Le elezioni americane e noi

di Giuseppe Rinaldi, 18 novembre 2024

Pubblichiamo la tempestiva riflessione di Beppe Rinaldi sull’esito delle presidenziali americane, col consenso dell’autore e per gentile concessione del blog “Città futura”, dove questo breve saggio è già comparso. Inutile dire che un’analisi così puntuale ed esauriente non l’avevamo ascoltata in alcuna trasmissione televisiva o letta su alcun quotidiano. Di Trump si è parlato sin troppo, ma Rinaldi si è concentrato giustamente, con la lucidità impietosa che già abbiamo imparato a conoscere dagli altri suoi scritti postati nel sito dei Viandanti, sull’ “… e noi”, allargando lo sguardo ben oltre la specifica contingenza delle elezioni americane. L’invito che rivolgiamo ora ai quattro gatti che ci seguono è di farsi vivi con eventuali osservazioni, obiezioni o proposte alternative di lettura della vicenda. Questo non servirà a rendere meno drammatica la situazione che ci apprestiamo a vivere (e che in realtà stiamo già vivendo da un pezzo), ma almeno ci aiuterà a rimanere un po’ più svegli.

1. Le recenti elezioni[1] americane del 5 novembre 2024 – che hanno determinato la vittoria del repubblicano Donald Trump sulla concorrente democratica Kamala Harris – meritano qualche riflessione, poiché costituiscono senz’altro un evento rivelatore, non soltanto della situazione politico sociale degli USA ma anche delle prospettive della democrazia in Occidente e nel resto del mondo. Si tratta dunque di un evento che ci riguarda da vicino, ben più di quanto non sembri.

2. Personalmente, ammetto di avere sbagliato le previsioni. Sapevo bene come Trump fosse un candidato forte e pericoloso. Sapevo anche bene come la Harris fosse un candidato piuttosto debole, sia per la prestazione scarsa svolta come vice presidente, sia per l’avventurosa e sciagurata scelta dei Democratici di candidare prima Biden e poi di cambiare il candidato in corsa. La Harris non ha così avuto la possibilità di sfruttare il lungo processo delle primarie per farsi conoscere dagli elettori e mettere a punto il suo programma.

Tuttavia mi aspettavo, da parte degli elettori americani, una qualche reazione nei confronti di Trump, peraltro già visto all’opera, sempre più impresentabile, con la sua sfilza di denunce e condanne, con la questione giudiziaria pendente per l’assalto al Campidoglio da parte dei suoi seguaci. E con il suo atteggiamento nei confronti delle donne, con le sue spacconate da showman. Perciò mi aspettavo una vittoria di stretta misura da parte della Harris. Una vittoria che avrebbe potuto derivare da una specie di fronte di resistenza civile della parte migliore del Paese contro un candidato manifestamente pericoloso per i fondamenti stessi della democrazia americana. Mi aspettavo perciò anche un passaggio di consegne travagliato e lunghe contestazioni, magari su poche migliaia di voti. In altri termini, pensavo che il Paese dalla democrazia più vecchia del mondo avrebbe alla fine mostrato un residuo minimo di cultura civica democratica e sarebbe stato capace di reagire contro una minaccia così grave. Mi sbagliavo.

La vittoria di Trump è invece risultata netta e inequivocabile, non solo nella conquista dei delegati ma anche nel voto popolare. Trump ha ora in mano il Paese, avendo la Presidenza, avendo la maggioranza delle due Camere, avendo la Corte dalla sua parte. Avendo dalla sua oltretutto uno spoils system che produrrà un ricambio totale dei piani alti dell’Amministrazione. A questo quadro va aggiunta la presenza inquietante di Elon Musk, cui a quanto pare sarà conferito il compito di “alleggerire” lo Stato. Ci dobbiamo rassegnare: dell’America di Roosevelt non c’è neppure più l’ombra.

3. Certo, è stato da più parti sottolineato come gli avversari di Trump, i Democratici, guidati da una ristretta oligarchia di personaggi del tutto privi ormai di visione e di programmi, abbiano compiuto una serie incredibile di errori, consapevoli o meno che ne fossero. I Democratici avevano addirittura visto di buon occhio la candidatura di Trump nel campo repubblicano, con la convinzione di poterlo battere facilmente. Tuttavia, invocare come spiegazione della sconfitta le colpe dei Democratici sarebbe estremamente riduttivo. Al di là degli errori e delle carenze dei Democrats, evidentemente il sistema politico americano, nel suo complesso, non possiede più, al proprio interno, alcun antidoto efficace nei confronti delle tendenze anti-democratiche. I Repubblicani, dal canto loro, come partito tradizionale sono spariti, fagocitati dal movimento di Trump, il MAGA, (Make America Great Again!).

4. La cosa più preoccupante è che qui non siamo soltanto di fronte al caso americano. Non siamo soltanto di fronte ai limiti del sistema americano. Siamo evidentemente di fronte a un limite stesso dei sistemi democratici attuali, per lo meno in Occidente, che hanno mostrato di essere incapaci di reagire adeguatamente quando messi di fronte allo stile maturo del nuovo populismo. Il problema non è nuovo. Nel nostro Paese abbiamo ampiamente sperimentato il berlusconismo che aveva molti punti in comune con il Trump odierno e che addirittura, per molti aspetti, ha rappresentato una perfetta anticipazione del trumpismo. Dobbiamo costatare ormai che, in Occidente, le forme degenerate di democrazia (cui sono applicati nomi spesso fantasiosi, come democrazie autoritarie, democrature, sovranismi, democrazie del leader) sono sempre più diffuse, seppure con numerose varianti. E che si relazionano sempre più strettamente con le numerose altre democrazie border line ormai presenti in ogni angolo del Pianeta. Con queste ultime elezioni americane, la linea di tendenza è divenuta chiara.

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5. Se guardiamo questi esperimenti antidemocratici solo dal punto di vista del leader, dobbiamo rassegnarci a caratterizzarli col nome stesso dei leader, poiché ciascuno possiede caratteristiche proprie: trumpismo, berlusconismo, orbanismo, putinismo, erdoganismo, melonismo, mileismo (dall’argentino Javier Milei), bolsonarismo e così via. Possiamo metterci anche il lepenismo che non ha ancora governato in Francia ma che, probabilmente, vedremo all’opera ben presto. Ognuno ha il suo stile. Ognuno la sua storia. Ognuno i suoi caratteri idiosincratici. Ciò impedisce all’osservatore di identificare eventualmente i loro tratti comuni e impedisce di cogliere la questione di fondo: come è possibile che costoro siano democraticamente eletti, in un quadro di democrazia formale e poi, nella loro azione di governo, si esibiscano in provvedimenti anti istituzionali e anti democratici. Detto in altri termini, com’è possibile che le democrazie, invece di progredire e di maturare emendando i propri difetti, tendano oggi a scadere in circoli viziosi che danneggiano e indeboliscono sempre più le democrazie stesse. Spesso questi leader, nonostante il loro pessimo rendimento politico, sono felicemente rieletti, proprio com’è accaduto nel caso di Trump, di Berlusconi di Orban e di altri ancora.

6. Si tratta allora di cambiare il punto di vista. Si tratta di domandarsi com’è possibile che i cittadini elettori, in società ove sia presente un livello accettabile di democrazia formale, finiscano per eleggere, talvolta con maggioranze notevoli, dei personaggi che si atteggiano a leader popolari ma che nel contempo operano per distruggere le stesse fondamenta della democrazia. Il sospetto ormai è che non si tratti più di semplici errori dei cittadini elettori, dovuti ad astensione, distrazione, cattiva informazione, propaganda, creduloneria. Si tratta di prendere atto definitivamente dell’efficacia dello stile populista e, soprattutto, della più totale incapacità di reagire a questo stile da parte dei difensori della democrazia[2]. Del resto non si tratta di fatti rari o del tutto nuovi: è noto che alcune delle peggiori dittature del XX secolo hanno visto l’elezione degli stessi dittatori da parte del popolo e/o dei suoi rappresentanti. Non è il caso tuttavia di usare il solito appellativo di fascismo o totalitarismo nei confronti di questi nuovi populismi. Si finirebbe per non capire un bel niente. Proviamo allora a circoscrivere il problema: occupiamoci degli ultimi decenni e occupiamoci delle tendenze antidemocratiche che in vario modo hanno preso piede in molte delle democrazie, anche quelle di più antica e nobile origine. Con l’ipotesi che l’odierno Trump sia solo l’ultimo caso in ordine di tempo. Altri ne verranno.

7. Siamo in presenza, dunque, di trasformazioni regressive della democrazia che avvengono attraverso competizioni elettorali che possono anche essere formalmente regolari, sebbene siano sempre possibili anche brogli, forzature e simili. Perché si arrivi agli esiti delle maggioranze populiste che ci interessano, occorre una qualche forma di polarizzazione, con il conseguimento di una maggioranza che si contrappone a tutti, in nome del popolo. La retorica populista, con al centro il leader, tenderà ad avallare l’idea che la maggioranza costituita rappresenti l’intero popolo e che la volontà dell’intero popolo sia impersonata nel leader e nella sua cerchia. Non importa più di tanto se il movimento populista è orientato a destra o a sinistra. Il M5S in Italia ha ben rappresentato un populismo di sinistra, ma lo stile anti istituzionale era lo stesso. Le democrazie sono per loro natura pluralistiche. Ogni forma di polarizzazione dunque tende già di per sé a indebolire il pluralismo. Quando poi uno dei poli pretende di costituire la totalità siamo palesemente su una strada regressiva.

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8. Che cosa rappresentano effettivamente queste maggioranze populiste incarnate nel leader? La risposta tradizionale è che rappresentino degli interessi di tipo economico sociale. In genere si fa riferimento alle classi sociali coinvolte, che di volta in volta si ritiene di poter individuare e descrivere: operai, contadini, ceto medio, alta finanza, borghesia, militari, disoccupati, precari e così via. A volte si usano appellativi più fantasiosi: gli esclusi, gli emarginati, i danneggiati dalla globalizzazione, i dimenticati, i ceti medi sull’orlo della proletarizzazione, le fasce deboli, “Quelli che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese”. E così via.

Queste analisi potevano andare bene nel primo Novecento. Poi le cose si sono complicate. Il sociologo americano Ronald Inglehart[3] ha posto una linea di distinzione tra le società in cui la maggior parte della popolazione si confronta ancora con problemi di ordine materiale e le società in cui la maggior parte della popolazione gode invece di un relativo benessere e dunque può cominciare ad affrontare problemi di ordine immateriale. A cercare di soddisfare quelli che lui chiamava i bisogni post-materialisti. Così è accaduto che, con la crescita delle società occidentali, i portatori immediati di interessi “materiali” siano diventati via via meno numerosi, più evanescenti, lasciando il posto a una nuova configurazione sociale basata su distinzioni di tipo culturale. Accanto alle tradizionali differenze economiche e sociali, cosiddette di classe, hanno cominciato a comparire e a esser poste in primo piano altre differenze: differenze generazionali, di tipo religioso, di tipo linguistico, di tipo etnico, oppure anche differenze di genere. Si tratta di differenze che potremmo considerare non più di classe, bensì come identitarie. Ebbene sì, il benessere relativo diffuso in Occidente ha permesso a strati sempre più ampi il lusso di occuparsi di questioni identitarie.

9. Ma non basta. Andando ancora oltre, le identità si sono ulteriormente moltiplicate e suddivise secondo rivoli sempre più particolari. Spesso secondo linee di frattura di carattere etico[4]. Abbiamo avuto l’irruzione dei valori: i difensori della vita, i pacifisti, i difensori delle frontiere, i sovranisti, i beneficiari del reddito di cittadinanza o dei bonus, i negatori della crisi climatica e così via. Schierati, ovviamente, contro il nemico opposto: gli abortisti, i bellicisti, gli immigrati, i mantenuti a far nulla o gli sfruttatori delle regalie, gli ecologisti fondamentalisti. Ma poi abbiamo avuto anche – sociologicamente – delle linee di frattura che non rappresentano neppure interessi, identità o valori consapevoli, ma che semplicemente si limitano a registrare differenze in termini di distanza, separazione, repulsione, odio, rancore, stigma. Spesso si coagulano come atteggiamenti taciti che sono sempre in cerca di occasioni per esplicitarsi e scatenarsi. Ad esempio l’omofobia, il rancore verso le élite, l’antipolitica, ossia il rancore verso i politici (“Roma ladrona”), il rancore verso le istituzioni (il “pizzo di Stato”), la xenofobia, e così via. In questo quadro di istigazione e moltiplicazione delle divisioni, possono anche comparire stigmatizzazioni del tutto inventate, come quella trumpiana recente degli “immigrati clandestini che uccidono e mangiano i cani e i gatti dei nativi”. A questi elementi si possono aggiungere anche ulteriori forme di identificazione in termini meramente simbolici, come le curve dello stadio, il machismo, le ideologie estremistiche magari dotate di riferimenti storici nazifascisti. Oppure i movimenti fake nati in rete, come nel caso di QAnon.

10. Tutti questi elementi divisivi, e svariati altri la cui lista è senza fine, costituiscono la materia basilare grazie alla quale viene oggi orchestrata la propaganda populista, con la quale si cerca di unificare, dietro al leader e ai suoi slogan, una maggioranza di seguaci convinti, con la quale si cerca cioè di dare vita a un “popolo”[5]. Il tutto in un intreccio inestricabile che mette insieme rivendicazioni economiche, invidia sociale, supposti diritti violati, rivendicazioni identitarie, paure, rancori, pulsioni violente, rituali simbolici contro gli avversari. Le motivazioni al voto, di cui sono portatori i populisti e che coesistono nel loro “popolo”, possono così intrecciare cose diversissime, come la concorrenza sul mercato del lavoro, l’astio verso gli omosessuali, il costo della vita, la paura di essere aggrediti per strada, l’invidia sociale verso particolari tipi di privilegiati, emarginazione e frustrazioni personali, l’adesione credula a fake news, a narrazioni complottiste, e così via. Vale qui il principio di Thomas: nella vita sociale, ciò che è creduto è reale nelle sue conseguenze. Dal loro punto di vista, si può dire che abbiano tutti ragione. Il populismo, nelle sue narrazioni pigliatutto, cerca di agitare tutte le motivazioni possibili, almeno quelle compatibili tra di loro. E talvolta riesce anche a mettere insieme motivazioni incompatibili (che cioè si rivelano incompatibili solo alla prova dei fatti). Ci si dovrebbe ricordare di quelle tecniche di propaganda sui social media, che adattano il messaggio al profilo di chi lo riceve. Il profilo di ciascun destinatario viene costituito sulla base dei big data raccolti in rete. Steve Bannon era specializzato in lavori simili. Un caso macroscopico dell’uso di queste tecniche, che ha avuto pieno successo, è stato quello della propaganda per la Brexit, inscenata da Farage e dai suoi in Gran Bretagna.

In altri termini, dobbiamo convincerci che non c’è più la marxiana classe universale, quella che subendo l’ingiustizia più totale diventava rappresentativa dell’umanità nel suo complesso. Che poi era ciò che giustificava la lotta degli sfruttati e organizzava la loro azione nella storia. E veniva così legittimata a prendere il potere, magari anche con la forza. Ci sono solo più degli aggregati eterogenei di motivazioni tenute insieme dal collante generico e superficiale, per lo più emotivo, degli slogan prodotti dal leader e dalla sua propaganda. Strano a dirsi, ma la cosa funziona.

11. Tuttavia, per fortuna, non tutti finiscono nel mucchio. Osservando queste improbabili artificiose aggregazioni, ci possiamo domandare se ci sono ancora delle variabili di ordine generale, che possano dar conto di questi rassemblement, di queste molteplici e infinite motivazioni, magari anche contraddittorie, che si ritrovano insieme, un po’ come attratte da una calamita. La calamita ovviamente, più che un programma politico dettagliato, è il leader. La vecchia sinistra nostrana su questo punto ha una risposta preconfezionata: dietro a tutto ciò, ci sono le condizioni economiche. Il vecchio economicismo è sempre di moda e opera come una spessa fetta di salame sugli occhi che impedisce di vedere le cose come stanno. È il caso dunque di ribadire ancora una volta che le condizioni economiche e sociali, per quanto ancora importanti, non sembrano essere più una variabile fondamentale nella costituzione dei nuovi blocchi elettorali populisti. Non ci sono più movimenti e partiti di classe (anche perché le classi sono sparite). Abbiamo cominciato ad accorgercene quando gli operai italiani hanno preso a votare per la Lega Nord, hanno cioè deposto l’universalismo tradizionale della sinistra e hanno aderito a una nuova formazione particolaristica su base etnica. Una vera e propria mutazione. È ormai luogo comune come il cosiddetto “popolo” del Novecento si sia allontanato dai partiti di sinistra per approdare spesso ai partiti di destra o all’astensionismo[6]. Mentre i partiti di sinistra vedrebbero ormai soltanto più l’adesione del ceto medio alto, la cosiddetta “area ZTL”[7]. Di questa tendenza sono state trovate notevoli conferme empiriche.

12. Spesso s’incolpano i partiti della sinistra storica di avere abbandonato il loro “popolo”, avendo compiuto così un colossale errore nell’offerta politica. Un errore dovuto evidentemente a dirigenti che hanno preso a coltivare ideologie sbagliate. I loro programmi si sarebbero così “imborghesiti”. Può darsi anche ci sia qualcosa di vero, soprattutto per quel che concerne i dirigenti, ma è un dato di fatto che quel popolo, cui la sinistra tradizionale si rivolgeva con notevole successo, oggi non c’è più. O, meglio, è diventato un’altra cosa. Quel popolo ha subito nei decenni una colossale mutazione antropologica[8], tale che le proposte della sinistra tradizionale sono diventate per loro estranee e irricevibili. Qualcuno storcerà il naso, ma è sufficiente guardare come stanno le cose, al di là delle più pervicaci illusioni. Tra i seguaci di Trump, già ricco di suo, abbiamo Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo. Accanto a costoro, stretti nello stesso “popolo”, abbiamo però numerosi bianchi del ceto medio, numerosi black e latinos, e i poveracci crédule di QAnon, nonché la feccia degli assaltatori del Campidoglio. È il caso di ricordare che da noi, il ricchissimo Berlusconi, notoriamente, raccoglieva il voto presso i ceti popolari e le casalinghe (nonostante trattasse le donne con una certa disinvoltura).

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13. Allora, chi sono prevalentemente quelli che finiscono nel mucchio populista? Osservando la dinamica delle aggregazioni elettorali populiste, la variabile più rilevante in assoluto sembra essere costituita dalla dicotomia tra le grandi città e le località periferiche. Una volta si diceva città e campagna. Oppure centro e periferia. Talvolta – come per ragioni storiche in Italia – questa dicotomia prende anche la connotazione di nord e sud. Basta osservare una mappa del voto territoriale di qualsiasi Paese occidentale per rendersi conto del peso enorme di questa variabile.

Certo, ogni Paese ha le sue specifiche mappe. Ad esempio, la distribuzione elettorale di destra e sinistra in Francia vede l’opposizione tra città e campagna: la sinistra sta nelle grandi città, e nell’area di Parigi in particolare. Gli estremisti di destra si concentrano nelle aree periferiche e nelle campagne. Si pensi ai gilet gialli. Spesso si qualificano come “i dimenticati”. Oppure, si vada a vedere la distribuzione territoriale del voto per la Brexit in Gran Bretagna: la dimensione città/campagna è stata clamorosa. Nel caso americano poi – si vedano le mappe elettorali – abbiamo la contrapposizione tra le due coste con la concentrazione delle grandi città (New York e Los Angeles/San Francisco) che son sempre state la tradizionale area dei Democratici, insieme agli Stati attorno ai Grandi Laghi, ora persi. D’altro canto, gli stati centro meridionali, la Bible belt e la Rust belt che sono ora terreno dei Repubblicani. Per capire l’enorme divide tra questi mondi, si pensi che una quota spropositata di americani nella Bible belt non crede alla teoria darwiniana e preferisce sostenere il creazionismo. Pare che nella prossima amministrazione, a occuparsi della salute degli americani sarà un fondamentalista No-vax. I seguaci di Trump, contro ogni evidenza, tendono a negare il cambiamento climatico. Insomma, due Mondi sempre più estranei.

14. La seconda variabile decisamente rilevante nella caratterizzazione delle aggregazioni populiste è il livello di istruzione. Da tempo è noto che il livello di istruzione condiziona enormemente l’analisi e la elaborazione delle informazioni ricevute. Può spingere a credere o a non credere ai messaggi, alla propaganda, alle fake. Il livello di istruzione determina poi il livello della definizione dei propri interessi materiali e culturali, dal particolarismo legato prevalentemente alla bassa istruzione, all’universalismo legato invece alla istruzione più elevata.

Abbiamo poi la variabile delle generazioni, cioè l’età, sebbene questa in sé non sia molto significativa e lo diventi quando legata ad altri fattori. Ad esempio, nell’America odierna la popolazione dei giovani dei college e delle università ha caratteristiche sue proprie ed è generalmente più progressista. In taluni casi sono presenti forme assai radicali di universalismo. Ciò è dovuto al fatto che i giovani che vanno al college o alle università si devono per lo più trasferire e così sono in un certo senso risocializzati nel nuovo ambiente che di solito è progressista e politicamente corretto.

Abbiamo poi ancora variabili come il genere e l’etnia (specie se legata a minoranze) che possono – seppure non sempre – avere un peso rilevante. Nel caso americano s’è visto come gli immigrati si siano schierati nettamente a favore di Trump contro l’immigrazione clandestina, considerata fonte di concorrenza economica e di disordine. All’interno delle diverse etnie, i rapporti tra i generi sembra abbiano avuto un certo peso elettorale: maschi neri non avrebbero simpatizzato per una possibile Presidente donna nera. Più in generale, l’America è ricca di movimenti, magari anche progressisti, che tuttavia pare abbiano finito per promuovere fratture e divisioni. Addirittura reazioni anti-establishment. Si pensi a stay woke e a BLM (Black Lives Matters). In molti Stati americani ci sono programmi progressisti che hanno lo scopo di favorire le minoranze (nell’ingresso alle università, nei concorsi, nelle assunzioni nel pubblico e nel privato). Tuttavia ciò ha prodotto l’accantonamento del criterio del merito, scatenando così rancori e rimostranze da parte degli esclusi. Tutto ciò s’è visto alla perfezione nei risultati elettorali americani.

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15. Tuttavia, per completare il quadro della polarizzazione antropologica delle società democratiche, va riconosciuto che tutto questo calderone non sarebbe stato possibile senza l’effetto dei media e soprattutto dei nuovi media. Nel nostro Paese abbiamo avuto una chiara anticipazione del peso di questa variabile nella figura di Berlusconi e del suo impero mediatico, con il suo relativo enorme conflitto di interessi che le istituzioni democratiche non sono riuscite a fronteggiare. Sottolineo, en passant, che i conflitti di interesse sono senz’altro tra le cause più sottovalutate del degrado delle democrazie. I nuovi media stanno dando un enorme contribuito alla polarizzazione e alla compartimentazione delle società contemporanee. I media relazionali producono una sorta di effetto bolla per cui essi tendono a mettere in comunicazione principalmente persone che si somigliano quanto a caratteristiche di fondo, motivazioni, interessi, visioni del mondo, tipo di linguaggio. In Italia ha fatto scuola la auto selezione dei militanti operata sul blog in rete dal movimento di Grillo. Il risultato era che i grillini si somigliavano tutti e ripetevano tutti le stesse cose.

16. In particolare, nel caso americano, i nuovi media hanno contribuito pesantemente a differenziare e separare la cultura delle élite rispetto alla cultura dei ceti popolari. Per essere più precisi, hanno consentito, in particolare, alla cultura dei ceti popolari di esprimersi, di organizzarsi e di contrapporsi con successo alla cultura delle élite, la quale aveva avuto invece da sempre anche altri canali. La cultura delle élite è la cultura delle due coste, delle grandi città, del reticolo delle grandi università e dei centri di ricerca, delle grandi imprese private che operano nel campo delle nuove tecnologie, o della AI, come Google, Facebook, Microsoft, che spesso si rappresentano come progressiste, sottoscrivono e promuovono le discriminazioni positive a favore delle minoranze e la cultura woke e il politically correct.

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17. La cultura dei ceti popolari è invece sempre stata assai più frammentata, distribuita sull’immenso territorio e spesso compartimentata in termini localistici, etnici e di genere. Tuttavia anche tra i ceti popolari le nuove tecnologie hanno contribuito a costruire e a mettere in contatto le bolle comunicative locali. Senza le nuove tecnologie, un fenomeno come QAnon sarebbe stato impossibile. Lo stesso vale anche – si badi bene – per le bolle dei progressisti: senza i nuovi media non avremmo il politically correct, la cancel culture, stay woke, me too e quant’altro. Solo che le bolle dei progressisti numericamente finiscono per contare assai meno. Notoriamente le élites costiere sono percepite in modo assai negativo dai ceti popolari, tra i quali fiorisce un forte sentimento anti-establishment. A loro volta le élites mostrano spesso un senso di superiorità e paternalismo nei confronti di questi ultimi. Sono mondi che non si parlano e che, così facendo, favoriscono la polarizzazione populista. È chiaro che i populisti possono realisticamente aspirare ad avere il numero dalla loro parte, poiché le culture delle élite sono per definizione numericamente ristrette.

Prima dei nuovi media si poteva pensare che le élite potessero fungere da avanguardie, guadagnare un’egemonia sul resto del Paese. Dopo i nuovi media, l’egemonia delle élite è sempre più contestata, poiché le culture popolari sono divenute relativamente autonome. E si esprimono. Si esprimono spesso identificando un leader, come paradossalmente diceva Marx, che fosse transfuga dalla propria classe, che usa linguaggi volgari, che si comporta come un carrettiere, disprezza la legge e le istituzioni, e così via. Senz’altro, tra i transfughi di successo dalla loro classe, possiamo annoverare Berlusconi, Trump e Musk.

18. Sulla scorta di questi elementi analitici di ordine generale, possiamo ora provare a decrittare alcuni aspetti specifici della cronaca che abbiamo visto all’opera in queste elezioni. Non sarò del tutto sistematico, farò solo alcune osservazioni sparse, scelte tra le questioni che mi sono parse più rilevanti.

La volgarità paga. In questo quadro, è stato un grande errore ritenere – come hanno fatto i democratici – che i trascorsi giudiziari di Trump, unitamente al suo stile volgare, antipolitico, immorale e scandaloso, avrebbero contribuito a screditarlo presso l’opinione pubblica. È invece accaduto esattamente il contrario. Nell’America polarizzata e spaccata, il personaggio Trump è stato visto dal polo populista come elemento anti-establishment, come il castigamatti nei confronti dell’élite. Del resto, anche nel caso di Berlusconi, il suo comportamento border line, nel pubblico e nel privato, il suo anti-istituzionalismo non gli hanno mai fatto perdere il consenso. Le volgarità non hanno mai fatto perder consenso alla Lega, sia nella versione di Bossi sia in quella di Salvini. Il linguaggio da borgatara di Meloni e quello parafascista di parte della sua compagine di governo – per quanto susciti strilli e infinite contumelie da parte della opposizione – non intacca minimamente il consenso della destra.

I diritti civili e la difesa della democrazia non pagano. La concentrazione delle piattaforme elettorali democratiche intorno ai civil rights non paga, non fa vincere le elezioni. I civil rights sono per lo più percepiti come faccende delle élite. La Harris si è impegnata in particolare sulla questione del diritto all’aborto, un diritto della persona che riguarda le donne, cioè la metà elettorato. Un diritto che evidentemente non è stato considerato prioritario dalle elettrici. Molte avranno pensato che la questione non le riguardasse direttamente. Ugualmente, un’eventuale prima Presidente americana donna non ha costituito una retribuzione simbolica e morale tale da mobilitare le stesse donne. Il fatto di essere donna e nera pare poi abbia sfavorito la Harris presso taluni gruppi sociali, in particolare tra i maschi neri.

Anche la difesa delle regole della democrazia – cavallo di battaglia di Harris – pare non avere lasciato traccia. Inutile ricordare agli elettori americani la lunga sequela di reati, processi, scorrettezza in cui era incorso il candidato Trump. Inutile ricordare agli elettori che il candidato Trump – se eletto – avrebbe potuto concedere la grazia a se stesso, facendo di lui un cittadino diverso da tutti gli altri, dotato di privilegi estranei a qualsiasi altro. Come un monarca assoluto. Ciò in aperta violazione dell’etica repubblicana. Ma il Partito repubblicano odierno non si sofferma più su questi dettagli.

Insomma, la questione dei civil rights, della difesa della democrazia e delle istituzioni, è ormai divenuta distintiva della “sinistra ZTL”, destinata a rimanere sempre più una minoranza, di chi abita le città, di chi ha elevata istruzione e reddito elevato.

Progressisti senza cultura politica. Anche se in Italia la questione è poco conosciuta, i Democratici e i progressisti americani (siamo dentro le élite dunque) hanno tagliato i ponti con la loro tradizionale cultura politica e hanno aderito a una specie di subcultura comunitaristica[9] dei diritti e delle pari opportunità declinata non più in termini universalistici, come diritti e pari opportunità del cittadino, bensì in termini particolaristici, come diritti e pari opportunità degli innumerevoli gruppi e minoranze che si sono via via costituiti, in base alla lingua, alle preferenze sessuali, al colore della pelle, al genere. E si battono per il riconoscimento. In questo ambito si sono sviluppati vari movimenti, come il politically correct, la cancel culture, Me Too, Stay Woke, LGBTQ(ecc.), Black Lives Matters e così via. Si tratta di movimenti che senz’altro hanno avuto all’origine radici democratiche e progressiste, ma che hanno subíto varie degenerazioni fondamentaliste. In un suo recentissimo saggio intitolato Il follemente corretto[10] il sociologo Luca Ricolfi ha descritto, analizzato e stigmatizzato questi movimenti, mostrandone le conseguenze devastanti in termini di disgregazione politica, sociale e culturale. Trump ha avuto buon gioco a usare la propria totale “scorrettezza” contro queste forme degeneri e modaiole di elitarismo. È appena poi il caso di sottolineare che la correctness nordamericana ha origine nella elaborazione delle filosofie postmoderne e nella importazione del poststrutturalismo europeo. Ma di questo tratterò eventualmente altrove.

Le improvvisazioni si pagano. Va poi osservato che la tattica dei democratici è stata disastrosa. Purtroppo qui ha pesato la mancanza di una struttura di partito di qualche rilievo (tipica dei partiti americani) capace di esaminare la situazione, di definire una strategia e di prendere le decisioni. Di fatto i democratici americani sono ridotti a una stretta oligarchia di pochi personaggi che sono titolati a decidere a prescindere. È mancata poi, in campo democratico, una seria analisi del quadriennio di governo di Biden, che invece è stato fatto a polpette dalla propaganda di Trump. È mancato il tempo e il modo, per la Harris, di differenziare ove necessario il suo nuovo programma da quello di Biden. Su alcune questioni, Biden si è limitato a portare avanti l’impostazione del Trump I, soprattutto sulla questione della immigrazione. E anche in politica internazionale.

La questione internazionale conta. Harris si è trovata ad avere le mani legate – nella campagna elettorale – anche a causa della situazione di indecisione nella politica estera condotta da Biden e a causa dei diversi gruppi di pressione presenti nell’area dei democratici. Del resto, la Presidenza di Biden era cominciata proprio con la disfatta afghana, che tuttavia era stata accuratamente preparata dal pacificatore Trump I e che Biden ha eseguito pedissequamente nella maniera più becera. Biden è riuscito a farsi accusare, anche dai suoi sostenitori, di essere un guerrafondaio in Ucraina e di essere un complice dei massacri condotti da Netanyahu a Gaza. Per paura di perdere sostenitori, il messaggio di Harris è stato confuso e indeterminato, a differenza di Trump che ha promesso di far finire le guerre in un battibaleno. Così i democratici in politica estera hanno finito per scontentare tutti. È chiaro che, in generale, dopo la loro opzione fallimentare per la globalizzazione, i Democrats non hanno più un’idea chiara e salda di politica internazionale. Per Trump e i suoi seguaci è stato molto più semplice sventolare la pace: farsi i fatti propri e darci dentro col MAGA (Make America Great Again). Basta che a pagarne le spese siano gli altri.

Manco a dirlo – lo dico qui solo en passant – tutti questi aspetti dovrebbero essere attentamente considerati anche nel nostro Paese, da quelle forze che intenderebbero operare per la difesa della democrazia dalle tendenze antidemocratiche.

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19. Tra le conseguenze più importanti di queste elezioni americane, ci saranno notevoli cambiamenti nella politica estera. In seguito alla vittoria di Trump, è il caso di domandarsi cosa potrebbe accadere nelle relazioni tra USA e il resto del mondo. Vediamo. Per avere un’idea grezza di come si svilupperà la politica internazionale americana, basta vedere chi sono coloro che hanno esultato per la vittoria di Trump. Pare che Alexandr Dugin, il filosofo russo rossobruno più estremista di Putin, abbia esultato per la vittoria di Trump. Putin dal canto suo sta dichiarando aperture pacifiste a più non posso, ovviamente alle sue condizioni. Praticamente siamo all’esordio del trumputinismo. In effetti, nella visione distorta di Dugin, il populismo occidentale è sempre stato considerato come il migliore alleato dell’euroasiatismo.

Anche i pacifinti[11] nostrani hanno esultato, convinti che Trump, in politica internazionale, facendo l’isolazionista e mettendo così da parte l’imperialismo americano, sarà pronto a “fare la pace” con la Russia (molti pacifinti nostrani hanno sempre pensato che la guerra in Ucraina fosse una guerra differita degli USA e della NATO contro la Russia). Ovviamente il tutto avverrà a spese di Kiev (e del diritto internazionale), che sarà disarmata e ricondotta a più miti consigli, oltre che territorialmente amputata. Finalmente qualcuno che sarà in grado di mettere a posto Zelensky e i suoi nazi! Nella retorica trumpiana, i Democratici fanno le guerre, mentre i Repubblicani trumpisti le faranno finire. Si prospetta dunque lo strano caso dei pacifisti filotirannici che vedremo presto all’opera, anche e soprattutto nel nostro Paese[12].

Anche Netanyahu pare abbia esultato, poiché ormai nulla si frapporrà al suo progetto massimalista e colonialista di un Israele esteso dal Giordano al mare. Il recente licenziamento di Gallant è un segnale abbastanza chiaro. Il progetto dei “Due popoli, due Stati”, con cui la nostra falsa coscienza occidentale si è baloccata per ottant’anni, è ormai divenuto impossibile. I palestinesi, col contributo suicida determinante di Hamas, hanno perso la loro tragica partita e faranno la fine degli indiani americani. Non che i Democrats fossero stati difensori convinti della causa palestinese, la prova è che hanno sempre foraggiato Israele con le armi, lasciandole ogni libertà di azione, ma almeno hanno tentato di mettere in atto un’azione calmieratrice, seppure alquanto ipocrita e nei fatti alquanto inefficace.

20. Xi è senz’altro un altro di coloro che hanno gioito per la vittoria di Trump, anche se i cinesi sono più composti, educati alla vecchia scuola, e sanno ancora controllare le emozioni. I prossimi quattro anni trumpiani – considerato anche in che stato critico è la Russia e lo stato comatoso in cui è ridotto l’ONU – costituiscono una perfetta finestra di tempo, una occasione insperata, per la Cina, di regolare i conti con Taiwan, con le buone o con le cattive. Il che potrebbe comportare, a tempi relativamente brevi, una nuova fonte di instabilità nel Pacifico. Non solo di tipo militare, ma anche di tipo economico, visto il ruolo rilevante che i prodotti tecnologici di Taiwan hanno per l’economia mondiale. Dopo la crisi dovuta alla fornitura del gas russo, avremo con buone probabilità la crisi dovuta alla carenza dei chip di Taiwan.

Sicuramente poi a livello di opinione pubblica avranno esultato i negazionisti del cambiamento climatico e le lobby dei combustibili fossili. Assieme a tutti i No-vax. Tutti coloro che ritengono che la transizione ecologica sia solo una futile moda di élite che si vorrebbe imporre a tutto il mondo per oscure finalità. Trump ha detto chiaro quello che pensa sugli Accordi di Parigi sul clima.

Gli altri esultanti, per ora, a livello di Stati -nazione sono senz’altro di rango minore. Ma tutti insieme costituiscono una bella banda. Sono tutti gli aspiranti facenti parte della internazionale populista e sovranista, quella che era stata messa in piedi proprio da Steve Bannon e che ora risorgerà a nuova vita. Per tacere di Orban e del nostro Salvini, magari comprendendo anche il M5S, non possiamo evitare di citare Bolsonaro, sempre attivo, oppure personaggi come l’argentino Milei.

21. Se c’è qualcuno che invece non può proprio gioire è la UE. I rapporti tra USA e UE sono stati sempre problematici, poiché interesse degli USA, in generale, è sempre stato di avere una Europa debole e divisa. Non è chiaro quel che farà Trump, data la sua imprevedibilità, anche se, da quanto annunciato, verranno al pettine sicuramente due questioni: la questione della difesa e la questione dei dazi.

Per ciò che riguarda la difesa, l’Europa sarà inevitabilmente tenuta a investire maggiormente nelle spese militari e a cercare di costituire una forza militare europea, di cui tanto finora si è parlato senza nulla concludere. Su questa questione, che è di una ovvietà totale, la politica europea sembra però paralizzata. È il caso di tener conto che in UE ci sono anche quelli che vorrebbero smantellare la NATO. Si prospettano dunque quattro anni di vuote discussioni ed eventualmente di realizzazioni puramente di facciata. Quattro anni in cui l’Europa si giocherà definitivamente la propria posizione internazionale. In ogni caso, questi tentennamenti costituiranno di fatto un indebolimento della difesa europea, tanto da incoraggiare le pressioni della Russia sui vari numerosi punti critici, quelli che tutti fanno finta di non vedere, dai Paesi baltici a Kaliningrad, alla Moldavia e alla Transnistria, fino alla Georgia.

Nel campo del commercio internazionale Trump ha enunciato con chiarezza quale sarà la sua politica. Una specie di miope ritorno al mercantilismo pre-liberista: esportare le proprie merci ed evitare di importare le merci degli altri. Una furbata colossale. I dazi americani nei confronti dell’Europa comunque ci saranno (nonostante l’“amica” Meloni), per cui l’Europa dovrà prendere delle decisioni radicali circa la sua struttura produttiva e finanziaria e la propria posizione nel mercato mondiale. E l’Europa non ha attualmente neppure la struttura politica adeguata che sarebbe indispensabile per questo compito.

Le elezioni americane e noi 08

22. Se l’analisi che abbiamo svolto fin qui ha qualche fondamento, la vittoria di Trump dovrebbe allarmare alquanto quel che è rimasto del fronte democratico internazionale, almeno in Occidente. Dovrebbe allarmare anche e soprattutto i nostri democratici italiani. Cioè, quel gruppo eterogeneo di partiti e partitini più o meno di sinistra, che, nel tracollo di mezzo mondo, il massimo che stanno a fare è di concentrarsi sulla luminosa prospettiva del campo largo. Come già detto in esordio, si tratta di prendere atto ormai che il populismo funziona. Nelle democrazie più vecchie come in quelle più recenti. In ciò dobbiamo rivedere tutta la nostra storia recente. Il populismo che abbiamo sperimentato finora non è stato una parentesi. Non lo si può più considerare un incidente di percorso (come molti avevano fatto col primo Trump. O con il nostro Berlusconi che, erroneamente, abbiamo considerato come una storia lunga ma ormai conclusa[13]). Le mutazioni antropologiche delle democrazie hanno reso possibile questa nuova forma di populismo e l’hanno resa oltremodo efficace.

23. Oltretutto, i nuovi populisti sono in una botte di ferro, poiché i loro oppositori, chiamiamoli Sinistra, Democratici, oppure Progressisti, se vogliono restar tali, non possono usare lo stile e il metodo populista. Sarebbe paradossale combattere le tendenze anti democratiche usando stili e metodi antidemocratici. A meno che non si intenda adottare la prospettiva di Popper. Il quale sosteneva, appunto, che non si possono usare metodi democratici con gli anti democratici (quando Popper scriveva, però c’erano i nazisti). Credo che in linea teorica avesse perfettamente ragione. Soprattutto nel campo della politica internazionale. Tuttavia applicare oggi il metodo di Popper nelle democrazie populiste, per contrastare le tendenze anti democratiche, esporrebbe a gravi forme di conflittualità interna che non ci possiamo permettere. Sperando che la situazione non degeneri così tanto da rendere necessaria una reazione dura di resistenza.

Se non possiamo usare oggi il populismo contro il populismo, allora si tratta anche di considerare che il populismo di sinistra – di cui si è parlato fino alla noia[14] e di cui abbiamo ottimi esempi – è una palese contraddizione in termini, anche se momentaneamente e localmente può anche funzionare. La tentazione di combattere il populismo di destra alleandosi con il populismo di sinistra (tentazione ben presente nel nostro Paese) non tien conto del fatto che il metodo populista di per sé erode la democrazia. Sempre e comunque. I democratici allora sono con le spalle al muro. E lo saranno sempre di più. E ciò è divenuto perfettamente visibile. Stando così le cose, la destra populista vincerà sempre.

24. Come se ne esce? Occorre considerare, allargando un poco lo sguardo, che la mutazione antropologica di cui s’è detto ha prodotto, in sostanza, la evanescenza del citoyen. Gli elettori dei rassemblement populisti sono dei citoyen dimezzati[15]. Uso qui il termine originario francese citoyen per sottolineare il fatto che si trattava, sia teoricamente sia praticamente, di un tipo umano ben preciso. Quello che ha permesso la sostituzione della dimensione verticale della politica, la sudditanza, con la dimensione orizzontale, cioè la cittadinanza[16]. La costruzione del citoyen della democrazia ha richiesto un lungo percorso storico, assai faticoso e non privo di incognite. Erroneamente si pensa che il citoyen sia un dato di fatto, una specie di prodotto naturale. Basta esser nati in uno Stato nazionale e si è per ciò stesso cittadini. I marxisti poi hanno sempre pensato che il cittadino fosse un elemento sovrastrutturale superfluo, illusorio e ingannevole. Il cittadino sarebbe finito con l’eliminazione dello Stato nel comunismo. Invece il citoyen è un raro prodotto storico, un prodotto che può realizzarsi solo in determinate condizioni, attraverso una lunga fase di formazione, anche sulla base di precisi e generosi investimenti delle istituzioni pubbliche. Condorcet è stato uno dei primi a rendersi conto che i cittadini dovevano essere formati, costruiti come corpi artificiali[17]. Schiere di studiosi hanno esaminato con cura i contesti storici e culturali in cui questa formazione è stata possibile[18]. Ma sono stati per lo più ignorati.

In realtà, accade sempre che i citoyen rendono possibile l’esercizio della democrazia e a, sua volta, la democrazia esercitata dovrebbe produrre e riprodurre in forma allargata i citoyen stessi. Ebbene, si tratta di prendere atto del fatto che questi processi virtuosi stanno vistosamente smettendo di funzionare, almeno in ampi settori delle società democratiche. So che dalle nostre parti l’antiamericanismo pregiudiziale è ancora molto diffuso. Gli antiamericanisti cronici si stanno fregando le mani, ma costoro non si rendono conto che, furbi come sono, stanno segando proprio il ramo su cui sono seduti.

25. I partiti democratici nelle democrazie occidentali, quale che sia la loro tradizione, sono del tutto impreparati di fronte alla mutazione antropologica di cui s’è detto e all’insorgere del nuovo populismo. Questo perché il populismo erode la formazione dei loro i citoyen e li trasforma in una moltitudine di estranei, ciascuno chiuso nella sua bolla comunicativa, in costante ricerca di una appartenenza virtuale al mondo simbolico artificioso messo in piedi dal leader. In un simile contesto non è più possibile alcun dibattito pubblico razionale intorno al bene comune, come voleva Rousseau. Diventa impossibile una opinione pubblica come quella preconizzata da Habermas. Diventa possibile solo un’adesione individuale al “popolo” per lo più di carattere emotivo, sulla base di una informazione limitata e spesso distorta. L’adesione avviene per le motivazioni più eterogenee, sulla base di interessi per lo più particolaristici, legati a situazioni specifiche e subordinati alle miriadi di frammenti virtuali di discorso che si producono ogni giorno. Diceva Umberto Eco che, prima della rete, le chiacchiere da bar degli avvinazzati restavano tali e non facevano danni. Dopo la rete, qualsiasi chiacchiera, per quanto assurda, può essere riprodotta e ricevere milioni di Like!. Può cioè costituire un popolo, buono a tutti gli usi.

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26. Se questo è vero, per le nostre forze democratiche, invece di continuare a concentrarsi sulla recita del campo largo, cui non crede più nessuno, e che comunque lascerebbe sempre vincere alla destra, si tratterebbe di prendere il toro per le corna. Si tratta di affrontare proprio quella mutazione antropologica di cui s’è detto, che sta dando ovunque il potere ai populisti. Le mutazioni non sono inesorabili. Ma intanto bisogna vederle, capirle e cominciare a combatterle. Non possiamo più permettere che i nostri citoyen siano sistematicamente corrotti (è proprio questo che avviene) e cadano nelle mani dei populisti come utili idioti.

Come si fa? Finché i democratici o progressisti saranno “sinistra ZTL”, per di più divisi, rissosi e privi di una cultura politica di qualche rilievo, non vinceranno mai e non combineranno niente di buono. Occorre una vera e propria rivoluzione culturale nel campo democratico. Le elezioni americane e le vicende dei Democrats americani come s’è visto, hanno parecchio da insegnare. Ma facciamo un esempio specifico, d’altro genere ma assai pertinente. Lo psicologo sociale Jonathan Haidt ha pubblicato una sua ricerca, davvero impressionante, che ha fatto discutere mezzo mondo[19]. È stata ora appena pubblicata in Italia. In soldoni, Haidt dimostra che l’uso dello smartphone e dei social da parte degli adolescenti produce danni gravissimi al loro sviluppo emotivo e cognitivo, fino a determinare un preoccupante aumento di disturbi psichiatrici e un aumento dell’autolesionismo e perfino del suicidio. Questo è un piccolo esempio di quello che ho chiamato mutazione antropologica. Ebbene, Haidt fa una serie di proposte radicali per ovviare alle problematiche denunciate. La più significativa, perfettamente fattibile, è proibire lo smartphone ai minori di 16 anni. Un piccolo passo per rientrare dalla mutazione. Ce la sentiamo?

27. Fuor di metafora, cosa possiamo fare per ricostituire i nostri citoyen? Si noti che è indubbio che si tratta di ricostruirli. Altrimenti saranno sempre pronti a seguire il primo Trump che passa. C’è un lavoro di lungo periodo che bisogna incominciare a fare, al di là delle contingenze della politichetta quotidiana. E questo lavoro possono farlo solo i democratici, quelli che sono rimasti. In primo luogo, i democratici devono riscoprire una cultura politica autentica della democrazia e devono fare una seria autocritica per quel che sono attualmente diventati. Secondariamente, si tratta di ricostruire la cultura civica della democrazia, quella che è stata devastata dalla mutazione antropologica e che rischiamo di perdere per sempre. In terzo luogo si tratta di ricostruire il capitale sociale, quella modalità relazionale fondamentale a livello locale che i populisti, nella loro illusione di unione totalizzante col popolo e col leader, distruggono sistematicamente. Cosa implica in pratica tutto ciò? Non ho spazio qui per affrontare la questione. Ci vorrebbe un altro saggio. Per intanto, sarebbe importante l’acquisizione di ciò che siamo andati sostenendo nella nostra analisi. Le elezioni americane ci stanno semplicemente spiegando che, senza un urgente e radicale cambiamento da parte dei democratici, non ci sarà più alcun futuro per la democrazia.

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Opere citate

2024 Haidt, Jonathan, The Anxious Generation, Penguin Press, New York. Tr. it.: La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli, Rizzoli, Milano, 2024.

2020 Henrich, Joseph, The WEIRDest People in the World, Farrar, Straus and Giroux. Tr. it.: WEIRD. La mentalità occidentale e il futuro del mondo, Il Saggiatore, Milano, 2022.

1977 Inglehart, Ronald, The Silent Revolution, Princeton University Press, Princeton. Tr. it.: La rivoluzione silenziosa, Rizzoli, Milano, 1983.

2018 Mouffe, Chantal, For a Left Populism, Verso, London. Tr. it.: Per un populismo di sinistra, Laterza, Bari, 2018.

2017 Ricolfi, Luca, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano.

2022 Ricolfi, Luca, La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, Rizzoli, Milano.

2024 Ricolfi, Luca, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, Milano.

2021 Wagenknecht, Sahra, Die Selbstgerechten. Mein Gegenprogramm – für Gemeinsinn und Zusammenhalt, Campus Verlag GmbH, Frankfurt am Main. Tr. it.: Contro la sinistra neoliberale, Fazi Editore, Roma, 2022.

Note

[1] Questo saggio ha origine da una serie di appunti che ho preso mentre seguivo la maratona elettorale del bravo Mentana (su La 7). A partire dall’evento in diretta, ho poi sentito l’esigenza di formulare una qualche spiegazione di quel che stava accadendo. Si tratta ancora di riflessioni grezze, che avranno bisogno di ulteriori approfondimenti. Ringrazio gli amici di Città Futura, con i quali ho avuto occasione di discutere l’esito elettorale americano. Naturalmente, la responsabilità di quanto qui sostenuto è solo mia.

[2] A questo punto sento il ruggito dell’imbecille di turno: “L’ho sempre detto io, che la democrazia non funziona!”.

[3] Cfr. Inglehart 1977.

[4] Ne ho parlato in un mio saggio recente pubblicato su Città Futura. Cfr. sul mio Blog: Finestre rotte: Toh, chi si rivede. Etica e politica!

[5] In un mio saggio del 2017 mi sono occupato in dettaglio del populismo. Cfr. Finestre rotte: I soggetti del populismo.

[6] Cfr. Ricolfi 2017 e Ricolfi 2022.

[7] Cfr. Wagenknecht 2021.

[8] Naturalmente mi riferisco alla antropologia culturale, sebbene alcuni studiosi abbiano sostenuto la presenza anche di inquietanti mutazioni di ordine psicofisiologico.

[9] Il riferimento va qui al comunitarismo nord americano, che è una filosofia ivi alquanto diffusa e che sostiene che i soggetti della democrazia non sono gli individui bensì le comunità, le quali devono ottenere dallo Stato il riconoscimento.

[10] Cfr. Ricolfi 2024.

[11] Il termine “pacifinto” è nato come termine spregiativo in occasione degli accesi dibattiti intorno alla guerra tra Russia e Ucraina e serviva a sottolineare il fatto che la volontà di pacificazione di costoro era tale da prescrivere la resa immediata dell’Ucraina (col rischio anche di una sua sparizione dalla carta geografica) e dunque tale da determinare una pace ingiusta, accettando come un dato di fatto la forza superiore della Russia (e i suoi dati per scontati interessi “imperiali”). Personalmente, pur criticando questo tipo di pacifismo, mi sono sempre rifiutato di usare questo termine, proprio per il fatto che esso veniva usato più come strumento di offesa che come strumento di analisi. Ora possiamo invece intravvedere effettivamente uno schieramento amplissimo di forze – a livello internazionale e a livello nazionale, di destra e di sinistra – che sosterranno questa posizione, ovviamente ai danni della autodeterminazione della Ucraina e ai danni di qualsiasi sopravvivenza dell’ONU. Dunque, poiché ormai il fatto c’è, il termine è destinato a divenire un termine descrittivo, perfetto descrittore dei tanti creduli promotori di una pace fasulla. Un altro motivo che mi ha indotto all’utilizzo descrittivo del termine è il fatto che i pacifinti della prima ora erano tutti intenti a predicare che qualsiasi invio di armi fosse sicuramente controproducente, da non farsi anche a costo di indurre, per ciò stesso, alla resa gli aggrediti. Ebbene, in seguito ai fatti di Gaza, non ho sentito nemmeno uno dei pacifinti – oltre alla dovuta condanna di Hamas – battersi per sospendere qualsiasi rifornimento di armi a Israele, visto l’uso che Israele ha fatto, sta facendo e farà di quelle armi. Più finti di così! Secondo costoro, mentre l’Ucraina non è legittimata a difendersi, Israele è legittimata a usare la forza “per difendersi” come meglio le aggrada, fregandosene del diritto internazionale e dell’ONU. Si è arrivati a sostenere che l’ONU sia antisemita. Che a Gaza e altrove ci sia stato un uso sproporzionato della forza non lo dico solo io. Su queste basi equivoche, si costruirà il trumputinismo nostrano. Prevedo già che qualcuno ci farà sopra un bel movimento e magari si presenterà anche alle elezioni.

[12] I pacifisti filotirannici sono quelli che concepiscono l’uomo in termini hobbesiani, come naturalmente incapace di vivere pacificamente. L’unica pace possibile, per costoro, è la sottomissione a un tiranno cui sono concessi tutti i poteri, compreso il potere di vita e di morte. Ci si aspetta la pace dal tiranno perché si ritiene che costui, avendo già tutto, non sia spinto a togliere la vita ai sottomessi. Tuttavia c’è il piccolo inconveniente di trovarsi a fare un patto con un tiranno, il quale a rispettare i patti non è tenuto. Beninteso, l’assolutismo hobbesiano è una rispettabile teoria politica, che poteva anche essere adeguata ai suoi tempi. La quale tuttavia pare non abbia mai garantito la pace. Ai tempi nostri, i pacifisti filotirannici rientrano nel prototipo dei servi del potere. Spesso, di mestiere, fanno a vario titolo gli intellettuali.

[13] Il berlusconismo è più vivo che mai. Meloni e Salvini ne sono i continuatori.

[14] Vedi Mouffe 2018. Ho sviluppato una critica alla nozione di populismo di sinistra nel mio saggio Populisti, Ircocervi e Sarchiaponi. Cfr. Finestre rotte: Populismi, ircocervi e sarchiaponi.

[15] So bene che affermazioni del genere possono condurre alla facile accusa di elitismo. Nelle mie parole non c’è alcun disprezzo morale nei confronti degli elettori populisti. C’è solo la costatazione che le loro scelte alimentano di fatto le tendenze antidemocratiche.

[16] La distinzione è di Steven Lukes.

[17] Per questo alcuni individualisti fondamentalisti hanno accusato la democrazia di essere totalitaria.

[18] Questi temi sono stati trattati da giganti del pensiero come Tocqueville e Max Weber. In ordine di tempo, si veda Henrich 2020.

[19] Cfr. Haidt 2024.

Il legno storto

Una dieta ricostituente. Ho chiesto a Beppe Rinaldi l’autorizzazione a riportare sul sito dei Viandanti delle Nebbie due suoi recenti saggi, già postati nel blog Finestre rotte. Il link che rimanda a Finestre rotte compare da tempo nella home page dei Viandanti, e a quello avrei potuto semplicemente indirizzare: ma ho ritenuto opportuna in questo caso anche la pubblicazione diretta, per più di una ragione.

In primo luogo perché ritengo che questi scritti abbiano una rilevanza intrinseca assoluta: ultimamente ho letto ben poche cose di questo livello (forse nessuna) e mi pare dunque doveroso pubblicizzarli e renderli disponibili il più possibile. La nostra non sarà una gran tribuna, ma è comunque una “finestra” in più.

In secondo luogo perché ho egoisticamente “calcolato” (eccola la “ragione calcolante” tanto aborrita dai post-moderni) che la loro pubblicazione avrebbe alzato decisamente il tiro e il tono del nostro sito, negli ultimi tempi piuttosto moscio.

Infine perché questi scritti costituiscono una sfida, alla nostra intelligenza e alla nostra capacità di concentrazione: stiamo rammollendo i nostri cervelli, nutrendoli di pappine omogeneizzate e precotte che non richiedono alcuno sforzo nell’assunzione e nella digestione, ma atrofizzano le nostre papille gustative e il vello intestinale. I risultati purtroppo si vedono, non solo in tivù o nell’informazione cartacea, ma nella impossibilità di un qualsivoglia confronto serio nel dibattito “domestico”, conviviale, socratico, chiamatelo un po’ come volete. Questi saggi vanno in una direzione diametralmente opposta: esigono impegno nella lettura e coerenza nella riflessione. Li ho letti una prima volta, mi hanno colpito e li ho riletti, non perché temessi di non aver capito – si capisce tutto benissimo, ogni argomento è spiegato e sviscerato come meglio non si potrebbe – ma per assicurarmi di non aver saltato alcun passaggio. Ora li ripropongo agli amici, appunto come una sfida, come stimolo a rompere un po’ la linea sulla quale si va appiattendo il pensiero.

Gli scritti di Beppe mi sembrano costituire il miglior campo base per ogni eventuale tentativo di risalita. Le sue argomentazioni e le idee ad esse sottese possono essere condivise in toto, com’è nel mio caso, oppure discusse e contestate: ma se si vuole chiudere la ricreazione e tornare allo studio serio non si può prescinderne.

Spero dunque sia evidente che non propongo questi saggi come testi sacri, novelli Atti dei Viandanti, o come manifesti programmatici del sodalizio: li promuovo a titolo personale, me ne assumo ogni responsabilità, e li concepisco come strumenti per tornare a far lavorare un po’ i nostri cervelli. Sono strumenti che vanno dalla pinzetta da orafo al martello pneumatico, per cui ci sarà da divertirsi (e da nutrirsi) per tutti.

Il piano di pubblicazione prevede per i due saggi (che sono piuttosto impegnativi rispetto allo standard dei documenti digitali) momenti separati, un intervallo di qualche settimana l’uno dall’altro, per dare modo ai Viandanti “volenterosi” di digerire e assimilare con calma il loro enorme apporto proteico. Nel frattempo io rimango in attesa, curioso di vedere se la nuova dieta avrà qualche effetto.

Il tema che Beppe tratta in questo primo saggio è quello della pace. Tema scivoloso e controverso, rispetto al quale siamo abituati a prendere posizioni decisamente rozze (cfr. ad esempio il mio Contare a fino a dieci, del 2003) o ambigue e superficiali, oppure assolutamente ipocrite (vedi le manifestazioni pacifiste che finiscono a sassate e manganellate): sempre comunque dettate da una profonda ignoranza rispetto all’argomento. Qui ci è offerta l’occasione, una volta per tutte, di avere almeno chiaro di cosa parliamo quando parliamo di pace. Dopodiché, non ci saranno più alibi all’uso improprio o distorto o strumentale del termine.

di Paolo Repetto, 18 ottobre 2023

Una dieta ricostituente 01

Il legno storto

Note di filosofia della pace e della guerra

di Giuseppe Rinaldi, pubblicato su Finestre rotte il 24 novembre 2022

1. Solo quando scoppiano le guerre[1], come quella attuale in Ucraina, tendiamo a porci una serie d’interrogativi sulla pace come fossimo nati ieri. E gli interrogativi tendono a moltiplicarsi, quanto più le prospettive della pace si fanno oscure e incerte e quanto più siamo coinvolti dalla guerra, anche nella nostra vita quotidiana. La riflessione sulla pace e sulla guerra sembra dunque procedere a sbalzi, al ritmo delle guerre che ci colpiscono da vicino. Le due Guerre del Golfo (1990-91 e 2003-11) erano state, in ordine di tempo, l’ultima ormai scordata occasione di riflessione pubblica sull’argomento. Quasi contemporaneamente, analoghi dibattiti si erano tenuti in occasione delle Guerre jugoslave (1991-2001) e in occasione dell’11 settembre 2001. Nessun dibattito ovviamente intorno alle innumerevoli guerre lontane o guerre dimenticate[2], quelle guerre che, abitualmente, appena possiamo, ci scrolliamo di dosso.

La guerra russo ucraina combattuta alle porte dell’Europa ci ha dunque trovati piuttosto impreparati e così abbiamo finito per rispolverare e riportare in auge vecchi luoghi comuni. Si sono avute molte grida ma decisamente poche riflessioni approfondite e argomentate. E si è preferito trascurare l’ampio patrimonio di riflessione sulle questioni della pace e della guerra che si è ormai accumulato nel campo degli studi politologici e filosofici, nonché nel campo storiografico. In questo scritto cercherò di compiere un’esposizione sintetica intorno alle principali questioni teoriche che si pongono da sempre a proposito della pace e della guerra. Niente di particolarmente nuovo dunque, ma una sintesi intorno alle questioni fondamentali. Insomma, quello che a me pare il minimo indispensabile da cui partire.

2. Pace e definizioni. Per mettere un po’ di ordine nelle diverse questioni, è preferibile, come sempre, cominciare dalle definizioni. Cominceremo proprio dalla pace. Si tratta anzitutto, in via preliminare, di mettere da parte certi usi generici della parola “pace”. La pace che ci interessa e sulla quale ci concentreremo è quella connessa all’ambito stretto delle comunità politiche, sia nei loro rapporti esterni, internazionali, sia al proprio interno, come nel caso della guerra civile. Il termine “pace” sta a indicare genericamente, in quest’ambito, un’assenza di conflitto violento[3], quel tipo di conflitto cioè che generalmente è identificato con il termine guerra. Parlare di pace significa necessariamente tirare in ballo il suo rovescio, cioè appunto il conflitto violento e la guerra. Si tratta dunque di una definizione in termini negativi. La pace, a quanto pare, non ha un suo significato autonomo e non può che essere definita in stretta antitesi con la guerra. Pace e guerra sono due diversi alternativi stati possibili. Una familiare dicotomia suggerisce che ci si trovi in pace, oppure ci si trovi in guerra.

Le cose tuttavia non sono così semplici. Se appena facciamo un qualche sforzo di riflessione, ci renderemo conto immediatamente che, all’occorrenza, possiamo individuare diversi stati intermedi compresi tra la pace e la guerra. In certi casi può anche risultare non del tutto chiaro se una certa situazione sia di pace o di guerra. Nel linguaggio comune si esprime qualcosa di simile dicendo: “Siamo sull’orlo di una guerra”, oppure: “Ci sono segnali di pace all’orizzonte”. In taluni casi, un chiarimento definitivo può derivare solo da un’esplicita dichiarazione di guerra o dalla sottoscrizione di una tregua, oppure di un trattato di pace. Ci sono poi delle situazioni che possono essere considerate come guerre anomale o guerre non convenzionali.

Una simile incertezza terminologica e concettuale la stiamo sperimentando proprio in questi mesi. Notoriamente, per i Russi l’aggressione all’Ucraina non è una guerra. È stata denominata operazione militare speciale. I cittadini russi che la chiamassero “guerra” potrebbero essere perseguiti penalmente[4]. Del resto nessuna esplicita dichiarazione di guerra è stata pronunciata da entrambe le parti. Secondo Putin, chi fornisce armi all’Ucraina è già “in guerra” con la Russia. Secondo alcuni pacifisti, gli USA, la UK, l’Europa sarebbero già in guerra con la Russia. Secondo il papa, questa sarebbe la Terza guerra mondiale “a pezzi”. Secondo alcuni altri, poi, la NATO aggressiva era già in guerra con la Russia fin dagli anni Novanta. Come si vede, la definizione dei confini tra pace e guerra è tutt’altro che semplice. I dati di fatto e la propaganda sembrano ormai intrecciarsi in maniera indissolubile.

Ancora più complessa è la situazione nel caso della guerra interna, o guerra civile. È difficile che le guerre civili siano dichiarate (anche se talvolta accade). Ci sono guerre civili de facto che non sono mai state combattute come tali e che sono state riconosciute come tali solo successivamente. È il caso, ad esempio, del riconoscimento, da parte dello storico Claudio Pavone, della Resistenza italiana al nazifascismo come guerra civile. È probabile che nel Donbass, dal 2014 in poi, si sia combattuta una guerra civile, con ogni probabilità fomentata dalla Russia con l’introduzione clandestina di uomini e mezzi. O forse una guerra di secessione.

3. Almeno due tipi di pace. Nella letteratura filosofica e politologica è stato spesso fatto notare come si possano annoverare due tipi di pace, quella negativa, quella più ovvia cui abbiamo già accennato, e quella positiva. La distinzione risale a Johan Galtung 1969. Galtung tratta non tanto della guerra quanto della violenza. La pace negativa è costituita dalla assenza di violenza personale, mentre la pace positiva è costituita dall’assenza della violenza strutturale. Per Galtung la pace positiva coincide dunque con la giustizia sociale. La distinzione tra pace negativa e positiva è stata poi usata ampiamente da Bobbio specificatamente in relazione alla guerra. Si parla comunemente di pace negativa quando il significato che si conferisce al concetto è soprattutto quello di negazione della guerra, cioè negazione del conflitto violento interno o internazionale. Si parla invece di pace positiva quando, oltre alla mera negazione della guerra, si vuol riempire il concetto della pace di una serie di connotazioni positive, che appartengano solo e soltanto alle situazioni di pace. Queste connotazioni dunquesi aggiungono alla pace negativa, cioè all’assenza di guerra. Si può parlare, in tal caso, di cessazione della violenza strutturale, ma anche di tranquillità, felicità, di fioritura umana, di prosperità, di progresso e simili. Oppure anche di armonia, integrazione, aiuto reciproco, cooperazione e scambio. Come ben si vede da questi esempi, se la nozione di pace negativa come assenza di guerra è relativamente precisa, pur con tutti i problemi del caso, la nozione di pace positiva è ancor più vaga, tanto che questa può essere ricondotta al capitolo generico dei benefici della pace – quali che questi possano essere. Oppure anche delle conseguenze positive della pace[5]. Si noti tuttavia che la condizione di pace positiva non si presta a definire un modello preciso di società, come, per esempio, la società cristiana, la società aperta, oppure la democrazia o il socialismo. Cioè, la pace difficilmente si lascia tradurre in un preciso modello di società che sia alternativo ad altri modelli. Sono i diversi modelli di società che possono sperimentare, talvolta, la condizione della pace positiva (o della guerra).

4. La guerra. Se vogliamo sapere cosa è la pace, almeno nella sua forma elementare, dobbiamo dunque come minimo sapere bene cosa sia la guerra. La guerra necessita dunque, a sua volta, di una definizione, che può risultare anch’essa piuttosto difficoltosa. Di solito non basta però definire la guerra come non pace. La guerra ha invece una sua definizione in positivo, cioè dotata di suoi specifici e autonomi contenuti. Vagamente, il termine guerra può significare un conflitto di qualsiasi tipo, ma abbiamo già detto che ci sono conflitti che non sono guerre. Allora abbiamo dovuto introdurre fin da subito la specificazione di “conflitto violento”. La guerra è un conflitto la cui caratteristica precipua è l’uso sistematico della violenza. Secondo una definizione esaustiva proposta da Bobbio, la guerra in senso stretto sarebbe caratterizzata dal conflitto violento entro o tra comunità politiche e/o Stati[6]. Osserva Bobbio: «Va da sé che, una volta definita la pace come non guerra, la definizione di pace dipende dalla definizione di guerra […]. Le più frequenti connotazioni di “guerra” sono queste tre: la guerra è, a) un conflitto, b) tra gruppi politici rispettivamente indipendenti o considerati tali, c) la cui soluzione viene affidata alla violenza organizzata»[7].Si noti che, secondo Bobbio, la guerra rientra nel novero della politica e che la violenza impiegata non ha da essere sporadica o casuale, bensì organizzata.

5. La questione della violenza. La definizione della guerra non poteva che evocare anche la questione della violenza. La violenza è uno dei principali contenuti della guerra. La nozione di violenza, ovviamente, è assai più ampia della nozione della guerra. Non ogni violenza è guerra. Possiamo pensare alla violenza dei fenomeni naturali, a parole violente, alla violenza nei confronti degli animali, oppure alla violenza psicologica. Nel caso della guerra, siamo interessati a un particolare uso della violenza allo scopo di risolvere un conflitto di tipo politico, tra comunità politiche o entro di esse.

Che tipo di violenza è quella della guerra? Secondo Hobbes la guerra era lo stato prepolitico per eccellenza che comportava svariate forme di violenza, la cui massima espressione poteva giungere fino all’estremo dell’uccisione del nemico. La soglia minima che ci interessa in questo caso sembra sia proprio l’ammissibilità dell’uccisione del nemico. Altrimenti anche un incontro di boxe potrebbe essere considerato come una guerra. Per Hobbes, la costituzione dello stato politico attraverso il contratto determinava la fine della guerra di tutti contro tutti e del conseguente rischio di essere ammazzati. La pace negativa (la negazione della guerra) si oppone dunque al conflitto violento entro le comunità politiche e tra gli Stati e, dunque, a quelle forme di violenza che, oltre alla distruzione delle cose, ammettono l’uccisione del nemico.

Fatta questa distinzione fondamentale, tuttavia, fin dai tempi di Hobbes le forme della violenza connesse alla guerra si sono moltiplicate a dismisura, in un museo degli orrori senza fine. Dalla generica uccisione del nemico si è giunti al genocidio, ossia al tentativo di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Oppure alla minaccia atomica, la quale implicherebbe la possibile distruzione dell’intera umanità.

Occorre riconoscere che si è fatto uno sforzo per codificare l’uso della violenza in guerra, giungendo alla proibizione di determinate condotte e alla definizione dei crimini di guerra e di tribunali internazionali. Alla messa al bando di determinati tipi di armi. Va tuttavia riconosciuto che lo ius in bello, cioè il diritto bellico, nazionale e internazionale, nonostante i lodevoli sforzi, ha ottenuto scarsi successi nel governo della violenza in guerra. L’attuale guerra russo ucraina fornisce in merito una documentazione impressionante di barbarie. D’altro canto questa guerra mostra anche come non tutti i contendenti sono uguali nell’osservanza del diritto bellico e nel contenimento della barbarie della guerra. Qui mi riferisco precisamente alla guerra contro i civili messa in atto sistematicamente dai Russi in Ucraina. Ciò va detto chiaramente, contro le troppo facili generalizzazioni che corrono. E contro le troppo comode equidistanze.

In generale, abbiamo dunque la possibilità minimale di cercare di controllare l’uso della violenza in guerra, oppure la possibilità di far cessare ogni violenza bellica attraverso la pace. Abbiamo tuttavia anche la possibilità di rifiutare altri tipi di violenza che sono di fatto possibili. Fino al rifiuto di tutti i tipi possibili di violenza – ammesso che ne sia possibile un inventario[8]. In questo caso non possiamo parlare semplicemente di diritto bellico o di pace negativa, ma dovremo parlare proprio di un’altra cosa e cioè della nonviolenza[9]. Questa va oltre la guerra in senso stretto e diventa così un atteggiamento, una predisposizione a comportarsi, da applicare sempre, in tutte le situazioni, in tutti i casi della vita, non solo in contrapposizione alla guerra. L’insieme della nonviolenza è dunque assai più ampio dell’insieme della pace negativa. Anche se la pace negativa non può che essere uno degli aspetti compresi nella nonviolenza.

6. La nonviolenza. Trascrivo qui una definizione generale e generica: “La nonviolenza è una pratica personale che consiste nel non causare offesa ad altri in qualsiasi caso. Essa può derivare dalla credenza che offendere persone, animali e/o l’ambiente non sia necessario per ottenere qualsiasi tipo di scopo. Può avere come riferimento una filosofia complessiva che implichi l’astensione da ogni violenza. Può essere basata su principi morali, religiosi o spirituali, oppure le ragioni per promuoverla possono anche essere di tipo strategico o pragmatico[10]. La nonviolenza è dunque anzitutto una pratica personale, più che uno strumento di lotta politica, anche se questa è stata talvolta impiegata proprio in questo senso. Si noti che la nonviolenza, secondo Aldo Capitini, non andrebbe intesa semplicemente come negazione della violenza, bensì dovrebbe essere intesa come un valore autonomo, dotato di un proprio contenuto positivo.

Per comprendere la posizione della nonviolenza, che riguarda indubbiamente il nostro discorso e a cui faremo spesso riferimento, può essere utile riandare a Lev Tolstoj (1828-1910). Preferisco rifarmi a Tolstoj, piuttosto che al ben più noto Gandhi, perché la sua posizione mi pare più chiara ed esemplare. Per una considerazione critica di Gandhi, si veda Losurdo 2010. Tra la fine degli anni Settanta e degli anni Ottanta dell’Ottocento, anche in seguito all’ esperienza personale della guerra, Tolstoj visse una profonda crisi[11] e sperimentò un’intensa trasformazione interiore che lo spinse alla fede in Dio, alla semplicità volontaria, al rifiuto di tutte le forme di violenza, alla dieta vegetariana e all’animalismo. In questo ambito elaborò i principi fondamentali della nonviolenza, in un contesto fondamentalmente di tipo religioso. I riferimenti principali da cui aveva attinto sono costituiti dai Vangeli, dal cristianesimo minoritario (ad esempio i Quaccheri), da alcuni testi orientali e da alcune filosofie, tra cui quella di Schopenhauer.

Nell’ambito della nonviolenza, la dottrina centrale di Tolstoj – che si rifà soprattutto al Discorso della montagna evangelico – è quella della non-resistenza al male con il male[12]. Tolstoj ritiene che la non resistenza al male, quando sia perseguita rigorosamente, possa condurre – oltre che alla liberazione interiore – a un’autentica trasformazione sociale e possa provocare il dissolvimento degli ordinamenti sociali oppressivi e disumani. Tutto ciò senza ricorrere ad alcuna forma di violenza. Per questo occorre tuttavia un radicale impegno personale individuale, fino a giungere a praticare la disobbedienza civile, rifiutare il servizio militare e rifiutare il pagamento delle tasse, poiché queste sono usate dagli Stati per finanziare le guerre. In ciò seguendo David Henry Thoreau (1817-1862) come precursore. Il fondamento ultimo della nonviolenza è posto da Tolstoj nel comando divino contenuto nel Vangelo. E in ultima analisi nella fede. Notoriamente fu Tolstoj a influenzare Gandhi, con tutto quel che ne seguirà, circa la dottrina della nonviolenza, dottrina che in Gandhi prende il nome di ahimsa.

Come si può notare, si tratta di un pensiero senz’altro estremamente profondo. È stato tuttavia sempre fatto notare come sia anche piuttosto difficile da praticare, poiché implica, negli eventuali praticanti, un cambiamento radicale di vita e, di fatto, uno scontro radicale con l’esistente, in pressoché tutte le sue manifestazioni. Si noti che la strada proposta dalla nonviolenza implica uno scoglio di gran rilievo in materia di etica, su cui avremo modo di discutere ampiamente, e cioè la possibilità che il male sia lasciato libero di agire senza ostacoli. Questo poiché gli eventuali ostacoli posti al male implicherebbero a loro volta il ricorso alla violenza. E dunque alla riproposizione della violenza stessa. Questa posizione – come vedremo oltre – implica un’irrisolvibile incongruenza dei valori.

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7. Bellicisti, pacifisti e nonviolenti. Siamo così giunti a circoscrivere, in termini di prima approssimazione, oggetti concettuali come pace negativa e positiva, guerra, violenza e nonviolenza. Siamo ora in grado di meglio comprendere le dottrine o le elaborazioni teoriche corrispondenti a questi concetti e, conseguentemente, anche una serie di movimenti pratici che vi si ispirano. Avremo dunque le teorie pacifiste (nel senso della pace negativa ed eventualmente della pace positiva), le teorie belliciste (ed eventualmente violentiste, cioè le filosofie della violenza, anche se queste sono state raramente esplicitate e professate[13]) e le teorie della nonviolenza sul modello tolstojano e poi gandhiano. Avremo dunque, di conseguenza, come prima sistemazione, su un continuum, orientamenti e movimenti bellicisti, pacifisti e nonviolenti. Si potrebbero produrre ulteriori distinzioni, ma la cosa andrebbe troppo oltre i nostri scopi.

8. Esistono davvero i bellicisti? Dei tre punti di vista, il bellicismo è oggi l’orientamento meno caratterizzato, meno teorizzato, meno organizzato. Si tratta di un “–ismo”, il che comporterebbe, in senso proprio, una sorta di esaltazione della guerra, una sua promozione fino alla sua massima realizzazione, che corrisponderebbe al perseguimento di una sorta di guerra perfetta o di guerra perpetua[14]. Sicuramente, guardando al passato, possiamo trovare in merito numerosi casi storici. Molte società del passato si sono costituite avendo la guerra come fulcro. O, per lo meno, avendo al proprio interno gruppi sociali interamente devoti alla pratica della guerra. I quali spesso, proprio per questa loro attività connessa all’esercizio della forza, finivano per ricoprire una posizione sociale centrale e dominante. Oggi, in generale, nelle più diverse società, la centralità della guerra sembra in via di superamento. Anche molti di coloro che oggi sono impegnati settore della guerra, nel settore militare, ritengono auspicabile non doversi mai ricorrere effettivamente alla guerra. Il termine “bellicismo” oggi – almeno in Occidente – viene applicato in forma residuale soprattutto per designare coloro che ritengono possibile l’uso della guerra in determinate situazioni, oppure che, pur non esaltando la guerra, la accettano come necessaria, oppure ancora coloro che, una volta scoppiata una guerra, non vi si oppongano con la dovuta risolutezza. Talvolta si tratta di un termine che ha abbandonato la connotazione descrittiva e ha assunto connotazione retorica e dispregiativa, come il ben più noto termine guerrafondaio.

La domanda che ci dobbiamo porre allora è se oggi esistano realmente i bellicisti in senso proprio, o se questi non siano soltanto dei pacifisti deboli. Oppure pacifisti minimali, pacifisti moderati, o anche pacifisti imperfetti. In talune situazioni retoriche coloro che, pur non desiderandola, accettano la guerra come una necessità sono stati considerati come dei bellicisti. Si ponga mente al dibattito occorso in Italia alla vigilia della Grande guerra. Bellicisti autentici erano sicuramente gli interventisti, ma oggi sarebbero considerati bellicisti anche coloro che avevano come motto “Né aderire, né sabotare”, oppure i cattolici che, pur disapprovando la “inutile strage”, la ritenevano comunque doverosa in termini di obbedienza alle leggi vigenti dello Stato. Ancora diversa la posizione di taluni interventisti democratici, che volevano unicamente quella guerra per porre fine a tutte le guerre.

Come si vede, anche in questo caso, la distinzione tra bellicismo e pacifismo sembra piuttosto evocare un continuum, piuttosto che una secca dicotomia, come sembra invece emergere invece dal dibattito superficiale dei giorni nostri. Può essere anche comprensibile il fatto che nello scontro politico si sia indotti a dicotomizzare, ma è sufficiente un minimo di riflessione per concludere che la dicotomia tra pacifismo e bellicismo costituisce una ben povera rappresentazione della realtà. Soprattutto una rappresentazione di fatto priva di utilità. Tratteremo più in là della teoria della guerra giusta, che è un caso esemplare di situazione di continuità tra i due opposti.

9. Militaristi. Abbiamo visto che la guerra è una forma di violenza organizzata. Nelle società a elevata divisione del lavoro, i militari sono i professionisti della guerra. La questione degli armamenti, degli eserciti e più in generale della tecnica militare, è una conseguenza delle distinzioni precedenti. Armi, eserciti e tecniche militari sono impiegati per produrre i conflitti violenti e organizzati tra le comunità politiche ed entro gli Stati, cioè le guerre. La posizione attribuita all’organizzazione militare nell’ambito della società diventa dunque fondamentale. Quando la sfera strumentale della guerra tende a prevalere e a sopravanzare le altre sfere della società, si parla di militarismo e di società e/o Stati militaristi. Possiamo parlare più correttamente, in generale, di società a trazione militare. Si tratta di società la cui attività fondamentale ruota attorno alla guerra e dove i militari giocano un ruolo centrale nelle principali decisioni. E dove consumano nella loro attività le principali risorse economiche e finanziarie accumulate dalla società stessa. Nel corso dei secoli, in Occidente siamo stati testimoni del passaggio progressivo da società a trazione militare verso società a trazione commerciale, o a trazione industriale, tecnologica e finanziaria. Queste ultime tendono ad attribuire al settore militare un ruolo sempre più strumentale e marginale. Questa tendenza si è accentuata dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il caso degli USA è esemplare: pur essendo una potenza militare, la sua trazione fondamentale è di tipo tecnologico, industriale e finanziario. Oggi è di moda trascurare questo punto, a causa dell’anti americanismo pregiudiziale assai diffuso nel nostro Paese. Sul piano del militarismo, gli USA e la Russia non sono proprio la stessa cosa. La Russia di Putin, insieme a pochi altri esempi, è invece effettivamente una potenza a trazione militare (o si illude di esserlo, viste le scarse prestazioni sul campo).

Dunque, armamenti, eserciti e tecnica militare costituiscono dei mezzi che rendono possibile l’esercizio della guerra. Secondo un certo senso comune diffuso, il semplice possesso di armamenti ed eserciti sarebbe un indice certo di militarismo. Si trascura tuttavia il fatto che oggi, nella maggioranza dei casi, il possesso di armamenti ed eserciti ha la funzione di provvedere alla difesa. Questo per garantire un bene pubblico indubbio che si chiama sicurezza. Si è discusso a lungo su come ottenere la sicurezza senza disporre tuttavia di apparati di difesa ma una soluzione efficace non pare sia stata ancora trovata. Se comunque nel mondo tutti gli eserciti servissero solo per la difesa, non ci sarebbero più guerre. Forse è vero che in determinate circostanze i mezzi militari rendono anche più probabile l’esercizio della guerra. Ma è anche del tutto possibile pensare ad armi, eserciti e tecniche militari che siano perfettamente approntate, ma mai adoperate. L’idea che se hai un’arma prima o poi la usi è un’idea stupida e superficiale. Anche gli svizzeri tengono lo schioppo sotto il letto, ma è difficile pensarli come pericolosi aggressori e guerrafondai. Secondo la teoria della deterrenza, le atomiche sarebbero armi prodotte proprio per non essere mai usate.

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C’è ancora indubbiamente, da qualche parte nel mondo, un militarismo aggressivo. Ci sono ancora imperialismi a trazione militare, com’è proprio il caso della Russia. Ma oggi nel mondo c’è anche un realistico impiego di eserciti e armamenti per la mera difesa. O anche per gli interventi umanitari nelle situazioni di crisi. L’esigenza di finanziare con risorse pubbliche una forza di difesa non può che dipendere dalla valutazione razionale di quanto pericoloso sia l’ambiente internazionale in cui ci si trova. I recenti avvenimenti dell’aggressione della Russia all’Ucraina hanno indubbiamente reso più pericoloso l’ambiente internazionale, determinando così – a parere di molti – l’esigenza di maggiori investimenti nella sicurezza[15]. Dunque, anche nell’ambito del militarismo, sarebbe il caso di introdurre delle distinzioni. Anche il povero Enrico Letta è stato rappresentato con l’elmetto. Non tutti i militarismi sono uguali. Dovrebbe essere evidente che il militarismo della NATO non è esattamente uguale al militarismo della Russia di Putin. Le semplificazioni eccessive precludono la comprensione della realtà e impediscono un’azione efficace nel mondo.

Può ben essere che il superamento e infine l’abolizione dell’apparato militare possa essere in futuro una conseguenza desiderabilissima dell’affermazione universale di una situazione di pace positiva. Magari connessa anche all’accettazione universale della prospettiva filosofica e religiosa della nonviolenza. Al giorno d’oggi però un simile obiettivo non sembra essere alla nostra portata. Può al più costituire al più una idea regolativa, nel senso kantiano del termine.

10. La pace si dice in molti modi. Gli elementi definitori che abbiamo fin qui introdotto hanno mostrato la complessità delle questioni affrontate, tale da afflosciare la sicumera di molti protagonisti dell’odierno dibattito pubblico. La prima acquisizione inevitabile, per chi frequenti ancorché saltuariamente questo campo, è proprio quella per cui la pace “si dice in molti modi”. Questo vuol dire che, a dispetto del senso comune, non c’è un concetto unico di pace. Si tratta piuttosto – come dicono i filosofi – di una “somiglianza di famiglia”, cioè di una rete di concetti interconnessi e di relativi usi linguistici. Dunque chi dice di essere per la pace non ha ancora detto niente: dovrebbe sforzarsi di esplicitare chiaramente cosa intende per pace. Altrimenti, bisognerebbe concludere inevitabilmente che tutti vogliono la pace. Ma una volta affermato il punto, tutti si scontrerebbero immediatamente intorno alle questioni che hanno appena evitato di chiarire. Nella letteratura filosofica e politologica si fa riferimento ad almeno quattro tipi di pace[16]. Molto diversi tra loro. Abbiamo dunque: a) la pace come resa incondizionata; b) la pace come tregua; c) la pace come trattato; d) la pace positiva. Potremmo aggiungere un quinto tipo: e) la pace come conseguenza della nonviolenza, che sarebbe poi un tipo particolare di pace positiva, alla quale abbiamo tuttavia già accennato.

11. La pace come resa incondizionata. È questo un tipo di pace che sopravviene quando uno dei contendenti (o più di uno) è talmente coartato che non può neanche decidere di scendere in guerra. Di solito si cita in proposito un famoso esempio da Rousseau. Il filosofo, all’inizio del suo Contratto sociale[17], scrive contro Hobbes: “Si vive tranquilli anche nelle carceri: basta questo per trovarcisi bene? I Greci rinchiusi nell’antro del Ciclope ci vivevano tranquilli, aspettando che venisse il loro turno di essere divorati”. Si trovavano dunque certo in pace i marinai di Ulisse, chiusi nella prigione del ciclope, in attesa di essere divorati. È questa una condizione di pace (senz’altro assenza di guerra e di violenza nell’immediato!) che deriva dalla totale passività, dalla totale costrizione, cioè dalla resa incondizionata al nemico.

La storia è piena di casi in cui una comunità politica avrebbe sicuramente scelto di combattere, solo se appena avesse potuto farlo. Possiamo pensare a situazioni nelle quali l’oppressione è così forte che i soggetti non hanno neppure la possibilità di scegliere eventualmente la via delle armi. L’attuale Afghanistan gode senz’altro di una situazione di pace in seguito alla resa incondizionata ai talebani. L’attuale Iran, che godeva senz’altro della pace interna, sta mostrando che quella pace si fondava sostanzialmente sull’oppressione (in particolare delle donne) e sta precipitando verso una situazione di guerra civile. Spesso ci si dimentica che per decidere di scendere in guerra occorre perlomeno disporre di un minimo di libertà d’azione. Rispetto a una situazione di totale dominazione, checché ne pensasse Tolstoj, la possibilità di combattere una guerra può anche essere considerata, in taluni casi, come una sorta di miglioramento della propria posizione, un auspicabile avanzamento. Solo la determinazione assoluta di non opporsi al male può sconsigliare di ricorrere alla guerra nelle situazioni più estreme di oppressione.

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12. La pace come non libertà. Coloro che sono nella situazione descritta da Rousseau hanno sicuramente la pace (ammesso che così si possa chiamare), ma non hanno alcuna libertà. Non si tratta di un caso tanto raro. Assomiglia questa alla situazione hobbesiana post contrattuale, dopo che i cittadini hanno ceduto tutti i loro poteri al Leviatano (lo stato assolutistico) e sono così diventati sudditi. Hanno la pace ma sono sottomessi in tutto e per tutto al potere assoluto. Per di più l’hanno fatto per propria scelta e volontà. Si ricorderà che quella situazione, secondo Hobbes, in un solo caso si sarebbe potuta risolvere in una guerra civile: qualora il Leviatano avesse attentato alla vita dei cittadini. I sudditi sottomessi nel patto hobbesiano sarebbero dunque appena più fortunati dei marinai di Ulisse nella prigione del ciclope. Questo tipo paradossale di pace, intesa come resa incondizionata e totale sottomissione all’arbitrio, è stata ampiamente teorizzata e praticata. Ad esempio, nel caso di certi martiri cristiani. O nel caso della nonviolenza tolstojana già citata. È tuttavia davvero singolare – dovrebbe indurre a qualche riflessione coloro che in questa materia mostrano grandi certezze – che il tipo più infimo di pace, la pace come resa incondizionata, finisca con il coincidere con quella che taluni presumono essere il tipo più nobile di pace e cioè quello derivante dalla applicazione integrale della nonviolenza.

13. Una digressione nell’attualità: forse la pace non è tutto. Più recentemente, e assai più ignobilmente, nel dibattito nostrano seguente alla guerra in Ucraina, il noto opinionista prof. Orsini ha teorizzato l’opportunità della resa incondizionata di fronte all’aggressore russo, pur di avere salva la vita. Così, secondo il professore, avrebbero dovuto fare gli Ucraini di fronte all’invasione russa. In uno dei tanti talk-show, il prof. Orsini ci ha ricordato anche che: “Anche sotto il fascismo i bambini potevano vivere felici”. Poiché Putin non avrebbe probabilmente divorato gli Ucraini come il ciclope – anche se avrebbe potuto far ammazzare il loro presidente – dunque gli Ucraini, se si fossero subito arresi, avrebbero certo perso totalmente la libertà ma avrebbero guadagnato comunque la pace. Almeno per la popolazione civile e per i bambini. Dunque, ne conseguirebbe che i morti che la resistenza degli Ucraini ha indirettamente provocato (militari, civili e i bambini) sarebbero tutti da mettere sulla coscienza di Zelens’kyj, del suo bellicoso governo, con tutti i suoi alleati, che non si sono prontamente arresi. E sulla coscienza di tutti quelli che hanno dato ragione a Zelens’kyj e lo hanno aiutato. Si tratta ovviamente, questa di Orsini, non della conseguenza di una professione di fede nonviolenta, ma di una davvero singolare applicazione dell’etica della responsabilità (vedi oltre). Al professor Orsini non viene neppure in mente il punto problematico fondamentale e cioè il fatto che forse la pace non è tutto.

14. Scoglio: la pace e l’incongruenza dei valori. La situazione della pace come resa incondizionata ci fornisce l’occasione per affrontare uno scoglio teorico di notevole interesse. Ci costringe a domandarci se la pace (la pace prima di tutto, a qualunque costo) possa essere davvero considerata come il bene supremo. Se possa cioè essere considerata indipendentemente dalla situazione nella quale essa si realizza. Se possa cioè essere valutata in piena autonomia da ogni altra considerazione, se sia davvero un valore in sé, incomparabile rispetto ad altri valori. Appena la pace viene tolta dal suo carattere assoluto e viene considerata in termini situazionali, viene cioè confrontata con altri valori, o altri beni, nascono molte questioni inaspettate. Per avere in cambio la pace, possiamo rinunciare completamente alla nostra libertà? Cos’è una pace senza libertà? Anche la giustizia può essere tirata in causa. Una pace ingiusta è una vera pace?

Molti autorevoli intellettuali nostrani, soprattutto di sinistra, negli infiniti talk-show che si sono susseguiti dopo il 24 febbraio, seguendo più o meno consapevolmente il prof. Orsini, consigliavano senz’altro agli Ucraini di non resistere. Che deponessero le armi. Qualcuno si affannava addirittura a negare con argomentazioni fantasiose che quella messa in atto dagli Ucraini fosse una resistenza. Addirittura, si sentivano di decidere che non si dovessero mandare armi agli Ucraini, perché questi si arrendessero prima, dunque con meno danni per loro. Qualcuno, beato lui, s’inventò anche le “armi non offensive”. Possiamo qui parlare di altruismo? Se gli Ucraini avessero subito obbedito a questi desiderata, oggi sarebbero senz’altro in pace, sarebbero cioè sotto la pace di Putin (dove senz’altro anche i bambini potrebbero vivere felici!). Qualcuno ha pensato di mettere a confronto il bene di una simile pace con i beni della libertà e della giustizia? Qualcuno di questi “altruisti” ha pensato almeno di chiedere il parere degli Ucraini? Cioè dei diretti interessati. Purtroppo nell’epoca del pensiero incontinente nessuno si ferma ad approfondire le questioni.

Credo abbia colto nel segno il filosofo Alexandr Dugin (un filosofo russo euroasiatista e nazibolscevico, per chi non lo conoscesse) quando dice che gli Occidentali si sono rammolliti, sono in piena decadenza, perché non sono neanche più in grado di pensare di poter morire per la propria causa. Del resto Heidegger era dello stesso parere. Fa davvero pena, oggi, vedere coloro che hanno imbracciato le armi per difendere il proprio Paese, o chi per essi, negare ad altri di fare la stessa cosa, in nome della pace.

Queste considerazioni (e questi esempi) ci pongono di fronte a un problema ben noto nell’ambito dell’etica. Normalmente si pensa che i valori e/o i beni siano semplicemente di carattere additivo, che possano cioè essere sempre assommati tra loro a piacere. Per questo tutti i valori e/o i beni dovrebbero sempre essere tra loro compatibili. In realtà è noto fin dalla filosofia antica che i valori o i beni possono non essere compatibili tra loro. Perseguire determinati valori può implicare necessariamente la rinuncia ad altri. I due tipi aristotelici di giustizia, la giustizia distributiva e la giustizia commutativa, ad esempio, non sono affatto compatibili. Per avere l’uno si deve necessariamente sacrificare l’altro. In generale, è poi noto come sia molto difficile essere giusti e buoni contemporaneamente. In campo teologico, se Dio è giusto, non può essere buono, e viceversa. Nel caso del contratto hobbesiano, accade che per avere la pace si debba sacrificare la libertà. Questa spiacevole situazione è nota come incongruenza dei valori[18]. Dunque – spiace per taluni pacifisti puri – la pace deve scendere dal piedistallo del bene assoluto o per lo meno deve accettare di essere messa a confronto con altri possibili valori o beni. Come minimo con la libertà e la giustizia. Ma anche con beni assai più prosaici. Come ad esempio la sopravvivenza materiale, cioè la vita[19]. Per Orsini, la vita dei bambini vale la capitolazione e dunque la pace come resa incondizionata. Per altri tuttavia la guerra può significare una possibilità di vita. I poveri buriati (una delle etnie asiatiche prevalenti nell’esercito Russo attuale che combatte in Ucraina – la Repubblica di Buriazia è una repubblica della Federazione Russa) sono spinti ad arruolarsi e a combattere perché è pressoché l’unico lavoro che è messo loro a disposizione. Non possono permettersi di fare i pacifisti più di tanto. Poiché l’incongruenza dei valori è una questione fondamentale, ce ne occuperemo oltre.

15. La pace come tregua o “situazione di pace”. È questa la pace che corrisponde all’interruzione temporanea delle ostilità. Se vogliamo, corrisponde alla nozione della tregua. I contendenti sono ostili tra loro. Sono liberi di decidere se continuare o meno a combattersi. Decidono tuttavia di sospendere le ostilità. Siamo cioè in una situazione di ostilità non belligerata.

È questa una situazione ben nota, poiché l’abbiamo sperimentata nel corso della lunga Guerra fredda. Anche se la Guerra fredda è stata in realtà belligerata indirettamente, attraverso una serie notevole di proxy war, le guerre indirette o guerre per procura. È questa anche la situazione descritta dalla locuzione della pace armata. È anche la situazione descritta dall’equilibrio del terrore, o dall’equilibrio della deterrenza. Non si combatte più, cioè ci si è messi in una situazione di tregua, per il fatto che la prosecuzione dei combattimenti produrrebbe esiti non desiderati o temuti da entrambe le parti. Dunque, ci si mette in uno stato di tregua per la paura degli effetti di una continuazione dello stato di guerra belligerata. Si accetta di smettere di combattere perché si è sottoposti a una minaccia (o a uno svantaggio) più grande (sia da parte dell’altro contendente, sia da parte di un Terzo che sia intervenuto). Tuttavia perdura l’inimicizia e la minaccia reciproca, e resta alta la probabilità di riprendere il conflitto.

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16. Scoglio: si può imporre la pace? Un caso filosofico interessante, un vero e proprio scoglio etico, è quello dell’imposizione della pace (nel senso della tregua o del trattato). Affinché si dia il caso, occorrono minimamente due contendenti e un Terzo, il mediatore, il pacificatore, che costringa i due a deporre le armi. Usando magari la persuasione, l’influenza, distribuendo garanzie e vantaggi di qualche tipo. Ma è possibile anche pensare che il Terzo possa provvedere all’imposizione della pace attraverso l’uso della forza.

Non sarà sfuggito al lettore che, in un certo senso, la possibilità di imporre la pace, cosa spesso effettivamente successa nella storia, ha in sé qualcosa di contradditorio. In una visione completamente irenica, la pace dovrebbe in un certo senso imporsi da sé. Tuttavia purtroppo la guerra, una volta iniziata, tende ad auto alimentarsi, tende addirittura a intensificarsi. Il Terzo allora è posto di fronte al dilemma di lasciare che la guerra continui oppure di imporre la pace. Se tuttavia sceglie di imporre la pace, si troverà a usare una guerra per imporre la pace. I pacifisti si scandalizzeranno, ma questo è un altro problema legato all’incongruenza dei valori. Per avere la pace si finisce per accettare che si apra una nuova guerra tra il Terzo pacificatore e i due contendenti. Non affrontiamo qui quali possano essere gli eventuali interessi del Terzo nello scendere in guerra per imporre la pace. In generale, dall’intervento del Terzo non si ha alcuna garanzia preventiva; potrebbe certo scaturire anche una pace senza libertà e/o senza giustizia.

L’idea di un Terzo pacificatore attraverso l’uso della forza non dovrebbe tuttavia risultare così peregrina. Si tenga conto che l’ONU dovrebbe, in teoria, proprio agire come un Terzo virtuoso, capace di sedare i conflitti internazionali eventualmente anche con la forza, come sta scritto nella sua Carta. Si noti tuttavia di sfuggita che, se appena si accetta la prospettiva che il Terzo possa (o sia tenuto a) intervenire con la forza per riportare la pace, allora si dovrà come minimo ammettere che non tutte le guerre sono uguali. Alcune sarebbero guerre comuni destinate a continuare o a finire con la sopraffazione dell’uno da parte dell’altro. Altre sarebbero invece guerre determinate dall’intervento del Terzo che avrebbe tuttavia come scopo il ristabilimento della tregua o della pace.

Dovrebbe suscitare un certo stupore il fatto che – in concomitanza con la attuale guerra russo ucraina – a livello mondiale non si sia aperto per lo meno un acceso dibattito circa la riforma dell’ONU, organizzazione oggi pesantemente screditata dal fatto che lo Stato palesemente aggressore, la Russia, siede nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con il diritto di veto. Questo significa che la Russia, con la sua aggressione, ha di fatto privato il mondo intero di quel minimo di organizzazione internazionale abilitata a fungere da Terzo virtuoso nelle controversie. È come pretendere da ora in avanti che – ove sia violata – la pace si ristabilisca da sola. Perché questa reticenza ad affrontare la questione della riforma dell’ONU? Evidentemente l’idea di una forza militare internazionale capace di fare interventi di pacificazione anche con le armi non è così popolare, in parte per una forma di pacifismo estremista ma in parte anche per malcelato bellicismo: qualora ci si trovasse nella situazione di fare la guerra è preferibile avere le mani libere.

Così avviene che si stia togliendo di mezzo proprio il Terzo virtuoso che sarebbe in grado di intervenire con la forza e di “rendere il male con il male” all’aggressore. Ciò paradossalmente potrebbe anche essere in linea con i migliori auspici dei nonviolenti. Quel che seguirà tuttavia a questa nuova situazione non sarà il regno della pace positiva ma il regno dell’anarchia internazionale, dove ognuno farà quello che vuole, o quello che si potrà permettere, grazie magari alle sue bombe atomiche. Così gli Stati deboli cercheranno la protezione degli Stati forti, di coloro che sono in grado di vendere protezione nel più puro stile mafioso.

17. La pace come ordine privo di ostilità. È la condizione che si configura quando cessano tutte le ostilità. Solitamente questa è la condizione che si consegue sul piano del diritto attraverso la stipulazione di un trattato di pace e, in termini fattuali, attraverso la cessazione delle violenze, il ritiro delle forze e il disarmo. È quella che Bobbio, sulle orme di Aron, chiamava la pace di soddisfazione. Perché è così difficile la pace di soddisfazione? La difficoltà è dovuta al fatto che la condizione di pacificazione, una volta raggiunta, non garantisce il mantenimento della pace stessa. Detto in altri termini, la pace non si auto rigenera, la pace non è in grado di garantire il mantenimento della pace stessa. Poiché i trattati di pace possono sempre essere violati, la condizione pacifica guadagnata è sempre reversibile. La pace non ha alcuna autonomia, è comunque instabile e può tendere a precipitare verso la guerra.

Si tratterebbe allora di comprendere quali siano le condizioni, che non dipendono dalla pace stessa, che possono favorire (o addirittura garantire) il mantenimento della pace. Ad esempio, secondo un famoso assunto del politologo Michael W. Doyle, gli Stati democratici di solito non si fanno la guerra tra loro. Dunque la democratizzazione globale degli Stati costituirebbe una delle precondizioni per il mantenimento di una pace priva di ostilità. Anche un ONU riformato e funzionante (non quello attuale) potrebbe dare un contributo. È chiaro che le condizioni che potrebbero mantenere la pace potrebbero essere le più varie. Non posso entrare nel merito. C’è un’intera disciplina dedicata a questo tipo di questioni e cioè i peace studies, o anche peace and conflict studies.

In generale, possiamo però dire con relativa certezza che una delle cause principali della fine della pace è il sopravvenire dell’ingiustizia, sia all’interno delle nazioni sia tra di loro. Il mantenimento di un ordine privo di ostilità, il mantenimento di una pace di soddisfazione conseguita, implica evidentemente la giustizia. La pace senza giustizia percorre poca strada. Chi voglia mantenere una pace ordinata senza ostilità dovrebbe dunque contemporaneamente procurare la giustizia. È chiaro che una condizione di ingiustizia può spingere al ricorso alla violenza, determinando una catena causale che può portare alla guerra, interna o esterna. Sappiamo bene tuttavia che la pace di per sé non è senz’altro in grado di procurare la giustizia. D’altro canto, lo scopo di procurare la giustizia può implicare anche la rottura della pace. Per questo la pace è sempre a rischio. Ovviamente, la giustizia sussistente in una data situazione viene sempre giudicata dal punto di vista dei soggetti coinvolti, i quali potrebbero non essere affatto concordi sulla natura giusta o ingiusta della pace in questione. Anche in questo caso si presenta l’opportunità di ricorrere all’intervento di un Terzo, capace di intervenire nel merito delle ingiustizie rivendicate. Ma il Terzo come si è visto non è sempre un ospite gradito.

Queste semplici considerazioni stanno a significare che gli sforzi per realizzare e mantenere la pace non possono avere mai fine. Una volta stipulato il trattato di pace c’è sempre il rischio che l’ingiustizia, sopravvenuta o latente, rovini la pace. Allora al pacifista consapevole non resterebbe altro che reinterpretarsi come politico impegnato indefinitamente per l’implementazione della giustizia. Impegnarsi solo per la pace è indice davvero di corte prospettive sulla natura della pace stessa.

18. Pace positiva. I filosofi hanno spesso anche trattato della pace positiva, della quale abbiamo già accennato in apertura, per circoscrivere la pace negativa. Questa non è soltanto un effetto del diritto, attraverso un trattato di pace, che come abbiamo visto può però sempre essere violato. È piuttosto la condizione che la società nazionale e la comunità internazionale assumono dopo che si sia instaurata una pace giusta e sia stata instaurata la giustizia. Un caso tipico è costituito dalla teoria di Galtung, cui abbiamo già accennato.

Spesso questo concetto è stato tacciato di essere un concetto assai vago e di fatto utopico. Esso implica l’esistenza di società pacifiche e giuste e la contestuale trasformazione spirituale degli individui in modo da diventare essi stessi pacifici e giusti. Quando si pensa alla pace positiva non si può fare a meno di evocare la kantiana pace perpetua[20]. La quale tuttavia – Kant era un pessimista cronico – assomigliava più a una pace trattata che non a una pace positiva universale. Sul piano filosofico si può disquisire se una pace positiva fondata sulla giustizia sia possibile, sia effettivamente alla portata della natura umana o se non sia piuttosto incompatibile con questa. Per qualificare la inemendabilità della natura umana Kant ha usato la nota metafora del legno storto: “Dal legno storto dell’umanità non si potrà mai cavare alcuna cosa dritta”[21]. Non posso addentrami in questa problematica del rapporto tra la guerra e la natura umana ma la segnalo al lettore come stimolo per la riflessione.

Tutto ciò ha comunque una conseguenza importante, cui ho già accennato ma che vale la pena di ribadire in forma più estesa. La realizzazione della pace positiva non può essere conseguita restando all’interno dell’esclusivo dominio della pace stessa (e dei relativi pacifismi). La pace da sola non è sufficiente. Non pare bastevole alla sua compiuta realizzazione positiva. Questo significa che l’impegno per la pace non può essere disgiunto dall’impegno politico per la realizzazione di una società giusta. L’impegno per la pace non può dunque essere single issue. Raramente tuttavia i movimenti pacifisti mostrano esser consapevoli dell’esigenza, per la costruzione e il mantenimento della pace, di connettere strettamente la difesa della pace con la realizzazione della giustizia. Questa miopia dei pacifisti si spiega col fatto che ammettere di doversi impegnare per la giustizia finirebbe per sporcare le mani alla purezza apparente dell’impegno per la pace. Queste considerazioni mostrano anche i limiti della nonviolenza. La quale azzarda a ritenere che sia sufficiente la diffusione della nonviolenza per la realizzazione della giustizia. Una società con una maggioranza di nonviolenti praticanti sarebbe presumibilmente comunque sempre ostaggio di una minoranza di violenti praticanti. Anche a Paperopoli c’era la Banda Bassotti.

19. Un’altra classificazione. I diversi tipi di pace di cui abbiamo discusso rappresentano solo una delle tante classificazioni delle situazioni di pace[22]. Un’altra classificazione della pace, che riprende alcuni aspetti della precedente, è stata fornita da Raymond Aron[23].Egli distingue tre tipi di pace. A) Anzitutto la pace di potenza. È la pace che si ottiene grazie al sopravvenire di un potere forte che impone l’ordine e, dunque, la pace. Può essere di tre tipi, di equilibrio, di egemonia o di imperio. B) Abbiamo poi la pace di impotenza, che era quella fondata – all’epoca di Aron – sull’equilibrio del terrore tra le potenze atomiche. Queste erano costrette a non farsi la guerra poiché la guerra avrebbe implicato la mutua distruzione assicurata. C) In ultimo, abbiamo la pace di soddisfazione. È la pace che sopravviene quando ciascuno è in sé soddisfatto della propria situazione, per cui non cerca in nessun modo l’aggressione. Spiega Bobbio che: “La pace di soddisfazione ha luogo quando in un gruppo di stati nessuno ha pretese territoriali o d’altro genere verso gli altri, e i loro rapporti sono fondati sulla fiducia reciproca (che è proprio l’opposto del timore reciproco); pace di soddisfazione è quella che vige dopo la seconda guerra mondiale fra gli stati dell’Europa occidentale”[24].

La classificazione di Aron ha il merito di mettere in luce la dimensione di potere (e di disuguaglianza) che comunque è spesso connessa anche alle situazioni di pace (come nel caso estremo dell’antro del ciclope) e che contribuisce drammaticamente a privare la pace di quel manto idealistico che spesso i pacifisti le attribuiscono. La pace non elimina il potere e questo può sempre riprodurre l’ingiustizia.

20. Dai tipi di pace ai tipi di pacifismo. Visti i diversi tipi di pace, si possono anche dare per definiti i principali obiettivi possibili dei diversi movimenti pacifisti, cui – come dicevamo – possiamo aggiungere anche i movimenti nonviolenti. Per la chiarezza del discorso pubblico, e per l’efficacia del dibattito, questi movimenti dovrebbero però dichiarare esplicitamente quale tipo di pace vorrebbero raggiungere, nelle diverse specifiche situazioni. E dovrebbero evitare di contrabbandare un tipo di pace per un altro, come invece amano fare abitualmente, quasi senza accorgersene.

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21. Intermezzo. Nell’intento di capitalizzare i dubbi del lettore volenteroso che sia giunto fino a questo punto, propongo un esercizio di riflessione su un caso concreto[25]. Vediamo con qualche dettaglio la narrazione di quel che accadde a Srebrenica tra il 6 e il 25 luglio 1995. Siamo in Bosnia-Erzegovina, pochi mesi prima della firma dell’accordo di Dayton sulla spartizione interna del Paese tra la Repubblica serba (RepublikaSrpska) e quella croato bosniaca. Srebrenica era una delle tre enclave bosniache in territorio serbo (Srebrenica, Žepa e Goražde). Di qui la forte pressione dell’esercito serbo nei confronti delle poche enclave rimaste. L’intento era quello di effettuare una pulizia etnica dell’enclave che sarebbe in prospettiva divenuta territorio serbo. Srebrenica era presidiata da un contingente di alcune centinaia di caschi blu olandesi dell’UNPROFOR, cioè dell’ONU. Avrebbero dovuto difendere gli abitanti locali da eventuali aggressioni dei serbi. Tra il 6 e il 25 luglio le forze soverchianti dei serbi, comandati dal generale Mladich, circondarono l’enclave, la conquistarono senza difficoltà e, sotto la minaccia delle armi, ridussero all’impotenza il contingente dei caschi blu olandesi. Nei giorni successivi perpetrarono sistematicamente il massacro di più di 8000 civili bosniaci. La Corte internazionale di giustizia ha successivamente definito il massacro come genocidio.

Nonostante vari processi e inchieste, la posizione del battaglione olandese dell’UNPROFOR non è stata ancora del tutto chiarita. Gli olandesi avevano solo armi leggere ed erano sicuramente inferiori di forze rispetto ai serbi. Per cui non furono in grado di intervenire e di assolvere al loro compito di proteggere la popolazione[26]. In un quadro di disorganizzazione della catena di comando, non ci fu alcun significativo aiuto o intervento aereo dall’esterno in difesa dall’enclave, nonostante fosse stato più volte richiesto dal comandante del contingente, questo perché a quanto si disse non sarebbe stato conforme alle regole di ingaggio della missione. Ai caschi blu non restò che riparare nella loro base e cercare di intavolare qualche timida trattativa con Mladich. Una moltitudine di bosniaci sfollati si radunò nei pressi della base ma gli olandesi non furono in grado né di ospitarli né di difenderli. Gli uomini di Mladich li prelevarono con il pretesto della identificazione, separarono gli uomini, li caricarono su mezzi e li portarono via e procedettero al massacro che infuriò nei giorni successivi.

Quando si resero conto di quel che stava accadendo, gli olandesi non furono comunque in grado di intervenire. Le inchieste e i processi che ci furono, a vari livelli, non hanno portato a nulla di definitivo. Circolano diverse versioni interpretative, da chi dice che, praticamente abbandonati dal Comando centrale della missione, i caschi blu non abbiano potuto fare altro che stare a guardare. Qualcuno li accusa addirittura di avere anche, per certi aspetti, collaborato con i Serbi, avendo consentito il prelevamento di coloro che si erano rifugiati nei pressi o addirittura dentro alla base. È stato accertato che, in alcuni specifici casi, i caschi blu non abbiano dato rifugio ad alcuni bosniaci che lo richiedevano espressamente e che poi sono stati massacrati. Per alcune specifiche omissioni processualmente accertate alcuni ufficiali sono stati condannati. Comunque, nonostante la situazione imbarazzante della loro posizione, forse per una sorta di riparazione, i soldati del contingente hanno anche ricevuto un’onorificenza dal governo olandese.

Il caso dei caschi blu olandesi nella sua complessità resta insoluto. A parte la responsabilità penale, gli olandesi del contingente UNPROFOR restano a tutt’oggi nel limbo indistinto di una non accertata responsabilità morale. In una posizione che può essere definita come “al di là del bene e del male”. Ecco allora qualche motivo di riflessione circa la filosofia della pace e della guerra. Qualcuno può sostenere che l’ONU, come pacificatore armato, non dovesse neppure trovarsi nella ex Jugoslavia, lasciando così che i diversi contendenti di quella guerra si pacificassero da soli. Qualche sincero umanitario può sostenere che, pur essendo inferiori in termini di forze, i caschi blu dovevano comunque intervenire per tentare di proteggere la popolazione; avrebbero cioè dovuto fare il loro dovere morale comunque, eventualmente anche sacrificando la propria vita. Oppure si può sostenere che l’ONU abbia peccato di omissione: doveva intervenire con regole di ingaggio più dure, con maggiori forze e più efficacemente, costringendo i Serbi a stare al loro posto. Anche con la minaccia o l’uso delle armi. Ma c’è anche un altro interessante punto di vista: i caschi blu olandesi non hanno fatto altro che tenere un comportamento del tutto consono con le prescrizioni nonviolente tolstojane di non rispondere al male con il male.Meglio dunque sarebbe stato in questo caso che non si fossero neanche presentati in Jugoslavia.

22. Un po’ di metaetica. Dopo il nostro intermezzo, passiamo ora a proseguire il nostro ragionamento. Finora ci siamo accontentati di individuare diversi tipi di pace, mostrando svariati problemi ad essi connessi. Ci siamo cioè occupati principalmente dei diversi obiettivi che possiamo avere in mente quando dichiariamo di essere per la pace. Dovrebbe essere emerso come minimo che la pace è un obiettivo di per sé assai problematico. Ma la pace non è solo problematica in quanto obiettivo. È anche decisamente problematica se consideriamo il modo con cui la vogliamo. Ebbene sì, la pace non solo si dice ma anche si vuole in diversi modi. Prenderemo in considerazione due modi principali. Ce ne sarebbero anche altri, ma questi due sono i più importanti. In termini di metaetica[27], la pace può essere considerata in due modi diametralmente opposti: dal punto di vista deontologico oppure da quello consequenzialista. Si tratta di una distinzione del tutto analoga a quella forse più nota di Max Weber tra l’etica dell’intenzione (o convinzione) e l’etica della responsabilità. Il primo punto di vista tende a considerare la pace come principio in sé. Il secondo punto di vista tende a considerare la pace in base alle sue conseguenze. Detto in sintesi, se assumiamo la pace come un principio universalmente valido, e dunque moralmente doveroso, saremo portati a disinteressarci delle sue conseguenze, le quali però, come s’è visto, possono anche non essere sempre buone. Se consideriamo invece primieramente le conseguenze della pace, non saremo più in grado di trattare la pace come un principio universale, valido sempre e comunque. Potremmo anche mettere in conto, in certi casi, di dover rinunciare alla pace, per evitare certe sue conseguenze negative e/o per conseguire altri beni che siano ritenuti preferibili o prioritari.

23. Deontologi. Vediamo meglio. Chi adotta la prospettiva deontologica ritiene in generale che ci siano dei principi, proprio come la pace, che sono buoni o cattivi in sé. Questi principi sarebbero dunque dotati di un loro valore intrinseco. Questa convinzione si traduce in un dovere, in un comandamento morale al quale si deve soltanto obbedire. Chi non obbedisce si rende colpevole e si colloca ipso facto dalla parte del male. Il principio della pace è dunque considerato una cosa buona di per sé e dovrebbe sempre essere realizzato senza discutere, a tutti i costi: etsipereat mundus.

Resta allora solo il problema di definire come si giunga a stabilire un principio come quello della pace, quale ne sia il fondamento o la giustificazione. I fondamenti che possono essere individuati sono molteplici e curiosamente possono anche essere in contrasto tra loro. Tuttavia mirano tutti a conferire alla pace il suo valore intrinseco. Qui può essere utile, a scopo meramente illustrativo della problematica, rammentare la vecchia classificazione kantiana delle etiche eteronome, formulata a seconda del carattere internoo esternorispetto all’individuo del principio che le guida. In termini esterni, il dovere della pace può derivare da un comando divino, oppure da un’abitudine sociale trasmessa (la tradizione e l’educazione) oppure ancora da una legge degli uomini. In termini interni può derivare invece da un impulso socievole, fornitoci dalla natura, oppure da un sentimento morale, oppure ancora dalla spinta verso la perfezione derivante dalla nostra coscienza razionale. Se si vuol essere kantiani fino in fondo, si può poi invocare anche l’imperativo categorico, come caso di etica dell’autonomia[28].

Quale che sia il fondamento posto alla sua base, è opportuno notare che, in ambito deontologico, il principio della pace viene in tal modo assolutizzato. Ciò indubbiamente lo mette al riparo da qualsiasi dubbio e da qualsiasi eccezione. Questa strategia può tuttavia essere controproducente. Già Kant aveva avvertito come l’assolutizzazione di un principio possa costituire l’anticamera del perfezionismo morale, del ritualismo e financo del fanatismomorale. In fin dei conti le cose dai tempi di Kant non sono cambiate molto. L’impressione è che coloro che si auto proclamano pacifisti in senso deontologico non siano gran che consapevoli di questi rischi. Se il principio così individuato è considerato come un assoluto allora non può mai essere confrontato e messo in concorrenza con altri valori. Gli eventuali insuccessi pratici derivanti dall’applicazione del principio (la prova dei fatti) non scalfiscono minimamente il valore che è stato assunto. Il tutto in linea con la convinzione che le conseguenze non interessino più di tanto: “Il mio dovere l’ho fatto, accada ciò che vuole”.

24. Qualche esempio particolare. Discutiamo più concretamente qualche caso. Almeno i casi principali. Chi è religioso è facile che, per fondare la pace, invochi la legge divina. Spesso in ambito cristiano si cita il Vangelo come legge suprema. Tuttavia ciò non sempre sembra bastare. Il caso di Tolstoj mostra come ci si possa trovare in disaccordo anche a partire dal Vangelo. Tolstoj riteneva che il vangelo predicasse una forma radicale di nonviolenza e ciò lo portò allo scontro con la sua Chiesa. Il moscovita patriarca Kirill oggi benedice la guerra di Putin. Il Catechismo della Chiesa cattolica sostiene invece la teoria della “guerra giusta” discostandosi dalla prospettiva deontologica (vedi oltre). Non ci potrebbero essere interpretazioni più divergenti dello stesso principio.

Secondariamente, tra i deontologisti c’è chi preferisce fondare il principio della pace sulla legge umana, sulle prescrizioni del diritto. In Italia, ad esempio, c’è chi sostiene che la nostra Costituzione proibirebbe la guerra in tutte le sue forme. Secondo i pacifisti che fondano la pace sulla Costituzione, poiché la Costituzione proibisce la guerra, il nostro Paese non dovrebbe neppure partecipare alle missioni internazionali di pacificazione, non dovrebbe produrre e vendere armi. Non dovrebbe stare nella NATO. In teoria non dovrebbe neppure possedere un esercito e (forse) non dovrebbe neppure difendersi in caso di aggressione. È evidente che una simile interpretazione della Costituzione istituirebbe la Pace non solo come obbligo morale o politico individuale ma anche come obbligo legale per tutti i cittadini italiani e le loro istituzioni. In realtà sappiamo che la questione è piuttosto controversa. Secondo autorevoli giuristi, sembra che la Costituzione proibisca certamente le guerre di aggressione. Tuttavia non è certo che proibisca le guerre di difesa e/o di resistenza. Altrimenti non sarebbe stato neanche previsto un Ministero della Difesa.

In terzo luogo è stata spesso indicata come fondamento della pace una convinzione della coscienza, intima e individuale, che imporrebbe all’ individuo di non indossare divise, di non portare armi, di non fare il servizio militare, di rifiutare dunque la guerra, o anche tutte le forme di violenza. Si tratta della cosiddetta obiezione di coscienza. Si tratta questo di un principio che non è fatto valere per tutte le coscienze o per le istituzioni ma limitato alla coscienza individuale. L’obiettore, insomma, ammette che gli altri eventualmente facciano la guerra, tuttavia rivendica per sé la prerogativa di seguire la propria coscienza e di rifiutarsi di farla. Il principio dell’obiezione di coscienza è stato accolto – com’è noto – dalla legge italiana dopo molte controversie (è appena il caso di ricordare in merito la figura di Don Milani[29] e la sua polemica con i cappellani militari). Naturalmente anche in questo caso la convinzione intima può derivare da una pluralità di fonti, dall’adesione a qualche religione, dall’adozione di un qualche imperativo morale, o simili, da un sentimento di amore verso tutti gli umani o addirittura verso tutti gli esseri viventi. Molte delle argomentazioni individuali addotte per l’obiezione di coscienza possono essere legate non solo al rifiuto della guerra ma anche al rifiuto di ogni violenza.

25. Consequenzialisti. Vediamo ora l’altra posizione metaetica. Secondo la prospettiva consequenzialista, o dell’etica della responsabilità, non accade mai che un’azione sia buona o cattiva in sé, ma va sempre valutata in base ai suoi effetti o conseguenze. Una scelta è buona solo se produce conseguenze buone, anche e soprattutto nel caso specifico. Unico criterio normativo che deve stare alla base della scelta sono dunque le conseguenze. Questo orientamento si richiama alla responsabilità di colui che sceglie la linea di condotta. L’eventuale ossequio a principi a-priori implicherebbe invece laderesponsabilizzazioneindividuale e una universalizzazione irrealistica. Per comprendere questa posizione ci si può rifare dibattito intorno alla questione dell’obbedienza assoluta alle leggi. Se n’è discusso alquanto a proposito del caso Eichmann. Se obbedire alla Legge o allo Stato è sempre un atto dovuto, allora non si sarà mai responsabili delle eventuali conseguenze dannose. Deontologicamente, in senso stretto, Eichmann avrebbe avuto perfettamente ragione. La sentenza di condanna contro Eichmann – piaccia o no – è stata pronunciata in un quadro consequenzialista.

Mentre sul piano deontologico, il principio della pace è considerato come universale, sul piano del consequenzialismo invece non può mai essere considerato come universale, deve sempre essere messo in relazione alle specifiche situazioni. Dipende, in altri termini, dalle circostanze. Questo significa che il principio della pace, come ogni altro principio, viene considerato come contingente. Poiché le conseguenze di una scelta possono essere diverse da caso a caso, nella prospettiva consequenzialista è ammesso dare valutazioni diverse a seconda dei casi. In certi casi si può decidere per la pace, in altri per la guerra. Dato quest’approccio per così dire minimalista, i consequenzialisti tendono a non assolutizzare le loro scelte e così rischiano assai meno di incorrere nel perfezionismo morale o nel fanatismo.

26. Obiezioni. Un’obiezione al consequenzialismo è che non possiamo conoscere tutte le conseguenze delle nostre scelte, per cui il processo decisionale per essere corretto dovrebbe essere infinito. Inoltre tutti i principi sarebbero relativizzati alle singole situazioni esaminate. Ogni decisione sarebbe unica e diversa da ogni altra. In questo modo il mondo dei valori diverrebbe altamente instabile, sottoposto all’arbitrio valutativo di ciascun singolo e di ciascuna situazione. Un’altra obiezione è che possiamo non trovarci d’accordo sull’analisi delle conseguenze, poiché, in quanto umani, ragioniamo sempre in condizioni di incertezza o di relativa ignoranza. Oppure siamo sempre sottoposti ai condizionamenti più diversi. Il consequenzialista dunque non avrebbe alcuna garanzia di essere nel giusto, non potrebbe mai rifarsi ad alcun fondamento consolidato. I consequenzialisti risponderebbero che è proprio così, che queste sono le autentiche condizioni di ogni scelta morale.

 

27. Qualche implicazione. Vediamo qualche concreta implicazione. Nello specifico della guerra russo-ucraina, i pacifisti deontologici anche più soggettivamente sinceri si stupiscono di essere considerati spesso come “amici di Putin”. In realtà essi, adottando deontologicamente il principio della pace, facendo dunque il loro “dovere”, non si faranno mai carico delle specifiche conseguenze delle loro azioni, anche quando siano abbastanza prevedibili. Ad esempio, è fattualmente abbastanza chiaro che se si togliessero gli aiuti militari all’Ucraina, questa sarebbe facilmente sopraffatta. I deontologisti tuttavia non si sentono minimamente imbarazzati da simili conseguenze, perché le conseguenze non li riguardano affatto. Se tutti ragionassero come loro, Putin avrebbe già vinto. Ma questo, appunto, non li riguarda proprio. E così si stupiscono di essere considerati “alleati oggettivi” di Putin.

Anche gli interventisti consequenzialisti (si noti che i consequenzialisti possono anche essere non interventisti) hanno un dilemma da risolvere. Accettando la guerra, anche dopo articolata riflessione, non possono che accettarne anche le gravose conseguenze, le quali si manifesteranno però solo dopo la scelta. Essi, al momento della scelta avevano ritenuto che le conseguenze sarebbero state tutto sommato accettabili se messe a confronto con un male peggiore che sarebbe derivato se avessero deciso altrimenti. Tuttavia costoro si espongono alla confutazione da parte della realtà. La posizione dei deontologi resta invece inconfutabile. Il consequenzialista interventista può essere comunque accusato di avere scelto il male minore della guerra, perché è comunque un male. Ma potrebbe anche essere ancor più accusato qualora il male minore si riveli essere in realtà un male peggiore. Il consequenzialista non può mai avere la coscienza del tutto tranquilla, finisce sempre per avere in qualche modo le mani sporche. E questo può sempre essergli rimproverato dal deontologo (il quale può sempre comodamente dire “Non in mio nome!”). In altri termini, i consequenzialisti sono indotti, in ogni situazione, a cercare di calcolare e prevedere i risultati (di cui saranno comunque responsabili, nel bene e nel male) e a scegliere di conseguenza. Ai deontologi invece non importa dei risultati specifici, dei quali non si sentono responsabili. Per loro conta solo l’aderenza al principio assoluto.

Una dieta ricostituente 08

28. Dell’incompatibilità delle due posizioni. Possiamo domandarci a questo punto se sia possibile conciliare queste due prospettive. Ebbene, no, non è possibile. Si può solo stare da una parte o dall’altra. Si può, volendo, argomentare a favore dell’uno o dell’altro punto di vista, in maniera più o meno convincente, ma mai in termini risolutivi. Per questi due mondi, “fare la cosa giusta” può significare cose completamente diverse.

Che fare allora? Di fronte a questi due orientamenti incompatibili si finisce spesso per scegliere una modalità o l’altra a seconda dei casi. Diciamo pure a seconda della convenienza del momento. Si finisce per formulare delle argomentazioni miste che possono essere anche abbastanza ridicole. Ci sono tuttavia dei soggetti che sono invece più costanti e tendono più o meno a essere sempre deontologi oppure sempre consequenzialisti, in base a un atteggiamento personale spesso poco consapevole. Una specie di predisposizione.

Mi permetto qui di suggerire una scappatoia. Di porre all’attenzione la possibilità di adottare un criterio di tipo decisamente pragmatico, un criterio piuttosto “a spanne”, anche se si tratta di un criterio piuttosto vicino al modo di pensare consequenzialista. Si tratta di far ricorso alla casistica empirica nota, all’esperienza passata. Nella storia passata hanno avuto migliori risultati (cioè, hanno fatto meno disastri) coloro che hanno applicato ciecamente i loro valori o principi, oppure coloro che hanno esaminato attentamente e prudentemente le possibili conseguenze delle loro scelte? Cosa convien fare in generale, sulla base del senno di poi? È chiaro che ciascuno formulerà la propria risposta. Dal mio punto di vista, da un esame spassionato, emerge come i consequenzialisti siano meglio adattati alla democrazia. Le ragioni dovrebbero essere facilmente ricavabili da chiunque conosca appena un po’ le regole elementari della democrazia. Propongo al lettore questo compito come esercizio. Sono disposto a correggere gli elaborati.

29. La teoria della guerra giusta. Il caso più celebre di consequenzialismo è senz’altro quello della teoria della guerra giusta[30] alla quale val la pena di riservare uno spazio particolare. È una teoria che risale addirittura ad Agostino e a Tommaso d’Aquino[31]. Prima ancora si trova, ad esempio, in Cicerone. È stata ripresa nell’ambito del giusnaturalismo moderno e, per suo tramite, è giunta fino a noi. A tutt’oggi è una teoria che ha molti sostenitori ed è ancora ampiamente dibattuta. C’è una letteratura immensa sull’argomento. In campo filosofico, tra i sostenitori contemporanei della teoria della guerra giusta possiamo annoverare i filosofi Michael Walzer[32] e Norberto Bobbio[33].

La premessa minimale della teoria è che le guerre non sono tutte uguali. Ci sono guerre inique e guerre giuste. Le guerre giuste si distinguono per essere tali sia nelle motivazioni che le hanno scatenate (jus ad bellum) sia nella condotta sul campo (jus in bello). Per quel che concerne lo jus ad bellum, la sola guerra giusta tendenzialmente è quella che è messa in atto per difendersi da una aggressione. La guerra di offesa non è mai giusta. Nel corso della complessa storia di questa teoria sono state dettate precise condizioni affinché si possa parlare di guerra giusta. Abbiamo, nell’ordine: 1) La giusta causa. 2) La retta intenzione. 3) L’autorità appropriata (legale) e la dichiarazione pubblica. 4) La guerra come ultima risorsa. 5) La probabilità di successo. 6) La proporzionalità. Entrare nel merito dei punti precedenti esula dalle finalità di questo scritto. Il lettore che fosse interessato non farà fatica a trovare un’adeguata documentazione. Va segnalato che l’epiteto di “guerra giusta” non ha in questo caso alcun significato morale, bensì ha un significato giuridico. È definita giusta la guerra che abbia determinati requisiti accertabili in base alla tecnica giuridica. La teoria permette dunque di esprimere un giudizio di tipo giuridico sulla guerra. Il giudizio ovviamente, come tutti i giudizi, potrebbe anche essere errato. Potrebbe anche essere riconsiderato nel caso del sopravvenire di nuovi dati.

Non manca chi ha fatto notare come la teoria della guerra giusta sia del tutto corretta ma che nessuna delle guerre passate sarebbe in grado di passare la prova, se questa fosse condotta in maniera rigorosa. Questa teoria si presta soprattutto a essere impiegata quando in sede internazionale un consesso di nazioni (ad esempio in sede ONU) deve decidere se operare o meno un intervento. Come accade facilmente nelle faccende umane, la teoria è tuttavia stata anche usata strumentalmente dai bellicisti. L’aggressione americana all’Iraq nel 2003, ad esempio, è stata giustificata anche col pretesto che fosse una guerra giusta[34]. In quell’occasione fu anche elaborata una assai discutibile dottrina della guerra preventiva. Occorre dunque tener conto di un possibile uso ideologico e propagandistico della teoria della guerra giusta. Le strumentalizzazioni non bastano tuttavia a invalidarla e, come si diceva, è ancora ampiamente dibattuta.

Taluni hanno sostenuto – lo riporto per imparzialità affinché siano chiare tutte le posizioni – che la teoria della guerra giusta poteva valere per le guerre convenzionali. Non varrebbe più ora che c’è la possibilità della guerra atomica. Norberto Bobbio ha discusso ampiamente su questo punto. Il problema è che la possibilità della guerra atomica non ha messo fuori mercato le altre guerre convenzionali. E su queste, che sono di fatto le uniche a essere praticate, è comunque il caso di pronunciarsi. In effetti l’arma atomica ha una funzione di deterrenza ed è poco probabile che venga mai più usata (dopo il caso del Giappone) poiché con la tecnologia odierna l’uso dell’arma atomica implicherebbe la mutua distruzione assicurata. Le guerre convenzionali hanno invece molta più probabilità di essere utilizzate e di fatto lo sono. Abbiamo dunque bisogno anche di ragionare circa il da farsi relativamente alle guerre non atomiche.

Ma avremmo anche bisogno di ragionare rispetto alle armi atomiche. Negli ultimi decenni l’arsenale atomico mondiale è rimasto congelato dal TNP (Trattato di non proliferazione nucleare) e l’opinione pubblica non pare si sia mai preoccupata più di tanto circa la questione dello smantellamento. Solo nel 2017 è stato proposto da un ristretto gruppo di Paesi il TPNW (Trattato per la proibizione delle armi nucleari) cui però non hanno aderito gli Stati possessori delle bombe o aspiranti tali. Certi pacifisti si rifiutano di mandare qualche cartuccia e qualche obice agli Ucraini che stanno facendo la loro resistenza, un caso cioè che sarebbe generalmente riconosciuto come guerra giusta, ma non dedicano neanche un tweet alla causa della messa al bando delle armi nucleari. Meno male che ci ha pensato Putin a riproporre la questione.

30. L’ambiguo caso della Chiesa cattolica. Come ho spiegato ampiamente in un mio saggio precedente[35], da sempre la Chiesa cattolica sostiene esplicitamente la dottrina della guerra giusta, fin da Agostino e Tommaso d’Aquino. Nel mio saggio ho mostrato dettagliatamente come il Catechismo della Chiesa cattolica sia totalmente incentrato intorno alla teoria della Guerra giusta. Ciò significa l’adesione piena a una prospettiva consequenzialista. Ciononostante, il Papa nel suo attuale pubblico insegnamento mostra di condividere una prospettiva deontologica talvolta assai estrema, fino quasi alla nonviolenza tolstojana, cioè alla proibizione di rendere il male con il male. Questo soprattutto quando sono in questione gli aiuti militari e le spese per la difesa. Ma poi il Papa non trae tutte le conseguenze dalla sua adesione alla nonviolenza. Il messaggio è dunque piuttosto ambiguo. Nel Catechismo si teorizza il diritto alla difesa e alla resistenza da parte di chi è aggredito e invece nelle piazze la Chiesa tuona contro l’invio delle armi in Ucraina e contro gli investimenti nella sicurezza. Si tratta di una palese contraddizione che, nel mio saggio, ho sintetizzato nella formula del peace populism. Intendendo con ciò che questa contraddizione sia dovuta principalmente allo scopo più o meno consapevole della Chiesa di ottenere una qualche popolarità a buon mercato. Un pacifismo deontologico e fondamentalista è senz’altro più popolare di un consequenzialismo responsabile.

Va notato che la teoria consequenzialista della guerra giusta della Chiesa cattolica (almeno quella contenuta nel Catechismo) si espone alle critiche deontologistiche di coloro che professano rigorosamente la teoria della nonviolenza. Per rendersene conto, basta mettere a confronto il Catechismo della Chiesa cattolica con Tolstoj[36]. Agli occhi di Tolstoj, il Catechismo cattolico sarebbe da considerarsi come una mera manifestazione di eresia, un vero e proprio tradimento dell’insegnamento di Cristo. Se stiamo alla lettera, è probabile che Tolstoj abbia ragione. Solo la plateale ignoranza dilagante presso il grande pubblico permette oggi alla Chiesa cattolica di sostenere e insegnare la guerra giusta nel Catechismo e, contemporaneamente, di presentarsi come sostenitrice di un pacifismo deontologico nonviolento, senza che nessuno ne ravvisi le incongruenze.

31. Di che pacifismo sei? Da quanto detto, dovrebbe risultare chiaro fin qui che i problemi che questa materia comporta sono davvero complessi e che ciascuno dovrebbe essere attentamente impegnato nel costruire la propria posizione personale. Una posizione comunque che, per la natura stessa della cosa, non sarà alla fine esente da lati oscuri, incongruenze, conseguenze non desiderate. Sarà dunque una posizione che avrà punti forti, ma anche punti di debolezza. Sarà una simile posizione che sarà poi utilizzata per formulare gli opportuni cauti giudizi sui casi concreti. Dovrebbe dunque risultare chiaro che non ci si può accontentare di superficialità e banalità. Se il ragionamento fin qui sviluppato sarà sembrato eccessivo, ebbene pensi il nostro coraggioso lettore che quel che qui è stato fornito è solo un approccio del tutto elementare. La complessità delle questioni è ben maggiore. In altri termini, non c’è via di scampo, bisogna studiare! Vediamo allora in sintesi, ad usumdelphini, quali sono le principali posizioni possibili.

32. Nonviolenti. Abbiamo anzitutto i nonviolenti. Pare questo il caso relativamente più chiaro, sebbene sia il più difficile da mettere in pratica. Riteniamo di doverli collocare in una loro categoria a parte per il fatto che essi hanno, come obiettivo, non tanto la eliminazione della guerra bensì l’eliminazione della violenza in generale. Se poi intendono – come fa Galtung – per violenza anche la violenza sociale (cioè le disuguaglianze, lo sfruttamento, l’impedimento allo sviluppo delle potenzialità umane di ciascuno, la discriminazione e simili) essi sarebbero impegnati nella impresa di costruire, senza fare uso della violenza, una società completamente nuova, in una vera e propria rivoluzione, sia sul piano istituzionale sia sul piano degli individui. Dal punto di vista metaetico, l’approccio dei nonviolenti è generalmente di tipo deontologico, con tutti i suoi pregi ma anche con i difetti che abbiamo ampiamente discusso in precedenza. I nonviolenti, posti di fronte alla guerra, si troveranno comunque a dover affrontare e risolvere la molteplicità dei dilemmi circa la pace e la guerra che abbiamo segnalato. In particolare, potranno facilmente trovarsi di fronte alla incongruenza dei valori e ai paradossi derivanti dal “non opporsi al male con il male”. E al rischio del fanatismo. Un problema particolare poi è quello della efficacia effettiva in termini pratici della metodologia nonviolenta.

33. Pacifisti assoluti. Abbiamo poi i pacifisti deontologici. Sono coloro che – per i principi più diversi – scelgono sempre la pace, “senza se e senza ma”. Costoro potrebbero essere definiti come pacifisti assoluti. Diciamo pure che costoro, per quanto ampiamente variegati al loro interno, costituiscono un blocco relativamente monolitico. Questa posizione deve comunque risolvere il problema (che non hanno i nonviolenti) di identificare cosa si debba intendere per guerra, cioè di identificare l’oggetto della loro opposizione. Abbiamo visto che l’oggetto guerra è piuttosto fuzzy e, a seconda di quel che si intende, può produrre comunque già delle differenziazioni interne assai marcate nello schieramento. Ci possono essere posizioni assai radicali ove si vietino la produzione e il commercio di armi, ove si chieda lo smantellamento degli eserciti, ma anche ove si vietino i cosiddetti interventi umanitari, le varie forme di interposizione, oppure gli interventi dell’ONU. Ove si condannino nel passato e nel futuro tutte le forme di resistenza armata e ove si condanni anche la guerra passata al nazifascismo. C’è poi anche chi intende la pace solo come obiezione di coscienza individuale (la riserva solo per sé e non la impone agli altri) e chi la intende invece come norma legale da imporre a tutti attraverso una Costituzione. Anche i pacifisti deontologici possono facilmente trovarsi di fronte alla incongruenza dei valori e al paradosso di “non opporsi al male con il male”. E al rischio del fanatismo. Il pacifismo assoluto sembrerebbe dunque la posizione più facile ma al proprio interno, osservando un minimo di rigore, può riservare molti problemi piuttosto difficili da risolvere.

34. Pacifisti relativi. Ma l’elenco non è finito. L’approccio metaeticoconsequenzialista pone più di un problema, per quel che riguarda il da farsi rispetto alla pace (e alla guerra). Se i pacifisti deontologici sceglieranno pressoché sempre la pace, senza badare alle conseguenze, i consequenzialisti invece potranno essere indotti a scegliere, in casi specifici diversi, sia la pace sia la guerra. Ma allora, i consequenzialisti sono da considerare come pacifisti o non piuttosto come bellicisti? Oppure vanno considerati di volta in volta, solo sulla base della loro scelta del momento? Risultando così come dei ballerini morali che transitano troppo facilmente da una posizione all’altra?

Una dieta ricostituente 09Facciamo un esempio per capirci. Bertrand Russell (1872-1970) è ritenuto generalmente un’importante figura di filosofo e attivista pacifista. È famoso per essersi impegnato per la messa al bando delle armi atomiche. Si è opposto alla partecipazione della Gran Bretagna alla Prima guerra mondiale. Per questo fu privato della cattedra e fu perfino incarcerato. Eppure Russell, dopo un notevole impegno per prevenire il conflitto, giunse ad approvare la guerra contro la Germania nazista. Come dovremmo considerare la sua posizione? Siamo in presenza di un pacifista eroico, oppure di un bellicista guerrafondaio? Oppure di un voltagabbana? Russell ha chiarito la sua posizione in un famoso articolo del 1943[37] nel quale egli si considera non un pacifista assoluto ma “pacifista politico relativo”[38]. Ben al di là di essere un altalenante, egli si considera dunque un pacifista perfettamente coerente. Ma come tale, e proprio in quanto tale, ammette che talune guerre vadano appoggiate. Va da sé che i nonviolenti e i pacifisti assoluti difficilmente accetterebbero Russell in loro compagnia.

Se non vogliamo trattare anche Russell come un guerrafondaio allora non possiamo fare altro che accettare la sua argomentazione e ampliare la nostra classificazione dei pacifisti. Avremo allora, da un lato, i pacifisti assoluti che deontologicamente scelgono sempre la pace e poi avremo, d’altro canto, anche i pacifisti non assoluti, pacifisti “relativi”, che non scelgono sempre la pace e si riservano di giudicare caso per caso. Dovrebbe essere abbastanza chiaro, almeno a partire dall’esempio di Russell, che i pacifisti relativi non possono essere assimilati tout court ai bellicisti (i quali sceglierebbero pressoché sempre la guerra). Assumiamo dunque che non basta dare un appoggio circostanziato a una certa guerra, per essere considerati tout court bellicisti o guerrafondai. Si può combattere Hitler anche in nome della causa della pace. Anche qui, le distinzioni sono importanti, non si tratta della stessa cosa! Nella recente letteratura anglosassone sulla pace e sulla guerra si parla tranquillamente di relative pacifism, di contingentpacifism, oppure di conditionalpacifism. Se non si accetta questa soluzione si corre il rischio di screditare una categoria di pacifisti sicuramente numerosa e ben impegnata. Facendo un cattivo servizio alla causa della pace. Si tratterebbe dunque di ammettere una buona volta che i pacifisti relativi siano comunque dei pacifisti a pieno titolo e che un pacifista in certi casi possa anche stare dalla parte della guerra. Pazza idea! Ancora una volta, questa non è una questione che può essere affrontata in maniera schematica. Il pericolo del fanatismo è sempre alle porte.

35. Pacifisti relativi insufficienti. I pacifisti relativi (che non possono che essere consequenzialisti) costituiscono tuttavia un gruppo davvero composito, spesso diviso al proprio interno in base alle diverse analisi condotte circa l’opportunità o i costi e i benefici delle diverse scelte di pace o di guerra. È il caso di ricordare che molti pacifisti relativi (forse la maggioranza!) sembra che, nel caso del conflitto russo – ucraino, abbiano optato proprio per la pace (cioè, di fatto, per la resa incondizionata dell’Ucraina). Sembra tuttavia che i pacifisti relativi facciano notizia solo quando scelgono di appoggiare la guerra. Nel caso della guerra russo – ucraina, diversi di loro hanno appoggiato la resistenza ucraina, fino ad approvare le sanzioni, l’invio di armi, guadagnandosi così l’appellativo dispregiativo di pacifisti con l’elmetto. Ugualmente hanno approvato l’aumento delle spese militari per la sicurezza, beccandosi l’accusa di essere dei guerrafondai e di voler togliere risorse alla sanità, all’istruzione e a una miriade di altre buone cause.

Il livello decisamente poco elevato dell’attuale dibattito italiano sulla guerra in Ucraina suggerisce, ahimè, una pessimistica considerazione circa i molti pacifisti relativi che sono in circolazione. Tra i quali può essere anche collocato il già citato prof. Orsini. Nonostante il parere autorevole di Ockham[39],per tutti costoro mi verrebbe di suggerire una nuova categoria, quella dei pacifisti relativi insufficienti. Se non piace questo termine, si potrebbe anche parlare di pacifisti relativi deboli. Come diceva Viano: “di quelli che non ce la fanno”. O, ancora, di pacifisti relativi opportunisti. Che abbiano optato per la pace o per la guerra, costoro, come consequenzialisti, mostrano abbastanza palesemente di avere operato la loro scelta in base ad analisi assai discutibili delle conseguenze. Purtroppo, l’analisi delle conseguenze non sempre è caratterizzata da onestà e imparzialità, da considerazioni approfondite e di ampio respiro. Talvolta può essere caratterizzata da basse e ciniche convenienze, da abietti e futili motivi. Non tutti si chiamano Bertrand Russell. Non tutti si chiamano Albert Einstein (il quale sulla guerra a Hitler ha sostenuto posizioni analoghe a quelle di Russell). L’analisi delle conseguenze poi può non sempre essere caratterizzata dall’impiego di dati fondati e deduzioni logicamente corrette. Dunque, bisogna purtroppo riconoscerlo, il consequenzialismo è in fin dei conti fin troppo democratico. Ce n’è davvero per tutti i gusti, e anche gli imbecilli sono comunque sempre autorizzati a fare la loro brava analisi delle conseguenze. Del resto in una democrazia è senz’altro giusto che sia così. La democrazia dovrebbe essere così robusta da scoraggiare gli imbecilli e invece li subisce continuamente. E forse li alimenta.

36. Utilitarismo e verità. I pacifisti relativi insufficienti, che sono una legione, non sono purtroppo una sorpresa poiché abbiamo già sottolineato la possibile parentela del consequenzialismo con le etiche utilitaristiche. L’utilitarismo tradotto in pratica purtroppo spesso dimentica il principio cardine che lo dovrebbe improntare, il principio della “maggior felicità per il maggior numero”[40],e tende a scadere in mero opportunismo individualistico. Questo è il motivo per cui, in ambito consequenzialistico occorre sempre esercitare una grande vigilanza affinché l’analisi delle conseguenze non sia viziata dagli innumerevoli bias in cui ci si può imbattere. Mentre in campo deontologico il dibattito non può che vertere intorno ai valori universali (i quali però per lo più si assumono a torto o a ragione senza gran ché dibattere), in campo consequenzialista invece il dibattito è essenziale.Dovrebbe sempre essere approfondito, ampio, documentato, e soprattutto pubblico, per permettere la formazione di un’opinione pubblica matura e consapevole. In altri termini, per fare bene i consequenzialistibisogna studiare. Mi permetto in proposito di richiamare una considerazione recentemente espressa da Emanuele Parsi[41], e cioè che le democrazie non possono proprio funzionare al di sotto di una certa soglia di circolazione della verità. A maggior ragione, ciò dovrebbe valere di fronte a questioni gravi come quelle della pace e della guerra. Occorrerebbe dunque un forte commitment per la verità. È invece un dato fatto che il pubblico medio attuale non si occupa di politica e men che mai di politica internazionale. E le informazioni che circolano sono quelle che corrono sui social media e sui media nazionali. E, soprattutto, i nostri pacifisti relativi insufficienti tendono a decidere piuttosto irresponsabilmente con un tweet o con un Like, magari in base a un bel corredo di fake.

37. Per concludere. Lo scopo di questo saggio, divenuto ormai fin troppo lungo, era quello di fornire alcuni strumenti elementari di analisi a chi volesse condurre una riflessione indipendente e non banale sulle questioni della guerra e della pace. Lo scopo era anche di esercitare un’opera minima di chiarificazione del linguaggio che, su questo tema, è oggi davvero molto inquinato. Spero di avere mostrato ancora una volta come la filosofia possa disseminare dubbi piuttosto che propinare certezze e come possa rappresentare tuttavia uno strumento critico nei confronti per lo meno delle forme più crasse di superficialità. Ho cercato di essere il più obiettivo possibile, non rinunciando ovviamente di volta in volta a esprimere le mie opinioni. Per rispetto nei confronti del lettore, mi sono tuttavia sforzato di rendere sempre ben distinguibili le mie analisi argomentate dalle mie opinioni e valutazioni. Ringrazio i pochi lettori che siano giunti fin qui, sperando di avere fatto loro un qualche buon servizio. Disponibilissimo a ricevere critiche e osservazioni. E a ricevere, qualora fosse il caso, anche qualche ringraziamento. In ossequio al motivo kantiano del “legno storto”, non mi faccio comunque nessuna illusione che tutto ciò possa servire a migliorare anche di un solo millimetro la nostra etica pubblica.

Opere citate

2021 AA. VV., (a cura di), Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo. Decima edizione, Terra Nuova Edizioni.

1962 Aron, Raymond, Paix et guerre entrelesnations, Calmann-Lévy, Paris.Tr. it.: Pace e guerra tra le nazioni, Edizioni di Comunità, Milano, 1970.

1990 Berlin, Isaiah, “Alla ricerca dell’ideale”, in AA., VV. (a cura di), Etica ed economia, La Stampa, Torino. [1988]

1984 Bobbio, Norberto, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna.

1989 Bobbio, Norberto, Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, Edizioni Sonda, Torino.

1991 Bobbio, Norberto, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Marsilio, Venezia.

2010 Losurdo, Domenico, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Bari.

1967 Erasmo, da Rotterdam, Il lamento della Pace (a cura di Luigi Firpo), UTET, Torino. [1517]

1969 Galtung, Johan, “Violence, Peace, and Peace Research”, in Journal of Peace Research, Vol. 6, No. 3 (1969), pp. 167-191.

1995 Kant, Immanuel, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Kant, Immanuel, Scritti di storia, politica e diritto (a cura di Filippo Gonnelli), Laterza, Bari. [1784]

1965 Milani, Lorenzo (Don), L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze.

1991 Kant, Immanuel, Per la pace perpetua (a cura di salvatore Veca), Feltrinelli, Milano. [1795]

2022 Parsi, Vittorio Emanuele, Il posto della guerra e il costo della libertà, Bompiani, Milano.

1992 Rousseau, Jean-Jacques, Il contratto sociale (a cura di Tito Magri), Laterza, Bari. [1762]

1943-44 Russell, Bertrand, “The Future of Pacifism”, in The American Scholar, Vol. 13, No. 1 (Winter 1943-44), pp. 7-13.

2009 Tolstoj, Lev, La confessione, Feltrinelli, Milano. [1882]

1988 Tolstoj, Lev Nikolàevič, La mia fede, Editoriale Giorgio Mondadori. [1884-1892]

1894 Tolstoi, Leone, Il Regno di Dio è in voi, Fratelli Bocca, Roma.

1997 Walzer, Michael, Just and Unjust Wars, Basic Books, Harper Collins Publishers. Tr. it.: Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Liguori, Napoli, 1990.

[1]Ho iniziato a scrivere questo saggio pochi giorni dopo il 24 febbraio 2022, data dell’aggressione all’Ucraina da parte della Russia. Per questo sono andato a ripescare materiali relativi alla mia attività di insegnamento, insieme a una gran quantità di vecchi appunti e scritti risalenti al periodo delle guerre jugoslave e al periodo della occupazione dell’Afghanistan. Ricordo in proposito di avere dato un mio perdurato contributo alla Campagna contro le mine antiuomo in Afghanistan, condotta dall’ICS. La stesura del saggio è durata per tutti questi lunghi mesi di guerra, nel corso dei quali ho potuto tuttavia assistere al pressapochismo sia del dibattito mediatico sia delle prese di posizione delle diverse forze politiche, pacifisti compresi. Ho potuto assistere anche alle incertezze, alle ambiguità e al tradimento della causa dei resistenti ucraini da parte di molti degli appartenenti alla mia stessa parte politica, fattori questi spesso uniti all’ignoranza e allo stravolgimento della verità storica. Ho pensato più volte di lasciar perdere. Che non ne valesse proprio la pena. Ho trovato la motivazione minima per condurre a termine questo lavoro dopo la liberazione di Kherson. Slava Ukraini!

[2]Cfr. AA. VV. 2021.

[3]Si noti che possono ben sussistere conflitti d’altro tipo, considerati come accettabili o addirittura utili e indispensabili. Come, ad esempio, il conflitto tra i candidati in una democrazia.

[4] Putin dichiara che la sua è un’operazione militare speciale, ma poi dichiara la mobilitazione “parziale” come se fosse in guerra. D’altro canto, l’Ucraina non ha mai dichiarato guerra alla Russia. Si è trovata in guerra suo malgrado.

[5]Si veda il noto saggio di Erasmo da Rotterdam: Il lamento della pace. Cfr. Erasmo da Rotterdam 1967[1517].

[6] È il caso di far notare che perché si possa parlare di guerra occorre che ci siano delle comunità politiche. La nozione di guerra dunque ha poco a che vedere con la questione dell’aggressività umana, com’è stata trattata dagli etologi, o dagli psicologi. Certo, l’aggressività rappresenta uno dei substrati biologici della guerra. Ma si può dire la stessa cosa anche del pollice opponibile.

[7] Cfr. Bobbio 1984: 124.

[8] La definizione di ciò che è considerato violento è senz’altro di tipo storico e culturale. Certi rituali primitivi erano – e sono talvolta tuttora – violenti. Violenti i sacrifici, animali ma anche umani, previsti da talune religioni. Violenti certi metodi educativi, o certe modalità nel rapporto tra uomo e donna. Taluni considerano violento il cibarsi di carne animale o di certi prodotti animali. Qualcuno considera violento anche l’uso di certi aggettivi o espressioni linguistiche. Ma violenza è anche quella legale, esercitata dallo Stato. È nozione comune il fatto che lo Stato moderno abbia il “monopolio della violenza”.

[9] Scrivo “nonviolenza” senza il trattino seguendo un’indicazione di Aldo Capitini.

[10]La definizione è tratta da Wikipedia, versione in lingua inglese. La traduzione è mia.

[11]Di questa crisi è dato conto nello scritto La confessione. Cfr. Tolstoj 2009.

[12] Trascrivo per comodità del lettore quello che secondo Tolstoj costituirebbe l’autentico comandamento del Discorso della Montagna. Il testo è banalmente tratto da Wikipedia:

“Primo precetto (Matteo, V, 21-26). L’uomo non solo non deve uccidere l’uomo, ma nemmeno adirarsi contro di lui, suo fratello; non deve disprezzarlo né considerarlo “stupido”. Se avrà questionato con qualcuno dovrà riconciliarsi con lui prima di offrire i suoi doni al Signore, vale a dire prima di accostarsi a Dio con la preghiera.

Secondo precetto (Matteo, V, 27-32). L’uomo non solo non deve commettere adulterio, ma neppure servirsi della bellezza della donna per il proprio piacere; e se sposa una donna, deve restarle fedele per tutta la vita (nella tradizione cattolica corrente sono qui unificate la seconda e terza antitesi).

Terzo precetto (Matteo, V, 33-37). L’uomo non deve impegnarsi in niente, sotto giuramento.

Quarto precetto (Matteo, V, 38-42). L’uomo non solo non deve rendere occhio per occhio, ma quando qualcuno lo percuote su una guancia, deve porgergli l’altra; deve perdonare le offese, sopportarle con rassegnazione e non rifiutare nulla di ciò che gli venga chiesto.

Quinto precetto (Matteo, V, 43-48). L’uomo non solo non deve odiare i suoi nemici e combatterli, ma deve amarli, aiutarli e servirli”.

[13] Nella filosofia di Hobbes, lo stato di natura è descritto come una lotta violenta di tutti contro tutti, dove è contemplata l’uccisione del nemico. In Hegel la violenza è generatrice della Storia. Si ricordi la sua metafora del bancone del “macellaio della storia”. La volontà schopenhaueriana è eminentemente conflittuale e violenta. In alcuni aspetti della filosofia di Nietzsche la violenza è contemplata come fondamento stesso della realtà. La teoria darwiniana – che è teoria scientifica – implica, di fatto, la predazione che rappresenta comunque una forma di violenza. Ma una vera e propria filosofia della violenza è contenuta nel darwinismo sociale che è uno stravolgimento della teoria darwiniana. Molte filosofie della razza si fondano sul conflitto razziale inteso come motore della storia. Nonostante molte ragguardevoli filosofie abbiano posto come fondamento la violenza, nella storiografia filosofica si esita a riconoscere l’esistenza di una corrente sotterranea che potremmo chiamare violentismo. Quando si vuol dire qualcosa del genere di solito si ricorre al realismo politico. Ma non è la stessa cosa.

[14]Osserva Bobbio che, mentre si può pensare a una pace perpetua, assai più raramente è stato elaborato il pensiero di una guerra perpetua. I bellicisti che ammettono la guerra normalmente la considerano come un elemento temporaneo, da concludersi con una pace. Sorge dunque il dubbio che i bellicisti possano, in qualche misura, essere considerati minimamente pacifisti.

[15]Coloro che sono contrari alle spese militari di solito lo sono per principio. E tendono a non considerare se la situazione attuale internazionale sia o meno una situazione di insicurezza. Il problema sembra non li riguardi. Posto che si ammetta di essere in una situazione di insicurezza, non spiegano se in tal caso si debba ugualmente procedere con un disarmo unilaterale.

[16]Faccio qui riferimento all’articolo di Andrew Fiala contenuto nella Enciclopedia Stanford. Vedi: Fiala, Andrew, “Pacifism”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2021 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = https://plato.stanford.edu/archives/fall2021/entries/pacifism/.Fiala è uno tra i più importanti studiosi anglosassoni della materia.

[17] Cfr. Rousseau Capitolo IV, Della schiavitù.

[18]Per un orientamento sulla questione si può vedere: Hsieh, Nien-hê and Henrik Andersson, “IncommensurableValues”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2021 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = https://plato.stanford.edu/archives/fall2021/entries/value-incommensurable.

[19]Si noti si può sostenere che anche la vita non sia un valore assoluto. E che vada comunque sempre commisurato con altri beni materiali o immateriali altrettanto importanti. È noto che gli umani, essendo animali culturali, sono in grado di sacrificare volontariamente la propria vita, in determinate condizioni. Giusta o sbagliata che sia la decisione. Una riflessione articolata sulla questione si trova nel mio saggio: Durkheim e i “suicide bombers”. Cfr. Finestre rotte: Durkheim e i “suicide bombers”.

[20]Cfr. Kant 1991 [1795].

[21]Cfr. Kant 1995[1784]. La traduzione che propongo qui si trova in Berlin 1990.

[22]Ci siamo rifatti particolarmente ad Andrew Fiala, uno dei più importanti studiosi anglosassoni di queste questioni.

[23] Cfr. Aron 1962.

[24]Cfr. Bobbio :137

[25]Il resto di questo paragrafo è tratto da un mio saggio precedente.

[26]Cfr. Pirjevec 2001: 469 e segg..

[27]La pace può essere trattata anche sul piano della metaetica, cioè attraverso quella disciplina dell’etica che riflette sui metodi dell’etica stessa.

[28]Non posso qui dilungarmi su questa classificazione. Chi fosse interessato troverà ampi ragguagli in merito su un qualsiasi manuale di storia della filosofia o in qualsiasi monografia su Kant.

[29] Cfr. Milani (Don) 1965.

[30] Si noti che il consequenzialismo ha prodotto molte altre argomentazioni a proposito della pace e della guerra.

[31] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II-II, Questione 40.

[32]Cfr. Walzer 1997.

[33]Cfr. Bobbio 1984, Bobbio 1989, Bobbio 1991

[34]Detta anche Seconda Guerra del Golfo, fu combattuta nel 2003 anche se gli eventi possono essere datati tra 2003 e 2011. La guerra fu condotta dagli USA (allora presidente era George W. Bush) e da una coalizione dei cosiddetti Volenterosi. Si tratto di una cosiddetta “guerra preventiva”. Le analisi e le inchieste successive dimostrarono che non sussistevano le motivazioni per considerare questa guerra come una “guerra giusta”.

[35]Cfr. il mio saggio Catechismo, guerra e resistenza. Finestre rotte: Catechismo, guerra e resistenza.

[36]Si veda Tolstoj 1988 e Tolstoi 1894.

[37]Cfr. Russell 1943-44.

[38]La qualificazione di “politico” Russell intende distinguere la sua posizione da quella degli obiettori di coscienza.

[39]Il quale sosteneva che le entità (i concetti) non dovrebbero essere moltiplicate se non per estrema necessità.

[40]Il principio benthamiano costituisce un nobile tentativo di universalizzare in qualche modo l’utilitarismo.

[41]Cfr. il recente Parsi 2022.

Tre manifesti sul futuro dell’umanità

di Paolo Repetto, 3 novembre 2022

Tre manifesti copertina

Sentiamo che il mondo antico sta per finire, ma come sarà quello nuovo? I più grandi intelletti di oggi non sono in grado di prevederlo, esattamente come quelli dell’Antichità non erano in grado di prevedere l’abolizione della schiavitù, la società cristiana, l’invasione dei barbari e tutti i grandi eventi che hanno trasformato il volto terrestre.
(Alexis de Tocqueville)

Due letture recenti mi riportano ad un argomento che ho già trattato in più occasioni (cfr. soprattutto La discesa dal monte analogo). Temo però di averlo fatto piuttosto confusamente, e provo allora ad affrontarlo per l’ennesima volta cercando di essere più chiaro (e di chiarire le idee in primo luogo a me stesso).

Gli scritti che mi hanno offerto lo spunto sono molto diversi. Il primo è un “manifesto” redatto in stile futurista, comparso sulla rivista on line “L’indiscreto” il 14 settembre col titolo “Incivilizzazione”. Anche il secondo si presenta come “Manifesto del grande risveglio”, ma il titolo ufficiale è “Contro il grande reset” e ha la struttura di un vero e proprio pamphlet. Il terzo è un saggio pubblicato a inizio anno da Aldo Schiavone, intitolato “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, che ho letto solo pochi giorni fa.

L’idea di un intervento era già nata in realtà dopo la lettura del primo, ma avevo in mente solo una ironica demolizione; l’incontro con Dugin e il libro di Schiavone mi hanno invece convinto a tentare un approfondimento più serio. Spero non riesca soltanto più pesante.

I tre testi viaggiano a livelli assolutamente diseguali, per valore e per profondità nella trattazione, e un raffronto alla pari non avrebbe alcun senso: ma tutti e tre si prestano altrettanto bene al mio scopo, perché consentono di mettere a fuoco poli diversi, addirittura opposti, dell’atteggiamento nei confronti della civilizzazione “occidentale”, della razionalità e, implicitamente, del futuro della nostra specie. Cerco quindi di trattarli come “documenti”, testimonianze significative di come una stessa atmosfera possa essere interpretata con disposizioni antitetiche.

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Incivilization: The Dark Mountain Manifesto è uno scritto relativamente breve pubblicato nel 2009 da Paul Kingsnorth e Dougald Hine, per annunciare l’inaugurazione del The Dark Mountain Project. I due militano nella galassia tanto diffusa quanto confusa degli eco-integralisti d’oltreoceano. Nel testo fanno riferimento costante, come ispiratore e nume tutelare del progetto, al poeta Robinson Jeffers, popolare negli anni ‘20 e ‘30 nella cerchia dei bohemiens e dei letterati che affollavano le coste californiane (era un amico di George Sterling e di Edgar Lee Masters, e per un certo periodo ha frequentato anche D.H. Lawrence), ma quasi sconosciuto al di fuori di quel giro (malgrado una sua foto sia stata pubblicata sulla copertina della rivista Time, cosa piuttosto rara per un poeta, e il suo profilo compaia su un francobollo del servizio postale). Conviene partire direttamente da lui.

Jeffers era un personaggio singolare, capace di costruire con le proprie mani una casa con tanto di torre tutta in pietra (“Cercate le fondamenta di granito levigato dal mare,/ le mie dita conobbero l’arte/di sposare pietra a pietra, troverete alcuni resti”), quella che compare nella immagine di apertura, e di vivere poi in essa un’esistenza appartata e austera, ma anche attento ad alimentare il mito che attorno a questa casa e a questa esistenza si andava creando. Ha esercitato senza dubbio una grande influenza sugli scrittori ambientalisti della generazione successiva, come Edward Abbey e Gary Snyder, ma anche Bukowski, cui dell’ambiente non importava un fico, lo idolatrava. (“Mi ha influenzato moltissimo, adoravo la sua selvatica ruvidezza nel verso… Jeffers è il mio dio… non sopportava gli uomini, pensava che la vita umana fosse terribile, come potrei non adorarlo?”) Negli anni settanta-ottanta è stato poi ripescato dalla cultura new-age, continuando però ad essere un autore di nicchia: e per quello che conosco della sua opera mi pare destinato a rimanere tale. Al momento le uniche sue raccolte poetiche tradotte in italiano sono “La bipenne e altre poesie” (1969) e “Cawdor” (1977: è in realtà un vero e proprio poema “epico”), e non hanno suscitato particolari entusiasmi.

Al di là delle eccentricità e dei meriti, però, ciò che davvero qui importa di Jeffres è l’appartenenza ad una tradizione “nobile” della cultura statunitense, che vede tra gli antesignani ottocenteschi personaggi come Thoreau, Muir e soprattutto Ralph Waldo Emerson e i “trascendentalisti”, e che predica un rapporto completamente diverso con la natura, empatico anziché antagonistico. Alle spalle di questi proto-ecologisti c’era un sentire religioso profondo, lontano da quell’ipocrita dogmaticità ecclesiale alla quale gli uomini del nuovo mondo avevano voluto sottrarsi: davanti a loro c’era una natura ancora incontaminata, spazi immensi e solitari nei quali il rapporto col trascendente si imponeva immediato e che andavano salvaguardati dalla colonizzazione distruttiva delle attività umane. Sulla spinta di questa tradizione sono nati infatti i primi grandi santuari naturalistici, come Yellowstone o Yosemite.

Jeffers ne ha ereditato entrambi i presupposti di base, ma è poi andato oltre. Ha predicato una sorta di panteismo che mescola la scienza e il culto mistico della bellezza della natura, nella “convinzione che l’umanità sia troppo egocentrica e troppo indifferente alla sorprendente bellezza delle cose”: e ha coniato per il suo atteggiamento la definizione di “inumanesimo”. Lo definiva esplicitamente come “…uno spostamento dell’enfasi e del significato dall’uomo al ‘non uomo’; il rifiuto del solipsismo umano e il riconoscimento della magnificenza transumana…”.

Per dare voce a questo atteggiamento la sua poesia si compiace di immagini brutali, indulge alla descrizione della violenza (stiamo parlando di un secolo fa: oggi gli stomaci dei lettori sono abituati a digerire ben altro), insiste su un atteggiamento misantropico e su un pessimismo esasperato e addirittura auspica un suicidio liberatorio (per la natura) dell’umanità. E a questo si è voluta attribuire la sua limitata fortuna critica e di pubblico.

In realtà credo che la ragione sia un’altra. L’ambizione di Jeffers era di ridare alla poesia un respiro epico, sul modello del “Paradiso perduto” di Milton, e per farlo era necessario usare una franchezza aspra, creare emozioni ma anche accompagnare con la suggestione di immagini forti il pensiero: “La poesia racchiude ed esprime il tutto, come la prosa non potrà mai. Il suo compito è contenere un mondo intero, all’istante, fisico e sensuale, dell’intelletto e dello spirito… La scienza tende a scomporre le cose per scoprirle; seziona, analizza. La poesia invece mette le cose insieme, facendo scoperte ugualmente valide e allo stesso tempo creando.” La sua era evidentemente una cifra poetica controcorrente, in un’epoca nella quale i suoi contemporanei (da Eliot a Pound agli ermetici italiani) adottavano un linguaggio elitario e infarcito di difficoltà; e quella poetica Jeffers l’ha perseguita con coerenza e in sprezzante solitudine lungo tutta la sua carriera, infischiandosene delle mode e delle correnti, e anzi, bollando l’uso escludente della parola come puro manierismo.

Jeffers leggeva effettivamente la storia dell’umanità tutta in negativo. Era attratto dalla scienza, ma giudicava devastanti i suoi risvolti pratici, la tecnologia sfuggita al controllo. Disprezzava la politica, ma non esitava a prendere posizioni radicali e impopolari (come quella del pacifismo isolazionista all’epoca della seconda guerra mondiale). Questo modo di sentire non era comunque a suo parere né misantropico né pessimista. Piuttosto consentiva “un ragionevole distacco come regola di condotta, invece di amore, odio e invidia … offre magnificenza all’istinto religioso”.

La verità è che Jeffers non nega la violenza né la esalta: la analizza come un dato di fatto, come la caratteristica fondamentale del vivere. Lo fa da un punto di vista “materialistico”, che contrappone a quello “umanistico”. “L’umanesimo ci insegna meglio perché soffriamo, ma il materialismo ci insegna a soffrire”. Scrive: “L’universo esterno divino non è in pace con se stesso, ma pieno di tensioni e violenti conflitti. Il mondo fisico è governato da opposte tensioni. Il mondo delle cose viventi è formato da una lotta continua e da desideri irriconciliabili. Il dolore è una parte essenziale della vita”. Per “materialismo” intende quindi la coscienza darwiniana della lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza.

In sostanza. Per Jeffers il dolore non è stato introdotto in una preesistente serena armonia del cosmo dalla trasgressione umana: quella che è stata introdotta è invece la percezione come dolore di un conflitto che è di per sé intrinseco alla natura. Questa percezione l’uomo non l’accetta, e cerca di liberarsene modificando l’ordine delle cose, abusando quindi dell’ambiente e degradandolo. E non si limita a trasformare la terra, ma la distrugge, condannando la sua stessa specie all’estinzione. In questo senso l’uomo è il peggiore di tutti gli animali, il più dannoso e il più scriteriato. La sua è un’intelligenza malata: attraverso la presunzione razionalistica e le sue ricadute tecnologiche si stacca sempre più dalla natura, e nel contempo però non può non riconoscere la sublime bellezza di quest’ultima, nella quale intravvede l’opera di Dio; ma, ed è questo il paradosso, anziché riconciliarsi con essa è ulteriormente spinto, proprio dalla straziante coscienza di quanto sta perdendo, alla crudeltà e all’autodistruzione. Ciò vale tanto più per i popoli presso i quali il processo di “civilizzazione” è più avanzato, ovvero per la civiltà occidentale, che è avviata ad un palese declino, travolta dall’egoismo, dalle guerre, dalla mercificazione.

E così, solo una volta scomparso l’uomo l’armonia cosmica si ricomporrà, in un’altra forma, ma non ad un livello inferiore. Nel farci capire ed accettare tutto questo la poesia ha un ruolo determinante, e al poeta va tributato un religioso rispetto (che il poeta deve guadagnarsi resistendo alle tentazioni del successo e della fama: “Se Iddio ha avuto la bontà di darvi un poeta/ Ascoltatelo. Ma per l’amor di Dio lasciatelo in pace finché è vivo; niente feste o premi/ Che l’uccidono. Un poeta è colui che sa ascoltare/ La natura e il proprio cuore; e se il frastuono del mondo lo circonda, se è forte saprà sbarazzarsi dei nemici./ Ma degli amici no”.

La coerenza di Jeffers non è forse stata così totale come le sue stesse parole chiederebbero, altrimenti non saremmo qui a parlarne: il mio problema con lui non è però questo, non ho il diritto di essere così integralista. Il problema sta nel fatto che la sua poesia, pure così chiara e diretta, lascia comunque spazio sia a interpretazioni forzate (il Bukowski di cui sopra) sia ad una degustazione puramente “estetica”, per amanti dei sapori forti. Chiama insomma ad essere testimoni passivi del naufragio, o addirittura a compiacersi della violenza delle onde. E non sono del tutto sicuro che nel profondo Jeffers la pensasse davvero così: probabilmente delle onde aveva anche paura.

Una curiosità: Jeffers è quasi omonimo di un altro letterato ambientalista, appartenente però alla tradizione inglese, Richard Jefferies, grande camminatore, naturalista ed esploratore delle campagne britanniche, nonché autore di un romanzo post-apocalittico, “Dove un tempo era Londra” (1885. cfr. il mio Pensare con i piedi). Quest’ultimo immagina che dopo una improvvisa catastrofe, della quale non viene precisata la natura, il paesaggio inglese venga riconquistato dalle foreste, che si mangiano tanto la campagna quanto le strade e le città, e Londra sia ridotta ad una palude venefica. Non so se Jeffrers l’abbia mai letto, non mi risulta che lo abbia citato, ma credo che questa prospettiva gli sarebbe piaciuta.

Tre manifesti 03

Mi sono soffermato a lungo su Jeffers perché gli estensori del manifesto del Dark Mountain Project non si sono sforzati molto: hanno ripreso pari pari la sua visione, aggiornandola alle attuali emergenze ambientali, economiche e politiche. In effetti avevano solo l’imbarazzo della scelta. Cerco comunque di riassumere il loro testo attraverso i passi più significativi.

Il Manifesto parte appunto dalla presa d’atto delle radicali trasformazioni in corso:

Tutt’intorno a noi avvengono cambiamenti che suggeriscono come il no stro modo di vivere stia già passando alla storia. Stiamo cadendo. Viviamo in un’epoca nella quale i limiti cui siamo abituati stanno scomparendo, e le nostre fondamenta ci vengono strappate da sotto i piedi. Dopo un quarto di secolo di noncuranza, durante il quale siamo stati spinti a credere che la bolla non sarebbe mai esplosa, i valori mai crollati, ecco la fine della storia … La Hybris ha ora la sua Nemesi. […] Una storia a noi familiare si sta concludendo. È la storia dell’impero che crolla dall’interno. È la storia di un popolo che ha creduto, per molto tempo, che le proprie azioni non avrebbero avuto conseguenze. È la storia di come quel popolo dovrà fare i conti con la fine del proprio mito. È la nostra storia.

Mentre scriviamo queste righe, nessuno può dire con certezza quando finirà lo sfaldarsi del tessuto finanziario e commerciale della nostra economia. Nel frattempo, fuori dalle metropoli, lo sfruttamento industriale incontrollato sgretola le basi materiali della vita di moltissime parti del mondo, e grava sul sistema ecologico che la sostiene.”

Vengono poi messi in discussione i plinti di fondazione della civiltà:

“La civiltà umana è una costruzione particolarmente fragile. È costruita su poco più che una semplice convinzione: la certezza che i propri valori siano quelli giusti; la fede nel suo sistema di leggi e ordine; la fede nella sua valuta; ma al di sopra di tutto, probabilmente, la fede nel suo futuro.”

Queste convinzioni sono state riassunte e rielaborate, soprattutto nel mondo occidentale, in una narrazione mitologica che ha come protagonista il progresso. La storia di questa mitologizzazione passa attraverso successive declinazioni dell’utopia razional-capitalistica:

“Sulle radici della cristianità occidentale, l’Illuminismo all’apice del suo ottimismo ha innestato una visione del paradiso terrestre, cui le gesta umane, guidate da calcolo razionale, potranno condurci. Grazie a questa guida, ogni generazione vivrà una vita migliore di quella che l’ha preceduta. La storia diventa un ascensore, e l’unica via possibile è verso l’alto. All’ultimo piano c’è la perfezione umana: è fondamentale che questa rimanga fuori portata quel tanto che basta al fine di sostenere l’illusione del moto.”

La storia recente, invece, ha dato un duro colpo a questo meccanismo.

“Il progresso ha, in molti modi, fallito nel suo tentativo di produrre benessere. Le generazioni di oggi sono evidentemente meno soddisfatte, e di conseguenza meno ottimistiche, di quelle che le hanno precedute. Lavorano di più, con meno garanzie, e hanno meno possibilità di lasciarsi alle spalle il contesto sociale nelle quali sono nate. Hanno paura del crimine, del collasso della società, dello sviluppo incontrollato e della catastrofe climatica. Non credono che il futuro sarà migliore del passato.”

E allora? Allora “è tempo di cercare nuovi percorsi e nuove storie, che ci conducano attraverso la fine del mondo per come lo conosciamo, fuori da esso. Pensiamo che mettendo in discussione le fondamenta della civilizzazione, il mito della centralità umana, il nostro immaginario isolamento, possiamo trovare i principi di questi percorsi.

Questo è il Dark Mountain Project. Inizia qui.”

Tre manifesti 04

Uno si aspetterebbe a questo punto lo spiegone che illustra le virtù della nuova società darkiana e indica le vie per instaurarla. Ma rimane deluso. La caduta di tono è repentina e ridimensiona drasticamente le aspettative.

“Dove finirà? Nessuno lo sa. Dove condurrà? Non ne siamo certi. La sua prima incarnazione, avviata assieme a questo manifesto, è un sito web, che indica la strada per i campi. Conterrà riflessioni, scarabocchi, schizzi, idee; lavorerà sull’Incivilizzazione, e inviterà, chiunque verrà, ad unirsi alla discussione.

Gli estensori del manifesto sembrano aver esaurito le forze e le idee nell’anamnesi: per la terapia tagliano corto e si affidano agli otto principi fondamentali dell’“incivilizzazione”.

  • Viviamo in un tempo di disfacimento sociale, economico ed ecologico. Attorno a noi si affollano le avvisaglie che il nostro intero modo di vivere sta già passando alla storia. Affronteremo con franchezza questa verità e impareremo a conviverci.
  • Rifiutiamo la fede nell’idea che le crisi convergenti dei nostri tempi possano essere ridotte a un insieme di ‘problemi’ bisognosi di ‘soluzioni’ tecnologiche o politiche.
  • Crediamo che le radici di queste crisi si trovino nelle storie che ci siamo raccontati. Intendiamo mettere a dura prova i racconti che sorreggono la nostra civiltà: il mito del progresso, il mito della centralità umana e il mito della nostra separazione dalla ‘natura’. Tali miti sono ancor più pericolosi poiché abbiamo dimenticato che lo sono.
  • Vogliamo riaffermare il ruolo della narrazione come qualcosa di più di un mero intrattenimento. È attraverso le storie che intessiamo la realtà.
  • Gli umani non sono il senso e lo scopo del pianeta. La nostra arte avrà inizio con il tentativo di porsi al di fuori della bolla umana. Con prudente attenzione rientreremo in contatto col mondo non umano.
  • Vogliamo celebrare la scrittura e l’arte radicate in un luogo e in un tempo. La nostra letteratura è stata troppo a lungo sotto il controllo di coloro che abitano le cittadelle cosmopolite.
  • Non ci perderemo nell’elaborazione di teorie o ideologie. Le nostre parole saranno elementari. Noi scriviamo con lo sporco sotto le unghie.
  • La fine del mondo per come lo conosciamo non è la fine di tutto il mondo. Insieme troveremo la speranza oltre la speranza, i percorsi che conducono al mondo sconosciuto davanti a noi.

Vediamo allora di ricapitolare. Né Jeffers né tantomeno gli autori del manifesto della Montagna Nera dicono qualcosa di realmente nuovo. Rientrano come già dicevo nella tradizione apocalittica di matrice biblica, che in America, dai Padri pellegrini in poi, ha trovato espressione in una miriade di sette millenariste. La novità sta semmai nel fatto che non contemplano una via di fuga, un eskatòn, ma predicano il ritorno e la resa incondizionata alle leggi di natura. Il legame più diretto, segnatamente per Jeffers, è con i trascendentalisti: come questi ultimi ritiene che l’unica via praticabile dall’uomo per riconciliarsi con se stesso sia quella estetica: nel confronto estetico con la Natura, dinanzi alla sua Bellezza, l’uomo ritrova la propria dimensione spirituale (“Un topo è un miracolo sufficiente a far vacillare miriadi di miscredenti” scriveva Walt Whitman): ma, a differenza che per i trascendentalisti, l’infinita varietà della natura e delle sue forme lo rende anche consapevole della propria irrilevanza e della transitorietà della specie umana. Non lo lascia estatico, ma sgomento e arrabbiato.

Su questa tradizione s’innestano via via, a partire dalla fine dell’Ottocento, da un lato il buddismo importato d’oltreoceano (Pacifico) e rivisitato all’americana (ovvero accentuandone l’individualismo e spettacolarizzandone la ritualità), dall’altro gli echi del pensiero filosofico post-nietzschiano che giungono dall’Europa (il poema Cawdor di Jeffers è pubblicato dieci anni dopo Il tramonto dell’Occidente di Spengler e arriva un anno dopo Essere e tempo di Heidegger). Il tutto dà origine a un singolare e contradditorio miscuglio di religiosità biblica e di sentire panteistico, di misticismo e di nichilismo, di umiltà professata e di presunzione di sé praticata.

Il fatto è che gli americani non hanno alle spalle una storia “profonda”, e tantomeno una mitologia originaria di fondazione. Hanno dovuto reinventarsene una, adattando alla nuova situazione la narrazione biblica, per giustificare il possesso di terre espropriate ad altri (il mito della frontiera) e trovare conferma ad una concezione assolutamente individualistica della libertà. Per questo sono i maggiori mitopoieti dell’età moderna e si esprimono con un linguaggio enfatico che trova supporto nelle nuove modalità espressive, a partire dal cinema (dove un incidente stradale non può vedere coinvolti e distrutti meno di dieci veicoli e una sparatoria non può durare meno di un quarto d’ora). Enfatizzano alla stessa maniera infantile i sentimenti, le tragedie, la malvagità, il coraggio, e ogni aspetto della quotidianità.

Per lo specifico del nostro discorso è esemplare il caso della Tor House, la dimora in pietra di Jeffers, divenuta meta di pellegrinaggio per i suoi ammiratori. In fondo Jeffers ha fatto solo ciò che milioni di pionieri avevano fatto prima di lui, senza peraltro vedere in ogni blocco angolare la mano di Dio. La vita sobria e appartata (sino ad un certo punto) che vi conduceva rimandava a sua volta all’esperienza naturistica di Thoreau, alla capanna che quest’ultimo aveva costruita con le proprie mani nei boschi di Concord e nella quale aveva dimorato per due anni, due mesi e due giorni. Quella capanna è diventata, attraverso le pagine di Walden, l’icona della scelta di una vita rude e solitaria, quando nella realtà non distava più di un miglio dal villaggio (Thoreau avrebbe potuto benissimo andarci a piedi ogni mattina per bere un caffè alla locanda). Entrambe queste esperienze sono state trasmesse dai protagonisti già circonfuse di un’aura ascetica e sapienziale, e come tali sono state poi consacrate dai lettori–spettatori.

Ci insisto perché so di cosa parlo. Anch’io ho costruito un capanno con le mie sole mani (senz’altro più ampio della dimora di Thoreau), e ho tirato su lì attorno decine di metri di muri a secco e posato rustiche pavimentazioni, ma non ho sentito in alcuna delle pietre che sistemavo la presenza di Dio (al più ho visto qualche volta la Madonna, quando mi scivolavano su un piede o al termine di giornate particolarmente faticose). Né ho ritenuto di celebrare poeticamente o filosoficamente la cosa: ho scritto una paginetta sulle origini del capanno solo perché legate ad un aneddoto che mi sembrava divertente. E soprattutto, la bellezza della natura circostante che mi fermavo ad ammirare nelle pause-sigaretta non mi ha mai indotto recriminazioni o violenza: mi ispirava anzi allora e continua oggi ad ispirarmi la determinazione a contaminarla il meno possibile. Sentivo di farne parte comunque, anche quando lavoravo sotto la pioggia o nelle giornate più roventi o afose.

Si sarà capito che ho scarsa simpatia per tutto ciò che puzza di cornici messe alle finestre per dire che sono quadri (in questo caso l’immagine si attaglia perfettamente). Per avere davvero un senso e una credibilità certe situazioni o vicende dovrebbero essere vissute come normali, non è il caso di scomodare l’epos. E lo stesso vale per le idee: non è certo l’incarto nuovo a renderle originali, ha semmai un valore riconoscerne i percorsi pregressi. Il tema dell’equivoco di fondo nel nostro rapporto con la natura era già centrale in Leopardi, sfrondato di ogni verniciatura mistica e pretesa epica; quello della necessità di reintegrarsi in essa stava alla base, oltre che del trascendentalismo americano, dei movimenti proto-ecologici fioriti anche in Europa, principalmente in Germania, agli inizi del Novecento (ma ben prima ancora era presente in Rousseau); le perplessità nei confronti della tecnica, e soprattutto dell’uso che l’uomo tende a farne, erano manifestate da quasi tutti gli scrittori di fantascienza venuti dopo Verne, da Robida a W.H. Hudson a Wells; le prospettive di degenerazione della democrazia erano state già lucidamente indicate da Tocqueville, le colpe del colonialismo e le ipocrisie della cultura occidentale denunciate da Conrad.

Insomma, tutte queste cose Jeffers non le ha spinte solo alle estreme conseguenze, ma le ha condotte in un vicolo cieco, travisando tra l’altro il succo del pensiero dei suoi ispiratori. Thoreau scriveva infatti: “Si dice che la civilizzazione è un reale progresso nella condizione dell’uomo – e io sono convinto che lo sia, anche se solo i saggi migliorano i loro vantaggi”). Jeffers non ne era evidentemente altrettanto convinto, avrebbe piuttosto condiviso con Cioran e con i professionisti del pessimismo l’idea che l’uomo è un intruso, un tragico errore dell’evoluzione, al quale la natura porrà rimedio. Vien da dire, come alla moglie del vescovo Wilberforce a proposito della nostra “discendenza” dalle scimmie: magari è proprio così, ma almeno non facciamolo sapere troppo in giro.

Gli odierni estimatori di Jeffers si fermano un po’ prima. Cercano la speranza oltre la speranza, vale a dire oltre quel poco o nulla cui oggi la scienza e la tecnologia ci consentono di guardare nella ricerca di una improbabile salvezza. E non riescono a trovare di meglio che “mettere a dura prova i racconti che sorreggono la nostra civiltà e restituire l’agire artistico a una pratica ‘incivilizzata’”. Nel fare ciò arrivano quantomeno in ritardo, da almeno un secolo la demolizione dei miti della modernità è diventata lo sport intellettuale più praticato. Se poi gli strumenti di demolizione sono la scrittura e l’arte radicate in un luogo e in un tempo (e cioè?) e praticate con lo sporco sotto le unghie da novelli costruttori di nuraghi, allora le generazioni di oggi hanno tutte le ragioni di non credere che il futuro sarà meglio del passato.

Tre manifesti 05

A questo punto può sembrare non valesse la pena prendere così sul serio il manifesto del progetto della Montagna Nera (e magari anche la poesia di Robinson Jeffers). Non è così. Il documento sarà pure patetico, non fosse altro per la sproporzione tra lo scenario apocalittico che dipinge e la miseria delle soluzioni che propone, ma fotografa perfettamente un atteggiamento molto diffuso nei confronti di un tema come quello della sopravvivenza della civiltà occidentale e, in seconda battuta, della specie umana (intendo quello più diffuso tra chi il problema se lo pone, perché in realtà la maggioranza dà l’impressione di non porselo affatto).

Al fondo di questa disposizione negativa sta una vocazione generalizzata al “risentimento”. Anche se nello specifico degli ambientalisti radicali alla Jeffers potrebbe sembrare il contrario, il loro è né più né meno l’atteggiamento di chi si ritiene perennemente in credito nei confronti della vita e del resto dell’umanità. Avremmo la possibilità di vivere in armonia con la natura, dicono, semplicemente accettandone tutte le leggi, anche quelle che ripugnano alla nostra ipocrita morale “civilizzata”: ma qualcuno o qualcosa ce la sta negando. Come in ogni situazione di crisi occorre identificare i responsabili (i capri espiatori di cui parla René Girard), e responsabili sono naturalmente sempre “gli altri”. Una volta poi individuato quel qualcuno o qualcosa su cui scaricare ogni colpa, ci si può sentire sdegnosamente innocenti. Si è compiuto il proprio dovere di Cassandre, Troia può ora tranquillamente bruciare. Nel nostro caso i capri espiatori sono, secondo una crescente scala di “consapevolezza” dettata dalle singole condizioni culturali ed esistenziali, le multinazionali, i “poteri forti”, il capitalismo, ma soprattutto la civilizzazione occidentale nel suo complesso; e l’imputazione è quella di aver sacrificato al proprio dominio l’armonia del cosmo e la libertà degli umani. Il perno di questa operazione di conquista essendo identificato nella razionalità, la soluzione è quella di liberarsi dai vincoli di quest’ultima. La vittima vera del “sacrificio rituale” che dovrebbe ristabilire gli equilibri, ripristinare l’armonia del cosmo violata, è dunque la ragione.

Non sono stato sconvolto dalla lettura del Manifesto, si tratta di cose trite e ritrite; ma ho avuto la conferma che questo modello di pensiero, a diversi livelli di articolazione, è ormai dominante nella maggioranza. Le tesi che gli estensori del documento banalizzano, e cioè che la civilizzazione, intesa nella sua accezione occidentale, sta portando il mondo allo sfascio, che il progresso scientifico e lo sviluppo tecnologico sono gli strumenti per imporre questo dominio e che le istituzioni democratiche sono la foglia di fico dietro la quale questo dominio si nasconde, sono le stesse sostenute con argomentazioni più complesse e raffinate da una élite culturale agguerrita, che opera al di qua e al di là dell’Atlantico e trova i suoi teorici più accreditati in pensatori come Foucault, Agamben, Negri, Severino, ecc. L’influenza di questa élite sul sentimento delle grandi masse non è naturalmente diretta, arriva attraverso la mediazione semplificatoria e spesso distorcente operata dai suoi epigoni telegenici alla Fusaro o alla Massimo Fini, da comici o da giornalisti in fregola di presenzialismo, da moderni Masanielli in cerca di una qualsiasi tribuna e da politici scafati pronti a saltare su ogni cavallo di passaggio: ma comunque arriva, si innesta su quel risentimento populista confuso e diffuso cui accennavo sopra e a giustificare il quale si parla genericamente di un “disagio” (che esiste davvero, ma è appunto soprattutto mentale, legato alla paura di fronte ad una complessità che appare incomprensibile).

In cosa si traduce questo risentimento? Lo vediamo quotidianamente, lo sentiamo tutt’attorno a noi: nella rabbia indiscriminata verso tutti, nel rifiuto di ogni responsabilizzazione, nel negazionismo pervicace, nella crescita del massimalismo che si accompagna alla volubilità nelle scelte politiche, nella rincorsa costante ai diritti e nella negligenza sui doveri, nell’irrisione delle competenze e nell’esaltazione dell’ignoranza “democratizzante”, nella sfiducia nei confronti della scienza e nella credulità superstiziosa, ecc… E poi ci sono altri sintomi che andrebbero colti, meno clamorosi ma non meno inquietanti.

Un banale esempio può valere per tutti. Negli ultimi mesi avrò visto cinquanta servizi sulle innumerevoli specie animali in estinzione, dal leopardo delle nevi alle foche monache e ai pesci del lago nel deserto, ma non uno sulle guerre che si stanno combattendo ad esempio nel sud-Sudan (oltre 80.000 morti e due milioni e mezzo di sfollati), o nello Yemen. Direi che l’antropocentrismo contro il quale tuonava Jeffers è ampiamente superato, anche se ha lasciato il posto ad una consapevolezza pelosa, che tende piuttosto a escludere l’uomo dalla natura anziché includerlo. L’animalismo ha preso pieghe grottesche (lo psicologo per cani e gatti) e ha spinto fino all’assurdo quella negazione delle differenze che nell’interpretazione corretta era stata uno dei cardini della modernità.

Ma non è tutto. Ultimamente il dibattito sulle intelligenze non umane si è allargato a considerare, oltre quelle animali, anche quelle delle piante. A presto una carta dei diritti vegetali, e i decespugliatori saranno messi fuorilegge.

In compenso l’elenco delle specie a rischio prossimo di estinzione si allunga: ci siamo dentro anche noi. E non per eventi naturali, ma per suicidio da decerebrazione. Finisce cha il presagio di Jeffers si avvera.

Tre manifesti 06

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Tre manifesti 07a

Se la lettura del manifesto Dark Mountain mi ha solo un po’ infastidito, quella di “Contro il Grande Reset. Manifesto del grande risveglio” di Alexander Dugin mi ha lasciato perplesso e preoccupato. Perplesso perché si tratta di un documento decisamente rozzo, o che almeno appare tale in una traduzione che deve essere stata affidata ad un dispositivo digitale o ad un ubriaco, senza più essere rivista nelle bozze. Voglio credere che lo standard delle opere di Dugin sia diverso, altrimenti c’è da chiedersi cosa ci hanno trovato gli “intellettuali” italiani e francesi che da anni lo frequentano (va bene, uno è il solito Fusaro, ma anche Alain de Benoit è un suo assiduo). Probabilmente l’operazione di lancio è stata montata in tutta fretta, per sfruttare l’onda della visibilità offerta a Dugin dall’attentato nel quale è rimasta uccisa la figlia, ma già il testo originale era indubbiamente sbozzato con l’accetta. In copertina è anche annunciata una introduzione di Stefano Borgonovo, che evidentemente è poi saltata, per l’urgenza di mettere on line il documento o per qualche ripensamento del vicedirettore de “La verità” (ho dei dubbi: uno che scrive su “La verità” difficilmente si fa degli scrupoli); o forse più semplicemente perché c’era poco da spiegare.

Ed è proprio questo che mi preoccupa, perché le idee di Dugin, ancorché deliranti, sono terribilmente chiare (nel senso, naturalmente, che persino Borgonovo può intenderle), e l’argomentazione segue una logica elementare di contrapposizione tra cultura occidentale e “idea russa” (o, come vedremo, “eurasiatica”), nell’ottica di un dissolvimento della prima e di un trionfo della seconda. Che tanti occidentali, con una schiera di intellettuali in testa, trovino così affascinante questa idea mi porta a pensare che davvero il deragliamento sia già in corso.

Comunque, procediamo con ordine. Dugin adotta per la sua narrazione un percorso inverso a quello degli estensori del manifesto darkiano. Parte dalla situazione attuale, fa un salto indietro per andare alle origini di quello che definisce un “progetto di globalizzazione e disumanizzazione” e seguirne il percorso nel tempo e analizza infine gli strumenti per contrastarlo (tra i quali non è affatto prevista la poesia). Dal momento che lo fa molto sinteticamente, lascio il più possibile a lui la parola.

L’esordio è da grande complotto. Prende le mosse dal “Great Reset”, un piano che intendeva sfruttare le restrizioni in tempo di Covid per digitalizzare i processi produttivi e le attività sociali, sottoscritto a Davos dal principe di Galles, l’attuale Carlo III d’Inghilterra (il libello è stato scritto prima della scomparsa di Elisabetta, durante l’ultima emergenza pandemica, e non è stato aggiornato), nel quale si delineavano le strategie per avviare un futuro sostenibile.

Tre manifesti 07Nell’interpretazione di Dugin queste strategie sono intese in realtà solo a puntellare l’ordine esistente. “L’idea principale del Great Reset è la continuazione della globalizzazione e il rafforzamento del globalismo dopo una serie di fallimenti”. Gli obiettivi di fondo del diabolico disegno possono essere riassunti in:

  • Controllo della coscienza pubblica su scala globale, che è al centro della “cultura dell’annullamento” — l’introduzione della censura sulle reti controllate dai globalisti (punto 1);
  • Transizione a un’economia ecologica e rifiuto delle moderne strutture industriali (punti 2 e 5);
  • Ingresso dell’umanità nel 4° ordine economico (a cui era dedicato il precedente incontro di Davos), ovvero la graduale sostituzione della forza lavoro con i cyborg e l’implementazione dell’intelligenza artificiale avanzata su scala globale (punto 3).

Adesso sappiamo (più o meno) cos’è il Great Reset. Ma come si è arrivati a programmarlo? E chi c’è dietro? Lapalissiano: “Leader mondiali e capi di grandi società – Big Tech, Big Data, Big Finance, ecc. – si sono riuniti e si sono mobilitati per sconfiggere i loro oppositori: Trump, Putin, Xi Jinping, Erdogan, l’Ayatollah Khamenei e altri”. Il povero Carlo è quindi solo un prestanome, anche se in verità la famiglia reale inglese è chiamata volentieri in causa dagli smascheratori di complotti mondiali. Paga ancora il fio del colonialismo ottocentesco e dell’imperialismo del secolo scorso.

La prima mossa dell’offensiva globalista scatenata “dopo una serie di fallimenti” (l’11 settembre, l’elezione di Trump, il pasticcio afgano, ecc…) è stata la vittoria di Biden, che “ha strappato la vittoria a Trump utilizzando le nuove tecnologie, attraverso la ‘cattura dell’immaginazione’, l’introduzione della censura su Internet e la manipolazione del voto per corrispondenza.” Ma come abbiamo visto il globalismo aveva già approfittato dell’occasione offerta dalla pandemia. Infatti: “L’epidemia di Covid-19 è una scusa. Con il pretesto dell’igiene sanitaria, il Great Reset prevede di alterare drasticamente le strutture di controllo delle élite globaliste sulla popolazione mondiale”.

Nello scacchiere geopolitico il piano si muove attraverso “una combinazione di ‘promozione della democrazia’ e ‘strategia aggressiva neoconservatrice di dominio su vasta scala’”. A tal fine “i progetti ambientali e le innovazioni tecnologiche (in primis l’introduzione dell’intelligenza artificiale e della robotica) si coniugano con l’affermarsi di una politica militare aggressiva”.

La parte più intrigante del “Manifesto” arriva però adesso:

Per capire chiaramente cosa significhino su scala storica la vittoria di Biden e il ‘nuovo’ corso di Washington per il Great Reset, bisogna guardare l’intera storia dell’ideologia liberale, partendo dalle sue radici.

Le radici del sistema liberale (= capitalista) risalgono alla disputa scolastica sugli universali. Questa disputa divideva i teologi cattolici in due campi: alcuni riconoscevano l’esistenza del comune (specie, genere, universalia), mentre altri credevano solo in certe cose concrete — individuali, e interpretavano i loro nomi generalizzanti come sistemi di classificazione convenzionali puramente esterni, che rappresentano ‘suono vuoto’. Coloro che erano convinti dell’esistenza del generale, della specie, attingevano alla tradizione classica di Platone e di Aristotele. Vennero chiamati ‘realisti’, cioè coloro che riconoscevano la ‘realtà di universalia’. Il rappresentante più in vista dei ‘realisti’ era Tommaso d’Aquino e, in generale, era la tradizione dei monaci domenicani. I fautori dell’idea che solo le cose e gli esseri individuali sono reali vennero chiamati ‘nominalisti’, dal latino nomen . La pretesa — ‘le entità non dovrebbero moltiplicarsi senza necessità” ‘— risale proprio a uno dei massimi difensori del ‘nominalismo’, il filosofo inglese William Occam.”

Il progetto ha avuto dunque una quasi millenaria gestazione. Non è figlio della “modernità”, ma piuttosto della “occidentalità”. È nato già con lo “scisma d’Oriente” che nel 1054 ha lacerato la vecchia cristianità (e peraltro anche prima della nascita della Russia).

Sono interessanti le ascendenze che Dugin identifica. La modernità è per lui figlia del francescanesimo, un ordine religioso e un atteggiamento spirituale sempre prossimo alla devianza ereticale – e viene poi presa in carico e affermata dalle sette protestanti. È una lettura genealogica molto rozza, perché non distingue tra luteranesimo, puritanesimo e anabattismo, e non considera il fatto che gli anti-globalisti americani, quelli che più oltre identifica come i “resistenti trumpisti”, sono per lo più animati proprio dalla una fedeltà allo spirito originario del protestantesimo (pietisti, moravi, quaccheri, soprattutto anabattisti e mennoniti-amish, ecc) e arrivano da gruppi religiosi ultra-conservatori. Attribuisce inoltre alla chiesa ortodossa orientale, quella che fa capo al metropolita di Mosca, il merito di aver opposto la maggior resistenza al “nominalismo”. E in questo ha invece pienamente ragione.

Dugin si lancia poi in una cavalcata storica che copre quasi un millennio e chiarisce tutti i nodi fondamentali. “Il ‘nominalismo’ ha gettato le basi per il futuro liberalismo, sia ideologicamente che economicamente. Qui gli esseri umani erano visti solo come individui e nient’altro, e tutte le forme di identità collettiva (religione, classe, ecc.) dovevano essere abolite.

Il nominalismo prevalse prima di tutto in Inghilterra, si diffuse nei paesi protestanti e divenne gradualmente la principale matrice filosofica del New Age (sic: immagino intenda dell’Era moderna) — nella religione (rapporti individuali dell’uomo con Dio), nella scienza (atomismo e materialismo), nella politica (precondizioni della democrazia borghese), nell’economia (mercato e proprietà privata), nell’etica (utilitarismo, individualismo, relativismo, pragmatismo), ecc.

[…] La prima fase è stata l’introduzione del nominalismo nel regno della religione. L’identità collettiva della Chiesa, come intesa dal cattolicesimo (e ancor più dall’ortodossia), è stata sostituita dai protestanti come individui che d’ora in poi potevano interpretare la Scrittura basandosi esclusivamente sul loro ragionamento e rifiutando qualsiasi tradizione. Ciò ha creato un gran numero di sette protestanti controverse.

Parallelamente alla distruzione della Chiesa come ‘identità collettiva’ (qualcosa di ‘comune’), i possedimenti iniziarono ad essere aboliti. La gerarchia sociale dei preti, dell’aristocrazia e dei contadini fu sostituita da indefiniti ‘cittadini’, secondo il significato originario della parola ‘borghese’. La borghesia ha soppiantato tutti gli altri strati della società europea. Ma il borghese era esattamente il miglior ‘individuo’, cittadino senza clan, tribù, professione, ma con proprietà privata.

Fu abolita anche l’unità sovranazionale della Sede Pontificia e dell’Impero Romano d’Occidente, quale altra espressione di ‘identità collettiva’. Al suo posto è stato stabilito un ordine basato su stati-nazione sovrani, una specie di ‘individuo politico’.

[…] La filosofia del nuovo ordine è stata in molti modi anticipata da Thomas Hobbes e sviluppata da John Locke, David Hume e Immanuel Kant. Adam Smith ha applicato questi principi al campo economico, dando origine al liberalismo.

Il senso della storia e del progresso era ormai di ‘liberare l’individuo da ogni forma di identità collettiva’ fino al limite logico.

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Per tutto questo periodo il processo di globalizzazione ha proceduto lineare, ovviamente nei limiti consentiti dalle resistenze opposte dal vecchio mondo. La rivoluzione scientifica e quella industriale ne sono stati la mente e il braccio, e anche i grandi sconvolgimenti politici e sociali, le rivoluzioni inglese, americana e francese, rientravano nel disegno, anzi, ne hanno accelerato l’esecuzione. Le cose si sono invece complicate a partire dal secolo scorso.

[…] Socialisti, socialdemocratici e comunisti hanno contrastato i liberali con identità di classe, invitando i lavoratori di tutto il mondo a unirsi per rovesciare il potere della borghesia globale. Questa strategia si rivelò efficace e in alcuni grandi paesi (sebbene non in quei paesi industrializzati e occidentali dove aveva sperato Karl Marx, il fondatore del comunismo), furono vinte [? Nell’originale sarà ‘vinsero’] le rivoluzioni proletarie.

Parallelamente ai comunisti si verificò, questa volta nell’Europa occidentale, la presa del potere da parte di forze nazionaliste estreme. Hanno agito in nome della “nazione” o di una “razza”, sempre contrastando l’individualismo liberale con qualcosa di “comune”, qualche “essere collettivo”.

I nuovi oppositori del liberalismo non appartenevano più all’inerzia del passato, come nelle fasi precedenti, ma rappresentavano progetti modernisti sviluppati nello stesso Occidente. Ma erano anche costruiti sul rifiuto dell’individualismo e del nominalismo. Lo capirono chiaramente i teorici del liberalismo (Hayek e il suo discepolo Popper), che unirono “comunisti” e “fascisti” sotto il nome comune di ‘nemici della società aperta’, e iniziarono con loro una guerra mortale “.

Da questa guerra nel corso del Novecento sia il comunismo che i fascismi sono usciti sconfitti. Per questo: “Negli anni ‘90, i teorici liberali iniziarono a parlare della ‘fine della storia’. Questa è stata una vivida prova dell’ingresso del capitalismo nella sua fase più avanzata: la fase del globalismo. L’individualismo, il mercato, l’ideologia dei diritti umani, della democrazia e dei valori occidentali avevano vinto su scala globale.”

[…] “A ben guardare, dopo aver sconfitto il nemico esterno, i liberali hanno scoperto altre due forme di identità collettiva. Innanzitutto il genere. Dopotutto, il genere è anche qualcosa di collettivo: maschile o femminile. Quindi il passo successivo è stata la distruzione del genere come qualcosa di oggettivo, essenziale e insostituibile. Gli oppositori esterni hanno ostacolato la politica di genere: quei paesi che avevano ancora i resti della società tradizionale, i valori della famiglia, Combattere i conservatori e gli “omofobi”, cioè i difensori della visione tradizionale dell’esistenza dei sessi, è diventato il nuovo obiettivo degli aderenti al liberalismo progressista.

Con il successo dell’istituzionalizzazione delle norme di genere e il successo della migrazione di massa, che sta atomizzando le popolazioni nell’Occidente stesso divenne ovvio che ai liberali restava un ultimo passo da fare: abolire gli esseri umani.

Dopotutto, l’umano è anche un’identità collettiva, il che significa che deve essere superato, abolito, distrutto. Questo è ciò che richiede il principio del nominalismo: una ‘persona’ è solo un nome, privo di qualsiasi significato, una classificazione arbitraria e quindi sempre discutibile. C’è solo l’individuo — umano o no, maschio o femmina, religioso o ateo, dipende dalla sua scelta.

Pertanto, l’ultimo passo lasciato ai liberali, che hanno viaggiato secoli verso il loro obiettivo, è sostituire gli esseri umani, anche se in parte, con cyborg, reti di intelligenza artificiale e prodotti dell’ingegneria genetica. L’umano opzionale segue logicamente il genere opzionale.

[…] “Questa agenda è già prefigurata dal postumanesimo, dal postmodernismo e dal realismo speculativo in filosofia, e tecnologicamente sta diventando ogni giorno più realistica. Futurologi e fautori dell’accelerazione del processo storico (accelerazionisti) stanno guardando con fiducia al prossimo futuro quando l’intelligenza artificiale diventerà paragonabile nei parametri di base agli esseri umani. Questo momento è chiamato Singolarità. Il suo arrivo è previsto entro dieci o vent’anni.”

Questa la trama. Lo schizzo storico che Dugin abbozza non è poi, per quanto sbrigativo, del tutto peregrino. Voglio dire che le cose sono andate grosso modo così, anche se poi Dugin legge l’accaduto con occhiali deformanti. E non è nemmeno particolarmente originale. Pesca un po’ dovunque nel pensiero occidentale, da Max Weber a Hegel fino a Heidegger e ai postmoderni più radicali, e cuoce il pescato nella pentola della tradizione slavofila. In sostanza, partendo dai danni reali che la civilizzazione occidentale ha prodotto, in parte come effetti collaterali indesiderati, in parte come distorsioni intrinseche alle scelte fatte – danni che stiamo scontando pesantemente, e che la cultura occidentale più consapevole ha comunque sempre denunciato – arriva a metterne in discussione tutto l’impianto. Che è più o meno quanto faceva Jeffers e quanto predicano i militanti della Montagna Nera, con la differenza però che Dugin prospetta una cura molto peggiore della malattia.

La cura è il “Grande Risveglio”. Che procede per gradi, con velocità diverse nelle diverse parti del mondo, ma già è visibile.

Riassumendo il quadro completo della situazione attuale Dugin ammette: “In effetti le norme della democrazia liberale – il mercato, le elezioni, il capitalismo, il riconoscimento dei ‘diritti umani’, le norme della ‘società civile’, l’adozione di trasformazioni tecnocratiche e il desiderio di abbracciare lo sviluppo e l’implementazione dell’alta tecnologia – in particolare la tecnologia digitale — sono stati in qualche modo affermati in tutta l’umanità”.

Ma la storia non è affatto finita. La madre di tutte le battaglie deve essere ancora combattuta.

Il Great Reset ‘non è niente di meno che l’inizio dell’‘ultima battaglia’. I globalisti, nella loro lotta per il nominalismo, il liberalismo, la liberazione individuale e la società civile, appaiono a se stessi come ‘guerrieri della luce’, portando progresso, liberazione da migliaia di anni di pregiudizi, nuove possibilità – e forse anche l’immortalità fisica e le meraviglie della ingegneria genetica, alle masse.

Tutti coloro che vi si oppongono sono, ai loro occhi, ‘forze delle tenebre’. Così inizia a delinearsi un nuovo dualismo ideologico, questa volta all’interno dell’Occidente piuttosto che al di fuori di esso. I nemici della ‘società aperta’ ora sono comparsi all’interno della stessa civiltà occidentale.

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Sono immagini che, ribaltando un po’ (ma non troppo) i ruoli delle forze in gioco, evocano Il signore degli anelli e Guerre stellari, e ho l’impressione che soprattutto al primo siano debitrici (Tolkien è in fondo un alfiere della conservazione, anche se le ‘forze del male’ per lui venivano da Oriente). In realtà comunque i nemici della ‘società aperta’ non sono comparsi all’improvviso. Erano già presenti da un pezzo, ma si muovevano a ranghi sconnessi, senza avere un’idea ben precisa della natura vera dell’avversario, delle strategie da perseguire e degli obiettivi cui mirare. “Erano quelli che rifiutavano gli ultimi fini liberali e non accettavano la politica di genere, la migrazione di massa o l’abolizione degli statinazione e della sovranità.

Allo stesso tempo, tuttavia, questa crescente resistenza, genericamente denominata ‘populismo’ (o ‘populismo di destra’), attingeva alla stessa ideologia liberale – capitalismo e democrazia liberale – ma interpretava questi ‘valori’ e ‘punti di riferimento’ nel vecchio senso piuttosto che nel nuovo senso.

Certo, i campioni di questa resistenza non brillavano per la ricchezza del loro bagaglio culturale o per la finezza delle loro proposte, ma avevano il pregio di coinvolgere attivamente quelle masse popolari che il globalismo stava cloroformizzando:

“Trump non è sempre stato all’altezza del suo stesso articolato compito. E non è stato in grado di realizzare nulla nemmeno vicino al ‘prosciugare la palude’ e sconfiggere il globalismo. Ma nonostante ciò, è diventato un centro di attrazione per tutti coloro che erano consapevoli o semplicemente intuivano il pericolo proveniente dalle élite globaliste e dai rappresentanti di Big Finance e Big Tech inseparabili da loro.”

In realtà: “Trump non stava affatto sfidando il capitalismo o la democrazia, ma solo le forme che avevano assunto nella loro ultima fase e la loro graduale e coerente attuazione. Ma anche questo è bastato a segnare una spaccatura fondamentale nella società americana.

[…] La forza trainante della mobilitazione di massa dei ‘Trumpists’ è diventata l’organizzazione in rete QAnon, che ha espresso la sua critica al liberalismo, ai democratici e ai globalisti sotto forma di teorie del complotto. Hanno diffuso un torrente di accuse e denunce di globalisti coinvolti in scandali sessuali, pedofilia, corruzione e satanismo.

Sono stati i sostenitori di QAnon, in quanto avanguardia del populismo della cospirazione di massa, a guidare le proteste il 6 gennaio, quando i sostenitori di Trump hanno preso d’assalto il Campidoglio indignati dalle elezioni rubate.”

Per Dugin il fattore davvero importante e decisivo per il passaggio da una strategia di resistenza ad una di attacco è rappresentato proprio dall’emersione nel cuore nell’Occidente di un “nemico interiore”, dal quale “la storia degli ultimi secoli con il suo progresso apparentemente ininterrotto dei nominalisti e dei liberali è messa in discussione”.

Torna anche a sottolineare ripetutamente l’esistenza di un fronte esterno che si sta compattando, e che va dalla Russia di Putin alla Cina (Pechino ha usato abilmente il “mondo aperto” per perseguire i suoi interessi nazionali e persino di civiltà), al mondo islamico (nel quale tanto l’Iran sciita quanto la Turchia e il Pakistan sunniti hanno continuato la loro lotta contro l’occidentalizzazione), all’Africa (sia quella mediterranea che quella subsahariana), e che comincia a coinvolgere anche l’India e il Sudamerica: ma ciò che davvero lo conforta nella sua visione è la nascita di un nuovo dualismo ideologico, questa volta all’interno dell’Occidente piuttosto che al di fuori di esso.

Questo dualismo si fa strada anche nell’ambito intellettuale: “Sul piano filosofico, non tutti gli intellettuali hanno accettato le paradossali conclusioni della postmodernità e del realismo speculativo”.

Ma bada a non insistere troppo su questo piano: “Il Grande Risveglio non riguarda le élite e gli intellettuali, ma le persone, le masse, le persone in quanto tali. E il risveglio in questione non riguarda l’analisi ideologica. È una reazione spontanea delle masse, poco competenti in filosofia, che hanno improvvisamente capito, come bestiame davanti al macello, che il loro destino è già stato deciso dai loro governanti e che non c’è più spazio per le persone in futuro.

D’altro canto, quando deve citare qualche “autorevole” intellettuale schierato contro il Great Reset sembra in difficoltà. Si limita a dire che “Steve Bannon ha svolto un ruolo importante in questo processo, mobilitando ampi segmenti di giovani e disparati movimenti conservatori a sostegno di Trump. Lo stesso Bannon è stato ispirato da autori seri antimodernisti come Julius Evola, e la sua opposizione al globalismo e al liberalismo aveva quindi radici più profonde”. Oppure cita Pat Buchanan, Richard Weaver e Russell Kirk, degli illustri carneade, o Alex Jones, che ha il solo merito di aver coniato lo slogan del “grande Risveglio”.

In realtà il materiale non gli mancherebbe, potrebbe pescare persino in Italia, ma preferisce insistere sul carattere spontaneista, genuino e popolare (o populista, termine che usa in una accezione positiva) del movimento: “La tesi del Grande Risveglio non dovrebbe essere frettolosamente caricata di dettagli ideologici, siano essi il conservatorismo fondamentale (compreso il conservatorismo religioso), il tradizionalismo, la critica marxista del capitale o la protesta anarchica per il bene della protesta. Il Grande Risveglio è qualcosa di più organico, più spontaneo e allo stesso tempo tettonico. È così che l’umanità viene improvvisamente illuminata dalla coscienza della vicinanza della sua fine imminente”.

Arriva ad ammettere che “Il Grande Risveglio è spontaneo, in gran parte inconscio, intuitivo e cieco. Non è affatto uno sbocco per la consapevolezza, per la conclusione, per un’analisi storica approfondita. Come abbiamo visto nel filmato del Campidoglio, gli attivisti Trumpist e i partecipanti a QAnon sembrano personaggi dei fumetti o supereroi Marvel. La cospirazione è una malattia infantile dell’antiglobalizzazione. Ma, d’altra parte, è l’inizio di un processo storico fondamentale. Nasce così il polo di opposizione al corso stesso della storia nella sua accezione liberale”.

Consapevole o meno (certo è difficile parlare di consapevolezza in presenza di QAnon), il Risveglio è comunque tangibile. E anzi, è favorito proprio dal sostrato povero ma genuino di cui si nutre:

Liberati da un serio bagaglio ideologico e filosofico, gli antiglobalisti hanno saputo cogliere l’essenza dei processi più importanti in atto nel mondo moderno. Il globalismo, il liberalismo e il Grande Reset, come espressioni della determinazione delle élite liberali di portare a termine i loro piani, con ogni mezzo – compresa la dittatura totale, la repressione su larga scala e le campagne di totale disinformazione – hanno incontrato una resistenza crescente e sempre più consapevole.”

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L’ultima parte del libello è dedicata alle prospettive di tradurre questa resistenza in vittoria.

“Il Grande Risveglio è solo l’inizio. Non è nemmeno iniziato. Ma il fatto che abbia un nome, e che questo nome sia apparso proprio nell’epicentro delle trasformazioni ideologiche e storiche, negli Stati Uniti, è di grande (forse cruciale) importanza.

Se c’è chi proclama il Grande Risveglio, per quanto ingenue possano sembrare le loro formule, questo già significa che non tutto è perduto, che nelle masse sta maturando un nocciolo di resistenza, che cominciano a mobilitarsi. Da questo momento inizia la storia di una rivolta mondiale, una rivolta contro il Great Reset e i suoi seguaci. Il Grande Risveglio è un lampo di coscienza alla soglia della Singolarità. È l’ultima opportunità per prendere una decisione alternativa sul contenuto e sulla direzione del futuro.

Ma andando poi sul concreto, Dugin deve ammettere che: “Naturalmente, il Grande Risveglio è completamente impreparato. Negli stessi Stati Uniti gli oppositori del liberalismo, sia Trump che i trumpisti, sono pronti a rifiutare l’ultima fase della democrazia liberale, ma non pensano nemmeno a una vera e propria critica al capitalismo. Anche la sinistra contemporanea ha dei limiti nella sua critica al capitalismo, sia perché condivide una concezione materialistica della storia (Marx era d’accordo sulla necessità del capitalismo mondiale, che sperava sarebbe poi superato dal proletariato mondiale) sia perché i movimenti socialisti e comunisti sono state recentemente rilevate dai liberali e riorientate dal condurre una guerra di classe contro il capitalismo alla protezione dei migranti, delle minoranze sessuali e alla lotta contro i “fascisti” immaginari”. Questo si chiama vederci chiaro.

Allo stesso modo “La destra, d’altra parte, è confinata nei suoi stati-nazione e nelle sue culture, non vedendo che i popoli di altre civiltà si trovano nella stessa situazione disperata.

Quindi c’è il Grande Risveglio, ma non ha ancora una base ideologica. Se è veramente storico, e non un fenomeno effimero e puramente periferico, allora ha semplicemente bisogno di un fondamento, che vada al di là delle ideologie politiche esistenti emerse nei tempi moderni nello stesso Occidente.

Qualcosa di totalmente inedito, insomma. E tanto per cominciare questo qualcosa ha da scavalcare le logiche di contrapposizione bi- o tri-polari:

Per la salvezza delle persone, dei popoli e delle società, il Grande Risveglio deve iniziare con la multipolarità. Questa non è solo la salvezza dell’‘Occidente stesso, e nemmeno la salvezza di tutti gli altri dall’Occidente, ma la salvezza dell’umanità, Il Grande Risveglio richiede un’internazionalizzazione della lotta dei popoli contro l’internazionalizzazione delle élite.”

In questa prospettiva l’esito dell’inevitabile confronto finale si rivela molto meno incerto. Una rapida carrellata su quelli che potrebbero diventare i poli del Grande Risveglio ribalta i rapporti di forza.

Si parte naturalmente dagli Stati Uniti, che sono già oggi essenzialmente “in uno stato di guerra civile. Sebbene lo stesso Trump abbia perso, ciò non significa che lui stesso si sia lavato le mani, si sia rassegnato a una vittoria rubata e che i suoi sostenitori – 70.000.000 di americani – si siano sistemati e abbiano preso la dittatura liberale come un dato di fatto. Sono stati messi all’opposizione e sono sul punto di diventare illegali, ma un’opposizione di 70.000.000 di persone è seria”.

Pertanto: “Non importa come ci sentiamo nei confronti degli Stati Uniti, tutti noi dobbiamo semplicemente sostenere il polo americano del Grande Risveglio. Salvare l’America dai globalisti, e quindi contribuire a renderla di nuovo grande, è il nostro compito comune”.

Si passa quindi all’Europa. “L’odio per i liberali in Europa cresce contemporaneamente da due parti: la sinistra li vede come rappresentanti del grande capitale, sfruttatori che hanno perso ogni decenza, e la destra li vede come provocatori di migrazioni di massa artificiali, distruttori delle ultime vestigia dei valori tradizionali, distruttori della cultura europea e becchini della classe media. Allo stesso tempo, per la maggior parte, i populisti sia di destra che di sinistra hanno messo da parte le ideologie tradizionali che non soddisfano più le esigenze storiche ed esprimono le loro opinioni in forme nuove, a volte contraddittorie e frammentarie.

L’emergere di un polo europeo del Grande Risveglio deve comportare la risoluzione di questi due compiti ideologici: il definitivo superamento del confine tra Sinistra e Destra (cioè il rifiuto obbligato dell’‘antifascismo’ artificioso di alcuni e di ‘anticomunismo’ inventato da altri) e l’elevazione del populismo in quanto tale – populismo integrale – in un modello ideologico indipendente”.

Per quanto concerne la Cina, “ha sfruttato le opportunità offerte dalla globalizzazione per rafforzare l’economia della sua società. Ma non ha accettato lo spirito stesso del globalismo, il liberalismo, l’individualismo e il nominalismo dell’ideologia globalista.

La Cina è un popolo con una distinta identità collettiva. L’individualismo cinese non esiste affatto e, se esiste, è un’anomalia culturale. La civiltà cinese è il trionfo del clan, del popolo, dell’ordine e della struttura su tutta l’individualità.”

Un grande serbatoio dal quale attingere odio antiglobalista è l’Islam. “Durante il periodo coloniale e sotto il potere e l’influenza economica dell’Occidente, alcuni stati islamici si sono trovati nell’orbita del capitalismo, ma praticamente in tutti i paesi islamici c’è un rifiuto sostenuto e profondo del liberalismo e soprattutto del moderno liberalismo globalista.

Questo si manifesta sia in forme estreme – il fondamentalismo islamico – sia in forme moderate. In alcuni casi, singoli movimenti religiosi o politici diventano portatori dell’iniziativa antiliberale, mentre in altri casi lo Stato stesso assume questa missione. In ogni caso, le società islamiche sono ideologicamente preparate all’opposizione sistemica e attiva alla globalizzazione liberale.” D’altro canto: “Il contesto del Grande Risveglio potrebbe diventare una piattaforma ideologica anche per l’unificazione del mondo islamico nel suo insieme.”

Infine: “Il polo più importante del Grande Risveglio è destinato alla Russia (nessuno ne dubitava). Nonostante la Russia sia stata in parte coinvolta nella civiltà occidentale, attraverso la cultura illuminista durante il periodo zarista, sotto i bolscevichi, e soprattutto dopo il 1991, in ogni fase – nell’antichità come nel presente – la profonda identità della società russa è profondamente diffidente nei confronti dell’Occidente.

L’identità russa ha sempre dato la priorità al comune – il clan, il popolo, la chiesa, la tradizione, la nazione e il potere, e persino il comunismo rappresentava – sebbene artificiale, in termini di classe – un’identità collettiva contraria all’individualismo borghese.

Il significato della storia russa è stato diretto proprio verso il futuro e il passato ne era solo una preparazione. E in questo futuro che si avvicina, il ruolo della Russia non è solo quello di partecipare attivamente al Grande Risveglio, ma anche di esserne in prima linea, proclamando l’imperativo dell’Internazionale dei Popoli nella lotta al liberalismo, la peste del ventunesimo secolo.

La Russia si è rivelata l’erede di due imperi che crollarono all’incirca nello stesso periodo, nel XV secolo: l’impero bizantino e quello mongolo. L’impero è diventato il nostro destino. Anche nel XX secolo, con tutto il radicalismo delle riforme bolsceviche, la Russia è rimasta un impero contro ogni previsione, questa volta sotto le spoglie dell’impero sovietico. Ciò significa che la nostra rinascita è inconcepibile senza il ritorno alla missione imperiale fissata nel nostro destino storico.”

Questa è la nostra missione: essere il katechon, ‘colui che trattiene’, impedendo l’arrivo dell’ultimo male nel mondo.

Pertanto, il risveglio imperiale della Russia è chiamato ad essere un segnale per una rivolta universale di popoli e culture contro le élite globaliste liberali. Attraverso la rinascita come impero, come impero ortodosso, la Russia costituirà un esempio per altri imperi: cinese, turco, persiano, arabo, indiano, nonché latinoamericano, africano… e europeo.

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Che dire? Il testo si commenta da solo (anche la foto sopra). Mi scuso se le continue e lunghe citazioni lo hanno reso di faticosa lettura, ma mi sembrava inutile parafrasare le argomentazioni di Dugin, dal momento che sono esposte già in maniera sintetica e tutto sommato abbastanza chiara. Mi limito pertanto ad aggiungere un’indicazione e un paio di osservazioni.

L’indicazione è per “L’idea russa”, di Bengt Jangfeldt, breviario indispensabile per chi volesse approfondire la storia profonda che sta dietro questo manifesto, a partire dal panslavismo ottocentesco. È un libro snello quasi quanto quello di Dugin, ma di ben altro “spessore”.

La prima osservazione riguarda l’uso o il non uso di determinati termini. In tutto il testo la voce Eurasia compare una sola volta. Eppure riassume l’idea di fondo di Dugin, per il quale la Russia è una realtà culturale e territoriale totalmente autonoma e sostanzialmente compatta, pur se insistente su due continenti diversi (i continenti sono una convenzione geografica). Forse non voleva forzare troppo la mano su questo concetto, che suppone un legame forte, sia culturale che storico-politico, con l’Oriente, e quindi una propensione espansionistica ed egemonica in quella direzione: cosa che non può suonare gradita né alla Cina né all’Islam, gli altri due grandi poli del Risveglio. Tra l’altro, in questo unico riferimento Dugin cita lo storico e antropologo Lev Nikolaevič Gumilëv (figlio di Anna Achmantova), che in realtà non attribuiva affatto al termine Eurasia un significato politico ma lo considerava solo un paradigma storiografico. Piuttosto, il riferimento a Gumilëv è significativo se si considera il concetto da questi coniato di ethnos, inteso come “un collettivo che si differenzia dagli altri per un proprio stereotipo comportamentale e contrappone sé stesso a tutti gli altri collettivi”. Definizione che si presta molto bene a spiegare l’idea che Dugin ha del popolo russo.

Un altro termine che nel testo non compare mai è razionalismo, pure aleggiando costantemente, sotto le specie del suo derivato applicativo razionalizzazione, dietro i progetti dei liberali globalizzanti. Credo che anche questa cosa abbia un senso: Dugin non vuole lasciare in appannaggio agli avversari il monopolio della ragione, e anzi tende a sottolineare la loro perversa devianza da quello che ne sarebbe un uso onesto e corretto: ma non può nemmeno farne la bandiera di un movimento che, per sua stessa ammissione, è nato ed è tuttora mosso da pulsioni irrazionali.

Allo stesso modo, non mette sotto accusa direttamente la scienza, se non per denunciarne l’uso criminale volto ad azzerare le coscienze e a sostituire l’uomo con un suo clone digitale. I richiami costanti all’impero e alla tradizione ortodossa non ne fanno un nostalgico reazionario, così come le strizzate d’occhio al trumpismo e a QAnon non ne fanno un complottista grossolano e ignorante: sono esche per la pesca a strascico, i primi ad uso interno, le seconde lanciate in acque internazionali: allo stesso modo in cui i riferimenti a Tommaso d’Aquino, ultimamente tornato di moda e non solo tra i teologi, lo sono negli ambienti culturali più all’avanguardia.

E ancora. Il termine “democrazia” compare nel testo sempre legato a “liberale”, in una accezione che l’aggettivo rende negativa, perché sta come “rappresentativa”. In luogo della rappresentanza democratica Dugin propone invece quella “comunitaria”: “L’identità russa ha sempre dato la priorità al comune – il clan, il popolo, la chiesa, la tradizione, la nazione e il potere, e persino il comunismo rappresentava – sebbene artificiale, in termini di classe – un’identità collettiva contraria all’individualismo borghese.

Dugin ha in mente (altrove lo cita espressamente), il mir, l’assemblea di villaggio che nella Russia zarista gestiva tutti gli obblighi comunitari nei confronti dello stato, dalle esazioni fiscali al reclutamento per l’esercito. La rievoca a sostegno dell’immagine di un’identità russa che sino alla vigilia della prima guerra mondiale aveva resistito alle sirene della modernizzazione e dell’individualismo. L’idea che ha della democrazia non si scosta molto da quanto scritto da Massimo Fini – un intellettuale antisistema, come lui stesso si definisce – qualche settimana fa su “Il fatto quotidiano” (credo che i servizi russi di controinformazione abbiano sottoscritto l’abbonamento – e forse più di uno – al quotidiano di Travaglio):

Non credo alla democrazia rappresentativa (cfr. Sudditi. Manifesto contro la Democrazia). Credo solo alla democrazia diretta, quella immaginata del ginevrino Rousseau. La democrazia esisteva quando non sapeva di essere democrazia. Nell’ancien régime l’assemblea del villaggio, formata da tutti i capifamiglia, in genere uomini ma anche donne se il marito era morto, decideva su tutto ciò che riguardava il villaggio.” Che è una ricostruzione di quanto avveniva nell’ancien régime piuttosto fantasiosa.

Quella di Fini è solo una delle tante voci – non certo tra le più autorevoli, ma che trova comunque un suo non trascurabile uditorio tra gli indignati a vita e una cassa di risonanza negli organi della “controinformazione” antiglobalista, pentastellata o meno – che propugnano come nuovo (o antico) modello di socialità il comunitarismo. La nebulosa comunitaria offre il migliore spaccato del mare ideologico interno all’Occidente nel quale Dugin può pescare. Di comune c’è in realtà solo la concezione di massima per la quale l’individuo esiste in virtù delle sue appartenenze culturali, etniche, religiose o sociali, ovvero della sua possibilità di creare comunità. Questa concezione può poi essere declinata in varie maniere, che vanno dall’integralismo cattolico all’anti-illuminismo della Nouvelle Droite fino alla ibridazione col marxismo, più rozza in Costanzo Preve e più articolata in Andrè Gorz: e ha forti implicazioni, oltre che sul piano del rapporto individuale con le istituzioni (il concetto di cittadinanza attiva e di partecipazione politica è molto simile a quello della pòlis greca), su quello etico (ad esempio, rifiuta l’aborto).

A questo si riferisce evidentemente Dugin quando parla di una quinta colonna antiglobalista che sgretola dall’interno la “civiltà” occidentale.

La seconda osservazione concerne ancora il tema degli “apparentamenti”. Mentre leggevo il manifesto di Dugin provavo una sensazione di déjà vu, e mi è tornato in mente qualcosa di molto simile in cui mi ero imbattuto diversi anni fa. Ho verificato poi che si tratta della prolusione ad una Conferenza Internazionale sulla Depressione (svoltasi nel 2004). L’autore era il cardinale Javier Lozano Barragán, che al termine di una carrellata ancor più sintetica di quella di Dugin sulla storia del pensiero occidentale arrivava a riassumere così la situazione attuale:

Non vi è unità ma solo frammentazione. La società si trasforma in gruppi di simboli, associazioni, movimenti. La solidità del partito politico, ‘della comunità, della nazione, sono così sostituiti.

L’uomo radicale professa un individualismo totale, possessivo e anarchico; si manifesta in una serie di negazioni: è antifamiliare, antimilitarista, anticlericale, antipartito, antistatale. Alla sua spontaneità attribuisce un valore assoluto, con le conseguenze socio-politiche della liberazione sessuale, dell’omosessualità, del femminismo, dell’aborto, del divorzio, della lotta contro i manicomi, contro le carceri, contro i concordati, per l’abolizione dell’insegnamento religioso, ecc. È l’uomo dell’anticultura radicale.”

Le diverse valutazioni che il cardinale dava del peso da attribuirsi alle vicende storiche o alle successive correnti di pensiero non inficiano la sostanziale omogeneità dello schema di lettura adottato. Ad Occam ad esempio Barragán faceva appena cenno, ma per contrapporlo “ai grandi pensatori che culminano nella Scolastica”, in primis a proprio a Tommaso d’Aquino. Un modo elegante per liquidare il nominalismo, senza per questo tacerne l’influsso negativo. Lo stesso dicasi per gli esiti della riforma protestante. Certo, il documento non prendeva in considerazione il ruolo di ‘resistenza’ del cristianesimo ortodosso, che tanta importanza ha per Dugin, e lo attribuiva invece in toto alla Chiesa cattolica: ma insisteva comunque sull’effetto di disgregazione indotto dalla modernità, e in termini non molto diversi da quelli usati dall’ideologo russo.

Non credo che negli ultimi vent’anni la posizione del mondo cattolico militante sia cambiata molto, se non nel senso di essere diventata ancor più critica nei confronti della “globalizzazione capitalistica”. Questo spiega e “giustifica” le convergenze sul piano della politica internazionale con l’universo ex-sovietico, la comprensione per i regimi che si reggono sull’integralismo religioso, le posizioni filo-putiniane professate recentemente, a fronte dell’invasione dell’Ucraina, non solo dall’ala arroccata su postazioni preconciliari, ma anche da molti esponenti della base (condivise ad esempio dal nuovo presidente della Camera, assieme all’apprezzamento per la “coerenza” patriottica e antiliberale del metropolita di Mosca).

È ciò cui si riferisce Dugin quando afferma che nella battaglia contro il globalismo, per far decollare il Grande Risveglio, tutti i mezzi e tutti gli alleati vanno bene: non è importante partire da una piattaforma di idee comuni, ma identificare il nemico comune. A uniformare le idee e a stabilire i confini si provvederà dopo, e ciascuno degli insorgenti lo farà a casa propria e a modo suo (sempre che i confinanti glielo permettano). Come abbiamo visto sopra, quindi, si parli di “grande risveglio” (che è peraltro l’etichetta usata anche dai gruppi avventisti d’oltreatlantico), di rinascita spirituale collettiva, di Jihad o di sindrome complottista, il banco del quale Dugin aspira ad essere il pesce-pilota è ricchissimo, vi nuotano nella stessa direzione le specie ittiche più diverse, dai pescecani ai tonni. Ma soprattutto è decisamente sguarnito e scarsamente motivato quello dei suoi difensori, o almeno di quelli che pur riconoscendo la strumentale malafede dell’ideologia di Dugin non possono fare a meno di condividerne almeno in parte la lettura storica. Costoro si trovano a combattere su due fronti, stando nel bel mezzo dello scontro, senza vedere alcuna realistica via d’uscita. Non occorre essere apocalittici per capire che si annunciano tempi duri.

Tre manifesti 12

***

I due “manifesti” precedenti (ma a questo punto possiamo dire tre, comprendendo anche quello del cardinal Barragán) ci prospettavano diversi scenari possibili del crollo dell’occidente: il primo per implosione interna, il secondo per un attacco dall’esterno, il terzo per trasgressione delle leggi divine.

Aldo Schiavone non è così pessimista. Ne “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, che non è un manifesto ma ha la densità e le ambizioni di un vero saggio, vede le stesse cose che vedeva Jeffers e che vedono oggi gli “incivilizzati”, parte da constatazioni che sono proprie anche di Dugin, ma lo fa da un angolo prospettico e con una disposizione d’animo completamente diversi. Non potrò seguirlo passo dopo passo come in pratica ho fatto nei due casi precedenti, ma cercherò di ordinarne le tesi in una sequenza ordinata. Andrà persa la ricchezza delle argomentazioni, ma m’importa arrivare al nocciolo.

Già dalla prima pagina si capisce che Schiavone non è un catastrofista; non dice che il mondo va a ramengo, ma che è sempre più complicato viverci.

Viviamo in un mondo che non è mai stato così complesso e anche così caotico – di una complessità̀ che produce (tra molte altre cose) disordine – con due principali componenti che concorrono, sia pure non da sole, a determinare questi caratteri.

La prima è un prodotto delle nuove possibilità della tecnica, che mettendo in contatto realtà finora non comunicanti e anzi drasticamente separate – nello spazio e nel pensiero – ha moltiplicato reti di interazioni sempre più intricate e difficili da decifrare, creando un contesto che è estremamente arduo comprendere e padroneggiare.

La seconda è costituita dalla convivenza intorno a noi – quasi dovunque in Occidente, come esito del salto tecnologico – di due insiemi culturali e sociali del tutto disomogenei, ma intrecciati l’uno nell’altro, ciascuno dei quali condiziona e coinvolge in modo opposto: uno che sta sparendo – in maniera spesso dolorosa e a volte perfino cruenta – mentre l’altro sta appena cominciando a formarsi, e non ha ancora un volto ben definito, anche se già se ne avvertono la presenza e l’impatto.”

Il che significa che gli occidentali non sono sgomenti e passivamente rassegnati come vorrebbero tanto Dugin che Jeffers (sia la natura o siano altre culture a metterli sotto attacco), ma sono senz’altro sconcertati.

Prima di spiegarci il perché di questo sconcerto, Schiavone chiarisce cosa intende per Occidente: “Occidente si dice in molti modi, per lo più contrapposti. È una parte del mondo o la matrice di valori universali? Lo spazio in espansione della democrazia o quello del suo declino? La terra del tramonto o l’alba di un nuovo inizio?

Per Schiavone c’è intanto un Occidente geopolitico (il global North), che è definito in linea di massima dal maggiore sviluppo industriale, e di conseguenza dalla maggiore ricchezza individuale, sia pure distribuita inegualmente. Questi parametri sono al momento attuale invalidati dalla crescita rapidissima di altre potenze economiche, fino a ieri relegate nel global south, quello che una volta si chiamava terzo mondo: l’accezione “economica” va quindi perdendo rilevanza, perché corrisponde sempre meno alla reale situazione.

Il termine assume poi un secondo significato, che designa invece una categoria universale dell’incivilimento umano, una forma di civiltà. Questo Occidente – dice Schiavone – è “un insieme di cultura, acquisizioni tecnologiche, economia, rapporti sociali, modelli e valori politici e giuridici, stili di vita, sviluppatosi originariamente in Europa, poi trapiantato in America e diffuso nel mondo fino a presentarsi ormai come tendenzialmente delocalizzato”. Ed è a questo secondo significato che l’autore farà costante riferimento.

Ad una percezione superficiale, quella che tiene conto soprattutto dei parametri economici, vince l’impressione che al rapido scombussolamento in corso degli assetti economici corrisponda una crisi ben più profonda, quasi un crollo, della intera “civiltà” occidentale. Non è cosa nuova: già nella prima metà del Novecento, quando ancora l’Occidente dominava in pratica tutto il resto del globo, si moltiplicavano le voci di un suo imminente rovinoso collasso (Spengler per tutti, ma anche Freud o i francofortesi, o economisti come Schumpeter e sociologi come Revel, o distopisti come Orwell e Bradbury). “[…] Possiamo dire sin d’ora che in tutte le predizioni di declino o addirittura di rovina dell’Occidente c’è un tratto comune, al di là degli eventuali elementi di verità che in qualche caso possono contenere.” Il tratto comune sarebbe appunto l’aumento, divenuto esponenziale, della complessità.

Tre manifesti 13

E tuttavia, a dispetto di eventi catastrofici (crisi economiche, conflitti mondiali, ecc.) il crollo non c’era stato, o non era stato comunque così rovinoso. Anzi, verso la fine del secolo, con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, che per quasi l’intero secolo aveva rappresentato il principale competitor, il modello liberal-capitalistico era parso uscire definitivamente vincitore, così da far ricomparire un cauto ottimismo (espresso ad esempio da Fukuyama ne “La fine della storia”)

Le cose sono rapidamente cambiate dopo l’ingresso nel nuovo millennio: prima con l’11 settembre 2001, con la guerra in Afghanistan e la fine della “pace americana” nel mondo; poi con il dissesto finanziario ed economico esploso nel 2008; quindi con l’epidemia del Covid-19 e infine con la guerra nel cuore dell’Europa, il tema è tornato in voga. Sono cadute in pratica le certezze sul proprio ruolo-guida che l’Occidente aveva maturato nel corso degli ultimi cinquecento anni. Si sono dissolte sotto la spinta dei “risvegli” altrui, ma soprattutto per una esasperazione del sentimento autocritico che da sempre ha controbilanciato la presunzione di superiorità (persino un apologeta della civilizzazione occidentale come Arnold Toynbee ammetteva che “Nell’incontro fra il mondo e l’Occidente, in corso da ormai quattro o cinque secoli, la parte che ha vissuto un’esperienza significativa è stata finora il resto del mondo, non l’Occidente. Non è stato l’Occidente a essere colpito dal mondo; è il mondo che è rimasto colpito – e duramente colpito – dall’Occidente”).

Per Schiavone il risultato è che si sta diffondendo “una sorta di sindrome occidentale […]; uno stato d’animo che ha dato origine a una vera e propria cultura della paura e della crisi […]; tensioni che, in alcuni ambienti e circostanze soprattutto europei, hanno assunto caratteri propriamente anticapitalistici e antiamericani […]; orientamenti riconducibili a una specie di fondamentalismo antitecnologico, che fanno coincidere la tecnica con l’Occidente […]; un illanguidirsi delle appartenenze e delle identificazioni nazionali; la maggiore permeabilità sociale e personale tra i generi […]; la minor presa dei legami familiari; la trasformazione dell’etica del lavoro […]; le nuove forme di solitudine […]; l’appannarsi e il relativizzarsi del sentimento religioso, e in specie della comune identità cristiana – paragonata al fervore dell’Islam […]”.

Sono elencati in pratica tutti quei sintomi che abbiamo visto comparire nei tre precedenti manifesti, segnatamente in quello di Dugin, ma che là erano letti “positivamente” come segnali di risveglio, o quanto meno di una presa di coscienza. Schiavone li interpreta invece come frutto di “una lettura (apologetica e nostalgica) del passato, trasformata in previsione e in giudizio (fortemente negativi) sul futuro”.

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Questa lettura “emotiva” è alimentata dalla deplorevole tendenza a trascurare gli studi storici a favore dei “cultural studies”, che alla ricerca di una sia pur imperfetta “oggettività” sostituiscono le interpretazioni delle vicende. La storia come la conosciamo e come veniva insegnata sino a ieri è accusata di essere una ricostruzione “occidentale”: ad essa viene opposta la “memoria storica”, che non è una disciplina, nel senso che non prevede il confronto sulla base di regole e criteri il più possibile oggettivi e condivisi. Ora, se i risultati del dibattito storico non danno la verità assoluta, ma almeno una verità sempre in fieri, le ricostruzioni operate sulla base della memoria ci rimandano ad esperienze singole o collettive che quasi mai sono state vissute e percepite allo stesso modo dagli altri protagonisti (e meno che mai dagli antagonisti). Si dice che la storia è scritta dai vincitori, ed è vero: ma è altresì vero che poi la correggono o la riscrivono gli storici, e che il compito di costoro è di arrivare, attraverso il confronto, ad una ricostruzione che regga il vaglio degli strumenti critici. In questo senso, con tutte le cautele del caso, si può affermare che la storia è una disciplina scientifica.

È la storia che ci può aiutare a capire, – scrive Schiavone – che può rendere possibile questo radicale ma indispensabile cambio di prospettiva, aperto sul futuro. Non soltanto la storia, probabilmente: ma lei di sicuro. Ed è innanzitutto un difetto di adeguata storicizzazione a impedirci di mettere nella giusta luce quel che si vede dal nostro oggi, e a farci confondere l’alba con il tramonto, l’incompiutezza con il declino. Quasi avessimo smarrito la capacità di connettere gli eventi secondo strutture di senso che solo se colte attraverso la loro storicità possiamo sperare di rappresentare nella loro completezza, e quindi di conoscere veramente. Come se la ragione delle cose che stanno accadendo avesse sovrastato la razionalità del pensiero che dovrebbe comprenderle: una condizione che se durasse a lungo, allora sì, che potremmo dire di essere perduti.

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A dire il vero, quella che emerge dal libro è una concezione non particolarmente scientista: sembra anzi riprendere la filosofia della storia hegeliana, in quanto Schiavone cerca nel futuro le chiavi per l’interpretazione del passato, anziché viaggiare in senso opposto (e va aggiunto che anche Hegel vedeva nell’Occidente – quello che era tale alla sua epoca, quello europeo – il principale motore della storia universale, o addirittura l’unico.)

Per l’autore “la storia correttamente letta ci insegna che l’umano ha un futuro. Questo è indubbio. Come è altrettanto indubbio che l’umano, non essendo vincolato a un’essenza in forza di una legge di necessità, sta cambiando e continuerà a farlo, a oltrepassarsi, in una dimensione post-umana che lo ha accompagnato non da oggi ma da sempre, in una lotta infinita con i propri limiti”.

Dopo quanto accaduto negli ultimi decenni l’Occidente sembra però avere persa la sua capacità di guardare avanti: “L’Occidente immagina il futuro o come un prolungamento indefinito del presente o come un luogo abitato da ansia e paura. Un luogo di incertezza e di peggioramento della propria condizione sociale ed economica. Un luogo di perdita di vita complessiva della propria dignità. Arroccati nella nostalgia di un passato ormai esaurito, perdiamo la direzione complessiva del processo in corso, il suo senso d’insieme.”

Questo accade proprio nel momento in cui si annuncia una trasformazione epocale. “E così non vediamo il salto di civiltà che abbiamo di fronte. Non sappiamo sintonizzarci alla svolta che viviamo. Orientarsi in questo intrico, venire a capo delle sue sconnessioni, è tutt’altro che facile. Come se fossimo finiti in una zona morta della nostra capacità di vedere.”

La svolta di cui Schiavone parla sta nel fatto che “oggi la storia evolutiva sta smettendo di essere un presupposto immodificabile e sta per diventare un risultato delle nostre scelte. Questo perché nel giro dei prossimi decenni, non dei prossimi secoli, avremo una capacità inedita di incidere sulla nostra struttura e sulla forma biologica delle nostre vite e di modificarla.”

È questa l’idea portante che attraversa tutto il libro. Quella del passaggio della nostra specie da una storia “naturale” – controllata soltanto dai meccanismi dell’evoluzione, quindi affidata alla biologia – alla storia “culturale”. Non è certamente un’idea nuova, ma qui viene spinta sino alle estreme conseguenze. D’altro canto, era un tema già presente diversi anni fa nel saggio più famoso di Schiavone, “Storia e destino”, e sta alla base anche di tutti i suoi studi successivi sulla natura del diritto. È “[…] il superamento della separazione tra storia della vita e storia dell’intelligenza. Le basi naturali della nostra esistenza smetteranno presto di essere un presupposto immodificabile dell’agire umano, e diventeranno un risultato storicamente determinato dalla nostra cultura. Questo ricongiungimento, il passaggio dal controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente non è lontano […]”.

La storia “culturale” nasce con la comparsa della tecnica, anzi, è la storia di come la tecnica abbia modificato i rapporti dell’uomo con tutto ciò che lo circonda, con la natura e con i suoi simili, ma soprattutto con se stesso e con il proprio destino. Perché la tecnica compare in funzione e a supporto di una progettualità, mirata ad un aumento del benessere e della sicurezza dei singoli e della specie: ovvero, compare associata all’idea di “progresso”.

L’idea di progresso – ci spiega Schiavone – esprime qualcosa di profondo e di essenziale: una rappresentazione della storia senza la quale la nostra identità e la nostra capacità di progettare il futuro sono a rischio. Dentro un’idea positiva del futuro come progetto, come speranza, come proiezione in avanti delle nostre vite ecco che appare l’idea di progresso.”

Non va dunque liquidata come un rottame illuministico: “Oggi più che mai, noi come specie umana, abbiamo bisogno di recuperare una parola come progresso. Ne abbiamo bisogno perché quella parola ci consente di riappropriarci del futuro.”

Quel “noi”, prima ancora che all’intera specie umana, si riferisce agli occidentali. E qui sta la specificità della posizione di Schiavone. La fiducia nel progresso va recuperata innanzitutto da chi ne è stato sino ad oggi il principale interprete. Alla faccia della “cancel culture” dilagante, Schiavone rivendica all’Occidente un primato (anche se scrive: “non si tratta di rivendicare primati. E tanto meno di fissare gerarchie antropologiche, ma di riconoscere percorsi storici disuguali”). Perché “solo l’Occidente ha prodotto l’autonomia della scienza e la rivoluzione industriale”.

E aggiunge: “l’Occidente è definito dal proprio eccezionalismo perché è il continente delle idee e della libertà”.

La civiltà “eccezionale” che l’Occidente ha espresso è frutto della superiore capacità performativa della sua tecnica. Torna dunque l’annosa questione: la tecnica, proprio per lo stretto legame che immediatamente stringe con il capitale, ma anche a prescindere da questo, per l’atteggiamento performativo che induce nei confronti della natura, è di per sé “disumanizzante”? le derive sociali, ambientali, politiche e psicologiche di cui oggi è chiamata responsabile, le sono intrinseche? Schiavone non ha dubbi. Intanto, usa i termini capitale e capitalismo spogliati di ogni valenza ideologica, positiva o negativa: il capitale è il fondamento economico che permette alla tecnica di svilupparsi, traendo dalla tecnica stessa le risorse da reinvestire. Ritiene poi che le derive non siano un problema attinente la tecnica. Quest’ultima è solo un mezzo che apre all’uomo infinite possibilità di scelta e varianti di sviluppo. Produce risorse, e quindi anche strumenti di dominio o di distruzione, che dovrebbero però poi essere controllati e guidati dalla politica, dall’etica, dal diritto.

Il problema vero sta per lui nel fatto che quanto la tecnica ha più o meno direttamente indotto, dalla filosofia alla politica, al diritto, ai valori cardine della libertà e dell’uguaglianza che si esprimono nella democrazia, non tiene il passo con la tecnica stessa (e con l’economia che le è connessa). Non lo tiene perché è oggettivamente difficile marciare in pari con uno sviluppo tecnologico ed economico così prodigioso come quello odierno, ma anche perché da tempo l’eccezionalismo occidentale è messo in discussione, come abbiamo visto nei manifesti precedenti, dal suo stesso interno: il modello di crescita che ha informato questo sviluppo ha contraddetto troppo spesso i valori di cui si faceva portatore, principalmente quello dell’uguaglianza, suscitando le reazioni più disparate (estremismo, populismo, rivendicazioni identitarie, cancel culture, ecc..). Ma ciò che soprattutto pesa, secondo Schiavone, è “il declino di un intero sistema di saperi”, quello che stava invece alle spalle della tecnica e del capitale nell’Ottocento. Manca la capacità di “leggere” in un quadro d’insieme tutti gli aspetti dello sviluppo tecnologico, e quindi di governarne e orientarne le ricadute economiche e sociali.

Comunque, a dispetto delle sue contraddizioni, “l’Occidente ha costruito ciò che abbiamo chiamato modernità – e l’ha fatto non solo per se stesso, ma per tutto l’umano: ce ne stiamo appena rendendo conto. In effetti però, se guardiamo bene come solo ora ci è consentito di fare, ci accorgiamo che quella che abbiamo finora sperimentato non è stata la modernità nel suo pieno realizzarsi – come si è a lungo creduto – ma solo una specie di suo straordinario per quanto difficile prologo. Una faticosa e non lineare preparazione del salto decisivo che solo adesso stiamo iniziando a spiccare: una specie di protomodernità cominciata nelle città italiane del Rinascimento e conclusa sulle rive del Pacifico con l’avvio della rivoluzione tecnologica del tardo Novecento e con il culmine politico dell’impero americano che hanno gettato un ponte tra i due lembi di quell’oceano.”

Se la smettessimo per un attimo di autoflagellarci, scrive ancora Schiavone, dovremmo ammettere che dopo l’impatto con la civiltà occidentale “masse di donne e di uomini sono uscite per la prima volta dalla naturalità di un’esistenza spesa solo per sopravvivere, e hanno alzato lo sguardo oltre l’acqua per dissetarsi e il cibo per sfamarsi. In una manciata di anni, parti intere del pianeta – in Asia, specialmente, soprattutto nei grandi contesti urbani – hanno acquistato una visibilità mai posseduta; e chi ci vive è riuscito ad appropriarsi, per quanto poteva, del proprio destino. Enormi blocchi di umano sono per così dire usciti dalla natura ed entrati nella storia: in diversi modi, e per diverse vie. Hanno incontrato pezzi di modernità e si sono dati un tessuto identitario secondo l’unico modello disponibile: quello che l’Occidente ancora una volta vincitore – molto al di là di quanto egli stesso, anche per sfuggire alle proprie responsabilità, non riesca e non voglia riconoscere – ha saputo loro proporre”.

A questo punto secondo Schiavone si aprono per il futuro dell’umanità scenari ancora inesplorati, e il tono della trattazione diventa quasi visionario – anche se l’autore cerca di tenere i piedi sempre poggiati sulla concretezza. “Si riesce a capire il significato del presente solo così, cercando di guardare quel che ci aspetta per decifrarne il senso. Il mondo intero sta entrando nella versione globale della modernità”. La nostra epoca è testimone di un evento senza precedenti: la nascita della prima civiltà planetaria della storia. Una civiltà che vedrà fusi in un sistema unico il capitalismo e la tecnica, perché il capitalismo è esso stesso una potenzialità tecnica, è una macchina economica: e una volta che l’azione di questa macchina sarà diffusa a livello sovranazionale verrà liberata tutta la sua forza emancipativa. La crescita esponenziale della potenza prodotta dalla tecnica darà presto all’uomo, quasi totalmente affrancato dalla dipendenza dalla natura, la possibilità di decidere del proprio destino biologico.

Tre manifesti 16

Questa radiosa (?) prospettiva è però al momento tutt’altro che scontata. La strada è ancora molto lunga. “È al centro di una lotta in parte non anc0ra decisa che dobbiamo prendere coscienza di trovarci. Ed è questa la sfida che aspetta l’Occidente. Non solo tenere a battesimo un mondo nuovo: questo in qualche modo lo ha già fatto. Ma completarne la fisionomia secondo la razionalità che è capace di esprimere, e dargli un’anima e un destino – come solo lui si è dimostrato in grado di poter fare.

Sappiamo bene che sono in questione aspetti della nostra identità ai quali abbiamo legato parti importanti delle vite appena trascorse […] a cominciare da una certa idea di nazione, di classe, di lavoro, di famiglia, di genere – e saranno da trasformare radicalmente, se non da dismettere. […] Ma è proprio una caratteristica dell’Occidente quella di vivere rivoluzionando continuamente se stesso.

Prima di arrivare a questo stadio tuttavia l’Occidente dovrà superare una serie di contraddizioni. “La prima è quella tra l’unificazione tecnocapitalistica del mondo e la sua frammentazione politica. Va quindi impedito il consolidarsi di una “alleanza asiana”, che veda la Russia, la Cina, il Pakistan, l’India e parte dei paesi mediorientali consolidare un blocco in funzione anti-occidentale e anti-democratica.” Per Schiavone questo rischio è concreto e presente (non so se abbia letto Dugin, ma ha scritto il saggio già avendo presente quanto accade in Ucraina); al tempo stesso però non crede possa nascere un sistema egemonico alternativo centrato sull’Asia (Cina o India) e/o sulla Russia, perché a suo parere nessuna di queste potenze è in grado di esportare su scala globale una visione del mondo e un modello culturale e sociale universalmente appetibili (sono d’accordo), e possiede capacità di innovazione tecnologica analoghe a quelle dell’Occidente (non sono d’accordo). D’altro canto “anche la Russia post-sovietica è diventata qualcosa di diverso, sulla cui carne i processi di mondializzazione stanno incidendo in modo lento ma irreversibile. Da una società neocapitalistica, per quanto ancora fragile, è assai complicato uscire, una volta che il meccanismo si è avviato”. E in Cina “il progetto perseguito dai gruppi dirigenti di modernizzare in senso occidentale la società apre a prospettive che vanno seguite con attenzione: anche lì si creeranno contrasti difficili da gestire”.

Al di là però delle arretratezze e dei problemi dei competitori, l’Occidente ha già in sé secondo Schiavone gli anticorpi per scongiurare la formazione di una alleanza asiana, o eurasica, o islamica o di qualsiasi altro tipo: e questi non sono rappresentati da un superiore armamento nucleare, ma dalla capacità di costruire “una geopolitica intesa non solo come confronto tra le potenze, ma come costruzione di canali di collaborazione e di connessione dei popoli oltre gli stati, puntando sulla valorizzazione delle reti tecnologiche e capitalistiche globali”. Ciò implica naturalmente che l’Occidente sia capace di accogliere una molteplicità di prospettive, di adattarsi per costruire sintesi unitarie più avanzate.

Ma la geopolitica nuova che l’autore auspica, e che teoricamente avrebbe anche un senso, si concilia poi con il modello di organizzazione economica proprio del capitalismo? Ebbene: “Occorre accettare realisticamente questo dato: che l’organizzazione capitalistica è solo un esito storico provvisorio, che non ha dentro di sé nulla di naturale, e come tale va accolta e discussa”. Vale a dire che nessun modello è proprio del capitalismo, ma è storicamente determinato. “La forma del mercato e delle merci non è iscritta in modo naturale in quella della nostra specie e della sua storia: ne è semplicemente un prodotto di successo” (di “meritato successo”, si affretta ad aggiungere Schiavone).

Allo stato attuale delle cose, comunque, l’organizzazione capitalistica sembra muovere in una direzione ben diversa da quella auspicata, e crea una nuova contraddizione, “quella tra carattere intrinsecamente privato e sempre più concentrato delle attuali strutture capitalistiche dal punto di vista dei poteri, delle decisioni e dell’inaudita accumulazione di profitti: e di contro il carattere sempre più ‘pubblico’ delle ricadute sociali di quei dispositivi di produzione e di mercato”. Le ragioni economiche della produzione, le ragioni del mercato, stanno insomma progressivamente “autonomizzandosi”, scindendosi da quelle sociali: nello stesso tempo pesano in misura sempre maggiore sulle scelte politiche degli stati e su quelle comportamentali degli individui. “Per questo l’Occidente ha bisogno di esercitare quella capacità di autoanalisi che ha ben imparato a mettere in campo: per la critica della sua economia, che è cosa ben diversa e più seria dell’inutile e autodistruttivo rinnegamento del proprio passato: per correggere fin dove possibile il meccanismo alla base di questo contrasto.

L’esercizio di una corretta autoanalisi ci dice che “una volta che il lavoro ad alta intensità tecnologica ha preso il posto del vecchio lavoro di fabbrica, una volta abolito cioè il carattere sociale della produzione, e l’antagonismo strutturale che esso produceva […] la contraddizione si è trasferita dal dentro al fuori dell’ingranaggio capitalistico.”. E che anche rispetto a questa nuova contraddizione l’Occidente disporrebbe di un antidoto, che è la democrazia, se solo fosse capace di pensare quest’ultima come una costruzione (e astrazione) storica, quindi in costante evoluzione, e di conseguenza adattabile a rapporti inediti con il capitale e con il mercato. “In realtà, è l’intero rapporto fra forma capitalistica dell’economia e forma democratica della politica quale si è venuto delineando nel corso del Novecento che va ripensato a fondo, insieme al rapporto tra gestione della democrazia e uso delle più recenti tecnologie. Sapendo che nuove connessioni e compatibilità sono non solo storicamente possibili, ma appaiono funzionalmente indispensabili, e vanno a tutti i costi mantenute e sviluppate, sia pure con caratteri tutti da ricostruire.

Quando si tratta di arrivare al dunque, però, sul modello di democrazia compatibile con l’età digitale Schiavone rimane molto vago (ed è anche comprensibile che lo faccia: è uno storico, non uno scrittore di fantascienza). Si limita a parlare di un dispositivo democratico che consenta ai cittadini un esercizio della sovranità più ravvicinato, “come oggi è tecnicamente possibile”. Liquida l’improponibile mito di una democrazia diretta esercitata per via telematica, della quale già conosciamo i disastrosi esiti sperimentali, ma è anche certo che per il futuro l’esercizio della sovranità non potrà più essere affidato al modello rappresentativo, o almeno alla sua versione attuale, che non corrisponde più al sentire comune. Parla di costruire di una cittadinanza globalmente condivisa, come accade ad esempio nei movimenti per la tutela ambientale o per quella dei diritti legati alla differenza di genere, che combini in modo nuovo iniziativa dal basso e presenza nelle istituzioni e garantisca una interazione equilibrata tra potenza tecno-economica e potere politico. Un obiettivo encomiabile, ma evidentemente ben poco realistico.

Tre manifesti 17

Nell’ultima parte del saggio l’azzardo sul futuro della nostra specie è spinto ancora oltre. L’autore fonda le sue anticipazioni sul presupposto che una situazione compiutamente globalizzata farà riemergere l’“invarianza del comune umano”. Ripropone cioè in termini nuovi l’annosa questione dell’esistenza o meno di una “natura umana” (tornando sul tema col quale aveva aperto il saggio, e che percorre un po’ tutti i suoi scritti). È indubbio per lui che di “natura umana” si può parlare, e che anzi da essa non si può prescindere, tenendo comunque fermo che “su una base genetica sempre eguale a se stessa in ogni esemplare si intreccia il gioco di una illimitata combinazione di caratteri morfologici e intellettivi”. Questo sostrato biologico però non è affatto immodificabile. “Osservata dalla giusta distanza, qualunque strutturazione naturale è anch’essa storia, nient’altro che storia.

Come tutto ciò che ha a che fare con la natura, anch’esso è soggetto alle leggi dell’evoluzione. Con una novità, consistente nel fatto che “la rivoluzione attuale, dove prima c’era una enorme difformità di contesti, sta sovrapponendo all’identità della base genetica una identità globale di stimoli e di sfondi mentali e sociali”. In altre parole: la tecnica sta uniformando il volto economico del pianeta e la morfologia del suo territorio, ma sta omologando anche i comportamenti di massa dei suoi abitanti, includendoli tutti nello stesso circuito di consumi, tanto materiali quanto culturali: persino le idee sono già confezionate come merci. Questa omologazione da un lato apre alla speranza, perché per certi versi rende obsolete le guerre (l’uniformità di pensiero dovrebbe azzerare i contrasti ideologici, così come la razionalizzazione dei mercati dovrebbe attenuare quelli economici) e inutili anche i regimi autocratici; dall’altro spaventa, perché costringe il mondo nella rete di una ragione tecno-economica che in realtà non coincide con la razionalità complessiva della specie, e cancella diversità, peculiarità, ecc Ora, la sfida è quella di preservare queste differenze senza rinunciare al percorso dell’unificazione. E per differenze si intendono, oltre a quelle tra le civiltà, anche quelle con le altre forme di vita animali.

Schiavone preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno, e legge la trasformazione all’interno di un più ampio divenire storico. Di fronte ai grandi mutamenti indotti dalla prima modernità il pensiero europeo aveva elaborato un’immagine dell’uomo come “individuo”, e questa immagine è rimasta dominante per tutta la stagione della grande industrializzazione (a dispetto anche di dottrine alternative che cercavano di opporle il modello del collettivo). La mondializzazione economica fa invece emergere il fondo comune della specie, creando attraverso un sistema universale di bisogni, quello che regge la rete globale dei mercati, una “prossimità globale”. Diventa possibile considerare l’umano, in tutte le sue complessità e differenze, come il manifestarsi di un’unica e totale soggettività impersonale. “La soggettività della specie che finalmente approda all’orizzonte della storia.” Hegel avrebbe detto che è lo Spirito che si manifesta.

La condivisione dei bisogni rende davvero possibile iniziare un discorso sull’eguaglianza, mentre l’individualismo, esaltando le differenze, le specificità, metteva in secondo piano ciò che accomuna ogni essere umano ai suoi simili. Ora invece “la tecno-economia globale esige, per venir regolata, di poter essere confrontata con una soggettività altrettanto globale, che si ponga sullo stesso piano. Per costruire un modello di soggettività e di eguaglianza che senza rinunciare ad un imprescindibile impianto formale sappia però anche guardare in tutte le profondità del diseguale che la nuova economia oggi ci propone”.

Ma alla fine, scendendo dal piano superiore della “soggettività globale” 0 “soggettività di specie” a quello terreno del “soggetto individuo”, che futuro gli riserva Schiavone? Intanto si tratterà di un individuo non più definito dalla sua attività lavorativa. “Col passaggio dalla forma industriale alla forma tecnofinanziaria del capitale, il lavoro (che era stato sin dai primordi della modernità la culla della figura dell’individuo e del paradigma di eguaglianza moderno) muta radicalmente, tanto che si può parlare di una ‘fine dell’età del lavoro’”. Con questo “non si vuol certo dire che abbia smesso di esistere il lavoro come attività propria della specie umana. Si vuole indicare soltanto che è finita una maniera storica di lavorare, che è stata costitutiva della nostra modernità e del nostro modo di pensare […]. E si vuole anche alludere, con quella formula, al fatto – di non minore importanza – che i nuovi lavori che stanno sostituendo in Occidente quello ormai al tramonto, non possono né potranno mai avere, per ragioni strutturali, indipendenti da ogni scelta politica, giuridica o etica, la stessa funzione della figura che sta scomparendo”.

Nella vita dei nostri discendenti, se le cose andranno come Schiavone pensa siano destinate ad andare, il lavoro sarà una cosa completamente diversa (lo è già adesso, con la cosiddetta “flessibilità”: ma a ben considerare è stato tale anche per un lunghissimo periodo in passato), e rivestirà un ruolo marginale. La liberazione, “l’emancipazione” degli umani non avverrà più attraverso esso, ma arriverà da una globale condivisione di strumenti conoscitivi e operativi che consentiranno alla specie il controllo non solo sull’ambiente e sulla tecnica, ma anche sulla propria natura. Avendo tra le mani il nostro destino biologico, saremo padroni delle nostre condizioni materiali di esistenza: saremo quello che vorremo essere.

Sommario: niente fine della storia o epoca del tramonto. Schiavone è anzi convinto che la vera storia cominci ora, e che a scriverla sarà ancora una volta l’Occidente, o meglio l’impronta della sua “civilizzazione” impressa su tutto il globo. Non si nasconde che la “mondializzazione” del modello occidentale ha messo in moto un percorso problematico, irto di rischi, che può anche condurre alla catastrofe, e nemmeno ignora le resistenze e i ripiegamenti che continueranno ad opporsi a questo processo. Quindi non lo considera ineluttabile, ma lo vede come l’unica vera possibilità di sopravvivenza dell’umano. Non solo, ma una sopravvivenza ricca di straordinarie potenzialità: la vicenda di un umano ormai quasi del tutto affrancato dalla dipendenza dalla natura, e sul punto di diventare completamente padrone del proprio destino.

Tre manifesti 18

E ora provo a tirare un po’ le fila. Intanto, non vorrei aver dato l’idea che nell’ultima parte del saggio Schiavone sia partito per la tangente. Non è così. È vero piuttosto che ho faticato molto io a costringere in poche pagine una ricchezza di argomentazioni che corre come un fiume in piena e che l’autore ha condensato in una serie di passaggi logici incalzanti. E dubito assai di esserci riuscito, anche solo parzialmente. Rimane tuttavia il fatto che dovendo passare dall’analisi del presente alla parte propositiva aperta sul futuro Schiavone cambia le tonalità del discorso: e come chiunque combatta una battaglia culturale (perché questo è, al di là della diversa profondità, un pamphlet, speculare a quello Dugin) le ha alzate di parecchio, senza peraltro mai trascurare di sottolineare come ciò che va prospettando rappresenti non una profezia ma una “possibilità.”

Che è già un ottimo distinguo. Una possibilità non è un’utopia. Non cancella il tempo o la condizione presente per rifare tutto daccapo, ma intravvede nel presente qualcosa che va interpretato nell’ottica di una futura trasformazione. In questo senso il saggio di Schiavone offre notevoli stimoli, se non a fare, perché sembra che tutto accadrà (o potrebbe accadere) dietro la spinta di forze superiori, almeno a capire, ad essere consapevoli di quali direzioni potrà prendere l’umanità dopo di noi, o magari (come sottolinea a più riprese l’autore) sta già prendendo sotto i nostri occhi. E mi offre anche l’occasione di riconfrontarmi per l’ennesima volta con le mie convinzioni.

Ora, non ho la presunzione di aver capito proprio tutto quel che Schiavone stipa in queste centottanta pagine, o di essere riuscito a seguire l’autore in certi passaggi che imponevano vere acrobazie mentali. Ma il senso generale del discorso credo di averlo afferrato, e in fondo condivido buona parte della sua impostazione e delle interpretazioni che offre del presente. Eppure non sono affatto persuaso che lo scenario futuro che ci prospetta sia coerentemente fondato. Per più di una ragione.

La prima concerne la possibilità di riconquistare il controllo sulla tecnica e di riorientare quest’ultima a finalità etiche. Ho l’impressione che sia già tardi, o meglio ancora, che sarà l’etica a riaggiornarsi sulla scia degli sviluppi tecnologici. In effetti, dobbiamo prendere atto che la tecnologia ha ormai di gran lunga sopravanzato la scienza e l’etica. Prendiamo il caso ad esempio delle scienze biologiche e della ingegneria bio-medica. Quest’ultima è in grado di produrre risultati che a livello scientifico non hanno alcun interesse o giustificazione, come le ibridazioni genetiche interspecifiche. Realizzare un uomo-scimmia non fa avanzare di un millimetro la conoscenza scientifica, mentre può avere terrificanti ricadute spettacolari o implicazioni economiche. È una cosa abietta, eppure decine di laboratori vi stanno lavorando: è tecnologia da apprendisti stregoni, fine a se stessa, intesa a mostrare sin dove può arrivare il suo potere, all’interno di una sfida continua nella quale non c’è più regola che tenga.

Un motivo ulteriore di perplessità concerne l’altra auspicata “domesticazione”, quella del capitale finanziario. Pur assumendo per scontato che il capitale sia indispensabile per reggere lo sviluppo della tecnica, e quindi che dal supporto offerto alla tecnica possa legittimamente attendersi un ritorno, mi sembra che Schiavone non dia il giusto rilievo al fatto che come la tecnica anche la finanza si è autonomizzata, ha preso una strada totalmente autoreferenziale nella quale il gioco speculativo prevale su quello produttivo. Il capitale tecno-finanziario è sempre più teso a creare ricchezza, e sempre meno a creare innovazione. O meglio, crea innovazione solo in prospettiva del ritorno, e di fatto brucia tutte le altre possibilità. Non si capisce cosa possa intervenire a disciplinarlo, a dissuaderlo dalla corsa all’accumulo. Sino ad oggi le nuove connessioni e le compatibilità etiche cui Schiavone accenna (quando scrive ad esempio che tra non molti decenni mangiare carne ci parrà un obbrobrio), e che gli paiono esemplificative della via da seguire, si sono risolte nella creazione di formidabili business che ruotano attorno alle etichette di “biologico” e di “ecosostenibile”, buone per far accettare costi maggiorati, ma che nella sostanza non mettono affatto in discussione la coazione al consumo (e anzi, in qualche modo la assolvono).

Di fronte a una situazione del genere è lodevole lo sforzo di Schiavone di richiamare in campo valori e saperi che stiamo perdendo, ma la cosa cozza contro la convinzione che lui stesso a più riprese esprime, e cioè che la trasformazione interesserà necessariamente anche l’ambito etico. Quando scrive: “Vedo che stiamo usando gli strumenti della tecnica non in eccesso, ma per difetto. Li stiamo usando al di sotto delle loro potenzialità” fa un’affermazione in parte vera, ma pericolosa. La “capacità inedita di incidere sulla nostra struttura e sulla forma biologica delle nostre vite e di modificarla”, che prevede per i prossimi decenni, non per i prossimi secoli, non appare certamente oggi finalizzata a una liberazione. Mi ripeto, ma credo che questo sia il punto più debole dell’argomentazione di Schiavone. Anche rimanendo entro i confini di ipotesi meno fantascientifiche di quella che ho prospettato sopra, gli interrogativi già oggi suscitati dallo sviluppo delle biotecnologie e dalle applicazioni (e implicazioni) dell’intelligenza artificiale sono tutt’altro che gratuiti. Toccano nel profondo il senso stesso dell’appartenenza all’umano, cambiano radicalmente i parametri di definizione della specie, fanno intravvedere non una trasformazione ma una vera e propria mutazione, che andrebbe ad interessare non solo la morfologia ma tutto il sostrato biologico, e di conseguenza gli stessi fattori di comunità nei quali Schiavone ripone la sua fiducia. Altro che “invarianza del comune umano”. L’uomo, da “antiquato” che era, rischia di diventare superfluo.

Un conto è parlare dell’uso di protesi o strumentazioni che migliorano le nostre condizioni di esistenza, di resistenza o di produttività, o suppliscono a carenze naturali o accidentali (dalla pietra scheggiata ai robot della catena di montaggio, dagli abiti alla farmacopea, dagli occhiali al bypass o agli arti artificiali), e che modificano senz’altro il nostro rapporto con l’ambiente e con il nostro prossimo, ma non vanno a toccare i ritmi e i percorsi evolutivi del nostro patrimonio genetico (o lo fanno in tempi lunghissimi, che consentono di ovviare ad eventuali effetti collaterali indesiderati): un altro conto è la presunzione di “decidere noi il nostro destino”, di programmarci totalmente in proprio l’esistenza, di accedere alla condizione post-naturale, senza in realtà nessuna idea di dove vorremmo o potremmo andare a parare. A meno di intendere che a decidere sarà la “soggettività globale della specie” (e temo che Schiavone intenda proprio questo), prospettiva che nella sua indeterminatezza fa accapponare la pelle. Pur facendo le debite tare, somiglia troppo al suo esatto contrario, a quello che Dugin, mostrando senz’altro lungimiranza, definisce “lo scambio dell’identità collettiva umana con l’identità collettiva postumana: la creazione di strumenti tecnici che diventano passo dopo passo i maestri, e smettono di essere strumenti”.

Tre manifesti 19

Mi spiego meglio. Questo discorso chiama automaticamente in causa il tema della libertà, che a sua volta si tira appresso quello dell’eguaglianza, e naturalmente quello della democrazia, che dovrebbe garantire sia la prima che la seconda. Senza volerla fare troppo lunga, sul concetto di libertà concordo pienamente con Isaiah Berlin, per il quale una persona è libera innanzitutto quando non è impedita di fare ciò che desidera fare da un atto o da un’omissione di un altro essere umano (la definisce “libertà negativa”). Per Berlin esiste però anche un’accezione più estesa del concetto, quella di “libertà positiva”, che implica che l’individuo non solo non subisca coercizioni da parte di altri, ma sia totalmente “autonomo” (alla lettera, “capace di governare se stesso”). Vale a dire che l’impedimento ad agire non gli deve venire neppure da ostacoli interni, come possono essere l’ignoranza, i desideri o le emozioni. Il che in teoria è molto vero, ma presuppone distinguere tra un soggetto autentico, interamente razionale e capace di dominare le passioni, e un Io empirico, condizionato dalle pulsioni naturali. Per la concezione positiva essere liberi significa accedere alla prima condizione, ovvero agire “moralmente”: ma, e qui nasce il problema, chi stabilisce cosa sia “moralmente” giusto? Perché se la normativa morale è dettata da altri, si è liberi in realtà solo di obbedirle.

Ora, Schiavone dice più o meno che quando la tecnica ricondotta alla sua originaria funzione ci avrà liberato dai condizionamenti, dagli impedimenti, dalle malformazioni che la natura ci riserva, e anche dalle inique differenze sociali ed economiche, ciascuno di noi potrà esprimere al meglio se stesso: ma la stessa tecnica gli fornirà anche la consapevolezza che in una società del genere la vera realizzazione individuale non può che coincidere con il benessere collettivo e con la sopravvivenza dell’intera specie. Quindi non saranno “altri” a dettare le norme morali, ma queste scaturiranno da una volontà collettiva concorde e razionalmente illuminata.

L’impressione che ho ricavato io dalla lettura è che qui non si parli più di un aggiornamento dell’etica, ma di una sua completa rifondazione. E se a decidere di ciò che è bene e ciò che è male fosse davvero la “soggettività della specie”, credo che nemmeno si potrebbe più parlare di etica, perché ci troveremmo in una condizione molto simile a quella degli insetti sociali. Con la differenza, certo, che quella condizione sarebbe ciascuno di noi a sceglierla, una volta messo in grado di decidere davvero del proprio destino e di capire cosa è meglio per lui, mentre gli insetti sociali rispondono ad una determinazione biologica: ma questo è comunque in contraddizione con quella difesa della diversità che l’autore rivendica costantemente, e presume anche una identificazione tra il bene individuale e l’utile collettivo che suona molto sospetta. Non sarei poi nemmeno così sicuro che tutti gli umani, anche messi di fronte ad una (discutibile) evidenza del “bene”, sceglierebbero di conseguenza.

Berlin invece la mette così: senz’altro la “libertà positiva” indica un livello di libertà superiore, ma la pretesa che esista una sola concezione universalmente valida del bene, e che quindi tutte le questioni etiche abbiano, almeno in linea di principio, una sola risposta corretta, sta purtroppo alla base delle tentazioni totalitarie. Tutti i grandi Utopisti (quelli con la maiuscola, che hanno immaginato – e qualche volta cercato di attuare – grandi disegni sociali) partono dal presupposto che una volta conosciuto il vero sistema morale potranno essere appianati tutti i conflitti e diverrà possibile creare una società perfetta, trovare un accordo universale su un unico modello di vita. Il paragrafo che riporto da “Due concetti di libertà” (1957) sembra scritto apposta per mettere in guardia contro gli entusiasmi un po’ facili di Schiavone:

Una credenza è più di ogni altra responsabile delle stragi di esseri umani sull’altare dei grandi ideali storici: giustizia o progresso o felicità delle generazioni future o la sacra missione o l’emancipazione di una nazione, di una razza o di una classe, o persino la libertà stessa, che esige il sacrificio degli individui perché sia libera la società. Si tratta della credenza che da qualche parte, nel passato o nel futuro, nella rivelazione divina o nella mente di un singolo pensatore, nelle solenni dichiarazioni della storia o della scienza, o nel cuore semplice di un uomo integralmente buono vi sia una soluzione finale”.

Per questo al “monismo morale” Berlin oppone il “pluralismo dei valori”, concetto sul quale peraltro, in una accezione più sfumata, insiste molto anche Schiavone. Entrambi sono coscienti che far coesistere valori diversi è tutt’altro che facile, ma prendono poi strade diverse quando si tratta di trovare una conciliazione. Il primo ritiene che questi valori siano delle creazioni storiche dell’umanità e non dei dati di natura, anche se alcuni – la libertà individuale in primis – attraversano tutte le culture. E che pur essendo in linea di massima i valori morali tutti validi, non sempre le diverse idee relative al bene e al giusto sono commensurabili. Il secondo crede invece che a una conciliazione si possa pervenire, proprio attraverso la grande trasformazione della quale stiamo scorgendo gli inizi. Parte cioè dalla posizione di Berlin, ma finisce poi bene o male in quella degli utopisti. Insomma, il discrimine sta nel fatto che Berlin accetta l’idea che la ‘natura umana’ sia costitutivamente imperfetta, e che a ciò si possa sia pure solo parzialmente ovviare mediando tra libertà positiva e libertà negativa, mentre Schiavone ritiene che l’imperfezione sia solo una condizione temporanea, destinata ad essere cancellata.

Tre manifesti 20

Il caso più clamoroso di incommensurabilità dei beni è per Berlin quello tra libertà e uguaglianza. “Libertà e uguaglianza – scrive – sono tra gli scopi primari degli uomini, ma libertà totale per i lupi significa morte per gli agnelli”. D’altro canto – come dice ancora – “nel loro entusiasmo per creare le condizioni economiche e sociali affinché la libertà sia un valore autentico, gli uomini tendono a dimenticare la libertà stessa; e se ci si ricorda di essa è facile che si spinga da parte per far posto a quegli altri valori che hanno assorbito i rivoluzionari o i riformatori”.

Quindi, anche valori di per sé imprescindibili possono non andare pacificamente assieme: bisogna prendere atto che l’uguaglianza e la giustizia sociale entrano in conflitto con la libertà individuale, così come l’ordine e la sicurezza confliggono con la tolleranza o la giustizia con la misericordia: perseguono fini diversi, che devono essere bilanciati con prudenza e moderazione.

Per Schiavone invece la vera libertà non esiste se non in presenza dell’uguaglianza (ma lo pensava già Condorcet). Egli fonda come abbiamo visto la sua concezione sull’esistenza (e sulla riscoperta) dell’universale umano – per cui occorre ridefinire l’idea di uguaglianza sulla base del carattere impersonale del soggetto intra-individuale che caratterizzerà la società del futuro. In un saggio precedente, intitolato proprio “Eguaglianza”, scrive che bisogna “cominciare a pensare a un nuovo patto di uguaglianza, per salvare il futuro della democrazia; […]. Un patto che sappia farsi programma politico […], e parta non dalla parità degli individui, ma dall’illimitata eguale divisibilità della cose […], da condividersi equamente fra tutti i viventi. Un patto stretto, non nel nome di una classe, o di un qualunque soggetto che per indicare sé stesso debba escludere altri dalla definizione […], ma del comune umano come soggetto e come valore includente e globale”.

Nella sostanza, la formula di mediazione potrebbe essere questa: per come è fatto oggi l’uomo, se una società vuole essere giusta deve promulgare delle leggi che impongano questa giustizia, negando di fatto la libertà. Se invece vuole essere libera deve eliminare qualunque restrizione alla libertà; cosa che, sempre considerando la natura attuale dell’uomo, porta inevitabilmente a storture e ingiustizie. Non sappiamo se e come evolverà questa natura domani, e nel caso, se ai termini libertà ed eguaglianza potremo attribuire gli stessi significati e lo stesso valore che diamo loro oggi.

È chiaro che tra le due concezioni mi riconosco molto di più in quella di Berlin. Quanto a “soluzioni finali” ne abbiamo già viste sin troppe, ed erano tutt’altro che ispirate al trionfo della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia e della democrazia. So bene che Schiavone ha in mente altro, che si limita a dire che possono crearsi “occasioni continue di comunione solidale rispetto a un patrimonio genetico, ambientale, culturale la cui unitarietà sostanziale è esaltata dal dominio di strumenti conoscitivi e operativi che lo padroneggiano e lo trasformano sempre più a fondo”. E che “si renderebbe possibile così la formazione, intorno a una serie definita di beni ritenuti indispensabili nelle condizioni storiche date, di spazi di condivisione che aggregano isole di eguaglianza nell’oceano multiforme delle diseguaglianze individuali”. Ma tutto questo rimane per forza di cose talmente vago da prestarsi a qualsiasi interpretazione: e anche lasciando perdere quelle che ne sono state date nel passato dai totalitarismi genocidi, è già sufficiente a farmi diffidare ciò che sento predicare dai vari Baricco e Maffesoli e dai postmoderni di complemento, che profetizzano l’avvento di una nuova “barbarie” a spazzare via le rovine della “modernità criminale”.

Nutro come Berlin una fiducia molto limitata nella essenza positiva della natura umana, e ritengo più importante per la nostra specie difendere gli ultimi ridotti di una civiltà sotto assedio piuttosto che attendere inerte l’arrivo dei nostri, di una tecnologia che venga a spalancare pianure di libertà. Sono convinto altresì che l’eguaglianza e la democrazia non si realizzano quando tutti vogliono le stesse cose, nemmeno se a suggerirle è la soggettività di specie, ma quando tutti per ottenere ciò che vogliono seguono le stesse regole. Naturalmente quando quelle regole le hanno dettate e accettate gli stessi che sono tenuti a rispettarle.

Penso infine anche che l’uguaglianza abbia a che fare solo con i diritti e con l’inviolabilità dell’esistenza di ogni essere umano: il “fondo umano comune” non ci rende uguali nelle caratteristiche corporee e nemmeno in quelle mentali. Come scrive Edoardo Boncinelli “come singoli siamo animali … il collettivo umano, e con esso l’individuo che gli appartiene, mostra un carattere storico ed è figlio di una continuità culturale che non ha l’eguale in nessun altro tipo di realtà. Di questa nostra ultima particolarità andiamo giustamente fieri, ma non è conveniente né proficuo ignorare i vincoli e le condizioni che ci limitano come singoli”. Che ci limitano, ma che alla fin fine ci rendono anche liberi, perché se la “soggettività globale della specie”, come la chiama Schiavone, o “l’identità collettiva postumana”, come la definisce Dugin, cancellassero la conflittualità tra i fini diversissimi che gli uomini perseguono, scomparirebbero la necessità e il tormento della scelta e con essa l’importanza centrale della libertà di scegliere. Non solo. La continuità culturale è quella che ha partorito il diritto, ma se si fonda l’uguaglianza dei diritti sul presupposto che siamo tutti uguali, non solo si proclama una falsità evidente, ma si creano le basi per rimettere in discussione l’uguaglianza dei cittadini ogni volta che si scoprisse tra loro qualche differenza biologica.

Basta. Mi accorgo che sto viaggiando verso la stesura di un quarto manifesto, e a questo punto non mi sembra proprio il caso (il che non significa che non abbia già in mente un’altra puntata). Anche perché ho perso completamente di vista il tema di partenza, quello del destino dell’Occidente. O forse ci ho solo girato attorno.

E allora taglio corto e lo riaggancio in extremis. I tre manifesti raccontano rispettivamente un funerale, un’agonia e un battesimo. La protagonista è sempre la stessa, la civiltà occidentale, ma ripresa da angolazioni ideologiche molto diverse, per cui i film che ci arrivano sono naturalmente discordanti. Io ho cercato bene o male di metterli a confronto. Chiunque può fare la stessa cosa, i testi sono disponibili, il primo solo in rete, gli altri anche nel formato cartaceo.

Aggiungo solo un’ultima considerazione. Parlando del compito che spetta all’Occidente (“Non solo tenere a battesimo un mondo nuovo […] ma completarne la fisionomia”) Schiavone è drastico: “Innanzi a un simile impegno non c’è nostalgia del passato che tenga; non c’è rimpianto per come eravamo che possa reggere […]”. Va bene, magari come sterile rimpianto per come eravamo o per come stavano le cose non terrà; ma questo significa ancora una volta pensare che nella storia agisca un’astuzia della ragione, una necessità che a posteriori giustifica – o condona – le nostre scelte, e condanna tutte le potenzialità che quelle scelte hanno escluso, riducendole a spazzatura abbandonata ai margini della strada. Ora, è chiaro che indietro non si può tornare, ma si può almeno guardare, purché si guardi nella direzione giusta, e non ad un passato immaginario come quello costruito da Jeffers e da tutti i nostalgici dell’Eden. Magari per rendersi conto a quale bivio si era intrapresa la direzione sbagliata; o, perché no, per frugare in quella spazzatura e verificare che non sia stato buttato qualcosa che ancora può risultare utile e vitale. Ed è lecito anche provare rammarico per le scelte non fatte, pur quando c’è consapevolezza che magari non avrebbero poi cambiato granché le cose.

Quanto a me, confesso di essere un nostalgico militante. Come un tempo i maschi ebrei ringraziavano ogni mattina Dio di non averli fatti nascere donne (non so se lo facciano ancora), io ringrazio quotidianamente il cielo di avermi fatto nascere qui, in questo luogo e in questo tempo. E mi spiace vedere il primo trasformarsi e il secondo trascorrere, vorrei poter fermare l’una cosa e l’altra, e nel mio piccolo faccio tutto il possibile per almeno rallentarle. Non parteciperò ai funerali dell’Occidente e diserterò il battesimo del mondo nuovo. E non mi sento ancora affatto spazzatura.Tre manifesti 21

Indicazioni bibliografiche

Le citazioni che compaiono in questo testo sono tratte da:

KINGSNORTH Paul, HINE Dougald, Uncivilisation. The Dark Mountain Manifesto, Oxford 2009

JEFFERS, Robinson, La bipene e altre poesie, Guanda, 1969

JEFFERS, Robinson, Cawdor, Einaudi 1977

DUGIN, Aleksandr, Contro il Grande Reset. Manifesto del Grande Risveglio, AGA 2022

DUGIN, Aleksandr, Una civiltà planetaria, Il Mulino 2022

SCHIAVONE, Aldo, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, Einaudi 2019

DE TOCQUEVILLE, Alexis, La democrazia in America, Rizzoli 1999

BERLIN, Isaiah, Il legno storto dell’umanità, Adelphi 1994

BERLIN, Isaiah, Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli 1989


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