Ernesto De Martino, il nichilismo e noi

con postfazione 2025

di Giuseppe Rinaldi, 12 novembre 2025

Il breve saggio di Beppe Rinaldi che proponiamo non avrebbe bisogno, come del resto gli altri qui comparsi in precedenza, di alcuna presentazione: è già tutto lì. Ma io, che sono incorreggibile, ne approfitto una volta di più per ribadire il concetto che sta alla base dell’esistenza di questo sito: e cioè che l’informazione, la cultura, ogni forma di conoscenza, così come ogni altro mezzo di sopravvivenza, bisogna guadagnarseli. Nella fattispecie, leggendo il testo con la dovuta attenzione, e là dove rispetto a qualche nome, a qualche opera o a qualche movimento non si abbiano i necessari riferimenti, andando a recuperarli. Magari facendo anche un po’ di fatica (la fatica non è una maledizione divina, ma il modo naturale per tutte le specie animali di stare al mondo): che è anche quanto Rinaldi sostiene quale antidoto al nichilismo.

Con questo credo di rispondere a qualche nostro lettore (avete letto bene, qualcuno c’è) che lamenta una marcata discrepanza tra gli argomenti trattati nel sito, nonché nel modo di trattarli. Ora, il concetto è che, si parli di fumetti, di cinema, di scampagnate, di viaggi o di libri di viaggio, oppure si affrontino tematiche più complesse, inerenti la filosofia, la sociologia, la scienza e i suoi derivati tecnologici, a tenere assieme il tutto, e anzi, a spiegare come il tutto si tenga assieme, c’è sempre la volontà di rendere partecipe chi ci segue: intendendo la partecipazione nella valenza più letterale, attiva. Non siamo al ristorante, ma ad una cena tra amici, una volta si sarebbe detto ad un “convivio”, e tutti devono fare del loro meglio: che si traduce nel cercare di farsi capire il più possibile da parte di chi scrive, e nello sforzarsi di capire il più possibile da parte di chi legge. E magari di scrivere a sua volta, se qualcosa non lo convince.

Qui non si dispensa cultura, non si offrono frutti maturi, e neppure si ha la pretesa di insegnare a coltivare l’intelletto: saremmo già felici se riuscissimo a trasmettere lo stimolo a farlo. (P. R.)

1. In un volume[1] collettaneo di Ernesto de Martino, intitolato Furore, simbolo, valore, si trova un breve articolo intitolato Furore in Svezia, che contribuisce al titolo stesso della raccolta. Il furore cui si fa riferimento è un episodio accaduto nel 1956, durante il capodanno, nel centro di Stoccolma: cinquemila adolescenti abbigliati con giubbe di cuoio si erano scatenati e avevano tenuto la strada, molestando i passanti, rovesciando automobili, frantumando le vetrine ed erigendo barricate. Si ebbero scontri violenti con la polizia, si contarono numerosi feriti e molti arresti. Fenomeni analoghi, seppure di minore intensità, si erano ripetuti in quel periodo, nel fine settimana, nel centro di Stoccolma e in altre città svedesi. Il lettore odierno non fa alcuna fatica ad andare con la memoria a episodi analoghi, anche ben più gravi, accaduti nei tempi successivi, fino ad oggi, sia nel nostro paese sia altrove. Si tratta di episodi violenti che si caratterizzano per la loro apparente assoluta mancanza di senso.

2. Già de Martino osservava: «Si tratta di pure e semplici esplosioni di aggressività senza premeditazione e senza organizzazione, senza capo e senza scopo. Gli episodi di violenza non insorgono per qualche cosa e contro qualcuno: inesplicabilmente, come per un richiamo misterioso, gruppi di adolescenti e di giovani, dai quindici ai vent’anni, senza conoscersi tra loro e nulla avendo in comune tranne l’età, formano banda temporanea ed entrano in furore distruttivo. […] Questi ribelli senza causa non si propongono rapina o vendetta nel senso comune di queste parole: sono mossi da un impulso di annientamento delle persone e delle cose, vogliono ridurre in cenere il mondo, far sfoggio della loro potenza di eversione. Nessun legame interpersonale nasce da tali tempestosi assembramenti, da queste orge di furore: le bande temporanee si sciolgono così come si sono formate, senza lasciare traccia di rapporti oltre la scarica distruttiva»[2].

3. Naturalmente già all’epoca in cui scriveva De Martino erano stati avanzati vari tentativi di spiegazione di questi fenomeni. Egli sottolineava tuttavia la non esaustività delle spiegazioni economiche (i giovani in questione non condividevano la stessa condizione sociale, non si trovavano cioè in situazioni sociali ed economiche particolarmente critiche), come pure delle spiegazioni incentrate sull’eccesso di benessere svedese, oppure sulla solitudine delle alte latitudini dovuta ai ritmi naturali della giornata (freddo, mancanza di luce) e invocava l’esigenza di ricorrere al contributo dell’etnologia e della storia delle religioni per comprendere meglio il fenomeno: «Dal punto di vista dell’etnologia e della storia delle religioni il capodanno di Stoccolma e altri episodi affini perdono il loro carattere più preoccupante di assoluta eccezionalità e si manifestano come un pericolo che tutte le epoche e tutte le civiltà hanno dovuto fronteggiare, con maggiore o minore successo. Questo pericolo è l’angoscioso essere afferrati dalla nostalgia del non-umano, è l’impulso a lasciar spegnere il lume della coscienza vigilante e ad annientare quanto, nell’uomo e intorno all’uomo, testimonia a favore dell’umanità e della storia. […] L’etnologia e la storia delle religioni confermano largamente la tesi secondo cui una delle funzioni fondamentali della civiltà consiste nel controllo e nella risoluzione di ciò che Freud chiamò “istinto di morte”, cioè l’abdicazione della persona come centro di decisione e di scelta secondo valori, la tendenza a cancellare dall’esistenza quanto esiste, la cieca tentazione della eversione e del caos, la nostalgia del nulla»[3].

4. Insomma, de Martino ipotizzava una specie di patologia, propria dell’animale culturale, che consiste giusto nel disancoramento dalla propria cultura (che de Martino considerava un artefatto storico) o, se si preferisce, nel disancoramento dal proprio Mondo, e nella conseguente messa in opera di comportamenti distruttivi nei suoi stessi confronti. In seguito al venir meno del legame con la cultura, che dà forma alla storicità delle varie comunità e che dunque così contribuisce a definire i comportamenti e le identità dei singoli, si spalancherebbe l’abisso primordiale dell’assoluto negativo.

Questa condizione, si badi bene, non ha nulla a che fare con l’istinto meccanico dell’animale, regolato e selezionato per secoli dall’evoluzione, che non ha nulla di distruttivo, ma è una situazione potenziale specifica degli umani, nel cui orizzonte culturale può prendere forma qualunque aberrazione distruttiva, contro qualsiasi cosa abbia un significato culturale compiuto, in termini di limitazione, di coerenza, di convenzione, di durata. Ciò può implicare la distruzione di qualsiasi cosa sia comunemente considerata come dotata di valore. Invece di realizzare se stessi in termini costruttivi, attraverso le diverse forme valoriali che la cultura mette a disposizione, si cerca di costruire e mantenere una propria momentanea identità attraverso la distruzione, più o meno sistematica, del prodotto culturale storico che una società è riuscita a mettere insieme.

Non si tratta dunque di una manifestazione culturale nuova, una qualche forma di cultura critica radicale o alternativa, il tentativo di criticare un qualche valore che istituisce un particolare mondo dell’esserci, ma di un gesto distruttivo nei confronti di quello che c’è, di ciò che è condiviso dalla gran parte dei membri di una società. Si tratta di un gesto semplicemente regressivo che evoca modalità infantili e/o primitive di rapporto con l’oggetto e con gli altri.

5. Questa possibilità, insita nell’animale culturale, si scontrava con l’ottimismo storicistico, professato dallo stesso De Martino, secondo il quale, la storia sarebbe il campo della realizzazione costruttiva, o dell’ethos del trascendimento – come egli si esprimeva attraverso il suo linguaggio fenomenologico esistenzialistico. Il furore è dunque un comportamento del tutto possibile per l’animale uomo, un comportamento attraverso il quale l’uomo non riconosce più il proprio stesso patrimonio culturale e lo vandalizza e devasta. Un comportamento determinato da una sorta di affermazione di sé attraverso la produzione del caos, attraverso lo scoperchiamento del nulla, il bisogno di mostrare il nulla che abita sotto la sovrastruttura culturale, di vanificare come illegittimo qualsiasi ordine di valore instaurato. Insomma, la disgregazione al posto della realizzazione costruttiva.

6. De Martino osservava, nel suo articolo, che nelle società arcaiche e nelle civiltà del mondo antico l’abisso primordiale che inevitabilmente si rivela quando viene meno l’identificazione basilare con la propria cultura era ben noto. Esso era considerato come qualcosa di molto pericoloso, tanto che veniva circoscritto e ritualizzato. Egli fa l’esempio del capodanno babilonese, oppure dei Saturnali romani, oppure ancora delle tradizioni carnevalesche.

Così racconta de Martino: «Nel capodanno babilonese il rito disfaceva il tempo trascorso nell’anno spirante, cancellava per così dire la storia che si era accumulata, ed esprimeva un regresso all’epoca mitica delle origini, quando il caos dominava e il cosmo non era ancora stato fondato. In rapporto a questo schema tecnico il rito comportava aspetti di distruzione e di annientamento dell’ordine sociale vigente, come l’umiliazione e l’abbassamento della stessa potenza regale, la simbolica trasformazione degli schiavi in padroni, la violenta eliminazione dei mali fisici e morali contratti nel corso dell’anno spirante, e infine la instaurazione dell’indistinzione originaria del caos. Ma il rito includeva anche l’opposto momento della reintegrazione dell’ordine, e del ripristino dei valori sociali e morali: veniva infatti rappresentata la lotta dell’eroe Marduk contro il mostro marino Tiamat, con la vittoria finale dell’eroe e la fondazione primordiale del cosmo. In tal modo lo schema mitico – rituale del capodanno babilonese consentiva all’impulso di morte di manifestarsi attraverso eversioni e inversioni annientatrici dell’ordine vigente: ma gli impulsi distruttivi non erano fatti valere sul piano realistico, ma su quello simbolico del rito, e soprattutto la vicenda riceveva il suo senso dalla ripetizione del dramma della creazione e della reintegrazione di un ordine nuovo senza macchia, uscito per la prima volta dal caos»[4].

Carattere comune di questi espedienti di manipolazione del nulla e di reintegrazione del significato, di questi artefatti culturali di morte e rinascita, sono la durata circoscritta nel tempo, la cancellazione temporanea dei ruoli e delle barriere sociali, lo scatenamento emozionale, il sacrificio o la distruzione di qualche entità simbolica, la narrazione di miti legati alla questione dell’ordine e del disordine, la reintegrazione dell’ordine. Insomma, si tratta di un modo per evocare l’abisso senza farsene travolgere, un modo per circoscriverlo e per produrre una reintegrazione culturale.

7. In mancanza di una capacità diffusa di reintegrazione, può sopravvenire il fascino del nulla, il nichilismo. Così De Martino aveva interpretato la crisi culturale del periodo del secondo dopoguerra. «È da tempo che una cupa invidia del nulla, una sinistra tentazione da crepuscolo degli dèi dilaga nel mondo moderno come una forza che non trova adeguati modelli di risoluzione culturale, e che non si disciplina in un alveo di deflusso e di arginamento socialmente accettabile e moralmente conciliabile con la coscienza dei valori umani faticosamente conquistata nel corso della millenaria storia di Occidente»[5].

8. De Martino dunque ci avverte che le culture, tutte le culture, anche le più complesse, sono estremamente fragili, che la connessione che si stabilisce tra i corpi biologici e il patrimonio culturale che vien costantemente elaborato e accumulato è estremamente labile, che la cultura, la quale ha il compito di dirigere attraverso i propri valori il comportamento umano, è in fondo un costrutto artificiale, un prodotto non necessario della storia, che avrebbe potuto essere completamente diverso da quello che ci ritroviamo. Si tratta di una forma di rappresentazione o, se si preferisce, addirittura di una illusione, come direbbero volentieri diversi filosofi continentali. Ammesso che così sia, si tratta tuttavia di un’illusione necessaria, poiché quello che siamo in quanto umani è esattamente il costrutto culturale che siamo in grado di produrre e di mantenere, senza farci troppo ammaliare dal fascino dell’abisso.

Postfazione 2025

1. Lo scritto antropologico di Ernesto De Martino, che ho testé presentato e analizzato, ha ben poco a che fare con la tradizione continentale che si è occupata del nichilismo in quanto categoria filosofica. Mi riferisco alla tradizione che ha tra i suoi esponenti principali Nietzsche ed Heidegger, seguiti da una schiera di epigoni. Dato che De Martino, nel suo saggio sul nichilismo, ha preso le mosse dalle manifestazioni del disagio giovanile degli anni Cinquanta, ho pensato di metterlo a confronto con Umberto Galimberti, un rispettabile seguace di Nietzsche e Heidegger, che ha trattato anch’egli della tematica del rapporto tra il nichilismo e i giovani. Credo che il raffronto possa risultare piuttosto utile, anche al fine di chiarire alcuni concetti fondamentali riguardanti il ruolo delle marche emotive e del simbolismo nella costruzione della coscienza collettiva e dell’ordine morale della società. Ciò mi permetterà, indirettamente, di distinguere tra quel che è la teoria sociale, invero oggi piuttosto misconosciuta, e quel che sono certe favole filosofiche che sono invece piuttosto di moda.

2. De L’ospite inquietante[6] – che porta come sottotitolo Il nichilismo e i giovani – di Galimberti mi sono occupato fin dal 2007, quando il volume è uscito. Questo perché lo scritto possiede almeno due livelli di lettura. Il primo è quello dell’instant book sui problemi della condizione giovanile, dove si compiono diverse analisi e considerazioni a partire dai fatti di cronaca e dalla ricognizione di vari elementi empirici relativi al disagio e alla violenza giovanile[7]. A quell’epoca era questo il livello che mi aveva soprattutto interessato, poiché ero allora impegnato in una ricerca sociologica sui giovani. Il secondo livello di lettura, quello più sottile e forse più sfuggente, riguarda invece proprio la questione filosofica del nichilismo. Nell’impianto del saggio di Galimberti, il concetto teorico filosofico del nichilismo – com’è stato elaborato da Nietzsche e Heidegger – viene ampiamente utilizzato in termini esplicativi per dar ragione del disagio giovanile e per proporre addirittura una soluzione che dovrebbe condurre oltre il nichilismo. Qui, indubbiamente, la filosofia si fa antropologia, sociologia, psicologia e soprattutto tecnica terapeutica per curare i mali del mondo. Più volte, nel suo scritto, Galimberti manifesta una certa sufficienza nei confronti delle scienze umane che – in quanto scienze – sarebbero incapaci di fare effettivamente fronte ai problemi dei quali si occupano. Più efficace sarebbe, appunto, la filosofia, almeno quella che intende Galimberti. Questo secondo piano di lettura è quello di cui mi occuperò in questa sede.

3. Non mi occuperò quindi della questione effettiva del disagio giovanile e/o della violenza insita in taluni comportamenti giovanili, argomenti di cui comunque è pervaso il libro di Galimberti, a proposito dei quali va comunque riconosciuto che egli è in grado di fare una miriade di osservazioni senz’altro intelligenti e interessanti. Mi occuperò piuttosto della teoria filosofica sottostante e quindi, indirettamente, dell’annosa questione dell’uso possibile delle teorie filosofiche a fini terapeutici. Vedremo purtroppo come la terapia proposta da Galimberti finisca per costituire essa stessa una delle cause, forse la più importante, della malattia che egli intende curare.

4. Dati i miei scopi, del saggio di Galimberti esaminerò qui soprattutto l’introduzione e le conclusioni. Fin dalle prime battute, Galimberti propone la sua versione del nichilismo: «[…] i giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive ed orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui»[8].

Galimberti dice con chiarezza che il disagio di cui parla è di natura culturale: «E questo perché se l’uomo, come dice Goethe, è un essere volto alla costruzione di senso (Sinngebung), nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde il disagio non è più psicologico, ma culturale. E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un’implosione culturale di cui i giovani, parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato, sono le prime vittime»[9].

5. Insomma, abbiamo ormai una catastrofe culturale alle spalle e la condizione odierna dei giovani sarebbe soltanto una conseguente manifestazione di quanto è già accaduto. Se questo fosse vero, ogni questione di rimedi sarebbe fuor discussione: «Se il disagio giovanile non ha origine psicologica ma culturale, inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura, sia nella versione religiosa perché Dio è davvero morto, sia nella versione illuminista perché non sembra che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini, se non in quella formula ridotta della “ragione strumentale” che garantisce il progresso tecnico, ma non un ampliamento dell’orizzonte di senso per la latitanza del pensiero e l’aridità del sentimento. Le pagine di questo libro non indicano un rimedio di facile ed immediata attuazione. E già questa ammissione di impotenza la dice lunga sulla natura del disagio che, lo ripeto, non è esistenziale ma culturale»[10].

Mi permetto di osservare en passant che le teorie che individuano nella storia un qualche peccato originale funzionano tutte più o meno così. Si tratta anzitutto di individuare dove e quando è avvenuto il fattaccio che a tutt’oggi ci condiziona da vicino e ci impedisce di essere quel che vorremmo o dovremmo essere. Dopo avere fatto con sicurezza la diagnosi, si tratterebbe allora di cercare un rimedio, a proposito del quale, tuttavia, si può essere anche piuttosto vaghi e possibilisti. Ci si può anche limitare a evocare vaghe speranze. Ad aspettare qualche forma di salvazione. O a concludere che non c’è più niente da fare.

6. Nel caso di Galimberti e del nichilismo, la diagnosi è piuttosto precisa: in estrema sintesi è tutta colpa della ricerca esasperata di un senso, la quale ricerca è in corso non da ieri, ma fin dagli inizi della tradizione giudaico cristiana. Più o meno, si tratterebbe di un problema che sussiste fin dagli albori della civiltà, o fin dalla creazione biblica, per quelli che la considerano seriamente.

Nonostante il fatto che la questione, messa così, assuma decisamente una prospettiva epocale cosmico storica, Galimberti, con un guizzo creativo, prospetta comunque il suo rimedio: «E se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per dirla in greco, del proprio “daimon” che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco “eudaimonia”? In questo caso il nichilismo, pur nella desertificazione di senso che porta con sé, può segnalare che a giustificare l’esistenza non è tanto il reperimento di un senso vagheggiato più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre effettive capacità, quanto l’arte del vivere (téchne tou biou) come dicevano i Greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità (gnothi seauton, conosci te stesso) e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà métron). Questo spostamento dalla cultura cristiana a quella greca potrebbe indurre nei giovani quella gioiosa curiosità di scoprire se stessi e trovar senso in questa scoperta che, adeguatamente sostenuta e coltivata, può approdare a quell’espansione della vita a cui per natura tende la giovinezza e la sua potenza creativ[11].

7. Galimberti avanza dunque l’ipotesi (invero piuttosto azzardata) che la ricerca del senso (che secondo lui è caratteristica specifica non degli umani in generale bensì della tradizione culturale giudaico cristiana) potrebbe essere la causa principale stessa del disagio nichilistico, non solo dei giovani attuali, a questo punto, ma dell’intero Occidente. Stiamo male proprio perché siamo costantemente alla ricerca del senso. Il nichilismo che ci attanaglia sarebbe solo la conseguenza estrema della nostra malata ricerca del senso. L’interpretazione di Galimberti qui segue ovviamente Nietzsche più o meno alla lettera.

In alternativa alla prosaica ricerca del senso, destinata a non avere alcuna soddisfazione, destinata anzi a generare proprio il nichilismo, Galimberti propone un ritorno ai Greci. La cosa suona, a prima vista, davvero un poco bizzarra, poiché, per la maggior parte delle persone appena un po’ acculturate, la tradizione giudaico cristiana, è nota proprio per avere incorporato la cultura greca. Dunque la perniciosa “ricerca esasperata di senso” si sarebbe manifestata fin da subito anche e soprattutto presso i Greci. Del resto, la filosofia occidentale, nella comune accezione, si è sempre occupata della ricerca del senso. Fin dai filosofi presocratici.

8. Ma allora, cosa vuol dire Galimberti? Di quali Greci sta parlando? Galimberti è piuttosto ambiguo, poiché parla di un non ben precisato daimon che i giovani dovrebbero imparare a scoprire dentro di sé e a coltivare. Cosa è l’arte del vivere di cui parla? Come dobbiamo intendere lo gnothi seauton? Apparentemente, il discorso di Galimberti sembrerebbe essere di tipo socratico, ma allora non avrebbe senso contrapporlo così decisamente alla cultura giudaico cristiana. In realtà Galimberti ha in mente una ben precisa interpretazione anti cristiana (e antisocratica) della cultura dei Greci, cioè quell’interpretazione alquanto discutibile che ha origine nella romantica Nascita della tragedia di Nietzsche e che poi si è sviluppata, attraverso la filosofia continentale successiva, in Heidegger e nei suoi epigoni[12]. Il recupero del daimon interiore, la pratica dell’arte di vivere, la condanna della ricerca del senso, fanno più che altro riferimento a Dioniso, che per Nietzsche era l’antagonista per eccellenza di Socrate. Il lato alternativo alla cultura greca ufficiale.

9. Solo sotto la luce nera di Dioniso si comprendono, nel fraseggio di Galimberti, “la gioiosa curiosità di scoprire se stessi”, l’ “espansione della vita” e la “potenza creativa” della giovinezza. L’unico elemento, tra quelli citati, che sarebbe estraneo al dionisiaco è il katà métron, che è senz’altro una concessione al socratismo. Qualsiasi misura, infatti, implica, di già, la definizione di un qualche senso. Forse si tratta di un’allusione a quello che, secondo Nietzsche, sarebbe stato il breve momento miracoloso della sintesi tragica tra apollineo e dionisiaco. Galimberti recupererà, nel seguito delle sue argomentazioni, proprio i tratti salienti di una analoga sintesi, o avvento di una condizione di equilibrio instabile, che egli ritrova nelle nozioni da lui proposte del nomadismo e dell’etica del viandante. Cioè, di un pensiero e di un’etica capaci di operare senza alcun punto fisso di riferimento.

Noi nel nostro piccolo avevamo sempre pensato, invece, che coloro che son colpiti dal nichilismo avessero per lo meno bisogno, per uscirne, di qualche punto fisso di riferimento. O al più rimpiangessero di non averne uno. Come ognun vede, quella di Galimberti costituisce un’indicazione piuttosto paradossale, e cioè di procedere a un alleggerimento della cultura, proprio in un’epoca nella quale avremmo decisamente bisogno di più cultura. Un invito a lasciar andare via anche quel poco di senso che c’è rimasto, convinti che l’epoca del senso sia ormai irrimediabilmente finita e, soprattutto, convinti che nel flusso del pensiero e dell’etica nomade staremo tutti senz’altro meglio.

10. Si tratta dunque, secondo Galimberti, di sostituire, alla ricerca considerata ormai vana e superata del senso della vita, una nuova nozione – che a noi parrebbe invero più romantica che greca – della vita come arte totale. Non tuttavia di un’arte meccanica si tratta, e neanche intellettuale, bensì di un’arte intesa come espressione di sé, ove soltanto si potrebbe realizzare il miracoloso equilibrio nomade tra daimon e métron. C’è un punto che a mio modesto avviso va precisato. Tutti coloro che fanno proposte simili, che credono fortemente nella vita come espressione, tendono a dare per scontato di aver dentro una incomparabile ricchezza nascosta, che stia lì, solo ad aspettare di venir fuori. Si tratta solo di togliere via gli impedimenti. In una versione democratica di queste teorie, tutti sarebbero egualmente ricchi di queste mirabili risorse interiori, dunque ci sarebbe abbondanza di speranza per tutti.

Per cui siamo spinti a concludere che la proposta terapeutico – culturale di Galimberti, proprio per i suoi presupposti, non può che risultare del tutto inconsistente. A chi manifesta o denuncia, più o meno consapevolmente, di avere il vuoto dentro, Galimberti sembra prescrivere qualcosa come: «Esprimi quello che hai dentro». O, peggio: «Diventa quello che sei». Quello che hai dentro, oppure quello che sei allo stato originario – a meno che tu non pensi di essere un Dio – altro non è se non il coacervo magmatico delle emozioni, l’istinto di branco dell’animale, il complesso disparato di tutti gli impulsi grezzi, come questi sono prima che siano resi consapevoli ed educati in un contesto culturale qualsiasi. Il risultato di simili prescrizioni, un effetto perverso vero e proprio, non può essere allora altro che proprio il furore di cui parlava De Martino. La terapia culturale proposta da Galimberti potrebbe alimentare e aggravare la malattia culturale stessa che invece egli intenderebbe curare.

11. La strada proposta da Ernesto De Martino è decisamente un’altra. Il nichilismo, lo sprofondamento nel nulla, è un pericolo esistenziale cui è continuamente esposto l’animale culturale umano. Questo accade perché sotto la coperta della cultura – la sola che ci rende quel che siamo – c’è solo la nostra natura animale, positiva e pregevole fin che si vuole, ma pur sempre animale. Quando, per qualche motivo estrinseco, si affloscia l’orizzonte di senso che ci viene dalla cultura – allora perdiamo la storicità, perdiamo cioè il fine, perdiamo il senso dei valori, il senso del nostro impegno nella società e il senso della nostra prassi nella storia. Perdiamo la nostra stessa individualità. Non sappiamo più donde veniamo, chi siamo, dove andiamo. È questo un rischio costante cui l’animale uomo è da sempre sottoposto, poiché esso è – appunto – l’animale culturale per eccellenza. Occorre allora esser consapevoli di questa specifica condizione umana e procedere, di conseguenza, a un’opera costante di reintegrazione, cioè a una opera di manutenzione dei rapporti che intercorrono tra la nostra parte culturale e sociale (quella che è stata definita come l’altro generalizzato[13]) e la nostra parte animale (la natura di cui facciamo indissolubilmente parte).

12. Questa manutenzione dei rapporti tra natura e cultura, dice De Martino, non può limitarsi a essere di tipo meramente individuale, perché andando a scavare nella carne della nostra natura individuale, troveremo sempre e soltanto lo stesso nulla che vi trovano tutti. O, se vogliamo, potremmo trovare quelle poche cose elementari che l’evoluzione ha fatto per noi[14]. La manutenzione del rapporto natura/ cultura non è dunque un fatto privato e personale, deve invece passare necessariamente attraverso i rituali collettivi della cultura stessa. La reintegrazione non può che avvenire attraverso la dimensione simbolica, che è sempre culturale e collettiva, anche quando viene interiorizzata dai singoli. Anche quando ce ne dimentichiamo.

13. L’emersione del vuoto nelle nostre vite, cosa che talvolta ineluttabilmente avviene, non è dovuta all’ospite inquietante di Galimberti, nato dalla tracotanza assiologica giudaico cristiana risalente a svariati secoli or sono. È dovuta alla nostra fortuita e sopravvenuta incapacità nell’uso dei rituali collettivi di reintegrazione a livello simbolico[15]. De Martino, riferendosi alle società semplici, parla in tali casi di cerimonie tribali, parla del carnevale o dei Saturnali. Trasferendo tuttavia l’equivalente di questi rituali nella nostra società occidentale, complessa e tecnologica, i problemi si complicano. Perché cose come il rischio della presenza e la perdita della storicità assumono aspetti del tutto nuovi e imprevisti. E di enorme portata. E così, oggi, l’esigenza dei rituali di reintegrazione si presenta in forma allargata e totalmente nuova. Rispetto alle società primitive, i problemi che abbiamo oggi hanno a che fare in gran parte con l’affievolimento (o la complicazione) dei rituali collettivi in presenza, quelli che chiamiamo face to face. Sono questi i rituali della vita quotidiana di cui ha ampiamente trattato l’interazionismo simbolico. E questi hanno a che fare, anche e soprattutto, con varie forme di sconnessione, nella nostra esperienza, tra le marche simboliche e le marche emotive. È bene ricordare che le marche emotive sono proprio quelle che – dentro di noi – regolano il rapporto tra natura (il corpo) e cultura (il simbolismo collettivo).

14. È da notare che la sconnessione tra l’emotivo e il simbolico si presta a essere molto più frequente in una società complessa piuttosto che in una società semplice. Nelle società semplici difficilmente si sfugge alla mobilitazione delle emozioni intorno al patrimonio simbolico riconosciuto immediatamente da tutti a livello locale. Nelle società complesse, invece, il simbolismo acquista un volume e una autonomia enormi e così può accadere che la dimensione emozionale, collettiva e individuale, venga facilmente sconnessa, oppure possa anche trovare una moltitudine di connessioni improprie.

Basti ricordare come l’isolamento forzato del covid abbia fatto scoprire, a una moltitudine di studenti, solitamente distratti da mille cose, l’essenzialità del rapporto in presenza con gli insegnanti e con la propria classe. Basti ricordare che, di fronte alla crescita degli episodi di violenza tra i giovani, da più parti si richiede l’adozione di una sorta di educazione affettiva, obbligatoria e gestita dalla scuola pubblica. Oppure si ricordi la devastazione operata dagli smartphone, nell’ambito dei rapporti face to face, nei confronti di intere nuove generazioni, come è stato comprovato dagli ormai celebri lavori di Twenge e Haidt. Oppure, ancora, si pensi ai danni colossali per la democrazia causati dal progressivo affievolimento dei rituali formali e informali della partecipazione politica. Ma va notata anche la comparsa di nuovi rituali collettivi decisamente perniciosi – che si servono magari anche delle nuove tecnologie – come quelli del razzismo o del populismo, o di movimenti demenziali come QAnon.

15. Si tratta allora di prendere consapevolezza, di comprendere fino in fondo, anche nel dettaglio delle micro interazioni, come avvenga effettivamente la sempre avventurosa e mai garantita costruzione dei legami sociali e culturali, quei legami che – soltanto loro – sono in grado di tenere a bada il nichilismo, cioè il vuoto di senso. Come avvenga la costituzione stessa della società come entità morale (il termine è di Durkheim). E quali siano invece le forze disgregatrici cui le società vecchie e nuove, sono sottoposte. Le risposte dell’antropologia culturale, della psicologia sociale, della sociologia e della linguistica sono ormai abbastanza chiare e convergenti. Sulla linea di De Martino, disponiamo oggi di una tradizione teorica che comprende figure decisive come Durkheim, Mauss, GH Mead, Merton, Geertz, Goffman, Douglas, Collins, solo per citarne alcune. Abbiamo dunque ormai un’ampia disponibilità di elementi di teoria sociale con cui possiamo effettivamente affrontare i problemi della costruzione del senso, della solidarietà sociale e delle identità collettive. Evitando accuratamente i danni dei deragliamenti nichilisti alla Galimberti. Qui, per esser questa una postfazione, non mi posso dilungare oltre. Se ci sarà qualche interesse, avrò modo eventualmente di tornare su queste tematiche.

OPERE CITATE

1962 De Martino, Ernesto, Furore, simbolo, valore, Feltrinelli, Milano.

2007 Galimberti, Umberto, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano.


[1] Il suggerimento di procedere alla pubblicazione di questo saggio è nato nell’ambito di una discussione, presso Città Futura, ove era emersa l’esigenza di meglio comprendere i fenomeni, sempre più dilaganti e preoccupanti, del disagio individuale, della aggressività e della violenza. Spero che, con tutti i suoi limiti, esso possa fornire un qualche utile contributo. Questo saggio è stato da me originariamente pubblicato sul sito Finestre rotte il 14/10/2012, con il titolo de L’illusione necessaria. Ha poi subito alcuni rimaneggiamenti, fino alla versione che qui presento, con una nuova titolazione, meno metaforica e più aderente al contenuto. Alla nuova versione mi è sembrato utile aggiungere una postfazione, relativamente ampia, che ha come principale oggetto il confronto tra la nozione del nichilismo demartiniano con quella, opposta, del nichilismo filosofico, come trattato nell’ambito della tradizione nicciano – heideggeriana. In questo confronto mi sono servito del saggio L’ospite inquietante di Umberto Galimberti. In calce, ho inserito qualche breve considerazione sui rituali collettivi di reintegrazione come sono oggi concepiti e concepibili nell’ambito delle scienze umane. Nella scrittura non ho utilizzato strumenti di AI.

[2] De Martino, 1962: 225-226.

[3] De Martino, 1962: 227.

[4] De Martino, 1962: 228.

[5] De Martino, 1962: 231.

[6] Cfr. Galimberti 2007.

[7] All’epoca, l’opinione pubblica era stata scossa dai famosi lanci di sassi dal cavalcavia, azione altrettanto priva di senso delle devastazioni di Stoccolma di cui parla De Martino.

[8] Cfr. Galimberti 2007: 11.

[9] Cfr. Galimberti 2007: 12.

[10] Cfr. Galimberti 2007: 13.

[11] Cfr. Galimberti 2007: 14. Le traslitterazioni dal greco sono di Galimberti stesso.

[12] Che questo sia esattamente ciò che ha in mente Galimberti è piuttosto inequivocabile. Soltanto per brevità evito di esaminare, per filo e per segno, tutto il testo, del quale peraltro ho prodotto una ampia schedatura. A testimoniare dell’ispirazione nicciana in questo testo sta il fatto – dettaglio curioso ma significativo – che il penultimo capitolo sia dedicato alle emozioni e alla musica.

[13] Si tratta di un concetto elaborato nell’ambito dell’interazionismo simbolico.

[14] L’uomo, proprio perché è destinato evolutivamente ad avere necessariamente una cultura, è solo debolmente determinato e vincolato dal patrimonio istintivo genetico.

[15] Durkheim, nel suo noto saggio sul Suicidio, ha introdotto la nozione di anomia, che non cessa di essere discussa e utilizzata, seppure con modifiche e aggiornamenti.

Limature

di Nicola Parodi, 13 aprile 2022

La limatura è nel caso specifico il residuo delle conversazioni tenute al tavolino del bar con Paolo Repetto. La polvere di ferro sembra materiale di scarto, ma in realtà è utilizzata per curare le piante, modificare il colore dei fiori, fare esperimenti scientifici sui campi magnetici. Non avendo speranza di cambiare alcunché, né necessità di curare qualcuno o di fare esperimenti, noi la usiamo come zavorra per tenerci ancorati alla realtà.
In genere funziona.

Sputi

Mentre guido verso Grognardo, dove andrò a dare un’occhiata e un po’ d’acqua alle piantine di carciofo che ho trapiantato due settimane fa, ascolto su radio 3 Uomini e profeti. Ad un certo punto il conduttore (il “filosofo” Felice Cimatti), che sta interloquendo con l’antropologo Marcello Massenzio a proposito della riedizione del libro di Ernesto De Martino Il mondo magico, cita il fatto che i contadini prima di mettersi a zappare si sputavano sulle mani. “Si capisce che quello è uno scongiuro: stai per fare una specie violenza alla natura e quindi esorcizzi quella violenza. In quel senso quell’uomo non è solo, c’è una cultura che lo autorizza a compiere quel gesto.” L’antropologo plaude e ringrazia per l’assist.  Quel contadino non è solo – dice – perché porta con sé tutta una tradizione culturale che gli consente di riformulare all’interno di un linguaggio socialmente condiviso il proprio smarrimento di fronte all’immensità del mondo.

Li avessi a tiro li prenderei a zappate. Sicuramente non hanno mai visto le mani di uno che ha passato la vita a zappare. Purtroppo non  ho un linguaggio condiviso che mi consenta di riformulare altrimenti il mio smarrimento e la mia indignazione di fronte alle stronzate. Le piantine comunque hanno preso bene, adesso devo rincalzare un po’ la terra. Non mi sputo sulle mani, ho un vecchio paio di guanti da lavoro. La natura, spero, mi perdonerà.

Limature 02

Suicidi

“Se un attacco nel cuore dell’Europa ci ha colto impreparati, è perché eravamo impegnati nella nostra autodistruzione. Il disarmo strategico dell’Occidente era stato preceduto per anni da un disarmo culturale. L’ideologia dominante, quella che le élite diffondono nelle università, nei media, nella cultura di massa e nello spettacolo, ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci. Secondo questa dittatura ideologica non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, abbiamo solo crimini da espiare. Questo è il suicidio occidentale.”

È il biglietto da visita dell’ultimo libro di Federico Rampini, Suicidio occidentale, non so se dettato dall’autore o redazionale, ma che riassume perfettamente l’assunto del libro. Sul quale posso essere in linea di massima anche d’accordo, ma che mi è suonato subito come un qualcosa di già sentito. In effetti, chi abbia seguito negli ultimi venticinque anni, prima sulla rivista cartacea e poi sul sito, il percorso dei Viandanti, queste cose le ha già sentite da quel dì: non hanno fatto che ripeterle. Fa dunque piacere che anche Rampini ci sia arrivato, ma non posso non sottolineare che ci è arrivato con almeno un quarto di secolo di ritardo. E non posso nemmeno rallegrarmi del fatto che questa consapevolezza sarà finalmente trasmessa ad una utenza larghissima, perché avendo un po’ di pratica del personaggio e degli scenari in cui si muove so che il messaggio passerà soprattutto per gli schermi televisivi e i salotti dei talk, che sarà cioè banalizzato e assoggettato allo spettacolo e agli inserti pubblicitari. Arriverà talmente tardi e talmente annacquato da non essere più nemmeno politicamente scorretto.

Quando i messaggi indossano le bretelle, significa che hanno già perso la forza di reggersi da soli.

Limature 03

Vero o falso per me pari sono

La valanga  di notizie più o meno verosimili che ogni giorno riceviamo mi richiama alla mente un editoriale scritto nel dicembre del 2018 da Marco Cattaneo, direttore de Le Scienze. Presentando gli articoli contenuti nella rivista il Direttore commentava: “L’intelligenza artificiale sta mettendo alla portata di tutti strumenti in grado di manipolare file audio e video in modo che siano praticamente indistinguibili dagli originali”. E citava un video, palesemente manipolato, nel quale si vede Obama insultare Donald Trump, per mostrare come sia facile alterare la realtà utilizzando le nuove tecnologie dell’ intelligenza artificiale.

Il problema è talmente serio che l’agenzia della Difesa statunitense dedicata alle tecnologie ha sviluppato un programma apposito per individuare le firme digitali dei falsi. Ma anche qualora il programma funzionasse alla perfezione, se per verificare audio e video occorreranno tempi lunghi (e non parlo di mesi, ma di ore) ogni sforzo sarà vano, in quanto le fake news fanno il giro del mondo in tempo reale e una volta diffuse reggono a qualsiasi smentita.

Ora, al di là del fatto che lo scandalo nel falso video di Obama sarebbe semmai che qualcuno perda tempo a inveire contro Donald Trump, il nocciolo è che se diffondere falsi sempre meno verificabili è diventato un gioco da ragazzi la credibilità dell’informazione va a farsi definitivamente benedire.

Beninteso, non è un problema di oggi. Tutta la letteratura mitologica, religiosa e storica del passato è una narrazione dei fatti come minimo “addomesticata” e gestita dai vincenti o dai dominanti, e in questo senso poco o nulla è cambiato. Il cambiamento riguarda invece la quantità e la velocità delle informazioni che oggi riceviamo. Sono queste nuove caratteristiche a mettere paradossalmente in discussione ogni nostra reale possibilità di conoscenza di ciò che accade. E a fare sì che la veridicità di ciò che apprendiamo sia tutto sommato l’ultimo dei problemi.

Mi spiego. Anche dopo l’invenzione della stampa e la nascita dei giornali l’informazione è rimasta appannaggio di una percentuale bassissima della popolazione. Le poche notizie che circolavano erano create in genere dalle stesse fonti, e su tutto si esercitava il controllo e la censura dai poteri politici ed economici. Le nuove tecnologie dell’informazione però covavano una serpe in seno: potevano essere usate anche, sia pure in mezzo a mille difficoltà, dal pensiero dissidente, dalle opposizioni, per cui chi davvero lo volesse poteva farsi un’idea approssimativa di come stavano le cose confrontando le diverse versioni. Il numero delle informazioni essenziali era contenuto e c’erano tempi sufficienti per lasciar decantare le notizie e verificarne bene o male l’attendibilità. Si conosceva poco, ma quel poco, vero o falso che fosse, si riusciva a inserirlo in un quadro passabilmente coerente, sul quale poi ci si regolava per i comportamenti politici e sociali.

Questo è valso sino alla rivoluzione telematica. Poi è cambiato tutto, e oggi siamo davanti all’assurdo che il fatto che una informazione sia vera o falsa è quasi irrilevante, perché essa va comunque a perdersi in un oceano nel quale non siamo più in grado di stare a galla o di scorgere un qualsiasi approdo cui volgerci.

L’effetto è devastante, e cominciamo ad averne coscienza davanti ad eventi come la pandemia o la guerra in corso nell’est europeo. Siamo sommersi, travolti dalle notizie, ma ne siamo sempre meno toccati. Centocinquanta morti quotidiani per Covid o mille per scontri e rastrellamenti sono entrati nelle nostre abitudini come il caffè, davanti agli “speciali” televisivi o ai reportage dal fronte degli inviati speciali (ma quanti sono?) o ai messaggi di papa Francesco cambiamo velocemente canale, leggiamo i giornali partendo dalla decima pagina o dalla cronaca locale.

Mai gli uomini hanno avuto accesso ad una tale quantità di informazioni, mai gliene è fregato di meno.

Limature 04

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Attenzione
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Attenzione!

Tom Barnaby, antropologo

di Paolo Repetto, 23 luglio 2019

Una delle mie dipendenze televisive riguarda “L’ispettore Barnaby”. Dura da un pezzo, perché la serie ha ormai superato i vent’anni (ha esordito nel 1997, in Italia è arrivata solo nel 2003), anche se per me ha in realtà concluso il suo ciclo dopo la tredicesima stagione, quando John Nettles ha deciso di uscire dai panni del poliziotto per dedicarsi ad altro. Da allora è stata tenuta in vita artificialmente, con un nuovo improbabile protagonista e storie che nulla conservano del vecchio appeal. Dell’originale sono rimaste solo la musichetta della sigla, che ormai però tutti associano alla figura di Nettles, e l’ambientazione, anch’essa alla lunga un po’ abusata. Forse per questo motivo, soprattutto da quando la serie è approdata ad una rete tematica dedicata, gli ottantuno episodi interpretati dal Barnaby autentico vengono propinati in dosi da cavallo: ne passano almeno tre ogni giorno, e alcuni sono già stati riproposti almeno una decina di volte (ho persino il sospetto che dietro questo sfruttamento intensivo ci sia un calcolo biecamente anagrafico: i fans più affezionati di Barnaby sono gli ultrasettantenni, una platea destinata a sfoltirsi molto presto).

Una simile inflazione avrebbe dovuto produrre alla lunga logorio e rifiuto: ma a quanto pare nel caso di Barnaby questo non accade, o almeno non è ancora accaduto. Non stento a crederlo, perché io stesso, ogni volta che stanchezza o noia mi inducono ad arrendermi al telecomando, se non è tempo di Giro o di Tour e non trasmettono un western classico mi rifugio nella contea di Midsomer. E credo che la stessa cosa accada a molti: immagino si tratti di un retaggio infantile, perché in fondo tutti rimaniamo sempre un po’ bambini, e vorremmo raccontata sempre la stessa fiaba, possibilmente senza variazioni nei particolari. Ma sono anche convinto che dietro questa affezione ci sia di più, e che il di più attenga allo specifico dell’oggetto.

Cominciamo dalla fattura. Dobbiamo ammetterlo, per essere un prodotto a basso costo “L’ispettore Barnaby” è realizzato con un sapiente dosaggio di tutti gli ingredienti. Si avvale intanto di un’ottima sceneggiatura, che applica in maniera elementare ma efficace i principi della scuola giallistica inglese, da Agatha Christie a Hitchcock. I tempi dell’azione sono perfetti, non ossessivi, come accade invece nei telefilm americani, né troppo lenti, come negli sceneggiati italiani. Sono bandite le sgommate, le sparatorie e le scazzottate, e sui momenti crudi, quelli in cui il crimine è commesso, si applica una manzoniana reticenza: vi si allude, o li si racconta a posteriori, in questo caso attraverso flash monocromatici, che in qualche modo li enucleano dal normale svolgimento della vicenda. Il linguaggio è correttissimo, non una imprecazione o una volgarità superflua, e persino le veniali intemperanze degli assistenti Scott e Jones vengono immediatamente rimbeccate dal superiore. Nei dialoghi non si verifica l’effetto Qui, Quo, Qua, con la battuta spezzata in quattro frammenti recitati da quattro interpreti diversi (in omaggio alla par condicio?) che rende stucchevoli i vari CSI, e il registro è costantemente ironico, ma né i protagonisti né i comprimari sono mai ridotti a macchiette (si pensi invece alla pesantezza di certi caratteristi di spalla degli sceneggiati su Montalbano o degli altri polizieschi italiani).

La vita privata dell’ispettore entra nelle storie con discrezione: d’altro canto Tom Barnaby non ha scheletri nell’armadio, ossessioni, turbamenti da abusi infantili. È un uomo solare, di natura tranquilla, un marito routinario e un padre amoroso ma non eccessivamente sollecito, sparagnino il giusto (esibisce le sue modeste abilità di bricoleur solo quando consentono un qualche risparmio) e impegnato costantemente a dribblare i progetti di trasloco della moglie e di nuove attività della figlia. Come investigatore è dotato di una buona sensibilità “a pelle”, che gli consente di fiutare gli interlocutori falsi e omertosi, e di normalissimo buon senso. Non è maniacalmente ligio alle procedure e aborre i protocolli d’indagine che l’amministrazione vorrebbe imporgli, ma oppone una resistenza passiva, nel senso che tranquillamente li ignora, senza piantar grane o fare obiezioni. Soprattutto non utilizza le nuove tecnologie (quando lo fa pigia sulla tastiera con due sole dita, come me – per l’indispensabile si affida ai collaboratori), mentre non di rado va a cercare lumi nella lettura. E non usa le armi: in ottantun episodi se ben ricordo ha sparato una sola volta. Persino il suo sarcasmo e le piccole compiaciute vessazioni che infligge agli assistenti tradiscono una ironica benevolenza.

Questo personaggio ha trovato in Nettles l’interprete perfetto. Anzi, sono quasi certo che sia stato lo stesso Nettles a costruirlo così: perché un tale carattere gli consente di recitare con gli occhi, che sa illuminare o incupire tramite leggere e significative sfumature, e con una mimica facciale molto contenuta, ma proprio per questo straordinariamente espressiva anche nei minimi mutamenti. Noi seguiamo in fondo tutte le vicende attraverso i suoi occhi, e siamo guidati alla loro interpretazione dal suo volto. Il tentativo di tenere in vita la serie con un sostituto era inevitabilmente destinato a fallire: noi veri credenti, barnabiti irriducibili, ci eravamo abituati ormai al suo volto narrante.

Per questo non è stato sufficiente lasciare invariata l’ambientazione, che pure ha avuto un ruolo fondamentale nel successo della serie. La sonnolenta contea di Midsomer è davvero un luogo da fiaba: verde, boschi, colline dolci, ruscelli limpidi, stradine semideserte di campagna, villaggi minuscoli di casette semplici e graziose, ognuna diversa dall’altra ma costituenti un insieme armonioso, con le pareti coperte di rampicanti e le tradizionali coperture in paglia o in scandole d’ardesia, la privacy difesa dai perimetri fioriti dei giardini; e poi pub caratteristici, e splendide anche se cadenti dimore nobiliari, i castelli e i manieri della gentry, della piccola aristocrazia di campagna, o antichi ed austeri edifici che ospitano i college “esclusivi” della provincia profonda. Il tutto, per quel che capisco di queste cose, valorizzato da una fotografia calda, dai colori pieni, tanto nelle scene diurne come nei notturni. A Midsomer piove raramente, quasi mai si vede la neve e non si conoscono né l’afa né il gelo: una eterna, mite primavera.

Come spot promozionale il serial si è rivelato senz’altro efficacissimo, tanto più perché non mirato ad una specifica area o località, ma giocato su un luogo ideale che riassume tutta la faccia in ombra del paese. Esiste ormai un consolidato flusso turistico di gente che percorre il Devon e il Surrey in cerca della cittadina di Caustom e alla riscoperta della vecchia Inghilterra, quella che dovrebbe conservare intatti lo spirito testardo e laborioso e le tradizioni autentiche di un grande popolo.

Bene, tutto ciò spiega già in parte l’affezione, e anche il fatto che i vecchi episodi reggano ad una visione ripetuta: agiscono appunto come le fiabe per bambini, vicende sospese in un mondo immaginario ma rese credibili dalla cura realistica dei dettagli e dalla coerenza di fondo dell’impianto. Dopo averne visti un paio sai già perfettamente cosa attenderti da Barnaby e dai suoi collaboratori, sai anche che gli omicidi saranno tassativamente tre, e sei gratificato dalla risposta puntuale alle tue aspettative, senza per questo che le vicende e l’intrigo risultino scontati. Ma quando li rivedi ti rendi conto che le vicende non le ricordi affatto, che non erano state quelle il motivo del tuo interesse, perché in realtà ogni volta ti eri perso dietro gli stupori del paesaggio, le caratterizzazioni dei personaggi e, soprattutto, le sconcertanti stranezze di un microcosmo di provincia.

C’è infatti ancora dell’altro, ed è questo che mi interessa. Il serial, prima ancora che alla promozione turistica, è mirato a trasmettere ad un messaggio politico. Un messaggio subliminale, che non ha bisogno di essere esplicitato, filtra attraverso le immagini ma anche attraverso le vicende e i loro protagonisti.

I telefilm di Barnaby non hanno la pretesa di documentare una realtà sociale, e meno che mai di denunciarne il degrado, ma propongono in compenso un campionario interessantissimo di materiale antropologico. Un repertorio sterminato di costumi, di manie, di riti sociali, di istituzioni non ufficiali ma investite di autorità dalla tradizione locale: tutto ciò insomma che dovrebbe caratterizzare nel profondo l’Old England. Provo a farne un elenco a memoria, che sarà chiaramente molto difettoso, perché in effetti ogni singolo episodio ruota attorno ad un mondo particolare, a riti e a tradizioni diversi. Si va dagli appassionati di birdwatching ai coltivatori di orchidee, dalle gare dei cori a quelle dei campanari, dai club letterari alle bande musicali con majorettes, dagli ufologi alle sette sataniche o naturistiche, dai tassidermisti dilettanti ai micologi, fino ai collezionisti di monete, di punte di frecce preistoriche, di libri antichi e d’arte; e poi via via, i club sportivi, di canottaggio, di tiro con l’arco, di cricket, di pugilato, di equitazione, i passeggiatori a piedi o in bicicletta, gli amanti del mistero e dei fantasmi, delle visite ai cimiteri o alle case stregate, fino alle associazioni di ex-combattenti e ai patiti dei giochi di guerra. A fare incontrare tutta questa gente sono soprattutto le feste paesane, tutte uguali, con le gare di lancio del ferro di cavallo o di tiro con l’arco, la musica della banda sullo sfondo e Barnaby che si aggira fingendosi moderatamente divertito (è stato trascinato lì dalla moglie o dalla figlia) tra i quattro banchetti per l’assaggio delle torte e del sidro: fino a quando il primo omicidio non gli consente di rimettersi in azione. Ai nostri occhi di inveterati sagraioli queste feste di paese inglesi possono sembrare noiose e povere, soprattutto per l’assenza di caciara: in realtà sono molto più sentite e genuine di quelle nostrane, hanno alle spalle una reale tradizione, alla quale rimangono il più possibile fedeli, e soprattutto mirano a far incontrare i paesani, non a richiamare e a spolpare i turisti (questo l’ho constatato personalmente).

I telefilm di Barnaby mostrano in definitiva un’Inghilterra rurale che forse non c’è più (ma nemmeno è del tutto scomparsa), volutamente miniaturizzata in tante oleografiche cartoline, e capace di suscitare un velo di nostalgia. Intendiamoci: è l’Inghilterra che ha votato la Brexit: anzi, è l’immagine che quella Inghilterra ha di se stessa, o aveva sin quasi alla fine del secolo scorso. E che, questo è il punto, vorrebbe conservare. Ma qui scatta un primo paradosso. In effetti la serie quella immagine gliela rimanda, ma nel suo contesto Barnaby ha il ruolo di chi alza la pietra: sotto, appena rovista un po’ più in profondità, vien fuori di tutto: antichi rancori, faide secolari, vendette, invidie, livori, meschinità, cupidigie, drammi familiari, tradimenti, perversioni, superstizioni e manie religiose, insomma, una catena di piccoli viperai. In uno dei primi episodi l’ispettore commenta: “Questo paese sembra il paradiso terrestre: ma non lo è.” Una considerazione che potrebbe essere posta in esergo ad ogni puntata.

Questo aspetto del messaggio certamente piacerà poco a Farage e alle destre fascistoidi: ma in realtà è perfettamente funzionale a raccontare il gioco complesso e delicato di equilibri sui quali si regge la vita di contea, quelli che l’ispettore è chiamato appunto a difendere e a ripristinare, e a suggerire perché non dovrebbero essere sconvolti. Un manifesto conservatore sottile e accattivante, che mescola abilmente mezze verità e ambigue suggestioni: tanto da non farti neppure vergognare di condividerlo.

Quella di piazzare vicende violente in un ambiente tanto dolce e pacifico è dunque una scelta straniante perfettamente calcolata. Infatti, altro paradosso, ci accorgiamo che le azioni delittuose ripetute non scalfiscono affatto ai nostri occhi il quadro: intanto perché un simile volume di attività criminose è talmente inverosimile da farci abdicare subito da ogni pretesa di realismo: poi perché queste sono raccontate con mano leggera, e servono solo ad insaporire un po’ il vero argomento, che è appunto l’Inghilterra “profonda”, aggiungendo qualche sfumatura di colore e scuotendone con un brivido il clima mite e sonnolento. Ancora, perché il quadro risponde in fondo ad una nostra spesso inconfessata, a volte addirittura inconscia, estetica della conservazione. E infine perché il gioco si risolve, alla fin fine, nel ristabilimento di un equilibrio.

La verità è che il mondo in cui si muove Barnaby è quanto di meno “politicamente corretto” si possa immaginare. In nessuno degli ottantuno episodi originali compare un personaggio di colore (per questo motivo il produttore è anche stato messo sotto accusa), ma più in generale non ci sono stranieri, e persino gli inglesi provenienti da fuori sono dipinti e percepiti come elementi di disturbo. Alle donne non viene negata la parità, almeno per quanto riguarda le capacità di ideare e commettere dei crimini. Per il resto si dividono in tre tipologie: le mansuete, che recitano senza tante ubbie la loro parte di casalinghe, come la moglie dell’ispettore, o svolgono attività tradizionalmente riservate al genere femminile, insegnanti, bibliotecarie, governati, impiegate, con qualche timida apertura (poliziotte, ma rigorosamente da ufficio): le rompipalle, impegnate nelle campagne di difesa ambientale (boschi, sentieri, edifici antichi, specie in pericolo di estinzione), nelle rivendicazioni dei diritti più peregrini o nella promozione di iniziative umanitarie: e infine le femmes fatales, arrampicatrici sociali, cacciatrici di eredità o stravaganti sessualmente emancipate. Queste ultime non sono mai bellissime, anzi, in genere sono piuttosto ordinarie, ma proprio la loro normalità rende più piccanti e verosimili le storie.

C’è posto naturalmente anche per i “diversi”, percepiti però sempre sotto una luce ambigua, come realmente accadeva (e ancora accade) nelle piccole comunità provinciali. Anche gli ironici richiami che l’ispettore rivolge ogni tanto al sergente Jones, che non si trattiene dal manifestare una ingenua omofobia, paiono ispirati più da un’attitudine professionalmente tollerante che una comprensione convinta.

Tutto questo è evidente. Ma, ripeto, non ci disturba affatto, non allerta i nostri sensori “progressisti”. Diamo per scontato che la contea di Midsomer sia un microcosmo chiuso, all’interno del quale valgono leggi, consuetudini e criteri di valore diversi da quelli che hanno corso altrove. Un po’ come succede per il mondo dei cartoni animati. Solo che in questo caso si tratta di un mondo assolutamente verosimile, se si prescinde dalla frequenza dei delitti. Ma anche i delitti hanno una loro funzione, quella di portare alla luce le conflittualità diffuse per poi comporle alla maniera di un tempo. Esiste il conflitto di classe, ma si riassume e si risolve in contrapposizioni individuali, tra gentiluomini di campagna ridotti sul lastrico ma pateticamente ostinati a mantenere il decoro e arrivisti locali o di importazione che vogliono subentrare nelle proprietà e nelle dimore, pronti a snaturarne sia l’aspetto e che l’uso. Si accenna appena ai conflitti di genere, trattati per lo più come scontate liti familiari, nelle quali di solito le donne hanno la meglio, ma in ragione della loro astuzia, e non di una coscienza emancipatrice. E sono presenti anche quelli generazionali, con figli che uccidono i padri (in un solo caso avviene il contrario, e per motivi pienamente condivisibili) o cercano di sottrarsi, di norma senza troppa fortuna e con poca convinzione, a un futuro già disegnato per loro.

Credo vada infine sottolineata, tra le assenze significative a Midsomer, oltre a quelle già indicate, quella degli avvocati. Quando vengono smascherati ed arrestati gli assassini vuotano il sacco e raccontano a Barnaby i dettagli che mancavano per completare il quadro. Non si appellano ad alcun emendamento, non chiedono l’assistenza di un legale. Per quel che riguarda l’ispettore la faccenda finisce lì: forse i colpevoli verranno processati in un’altra contea, perché di tribunali non si è mai vista l’ombra (in realtà, ora ricordo, c’è stata un’eccezione). Magari verranno concesse delle attenuanti, l’infermità mentale o cose del genere, ma tutto questo, che nei telefilm americani costituisce un passaggio fondamentale, qui è bandito. Oserei dire che a Midsomer si prescinde dal diritto positivo, o almeno da quella concezione del diritto che finisce per farne oggetto di mercanteggiamento. Vige invece il diritto consuetudinario, e con quello non si patteggia. La meccanica è elementare: individuata con certezza la colpa, si dà per scontata la giusta espiazione. Ma l’unico giudizio che Barnaby esprime è quello morale, (anche se ufficialmente rappresenta proprio il trait d’union con il diritto positivo), quando individua e inchioda il colpevole. E anche per noi non è necessario altro.

Insomma, ne usciamo convinti anche noi che Midsomer non è un paradiso terrestre, tutt’altro, ma che ogni irruzione del nuovo non farebbe che peggiorarlo. Barnaby esprime un conservatorismo consapevole, niente affatto integralista, anzi, un po’ dolente: ritiene che un equilibrio anche poco equo sia sempre meglio di nessun equilibrio. Da buon antropologo non solo ne prende atto, ma si adopera per mantenerlo in vita, correggendone le derive criminali più clamorose, possibilmente senza interferire troppo. La sua posizione è perfettamente in linea con quella assunta da tutti gli antropologi classici, da Ewans-Pritchard a Levi-Strauss, che ci hanno raccontato le società tribali, e che è in fondo quella sostenuta ancora oggi da tutti i critici della civiltà occidentale.

La domanda è: se tutto questo vale per i Tupi-Guarani e per gli Azande, perché non dovrebbe valere anche per Midsomer?

 

APPENDICE

Doc Martin e l’isola dei volti blu

di Vittorio Righini, 2 agosto 2019

ho letto Barnaby, con piacere. Ricordo che l’ho visto, per intero, una volta sola, per il resto quando iniziava una puntata cambiavo canale. Il motivo è presto detto: io sono stato traumatizzato da Doc Martin, e ogni volta che comincia un telefilm (una volta li chiamavamo così) ambientato in Inghilterra, con facce, panorami e colori di ripresa totalmente inglesi, vado in paranoia.

Mi auguro tu non abbia mai visto la serie di Doc Martin, e se lo hai fatto male te ne incorrerà! Se non l’hai fatto, ti spiego di cosa si tratta: Doc Martin è un medico chirurgo inglese, che siccome soffre alla vista del sangue, con scene di panico, vomito, fughe e altro, si è trasferito in un tranquillo villaggio di mare della Cornovaglia del nord. Lui è alto, bruttissimo, con due orecchie alla Dumbo, ed è la persona più antipatica che uno possa temere di avere soprattutto come medico, ma ha indubbie capacità nel suo lavoro. Il villaggio, invece di essere bello e attraente, non lo è affatto. Gli abitanti del villaggio hanno una media neuronica, cadauno, inferiore a due. Rarissime eccezioni. L’unico poliziotto è cerebro-leso. Il piccolo basso ciccione che gestisce l’unico ristorante (dopo aver fatto malamente l’idraulico per tutta la vita), è il paziente ideale per un buon vecchio manicomio, e cucina schifezze incommensurabili. La segretaria di Doc Martin sembra scesa dal pianeta delle scimmie, mentre la farmacista sembra uscita da un romanzo dell’orrore. I bambini sono tutti cattivi, rognosi, malaticci e pieni di paturnie.

Quindi, ti chiederai: ma perché lo guardi? Non lo so, l’ho seguito per una decina di puntate, poi, come con la grappa, mi sono detto basta: il primo mi rende demente, la seconda mi dà troppa acidità di stomaco. Ma la mia rinuncia (a Doc Martin, non alla grappa), si è concretizzata solo pochi mesi addietro, quindi non sono ancora del tutto disintossicato. Capisco perché mentre noi (con tutto il mare di difetti che abbiamo) costruivamo il Colosseo, loro si tingevano la faccia di blu. Ho anche pensato con ammirazione a Mario Appelius … e per tirarmi fuori dalle sabbie mobili prendevo in mano Sir Patrick, Robert Byron, Dalrimple, Hopkirk, Gerald Russell, i fratelli Durrell e così via, e ristabilivo i contatti con una nazione (pardon, un Regno), che, circa una volta l’anno, mi vede curioso viaggiatore al suo interno. Mi dirai: non sono mica tutti ebeti come quelli del villaggio di Doc Martin! Certo, ma una gran parte del pubblico inglese è quello che vuole vedere, i suoi simili, temo. In Fantozzi lo sfigato è lui, mica il mega direttore galattico Balambam, e nemmeno la Sig.na Silvani o il Geom. Calboni sono idioti. Noi godiamo dei casini di uno sfigato, non del villaggio intero di smidollati. E questa differenza mi fa pensare, giuro. Tu, con la tua cultura enciclopedica, potresti meglio spiegare l’arcano.

L’uomo non mangiato dallo squalo *

 * Questa va spiegata. Vittorio mi scriveva il 31 luglio: “Me ne è capitata una curiosa: sono andato in scooter a trovare un amico che gestisce il Lido di Vesima, stabilimento balneare tra Voltri e Arenzano. Mi sono buttato nell’acqua, caldissima, e subito alta, e mi sono messo a mollo con la faccia rivolta verso terra. A un certo punto ho sentito gridare: attenzione! attenzione! e si rivolgevano a me. Mi son detto: cazzo, le meduse, le patisco da morire, provo a non muovermi … invece qualcosa mi ha sfiorato i fianchi, e a un palmo dal naso è comparsa una pinna alta anche lei un palmo, appartenente a uno squaletto di 1,20/1,50 metri circa. Mi ha girato intorno e se ne è andato, immergendosi davanti ai miei – stupefatti – amici. Non ero di suo gusto … o, meglio, era sicuramente una verdesca, che non attacca, anzi ha carne ottima. Però fare il bagno a Voltri con lo squalo, se pensi che c’è gente che va fino alla Barriera Corallina per vederne uno in acqua … io ho speso molto meno.

2 agosto

E vai … . È la miglior recensione televisiva che abbia letto dai tempi di Sergio Saviane (lo ricordi? Scriveva sull’Espresso, ha dato il meglio di sé nel prendere per il sedere i telefilm di regime, quelli sui carabinieri, sulla finanza, sui forestali, sui cantonieri provinciali che erano d’obbligo in palinsesto negli anni ottanta-novanta, ed esordiva con cose come “c’è un bagonghi che gira per l’Italia”). Hai detto in una pagina più di quanto io sia riuscito a fare io in otto. Adesso devi però consentirmi di farla diventare parte integrante del pezzo e di pubblicarla sul sito.

Sono stato affetto anch’io dalla sindrome meridiana di Doc Martin. Era tassativo non perderne una puntata, e ancora oggi non mi capacito del perché. È rimasto uno dei grandi interrogativi della mia vita – ti lascio immaginare gli altri , perché francamente era difficile identificarsi nel personaggio, o sognare di vivere a Portwenn (anche se adoro la Cornovaglia). Non so, forse sotto sotto il messaggio che si recepiva è che c’è speranza per tutti, anche per i meno adatti: e la cosa funzionava perché il protagonista era immerso in un mondo dove tutti o quasi erano dei disadattati. Mia figlia, che in Inghilterra abita ormai da quindici anni ed è anche cittadina inglese, assicura che la realtà è Portwenn, non Midsomer, e che in Doc Martin se ne vede solo il lato buono. Ma non è attendibile, perché è una donna in carriera e i suoi competitor sono tutti inglesi. In effetti, però, se ripenso alle amene disavventure che mi sono occorse nell’ultimo viaggio inglese, un paio di anni fa, nel distretto dei laghi (ubriachi che si manifestano in camera, completamente nudi, alle tre di notte – colpa mia, perché ho il maledetto vizio di non chiudere mai la porta, nemmeno quando sono in giro, ma insomma …), battellieri non perfettamente sobri che litigano via radio coi colleghi o con la moglie e invertono la rotta di colpo, ecc …), devo ammettere che un po’ di ragione ce l’ha. Ma la cosa strana è che queste cose, che in Italia e sul continente mi farebbero incazzare a morte, lì mi paiono note di colore. Potenza della letteratura. Hanno saputo vendersi molto bene, da Shakespeare in poi, e ci hanno indotto una soggezione culturale. L’esatto contrario di quanto accade con gli americani. E ti dirò di più: è una sudditanza che mi piace, come in fondo mi piaceva Doc Martin. Varrà la pena tornarci un po’ su. Al più presto. Paolo

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Attenzione!

Un’estate da cinque lune

di Paolo Repetto, 9 ottobre 2018

Un'estate da cinque luneSi, un’estate davvero particolare. A maggio il mare era già un brodino e neppure ora (siamo ai primi di ottobre) il bel tempo pare intenzionato ad arrendersi. Una sorta di “alto continuo” che rischia persino di venire un po’ a noia. La cosa non dovrebbe stupire – semmai deve allarmare – perché l’anomalia di stagioni calde precoci e prolungate sta diventando una regola, e c’entrano senz’altro il surriscaldamento del pianeta e la sciagurata presunzione degli umani: ma anche perché in realtà il fenomeno non è del tutto nuovo. Accadeva la stessa cosa mezzo secolo fa, negli anni sessanta. O forse allora si trattava solo di una mia percezione, dettata dal fatto che le scuole iniziavano a ottobre e dall’intensità con la quale vivevo ogni singolo giorno. L’effetto comunque era identico: mi aggrappavo ad ogni nuova mattinata di sole come fosse l’ultima.

A dilatare ulteriormente questa stagione eccessiva è ancora una volta il mio status anagrafico. Non più la condizione adolescenziale, purtroppo, bensì quella di pensionato. So di scoprire l’acqua calda, ma fino a quando non ci sei dentro certe cose le puoi solo immaginare, senza capirle davvero: l’assenza di un confine preciso tra il tempo istituzionalmente consacrato al lavoro e quello “libero”, la condizione di feria perpetua, scombina i ritmi sia biologici che psicologici, per quanto uno resista alle sirene del burraco e si crei gli impegni più disparati. Con la pensione si entra in una sorta di limbo, senza la speranza in un’amnistia o in un condono. Tutto ciò che fai lo fai guardando indietro, anziché avanti.

Forse per questo mi è parsa un’estate strana. Intanto mi ha riportato indietro non solo nei ricordi ma anche nel recupero di sensazioni. Ho ritrovato ad esempio la totale confidenza con l’acqua, in particolare con quella del fiume, vincendo i timori (e gli avvertimenti espliciti) di complicazioni reumatiche che da qualche anno mi stavano frenando. Non siamo ai livelli di quando rimanevo in ammollo tre o quattro ore al giorno, o inseguivo i record del primo e dell’ultimo bagno stagionale, ma per tre mesi ho nuotato quasi quotidianamente, di buon mattino, spesso in perfetta solitudine, nel lago superiore della Lavagnina. E da domani si replica, al mare.

Sono anche tornato a lavori manuali di un certo impegno senza pagare dazi allo sciatico. Ho finalmente imparato a tenere ritmi bassi ma continui, a muovermi come gli astronauti sulla luna, col risultato che i lavori arrivano comunque in porto, sia pure in tempi doppi. Per gli altri sarà una notizia di nessun rilievo, come del resto tutto ciò di cui ho parlato sinora, ma c’è il fatto che imbarcarsi in attività di manutenzione o addirittura di nuova edificazione sembra smentire quanto ho detto sopra, supporre uno sguardo in avanti: mentre in realtà lo sguardo mira talmente avanti da andare persino “oltre”, da non riguardare cioè il mio futuro. Idealmente ho lavorato per i posteri (senza chiedermi però che ne faranno di muretti, pergolati e tettoie o degli alberi da frutta che ho messo a dimora), in verità l’ho fatto per sentirmi in qualche modo ancora agganciato al mio passato.

Rimane la soddisfazione di non aver perso una sola ora. Che non è l’atteggiamento più indicato in vista del prossimo inverno e del domani in genere, ma al momento è confortante. Diverso è invece il bilancio della scrittura. Cresce la sindrome da saturazione e da insignificanza, e mentre sulle prime la cosa un po’ mi preoccupava, ora sto iniziando a trovarla normale. Come giustamente dice un amico: “Se non scrivi è perché non hai niente da scrivere”. In effetti è così, o forse mi sono soltanto stufato di parlare di me stesso a me stesso (ma non so concepire diversamente questa attività). Cambia poco: il risultato è che dagli inizi di giugno non ho buttato giù una riga. La cronaca ufficiale non mi ha aiutato (è dominata da Di Maio e Salvini), quella personale l’ho già esaurita, perché – fortunatamente – non ho eventi da raccontare. Quale che sia la loro lunghezza, le stagioni alla Stand by me, quelle dell’avventura, reale o fantasticata, delle scoperte e degli incontri che danno un’altra direzione alla tua vita, quelle non tornano.

Ora, pochi mesi di stipsi improduttiva non costituiscono poi un gran problema, anche se per i ritmi cui ero abituato e per il valore terapeutico che attribuivo alla scrittura a me paiono già un’eternità. E sarebbero comunque anche questi un po’ fatti miei, non fosse che di nuovo, proprio con lo scrivere queste pagine, mi sto contraddicendo.

La verità è che del tutto improduttivi questi mesi non sono stati. Nel tempo liberato dalla non scrittura ho ripreso a leggere con continuità e ho trovato cose che possono forse risultare interessanti anche per altri. Per questo scendo dall’Aventino: se non ho nulla di significativo da dire c’è almeno qualcosa che vorrei ricordare, e di cui sarà bene lasciare una traccia scritta, prima di perderlo. La diaspora neuronale galoppa.

Quello che segue sarà pertanto un resoconto delle letture estive, delle scoperte e delle conferme che mi hanno regalato: un personalissimo memorandum, affidato anche al sito nella remota e un po’ balzana ipotesi di lettori che non abbiano di meglio da fare (di qualcosa bisogna pur nutrirlo questo benedetto sito, se vogliamo tenerlo in vita). Lo considero un ennesimo aggiornamento di Elisa nella stanza delle meraviglie: ormai ne conta più della Treccani.

Purtroppo devo ricostruire a memoria, perché ho smesso da tempo di tenere una qualsiasi forma di diario. È un peccato. Una volta avrei potuto citare date e persino luoghi di acquisto di ogni singolo libro, nonché l’ordine giornaliero delle letture. Per trenta e passa anni ho annotato, sera dopo sera, eventi, incontri, stranezze, qualche volta anche sensazioni ed emozioni, sia pure in maniera telegrafica: e la parte più interessante, a posteriori, rimane proprio quella relativa alle acquisizioni librarie e alle letture. Può sembrare una cosa stupida, un’inutile registrazione contabile, invece è importantissima. Quando scorro le agende di quarant’anni fa colgo proprio nella successione dei titoli un percorso, si illuminano le scelte, vanno al loro posto i tasselli del caotico mosaico della mia formazione. Senza parlare di quando le letture sono commentate, o collegate ad altre precedenti, oppure rinviano a libri o ad autori non ancora conosciuti (Urgente! Vedere subito!). La nostalgia o i rimpianti qui non c’entrano: per capire chi siamo – sempre che della cosa ci importi – è fondamentale avere chiaro da dove arriviamo (le letture) e come ci siamo arrivati (l’ordine delle letture). Mi sono anche proposto più volte di riprendere questa abitudine, non arrivando però poi mai oltre la metà di gennaio. Immagino voglia dire qualcosa. Non seguirò dunque l’ordine cronologico, che non sono in grado di ricostruire, ma procederò con un criterio, diciamo così, emozionale.

Accennavo sopra a scoperte e a conferme. Le scoperte riguardano alcuni saggisti italiani della generazione di mezzo (quella che comprende i nati tra la prima metà degli anni sessanta e quella degli anni ottanta), e sono un po’ tardive, dal momento che costoro sono sulla breccia da un pezzo. Non li conoscevo perché evidentemente non fanno opinione, meno che mai in tivù e comunque non nei salotti di prima serata (di questo però non garantisco: non seguo i talk e potrebbero quindi benissimo essermi sfuggiti): ma frequentano con parsimonia anche i supplementi culturali dei quotidiani, affidandosi piuttosto alle “riviste” on-line, e lì sono io a bazzicare poco, per una insuperabile idiosincrasia alla lettura in modalità digitale. Ammetto inoltre di essere stato a lungo fuorviato dal preconcetto che tutta la generazione cresciuta all’ombra di Vattimo e del “pensiero debole”, e oggi scaldata dal sole di Grillo, fosse perduta per ogni causa.

Per fortuna non è così. Lo dimostrano i casi di Claudio Giunta e Daniele Giglioli. Al primo sono arrivato per vie traverse, leggendo in primavera un suo reportage sull’Islanda (Tutta la solitudine che meritate). Non volevo anticipazioni su quel paese prima di averlo visitato, già viaggiavo con un bagaglio sin troppo pieno di suggestioni letterarie. Ma questo libro mi era stato suggerito da un amico di cui mi fido, e in effetti valeva la pena. Così al ritorno dal viaggio ho immediatamente cercato altre cose dell’autore, e ho trovato “L’assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso”, uscito nel 2008, “Una sterminata domenica”, del 2013 e infine, più recente, “E se non fosse la buona battaglia?”, edito lo scorso anno. Letture sufficienti a darmi un po’ di ristoro, in mezzo alla congerie di idiozie che, più ancora dell’afa, hanno reso pesante l’aria di questi mesi.

Il conforto non arriva certamente dagli scenari che dipingono, ma dalla constatazione che altri vedono le stesse cose che vedo io, col mio stesso stato d’animo. Giunta in effetti dice nulla di nuovo: almeno, nulla che già non conoscessi, o non pensassi, o di cui addirittura non avessi già scritto. Ma lo dice benissimo. Mette cioè in fila fenomeni, atteggiamenti, segnali che io ho continuato per anni a cogliere in ordine sparso, anche se sapevo fare capo a una matrice unica. Non vedevo nell’assieme quella che lui definisce una “rivoluzione culturale”, forse perché continuo ad attribuire inconsciamente un significato positivo, costruttivo, al termine rivoluzione. Ma anche perché sono portato a pensare che quando una deriva demenziale coinvolge molta gente – nel nostro caso la quasi maggioranza – non siano necessariamente da ipotizzare cause recondite e complesse: la si può tranquillamente spiegare con la stupidità, ovvero con l’esasperazione maligna e autodistruttiva di un naturale egoismo, che è un fattore troppo trascurato a dispetto della sua evidenza e diffusione e persistenza, o con quel tipo di ignoranza “rivendicata” che della stupidità è sia madre che figlia. In genere concorrono entrambe le cose. Il mio limite è che scorgo attorno il puro sfascio, un degrado inarrestabile che si autoalimenta e si diffonde con accelerazione crescente: e lo sfascio non si lascia raccontare in un discorso articolato.

Giunta non si accontenta di questa spiegazione “fenomenologica” (nel senso che basti guardarsi attorno per constatare quanto idiota può essere la famigerata “gente”). Ha uno sguardo “sociologico”, va in profondità e iscrive tutti gli indizi nel quadro storico e sociale della “condizione postmoderna”, qualunque cosa poi questa stia a significare.

Non è nemmeno il primo a farlo. Riprende in fondo un argomento già trattato, ad esempio, da Alessandro Baricco (ne I Barbari. Saggio sulla mutazione (2006). Ma Baricco lo affrontava in questi termini: ‟Dovendo riassumere, direi questo: tutti a sentire, nell’aria, un’incomprensibile apocalisse imminente; e, ovunque, questa voce che corre: stanno arrivando i barbari. Vedi menti raffinate scrutare l’arrivo dell’invasione con gli occhi fissi nell’orizzonte della televisione. Professori capaci, dalle loro cattedre, misurano nei silenzi dei loro allievi le rovine che si è lasciato dietro il passaggio di un’orda che, in effetti, nessuno però è riuscito a vedere. E intorno a quel che si scrive o si immagina aleggia lo sguardo smarrito di esegeti che, sgomenti, raccontano una terra saccheggiata da predatori senza cultura. I barbari, eccoli qua.

Ora: nel mio mondo scarseggia l’onestà intellettuale, ma non l’intelligenza. Non sono tutti ammattiti. Vedono qualcosa che c’è. Ma quel che c’è, io non riesco a guardarlo con quegli occhi lì. Qualcosa non mi torna.”

Ognuno di noi sta dove stanno tutti, nell’unico luogo che c’è, dentro la corrente della mutazione, dove ciò che ci è noto lo chiamiamo civiltà, e quel che ancora non ha nome, barbarie. A differenza di altri penso che sia un luogo magnifico.”

Beato lui. Che ha senz’altro delle buone ragioni per ritenerlo tale, visto che alle sue conferenze (ricordo una lettura con commento de “L’infinito” da far avere le convulsioni alle ossa di Leopardi) incontra folle adoranti, alle quali di capire o anche semplicemente ascoltare qualcosa di Leopardi non importa nulla, andrebbe benissimo anche l’esegesi del linguaggio di Jerry Calà, ma che delibano l’ambrosia culturale vaporizzata dall’incantatore e si portano via il suo ultimo libro, possibilmente autografato. Quanto all’onestà intellettuale, forse questa avrebbe richiesto all’autore una riflessione a posteriori sulla differente eco che i media hanno riservata alla sua posizione rispetto a quella di Giunta o di altri “apocalittici” sgomenti, non certo in virtù di un superiore livello dell’analisi. E un’altra dovrebbe dettargliene oggi, a dieci anni di distanza, sulla presenza o meno di “orde di predatori senza cultura”.

Tra l’altro, nemmeno Baricco è originale: riprende a sua volta quanto predicato da Michel Maffesoli ne “Il tempo delle tribù (2004)” e nelle “Note sulla postmodernità” del 2005, (che su un sito immodestamente titolato “La rivista culturale” erano recensiti così: “Un esempio felice e virtuoso nel documentare la nostra contemporaneità che lui chiama il tempo delle tribù, del lusso, di dionisio, del nomadismo, del comunitario, dell’immaginario e del ritorno del tragico e del “sacrale”. Non commento, perché di Maffesoli ho parlato già sin troppo altrove). E comunque, potrei proseguire il gioco andando a ritroso per almeno un altro mezzo secolo a caccia di precursori.

Ecco, queste interpretazioni sono per me già esempi perfetti di legittimazione di ciò che in pubblico definisco “uno sfascio etico e culturale” e in privato “il trionfo dei cretini”. Ne L’assedio del presente Giunta lo tratta invece come una “rivoluzione”, e ne vede tutte le possibili declinazioni e derive, partendo dal sovvertimento delle norme sociali, dalla crisi delle agenzie educative tradizionali e dalla frantumazione dell’autorità per arrivare all’eclissi del senso storico e alla perdita di validità dell’esempio, e leggendo tutto questo attraverso le trasformazioni del linguaggio televisivo, del ruolo della scuola e dell’università e dei concetti di cultura e di arte. Sugli esiti di questa “rivoluzione” culturale, o sulla deriva insensata delle politiche educative, non si scosta poi di molto da quel che penso io: ma interpreta giustamente i vari problemi secondo criteri di causa ed effetto, e ne coglie il concatenamento. Uno per tutti: l’ingresso della logica di mercato nell’Università e la banalizzazione della cultura indotta dal moltiplicarsi – ma anche già solo dall’esserci – degli “eventi” (il proliferare di festival della mente, della scienza, della lettura, della storia, della filosofia, le mostre “monstre” sui Grandi Artisti, sempre gli stessi, con Van Gogh e Caravaggio superstar, le passerelle “artistiche” sui laghi o i concerti in alta quota, e tutta la paccottiglia che viene spacciata col bollino culturale doc da una schiera superpagata di addetti ai lavori, reclutata per l’appunto negli atenei). Il libro risale a dieci anni fa, quando il fenomeno non aveva ancora raggiunto i livelli attuali di squallore, ma li lascia ampiamente presagire.

Con i pezzi raccolti in Una domenica sterminata Giunta fornisce poi le esemplificazioni concrete e puntuali di questo sfascio, o rivoluzione che dir si voglia. Sono istantanee che colgono situazioni apparentemente marginali, personaggi di secondo piano, furberie di bassa lega, da poveracci, e che proprio per questo radiografano perfettamente, molto più della produzione seriale di libelli sulle caste, sui grandi evasori e sui conflitti di interesse, la malafede e la tabe di fondo della società italiana. Perché ci ricordano che esiste una complicità diffusa, una partecipazione di massa al trionfo dell’illegalità e dell’imbecillità, che si trincera ipocritamente dietro l’indignazione per gli scandali clamorosi (Onestà! Onestà!). Il bello, ma anche il rischio connesso a questi pezzi, è che riescono addirittura amaramente divertenti, e lo sono per sé, per gli argomenti trattati, senza che Giunta faccia alcuno sforzo per ingraziarsi il lettore. Il paragone potrebbe essere col Diario minimo di Umberto Eco, con la differenza che là Eco metteva in campo la tecnica già postmoderna dello spiazzamento interpretativo, facendo ricorso all’ironia e anche ad una certa gigioneria (vedi L’elogio di Franti), mentre Giunta si limita a fotografare la realtà.

Daniele Giglioli prende le mosse dalla stessa realtà impietosamente raccontata da Giunta, ma poi va oltre. L’incontro con Giglioli è recentissimo. Naturalmente non ricordo già più come l’ho scovato (a proposito di memoria!), forse è arrivato di sponda da qualche altra lettura: ma ciò che importa è che mi sono immediatamente riconosciuto.

Ho scoperto che un suo saggio critico, All’ordine del giorno è il terrore, aveva movimentato la superfice dello stagno culturale italiano già nel 2008 (è stato riedito quest’anno, con una lunga postfazione). In verità, movimentato è una parola grossa: diciamo che l’aveva leggermente increspata. Come docente di letterature comparate Giglioli andava a rintracciare nella letteratura del passato la continuità dell’uso politico del terrorismo, in tutte le sue manifestazioni, quelle ufficialmente riconosciute e rivendicate (anarchico, rivoluzionario, islamico, ecc…) e quelle mascherate (guerre umanitarie, ecc. …). Ciò che veramente gli premeva era però arrivare al nocciolo, al fatto cioè che l’immagine del terrorista risponde a un bisogno radicato in profondità nelle nostre coscienze: il bisogno di attribuire ad altri, percepiti come assolutamente diversi, le debolezze e il senso di impotenza che rifiutiamo di riconoscere in noi. In sostanza: di fronte alla crescente insignificanza dei singoli decretata dalla modernità, allo smarrimento e alla fragilità inerme dei quali sono in continua balia, cresce negli individui un rancore sordo, un desiderio represso di riscatto violento.

Quello che Giglioli trova nella letteratura, viaggiando da De Sade a DeLillo, via Schiller, Dickens, Dostoevskij, Conrad, Ballard e decine d’altri, compreso l’insospettabile Manzoni, noi possiamo molto più banalmente coglierlo nel tema dominante nel cinema attuale (ma prevalente da sempre, ad esempio, nel filone western): la vendetta. Alla faccia dell’esecrazione e della messa al bando ufficiale della giustizia fai da te, il grande schermo è popolato oggi come non mai di vicende in cui le vittime, gli umiliati e i perseguitati, rifiutano il ruolo passivo nel quale sarebbero obbligati e scavalcano leggi, ordinamenti e organismi che non garantiscono più, se mai l’hanno fatto, la loro difesa. A partire dai classici, cose tipo Il giustiziere della notte e Un borghese piccolo piccolo, le varianti della storia sono poi infinite. Pochi giorni fa sono passati in tivù nella stessa serata Harry Brown e Il buio dell’anima, dove a ribellarsi alla pavida passività sono un vecchio e una donna, che vendicano rispettivamente un amico e il proprio fidanzato. Nei colpi di pistola esplosi da due rappresentanti delle categorie più indifese si sublima il desiderio di milioni di individui che si sentono abbandonati, schiacciati nella loro solitudine tra l’indifferenza del potere e l’impunità dei carnefici. E anche se francamente non penso di soffrire di quella sindrome, confesso di aver atteso anch’io con un senso di esaltata liberazione il compimento della vendetta, di essermi identificato con le vittime, di aver non solo giustificato, ma invocato la loro reazione, e premuto il grilletto assieme a loro.

La differenza rispetto a quel che accadeva nei western della mia infanzia sta nel fatto che Shane, il cavaliere della Valle Solitaria, agiva in un contesto quasi mitologico, in una dimensione che anche un bambino percepiva come totalmente altra, ed era un pistolero, dal quale non ci si poteva attendere altro che coraggio, precisione e velocità nell’estrarre, mentre Harry Brown è un pensionato con l’asma, e vive (e muore) in un mondo che avverto sempre più prossimo, nel tempo e nello spazio. Asma a parte, potrei benissimo essere io, e Jodie Foster potrebbe essere qualsiasi donna. Shane era la mano armata di un ideale di giustizia, rozza e sbrigativa quanto si vuole, ma superiore, impersonale: era legittimato da una speciale integrità etica, che gli imponeva di mettere la sua abilità al servizio dei deboli, e sparava, quando tirato per i capelli, per sgombrare la strada al futuro, assicurando a ciascuno pari opportunità. E uscendo poi di scena, una volta ristabiliti gli equilibri violati. Gli eroi di oggi reagiscono e uccidono proprio perché in quell’ideale non credono più, per rispondere a personalissime offese e chiudere i conti con le cicatrici del passato. E sulla scena tendono a restarci.

Dopo aver letto il libro di Giglioli sono andato a cercare sul web traccia delle recensioni che gli erano state dedicate. Non si può dire che i critici si siano sprecati (e questo almeno in parte spiega perché non l’abbia conosciuto prima), ma soprattutto non hanno affatto compreso qual era il vero assunto dell’autore. Anche quando gli tributano lodi per l’intelligenza e per il coraggio, gli rimproverano poi di non aver fatto i dovuti distinguo tra un terrorismo in qualche modo giustificato e uno insensato: che significa riportare un discorso che ha una dimensione “antropologica” al livello più superficiale della contingenza storica. A Giglioli non interessava affatto indagare o denunciare le diverse facce del fenomeno, ma rintracciarne la radice, che è unica, nella risposta a una condizione esistenziale.

Se questa volontà non fosse stata già chiara, Giglioli l’ha ribadita ed esplicitata in maniera inequivocabile qualche anno dopo in Critica della vittima (2014), un saggio più breve, quasi un pamphlet, col quale affonda il coltello nella piaga senza usare anestetici. L’ho letto ripetendomi ad ogni pagina: Eccolo lì, vedi che allora non sono un menagramo lagnoso e inacidito.

Faccio prima, anziché raccontarlo, a far parlare Giglioli stesso. “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. … nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa … la vittima è irresponsabile, non risponde di nulla, non ha bisogno di giustificarsi.” E di conseguenza: “… chi sta con la vittima non sbaglia mai.” Che parrebbe lapalissiano, ma non lo è. Perché: “La mitologia della vittima trova la sua ragion d’essere nel venir meno di una credibile, positiva idea di bene”. Ergo, con l’idea di una trionfante iniquità che “eleva a martire chi è stato colpito, o lo desidererebbe, o lo pretende per legittimare il suo stato. Col corredo di affetti inevitabili: risentimento, invidia, paura.” Il tutto riassumibile in una citazione da Christopher Lasch: “È proprio questa la ferita più profonda inferta dalla vittimizzazione: si finisce per affrontare la vita non come soggetti etici attivi, ma solo come vittime passive, e la protesta politica degenera in un piagnucolio di autocommiserazione” (da L’Io minimo, del 1984, ma uscito in Italia solo nel 2004: giusto in tempo comunque per fotografare la situazione attuale).

Giglioli analizza puntualmente tutti i sintomi del fenomeno. Parte dalla sovrapposizione della memoria alla storia, anzi, dalla rimozione in blocco di quest’ultima a favore della prima. “La memoria configura un rapporto con il passato di tipo inevitabilmente proprietario: il mio, il nostro passato. Isola gli eventi dalla catena del loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti.” Denuncia le ambiguità di fondo del credo umanitario, che “è una una tecnica, un insieme di dispositivi che disciplinano il trattamento delle parole, delle immagini, delle reazioni emotive ingiunte agli spettatori: estetizzazione kitsch, sensazionalismo riduttivo, naturalizzazione vittimaria di intere popolazioni.” E che riserva al clemente, al misericordioso il ruolo di “testimone legittimo”, accreditato a parlare in nome delle vittime. Le quali “sono private di ogni soggettività, di ogni diritto che non sia quello al soccorso”.

Procede quindi, in una concatenazione perfettamente logica, dalla colpevolizzazione della modernità, del novecento, della cultura occidentale in genere e della prassi politica che ha espresso, per approdare alla paura che come un gas nervino viene diffusa nell’immaginario sociale e paradossalmente si autoalimenta, in quanto assunta come arma difensiva, come strumento immunitario. Una paura che crea risentimento e appunto identificazione, e partorisce da un lato la necessità di “individuare un ostacolo, un estraneo da espellere, un nemico di cui dichiararsi vittime”, dall’altro l’emergere di leader che di questo atteggiamento si fanno interpreti, riassumono in sé la condizione di vittime, e la usano per legittimare una loro assoluta insindacabilità. Sono i meccanismi di fondo del populismo. Il quale viaggia e prospera soprattutto nell’universo del web, che è “il paradiso immaginario della soggettività irrelata, incontrollata, senza filtri apparenti”, mentre in realtà rimane sotto il ferreo controllo dei grandi gestori. Un paradiso nel quale allo spirito critico genuino è negato in realtà ogni accesso, dove impera la rissosità e dove ogni contradditorio è subito virato in persecuzione. Non penso sia difficile riconoscere trame e interpreti del melodramma tragico cui stiamo assistendo.

E mi fermo qui, alla primissima parte del saggio: ma credo che basti. Non voglio guastare il piacere (insomma) di scoprire il resto ad eventuali lettori. Direi che comunque è sufficiente a spiegare perché del libro non avevo sentito parlare prima.

Non ho invece ancora letto “Stato di minorità”. Dalle poche righe della presentazione arguisco che sia un tentativo di passare alla pars construens. “Mi sono accorto che la domanda attorno a cui ruotavo era sempre la stessa: quali sintomi si manifestano in una società in cui l’agire politico è sentito come qualcosa di impossibile, non perché proibito, ma perché ineffettuale, senza esito, svuotato di ogni concretezza … L’obbiettivo di questo saggio non è tanto la constatazione quanto l’elaborazione di un lutto. Elaborare un lutto comporta attraversarlo e superarlo”. Sono curioso di verificare come, e andando verso dove.

Un po’ defilato, e comunque in linea con i due incontri precedenti, ce n’è un terzo, quello con Sergio Benvenuto. Benvenuto non appartiene alla generazione di mezzo, ha esattamente la mia età ed evidentemente abbiamo parecchie altre cose in comune, visto che ha visitato anche lui in occasione dei settant’anni, proprio durante l’ultima estate, per la prima volta l’Islanda (e ne ha scritto un bellissimo reportage). Non ho letto libri suoi perché è uno psicanalista, e della psicanalisi non mi importa granché, ma ho raccolto in uno dei miei preziosi libricini gli articoli postati negli ultimi tre anni su DoppioZero, trovandoci una notevole consonanza. Intanto Benvenuto, a dispetto della sua formazione e della sua professione, usa un linguaggio decisamente semplice (che non significa povero): vale a dire che parla e argomenta in maniera tale che persino un idiota potrebbe capirlo (non fosse che gli idioti di norma non leggono, e non comunque quelle cose). Quanto ai contenuti, potrebbe sembrare appiattito sulla linea di una “sinistra del buon senso”, ma dal momento che il buon senso ha in questo momento con la sinistra un rapporto molto conflittuale, non è affatto un megafono dell’establishment. Rischia anzi di sembrare un eretico: che parli di anti-politica, di leggende metropolitane, della “straordinaria affermazione di Renzi nel referendum del 4 dicembre”, non è mai in linea con gli umori prevalenti. E infine, per quanto mi riguarda più personalmente, è la dimostrazione che a dispetto delle differenti situazioni di partenza (ha studiato a Parigi, ha vissuto un Sessantotto da protagonista, o quasi – tutti indizi di una condizione ben diversa dalla mia) l’approdo, per chi appunto del buon senso fa la propria bussola, è poi lo stesso.

Nota a margine. Questi incontri mi hanno rievocato, per un processo analogico che non sto qui a spiegare, sensazioni provate molti anni fa leggendo l’opera forse meno conosciuta di Luigi Meneghello, “Il dispatrio”. Che sono andato quindi puntualmente a rileggere. È stata una rilettura molto condizionata, perché ho cercato soprattutto quello che Meneghello non diceva, ma balzava già fuori con evidenza dal confronto implicito con la realtà inglese. E anche una rilettura tonificante, perché mi ha indotto a risfogliare Pomo Pero e i Fiori italiani, con benefici effetti sul morale.

Forse mi sono dilungato troppo sulle new entry della mia personale classifica: c’è altro di cui vale la pena parlare, anche se il legame con l’attualità è molto più sottile, o addirittura quasi invisibile. La prima parte dell’estate l’ho dedicata al recupero di testi, notizie, memorie archiviate nel cassetto, relativi ad un argomento che potrebbe sembrare un po’ peregrino, oltre che inattuale (ma non lo è). Da qualche tempo mi frulla in testa questo interrogativo: perché gli anarchici amano la geografia, e i socialisti, o meglio, i marxisti, prediligono la storia? In effetti i due pensatori anarchici più significativi dell’800 (almeno per me), Piotr Kropotkin e Élisée Reclus, erano entrambi geografi – ma ce ne sono altri. Ho cercato di darmi una risposta, che contavo di sviluppare, e della quale comunque posso già anticipare la tesi di fondo: gli anarchici prendono in considerazione innanzitutto il rapporto dell’uomo con la natura, quindi con lo spazio, mentre i comunisti considerano solo quello tra gli uomini, che ha come teatro il tempo. Non a caso Marx riteneva che con le prime grandi civiltà, e quindi con la prima organizzazione dello sfruttamento, si fosse conclusa la storia naturale, per lasciare il posto a quella culturale (o sociale).

Stanti i miei umori attuali temo che questa riflessione abbia poche probabilità di essere un giorno debitamente argomentata: ma ho scoperto, sempre durante l’estate, che almeno una parte del lavoro, quella riguardante il rapporto degli anarchici con la geografia, è già stata fatta. Ne Il mondo senza la mappa. Élisée Reclus e i geografi anarchici Federico Ferretti si occupa non solo del grande geografo francese ma anche del suo collaboratore Metchnikoff e del cartografo Perron, oltre naturalmente che di Kropotkin. Viene fuori che gli anarco-geografi diffidavano assolutamente della cartografia piana, che schiaccia la realtà riducendo tutto a segni e simboli e linee, funzionali solo a una lettura politica, mentre propugnavano l’uso didattico di modelli tridimensionali che offrissero in scala un rilievo realistico della crosta terrestre, con la sua orografia e i suoi bacini idrografici. (In pratica quei plastici – ma allora erano di gesso o di cartapesta – che fino a qualche tempo fa prendevano polvere negli armadi delle aule di scienze). In questo modo, pensava Reclus, è possibile davvero trasmettere l’idea che fiumi e catene montuose non sono degli ostacoli, non segnano dei confini tra gli uomini ma, al contrario, li mettono in comunicazione, agevolano i loro incontri. Aveva persino progettato un enorme globo, di quasi centotrenta metri di diametro, in vista della Esposizione universale di Parigi (quella della Tour Eiffel), sul quale avrebbe dovuto essere riprodotta l’intera superfice terrestre, dentro il quale doveva essere ospitata una biblioteca e attorno e sopra il quale i visitatori avrebbero girato con un complesso sistema di scale. Naturalmente non se ne fece nulla (ne fu esposto uno di quaranta metri che Reclus giudicava malfatto e assolutamente impreciso). Rimane solo il frammento di rilievo che il suo cartografo Perron realizzò del territorio svizzero, tendo conto della curvatura terrestre. Preso dall’entusiasmo Perron adottò la scala 1:400.000, il che avrebbe comportato, per rilevare la superfice di tutto il globo, costruire una sfera di 400 metri di diametro: e tuttavia su quella sfera ideale il Cervino è un grumo di gesso a punta che non raggiunge i cinque centimetri di altezza.

Sono queste le cose che mi scaldano il cuore, o quantomeno mi spronano a continuare nella ricerca del materiale “preparatorio”. Così, sul pensiero di Reclus ho letto ad esempio Natura ed educazione, una silloge di interventi che ne scandagliano un po’ tutti gli interessi, quello geografico in primis. Le opere più significative del geografo francese non sono più state edite in Italia dalla fine dell’800, ma si può rimediare scaricandole da Liberliber (certo, il primo dei diciannove volumi della Nuova Geografia Universale consta di ottocento pagine più le cartine fuori testo, mentre per L’uomo e la Terra i volumi sono soltanto sei … ). Per il momento mi sono accontentato di ciò che era alla portata della mia stampante, la Storia di un ruscello e la Storia di una montagna: libri persino ingenui nella loro aspirazione a fare una divulgazione scientifica non noiosa, ma che restituiscono senz’altro l’immagine di uno scienziato e di un uomo incredibilmente libero e buono.

A questo punto però il percorso si è complicato e ha imboccato un nuovo sentiero. Mentre ripercorrevo velocemente la storia del pensiero anarchico ho cominciato a chiedermi come mai tanti filosofi e rivoluzionari ebrei abbiano optato per l’anarchismo anziché per il comunismo. In fondo gli ebrei sono per antonomasia il popolo del tempo, la loro adesione a un approccio storicistico parrebbe scontata. Invece, cercando una risposta ne L’anarchico e l’ebreo (una raccolta di saggi a cura di Amedeo Bertolo), ho preso atto che la mia concezione dell’anarchismo è consonante solo col filone meno conosciuto, quello popolato appunto dai pensatori ebrei. Qui forse vale la pena di spiegarmi meglio, perché in definitiva il discorso va a sfociare direttamente non solo in quanto ho detto sopra a proposito di Giunta, Giglioli e Benvenuto, ma in tutto ciò in cui ho continuato a credere e di cui sto scrivendo da quasi sessant’anni. Farò quindi un breve abstract di qualcosa che da troppo tempo mi propongo di riconsiderare con calma

Semplificando al massimo, si possono identificare due modelli di anarchismo, molto diversi, quasi antitetici, che partono da differenti premesse e approdano a prassi diversissime. Da un lato c’è il modello insurrezionalista incarnato da Bakunin, che sfocia poi nel terrorismo bombarolo di fine ottocento, e che è perfettamente riassunto nel motto “La passione per la distruzione è anche una passione creativa” . Il secondo aspetto della passione Bakunin non ebbe mai modo di sperimentarlo.

Dall’altro c’è una concezione che potremmo definire “gradualista”, più individualistica, che procede per una linea piuttosto tortuosa e difficile da identificare, partendo da Max Stirner per arrivare sino a Berneri. Il motto potrebbe essere in questo caso quello di Reclus, “L’anarchia è la più alta espressione dell’ordine” (dove l’ordine è quello che nasce dall’assunzione di responsabilità degli individui, e non quello imposto dal potere di uno stato): ma anche quello di Landauer “La scoperta (da intendere come “coscienza piena”) di essere costretto in condizioni indegne costituisce il primo passo per la liberazione da queste condizioni”. Su questa linea si collocano in prevalenza i pensatori ebrei, da Landauer appunto fino a Mühsam e a Benjamin.

Dove sta lo specifico ebraico che li porta a immaginare e praticare un anarchismo ben lontano da quella che ne è l’immagine diffusa e accreditata? A mio parere sta nel rifiuto, o perlomeno nella lettura critica, di una concezione millenaristica che molto deve alla radice cristiana, dell’aspettativa soteriologica di una apocalisse che faccia piazza pulita dell’ingiustizia e della malvagità e prepari il terreno ad un mondo nuovo. Può sembrare un paradosso, perché proprio all’ebraismo si tende ad attribuire la paternità del millenarismo. Invece le cose non stanno così. Gli ebrei sono convinti che la salvezza dipenda innanzitutto da una trasformazione individuale, non demandata ad una forza superiore, sia essa Dio o il popolo. Sono più interessati alla fase costruttiva che a quella distruttiva, e questo perché la seconda sembra lontana a venire, mentre la prima può cominciare ad essere attuata nell’intimità del singolo, nella cerchia ristretta delle sue relazioni con gli altri.

Il modello anti-insurrezionalista era già presente sia in Reclus che in Kropotkin, con la differenza che in essi (che infatti ebrei non erano) c’è al fondo un ottimismo “spontaneista” di matrice positivistica, una interpretazione solidaristica dell’evoluzionismo, (quello che Berneri chiamava “l’anarchismo dagli occhiali rosa”). Come a dire che anche se non sarà un Dio a portare la giustizia e l’armonia in questo mondo, e magari neanche un movimento o un partito progressista, provvederà la natura stessa: quasi un naturalismo deterministico.

C’è invece chi rifiuta di demandare la trasformazione ad un “attore esterno”, sia esso un’entità superiore come la Provvidenza, lo Spirito Assoluto o la Natura, o un ideale, nelle vesti di Ragione, Libertà, Progresso, Spirito assoluto, o una entità impersonale, come il popolo o le classi sociali, e fa degli uomini, intesi come singoli che si associano e cooperano volontariamente, i soggetti attivi della storia.

Questa è la sostanza del pensiero di Gustav Landauer. E proprio a lui sono approdato. Landauer non è molto conosciuto, neppure nella ristrettissima cerchia di coloro che ancora si interessano alla storia e al pensiero politico. Delle sue opere è stata tradotta in italiano, a un secolo dalla comparsa, soltanto La rivoluzione: io stesso lo ricordavo sino a ieri solo per quello che ne aveva scritto il suo amico Martin Buber in Sentieri in Utopia (anche questo rimasto però per anni introvabile). Ora il vuoto è almeno in parte colmato da un poderoso saggio biografico di Gianfranco Ragogna, Gustav Landauer anarchico ebreo tedesco. Al di là del valore intrinseco dell’opera, che sta tanto nella ricchezza dell’informazione che nella profondità dell’analisi, questa lettura mi ha stimolato a cercare in rete tutto ciò che poteva essere rintracciabile. Ho trovato ben poco, praticamente solo il breve saggio Per una storia della parola anarchia. Ma anche quel poco è estremamente interessante.

Landauer è lontano anni luce dall’idea di una rivolta distruttrice di massa, quella propugnata da Bakunin, ma anche dalla fede “deterministica” del materialismo storico. Ha una concezione etica del mutamento, che chiama in causa i singoli individui e li mette di fronte alla loro responsabilità. Il sistema può essere combattuto qui e ora, e da ciascuno, senza attendere gli sviluppi “dialettici”, economici o politici, postulati dal marxismo. Si può già costruire una “controsocietà” fuoruscendo dal sistema esistente e recuperando un rapporto con la terra e la natura che modelli il legame sociale su basi solidaristiche e comunitarie. In altre parole, cominciamo noi, come singoli, a creare degli exempla di vita buona, a vivere “come se” la trasformazione fosse già attuata: questo ci darà modo di condividere con altri ragioni di vita, obiettivi concreti, aspettative, utopie, che non debbono essere il risultato della “rivoluzione”, ma costituirne le premesse. Siamo come uomini primitivi di fronte all’indescritto e indescrivibile, non abbiamo niente davanti a noi, ma tutto solo dentro di noi: dentro di noi la realtà ovvero la forza non dell’umanità a venire, bensì dell’umanità già esistita e per questo in noi vivente e consistente, in noi l’operare, in noi il dovere che non ci travia, che ci conduce sul nostro sentiero, in noi l’idea di ciò che deve diventare realtà compiuta, in noi la necessità di uscire da sofferenza e umiliazione, in noi la giustizia che non lascia nel dubbio o nell’incertezza, in noi la dignità che esige reciprocità, in noi la razionalità che riconosce l’interesse altrui. In coloro che provano questi sentimenti nasce dalla più grande sofferenza la più grande temerarietà; coloro che vogliono tentare, malgrado tutto, un’opera di rinnovamento, orbene, si devono unire.”

Non è un sognatore, perso nelle nuvole. È anzi assai più realista di coloro che si attendono la liberazione dall’azione di “soggetti sociali collettivi”, o cercano di anticiparla con la “violenza libertaria”, gettando bombe o sparando ai simboli del potere. Per lui “ogni violenza è o dispotismo o autorità”. Il suo è, come scrive Ragogna, un modo d’essere insieme politico e impolitico. Impolitico, per un verso, perché era sulle relazioni tra gli uomini in tutti gli aspetti della vita che Landauer puntava per inaugurare un’epoca del tutto nuova: una vera e propria mutazione antropologica. Etico-politico, per un altro verso, perché egli continuava a credere in forme forti di azione collettiva, collocate al di fuori della sfera d’influenza dello Stato ma orientate a un fine dai contenuti spiccatamente universalisti: l’uguaglianza, la pace e, in esse e grazie a esse, la libertà.”

Ma la libertà è un concetto vago, che diventa addirittura pericoloso quando può essere manipolato dal potere stesso. Mi ha colpito, in mezzo alle tante altre, una considerazione: “Mi chiedo se siamo sicuri di essere in grado di sopportare tutto quello che adesso comincia a imperversare al posto dello spirito mancante, fra istituzioni coercitive che lo sostituiscono, se saremo capaci di sopportare la libertà senza lo spirito, la libertà dei sensi, la libertà del piacere scevro da responsabilità”. La libertà incondizionata non può che portare all’individualismo atomistico, e mette i singoli individui alla mercé del pensiero dominante e di chi lo controlla. Landauer ha fotografato il nostro tempo, la nostra società, con un secolo d’anticipo.

Nella storia del pensiero anarchico novecentesco solo Berneri è a questi livelli, e di Berneri ho già parlato diffusamente altrove. Segnalo soltanto che in Anarchismo e politica nel problemismo e nella critica dell’anarchismo Stefano d’Errico ne ha fatta una rilettura magari non sempre condivisibile, ma senza dubbio intelligente. E soprattutto, molto chiara e articolata. (Può essere la buona occasione per un primo approccio a questa figura tanto eccezionale quanto misconosciuta, in alternativa alla minibiografia che io stesso ne ho sbozzato nel volumetto Lo zio Micotto e le cattive compagnie).

Mi sembra però anche giusto sottolineare come paradossalmente gli anarchici “razionali”, quelli che diffidavano delle soluzioni insurrezionali e rifiutavano la scelta terroristica, siano poi quelli che, al bisogno, hanno combattuto in prima fila, e hanno pagato con la vita la difesa di idee e di scelte che magari nemmeno condividevano appieno. È accaduto a Landauer a Berlino e a Berneri in Spagna (quest’ultimo assassinato proprio da chi la rivoluzione avrebbe dovuto difenderla). I grandi agitatori rivoluzionari, da Bakunin stesso a Lenin, sono morti al contrario tutti nel proprio letto .

La linea gradualista, che i duri e puri bollano come “revisionista”, è indubbiamente la meno conosciuta. Se si chiede (io l’ho fatto) a qualche animatore dei tanti circoli anarco-insurrezionalisti, anarco-rivoluzionari, anarco-ecologisti, quelli che fanno cagnara appena fiutano odor di telecamera, chi fossero Berneri o Landauer o Reclus, per non parlare di Benjamin, si ottengono risposte desolanti. Ma non mi scandalizza l’ignoranza in sé, quella la do per scontata, in fondo è proprio la sua persistenza a inverare il “gradualismo” revisionista, a obbligarmi ad avere in sospetto le masse rivoluzionarie inferocite e chi le guida: mi irrita invece il fatto che essa fa gioco al potere, perché gli consente di liquidare in blocco l’anarchismo come un movimento di sballati, se non addirittura di terroristi. E mi irrita anche perché non è affatto innocente, è solo comoda: consente di mettersi al traino di un’idea di rivoluzione che non ti chiede di responsabilizzarti individualmente, ma ti offre dei “responsabili” sui quali scaricare la tua rabbia e le tue frustrazioni.

A riprova del fatto che si è trattato di un’estate di immersioni totali, non solo nelle acque della Lavagnina, c’è un altro libro legato all’ebraismo, L’esilio della parola, di André Neher. Il legame in questo caso è diretto, perché l’autore si interroga sui diversi significati del silenzio, quello di Dio e quello degli uomini, nella Bibbia, desumendo da una lettura filologicamente serratissima una interpretazione molto originale della spiritualità ebraica. Anche in questo caso è meglio lasciare direttamente a lui la parola: “La lettura ebraica della Bibbia in piena logica della Genesi scopre l’illogico. Nel ritmo regolare dell’insieme scopre delle irregolarità sorprendenti. Alla concezione (greca) di un universo creato nella sua totalità, con tutti i suoi elementi, sostituisce la visione di un mondo in cui ci sono lacune, vuoti, e inversamente supplementi e aggiunte. Infine, è sensibile al fatto che alcune creature, lungi dal piegarsi alla Parola divina, le oppongono resistenza, si mostrano indocili e provocano così rivolte, accidenti, drammi. Osa penetrare nel mondo per scoprire, con stupore, ma senza compiacimento, che tale opera non è stata affatto meditata né realizzata secondo un piano prestabilito, ma che, al contrario, essa è scaturita da un’impreparazione radicale, e ha conservato lungo tutta la sua esecuzione i caratteri a volta deludenti o stimolanti di una improvvisazione”. Questo significa, secondo Neher, che non c’è una provvidenza divina a regolare il mondo. Dio tace, davanti alle invocazioni affinché metta un po’ d’ordine, per lasciare all’uomo uno spazio di libertà, perché l’uomo impari a rispondere con parole proprie, perché sia indotto a cooperare al completamento o al miglioramento dell’opera. Dio si ritira, dicevano i cabalisti, per lasciar sussistere il mondo. Ma “creando libero l’uomo, Dio ha introdotto nell’universo un fattore radicale di incertezza … l’uomo libero è l’improvvisazione fatta carne e storia … che mette in pericolo il piano divino nel suo insieme”. E il rischio nasce quando Dio dice, nel primo capitolo della Genesi, “facciamo l’uomo”, perché con quel plurale proprio all’uomo si rivolge. “Facciamo l’uomo insieme – tu, uomo e io, Dio – e questa alleanza fonda per sempre la libertà dell’uomo, di cui essa ha fatto per sempre il partner di Dio. Pertanto, le fasi successive e drammatiche della storia sono altrettanti ‘momenti di apprendistato’ della libertà. Tutto si svolge come se Dio tentasse l’uomo, obbligandolo a temprare la sua libertà.” È dunque una libertà tragica, se si vuole, ma è l’unica vera e possibile. Apre all’uomo un campo d’azione infinito, e lo carica della responsabilità di agire.

Come si può immaginare è un libro complesso, che parrebbe richiedere una concentrazione difficilmente conciliabile con le atmosfere dell’estate: in realtà mi ha preso e affascinato come un romanzo, e mi ha fatto rimpiangere di non aver frequentato l’università a Strasburgo, dove Neher insegnava e dove alla fine degli anni sessanta deve essersi creata una eccezionale concentrazione di cervelli (erano in fuga da Parigi, dove imperversava invece Cohn Bendit – altro ebreo, altro anarchico, poi eletto però per ben quattro volte parlamentare europeo). Mi ha anche indotto a riprendere in mano Linguaggio e silenzio di George Steiner, per avere conferma che parla d’altro ma dice in fondo le stesse cose.

Non soltanto. Mentre leggevo il saggio di Neher mi sono ricordato di un piccolo saggio che da tempo giaceva sepolto nel settore “ebraismo” della mia libreria, L’odio di sé ebraico, di Theodor Lessing. Ero quasi certo di averlo già letto, ma ho poi realizzato che lo confondevo con un altro scritto dal titolo quasi identico, Ebraismo e odio di sé (si tratta in realtà di un capitolo estrapolato da Sesso e Carattere di Otto Weininger), ma di ben più modesta levatura. Quello di Lessing è un classico della storia dell’antisemitismo (nella fattispecie, di quella particolare forma di antisemitismo espressa dagli stessi ebrei), anche se si tratta di un opuscoletto smilzo, un centinaio pagine di piccolo formato e stampate a caratteri grandi. La lettura mi ha preso poco più di un’ora, ma ci sono tornato su più volte nei giorni successivi: anche in questo caso si imponeva immediato il confronto con l’interpretazione del fenomeno che Steiner da ne La barbarie dell’ignoranza e in Nel castello di Barbablù.

Lessing può essere letto in continuità con Neher (anche se scrive quarant’anni prima), nel senso che va già oltre il tema della responsabilità, e legge la singolarità, e il dramma, del popolo ebraico nei termini del senso di colpa. Quando si chiede il perché dell’odio che ha accompagnato gli ebrei nel corso di tutta la loro vicenda si dà una spiegazione non storica, ma religioso-filosofica: “Gli eventi della storia umana … sarebbero insopportabili se l’uomo non potesse introdurre un senso in tutti questi ciechi avvenimenti. Non gli è affatto sufficiente scoprire fondato casualmente tutto l’accadere, lo vuole piuttosto scoprire fondato con pienezza di senso … Questo rendere pienamente sensato anche tutto il patire insensato può però risultare da due vie. O addossando all’altro la colpa, o cercando quest’ultima in se stessi. Ora, una delle più certe conoscenze della psicologia dei popoli è che il popolo ebraico è il primo, anzi, l’unico tra tutti i popoli a cercare solo in se stesso la colpa dell’accadere mondiale.”

Questa colpa collettiva deriva “dal frantumarsi di una totalità originaria, di uomo e mondo. La rottura di questa totalità è operata dallo ‘spirito’ e avviene per ragioni interne al suo stesso costituirsi: esso si realizza spingendo la ‘vita’ a rovesciarsi contro se stessa, in quanto ‘sapere’, a mortificare la vita… Una scissione può essere data solo nello stato di ‘veglia”, ovvero nel momento in cui si comincia a riflettere e a separare l’esperienza dalla riflessione sull’esperienza. Quando cioè si comincia a pensare. “Tutto il pensare presuppone il due e la dualità”. E quando si comincia a pensare ci si avvia a sostituire l’immediatezza della vita con il sapere attorno al vivente.

In altre parole: gli Ebrei sono colpevoli perché hanno spinto più innanzi di qualunque altro popolo o civiltà l’autocoscienza. Lo hanno fatto per una forma di autodifesa, in quanto eterna minoranza. Il loro “è un caso speciale del destino generale di ogni creatura oppressa, bisognosa, ritagliata dall’elemento vitale… Dovunque la minoranza deve badare a non scoprire nessun punto debole. Essa vive sospettosa, attenta e sotto il controllo della sua coscienza critica. Per essa “il pericolo consiste nel perdere la propria immediatezza e nell’entrare sotto una sorveglianza attenta. A ciò è però connessa una inclinazione all’ironia. Qualcosa di diffidente. Uno stare a lato. Una impercettibile sfiducia in se stessi.” Insomma, per autodifesa gli ebrei sviluppano uno spirito critico che mina definitivamente il loro legame empatico con la vita immediata. E contagiano con tale spirito il resto dell’umanità. Questa la loro colpa. Che, espressa in termini molto più confusi e da punti di vista opposti, è esattamente quella imputata loro da sempre dagli antisemiti.

Non è ancora finita. Ebreo è anche Bruno Bettheleim, del quale ho letto Sopravvissuti (solo la prima parte, quella sui campi di sterminio). Bettheleim sta tra quegli autori che hanno conosciuto davvero il terrore, anzi, l’orrore, prodotto dall’odio antiebraico del quale Lessing tentava di dare una spiegazione, e hanno poi sentito l’urgenza di testimoniarlo (constatando amaramente quanto questo orrore fosse incomunicabile, indescrivibile). Ma a differenza di altri tenta di spiegarlo sottraendolo alla sua unicità, alla sua storicità, e impiegando categorie interpretative più generali (alcune accostabili a quelle di Lessing). L’impressione è che usi gli strumenti del suo mestiere (era uno psicanalista, come Benvenuto) per creare una distanza “scientifica”, il che è normale e corretto, ma che ecceda poi nel “raffreddare” e neutralizzare sotto il microscopio le cicatrici della sua personale esperienza. Non mi ha particolarmente impressionato, né del tutto convinto: ora, in attesa di essere ripreso, sta nello scaffale assieme a Primo Levi, a Robert Antelme, a Jean Amery, ma anche assieme a Solgenitzin, a Salamov e a Gustav Hering.

Di quest’ultimo ho portato invece a termine la rilettura di Un mondo a parte: gliela dovevo, perché quarant’anni fa lo avevo frettolosamente rubricato nella memorialistica concentrazionaria. Invece è un gran libro, anche sotto l’aspetto letterario, e sul tema delle vittime, dei rapporti tra loro e con i carnefici, ha molto da insegnare.

Gli ebrei compaiono infine, sia pure nell’ombra, anche ne “La politica e i maghi“, del solito Giorgio Galli (dico il solito perché ha già scritto sulle stesse tematiche “Occidente misterioso” e “Hitler e il nazismo magico“: tutt’altro che paccottiglia, al di là di quel che i titoli potrebbero far pensare). Galli dà molto credito all’influenza che sarebbe stata esercitata sulla politica moderna (parte da Richelieu e dai Rosacroce) da sette iniziatiche e da personaggi ambigui e a volte insospettabili. A volerlo seguire, anche se non si sbilancia mai in interpretazioni esplicite e disegna tutti i passaggi e collegamenti in maniera apparentemente “neutra”, in una forma documentaria e oggettiva, si arriva a ipotizzare una rete estesa su tutta l’Europa e anche oltreoceano (Reagan, e sin qui è anche credibile, Clinton, un po’ meno): una rete che dai tempi di Elisabetta I si tende sino a Churchill, da Marx alla Russia di Bresnev, da Goethe ad Heisemberg .

Non sto a dire la mia opinione in proposito: è tuttavia indubbio che dal Cinquecento ad oggi c’è stata una continuità nel proliferare di società iniziatiche e sapienziali. Per come la vedo io, ciò è avvenuto in risposta al bisogno congenito degli uomini di presumere una possibilità di controllo o di dominio totale sulle cose e sui fatti, o al desiderio di appartenere comunque alla cerchia ristretta di coloro che questo potere lo deterrebbero. Non c’è necessità di alcuna trasmissione sapienziale diretta, di riti particolari di affiliazione: gli uomini sono sempre pronti ad affidarsi all’irrazionale, quando la ragione non dà loro le risposte che vorrebbero. E hanno necessità di credere che se è stato così da sempre, ciò non sia frutto dei loro limiti cognitivi, ma dell’esistenza di un velo che solo una speciale iniziazione può squarciare.

Sono arrivato in fondo al libro con una certa fatica, per via di una forma spesso approssimativa e di numerose ripetizioni, forse evitabili. Ero comunque incuriosito dai risvolti segreti di personaggi e vicende che davo per scontati e dei quali conoscevo invece solo una faccia o una versione.

Ho notato però la strana assenza, in questo festival della bizzarria, di Adam Weishaupt, il fondatore degli Illuminati di Baviera. Alla setta bavarese Galli dedica solo una brevissima nota, forse perché la magia ha nella vicenda una parte molto marginale. È invece esauriente ed eccezionalmente documentata in proposito la Storia segreta. Adam Weishaupt e gli Illuminati, di Mario Arturo Jannaccone.

Nel mio personalissimo arrangiamento della teoria dei sei gradi di separazione (che è affascinante ma fasulla), ogni libro può essere collegato a qualunque altro attraverso una catena di relazioni. In questo caso la relazione col libro di Galli sarebbe addirittura di primo grado, ma non sono arrivato a Jannaccone per suo tramite. Confesso di aver preso il volume perché l’ho trovato ad un euro, ma poi l’ho immediatamente letto, prima ancora di quello di Galli, perché rispondeva a un interesse che dura da moltissimo tempo.

La mia passione per le sette e le associazioni segrete è infatti precocissima, si perde nella notte dell’infanzia. È probabilmente legata a un particolare senso dell’amicizia. Sin da bambino ho concepito quest’ultima come un legame più forte di qualsiasi parentela. Mi sono anche chiesto se a muovermi fosse un’idea di possesso esclusivo, ma posso onestamente dire che non è così, perché mi piaceva allargare costantemente le mie amicizie e non ne sono mai stato geloso. Al contrario, era piuttosto un costante desiderio di vedere tutti vivere in una armoniosa e costruttiva concordia. Una sindrome da dio insoddisfatto di come gli è venuta la creazione, che cerca di mettere ordine. Questa disposizione all’apertura ha fatto paradossalmente di me anche un intollerante: in linea di principio sono sempre stato convinto che tutti meritassero la mia amicizia, e felice di ottenere la loro: ma di fatto, per guadagnarla certi requisiti mi sono sempre sembrati imprescindibili: in assenza di questi, scatta pesante l’esclusione.

Torniamo però alle società segrete. Queste parrebbero andare in direzione contraria, giocare appunto sull’esclusivismo. Io le interpretavo piuttosto non come una istituzionalizzazione, una ufficializzazione del legame amicale, ma come un rafforzamento. Un modo per cementare il sodalizio attraverso la condivisione di un particolare rituale e di conoscenze riservate. So che potrebbe somigliare sinistramente al matrimonio, ma non è così. Mi importava l’identificazione forte in un gruppo, prima ancora che in una idea, perché sono convinto che le idee debbano essere molte, e consacrarsi ad una finisca per essere limitante, e davvero escludente. Il criterio è la piena fiducia nell’altro, come uomo, a prescindere da come la pensa. Una concezione balzachiana, e d’altro canto la Storia dei tredici è uno dei primi libri “adulti” che ho letto.

Perché il carattere ha la sua parte, ma a fare il resto sono le suggestioni letterarie. Le mie fonti erano innumerevoli. Trovavo società segrete, positive o negative, nei libri scolastici, ad esempio la carboneria: ma soprattutto nei fumetti di Gim Toro, con la Hong del Drago e le Triadi, nei libri di Salgari, con i Tughs, ne “I compagni di Jehù” di Dumas padre, in Balzac, appunto. Il modello originario era però quello de “I ragazzi della via Paal” (ancora oggi darei chissà cosa per ritrovare la vecchia edizione Salani-Biblioteca dei miei ragazzi, con le illustrazioni di Faorzi, per anni la mia Bibbia).

Dei ragazzi di Molnar gli Illuminati avevano in realtà ben poco. Il merito di Storia segreta è quello di raccontarne la vicenda senza nulla concedere a suggestioni misteriche. Il fondatore, Weishaupt, era nella vita quotidiana un modesto professore universitario che aveva ottenuto la cattedra per via di protezioni, quindi fortemente inviso a tutti colleghi e senza ulteriori prospettive di carriera. Ma la percezione che aveva di sé era ben diversa: si vedeva come un campione della lotta contro l’oscurantismo, perseguitato dai suoi avversari ma deciso a far trionfare i lumi della ragione, all’occorrenza servendosi anche di strumenti ben poco razionali. Creò dal nulla una società segreta, si inventò ascendenze nobili, come quella rosacrociana, mutuò rituali e simboli dalla massoneria, fece balenare agli affiliati la prospettiva di rivelazioni sapienziali risalenti addirittura agli egizi, riuscì ad infiltrare gli adepti nelle istituzioni. Ma al dunque la società segreta si rivelò un grande bluff, un castello di carte fondato sul nulla: non c’era un piano, non c’erano scopi precisi se non quello molto vago di una rivoluzione illuminata, non c’erano segreti sapienziali da rivelare, e in assenza di tutto questo gli affiliati erano mossi ognuno da intenti e da finalità diverse. Presto si crearono all’interno del gruppo delle fazioni, delle rivalità, e non appena le autorità ebbero sentore della sua esistenza e cominciarono a intervenire la setta si squagliò.

Il dato più interessante (e sconcertante) che emerge da questa vicenda è l’incredibile facilità con la quale tante persone, anche di discreto livello culturale, siano state pronte ad abboccare e a rischiare la reputazione, se non la pelle. L’altro dato è come la cospirazione abbia suscitato all’epoca un allarme del tutto spropositato rispetto alla sua totale inconsistenza, e come sia stata circonfusa in seguito da un alone di leggenda, andando ad infoltire il già vastissimo repertorio del complottismo. D’altro canto, è comprensibile che l’idea di una setta di “illuminati” che congiura per rendere più razionale e più ragionevole il mondo susciti interesse e simpatia. Vorremmo davvero tutti continuare a credere che qualche Illuminato è ancora tra noi. Anche contro ogni evidenza.

Non ho passato però tutto il mio tempo su testi “impegnati” o funzionali alle mie ricerche. In pomeriggi assolati trascorsi ai bordi della piscina di un amico, lontano dai bombardamenti musicali o pubblicitari e da marmocchi insopportabili con genitori a carico, immerso insomma in quello che i malevoli bollerebbero come un paradiso radical chic ed è invece semplicemente un’oasi di civismo, ho gustato Una vita da libraio, di Shaun Bythell. È il diario di un anno tenuto non da un agente segreto, da un navigatore solitario o da un politico di punta, ma da un semplice rivenditore di libri vecchi o antichi. Va da sé che non è un libro d’azione, che non ha una trama, e che in esso non solo non accadono eventi eccezionali, ma anzi, non accade proprio nulla, se non il ripetersi dei giorni. Eppure ogni giorno ha la sua nota diversa, e dopo un po’ arrivi a conoscere i clienti abituali, con le loro manie e pretese e stramberie, e ti aspetti di rivederli. Come Giunta, Bytell non ha bisogno di condire la realtà con una dose supplementare di ironia: gli è sufficiente raccontarla per tenerci di ottimo umore per oltre duecento pagine.

Non va sempre così, naturalmente. Penso di dover citare in coda anche le “non letture”, ovvero le letture tentate e interrotte. Una riguarda David Foster Wallace. Wallace non è una scoperta recente, perché già lo conoscevo, avevo letto alcuni suoi reportage e tenevo in casa da un pezzo un paio di libri suoi. Ho aperto, confesso senza troppa convinzione, Jnfinite Jest, che avevo accantonato per via della mole (sono milletrecento pagine), e ho trovato uno scrittore bravissimo ma adatto ai ventenni, a chi ha molto tempo davanti (e non sa come trascorrerlo). L’ho richiuso quasi subito. È andata un po’ meglio con Considera l’aragosta, del quale ho letto tre o quattro pezzi, riportandone comunque la stessa impressione: è bravo, ma non è più per me.

Un discorso analogo vale per William Volmann. Volmann mi era però assolutamente sconosciuto fino a un mese fa, sono arrivato a lui solo per aver raccolto un vago accenno ad un libro sulle missioni gesuitiche in Canada nel XVII secolo. Naturalmente l’ho cercato subito e ho scoperto un pazzo scatenato che ha scritto decine di migliaia di pagine sugli argomenti più strampalati. Venga il tuo regno fa parte di una serie di sette volumi, immagino della stessa mole (siamo poco oltre le cinquecento pagine, ma stampate in corpo otto o nove, un vero attentato alla vista), che ricostruiscono varie fasi della storia americana. Altri sette li ha scritti sul tema della violenza, colta in tutte le sue possibili e a volte più improbabili manifestazioni, e in almeno venti altri ha viaggiato tra l’ultima guerra mondiale, il mondo della prostituzione e il teatro Nö giapponese. Mi sono perso dopo trenta pagine.

Quasi quante ne ho scritte tra ieri e oggi (in compenso non ho letto nulla). Mi fermo qui. Non garantisco di non aver dimenticato qualcosa, anzi, sono sicuro del contrario, ma evidentemente si tratta di cose che hanno lasciato poco segno. D’altro canto, venti libri letti in una estate, sia pure di cinque mesi, possono già sembrare molti: ma a conti fatti sono meno di uno la settimana. In tutto questo periodo la pila dei volumi tenuti “in caldo” sul ripiano della scrivania non si è comunque affatto abbassata. Ne sono entrati più di quanti ne siano usciti. A occhio e croce c’è materiale per i prossimi venti anni. È una prospettiva magari un po’ ottimistica, ma i segni sono buoni. La sesta luna di questa estate infinita si è fatta proprio oggi. E oggi era una giornata stupenda.

Libri letti, in ordine di apparizione

Claudio Giunta – L’assedio del presente – Il Mulino 2008,
Claudio Giunta – Una sterminata domenica Il Mulino 2013
Daniele Giglioli – All’ordine del giorno è il terrore- Bompiani 2007
Daniele Giglioli – Critica della vittima – Nottetempo 2014
Luigi Meneghello – Il dispatrio – Rizzoli 1993
Federico Ferretti – Il mondo senza la mappa. Élisée Reclus e i geografi anarchici Zero in Condotta, 2007
Élisée Reclus – Natura e educazione- Bruno Mondadori 2007
Élisée Reclus – Storia di un ruscello – Guerini 2005 (introvabile)
Élisée Reclus – Storia di una montagna – Tararà 2008 (idem)
Amedeo Bertolo – L’anarchico e l’ebreo Eleuthera 2017
Gianfranco Ragogna- Gustav Landauer: anarchico ebreo tedesco – Editori Riuniti, 2010
Gustav Landauer – Per una storia della parola Anarchia – (web)
Stefano d’Errico – Anarchismo e politica nel problemismo e nella critica dell’anarchismo Mimesis 2007
André Neher – L’esilio della parola Marietti 1991
Theodor Lessing – L’odio di sé ebraico Mimesis 1995
Bruno Bettelheim – Sopravvivere – Feltrinelli 1981
Gustav Herling – Un mondo a parte – Laterza 1958
Giorgio Galli – La politica e i maghi – Rizzoli 1995
Mario A. Jannaccone – Storia segreta. Adam Westhaupt e gli Illuminati – Sugarco 2005
Shaun Bythell – Una vita da libraio – Einaudi 2018
David Forster Wallace – Considera l’aragosta – Einaudi 2006

Libri almeno tentati, parzialmente letti o solo citati 

Claudio Giunta -Tutta la solitudine che meritate – Quodlibet 2014
Claudio Giunta – E se non fosse la buona battaglia? –Il Mulino 2017
Daniele Giglioli – Stato di minorità – Laterza 2015
Alessandro Baricco – I Barbari – Feltrinelli 2006
Michel Maffesoli – Il tempo delle tribù – Guerini 2004
Michel Maffesoli – Note sulla postmodernità Lupetti 2005
Christopher Lasch – L’Io minimo – Feltrinelli 1984
Martin Buber – Sentieri in Utopia Comunità 1967
Gustav Landauer – La rivoluzione Diabasis, 2009
Luigi Meneghello – Pomo Pero – Rizzoli 1974
Luigi Meneghello – Fiori Italiani – Rizzoli 1976
George Steiner – Linguaggio e silenzio – Garzanti 2001
George Steiner – Nel castello di Barbablù SE 1971
George Steiner – La barbarie dell’ignoranza Nottetempo, 2005
Otto Weininger Ebraismo e odio di sé – Studio Tesi, 1994
Honoré de Balzac – La storia dei tredici Sansoni 1965
David Forster Wallace – Jnfinite Jest – Einaudi 2006
William T. Volmann – Venga il tuo regno- Alet 2011

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Attenzione
Attenzione
Attenzione
Attenzione

Attenzione!

Fare le pulci

di Paolo Repetto, 30 maggio 2013

I motivi delle migliori azioni non devono essere ricercati troppo a fondo.
Si sa che la causa di moltissime azioni, buone o cattive, può essere
trovata nell’amore di se stessi. Ma l’amor proprio di certi uomini
li dispone a far piacere agli altri: e l’amor proprio di altri
è interamente impegnato nel far piacere a se stessi.
Jonathan Swift

In una storica puntata di “Bontà loro”1 (sto parlando di trentacinque e passa anni fa), schivando gli imbarazzi di un Costanzo visibilmente irritato Sergio Saviane riuscì a tessere un vero panegirico del pidocchio. Lo cantò come protagonista della storia patria, compagno dei nostri fanti nelle trincee della prima guerra mondiale, degli studenti nelle aule delle scuole elementari, degli emigranti sui piroscafi che traversavano l’oceano, di bimbi e adulti nelle povere cucine delle nostre campagne e dei suburbi industriali. Fu una performance epica, tanto che Saviane non venne più invitato in televisione e qualcuno dei suoi colleghi scrisse che si era bevuto il cervello (a quei tempi nelle pubblicità non c’era ancora spazio per le perdite vaginali o per i batteri fetidi di piedi e di ascelle). Saviane aveva invece aperto una finestra sul nostro passato più profondo, anche se il suo intento era solo quello di prendere per i fondelli il conduttore e i suoi ospiti. Riabilitando il pidocchio era andato all’origine della socialità umana e dei comportamenti che la caratterizzano.

Non ci crederete, ma in effetti nasce tutto di lì, dai pidocchi. Anzi, dallo spidocchiamento. Il primo gesto che possiamo definire davvero “altruistico”, e quindi sociale, è quello di liberare un proprio simile dai parassiti. Di per sé parrebbe una pratica molto diffusa in natura: ma lo è soprattutto nella forma simbiotica, quella ad esempio che assume nel rapporto tra i rinoceronti e le bufaghe (sono gli uccelli che nei documentari vediamo appollaiati sul dorso dei primi, a rovistare nelle pieghe della loro pelle) e che implica un vantaggio reciproco, alimentare per le une e igienico per gli altri. Io sto invece parlando della forma simpatetica, di un’attività apparentemente più ludica che utilitaristica: quella di prendersi cura di qualcuno per liberarlo da un disagio.

Come “pratica giocosa” lo spidocchiamento incontra un grande successo soprattutto tra i nostri parenti più prossimi, le scimmie antropomorfe, e viene esercitato tanto nei confronti della prole quanto tra gli adulti, indiscriminatamente e con evidente sollazzo reciproco. Tra i bonobo, quei simpaticissimi scimpanzé in formato bonsai che mandano in visibilio Piero Angela perché passano il loro tempo a fare sesso, costituisce l’attività “preliminare” per eccellenza. Quindi lo spidocchiamento giocoso non è un’attività specifica dell’uomo: lo precede e, come vedremo, prelude in misura significativa all’ominazione. Naturalmente non è nemmeno una pratica totalmente “ludica”. Nasce da una necessità, è la risposta ad un bisogno (nel caso dei bonobo, che i pidocchi se li mangiano anche, non si può però parlare di una motivazione alimentare: evidentemente sgranocchiare pidocchi è un valore ludico aggiunto, come quello del popcorn al cinema). Ma è una risposta che crea un rapporto di confidenza e di fiducia, e si traduce poi in un atteggiamento affettivo (nei bonobo molto affettivo), esteso ai più prossimi, ma anche all’intero gruppo. Nell’uomo col tempo questo rapporto si simbolizza, assume tratti diversi mano a mano che le sopravvenute abitudini igieniche e i modi di vita sterilizzano gli ambienti e diradano i parassiti. Da pratica naturale diventa pratica culturale, e una volta fatto il passo non si ferma più: nelle forme della compassione e della consolazione, della simpatia e della solidarietà, sia morale che pratica, invade tutti gli ambiti, da quello familiare e parentale a quello sociale, tanto da essere erroneamente letto alla fine come un prodotto specifico e precipuo della cultura (animale sociale è una definizione in cui l’attributo non consegue naturalmente al sostantivo, ma trae risalto proprio dalla contrapposizione).

L’empatia e la collaborazione all’interno di un gruppo non nascono naturalmente solo dalle pratiche giocose: concorrono altre necessità (la caccia, ad esempio, o la difesa) e altre risposte, ma in genere si tratta di comportamenti abbondantemente diffusi in quasi tutte le specie animali, dalle api ai castori, ai lupi, ecc …, sia pure con manifestazioni diverse. A noi in questa sede interessano invece quei comportamenti, riscontrabili solo a livello umano, che sembrano trascendere la determinazione istintuale, e ricadere in un campo diverso di riflessione: quelli cioè che riguardano un altruismo etico, ovvero “scelte” che non soltanto non appaiono immediatamente vantaggiose per l’individuo che le compie, ma in qualche caso risultano addirittura rischiose per sé e vantaggiose per gli altri.

Se ci mantenessimo nei termini della biologia evoluzionistica dovremmo chiederci: siamo altruisti in quanto animali, sia pure animali della specie homo, o siamo uomini in quanto altruisti? Andiamo veramente oltre il determinismo genetico, e quindi quella aggettivazione in noi prende altri significati, o rispondiamo semplicemente ad un determinismo più complesso? L’argomento è uno dei più controversi nello studio della evoluzione, e non ho certo intenzione di andare a cacciami in un simile ginepraio; non ho la minima competenza in proposito, ma soprattutto penso che al livello sul quale intendo sviluppare il mio ragionamento qualsiasi risposta potrebbe essere considerata ininfluente. Quindi sul piano scientifico non prendo partito per alcuna ipotesi. Ciò non toglie però che ritenga utile almeno ricordare quali sono oggi le posizioni, per avere comunque un riferimento.

Vediamo dunque di riassumere. Ad oltre un secolo e mezzo dalla pubblicazione de L’Origine delle Specie, nell’opinione comune il concetto evolutivo dominante è ancora quello della sopravvivenza dell’individuo più adatto. Tradotto in termini sociali questo concetto sembra suggerire che il successo arride sempre alle strategie egoistiche. Nella versione più aggiornata il “gene egoista” impone al suo temporaneo involucro-portatore, l’individuo, dei comportamenti che garantiscono la propria (del gene) salvaguardia e perpetuazione, procurandogli vantaggi riproduttivi: e dal momento che ogni vantaggio proprio ha un corrispettivo in uno svantaggio altrui, nella competizione di tutti contro tutti varrebbe il principio mors tua, vita mea.

Le cose però non funzionano proprio così. Già lo stesso Darwin prendeva atto che in natura esistono dei comportamenti in contraddizione con l’idea di un opportunismo egoistico assoluto: è quanto accade ad esempio nelle colonie di imenotteri, dove una parte degli individui non si riproduce e appare destinata alla schiavitù. Darwin si dava una spiegazione in termini di sopravvivenza della specie: “la selezione può applicarsi al complesso della famiglia, e non solo all’individuo”, scriveva ne “L’origine dell’uomo”. Era tutto ciò che poteva opporre, senza neppure troppa convinzione, dal momento che ignorava i meccanismi della genetica. Quando questi divennero noti, attraverso la riscoperta delle leggi mendeliane, fu possibile rivedere la questione sotto un’altra luce. E quando poi si cominciò a ragionare in termini di genetica delle popolazioni, introducendo nello studio dell’evoluzione la statistica, e a discostarsi dalla concezione ortodossa di una lenta gradualità evolutiva, per prendere in considerazione anche i fattori di discontinuità e le accelerazioni improvvise, i conti cominciarono a tornare.

Negli anni Trenta del secolo scorso J. B. S. Haldane faceva notare che se il parametro del successo fosse semplicemente quello del tasso riproduttivo i più adatti risulterebbero senz’altro i poveri, perché si moltiplicano molto più velocemente dei ricchi. Haldane è quasi più famoso per il suo sarcasmo e per le sue bizzarrie che per i fondamentali contributi dati alla “nuova sintesi” evoluzionistica, ma al di là del paradosso intendeva far capire che le leggi che regolano l’evoluzione sono ben più complesse e articolate. Ne “Le cause dell’evoluzione” (1932) inferiva quindi che deve intervenire qualche altro meccanismo. Alle stesse conclusioni era pervenuto un paio d’anni prima Ronald Fisher (La teoria genetica della selezione naturale, 1930). Entrambi si chiedevano a quali condizioni, in termini di economia genetica, il sacrificio “altruistico” di un individuo poteva vantare un “ritorno” vantaggioso: ed entrambi concludevano che ciò poteva accadere in presenza di gruppi compatti e strettamente imparentati, perché in questo caso il gene dell’altruista risulta diffuso nei soggetti che traggono beneficio dal suo sacrificio. Il calcolo è semplice, diceva Haldane: se muoio per salvare un figlio, che possiede la metà del mio corredo genetico, ho una fitness (è il parametro in termini di materiale ereditario) negativa, perché perdo il cinquanta per cento. Vado in pari se ne salvo due, raddoppio se ne salvo quattro. La cosa può essere estesa a nipoti, a fratelli e ad altri gradi di parentela, naturalmente con un progressivo dimezzamento percentuale del patrimonio genetico comune. In un gruppo abbastanza ristretto, dove tutti più o meno sono imparentati, la “convenienza” del sacrificio altruistico sarà sempre piuttosto alta. E non è tutto: la capacità di collaborare al di là di calcoli grettamente egoistici dà ai gruppi maggiormente coesi un vantaggio competitivo, e favorisce il loro successo.

Ma cosa succede rispetto a gruppi più grandi? Per questi bisogna attendere sino al 1964, quando William Hamilton rifà i conti inserendo il computo di tutti i possibili vantaggi (o svantaggi) che la fitness di un individuo può trarre dall’interazione con parenti e con estranei. Con una serie di modelli matematici complicatissimi, che fanno entrare in gioco alleli propri e altrui, dominanti e recessivi, egoisti o meno, e che vi risparmio non per bontà d’animo ma perché mi ci sono perso dopo la prima pagina e non ci ho capito nulla, Hamilton dimostra che il comportamento altruistico è, almeno statisticamente, sempre conveniente. I suoi modelli sono poi stati rivisti e perfezionati da altri (con la teoria dell’“altruismo reciproco” di Robert Trivers – L’evoluzione dell’altruismo reciproco, 1971 – ad esempio), ma la sostanza è rimasta quella: l’altruismo non è un portato “culturale”, ma uno stratagemma, o una strategia, “naturale”. Col che possiamo metterci il cuore in pace rispetto alla “eccezionalità” umana, e tornare al nostro tema di partenza: lo spidocchiamento.

Ciò che mi intrigava era infatti leggere l’altruismo alla luce dei comportamenti pratici diffusi, quelli che percepiamo nella quotidianità dei rapporti, e che spesso sono tutt’altro che in sintonia con i modelli matematici di Hamilton. Volevo insomma tentare una bozza di descrizione fenomenologica dell’altruismo umano, naturalmente senza alcuna pretesa di scientificità: raccontare semplicemente come lo vedo io.

Per farlo devo però necessariamente passare per quella che è stata la percezione “storica”, pre-evoluzionistica, dell’altruismo. In pratica si sono sempre contrapposte due scuole di pensiero, che per brevità riassumo nelle posizioni espresse dai maggiori filosofi inglesi agli inizi dell’era moderna: quella per cui gli uomini sono tenuti assieme dalla paura (Hobbes), e quella per cui sono spinti alla socialità da sentimenti di benevolenza e di simpatia (Hume, ma anche Locke e Smith). Nel primo caso evidentemente di altruismo non è il caso nemmeno di parlare; nel secondo, come dice Jonathan Swift nella frase che ho posta in esergo, è “l’amor proprio di molti uomini che li dispone a far piacere agli altri” (anche se non è così per tutti, perché “quello di altri è interamente impegnato nel far piacere a se stessi”). Swift, attraverso una considerazione apparentemente banale, ci fa entrare nel merito pieno della questione. Alla base, dice, c’è l’amore di sé (che è una maniera eufemistica per indicare l’egoismo, ma che introduce una sfumatura non trascurabile). Ora, dobbiamo chiederci, questo amore di sé porta inevitabilmente a sottrarre amore nei confronti degli altri? E l’amore per gli altri, comporta inevitabilmente un distacco da sé? Detto in altre parole, il vantaggio comune, quello che definiamo il bene generale, nasce per forza da una più o meno parziale rinuncia a sé?

La risposta “storica” a questa domanda è stata in genere univoca: la socialità nascerebbe da una serie di rinunce (relative alla libertà individuale) in vista di una serie di vantaggi o di garanzie (relativi alla sicurezza). Lo pensavano sia Hobbes che Hume e i suoi compagni della scuola scozzese. Quindi non si tratterebbe di una naturale disposizione altruistica. Questa convinzione informa tanto l’ottica cristiana (per la quale la capacità di rinuncia è infusa dalla grazia, quindi è voluta dall’alto ed è finalizzata alla salvezza) quanto la prospettiva laica, per la quale l’altruismo sarebbe in fondo solo una maschera dell’utilitarismo, una sorta di ipocrita tecnica di seduzione. Nell’uno e nell’altro caso, la motivazione è opportunistica. E tuttavia, afferma invece Hume, quasi rispondendo direttamente a Swift, “L’ipotesi che ammette una benevolenza disinteressata, distinta dall’amore di sé, ha realmente in sé maggiore semplicità ed è più conforme all’analogia di natura di quella che pretende di risolvere ogni sentimento di amicizia e di umanità nell’amore di sé”. Ovvero: gli uomini sono anche capaci di gesti e sentimenti che non possono essere spiegati con alcun tipo di vantaggio personale.

Ora, come Darwin anche Hume e Swift della genetica sapevano nulla, e in più non potevano nemmeno darsi una spiegazione di questi comportamenti in chiave evoluzionistica. Li analizzavano e li valutavano sulla scorta di una pura esperienza fenomenologica, come appunto vorrei fare io. E nel farlo confesso di trovarmi in una posizione un po’ confusa, perché penso che Hume abbia ragione a distinguere la benevolenza disinteressata dall’amore di sé, se di quest’ultimo diamo appunto una interpretazione opportunistica (egoismo); ci sono mille esempi che raccontano il contrario. Ma penso che abbia ragione anche Swift, quando dice che l’amor proprio di molti si esprime nel desiderare la felicità altrui, perché anche in questo caso è possibile portare un sacco di esempi a suffragio. Mi ha colpito, proprio mentre scrivevo queste considerazioni, la dicitura su una lapide dedicata ad un missionario alessandrino che ha operato ed è morto in Africa “… facendo si che la felicità altrui fosse l’unico obiettivo per il conseguimento della propria”. Non lo strumento, si badi bene, ma l’obiettivo: come a dire che l’una cosa non è possibile senza l’altra. Non so quanto la scelta del termine sia stata consapevole e ponderata: conoscendo gli amministratori pubblici nutro più di un dubbio. Ma certo la frase fa intravedere una possibile soluzione del problema. Possiamo infatti uscire dalla confusione riformulando così la domanda da cui siamo partiti: l’altruismo è una strategia o uno stratagemma, come dicono i biologi evoluzionisti, uno strumento, come dicono gli utilitaristi, o è invece un obiettivo, una forma “disinteressata” di amore di sé, come dicono con parole diverse Swift e Hume?

A questo punto, a dispetto della confusione di piani che ho creato, mi sembra che qualcosa, ad un livello teorico generale, si possa dare per acquisito: i nostri geni probabilmente non hanno coscienza del vantaggio altruistico, fanno la loro parte di geni e tirano a riprodursi il più possibile, senza perdersi nei calcoli di Hamilton. Ma noi, l’involucro, questa coscienza l’abbiamo, e sviluppiamo senza dubbio un sistema complesso e diverso di valutazioni di convenienza. Possiamo farlo in vista di un ritorno a breve termine, terreno, o di una ricompensa per il dopo, nell’al di là, ma in entrambi i casi la nostra è diventata una motivazione culturale, che nasce da una posizione religiosa o da una interpretazione “economica” dei rapporti umani.

Ora, stanti le premesse sul “significato etico” che stiamo cercando, potremmo chiudere qui il discorso e occuparci d’altro: ma la linea di confine sulla quale si situano taluni comportamenti è così labile e indefinita che mi sembra comunque opportuno renderne conto. Questo perché l’abito mentale costruito da millenni di cultura “umana” ha finito per aderire in maniera tale al nostro corpo da diventare una seconda pelle: ed è qui che si situa la terra di nessuno. Voglio dire che ci sono azioni, come quella di chi si butta in acqua per salvare persone che neppure conosce, e magari finisce lui stesso per annegare, che è difficile classificare come indotte dal determinismo genetico, ma anche leggere come gesti che abbiano una qualche giustificazione culturale opportunistica, religiosa o laica che sia. E non è nemmeno necessario arrivare al sacrificio della vita. Esistono diversi comportamenti “normali”, magari non comuni ma comunque diffusi, rispetto ai quali è opportuno fare un po’ di chiarezza.

Provo quindi a rispondere in base a quella che è solo una personalissima percezione. Molto all’ingrosso io distinguo tra due tipologie di altruismo: una “minimalista” ed una “massimalista”. Alla prima ascrivo coloro che applicano la formula “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Di per sé questo precetto, malgrado la sua evangelicità, sembra rimandare ad una visione piuttosto pessimista dei rapporti interumani, ad un cupo sfondo hobbesiano. L’altruismo di questo tipo lascia intravedere un atteggiamento difensivo e guardingo, che anche senza esprimersi in termini palesemente egoistici persegue una finalità egoistica: la salvaguardia del diritto alla libertà individuale. È un modello che potremmo quindi definire “liberale”, perché postula un altruismo poco invasivo e molto garantista. Ora, se interpretato e applicato alla lettera è anche un modello passivo: non è necessario fare alcunché di particolare, è sufficiente non fare qualcosa che possa danneggiare gli altri. Questo lo porrebbe addirittura al di fuori dei comportamenti etici di cui ho detto di volermi occupare.

Ma solo ad una analisi superficiale. A volte infatti anche il non intervento ha i suoi costi: può significare non approfittare di quel vantaggio che sarebbe a portata di mano spingendo un po’ più in là gli altri, giocare pulito, per dirla in termini sportivi, accettando il rischio e le probabilità di una sconfitta che ogni gioco pulito comporta. Ed ecco che già il quadro cambia: perché scegliere di giocare pulito, pur se in ossequio al più categorico degli imperativi etici, svincolato da ogni considerazione di opportunità, significa comunque accettare l’idea che anche gli altri possano farlo, e quindi concedere loro un credito di onestà. Non solo: significa ritenere che siano in grado di giocare, e quindi accreditarli di una potenziale competenza. Risponde pertanto ad una concezione laica e realisticamente ottimista, se non della vita in generale, almeno degli uomini. È il modello di chi, per aiutare un uomo affamato, anziché regalargli un pesce gli insegna a pescare: un modello severo, certamente, perché offre all’altro una chanche ma lo chiama anche ad assumersi le sue responsabilità. Potremmo quindi definirlo un atteggiamento “illuministico”, kantiano nei modi e leopardiano negli auspici (ma potrebbe calzare benissimo anche a Camus).

Vediamo invece cosa succede col secondo caso, quello che applica la formula: fai per gli altri quello che vorresti gli altri facessero per te. Questo è decisamente un modello molto più “cristiano”; racchiude in sé anche il primo precetto, ma lo declina poi in azione positiva e propositiva. Di primo acchito, anche se per le aspettative usa il condizionale in funzione ottativa, sembra supporre uno sfondo radioso, la fiducia nella bontà naturale dell’uomo. Non sono però così sicuro che le cose stiano in questo modo: anzi, a dirla tutta sono convinto del contrario. Il modello cristiano (ma potrei meglio definirlo come “romantico”, o meglio ancora escatologico, facendogli in tal modo comprendere anche tutte le religioni “secolari”, prima tra tutte il socialismo) è decisamente invasivo, perché fondandosi sulla fiducia in una perfettibilità umana (che sia raggiungibile sulla terra o no poco importa) induce appunto una volontà di redenzione universale. L’altruismo massimalista non si limita a garantire e rispettare le regole del gioco, dà per scontato che tutti debbano giocare, e magari offre anche “un aiutino” per invogliarli. Il fatto è però che non sempre quel che tu vorresti gli altri facessero per te piace anche a loro. Anzi, magari non vorrebbero proprio che per loro fosse fatto, come nello sketch della vecchietta e del boy scout che insiste per aiutarla ad attraversare la strada. Questo atteggiamento è quindi passibile di una deriva pericolosa, quella di volere il bene degli altri identificandolo con ciò che è il bene per noi. È quanto hanno fatto da sempre i grandi riformatori, salvo poi trovarsi costretti a pensare, di fronte alle deludenti reazioni al loro “altruismo”, che gli uomini non sono capaci di rigenerarsi da soli, ovvero di responsabilizzarsi, e che è quindi necessaria una bella scossa e soprattutto qualcuno che li guidi e li tenga in riga. È un altruismo del quale il beneficiario è l’Uomo, o meglio ancora una certa idea di uomo, anziché gli uomini nella loro diversità e magari povertà spirituale. E rischia di lastricare di buone intenzioni un sentiero che conduce all’intolleranza.

Vediamo ora di calare questi due modelli di comportamento nella quotidianità. Negli ordinari rapporti interpersonali (per quelli straordinari, nei quali entra in gioco ad esempio un sentimento come l’amore, il discorso si complica – anche se il succo rimane lo stesso) io identifico l’altruismo “a bassa intensità” con l’attenzione a creare il minor disturbo possibile agli altri, nel senso tanto di chiedere aiuto solo in situazioni di necessità assoluta quanto di usare molta discrezione nell’offrirlo. Può sembrare una disposizione scontata, ma non lo è affatto: le soglie dell’assoluta necessità sono molto variabili da un individuo all’altro, e direi che prevale piuttosto la tendenza al coinvolgimento altrui, in entrambi i ruoli. Un’attitudine più discreta rischia quindi spesso di essere interpretata come specchio di un’indole fredda e asociale: in realtà non è dettata dal disprezzo e dall’insofferenza nei confronti degli altri ma, al contrario, da un totale rispetto, che a sua volta può nascere solo da una sensibilità sincera. Chi preferisce appartarsi come i gatti per leccare le proprie ferite, fisiche o morali, non lo fa sempre e solo per orgoglio o per difesa: è una questione di misura, come si diceva sopra, che varia anche nei confronti del tasso di sollecitudine “in ingresso” considerato da ciascuno accettabile e compatibile con la propria libertà. Che poi la sensibilità eccessiva possa dar luogo ad una vera e propria sindrome, e il timore di creare disagio possa diventare esso stesso un disagio, e il tutto rovesciarsi in un atteggiamento puramente difensivo, è solo una deriva patologica: l’origine e l’intenzione sono positive.

Considero invece “massimalista” l’offerta spontanea ma invadente di soccorso, che è tale nella misura in cui non è strettamente necessaria, e che sottintende sempre una reciprocità. Anche quando non ci siano dubbi sulla buona fede, e a prescindere dalla stessa, credo che il vero altruismo debba essere sobrio, contenuto e assolutamente disinteressato. Non ho nulla contro l’altruismo reciproco di Trivers, ma penso che come per tutte le cose preziose occorra dosarlo. E, ripeto, in tutto questo non trovo alcun indizio di misantropia. Anzi: sono convinto che se si dà con giusta parsimonia e si chiede solo quando è indispensabile si risparmiano energie positive, proprie e altrui, che possono essere spese in più direzioni. In queste condizioni si riesce molto più aperti e disponibili verso gli altri in generale di quanto lo siano coloro che concentrano troppe energie su pochi oggetti di attenzione. Non si creano dipendenze, e soprattutto il saldo del dare e avere viene mantenuto entro limiti che non umiliano nessuno. Siamo nuovamente al discorso del rispetto, di sé e degli altri, che è poi evidentemente la chiave di tutto.

Nei rapporti quotidiani noi identifichiamo spesso l’altruismo con la compassione. Questa identificazione ha un riscontro ad esempio nella precettistica cristiana relativa alle “opere di misericordia”, spirituale e corporale (dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, consolare gli afflitti, ecc …,); precettistica che è poi stata ripresa e secolarizzata dai vari socialismi e dalle politiche del welfare (per la parte corporale), dalla psicoanalisi e dalle rubriche di posta dei rotocalchi (per quella spirituale). Ora, non c’è dubbio che si tratti di ottimi precetti, ma io ritengo che il vero altruismo non sia rappresentato dalla “misericordia”, quanto piuttosto dal rispetto. E il rispetto non ha nulla a che vedere con la compassione. Quest’ultima infatti, a dispetto dell’etimo (cum pati), non nasce dalla considerazione dell’altro su un piano di parità: scaturisce piuttosto da un senso di superiorità, e ci gratifica due volte, perché ci rassicura sulla nostra condizione e ci consente di godere della riconoscenza altrui e del compiacimento con noi stessi. La compassione è quella che porta a regalare un pesce, o magari a moltiplicarli se gli affamati sono troppi, inducendo quindi questi ultimi ad aspettarsi che il miracolo si ripeta. È senza dubbio moralmente meno impegnativa, perché il rispetto imporrebbe invece di chiedere a tutti i convenuti come mai non hanno portato nulla da casa, di lasciarli a digiuno e di insegnare loro ad essere più previdenti la prossima volta. Allo stesso modo, la compassione è quella che ci porta ad assecondare o a giustificare le mattane di un amico in crisi sentimentale, mentre il rispetto è quello che ci induce a dargli una strigliata e invitarlo a non fare il cretino. Mi rendo conto che non è un atteggiamento molto popolare, e infatti le folle si radunano dove c’è promessa di miracolo, e gli amici dove c’è speranza di “comprensione”, mentre disertano chi li richiama alla responsabilità: ma non credo sia il successo la misura della bontà dell’altruismo.

Occorre anche distinguere tra altruismo etico e simpatia. Un altro scozzese, Adam Smith, sosteneva che gli uomini sono tenuti assieme dalla simpatia. “Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla”. Simpatia significa, etimologicamente (deriva dal greco sun pathein) mettersi nei panni degli altri. È un atteggiamento diverso da quello della compassione, malgrado l’identica origine etimologica, perché a differenza di quest’ultimo suppone un livello paritario tra l’agente e l’oggetto. Per un senzatetto che dorme su una panchina fasciato di cartoni possiamo provare compassione, difficilmente abbiamo un moto di simpatia. Proviamo simpatia di fronte a situazioni di sofferenza o di indigenza nelle quali in qualche modo almeno potenzialmente ci riconosciamo; ovvero quando riusciamo a immaginarci al posto degli altri. Questa identificazione ci induce a desiderare un mondo in cui situazioni del genere non si diano, e a sperare che se dovessero verificarsi per noi altri verrebbero in nostro soccorso. Ma difficilmente riusciamo a immaginare di vivere su una panchina, e meno che mai a confidare nell’aiuto di un barbone.

C’è anche un altro risvolto. Smith, da osservatore realista qual era, aggiungeva che noi in effetti siamo molto propensi a simpatizzare con le sfortune altrui, un po’ meno con le fortune. Malgrado la simpatia non siamo capaci di godere del tutto sinceramente della gioia degli altri, a meno che siano in gioco quei sentimenti che definiamo amore o amicizia (ma questo restringe di parecchio la rosa dei potenziali oggetti del nostro interesse). Sembra prevalere la sensazione che ciò che è dato loro in qualche modo sia sottratto a noi. Quindi, quando va bene rispettiamo i successi altrui, ma non ce ne sentiamo davvero partecipi, perché in realtà non siamo soddisfatti di noi stessi.

E questo in linea di massima è vero, vale per la maggior parte degli uomini e segna appunto il limite della simpatia. Non è nemmeno sufficiente il rispetto dell’altro, che nel caso della simpatia si professa ponendolo sul nostro stesso piano, a soddisfare i requisiti di un altruismo etico. Occorre salire un altro gradino, quello che attraverso il conquistato rispetto di sé conduce alla stima nei confronti dell’altro, e quindi al vero altruismo etico.

Io credo che questo livello esista. È quello in cui la simpatia si traduce in solidarietà: quello cioè in cui non solo si desidera il riscatto degli altri, ma si agevola il loro successo, perché la partecipazione è tale che lo si sente come proprio. Di qui la possibilità di un’attitudine disinteressata: non ci si attende alcun ritorno, alcuna contropartita, perché il ritorno è già implicito nella felicità altrui. Ciò che inconsciamente facciamo per diffondere o per salvaguardare un patrimonio genetico, attraverso la solidarietà lo facciamo per diffondere o salvaguardare un patrimonio etico. La solidarietà è dunque il livello al quale avviene davvero il distacco, lo sganciamento dalle ragioni del gene: la scelta si autonomizza e diventa totalmente “culturale”.

In questo senso leggo l’obiettivo del missionario alessandrino: la felicità altrui va intesa come presupposto, condizione necessaria, e non come strumento della propria. Non fatico a credere nella sincerità di questo intento: ho conosciuto più di un missionario, e in nessuno di loro ho mai trovato prevalenti le ragioni del proselitismo, l’impegno a realizzare conversioni e a salvare delle anime; erano motivati da una solidarietà molto concreta, dall’impegno a rendere più tollerabile la vita per i loro simili, appunto perché sentiti come simili. E a nessuno passava per la testa che quello fosse un modo per guadagnarsi il paradiso. Semplicemente, dopo aver conosciuto certe realtà sentivano che non avrebbero mai più potuto essere in pace con se stessi se non intervenendo in qualche modo per alleviarle; erano coscienti della quasi inutilità del loro sforzo, ma anche e prima di tutto dell’imperativo categorico a provarci, a qualsiasi costo.

Questa non è affatto compassione: in questo caso metti l’altro sul tuo stesso piano, anzi, sei tu che si poni sul piano suo, e non lo soccorri a distanza, donando un euro ad ogni campagna umanitaria, ma lo tratti da persona nella quotidianità, condividendone piccole gioie, grandi paure, spaventose povertà. I missionari che ho incontrato, religiosi o laici che fossero, erano la testimonianza vivente di quanto asserisce Hume, ma anche di quello che scrive Swift: il loro amore di sé era diventato amore degli altri. E non mi si venga a raccontare che c’è dietro il narcisismo, la necessità di sentirsi buoni, l’ambizione alla santità, ecc…. No, dietro stanno le stesse ragioni per le quali, al vedere qualcuno che sta annegando, ci si butta a soccorrerlo senza calcolare la velocità della corrente o la temperatura dell’acqua: per le quali molti si sono giocati la pelle per soccorrere un commilitone ferito e cercare di portarlo via da sotto il fuoco; per le quali molti alpinisti non avranno mai il coraggio di tagliare la corda alla quale è appeso un loro compagno, anche a rischio di precipitare insieme a lui. Perché uno, dopo, non riuscirebbe più a vivere, non potrebbe più rimanere un attimo solo con se stesso se non fosse corso in soccorso, se avesse visto il proprio simile precipitare, annegare o agonizzare per ore. E questo indipendentemente da vincoli particolari, di amicizia, di amore, di parentela, senza alcun calcolo di condivisione dei geni.

Ma, come dicevo, non è necessario arrivare a questi gesti estremi. La quotidianità offre tutta una vasta gamma di esempi e di situazioni eticamente altruistiche, dallo studente che non sopporta di vedere vessato un compagno, e lo difende contro l’idiozia altrui, al donatore di midollo che si sottopone ad un delicatissimo prelievo per salvare uno sconosciuto. Anche le scelte di adozione a mio parere ci rientrano, malgrado si tenda a pensare (soprattutto da parte di chi non ha avuto il coraggio di farle) che siano motivate da un egoistico bisogno di essere amati. Ma, al di là del fatto che il bisogno di essere amati è connaturato in tutti, e quindi sta sotto, in qualche modo, a qualsiasi nostro gesto, il meccanismo non è affatto quello. Qui il determinismo naturalistico alla perpetuazione del gene non c’entra. Se qualcosa si mira a trasmettere è semmai una continuità culturale, e si sceglie di farlo. L’investimento dal punto di vista genetico è tutto a perdere: a motivare è la ricerca di un senso per la propria esistenza, e il senso (ovvero la felicità propria) viene identificato nella felicità altrui.

Non credo sia il caso di dilungarsi ancora. Gli esempi che ho proposto, sia pure in ordine sparso, mi sembrano sufficienti a confermare che l’altruismo, quand’anche fosse geneticamente determinato, assume poi nella complicazione dei rapporti interumani una curvatura tutta particolare. Diventa il prodotto di quella cultura che nella versione “misericordiosa” era aborrita da Nietzsche e in quella solidaristica era affermata da Camus, e che tutto sommato ha contribuito al successo della specie in maniera sin troppo efficace. Siamo dunque eticamente altruisti perché uomini, e siamo diventati uomini perché animali eccezionalmente altruisti.

Ciò non significa naturalmente che tale disposizione sia universalmente diffusa. Così come è evidente, a volerla cogliere, l’esistenza di un altruismo etico, non occorre un grosso sforzo per vedere quale parte preponderante abbia l’egoismo nei comportamenti collettivi. Ma il mio assunto era cercare di capire (contravvenendo in ciò al monito di Swift) quanto in queste attitudini sia frutto di natura e quanto di cultura. Bene, sono arrivato a realizzare che una disposizione genetica all’altruismo c’è, ma viene poi enfatizzata (o in qualche caso repressa) dalla “cultura” nella quale si cresce, fino al punto da farle dimenticare o sconfessare la propria origine biologica. Quel punto coincide con il traguardo della consapevolezza, che una volta digerita e accettata diventa coscienza; e se anche non segna una emancipazione totale dal determinismo, ne limita assai la portata. Varcato quel traguardo siamo liberi di scegliere, ma siamo altresì obbligati ad assumerci la responsabilità delle nostre scelte.

Mi sembra che, dopo quella delle lucciole, l’eclisse (parziale) del pidocchio sia un altro segnale forte della trasformazione ecologica e antropologica in atto. Ma le lucciole piano piano stanno tornando, segno che si sono adattate al nuovo ambiente. E se l’ombra della crisi che stiamo attraversando dovesse allungarsi, cosa più che probabile, presto torneranno anche i pidocchi2. Sarà quella la rivincita della natura sulla cultura? o sarà forse la ripartenza della socialità perduta e dell’altruismo?

Saviane ne sarebbe entusiasta. E non vi dico i bonobo!

1 Bontà Loro fu il primo talk show della televisione italiana. Era condotto da Maurizio Costanzo, all’epoca celibe e ancora lucido, andava in onda ad ore tardissime, sulla seconda rete nazionale, e prevedeva un solo ospite per ogni puntata.

2È da rilevare, per inciso, che la riabilitazione del pediculum incontra oggi un’accoglienza molto più entusiasta di quella ricevuta nel salotto televisivo di Costanzo: un certo integralismo naturista, legato alla cultura new age, vede nello spidocchiamento un felice momento di coesione familiare, da contrapporsi all’atomizzazione prodotta dalle serate televisive. Persino la profilassi ufficiale non lo demonizza più, e fa buon viso al fatto che non si riesce comunque ad evitarne la periodica ricomparsa. L’isteria da pidocchio sembra ormai confinata nel mondo delle madri ansiose, e legata più ad un problema di immagine sociale che di preoccupazione igienica.

Mi concedo anche una notazione lessicale. Nel dialetto lermese esistono due termini derivati da “sgöggiu” (pidocchio): “sghigiùn”, che significa pidocchioso, ma nell’accezione più spirituale che materiale di persona limitata e testarda, o anche avara, e “sghigìn”, che sta per schiacciatore maniacale di pidocchi: quello fastidiosamente puntiglioso, che fa letteralmente le pulci a tutti e a tutto. A dimostrazione di quale potenza e varietà di significati consenta il dialetto, anche attraverso alterazioni leggerissime dei suoni.

 

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