il libro. Quella del passaggio della nostra specie da una storia “naturale” – controllata soltanto dai meccanismi dell’evoluzione, quindi affidata alla biologia – alla storia “culturale”. Non è certamente un’idea nuova, ma qui viene spinta sino alle estreme conseguenze. D’altro canto, era un tema già presente diversi anni fa nel saggio più famoso di Schiavone, “Storia e destino”, e sta alla base anche di tutti i suoi studi successivi sulla natura del diritto. È “[…] il superamento della separazione tra storia della vita e storia dell’intelligenza. Le basi naturali della nostra esistenza smetteranno presto di essere un presupposto immodificabile dell’agire umano, e diventeranno un risultato storicamente determinato dalla nostra cultura. Questo ricongiungimento, il passaggio dal controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente non è lontano […]”.

La storia “culturale” nasce con la comparsa della tecnica, anzi, è la storia di come la tecnica abbia modificato i rapporti dell’uomo con tutto ciò che lo circonda, con la natura e con i suoi simili, ma soprattutto con se stesso e con il proprio destino. Perché la tecnica compare in funzione e a supporto di una progettualità, mirata ad un aumento del benessere e della sicurezza dei singoli e della specie: ovvero, compare associata all’idea di “progresso”.

L’idea di progresso – ci spiega Schiavone – esprime qualcosa di profondo e di essenziale: una rappresentazione della storia senza la quale la nostra identità e la nostra capacità di progettare il futuro sono a rischio. Dentro un’idea positiva del futuro come progetto, come speranza, come proiezione in avanti delle nostre vite ecco che appare l’idea di progresso.”

Non va dunque liquidata come un rottame illuministico: “Oggi più che mai, noi come specie umana, abbiamo bisogno di recuperare una parola come progresso. Ne abbiamo bisogno perché quella parola ci consente di riappropriarci del futuro.”

Quel “noi”, prima ancora che all’intera specie umana, si riferisce agli occidentali. E qui sta la specificità della posizione di Schiavone. La fiducia nel progresso va recuperata innanzitutto da chi ne è stato sino ad oggi il principale interprete. Alla faccia della “cancel culture” dilagante, Schiavone rivendica all’Occidente un primato (anche se scrive: “non si tratta di rivendicare primati. E tanto meno di fissare gerarchie antropologiche, ma di riconoscere percorsi storici disuguali”). Perché “solo l’Occidente ha prodotto l’autonomia della scienza e la rivoluzione industriale”.

E aggiunge: “l’Occidente è definito dal proprio eccezionalismo perché è il continente delle idee e della libertà”.

La civiltà “eccezionale” che l’Occidente ha espresso è frutto della superiore capacità performativa della sua tecnica. Torna dunque l’annosa questione: la tecnica, proprio per lo stretto legame che immediatamente stringe con il capitale, ma anche a prescindere da questo, per l’atteggiamento performativo che induce nei confronti della natura, è di per sé “disumanizzante”? le derive sociali, ambientali, politiche e psicologiche di cui oggi è chiamata responsabile, le sono intrinseche? Schiavone non ha dubbi. Intanto, usa i termini capitale e capitalismo spogliati di ogni valenza ideologica, positiva o negativa: il capitale è il fondamento economico che permette alla tecnica di svilupparsi, traendo dalla tecnica stessa le risorse da reinvestire. Ritiene poi che le derive non siano un problema attinente la tecnica. Quest’ultima è solo un mezzo che apre all’uomo infinite possibilità di scelta e varianti di sviluppo. Produce risorse, e quindi anche strumenti di dominio o di distruzione, che dovrebbero però poi essere controllati e guidati dalla politica, dall’etica, dal diritto.

Il problema vero sta per lui nel fatto che quanto la tecnica ha più o meno direttamente indotto, dalla filosofia alla politica, al diritto, ai valori cardine della libertà e dell’uguaglianza che si esprimono nella democrazia, non tiene il passo con la tecnica stessa (e con l’economia che le è connessa). Non lo tiene perché è oggettivamente difficile marciare in pari con uno sviluppo tecnologico ed economico così prodigioso come quello odierno, ma anche perché da tempo l’eccezionalismo occidentale è messo in discussione, come abbiamo visto nei manifesti precedenti, dal suo stesso interno: il modello di crescita che ha informato questo sviluppo ha contraddetto troppo spesso i valori di cui si faceva portatore, principalmente quello dell’uguaglianza, suscitando le reazioni più disparate (estremismo, populismo, rivendicazioni identitarie, cancel culture, ecc..). Ma ciò che soprattutto pesa, secondo Schiavone, è “il declino di un intero sistema di saperi”, quello che stava invece alle spalle della tecnica e del capitale nell’Ottocento. Manca la capacità di “leggere” in un quadro d’insieme tutti gli aspetti dello sviluppo tecnologico, e quindi di governarne e orientarne le ricadute economiche e sociali.

Comunque, a dispetto delle sue contraddizioni, “l’Occidente ha costruito ciò che abbiamo chiamato modernità – e l’ha fatto non solo per se stesso, ma per tutto l’umano: ce ne stiamo appena rendendo conto. In effetti però, se guardiamo bene come solo ora ci è consentito di fare, ci accorgiamo che quella che abbiamo finora sperimentato non è stata la modernità nel suo pieno realizzarsi – come si è a lungo creduto – ma solo una specie di suo straordinario per quanto difficile prologo. Una faticosa e non lineare preparazione del salto decisivo che solo adesso stiamo iniziando a spiccare: una specie di protomodernità cominciata nelle città italiane del Rinascimento e conclusa sulle rive del Pacifico con l’avvio della rivoluzione tecnologica del tardo Novecento e con il culmine politico dell’impero americano che hanno gettato un ponte tra i due lembi di quell’oceano.”

Se la smettessimo per un attimo di autoflagellarci, scrive ancora Schiavone, dovremmo ammettere che dopo l’impatto con la civiltà occidentale “masse di donne e di uomini sono uscite per la prima volta dalla naturalità di un’esistenza spesa solo per sopravvivere, e hanno alzato lo sguardo oltre l’acqua per dissetarsi e il cibo per sfamarsi. In una manciata di anni, parti intere del pianeta – in Asia, specialmente, soprattutto nei grandi contesti urbani – hanno acquistato una visibilità mai posseduta; e chi ci vive è riuscito ad appropriarsi, per quanto poteva, del proprio destino. Enormi blocchi di umano sono per così dire usciti dalla natura ed entrati nella storia: in diversi modi, e per diverse vie. Hanno incontrato pezzi di modernità e si sono dati un tessuto identitario secondo l’unico modello disponibile: quello che l’Occidente ancora una volta vincitore – molto al di là di quanto egli stesso, anche per sfuggire alle proprie responsabilità, non riesca e non voglia riconoscere – ha saputo loro proporre”.

A questo punto secondo Schiavone si aprono per il futuro dell’umanità scenari ancora inesplorati, e il tono della trattazione diventa quasi visionario – anche se l’autore cerca di tenere i piedi sempre poggiati sulla concretezza. “Si riesce a capire il significato del presente solo così, cercando di guardare quel che ci aspetta per decifrarne il senso. Il mondo intero sta entrando nella versione globale della modernità”. La nostra epoca è testimone di un evento senza precedenti: la nascita della prima civiltà planetaria della storia. Una civiltà che vedrà fusi in un sistema unico il capitalismo e la tecnica, perché il capitalismo è esso stesso una potenzialità tecnica, è una macchina economica: e una volta che l’azione di questa macchina sarà diffusa a livello sovranazionale verrà liberata tutta la sua forza emancipativa. La crescita esponenziale della potenza prodotta dalla tecnica darà presto all’uomo, quasi totalmente affrancato dalla dipendenza dalla natura, la possibilità di decidere del proprio destino biologico.

Tre manifesti 16

Questa radiosa (?) prospettiva è però al momento tutt’altro che scontata. La strada è ancora molto lunga. “È al centro di una lotta in parte non anc0ra decisa che dobbiamo prendere coscienza di trovarci. Ed è questa la sfida che aspetta l’Occidente. Non solo tenere a battesimo un mondo nuovo: questo in qualche modo lo ha già fatto. Ma completarne la fisionomia secondo la razionalità che è capace di esprimere, e dargli un’anima e un destino – come solo lui si è dimostrato in grado di poter fare.

Sappiamo bene che sono in questione aspetti della nostra identità ai quali abbiamo legato parti importanti delle vite appena trascorse […] a cominciare da una certa idea di nazione, di classe, di lavoro, di famiglia, di genere – e saranno da trasformare radicalmente, se non da dismettere. […] Ma è proprio una caratteristica dell’Occidente quella di vivere rivoluzionando continuamente se stesso.

Prima di arrivare a questo stadio tuttavia l’Occidente dovrà superare una serie di contraddizioni. “La prima è quella tra l’unificazione tecnocapitalistica del mondo e la sua frammentazione politica. Va quindi impedito il consolidarsi di una “alleanza asiana”, che veda la Russia, la Cina, il Pakistan, l’India e parte dei paesi mediorientali consolidare un blocco in funzione anti-occidentale e anti-democratica.” Per Schiavone questo rischio è concreto e presente (non so se abbia letto Dugin, ma ha scritto il saggio già avendo presente quanto accade in Ucraina); al tempo stesso però non crede possa nascere un sistema egemonico alternativo centrato sull’Asia (Cina o India) e/o sulla Russia, perché a suo parere nessuna di queste potenze è in grado di esportare su scala globale una visione del mondo e un modello culturale e sociale universalmente appetibili (sono d’accordo), e possiede capacità di innovazione tecnologica analoghe a quelle dell’Occidente (non sono d’accordo). D’altro canto “anche la Russia post-sovietica è diventata qualcosa di diverso, sulla cui carne i processi di mondializzazione stanno incidendo in modo lento ma irreversibile. Da una società neocapitalistica, per quanto ancora fragile, è assai complicato uscire, una volta che il meccanismo si è avviato”. E in Cina “il progetto perseguito dai gruppi dirigenti di modernizzare in senso occidentale la società apre a prospettive che vanno seguite con attenzione: anche lì si creeranno contrasti difficili da gestire”.

Al di là però delle arretratezze e dei problemi dei competitori, l’Occidente ha già in sé secondo Schiavone gli anticorpi per scongiurare la formazione di una alleanza asiana, o eurasica, o islamica o di qualsiasi altro tipo: e questi non sono rappresentati da un superiore armamento nucleare, ma dalla capacità di costruire “una geopolitica intesa non solo come confronto tra le potenze, ma come costruzione di canali di collaborazione e di connessione dei popoli oltre gli stati, puntando sulla valorizzazione delle reti tecnologiche e capitalistiche globali”. Ciò implica naturalmente che l’Occidente sia capace di accogliere una molteplicità di prospettive, di adattarsi per costruire sintesi unitarie più avanzate.

Ma la geopolitica nuova che l’autore auspica, e che teoricamente avrebbe anche un senso, si concilia poi con il modello di organizzazione economica proprio del capitalismo? Ebbene: “Occorre accettare realisticamente questo dato: che l’organizzazione capitalistica è solo un esito storico provvisorio, che non ha dentro di sé nulla di naturale, e come tale va accolta e discussa”. Vale a dire che nessun modello è proprio del capitalismo, ma è storicamente determinato. “La forma del mercato e delle merci non è iscritta in modo naturale in quella della nostra specie e della sua storia: ne è semplicemente un prodotto di successo” (di “meritato successo”, si affretta ad aggiungere Schiavone).

Allo stato attuale delle cose, comunque, l’organizzazione capitalistica sembra muovere in una direzione ben diversa da quella auspicata, e crea una nuova contraddizione, “quella tra carattere intrinsecamente privato e sempre più concentrato delle attuali strutture capitalistiche dal punto di vista dei poteri, delle decisioni e dell’inaudita accumulazione di profitti: e di contro il carattere sempre più ‘pubblico’ delle ricadute sociali di quei dispositivi di produzione e di mercato”. Le ragioni economiche della produzione, le ragioni del mercato, stanno insomma progressivamente “autonomizzandosi”, scindendosi da quelle sociali: nello stesso tempo pesano in misura sempre maggiore sulle scelte politiche degli stati e su quelle comportamentali degli individui. “Per questo l’Occidente ha bisogno di esercitare quella capacità di autoanalisi che ha ben imparato a mettere in campo: per la critica della sua economia, che è cosa ben diversa e più seria dell’inutile e autodistruttivo rinnegamento del proprio passato: per correggere fin dove possibile il meccanismo alla base di questo contrasto.

L’esercizio di una corretta autoanalisi ci dice che “una volta che il lavoro ad alta intensità tecnologica ha preso il posto del vecchio lavoro di fabbrica, una volta abolito cioè il carattere sociale della produzione, e l’antagonismo strutturale che esso produceva […] la contraddizione si è trasferita dal dentro al fuori dell’ingranaggio capitalistico.”. E che anche rispetto a questa nuova contraddizione l’Occidente disporrebbe di un antidoto, che è la democrazia, se solo fosse capace di pensare quest’ultima come una costruzione (e astrazione) storica, quindi in costante evoluzione, e di conseguenza adattabile a rapporti inediti con il capitale e con il mercato. “In realtà, è l’intero rapporto fra forma capitalistica dell’economia e forma democratica della politica quale si è venuto delineando nel corso del Novecento che va ripensato a fondo, insieme al rapporto tra gestione della democrazia e uso delle più recenti tecnologie. Sapendo che nuove connessioni e compatibilità sono non solo storicamente possibili, ma appaiono funzionalmente indispensabili, e vanno a tutti i costi mantenute e sviluppate, sia pure con caratteri tutti da ricostruire.

Quando si tratta di arrivare al dunque, però, sul modello di democrazia compatibile con l’età digitale Schiavone rimane molto vago (ed è anche comprensibile che lo faccia: è uno storico, non uno scrittore di fantascienza). Si limita a parlare di un dispositivo democratico che consenta ai cittadini un esercizio della sovranità più ravvicinato, “come oggi è tecnicamente possibile”. Liquida l’improponibile mito di una democrazia diretta esercitata per via telematica, della quale già conosciamo i disastrosi esiti sperimentali, ma è anche certo che per il futuro l’esercizio della sovranità non potrà più essere affidato al modello rappresentativo, o almeno alla sua versione attuale, che non corrisponde più al sentire comune. Parla di costruire di una cittadinanza globalmente condivisa, come accade ad esempio nei movimenti per la tutela ambientale o per quella dei diritti legati alla differenza di genere, che combini in modo nuovo iniziativa dal basso e presenza nelle istituzioni e garantisca una interazione equilibrata tra potenza tecno-economica e potere politico. Un obiettivo encomiabile, ma evidentemente ben poco realistico.

Tre manifesti 17

Nell’ultima parte del saggio l’azzardo sul futuro della nostra specie è spinto ancora oltre. L’autore fonda le sue anticipazioni sul presupposto che una situazione compiutamente globalizzata farà riemergere l’“invarianza del comune umano”. Ripropone cioè in termini nuovi l’annosa questione dell’esistenza o meno di una “natura umana” (tornando sul tema col quale aveva aperto il saggio, e che percorre un po’ tutti i suoi scritti). È indubbio per lui che di “natura umana” si può parlare, e che anzi da essa non si può prescindere, tenendo comunque fermo che “su una base genetica sempre eguale a se stessa in ogni esemplare si intreccia il gioco di una illimitata combinazione di caratteri morfologici e intellettivi”. Questo sostrato biologico però non è affatto immodificabile. “Osservata dalla giusta distanza, qualunque strutturazione naturale è anch’essa storia, nient’altro che storia.

Come tutto ciò che ha a che fare con la natura, anch’esso è soggetto alle leggi dell’evoluzione. Con una novità, consistente nel fatto che “la rivoluzione attuale, dove prima c’era una enorme difformità di contesti, sta sovrapponendo all’identità della base genetica una identità globale di stimoli e di sfondi mentali e sociali”. In altre parole: la tecnica sta uniformando il volto economico del pianeta e la morfologia del suo territorio, ma sta omologando anche i comportamenti di massa dei suoi abitanti, includendoli tutti nello stesso circuito di consumi, tanto materiali quanto culturali: persino le idee sono già confezionate come merci. Questa omologazione da un lato apre alla speranza, perché per certi versi rende obsolete le guerre (l’uniformità di pensiero dovrebbe azzerare i contrasti ideologici, così come la razionalizzazione dei mercati dovrebbe attenuare quelli economici) e inutili anche i regimi autocratici; dall’altro spaventa, perché costringe il mondo nella rete di una ragione tecno-economica che in realtà non coincide con la razionalità complessiva della specie, e cancella diversità, peculiarità, ecc Ora, la sfida è quella di preservare queste differenze senza rinunciare al percorso dell’unificazione. E per differenze si intendono, oltre a quelle tra le civiltà, anche quelle con le altre forme di vita animali.

Schiavone preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno, e legge la trasformazione all’interno di un più ampio divenire storico. Di fronte ai grandi mutamenti indotti dalla prima modernità il pensiero europeo aveva elaborato un’immagine dell’uomo come “individuo”, e questa immagine è rimasta dominante per tutta la stagione della grande industrializzazione (a dispetto anche di dottrine alternative che cercavano di opporle il modello del collettivo). La mondializzazione economica fa invece emergere il fondo comune della specie, creando attraverso un sistema universale di bisogni, quello che regge la rete globale dei mercati, una “prossimità globale”. Diventa possibile considerare l’umano, in tutte le sue complessità e differenze, come il manifestarsi di un’unica e totale soggettività impersonale. “La soggettività della specie che finalmente approda all’orizzonte della storia.” Hegel avrebbe detto che è lo Spirito che si manifesta.

La condivisione dei bisogni rende davvero possibile iniziare un discorso sull’eguaglianza, mentre l’individualismo, esaltando le differenze, le specificità, metteva in secondo piano ciò che accomuna ogni essere umano ai suoi simili. Ora invece “la tecno-economia globale esige, per venir regolata, di poter essere confrontata con una soggettività altrettanto globale, che si ponga sullo stesso piano. Per costruire un modello di soggettività e di eguaglianza che senza rinunciare ad un imprescindibile impianto formale sappia però anche guardare in tutte le profondità del diseguale che la nuova economia oggi ci propone”.

Ma alla fine, scendendo dal piano superiore della “soggettività globale” 0 “soggettività di specie” a quello terreno del “soggetto individuo”, che futuro gli riserva Schiavone? Intanto si tratterà di un individuo non più definito dalla sua attività lavorativa. “Col passaggio dalla forma industriale alla forma tecnofinanziaria del capitale, il lavoro (che era stato sin dai primordi della modernità la culla della figura dell’individuo e del paradigma di eguaglianza moderno) muta radicalmente, tanto che si può parlare di una ‘fine dell’età del lavoro’”. Con questo “non si vuol certo dire che abbia smesso di esistere il lavoro come attività propria della specie umana. Si vuole indicare soltanto che è finita una maniera storica di lavorare, che è stata costitutiva della nostra modernità e del nostro modo di pensare […]. E si vuole anche alludere, con quella formula, al fatto – di non minore importanza – che i nuovi lavori che stanno sostituendo in Occidente quello ormai al tramonto, non possono né potranno mai avere, per ragioni strutturali, indipendenti da ogni scelta politica, giuridica o etica, la stessa funzione della figura che sta scomparendo”.

Nella vita dei nostri discendenti, se le cose andranno come Schiavone pensa siano destinate ad andare, il lavoro sarà una cosa completamente diversa (lo è già adesso, con la cosiddetta “flessibilità”: ma a ben considerare è stato tale anche per un lunghissimo periodo in passato), e rivestirà un ruolo marginale. La liberazione, “l’emancipazione” degli umani non avverrà più attraverso esso, ma arriverà da una globale condivisione di strumenti conoscitivi e operativi che consentiranno alla specie il controllo non solo sull’ambiente e sulla tecnica, ma anche sulla propria natura. Avendo tra le mani il nostro destino biologico, saremo padroni delle nostre condizioni materiali di esistenza: saremo quello che vorremo essere.

Sommario: niente fine della storia o epoca del tramonto. Schiavone è anzi convinto che la vera storia cominci ora, e che a scriverla sarà ancora una volta l’Occidente, o meglio l’impronta della sua “civilizzazione” impressa su tutto il globo. Non si nasconde che la “mondializzazione” del modello occidentale ha messo in moto un percorso problematico, irto di rischi, che può anche condurre alla catastrofe, e nemmeno ignora le resistenze e i ripiegamenti che continueranno ad opporsi a questo processo. Quindi non lo considera ineluttabile, ma lo vede come l’unica vera possibilità di sopravvivenza dell’umano. Non solo, ma una sopravvivenza ricca di straordinarie potenzialità: la vicenda di un umano ormai quasi del tutto affrancato dalla dipendenza dalla natura, e sul punto di diventare completamente padrone del proprio destino.

Tre manifesti 18

E ora provo a tirare un po’ le fila. Intanto, non vorrei aver dato l’idea che nell’ultima parte del saggio Schiavone sia partito per la tangente. Non è così. È vero piuttosto che ho faticato molto io a costringere in poche pagine una ricchezza di argomentazioni che corre come un fiume in piena e che l’autore ha condensato in una serie di passaggi logici incalzanti. E dubito assai di esserci riuscito, anche solo parzialmente. Rimane tuttavia il fatto che dovendo passare dall’analisi del presente alla parte propositiva aperta sul futuro Schiavone cambia le tonalità del discorso: e come chiunque combatta una battaglia culturale (perché questo è, al di là della diversa profondità, un pamphlet, speculare a quello Dugin) le ha alzate di parecchio, senza peraltro mai trascurare di sottolineare come ciò che va prospettando rappresenti non una profezia ma una “possibilità.”

Che è già un ottimo distinguo. Una possibilità non è un’utopia. Non cancella il tempo o la condizione presente per rifare tutto daccapo, ma intravvede nel presente qualcosa che va interpretato nell’ottica di una futura trasformazione. In questo senso il saggio di Schiavone offre notevoli stimoli, se non a fare, perché sembra che tutto accadrà (o potrebbe accadere) dietro la spinta di forze superiori, almeno a capire, ad essere consapevoli di quali direzioni potrà prendere l’umanità dopo di noi, o magari (come sottolinea a più riprese l’autore) sta già prendendo sotto i nostri occhi. E mi offre anche l’occasione di riconfrontarmi per l’ennesima volta con le mie convinzioni.

Ora, non ho la presunzione di aver capito proprio tutto quel che Schiavone stipa in queste centottanta pagine, o di essere riuscito a seguire l’autore in certi passaggi che imponevano vere acrobazie mentali. Ma il senso generale del discorso credo di averlo afferrato, e in fondo condivido buona parte della sua impostazione e delle interpretazioni che offre del presente. Eppure non sono affatto persuaso che lo scenario futuro che ci prospetta sia coerentemente fondato. Per più di una ragione.

La prima concerne la possibilità di riconquistare il controllo sulla tecnica e di riorientare quest’ultima a finalità etiche. Ho l’impressione che sia già tardi, o meglio ancora, che sarà l’etica a riaggiornarsi sulla scia degli sviluppi tecnologici. In effetti, dobbiamo prendere atto che la tecnologia ha ormai di gran lunga sopravanzato la scienza e l’etica. Prendiamo il caso ad esempio delle scienze biologiche e della ingegneria bio-medica. Quest’ultima è in grado di produrre risultati che a livello scientifico non hanno alcun interesse o giustificazione, come le ibridazioni genetiche interspecifiche. Realizzare un uomo-scimmia non fa avanzare di un millimetro la conoscenza scientifica, mentre può avere terrificanti ricadute spettacolari o implicazioni economiche. È una cosa abietta, eppure decine di laboratori vi stanno lavorando: è tecnologia da apprendisti stregoni, fine a se stessa, intesa a mostrare sin dove può arrivare il suo potere, all’interno di una sfida continua nella quale non c’è più regola che tenga.

Un motivo ulteriore di perplessità concerne l’altra auspicata “domesticazione”, quella del capitale finanziario. Pur assumendo per scontato che il capitale sia indispensabile per reggere lo sviluppo della tecnica, e quindi che dal supporto offerto alla tecnica possa legittimamente attendersi un ritorno, mi sembra che Schiavone non dia il giusto rilievo al fatto che come la tecnica anche la finanza si è autonomizzata, ha preso una strada totalmente autoreferenziale nella quale il gioco speculativo prevale su quello produttivo. Il capitale tecno-finanziario è sempre più teso a creare ricchezza, e sempre meno a creare innovazione. O meglio, crea innovazione solo in prospettiva del ritorno, e di fatto brucia tutte le altre possibilità. Non si capisce cosa possa intervenire a disciplinarlo, a dissuaderlo dalla corsa all’accumulo. Sino ad oggi le nuove connessioni e le compatibilità etiche cui Schiavone accenna (quando scrive ad esempio che tra non molti decenni mangiare carne ci parrà un obbrobrio), e che gli paiono esemplificative della via da seguire, si sono risolte nella creazione di formidabili business che ruotano attorno alle etichette di “biologico” e di “ecosostenibile”, buone per far accettare costi maggiorati, ma che nella sostanza non mettono affatto in discussione la coazione al consumo (e anzi, in qualche modo la assolvono).

Di fronte a una situazione del genere è lodevole lo sforzo di Schiavone di richiamare in campo valori e saperi che stiamo perdendo, ma la cosa cozza contro la convinzione che lui stesso a più riprese esprime, e cioè che la trasformazione interesserà necessariamente anche l’ambito etico. Quando scrive: “Vedo che stiamo usando gli strumenti della tecnica non in eccesso, ma per difetto. Li stiamo usando al di sotto delle loro potenzialità” fa un’affermazione in parte vera, ma pericolosa. La “capacità inedita di incidere sulla nostra struttura e sulla forma biologica delle nostre vite e di modificarla”, che prevede per i prossimi decenni, non per i prossimi secoli, non appare certamente oggi finalizzata a una liberazione. Mi ripeto, ma credo che questo sia il punto più debole dell’argomentazione di Schiavone. Anche rimanendo entro i confini di ipotesi meno fantascientifiche di quella che ho prospettato sopra, gli interrogativi già oggi suscitati dallo sviluppo delle biotecnologie e dalle applicazioni (e implicazioni) dell’intelligenza artificiale sono tutt’altro che gratuiti. Toccano nel profondo il senso stesso dell’appartenenza all’umano, cambiano radicalmente i parametri di definizione della specie, fanno intravvedere non una trasformazione ma una vera e propria mutazione, che andrebbe ad interessare non solo la morfologia ma tutto il sostrato biologico, e di conseguenza gli stessi fattori di comunità nei quali Schiavone ripone la sua fiducia. Altro che “invarianza del comune umano”. L’uomo, da “antiquato” che era, rischia di diventare superfluo.

Un conto è parlare dell’uso di protesi o strumentazioni che migliorano le nostre condizioni di esistenza, di resistenza o di produttività, o suppliscono a carenze naturali o accidentali (dalla pietra scheggiata ai robot della catena di montaggio, dagli abiti alla farmacopea, dagli occhiali al bypass o agli arti artificiali), e che modificano senz’altro il nostro rapporto con l’ambiente e con il nostro prossimo, ma non vanno a toccare i ritmi e i percorsi evolutivi del nostro patrimonio genetico (o lo fanno in tempi lunghissimi, che consentono di ovviare ad eventuali effetti collaterali indesiderati): un altro conto è la presunzione di “decidere noi il nostro destino”, di programmarci totalmente in proprio l’esistenza, di accedere alla condizione post-naturale, senza in realtà nessuna idea di dove vorremmo o potremmo andare a parare. A meno di intendere che a decidere sarà la “soggettività globale della specie” (e temo che Schiavone intenda proprio questo), prospettiva che nella sua indeterminatezza fa accapponare la pelle. Pur facendo le debite tare, somiglia troppo al suo esatto contrario, a quello che Dugin, mostrando senz’altro lungimiranza, definisce “lo scambio dell’identità collettiva umana con l’identità collettiva postumana: la creazione di strumenti tecnici che diventano passo dopo passo i maestri, e smettono di essere strumenti”.

Tre manifesti 19

Mi spiego meglio. Questo discorso chiama automaticamente in causa il tema della libertà, che a sua volta si tira appresso quello dell’eguaglianza, e naturalmente quello della democrazia, che dovrebbe garantire sia la prima che la seconda. Senza volerla fare troppo lunga, sul concetto di libertà concordo pienamente con Isaiah Berlin, per il quale una persona è libera innanzitutto quando non è impedita di fare ciò che desidera fare da un atto o da un’omissione di un altro essere umano (la definisce “libertà negativa”). Per Berlin esiste però anche un’accezione più estesa del concetto, quella di “libertà positiva”, che implica che l’individuo non solo non subisca coercizioni da parte di altri, ma sia totalmente “autonomo” (alla lettera, “capace di governare se stesso”). Vale a dire che l’impedimento ad agire non gli deve venire neppure da ostacoli interni, come possono essere l’ignoranza, i desideri o le emozioni. Il che in teoria è molto vero, ma presuppone distinguere tra un soggetto autentico, interamente razionale e capace di dominare le passioni, e un Io empirico, condizionato dalle pulsioni naturali. Per la concezione positiva essere liberi significa accedere alla prima condizione, ovvero agire “moralmente”: ma, e qui nasce il problema, chi stabilisce cosa sia “moralmente” giusto? Perché se la normativa morale è dettata da altri, si è liberi in realtà solo di obbedirle.

Ora, Schiavone dice più o meno che quando la tecnica ricondotta alla sua originaria funzione ci avrà liberato dai condizionamenti, dagli impedimenti, dalle malformazioni che la natura ci riserva, e anche dalle inique differenze sociali ed economiche, ciascuno di noi potrà esprimere al meglio se stesso: ma la stessa tecnica gli fornirà anche la consapevolezza che in una società del genere la vera realizzazione individuale non può che coincidere con il benessere collettivo e con la sopravvivenza dell’intera specie. Quindi non saranno “altri” a dettare le norme morali, ma queste scaturiranno da una volontà collettiva concorde e razionalmente illuminata.

L’impressione che ho ricavato io dalla lettura è che qui non si parli più di un aggiornamento dell’etica, ma di una sua completa rifondazione. E se a decidere di ciò che è bene e ciò che è male fosse davvero la “soggettività della specie”, credo che nemmeno si potrebbe più parlare di etica, perché ci troveremmo in una condizione molto simile a quella degli insetti sociali. Con la differenza, certo, che quella condizione sarebbe ciascuno di noi a sceglierla, una volta messo in grado di decidere davvero del proprio destino e di capire cosa è meglio per lui, mentre gli insetti sociali rispondono ad una determinazione biologica: ma questo è comunque in contraddizione con quella difesa della diversità che l’autore rivendica costantemente, e presume anche una identificazione tra il bene individuale e l’utile collettivo che suona molto sospetta. Non sarei poi nemmeno così sicuro che tutti gli umani, anche messi di fronte ad una (discutibile) evidenza del “bene”, sceglierebbero di conseguenza.

Berlin invece la mette così: senz’altro la “libertà positiva” indica un livello di libertà superiore, ma la pretesa che esista una sola concezione universalmente valida del bene, e che quindi tutte le questioni etiche abbiano, almeno in linea di principio, una sola risposta corretta, sta purtroppo alla base delle tentazioni totalitarie. Tutti i grandi Utopisti (quelli con la maiuscola, che hanno immaginato – e qualche volta cercato di attuare – grandi disegni sociali) partono dal presupposto che una volta conosciuto il vero sistema morale potranno essere appianati tutti i conflitti e diverrà possibile creare una società perfetta, trovare un accordo universale su un unico modello di vita. Il paragrafo che riporto da “Due concetti di libertà” (1957) sembra scritto apposta per mettere in guardia contro gli entusiasmi un po’ facili di Schiavone:

Una credenza è più di ogni altra responsabile delle stragi di esseri umani sull’altare dei grandi ideali storici: giustizia o progresso o felicità delle generazioni future o la sacra missione o l’emancipazione di una nazione, di una razza o di una classe, o persino la libertà stessa, che esige il sacrificio degli individui perché sia libera la società. Si tratta della credenza che da qualche parte, nel passato o nel futuro, nella rivelazione divina o nella mente di un singolo pensatore, nelle solenni dichiarazioni della storia o della scienza, o nel cuore semplice di un uomo integralmente buono vi sia una soluzione finale”.

Per questo al “monismo morale” Berlin oppone il “pluralismo dei valori”, concetto sul quale peraltro, in una accezione più sfumata, insiste molto anche Schiavone. Entrambi sono coscienti che far coesistere valori diversi è tutt’altro che facile, ma prendono poi strade diverse quando si tratta di trovare una conciliazione. Il primo ritiene che questi valori siano delle creazioni storiche dell’umanità e non dei dati di natura, anche se alcuni – la libertà individuale in primis – attraversano tutte le culture. E che pur essendo in linea di massima i valori morali tutti validi, non sempre le diverse idee relative al bene e al giusto sono commensurabili. Il secondo crede invece che a una conciliazione si possa pervenire, proprio attraverso la grande trasformazione della quale stiamo scorgendo gli inizi. Parte cioè dalla posizione di Berlin, ma finisce poi bene o male in quella degli utopisti. Insomma, il discrimine sta nel fatto che Berlin accetta l’idea che la ‘natura umana’ sia costitutivamente imperfetta, e che a ciò si possa sia pure solo parzialmente ovviare mediando tra libertà positiva e libertà negativa, mentre Schiavone ritiene che l’imperfezione sia solo una condizione temporanea, destinata ad essere cancellata.

Tre manifesti 20

Il caso più clamoroso di incommensurabilità dei beni è per Berlin quello tra libertà e uguaglianza. “Libertà e uguaglianza – scrive – sono tra gli scopi primari degli uomini, ma libertà totale per i lupi significa morte per gli agnelli”. D’altro canto – come dice ancora – “nel loro entusiasmo per creare le condizioni economiche e sociali affinché la libertà sia un valore autentico, gli uomini tendono a dimenticare la libertà stessa; e se ci si ricorda di essa è facile che si spinga da parte per far posto a quegli altri valori che hanno assorbito i rivoluzionari o i riformatori”.

Quindi, anche valori di per sé imprescindibili possono non andare pacificamente assieme: bisogna prendere atto che l’uguaglianza e la giustizia sociale entrano in conflitto con la libertà individuale, così come l’ordine e la sicurezza confliggono con la tolleranza o la giustizia con la misericordia: perseguono fini diversi, che devono essere bilanciati con prudenza e moderazione.

Per Schiavone invece la vera libertà non esiste se non in presenza dell’uguaglianza (ma lo pensava già Condorcet). Egli fonda come abbiamo visto la sua concezione sull’esistenza (e sulla riscoperta) dell’universale umano – per cui occorre ridefinire l’idea di uguaglianza sulla base del carattere impersonale del soggetto intra-individuale che caratterizzerà la società del futuro. In un saggio precedente, intitolato proprio “Eguaglianza”, scrive che bisogna “cominciare a pensare a un nuovo patto di uguaglianza, per salvare il futuro della democrazia; […]. Un patto che sappia farsi programma politico […], e parta non dalla parità degli individui, ma dall’illimitata eguale divisibilità della cose […], da condividersi equamente fra tutti i viventi. Un patto stretto, non nel nome di una classe, o di un qualunque soggetto che per indicare sé stesso debba escludere altri dalla definizione […], ma del comune umano come soggetto e come valore includente e globale”.

Nella sostanza, la formula di mediazione potrebbe essere questa: per come è fatto oggi l’uomo, se una società vuole essere giusta deve promulgare delle leggi che impongano questa giustizia, negando di fatto la libertà. Se invece vuole essere libera deve eliminare qualunque restrizione alla libertà; cosa che, sempre considerando la natura attuale dell’uomo, porta inevitabilmente a storture e ingiustizie. Non sappiamo se e come evolverà questa natura domani, e nel caso, se ai termini libertà ed eguaglianza potremo attribuire gli stessi significati e lo stesso valore che diamo loro oggi.

È chiaro che tra le due concezioni mi riconosco molto di più in quella di Berlin. Quanto a “soluzioni finali” ne abbiamo già viste sin troppe, ed erano tutt’altro che ispirate al trionfo della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia e della democrazia. So bene che Schiavone ha in mente altro, che si limita a dire che possono crearsi “occasioni continue di comunione solidale rispetto a un patrimonio genetico, ambientale, culturale la cui unitarietà sostanziale è esaltata dal dominio di strumenti conoscitivi e operativi che lo padroneggiano e lo trasformano sempre più a fondo”. E che “si renderebbe possibile così la formazione, intorno a una serie definita di beni ritenuti indispensabili nelle condizioni storiche date, di spazi di condivisione che aggregano isole di eguaglianza nell’oceano multiforme delle diseguaglianze individuali”. Ma tutto questo rimane per forza di cose talmente vago da prestarsi a qualsiasi interpretazione: e anche lasciando perdere quelle che ne sono state date nel passato dai totalitarismi genocidi, è già sufficiente a farmi diffidare ciò che sento predicare dai vari Baricco e Maffesoli e dai postmoderni di complemento, che profetizzano l’avvento di una nuova “barbarie” a spazzare via le rovine della “modernità criminale”.

Nutro come Berlin una fiducia molto limitata nella essenza positiva della natura umana, e ritengo più importante per la nostra specie difendere gli ultimi ridotti di una civiltà sotto assedio piuttosto che attendere inerte l’arrivo dei nostri, di una tecnologia che venga a spalancare pianure di libertà. Sono convinto altresì che l’eguaglianza e la democrazia non si realizzano quando tutti vogliono le stesse cose, nemmeno se a suggerirle è la soggettività di specie, ma quando tutti per ottenere ciò che vogliono seguono le stesse regole. Naturalmente quando quelle regole le hanno dettate e accettate gli stessi che sono tenuti a rispettarle.

Penso infine anche che l’uguaglianza abbia a che fare solo con i diritti e con l’inviolabilità dell’esistenza di ogni essere umano: il “fondo umano comune” non ci rende uguali nelle caratteristiche corporee e nemmeno in quelle mentali. Come scrive Edoardo Boncinelli “come singoli siamo animali … il collettivo umano, e con esso l’individuo che gli appartiene, mostra un carattere storico ed è figlio di una continuità culturale che non ha l’eguale in nessun altro tipo di realtà. Di questa nostra ultima particolarità andiamo giustamente fieri, ma non è conveniente né proficuo ignorare i vincoli e le condizioni che ci limitano come singoli”. Che ci limitano, ma che alla fin fine ci rendono anche liberi, perché se la “soggettività globale della specie”, come la chiama Schiavone, o “l’identità collettiva postumana”, come la definisce Dugin, cancellassero la conflittualità tra i fini diversissimi che gli uomini perseguono, scomparirebbero la necessità e il tormento della scelta e con essa l’importanza centrale della libertà di scegliere. Non solo. La continuità culturale è quella che ha partorito il diritto, ma se si fonda l’uguaglianza dei diritti sul presupposto che siamo tutti uguali, non solo si proclama una falsità evidente, ma si creano le basi per rimettere in discussione l’uguaglianza dei cittadini ogni volta che si scoprisse tra loro qualche differenza biologica.

Basta. Mi accorgo che sto viaggiando verso la stesura di un quarto manifesto, e a questo punto non mi sembra proprio il caso (il che non significa che non abbia già in mente un’altra puntata). Anche perché ho perso completamente di vista il tema di partenza, quello del destino dell’Occidente. O forse ci ho solo girato attorno.

E allora taglio corto e lo riaggancio in extremis. I tre manifesti raccontano rispettivamente un funerale, un’agonia e un battesimo. La protagonista è sempre la stessa, la civiltà occidentale, ma ripresa da angolazioni ideologiche molto diverse, per cui i film che ci arrivano sono naturalmente discordanti. Io ho cercato bene o male di metterli a confronto. Chiunque può fare la stessa cosa, i testi sono disponibili, il primo solo in rete, gli altri anche nel formato cartaceo.

Aggiungo solo un’ultima considerazione. Parlando del compito che spetta all’Occidente (“Non solo tenere a battesimo un mondo nuovo […] ma completarne la fisionomia”) Schiavone è drastico: “Innanzi a un simile impegno non c’è nostalgia del passato che tenga; non c’è rimpianto per come eravamo che possa reggere […]”. Va bene, magari come sterile rimpianto per come eravamo o per come stavano le cose non terrà; ma questo significa ancora una volta pensare che nella storia agisca un’astuzia della ragione, una necessità che a posteriori giustifica – o condona – le nostre scelte, e condanna tutte le potenzialità che quelle scelte hanno escluso, riducendole a spazzatura abbandonata ai margini della strada. Ora, è chiaro che indietro non si può tornare, ma si può almeno guardare, purché si guardi nella direzione giusta, e non ad un passato immaginario come quello costruito da Jeffers e da tutti i nostalgici dell’Eden. Magari per rendersi conto a quale bivio si era intrapresa la direzione sbagliata; o, perché no, per frugare in quella spazzatura e verificare che non sia stato buttato qualcosa che ancora può risultare utile e vitale. Ed è lecito anche provare rammarico per le scelte non fatte, pur quando c’è consapevolezza che magari non avrebbero poi cambiato granché le cose.

Quanto a me, confesso di essere un nostalgico militante. Come un tempo i maschi ebrei ringraziavano ogni mattina Dio di non averli fatti nascere donne (non so se lo facciano ancora), io ringrazio quotidianamente il cielo di avermi fatto nascere qui, in questo luogo e in questo tempo. E mi spiace vedere il primo trasformarsi e il secondo trascorrere, vorrei poter fermare l’una cosa e l’altra, e nel mio piccolo faccio tutto il possibile per almeno rallentarle. Non parteciperò ai funerali dell’Occidente e diserterò il battesimo del mondo nuovo. E non mi sento ancora affatto spazzatura.Tre manifesti 21

Indicazioni bibliografiche

Le citazioni che compaiono in questo testo sono tratte da:

KINGSNORTH Paul, HINE Dougald, Uncivilisation. The Dark Mountain Manifesto, Oxford 2009

JEFFERS, Robinson, La bipene e altre poesie, Guanda, 1969

JEFFERS, Robinson, Cawdor, Einaudi 1977

DUGIN, Aleksandr, Contro il Grande Reset. Manifesto del Grande Risveglio, AGA 2022

DUGIN, Aleksandr, Una civiltà planetaria, Il Mulino 2022

SCHIAVONE, Aldo, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, Einaudi 2019

DE TOCQUEVILLE, Alexis, La democrazia in America, Rizzoli 1999

BERLIN, Isaiah, Il legno storto dell’umanità, Adelphi 1994

BERLIN, Isaiah, Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli 1989


Torna indietro

Il messaggio è stato inviato

Attenzione
Attenzione
Attenzione
Attenzione

Attenzione!