Risvegli

di Paolo Repetto, 29 luglio 2023

Nelle Vite dei maggiori filosofi Diogene Laerzio racconta di un giovane cretese, Epimenide, che fu mandato un giorno dal padre in campagna a cercare una pecora dispersa. Dopo aver girovagato a lungo il ragazzo, sfinito per il caldo e la fatica, si addormentò in una caverna, per risvegliarsi solo cinquantasette anni dopo. Devo dire che Diogene Laerzio non è particolarmente attendibile, tirava un po’ all’enfasi sensazionalistica, e che altri che hanno scritto di Epimenide prima di lui, come lo stesso Platone e poi Plutarco, non fanno cenno a questo episodio, mentre colui che fu probabilmente la sua fonte, lo storico-geografo Pausania, parla di “soli” quarant’anni. Anche nelle trasposizioni moderne della leggenda (Goethe ne Il risveglio di Epimenide e Washington Irving ne La leggenda di Rip Van Winkle) le cifre sono discrepanti: cinquant’anni di sonno per il primo, venti per il secondo: ma c’è una spiegazione, e la vedremo.

La sostanza della storia è comunque che, a prescindere dalla durata del riposino, al suo risveglio Epimenide trovò il mondo molto cambiato, quasi irriconoscibile (e si parla di sei o sette secoli prima di Cristo). A quanto pare già in gioventù il bell’addormentato era un tipo poco convenzionale (ad esempio, portava i capelli lunghi, contro l’uso dei tempi) ed è naturale che al momento in cui rientrò dal mondo dei sogni la sua eccentricità apparisse ancora più marcata. Ma nelle società antiche la stranezza, se da un lato era vista con sospetto, dall’altro veniva letta come spia di facoltà speciali, in questo caso divinatorie. Epimenide cominciò dunque ad essere chiamato in tutta l’Ellade per fornire consulenze su situazioni difficili. Lo interpellarono anche gli ateniesi, prostrati da un’annosa pestilenza, e il nostro risolvette in quattro e quattr’otto il loro problema, identificandone le cause; poi se ne andò, schivo di onori e rifiutando oltretutto qualsiasi compenso (era davvero un eccentrico). Pare invece che, come sempre accade, non fosse particolarmente apprezzato dai suoi compatrioti, dei quali infatti diceva: “Cretesi, cattive bestie, ventri pigri, mentitori sempre” (questa invettiva gli è attribuita da Paolo di Tarso). Di qui il famoso paradosso del mentitore, per cui, essendo lui cretese, se tutti i cretesi mentono nemmeno lui è credibile, e le sue accuse sono infondate.

Ma non è questo che mi interessa. Mi interessano invece la capacità divinatorie, perché interrogato sull’origine dei suoi poteri Epimenide si scherniva asserendo di non vaticinare rivolgendo lo sguardo al futuro, ma sulla base della conoscenza del passato. Mi pare un’affermazione tutt’altro che scontata, degna nel caso specifico di una riflessione più approfondita: credo infatti che il filosofo-vate non volesse affermare semplicemente che pensare al passato è fondamentale per capire il presente e orientare il nostro futuro, cosa abbastanza ovvia (anche se oggi non lo è affatto). Intendeva dire, sulla base della sua straordinaria esperienza, che chi per qualche motivo è rimasto più strettamente vincolato al passato, o non ha vissuto direttamente i cambiamenti, quando se li trova di fronte è in grado di apprezzarne la reale portata, si rende conto più nitidamente della di-stanza intercorsa. È in fondo ciò che accade a noi tutti, che non avvertiamo i mutamenti che avvengono in noi stessi e nelle persone con le quali abbiamo maggiore consuetudine, mentre li constatiamo sgomenti in coloro che abbiamo perso di vista per venti o più anni.

La cosa mi coinvolge perché in qualche modo un’esperienza simile a quella di Epimenide la sto vivendo anch’io. Provo sempre più spesso la sensazione di risvegliarmi da un lungo letargo e di trovarmi di fronte ad una realtà nella quale non mi raccapezzo. Ne avrei tutti i motivi, perché nel frattempo la trasformazione del mondo ha conosciuto un’accelerazione esponenziale. I cambiamenti che mi sorprendono in realtà io li ho vissuti da dentro, sono passati sulla mia pelle, sul mio corpo, sulle mie speranze e aspirazioni (lasciando anche cicatrici evidenti): eppure, sarà senz’altro per effetto dell’età e del rimbambimento senile, che induce anche patologiche nostalgie, il mondo nel quale mi risveglio ad ogni notizia di telegiornale, ma anche ad ogni esperienza di quotidiana banalità, non lo riconosco, non mi piace, mi respinge (il che potrebbe in fondo essere un bene, perché avrò meno rimpianti al momento di lasciarlo). Insomma, l’impressione è di essermi addormentato sessant’anni fa pieno di certezze e di speranze e di risvegliarmi oggi pieno di dubbi e di delusioni.

Per esemplificare questa sensazione ricorro ad alcune notazioni che ho appuntato in una giornata tipo della scorsa settimana. Non tengo un diario, ma assicuro che è andata proprio così, non sto inventando nulla.

Dopo aver tentato invano di chiudere gli occhi per più di un paio d’ore consecutive, e troppo stanco per leggere, mi piazzo ad un un’ora antelucana davanti al televisore, lasciando scorrere distrattamente le immagini mute e sperando nel loro effetto soporifero. Ad un certo punto però mi imbatto in un vecchio film-documentario, di quelli in voga nei tardi anni cinquanta, che giocavano maliziosamente col pretesto del cinema-verità per offrire agli spettatori immagini che all’epoca apparivano pruriginose. Si tratta di Europa di notte, di Alessandro Blasetti, che quella moda l’ha inaugurata. Mi sono perso tutta la parte “spettacolare”, ma mi godo invece lo spezzone finale, quello davvero documentale, che mostra in bianco e nero una Roma percorsa ai primi chiarori dell’alba dalla cinepresa, a raccontare un lento risveglio dopo i bagordi notturni: una Roma semideserta (per le strade ci sono solo i netturbini e distributori dei pacchi dei giornali alle edicole), grigia ma pulitissima (è quella dei film tardo-neorealistici, tipo Poveri ma belli – quella sporca comincerà ad apparire solo tre anni dopo, con Accattone).

Il caso (?) vuole che uno dei servizi del telegiornale trasmesso immediatamente dopo sia dedicato proprio all’immondizia che sta sommergendo ormai da decenni la capitale. Roba da chiedersi come abbia fatto una città che un tempo dominava il mondo – e già all’epoca era abitata da più di un milione di persone – a ridursi ad un tale letamaio. E non c’è in giro un Epimenide da consultare (se ci fosse se ne andrebbe via di corsa), o meglio, ne vengono consultati una miriade, ma si limitano a intascare il compenso. Soprattutto non c’è l’ombra di netturbini (anche se a ruolo paga ne risultano duemilaquattrocento).

Con la prima sigaretta arriva anche la prima riflessione: allora la mia non è solo una percezione distorta, falsata dalla nostalgia: il mondo che ho conosciuto prima di addormentarmi era molto più pulito, nelle città come nelle campagne, lungo le strade di montagna come sul greto dei fiumi. Come ho già raccontato altrove, nelle campagne non si producevano rifiuti: tutto veniva riutilizzato, legno e carta per le stufe, l’organico per gli animali o come fertilizzante, la plastica non esisteva e le bottiglie di vetro erano preziose, i mobili, gli abiti e persino la biancheria passavano di padre in figlio. Persino le cicche venivano disfatte per recuperare il tabacco. Lungo le strade che salivano al paese e nelle vie interne le cunette erbose erano rasate ogni tre o quattro giorni, a ciascun cantoniere competeva la manutenzione di un tratto e c’era una vera e propria gara a chi lo teneva più in ordine. Anche nelle città funzionava una raccolta minuziosa. A Genova, dove ho trascorso nell’infanzia brevi periodi presso una zia portinaia, lo smaltimento dei rifiuti era quasi un rito, i netturbini erano implacabili con chi non rispettava i tempi e i luoghi del conferimento. Certo, la mia è una visione di superficie, ma almeno la superficie era pulita.

Risvegli 02

Mentre attendo che il caffè gorgogli nella moka il telegiornale prosegue. Un automobilista ubriaco, tra l’altro già privato un sacco di volte della patente, ha sterminato una famiglia che passeggiava tranquillamente a bordo strada. Gli omicidi stradali danno ormai vita ad una rubrica quotidiana, come i femminicidi e le previsioni meteo. Quando mi sono assopito, sessant’anni fa, naturalmente queste cose non accadevano. Mi si obietterà che circolavano forse un cinquantesimo delle auto odierne, ma la realtà è che c’erano anche molti meno ubriachi, alla faccia delle statistiche che vengono sbandierate ad ogni occasione, e quelli che c’erano in genere potevano fare del male solo a se stessi. Durante tutta l’adolescenza e la giovinezza non ricordo comunque di aver mai visto un mio coetaneo sbronzo. C’era sì qualche adulto o qualche anziano che alzava il gomito, ma al massimo capitava di trovarlo steso in una cunetta, dove aveva trascorso la notte dentro la neve, protetto dall’antigelo che circolava nel suo corpo. Oggi, a quanto mi arriva, lo sballo e la sbornia sono diventate abitudini giovanili, riti di passaggio che tendono a protrarsi poi all’infinito, e hanno anche cancellato le differenze di genere.

Al contrario di quanto faccio al solito, dopo il caffè non spengo il televisore. Una sindrome masochistica mi spinge a seguire anche le notizie internazionali. A meno di duemilacinquecento chilometri da noi, distanza che un aereo di linea percorre in tre ore, è in corso una guerra. Dopo quasi un anno e mezzo di carneficina, della quale non conosciamo nemmeno approssimativamente i costi reali, in vite umane, in sofferenze e in distruzioni, siamo a constatare che la cosa potrebbe durare all’infinito, così come evolvere all’improvviso in un disastro globale. Ci siamo già assuefatti, e le notizie dal fronte arrivano ormai di spalla, dopo le polemiche sulla Santanché e su La Russa.

Risvegli 03

Nessuno dei miei coetanei, nati a immediato ridosso dell’ultimo grande conflitto, avrebbe mai immaginato sessant’anni fa una cosa del genere. Si parlava di guerra fredda, è vero, veniva evocato ad ogni piè sospinto lo spauracchio nucleare, ma almeno dalle nostre parti (intendo in Italia, e penso anche al resto d’Europa) nessuno ci ha mai creduto veramente. A differenza che negli Stati Uniti, le aziende produttrici di rifugi antiatomici da noi hanno chiuso velocemente i battenti, e i pochi che sono stati venduti erano più intesi ad esibire uno status che a garantire una improbabile sicurezza.

Questo non significa che le guerre non ci fossero, che non fossero sanguinose e che non ne avessimo notizia. Sapevamo dell’Algeria, del Congo, del Biafra, del Vietnam e di tutti gli altri conflitti in corso in ogni angolo del mondo. Ma almeno li percepivamo come gli ultimi sussulti di un imperialismo in agonia, speravamo che avrebbero chiuso definitivamente la vergogna dello sfruttamento coloniale e aperto ad un mondo più giusto. Non è certamente il caso di quest’ultimo scontro: ed è indubbiamente assai più concreto il rischio di una deriva nucleare, anche se lo si esorcizza parlando di “atomiche tattiche”. Sembra che il mondo si sia rassegnato alla ineluttabilità di questo esito.

Di fronte a tutto ciò appare ancora più colpevole e scandalosa l’impotenza dell’Europa. All’epoca l’Unione Europea era ancora in fasce, esisteva solo per determinati settori economici, ma davvero si credeva che avrebbe potuto evolvere in una realtà politica. Magari eravamo tutti molto più ingenui, e non solo noi ragazzi, ma a volere questa unione era una classe politica che aveva vissuti gli orrori della guerra ed era determinata a non consentire che si ripetessero. Se potesse assistere allo spettacolo offerto dalle istituzioni politiche europee odierne inorridirebbe.

In appendice alle immagini della guerra arrivano quelle degli sbarchi dei migranti dall’Africa e dall’Asia. Nella sola giornata di ieri se ne sono contati settecento, e si sospetta che almeno un centinaio siano scomparsi nelle acque dello Ionio. Non riesco a seguire le polemiche e le dichiarazioni su accoglienza, respingimenti e ricollocazioni: un teatrino nauseante. Da neo-risvegliato mi colpiscono invece la natura e la dimensione del fenomeno. Mi ero assopito più mezzo secolo fa nella convinzione che la grande novità del terzo millennio sarebbe stata costituita da un terzo mondo finalmente libero e indipendente, capace di giocare un ruolo da protagonista: non mi aspettavo certo che la cosa prendesse questa tragica piega. Anche se non sono mai stato facile agli entusiasmi “rivoluzionari” del terzomondismo (voglio dire, niente Cuba, niente libretto rosso, niente Angola, ecc…), se guardo alla situazione geopolitica mondiale con gli occhi di allora non posso che rimanere allibito. È accaduto tutto il contrario di quanto speravo: il colonialismo ha cambiato pelle e ha trovato nuovi interpreti (la Cina, la Russia, gli stati arabi del golfo, …), le classi dirigenti indigene, in Africa come in Asia come nell’America Latina, hanno dato di sé pessima prova, dimostrandosi tutte egualmente incapaci e corrotte, quale che ne fosse l’estrazione o l’ideologia di riferimento, l’ONU è un baraccone privo di qualsiasi credibilità e potere, mentre tutte le agenzie specializzate che ha partorito, come l’UNESCO, la FAO e compagnia cantante sono diventate delle greppie inefficienti alle quali si nutre un numero scandaloso di funzionari, reclutati per lo più nei paesi “in via di sviluppo” e affamatissimi. Certo, hanno concorso gli stravolgimenti climatici, la desertificazione, lo sfruttamento criminale delle risorse operato dalle potenze neocoloniali: ma quello che balza agli occhi è ad esempio il fallimento di ogni progetto di “negritudine”, quello che aveva ispirato i primi anni dell’indipendenza africana. Altro che terzomondismo: e infatti, persino il termine è sparito dal vocabolario politico (così come “negritudine”, che da bandiera è diventata un insulto), e l’eredità è stata raccolta dall’azione “caritatevole” delle organizzazioni non governative, che anche quando sono in buona fede sembrano travasare l’acqua dell’oceano con un cucchiaio.

Risvegli 04

Le previsioni del tempo completano il quadro. Mezza Europa è prostrata da temperature torride, una buona parte è devastata da roghi che mandano in cenere il poco che rimane del patrimonio boschivo, mentre l’altra mezza è bombardata da fenomeni atmosferici estremi, trombe d’aria, bombe d’acqua, grandinate. Questo accadeva senz’altro anche sessant’anni fa, e seicento, e seimila: ma si trattava di situazioni eccezionali, ed erano percepite come tali. Oggi rappresentano la nuova “normalità” meteorologica, al di là dei titoli strillati sui quotidiani e del sensazionalismo isterico dei notiziari televisivi: una “normalità” percepita attraverso lo stravolgimento mediatico, nel quale all’afa e alla grandine si aggiungono le inconcludenti polemiche tra catastrofisti e negazionisti (che, è sin troppo scontato dirlo, lasciano il tempo che trovano). La chiusa finale, prima del diluvio pubblicitario, reca almeno una nota comica, ma di una comicità desolante, priva di qualsiasi umorismo: sono i consigli dispensati degli esperti, che tutti seri in volto e qualche volta supportati dall’autorevolezza di una divisa suggeriscono di bere molta acqua e di stare all’ombra, o nel caso opposto di rimanere in casa durante i nubifragi e non cercare riparo sotto gli alberi.

È ora di spegnere e di staccarsi dal divano. Una passeggiata solitaria mi porta al Capanno, dove trascorrerò il resto della mattinata trafficando e leggendo. Ma lungo il percorso mi guardo attorno. Sessant’anni fa questa passeggiata la ripetevo quattro volte il giorno, con un passo decisamente diverso, oppure in bicicletta. L’ultima casa del paese era in fondo al viale, dopo partivano i vigneti. Non c’era un metro di incolto, e a vista d’occhio i filari coprivano le colline più prossime ma anche quelle al di là del fiume. Dalla tonalità di verde delle foglie potevi capire dove maturavano il dolcetto, la barbera, il moscato. Oggi la macchia ha riconquistato tutti i declivi. Nella Valle del Fabbro non c’è più una sola vite, l’unico fazzoletto di coltivo è costituito dal mio frutteto, anch’esso purtroppo in via di inselvatichirsi. Per certi versi può apparire un angolo paradisiaco, ma è il paradiso dei rovi, e anche se egoisticamente me lo godo non può non trasmettermi la sensazione triste dell’abbandono.

Per la lettura mi rifugio in alcuni fascicoli de Le vie del mondo, risalenti agli anni in cui mi sono addormentato. Ho conferma di ciò che scrivevo sopra quanto alle aspettative su un mondo più libero, più giusto, più pacifico. E noto anche come non ci sia traccia di razzismo nella descrizione di paesi e di popoli lontani, appena emersi dal limbo della storia: c’è solo una gran curiosità, checché ne dicano gli odierni cancellazionisti, per i costumi, per le tradizioni, per le prospettive future che ciascuna di queste culture potrà perseguire senza negarsi. L’occidente non ha atteso i cultori della memoria particolaristica per farsi un esame di coscienza, come ben sa qualsiasi appassionato del western classico: nel cinema degli anni Cinquanta dietro ogni rivolta o scorreria o massacro operato dagli indiani c’erano la mano o le mene di mascalzoni bianchi.

Nel pomeriggio cerco consolazione dal Tour de France. Un tempo, nel dormiveglia di fine secolo scorso, andavo a seguirne dal vivo qualche tappa alpina. E prima della metà degli anni Sessanta lo vivevo attraverso le radiocronache. Ho tifato e ho urlato anch’io, ma quella che vedo oggi è una mandria di idioti assiepati lungo le salite, che intralciano con bandiere e cartelli la fatica dei corridori, corrono al loro fianco mezzi nudi per scattarsi un selfie, rischiando ad ogni passo di buttarli a terra, o si parano davanti alle moto bardati da cerebrolesi per strappare un attimo di visibilità internazionale. Non mi si venga a dire che è sempre stato così, che anche Bartali e Nencini erano stati ostacolati: si tratta di cose ben diverse. Là c’era di mezzo uno sciovinismo esasperato, stupido ma ingenuo: qui vediamo invece manifestarsi platealmente gli effetti del rincretinimento mediatico, della spettacolarizzazione di tutto, e in primis della stupidità. Lo sciovinismo, il tifo, sono degenerazioni della sportività: questa è invece degenerazione assoluta, una crescente tabe antropologica.

Non riesco neppure ad attendere l’arrivo della tappa, sono disgustato. Esco a fare un giro per strada. Il paese sembra un villaggio fantasma. Non un’anima, neppure un cane o un gatto (oggi vivono in casa), e non certo per via del Tour. È già l’ora nella quale dalle porte delle case che si affacciano in via Benedicta o dai vicoli che ne dipartono uscivano sedie e sgabelli, e zie e nonne e mamme si riunivano in capannelli lungo la strada, dandosi sulla voce da un gruppo all’altro, commentando ogni passaggio e facendo la tara ad ogni acquirente che uscisse dai negozi aperti sullo stradone. Oggi i capannelli non ci sono più, in compenso malgrado il divieto ci sono auto posteggiate lungo tutta la via, e non ci sono più nemmeno i negozi (erano dodici, oggi ne rimane uno). Se muore qualcuno paradossalmente se ne ha notizia solo il giorno dopo, dai manifesti affissi nella bacheca, se qualcuno è malato o finisce all’ospedale lo si viene a sapere quando ricompare, per i pettegolezzi ci si può rivolgere solo all’agenzia informale che opera davanti al bar, ma con gravi ritardi e scarsi dettagli. Insomma: non c’è più alcun controllo sociale, e questo in un paese di meno di mille abitanti. Figuriamoci in città. L’unico controllo è quello che passa attraverso gli iphone, ma è tutta un’altra faccenda.

In tre quarti d’ora, misurando il passo e cercando di cogliere i minimi indizi di cambiamento, di interventi edilizi, di restauro dei muri e degli infissi, dei segni di vita insomma, faccio il giro completo del paese. Incrocio quattro persone, e non ne conosco nemmeno una. Più della metà degli attuali abitanti è arrivata recentemente da fuori, attratta dai costi stracciati delle case – che nonostante ciò rimangono invendute per anni.

Alla metà del secolo scorso, quando i residenti erano quasi il doppio, li conoscevo benissimo tutti, sapevo dove abitavano, che attività svolgevano, che carattere avevano, se fossero affidabili o meno. Oggi mi sento uno straniero nella terra nativa. Continuo a non chiudere a chiave la porta la notte, ma in realtà non sono più così serenamente fiducioso.

Risvegli 05

Scende finalmente la sera, e con essa torna purtroppo anche l’incubo dell’insonnia. Una volta era costume tirar tardi in cortile, dove confluivano vicini, dirimpettai e passanti occasionali: ma dopo la morte dei miei genitori la consuetudine si è rapidamente persa.

La televisione naturalmente non aiuta, i film sono gli stessi già trasmessi cinquanta volte, persino i western sono inguardabili, ridotti a uno spezzatino in un mare di pubblicità, i talk show sono un oltraggio costante al pudore intellettuale. Non restano che i libri, ma anche la dondolo a quest’ora è scomoda, e a letto ogni posizione di lettura è immediatamente stancante. Spengo la luce, chiudo gli occhi e mi concentro.

Realizzo che per tutta la giornata ho comunque fatto uso senza pensarci affatto di strumenti (il computer, il cellulare, il forno a microonde, ecc …) dei quali sessant’anni fa nemmeno avrei sospettato l’avvento, e di altri dei quali non avevo la disponibilità (auto, telefono, televisione, …). Che ho mangiato cibi conservati in confezioni di plastica, e lo stesso vale per le bevande. E che tutto sommato, a dispetto della consapevolezza negativa, ho anche pensato secondo gli schemi conseguenti a tutto questo modo di vita. Solo ora mi rendo conto di quanti bisogni artificialmente indotti ho cumulato, di quanto ne sono diventato dipendente. Mi vien da pensare di essermi mosso per tutto questo tempo come un sonnambulo. Di fatto, mi piaccia o meno, mi sono adeguato a tutti i cambiamenti, a tutte le novità. Non dico di averli digeriti o capiti tutti, ma quantomeno ci ho convissuto. E nemmeno ho scordato come il mondo preletargico non fosse propriamente un Eden. Diciamo che ho vissuto in uno stato di coma vigile, e che forse sono meno convinto di quanto credo di volerne davvero uscire.

Comunque ci provo. Può essere che stavolta mi addormenti, per risvegliarmi sessant’anni addietro. Non con sessant’anni di meno, non è questo a interessarmi. Eden o no, ciò che rivoglio, almeno per un attimo, è quel mondo.

P.S. Ho accennato inizialmente alle discrepanze sulla durata del sonno di Epimenide (alias Rip Van Vinkle) che si trova nelle versioni moderne della leggenda. Me ne do questa spiegazione. Goethe scrive Il risveglio di Epimenide nel 1814. Dietro l’opera c’è una motivazione politica autogiustificatoria. L’autore cerca di spiegare il suo cinquantennale silenzio di fronte agli straordinari accadimenti dell’ultimo secolo, rivoluzioni americana e francese comprese, e soprattutto rispetto a quelli che hanno profondamente toccato la vita della Germania. Sembra voler dire che il suo non è stato un atteggiamento di fuga e di non compromissione con la realtà, ma di osservazione della realtà dall’alto di una speciale consapevolezza indotta dal sapere artistico. E infatti, dopo tanti sconvolgimenti, le cose sono tornate al loro posto (Napoleone è appena stato sconfitto), l’ordine è stato ristabilito. Al contrario Irwing, che scrive il Rip van Winkle pochi anni dopo (1819) in Inghilterra, ma lo ambienta in America, constata che in vent’anni le cose sono cambiate moltissimo, sia sul piano politico che su quello economico e sociale. Si è addormentato in una colonia inglese e si risveglia negli Stati Uniti, rischiando addirittura di essere linciato quando in perfetta buona fede dichiara la propria lealtà alla corona britannica. Ma soprattutto prende atto di una rivoluzione ancora più importante, quella industriale, che viaggia sulle ferrovie e sui battelli a vapore, e del fatto che le trasformazioni sono destinate a diventare sempre più veloci. Nessuno attribuisce a Rip facoltà divinatorie, ma molti credono alla sua storia e invidiano la sua esperienza, non fosse altro per il fatto che gli ha consentito di sfuggire alla tirannia della moglie. In sostanza, secondo Irwing, due decenni sono sufficienti a cambiarti la vita e a trasformare il mondo.

Direi che alla luce degli ultimi due secoli abbia visto ben più lontano di Goethe.

Risvegli 06

Rifiuti

di Paolo Repetto, 26 aprile 2022

Due settimane di forzata semi-immobilità fiaccano qualsiasi resistenza. Negli ultimi giorni ho cominciato a giocare coi tasti del telecomando e a fare lo slalom tra le pause pubblicitarie, per rivedere per l’ennesima volta vecchi film western ed episodi del primo Barnaby. Ma ho anche seguito i telegiornali e le rassegne stampa, su quattro o cinque canali diversi, illudendomi di accedere a una varietà di opinioni e trovando invece le stesse discussioni oziose e addirittura gli stessi ospiti che si avvicendavano da una rete all’altra, dando prova di una straordinaria ubiquità. Risultato: tra virologi e psicologi e sociologi e generali in pensione, le nuove star degli ormai onnipresenti talk di “approfondimento”, ho capito che della situazione sanno tutti più o meno quanto me.

Se voglio fare un paio di riflessioni non devo dunque tenere conto delle notizie principali, quelle che occupano la gran parte dei servizi televisivi e le prime dieci pagine dei quotidiani, la guerra in Ucraina e la persistenza del Covid, né della mattanza strisciante che si consuma sui luoghi di lavoro o tra le mura domestiche. Mi concentro invece su alcuni episodi di cronaca spicciola, che vengono segnalati ed esecrati, ma sui quali si riflette poco o si fanno solo stucchevoli discussioni da salotto.

Dunque. Negli ultimi quindici giorni ho appreso che:

  • a Napoli un anziano sceso in strada per buttare la spazzatura è stato aggredito e strattonato da un gruppo di giovinastri, e cacciato alla fine lui stesso nel cassonetto. Il tutto, comprese le urla e le richieste di aiuto della vittima e le risate dei persecutori, filmato e messo in rete da spettatori evidentemente molto divertiti.
  • Sul treno Genova-Torino una carrozza con posti riservati e prenotati per un gruppo di disabili è stato occupata da altri passeggeri, che si sono rifiutati non solo di sgomberare ma persino di lasciarsi identificare dai poliziotti intervenuti. I disabili hanno dovuto attendere i treno successivo.
  • A Milano uno psicologo sessantenne è stato aggredito mentre passeggiava per strada e colpito con un pugno in pieno viso da un giovane staccatosi da una banda che sopravveniva in direzione opposta. Tutto questo senza alcuna motivazione, probabilmente come gesto di iniziazione. Lo psicologo rischia ora di perdere la vista da un occhio.

Rifiuti 02

Mi fermo qui, ma potrei continuare all’infinito, perché episodi di questo tipo, che in fondo appaiono secondari di fronte alle continue esplosioni di violenza omicida per un posteggio, per uno sguardo storto in discoteca o per una lite condominiale, sono comunque ormai la quotidianità, e vengono riportati in genere solo sui giornali o nelle emittenti locali. In realtà secondari non sono affatto, perché non sono nemmeno “giustificati” da una pur futile motivazione. Sono il frutto di stupidità pura, di assenza di qualsivoglia sensibilità civica, della presunzione (purtroppo fondata) di godere di una totale impunità. Cinquant’anni fa sarebbero state notizie da prima pagina, e avrebbero suscitato uno sdegno unanime. Oggi sembrano accettate con una passiva rassegnazione.

Quello che colpisce è appunto il tipo di reazione: rassegnata, come ho già detto, da parte dell’opinione pubblica, e totalmente passiva da parte di quelle istituzioni che dovrebbero garantire un minimo di sicurezza. Nello stesso periodo non ho letto né visto infatti che qualcuno dei protagonisti negativi sia stato identificato, malgrado provvedano essi stessi in genere a diffondere le immagini delle loro gesta. E meno che mai che sia stato sbattuto in galera o, come io auspicherei, messo alla gogna (non quella mediatica, ma quella reale) o preso a calci nel sedere o lasciato alla mercé delle vittime. Ho saputo invece di macchine della polizia assediate e danneggiate, di vigili e conducenti di autobus massacrati, di raid per le vie principali delle grandi città, in pieno giorno, da parte di bande che quando va bene si danno appuntamento per scontri a bastonate e coltellate, e quando va male danno la caccia ai passanti. Tutto questo è intollerabile, sento ripetere ad ogni nuovo episodio: ma in realtà continua ad essere tranquillamente tollerato. Sono vicende assimilate ormai ai fenomeni atmosferici: accadono e non possiamo farci niente, salvo lamentare nebulose responsabilità “sociali”.

Le responsabilità invece non sono affatto nebulose. Se le forze dell’ordine non intervengono, o se quando intervengono non sembrano avere alcun potere di dissuasione, è anche perché ad ogni randellata distribuita dalla polizia si levano immediatamente accuse di uso eccessivo della violenza e scattano provvedimenti che dissuadono gli agenti da un impegno che (e questo costituisce un altro aspetto del problema) è già di per sé piuttosto scarso. È perché qualsiasi delinquente arrestato, a meno che non abbia sterminato una famiglia e sia stato beccato con il coltello insanguinato o con la pistola fumante, viene “denunciato a piede libero”, così che possa riprovarci dopo mezz’ora, come è appunto accaduto un paio di volte in questi giorni. È perché personaggi con curriculum delinquenziali impressionanti girano impuniti per strada, colpiti da provvedimenti ridicoli e inapplicabili come il daspo, che sembra essere diventato una patente per stalker e persecutori e potenziali assassini. È infine perché magistrati animati da un malinteso spirito di redenzione (o semplicemente da una interpretazione lassista delle leggi) concedono disinvoltamente scarcerazioni o libertà condizionate ad assassini efferati.

Ora, queste cose parrebbero scritte da Belpietro o da Feltri, ragionamenti da osteria, e proprio qui sta il nocciolo del problema: sta nel fatto che si lascino cavalcare questi problemi, fingendo che non esistano o liquidandoli con uno sbrigativo sdegno rituale, agli esponenti della reazione più becera o ai nostalgici del manganello, a quelli che poi paradossalmente della violenza di strada sono in realtà i principali supporter. Paiono ragionamenti da osteria perché per queste cose la sinistra dei salotti non ha tempo. Soprattutto, non ha la voglia né la capacità di operare un ripensamento che scenda un po’ più terra terra, per cogliere le motivazioni spicciole, le necessità immediate, senza perdersi nell’aria fritta del “disagio sociale”.

Se questa violenza esiste, argomenta infatti la sinistra diligente e dottrinaria, è perché essa manifesta un disagio “sociale” crescente: quindi occorre agire sul disagio e sulla società. Perfetto. Tranne per un paio di fatti. Il primo è che poi quella stessa sinistra non esprime una minima idea concreta di come “agire sulla società”, e riserva le sue priorità alle problematiche oziose del numero dei generi o alla “correttezza politica”. Il secondo è che questo disagio diventa una giustificazione riservata ai soli persecutori, mentre non viene mai considerato quello delle vittime. La società, alla fin fine, sono gli altri. Attribuire la responsabilità alla società è come dire che se qualcuno sbaglia la colpa è di chi gli sta attorno. In quest’ottica il vecchietto, i disabili e il passante un po’ se la sono meritata. Non sto scherzando; c’è tutta una frangia, nemmeno tanto ristretta, dell’estrema sinistra demenziale, che giustifica Cesare Battisti (il brigatista, non l’irredentista) come un combattente per la libertà. È l’ennesima interpretazione distorta del dettame evangelico, di quel “chi è senza colpa scagli la prima pietra” che mi ha sempre lasciato perplesso, perché si presta a troppe interpretazioni di comodo.

Parliamoci chiaro. Se un adolescente viziato, figlio in genere di genitori distratti o protettivi ad oltranza, o un energumeno frustrato o un semplice idiota in vena di bravate si aggirano per le strade, non c’è dubbio che costoro abbiano alle spalle situazioni di disagio, ma non raccontiamoci che queste nascono dalla povertà, dal bisogno, dallo sfruttamento, ecc. Stiamo parlando di gente che vive né più né meno lo stesso disagio che viviamo io e la maggioranza degli umani, aggravato nel nostro caso dal fatto di scoprici anche potenziali e inconsapevoli vittime del primo idiota di passaggio.

Rifiuti 03

E allora, occorre ammettere innanzitutto che qualcuno nasce più stupido o più carogna degli altri. L’ambiente, l’educazione, la famiglia, le compagnie, faranno poi il resto, ma il dato di fondo rimane una inclinazione particolarmente perversa (dico “particolarmente” perché la natura egoistica è comune a tutti gli uomini: qui non si tratta però di semplice egoismo, ma di violenza gratuita e insensata). Questa inclinazione può essere nella maggior parte dei casi contenuta o persino corretta quando gli strumenti di integrazione sociale (quelli appunto che ho citato prima) funzionano: trova invece libero sfogo quando quegli strumenti sono essi stessi allo sfacelo. Hobbes aveva visto giusto. Lasciati a se stessi gli umani finirebbero per scannarsi a vicenda, non fosse altro perché la presenza di soggetti particolarmente aggressivi o squilibrati innescherebbe reazioni a catena di autodifesa. Se si vuole evitarlo occorre riservare il monopolio della violenza ad una “istituzione” superiore. Questo non è un portato della nostra “specificità” umana (e qui Hobbes sbagliava, ma in buona fede, perché i comportamenti sociali degli animali all’epoca sua non erano affatto conosciuti): è un modello naturale che troviamo in tutte le società delle antropomorfe, e non solo. Il portato umano, la differenza che rende unica la nostra specie, sta piuttosto negli strumenti di controllo che la “civilizzazione” ha sviluppato per controllare e limitare i possibili abusi di questo monopolio. Ovvero, il diritto individuale, la coscienza “civica”, la partecipazione diretta o indiretta al potere.

Messa così, la questione non si riduce più ai discorsi da osteria o alle sparate populiste dei vari Belpietri, ma va a toccare quei delicati equilibri di convivenza che la nostra cultura e nostra civiltà in particolare hanno saputo trovare con laboriose e secolari alchimie, e che non saranno la perfezione, ma andrebbero comunque difesi strenuamente, perché al momento non siamo in grado di immaginarne altri. Questi equilibri sono basati sul giusto dosaggio di molteplici ingredienti, che si chiamano libertà, legalità, diritto, giustizia sociale, autorità, democrazia, ecc… Possono e debbono certamente essere migliorati, adeguandoli alle sempre più veloci trasformazioni ambientali, culturali ed economiche, ma non possono essere semplicemente ignorati o addirittura rifiutati, come invece sta accadendo, in nome di un “liberi tutti” che azzera tutti i valori e che nella foga di riconoscere pari legittimità ad ogni cultura ne cancella in realtà le differenze maturate storicamente.

Mi sono spinto in un discorso che può sembrare troppo complesso e scivoloso per essere affrontato in quattro righe, dal quale esco subito ma che va comunque tenuto presente per leggere entro un quadro di sfondo anche le situazioni “spicciole” da cui sono partito. Intendo dire che gli equilibri cui accennavo sopra prevedono una linea abbastanza netta di demarcazione tra i comportamenti, e che i comportamenti che si pongono al di là di questa linea comportano l’esclusione dal contesto sociale, se si vuole evitare che questo contesto esploda. Che abbiano poi una origine “culturale” (nel senso negativo dell’assenza di una cultura o di un suo distorcimento) o siano dettati semplicemente dalla stupidità, all’atto pratico immediato importa poco.

Importa invece che siano sanzionati prontamente e adeguatamente. Prontamente perché una comunità il cui equilibrio è stato violato deve sentirsi rassicurata e rafforzata da fatto che esso viene immediatamente ripristinato. Questo significa in pratica, almeno allorché l’evidenza del reato e l’identità dei protagonisti sono fuori discussione, evitare le lungaggini procedurali e gli eccessi di guarentigie che servono solo a “raffreddare” l’impatto emozionale della vicenda, a farla dimenticare sotto l’incalzare di altre vicende analoghe: quando invece è proprio l’effetto emozionale ad avere una valenza educativa. Lo sdegno si rafforza e agisce psicologicamente sia sui singoli che sulla comunità, nel senso che ribadisce l’esistenza di valori condivisi e la necessità di difenderli, quando riceve una risposta immediata: in caso contrario lascia il posto solo alla rassegnazione, alla sensazione di impotenza, alla sfiducia nei confronti dell’appartenenza.

Per essere efficaci, inoltre, i provvedimenti debbono essere adeguati: ovvero evidenti, tangibili e possibilmente anche investiti di una carica simbolica. Personalmente, come cultore dell’“occhio per occhio”, avrei in mente un sacco di punizioni con queste caratteristiche. Ma anche rimanendo nei limiti di un equilibrio superiore dettato dalla civiltà e dalla cultura del diritto, la prevalenza del bene comune sugli egoismi e sulle intemperanze individuali può essere ribadita senza scendere allo stesso livello degli stupidi o dei delinquenti. Ad esempio: per i buontemponi che si divertono a cacciare gli anziani nei cassonetti, dopo un opportuno soggiorno in galera per schiarirsi le idee potrebbe riuscire molto educativo collaborare (e non alla patetica maniera attuale dei “lavori socialmente utili”, ma in un regime di lavoro forzato modello “Nick mano fredda”), alla raccolta dei rifiuti lasciati per strada e allo svuotamento, al lavaggio, alla manutenzione dei contenitori stessi. Col triplice vantaggio di rendere coscienti i balordi di un grosso problema sociale, di costringerli a collaborare per risolverlo e di raffreddare di molto in loro gli entusiasmi per i cassonetti. Non so quanto poi questa “coscienza civile” in certe teste e in certi animi possa attecchire, ma senza dubbio quella delle vittime e di tutti coloro che in queste ultime possono identificarsi ne uscirebbe rinsaldata. Sempre, appunto, che l’intervento sia tempestivo, visibile e senza sconti.

Rifiuti 04

Tutto ciò che ho scritto sin qui non ha naturalmente alcun valore propositivo. So benissimo in che mondo vivo. E per certi aspetti ne ho maturato esperienze molto significative, che possono essere applicate al nostro discorso. Ho assistito infatti per anni (e cercato, nei limiti delle mie funzioni, di oppormi) al disfacimento del sistema scolastico e all’avvicendarsi di riforme che non andavano a scalfire minimamente la sostanza dei problemi, che hanno anzi definitivamente liquidato ogni parvenza di autorità e autorevolezza del corpo insegnante, con ogni mezzo, a partire dai sistemi di reclutamento sino ad arrivare alla sudditanza totale nei confronti di alunni e genitori. So che da una scuola del genere non possono uscire che individui totalmente fuori controllo, ignari di vincoli e di doveri nei confronti degli altri, abituati ad essere difesi e tollerati ad oltranza, a dispetto di ogni loro idiozia o carognata. Una scuola che impone l’educazione civica come materia obbligatoria, confessando così apertamente di non essere in grado di trasmetterla, come sarebbe ovvio e doveroso, attraverso tutti i suoi contenuti e il suo modo stesso complessivo di operare, rende vana ogni speranza di poter agire non solo sugli individui ma su tutte le istituzioni successive con le quali gli individui si troveranno a confrontarsi.

Credo che la scuola sia proprio lo scenario più significativo al quale guardare per avere una immagine del presente. E che sia diventata addirittura, nelle condizioni presenti, il laboratorio nel quale la prevaricazione nei confronti di compagni e insegnanti e il senso di totale impunità vengono coltivati in provetta. Sarò catastrofista, ma una scuola nella quale una insegnante che ha sgridato gli alunni perché avevano lordato tutti i bagni con i loro escrementi viene licenziata in tronco, lascia sperare poco. Spero almeno che li abbia anche presi a ceffoni, e auspico che le nostre povere vittime ripetano a casa le loro imprese.

Finale alla Feltri, me ne rendo conto: ma queste considerazioni vanno prese per ciò che sono: uno sfogo, che consenta almeno di rappresentare con parole (spero) chiare lo stato d’animo di chi si ostina credere nella possibilità di una convivenza civile, e si accorge che sono sempre meno quelli che condividono la sua ostinazione.

Rifiuti 05a

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Ma che bella giornata!

di Paolo Repetto, 23 giugno 2020

Scendo con la borsa dei rifiuti domenicali. Il cassettone della plastica è, come al solito, strapieno. Ai suoi piedi sono depositati una decina di sacchetti o di scatole di cartone stipati di ogni cosa. Faccio quattordici passi e arrivo all’altro contenitore, al lato opposto dell’esile striscia di “verde pubblico”. È praticamente vuoto. Sono undici metri esatti: lo so perché un tempo mi allenavo a battere i rigori, e la distanza la misuravo appunto in quattordici passi.
Per recuperare l’auto percorro un tratto di marciapiede lungo lo spalto. Lo scorso anno era presidiato da un simpatico e attivissimo ivoriano, armato di raspino e di paletta, col quale ci siamo anche bevuti un paio di caffè e che avrebbe potuto essere l’uomo ideale per la manutenzione del Capanno e del terreno attorno. Il ragazzo non c’è più, qualcuno deve aver segnalato che lavorava e lo avranno immediatamente rimpatriato. Ora le erbacce possono finalmente esplodere nelle crepe del marciapiede, dandoti la gioiosa sensazione di camminare in un sentiero di campagna. Quanto meno, nascondono le cacate dei cani portati a passeggio (avevo già scritto deiezioni, ma è troppo heideggeriano), così che uno le possa agevolmente calpestare ed apprezzare.
In compenso, al primo semaforo è ricomparso il tizio che passa di auto in auto col bicchierino di plastica per l’obolo. Ormai fa parte della segnaletica, ha memorizzato perfettamente i tempi, quando si ritira dalla strada puoi rimettere in moto. Un pulmino lo scarica puntuale ogni mattina assieme ad altri compagni di sventura e passa a recuperarlo la sera. Va avanti così da un paio d’anni. Tutto regolare, comunque: ha la mascherina. E intanto facciamo i flash mob contro lo schiavismo.
Percorro il viale che porta fuori dalla città. È stato appena riasfaltato, dopo essere rimasto chiuso per sei mesi per l’interramento dei cavi della banda larga. Il tempo sufficiente ai cinesi per costruire un’autostrada transafricana da un oceano all’altro. Qualcosa non ha comunque funzionato nella stesura del nuovo manto, perché sembra una pista da cross. A percorrerlo in bicicletta c’è da lasciarci la prostata, ma anche in macchina è una bella prova, sia per gli ammortizzatori che per le reni del conducente.
Alla rotonda finale un idiota inverte le precedenze e per un pelo non si schianta contro un’utilitaria. Non accenna minimamente a scusarsi e fila via sgommando. Vedo nel retrovisore che la ragazza sull’utilitaria, appena superata la rotonda, accosta di lato e scende a respirare. Se la deve essere fatta addosso.
Finalmente sono fuori città. Non accendo nemmeno la radio, non voglio sentir parlare di Conte o di Zanardi (siamo andati avanti per mesi, e ancora non è finita, con centinaia e centinaia di morti anomale e anonime ogni giorno: tutto questo clamore mi sembra un tantino fuori luogo). Voglio godermi il sole di una mattina radiosa, l’aria ancora frizzante e lo spettacolo di una campagna riesplosa ormai da un pezzo. Quest’ultimo però è un po’ disturbato. Nelle cunette ai lati della carreggiata l’erba è alta quasi un metro, e subito al di là c’è una vera e propria striscia di foresta incipiente che copre la vista sui campi. I proprietari decespugliano fino al limite del coltivo, la provincia ripulisce, quando lo fa, solo un metro di margine, rimane la terra di nessuno intermedia, libera di pullulare rigogliosamente e di occultare le schifezze lanciate dai finestrini. Tempo fa avevo proposto di organizzare per i cantonieri provinciali delle gite di istruzione in Austria, perché si vergognassero alla vista delle cunette rasate e pettinate ogni mattina, e per i coltivatori, che là saranno anche pagati per tenere in ordine i terreni, ma almeno lo fanno.
In compenso la strada è rimasta esattamente come lo scorso anno. Durante tutto l’inverno non è sceso un solo fiocco di neve, per cui le buche sono ancora quelle, solo un poco più profonde, perché ulteriormente erose dalla pioggia. Mentre mi esercito in uno slalom che ormai non è nemmeno più eccitante, perché conosco a memoria il tracciato ideale e gli ostacoli, ripenso a ieri sera. Sono andato a prendere mia figlia alla stazione, in tarda serata. Nel piazzale antistante ho assistito ad una lite tra un paio di ragazze di colore e tre loro connazionali che per certo non appartenevano all’esercito della salvezza, con urla e pianti e minacce. Nell’atrio della stazione due poliziotti non si sono lasciati distrarre, hanno continuato a presidiare stancamente lo sbocco del sottopassaggio, dal quale peraltro non sbucava nessuno, perché i treni erano regolarmente tutti in ritardo. Per fare un flash mob eravamo decisamente pochi.
Sotto la pensilina esterna dove ero tornato per fumare, visto che i treni se la prendevano con calma, tre teppistelli di età e di provenienza incerta, di quelli che portano il cavallo dei pantaloni sotto le ginocchia, stavano motteggiando con toni pesanti una ragazza visibilmente impaurita, implorante nervosamente qualcuno che avrebbe dovuto venire a prenderla ed era meno puntuale ancora delle ferrovie dello stato. Le ho fatto cenno di mettersi di fianco a me e ho provato ad incenerire con gli occhi, al di sopra della mascherina, quegli idioti. Qualcosa del disprezzo e della rabbia che mi agitavano deve comunque essere venuto fuori, perché si sono allontanati, sia pure sghignazzando e sputacchiando a destra e a manca, e centrando in pieno il parabrezza dell’auto di un’attempata signora che guidava col finestrino abbassato.
Quando ho recuperato Elisa la mia gamba destra stava ancora ballonzolando, e questo è sempre stato per me il segnale d’allarme del punto di rottura. Prima che ora la gamba riparta nuovamente cerco di cambiare registro, di riandare a cose più piacevoli. In mattinata ero tornato, dopo quattro mesi, al mercatino di Borgo d’Ale. Un sacco di gente, pochi vuoti anche nelle file dei banchi. Bene organizzato, tutti con la mascherina, igienizzanti per le mani dovunque, percorsi a senso unico lungo le file, guidati da enormi frecce bianche dipinte per terra, per evitare i contatti da incrocio. Peccato soltanto che nessuno li rispettasse.
A questo punto devo interrompere bruscamente il filo dei ricordi per inchiodare e lasciar rientrare un demente che mi sta superando in piena curva. È la stessa nella quale lo scorso anno ho scansato per miracolo un altro demente che stava facendo l’analoga bravata in senso opposto. Ormai sono però quasi in vista di Lerma. Ai lati scorre una fila di capannoni industriali uno più brutto e più fatiscente dell’altro. Ne conto trentaquattro, altri sono nascosti nella parte verso il fiume da provvidenziali macchie d’alberi. Di quelli che ho registrato almeno una dozzina sono abbandonati, qualcuno non è mai andato oltre lo scheletro. D’altro canto, qui tutti sanno che per la gran parte la vera destinazione d’uso non era quella sopra la superfice, ma quella sotto. Un paio d’anni fa l’ente che si occupa dei controlli ambientali ha registrato la presenza di strane sostanze nelle acque del Piota, che a monte di questo insediamento industriale non riceve scarichi di alcun tipo. Ma nessuno si è preso la briga di fare due conti e tirare le somme. In compenso noto che stanno invadendo un altro campo nel quale l’ottobre scorso c’era ancora il granoturco, e livellando il terreno. Chissà quanti rifiuti tossici si sono accumulati in questo periodo, a dispetto della quarantena.
Finalmente lascio la piana e salgo verso il paese. La manutenzione dei bordi della strada è sempre la stessa, ma qui non ci si fa più caso, è la natura che si riconquista i suoi spazi e può persino andar bene. Un ultimo sobbalzo all’ingresso in paese. Sul primo muretto, là dove fino a ieri c’era la scritta “W Bartali”, adesso c’è un logo indecifrabile tracciato con le bombolette spray. Ma stanno rimuovendo il vecchio intonaco, sparirà anche quello.
Quando scendo dall’auto, in cortile, e rivedo le mie piante di rose totalmente spoglie, e le peonie rinsecchite e minuscole (le noto perché lungo tutto il percorso ho visto roseti incredibili traboccare dalle recinzioni delle villette, con fiori grandi come piatti da portata e dalle sfumature di colore più stupefacenti), mi accorgo con sorpresa che sono totalmente rilassato. Davvero mi sorprendo, perché oggi lungo il percorso e ieri in Alessandria di rilassante non ho visto granché.
Poi, mentre salgo le scale di casa, finalmente capisco. Ora so il perché di questa sensazione di tranquillità. È che ho constatato come, al di là di tutte le profezie e le previsioni e le analisi socio-psicologiche, in questi quattro mesi nulla e nessuno è davvero cambiato, tranne forse me, che sono invecchiato di colpo di altri dieci anni. Certo, nel futuro prossimo ci saranno crisi economiche, nuove ondate pandemiche, proteste magari violente, ma noi nella sostanza siamo rimasti gli stessi. Non è necessario reggere cinque minuti di un notiziario o di una qualsiasi trasmissione televisiva per capirlo. Tutto è esattamente come prima, magari un po’ peggio.
In effetti la mia non è tranquillità, ma rassegnazione: e tuttavia, egoisticamente, significa che non sarà il caso di caricare le povere ossa di rinnovate speranze e illusioni. Il legno storto di kantiana memoria continuerà a crescere sghembo, fino a che gli sarà consentito crescere, e per me si tratterà invece di resistere solo un altro poco. Per adesso però mi godo questa splendida giornata di sole. Senza mascherina.

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Nell’indifferenziato

di Paolo Repetto, 21 settembre 2019

Mentre svuoto nei cassonetti tre borse di rifiuti (plastica, vetro e carta), e un’altra ne deposito in quello dell’organico, mi sorprendo a considerare la necessità e al tempo stesso la stupidità di questo gesto quotidiano (non è la prima volta, naturalmente, ma oggi mi ci soffermo più a lungo). Beninteso, la stupidità non riguarda il gesto in sé, più che doveroso e razionale, ma il sistema che lo ha reso necessario. Lo stato di salute di una società, come quello di ogni umano, lo si giudica anche, e forse prima di tutto, dai rifiuti che essa produce. Quella attuale sembra affetta da dissenteria cronica.

Parrebbe l’inizio di un peana sciolto al bel tempo che fu; ma vi rassicuro. Non sono un nostalgico del passato. O almeno, lo sono solo per alcuni aspetti. E consapevole che di passato, appunto, si tratta. Solo, quando mi capita di pensarci, torna a sbalordirmi il cambiamento incredibile nello stile di vita di cui sono stato testimone e partecipe. È una cosa che chiunque abbia meno di settant’anni, e probabilmente anche molti fra quelli che hanno superato quella soglia, difficilmente riesce a mettere a fuoco. Come si fa ad immaginare un mondo senza televisione, senza cellulari e computer e internet (e nel mio caso anche senza telefono e mezzi motorizzati e lavatrici e frigoriferi, e a casa di mio nonno anche senza acqua corrente, fornelli a gas ed elettricità)? Eppure, quella che ho conosciuto da bambino è la condizione nella quale per molti aspetti vive ancora oggi una fetta consistente dell’umanità, anche se tale condizione è diversamente percepita da chi ci sta dentro, perché lo sviluppo planetario dei nuovi media lo sollecita costantemente a fare confronti.

Senza dunque volgerla troppo in epopea, e a dispetto dell’essere nato all’interno di quello che allora era definito il “triangolo industriale”, di fatto sono cresciuto fino a quindici anni in una nicchia microeconomica pressoché medioevale, nella quale la circolazione monetaria aveva in tutti gli ambiti, a cominciare da quello alimentare, un ruolo secondario. Mio padre conduceva su una gamba sola un orto e un vigneto, e arrotondava lavorando la sera come calzolaio. A memoria della famiglia era il primo a possedere un fazzoletto di terra tutto suo. Gli scarsi ricavi della produzione di vino andavano comunque quasi tutti per pagare i lavori che non poteva eseguire lui stesso e che ancora non eravamo in grado di svolgere noi figli. Non volle sentir parlare di pensioni di invalidità fino a dopo i cinquant’anni, quando il carico famigliare aumentato e le spese per i nostri studi cominciarono a creare nuove esigenze. Ciò che ha dell’incredibile è che riuscivamo a cavarcela lo stesso: e questo per via di un regime che oggi, a posteriori, appare straordinariamente virtuoso, ma che all’epoca era pura strategia di sopravvivenza.

La nostra dieta non era affatto povera, ma si basava quasi per intero su cose che producevamo o allevavamo direttamente: latte, uova, farina di frumento o di mais, pollame di ogni tipo, conigli, maiali, verdure e ortaggi, frutta, vino. In pratica acquistavamo fuori solo l’olio, il sale, il riso, il parmigiano, lo zucchero e il caffè. Con molta parsimonia, e preferibilmente attraverso lo scambio. Il pesce (soprattutto lo stoccafisso e le acciughe) ce lo procurava, in cambio del vino, un misterioso pigionante che occupava nella nostra casa (in realtà ancora non era nostra, anche noi pagavamo un canone, sia pure quasi simbolico, in natura) due stanze in affitto, lavorava al porto di Genova e capitava in paese solo ogni tanto, all’improvviso. Nei mesi estivi barattavamo le altre derrate con la frutta che conferivamo ai negozianti. Per il riscaldamento, c’erano due stufe e la legna del bosco.

In casa giravano pochissimi soldi, giusto quelli per pagare i consumi di quattro lampadine, la bombola del gas e il forno dove mia madre faceva cuocere quotidianamente il pane, o per i capi di biancheria e d’abbigliamento indispensabili. Ma, anche qui, pantaloni, camicie e maglie per la gran parte arrivavano da Genova, dalla zia portinaia che ne faceva incetta presso tutti gli inquilini del suo palazzo. Mia madre li adattava e li riparava, per le scarpe c’era mio padre: quando già frequentavo il liceo ho indossato per un anno un paio di pantaloni rattoppati, e confesso che solo allora per la prima volta, fuori dal mio ambiente, la cosa mi ha fatto sentire a disagio. Al materiale scolastico, quaderni, matite, provvedeva il patronato. Di giocattoli naturalmente non si parlava. Quelli che c’erano arrivavano anch’essi da Genova, per la stessa via, assieme ai libri e a rotocalchi vecchi di qualche mese: il resto era affidato alla nostra fantasia o all’abilità di mio nonno nell’intaglio. Unico lusso, la radio.

In un contesto del genere era giocoforza ingegnarsi e darsi da fare precocemente. Lo scambio valeva anche per le prestazioni. Mi sono procurato i primi kit per il traforo e per il disegno alzandomi per anni alle sei e mezza e stravincendo le classifiche dei chierichetti, i primi fumetti de l’”Intrepido” e del “Monello” andando a recuperare, appena uscito dalla messa del mattino, i sacchi della posta e dei giornali che la corriera depositava in piazza, i miei film western facendo il proiezionista presso il cinema parrocchiale. Lo stesso valeva comunque per tutti. Tra i miei coetanei c’era chi faceva il giro all’alba a consegnare il latte e chi arrivava a scuola dopo aver pulito la stalla (e si sentiva). Ma in tutto questo non c’era nulla di sofferto. Prima dei quindici anni non mi sono mai sentito povero, dopo ho cominciato a pensare di esserlo stato in passato, ma senza rimpianti, anzi, col tempo con un certo orgoglio. Forse per questo lo rievoco così spesso.

Era un sistema perfetto? No, non era un eden ma neppure era un inferno: era il modo in cui viveva, fino ai tardi anni cinquanta, almeno la metà delle famiglie in paese.

Ma in realtà non di questo mi interessava parlare. Come accade ai vecchi, i ricordi mi hanno preso la mano. Volevo tornare invece da dove son partito, al fatto che all’interno di quella economia non si produceva alcun rifiuto. Gli scarti alimentari erano una benedizione per maiali, galline e conigli, che spolveravano persino le ossa. La carta, quella poca che circolava, era il detonante per la stufa, nella quale finiva anche ogni minima scheggia di legno. Lo sfalcio andava a finire nella mangiatoia della stalla. Residui metallici non ce n’erano: ogni minima barretta di ferro era utilizzata per gabbie e recinzioni. La plastica ancora non esisteva, o almeno non era diffusa a Lerma, pentole, secchi e altri recipienti erano di latta, di rame o di bronzo, le bottiglie di vetro, e venivano riutilizzate all’infinito. Non parliamo poi degli ingombranti. La mia culla, quella che servì in seguito anche per mio fratello e mia sorella, l’aveva costruita mio nonno, arrivava dagli zii e aveva già ospitato l’intera generazione precedente dei Repetto. Per riempire un cassonetto coi nostri rifiuti sarebbe occorso un secolo.

Alla fine, il punto è proprio questo. Forse le mie divagazioni iniziali non erano così gratuite. Nel mondo che ho conosciuto l’economia era ancora principalmente fondata sulla produzione, e la finanza fungeva al massimo da supporto: la produzione era finalizzata a rispondere ai bisogni essenziali, non a quelli creati dalla pubblicità: i consumi non erano indotti, al massimo le scelte erano orientate. Nell’economia del baratto non c’è spazio per il superfluo: si cerca solo ciò che veramente si vuole, perché serve, o perché anche se in apparenza superfluo soddisfa un desiderio genuino, e non indotto per imitazione o con un martellamento asfissiante. Gli oggetti non vengono usati e gettati frettolosamente, ma utilizzati e conservati a lungo, gli alimenti sono consumati per intero. Quando si affronta il tema della polluzione consumistica e degli scarti che essa si lascia dietro, queste cose vanno tenute presenti, e non per proporre impraticabili conversioni a U, ma per avere almeno chiara la complessità inestricabile del quadro, evitando appunto di perdersi dietro arcadiche favolette. Nella sostanza: il cerchio nel quale alla fine in qualche modo si ricomponeva il rapporto uomo-natura, in un equilibrio delicatissimo, è andato allargando il suo raggio nei millenni, fino a quando ad un certo punto si è rotto. I due estremi non tornano più a sovrapporsi, il cerchio è diventato una spirale, che da Vico in poi è stata considerata progressiva, ma oggi, da un punto di vista ribaltato, mostra tutta la sua negatività. La spirale è impazzita in avvitamento, nell’accezione aeronautica del termine: si produce per poter continuare a produrre, non c’è più alcun rapporto coi bisogni reali, e se creano quindi di nuovi, effimeri, che devono essere costantemente reinventati.

Quando con precisione tutto questo abbia avuto inizio, quando il verso si sia invertito, non lo sappiamo, ci sono in proposito svariate scuole di pensiero: senza dubbio negli ultimi duecento anni, probabilmente anche molto prima. Le conseguenze sono davanti agli occhi di tutti, ormai ne sono coscienti anche i bambini: ma questa consapevolezza non si traduce in una risposta che vada al di là dell’indignazione sui social, di un movimentismo inconcludente e dei summit-evento. La verità è che sotto sotto il processo è dato da tutti per scontato, e ad esso vengono opposti soltanto l’ottimismo tecnologico o il fideismo irrazionalistico in una “nuova era”. Chi come me ha vissuto, come dicevo prima, in una sorta di nicchia, in una riserva indiana, ha avuto modo di assistere alle ultimissime fasi della rottura del cerchio, sia pure alla maniera in cui oggi assistiamo a fenomeni cosmici verificatisi milioni o miliardi di anni fa. Ha visto sintetizzata in cinquant’anni una mutazione che si è prodotta nell’arco di secoli, e che ha toccato ogni sfera della vita umana, da quella economica a quella politica, sociale, culturale, affettiva. Che ha interessato non solo gli scenari naturali e culturali (leggi: i modi di produzione), ma anche gli attori che in essi si muovono. Una vera e propria mutazione antropologica.

Quando parlavo di stupidità del sistema mi riferivo a questo. La trasformazione è stata tale da non consentire più di credere a ripensamenti, a rallentamenti, a mutamenti di rotta interni al sistema stesso, e chi ha visto scorrere i fotogrammi della vicenda a velocità moltiplicata ne è più che mai persuaso. Il sistema è stupido proprio perché nella sua totalizzante pervasività non prevede e non si concede scelte alternative, nemmeno quando acquista coscienza di avviarsi all’autodistruzione.

Tutto qui. La mia voleva essere solo una constatazione, una malinconica testimonianza. Decisamente e volutamente ovvia. So che non è possibile, e forse nemmeno sarebbe auspicabile, tornare a quella condizione, ma non posso ignorare che l’accelerazione impressa, nel bene e nel male, da questo ultimo mezzo secolo è impossibile da sostenere. Che il meccanismo si sta inceppando, perché produce ormai più scarti, compresi quelli umani, che benessere. E che l’umanità pare ansiosa di suicidarsi soffocandosi allegramente nel suo pattume.

Ricette per venirne fuori non ne conosco: quelle che circolano, suggerite da economisti, filosofi o professionisti dell’ambientalismo mi paiono tutte poco credibili, quando non palesemente stupide. L’unico antidoto sarebbe il senso collettivo di responsabilità, ma ne occorrerebbero dosi da elefante, mentre non ci sono più laboratori che lo producano e manca soprattutto la materia prima indispensabile. Temo che sarà la natura a dettare quelle davvero efficaci, e che si tratterà di terapie tremendamente invasive e devastanti. E non è detto che l’astuzia riequilibratrice della natura non passi proprio per le mani sciagurate degli uomini stessi.

Nulla da fare, dunque? Non proprio. Nell’attesa del peggio possiamo comunque salvaguardare un minimo di dignità. Cominciando da subito. Torno indietro, ai cassonetti, e vincendo il senso di schifo e l’irritazione butto dentro e cerco di compattare anche quei sacchetti e quei cartoni che qualche deficiente, senz’altro più di uno, ha abbandonato lì vicino.

Non lo faccio sempre, so che serve a ben poco e che l’azione più corretta sarebbe prendere per un orecchio gli incivili e costringerli a farlo essi stessi, e poi cacciare anche loro nell’indifferenziato. Ma oggi si, in assenza della possibilità di applicare la seconda opzione mi adatto alla prima. Per un attimo mi attraversa la mente l’idea che sarebbero necessari cassonetti anche per le stupidaggini, i pregiudizi, le falsità che ci stanno letteralmente sommergendo. Per queste cose però non sarebbe sufficiente un container ad ogni angolo di strada, ed è purtroppo questa la spazzatura meno differenziata.

Il lavoro per quel che resta del futuro non manca. Se proprio dobbiamo seppellirci, cerchiamo almeno di farlo in maniera un po’ più elegante e pulita. Differenziamoci.


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