Thalatta! Thalatta!

di Paolo Repetto, 15 novembre 2024

Mare, mare, mare
ma che voglia di arrivare
(da Mare mare di Luca Carboni,
cover dell’Anabasi di Senofonte)

Questo intervento nasce da una circostanza insolita, un estemporaneo reading nel quale si proponevano brani in prosa, poesie e testi di canzoni aventi per oggetto il mare. Per una peregrina associazione d’idee (peregrina perché ero capitato lì per caso e l’argomento non mi intrigava granché) mi è tornato in mente un piccolo saggio letto diversi anni fa, e poi dimenticato (non del tutto, evidentemente): si tratta di Terra e Mare, di Carl Schmitt. Ho citato la circostanza solo per ribadire un concetto cui sono molto affezionato, e cioè che occorre profittare positivamente davvero di tutto, lasciando sempre aperta la porta della conoscenza (o della reminiscenza), perché le cose passano lì davanti, e trovando aperto a volte entrano, anche senza essere esplicitamente invitate.

Ma veniamo a Carl Schmitt. Il personaggio è controverso: era un filosofo del diritto molto vicino, almeno nella fase nascente, al nazismo, del quale ambiva a diventare una sorta di guida spirituale. Diciamo che voleva “legittimare” il nazismo in punta di diritto, assunto decisamente improbo, vista la considerazione che del diritto, in tutte le sue accezioni, individuali o internazionali, i nazisti avevano. La cosa non garbava assolutamente a Himmler e alle sue SS, per cui il filosofo venne progressivamente emarginato, e quasi esiliato in patria, sino a tutto il secondo conflitto mondiale (una sorte molto simile a quella di Ernst Junger, col quale scrisse poi, nel 1953, un libro a quattro mani, Il nodo di Gordio). Schmitt peraltro non si ricredette e non rinnegò mai le sue posizioni originarie, limitandosi a sottolinearne la distanza da quelli che furono poi gli esiti “giuridici” del regime. Nel dopoguerra ha subito il destino di diversi altri suoi colleghi altrettanto e forse più compromessi, primo tra tutti Heidegger, che dopo un periodo di quarantena sono stati riesumati e reinterpretati. La riscoperta è avvenuta soprattutto all’interno di un filone di pensiero filosofico-politico che fa riferimento genericamente alla sinistra, ma che ormai, dopo che la conclamata fine delle appartenenze ha sdoganato tutto, dovremmo definire più propriamente post-moderno (quello per intenderci che va da Toni Negri ad Agamben, a Vattimo, allo stesso Cacciari, e che paradossalmente arriva a comprendere la “nouvelle droite” francese e il suo “maître à penser” Alain de Benoit).

Thalatta! Thalatta 02Terra e mare è stato scritto da Schmitt nel 1942, in un periodo nel quale il giurista, attento a non crearsi ulteriori problemi discettando di politica, si era dedicato piuttosto agli studi storici, e cercava conferme a una sua lettura quasi gnostica della storia: conferme che non aveva difficoltà a trovare, stante l’infuriare del conflitto e la convinzione di essere in presenza di cambiamenti epocali. Lo faceva presumendo per sé una condizione da iniziato, quella di chi va oltre la pura conoscenza dei fatti e delle vicende contingenti, e si spinge fino a riconoscere la trama segreta (che definisce ripetutamente “arcana”) entro la quale gli eventi si inseriscono e vanno letti. Di chi in sostanza cerca una verità esoterica, nascosta e negata anche agli “addetti ai lavori”, agli storici più qualificati. È un’interpretazione che sotto certi aspetti non esiterei a definire “complottista”, e questo è forse il motivo per cui avevo rimosso il testo: non manca tuttavia di offrire spunti di riflessione che, opportunamente depurati, possono rivelarsi fecondi.

Ci torno su dunque prescindendo per quanto possibile dal passato di Schmitt, dalle sue responsabilità e da qualsiasi giudizio sulle implicazioni politiche del suo pensiero: mi interessa solo seguire la sua particolare versione della storia dell’umanità.

Come premessa Schmitt rispolvera, sia pure in chiave metaforica, la teoria presocratica dei quattro elementi naturali, terra, acqua, aria e fuoco, che stanno all’origine della vita e che a suo parere condizionano la storia, quella naturale ma anche quella culturale. Questo a dispetto del fatto che la scienza abbia destituito di ogni fondamento la natura di sostanza semplice dei quattro elementi classici. “Nella nostra riflessione storica – scrive – possiamo attenerci ai quattro elementi, che per noi sono nomi semplici e intuitivi, caratterizzazioni generali che rinviano a differenti grandi possibilità dell’esistenza umana. […] Gli elementi di cui parlerò qui di seguito non sono dunque da intendere come grandezze meramente naturalistiche”.

Ho parlato di chiave metaforica, ma sono convinto che in qualche modo alle “proprietà” degli elementi primordiali Schmitt credesse veramente. Nel senso, almeno, che riteneva fondamentale l’influsso da questi esercitato non solo sui singoli individui, ma su intere comunità, su interi popoli. Che esistessero cioè «popoli “autoctoni” – cioè nati sulla terra – e popoli “autotalassici” – cioè foggiati esclusivamente dal mare, che non hanno mai calcato la terra e per i quali la terraferma non rappresentava altro che il confine della loro esistenza puramente marittima». E il ricorso ad un senso della natura precedente il “disincanto”, la “dissacrazione” del mondo avviata da Platone e Aristotele prima, e proseguita da Galileo, da Copernico e da tutta la scienza moderna poi, è perfettamente funzionale al percorso che il politico-giurista vuole disvelare.

Secondo Schmitt infatti l’antagonismo tra popoli “di terra” e popoli marittimi è il motore della storia delle civiltà, e il senso di questa storia lo si può intravedere analizzando le fasi dell’ostilità radicale tra ordinamenti tellurici e acquei.

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Ora, è evidente che in linea generale l’uomo ha carattere essenzialmente terraneo. È figlio della terra, “cammina e si muove sulla solida terra […] e ciò determina il suo punto di vista, le sue impressioni e il suo modo di vedere il mondo”. Ma possiamo davvero dire “che l’esistenza umana e l’essere umano sono, nella loro essenza, puramente terrestri, e hanno solo la terra come riferimento? In fondo, nelle reminiscenze remote, spesso inconsce degli uomini, l’acqua e il mare rappresentano il misterioso fondamento originario di ogni vita”. Non solo; anche le recenti ricostruzioni evoluzionistiche ci attribuiscono un’origine oceanica, e sopravvivono ancora oggi “uomini-pesce la cui intera esistenza, l’immaginario e la lingua sono riferiti al mare” (cita ad esempio i navigatori polinesiani, i Canachi, ecc …). Questo apre scenari diversi. Ma non bisogna pensare a una determinazione ambientale, “perché – scrive Schmitt – se l’uomo non fosse altro che un essere interamente determinato dal suo ambiente, non vi sarebbe alcuna storia umana intesa come agire umano e deliberazione umana. Invece l’uomo ha la forza di conquistare storicamente la sua esistenza e la sua coscienza […] gode della libertà d’azione, e in determinati momenti storici può scegliere addirittura un elemento quale nuova forma complessiva della sua esistenza storica, decidendosi e organizzandosi per esso attraverso la sua azione e la sua opera”. Come e quando ciò sia avvenuto è appunto quel che Schmitt vuole raccontare.

Thalatta! Thalatta 04L’evidenza di una conflittualità primordiale tra i due ordini Schmitt la trova già nella narrazione biblica, laddove si fa riferimento a più riprese all’epica lotta tra Behemoth, bestia terrestre, e Leviathan, mostro marino. Non insiste poi sui riferimenti che potrebbe rintracciare anche nella mitologia greca, ma passa direttamente alla protostoria, con la vicenda di Creta, civiltà marittima che impone il suo controllo sul Mediterraneo orientale, e alla storia, con Atene che sconfigge soprattutto sul mare la potenza terranea persiana. Per contro Roma, civiltà “terrestre”, trionfa qualche secolo dopo sulla marittima Cartagine (ma solo in virtù di un rapidissimo adeguamento alla nuova “guerra ibrida”, combattuta sia per terra che sul mare). E dopo il crollo dell’Impero d’occidente, è Bisanzio con le sue navi a fungere da freno (ovvero, come dice Schmitt, da katechon) alle forze storiche avversarie. Nel frattempo a nord e nel Mediterraneo sudorientale si affermano altre potenze marinare: i vichinghi e i pirati saraceni. Poco più tardi le crociate saranno guidate da condottieri che sono espressione di una cultura militare e politica tutta terranea, ma a trarne il maggior profitto sarà la potenza marittima veneziana (stranamente Schmitt ignora quella genovese).

Il bilancio complessivo vede però prevalere fino a questo punto la civiltà terranea. Venezia stessa rimane pur sempre una civiltà costiera, che dispone quasi esclusivamente di navi a remi adatte al piccolo cabotaggio: gli scontri navali si risolvono in abbordaggi e nei combattimenti corpo a corpo sulle tolde delle navi, e soprattutto la navigazione non si spinge negli oceani, ma rimane ancorata al Mediterraneo. Esattamente come accadeva ai tempi di Temistocle e di Euribiade.

In sostanza, non cambia la visione del mondo: per tutto il medioevo il mare non rappresenta un elemento “alternativo” sul quale un popolo può basare le proprie fortune. Il vero cambiamento si ha invece nel XV secolo, con le scoperte geografiche, e prima ancora con le innovazioni che le rendono possibili: tra tutte l’adozione di vele orientabili che consentono di navigare anche controvento, ma anche tecniche costruttive che rivestono gli scafi di un fasciame a prova di oceano o che consentono di governare la nave con timoni a ruota, liberando il ponte. Anche sul piano militare la battaglia navale diventa un’altra cosa, grazie al posizionamento di bocche da fuoco a bordo delle imbarcazioni da guerra, per cui gli scontri si svolgono a distanza e non necessitano più di una superficie che simuli la terra.

A consentire il vero slancio verso il mare è dunque la scoperta di un nuovo mondo, che dischiude gli oceani e offre immensi spazi di conquista: e a questa corsa partecipano, in maniera e misura diversa, tutti i paesi europei, anche se sarà poi solo l’Inghilterra a raccogliere fino in fondo la sfida del mare.

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Cronologicamente Schmitt riconosce una priorità agli olandesi, attribuendo con una certa forzatura alla loro cantieristica la svolta tecnica decisiva (e nella sua ottica questa attribuzione appare giustificata). Tributa poi un romantico omaggio agli uomini che giovandosi di tali innovazioni portano le nuove tecnologie, le nuove ambizioni e il conseguente nuovo punto di vista in ogni angolo del mondo: i pirati, i corsari e i balenieri. Può sembrare una divagazione bizzarra, ma ha anch’essa un suo perché. I balenieri sono per Schmitt, lettore appassionato di Moby Dick, gli eroici scopritori di acque e terre sconosciute, che affrontavano il Leviatano coi loro arpioni nei mari freddi del nord, si fondevano con l’elemento marino e ne conoscevano gli abissi. “Era un combattimento mortale fra due esseri viventi che, senza essere pesci nel senso zoologico, si muovevano entrambi nell’elemento del mare”, nel quale si creava “un intimo legame di amicizia-ostilità tra il cacciatore e la sua preda”.

Quanto ai pirati e ai corsari di tutte le nazioni, sottolinea che tanto gli ugonotti francesi che i puritani inglesi e i calvinisti olandesi, tra i quali soprattutto per due secoli furono arruolati gli “scorridori” dei mari, professavano lo stesso credo protestante e avevano un comune nemico politico, ossia la Spagna, la potenza mondiale cattolica. Ora, il protestantesimo, e massime il calvinismo con la sua idea di predestinazione, ha una vocazione individualista-universalista che trascende lo spazio della comunità, istituendo un rapporto diretto tra il singolo e Dio. Ciò significa che sul singolo ricade una maggiore responsabilità, ma anche che questa ultima è connessa a una maggiore libertà, a una reale possibilità di scegliere il proprio destino (e qui Schmitt pesca più o meno direttamente da Max Weber). Tutto questo produce una serie di risvolti economici, politici e giuridici che vedremo.

Insomma: per Schmitt i popoli cattolici hanno un rapporto con la terra assai più intenso rispetto a quelli protestanti, che sono invece aperti al mare e all’industria. In questo senso, come l’etica protestante ha sospinto lo spirito capitalistico, analogamente può dirsi che l’élite protestante, motivata dalla forte presunzione di una propria “superiorità” morale e spirituale, ha fornito il supporto ideologico e le energie umane alla scelta per il mare.

Esiste anche una connessione significativa tra elemento marittimo e capitalismo. Quest’ultimo nasce dall’arricchimento derivante dal “capitalismo di rapina”. Gli inglesi divengono ricchi navigatori anche in virtù delle grassazioni dei loro corsari, e l’Inghilterra decide infine per il mare, per il capitalismo, per la “deterritorialità” e la “destatualità”, per l’universalismo, non solo ereditando la tradizione marittima e le imprese oceaniche di tutti gli altri popoli europei, ma saccheggiandone le ricchezze necessariamente affidate al trasporto via mare.

Fin qui, come si è visto, lo spunto usato da Schmitt per reinterpretare la storia universale non è affatto originale. Fa riferimento a Hegel, che nei Lineamenti di filosofia del diritto naturale e scienze della terra rigettava il determinismo ambientale proposto ad esempio da Montesquieu (per il quale i diversi caratteri degli uomini e dei popoli sono legati agli influssi del clima e della conformazione del suolo), e considerava invece fondamentale l’opposizione terra-mare per accedere a un livello di interpretazione storico-filosofica più alto e universale. Hegel scriveva ad esempio: «Come per il principio della vita familiare è condizione la terra, cioè il “fondo” e il “terreno› stabile”, così per l’industria l’elemento naturale che la anima verso l’esterno è il “mare”. Nella brama di guadagno, esponendo al pericolo il guadagno stesso, l’industria si eleva a un tempo al di sopra di esso, e soppianta il radicarsi nella zolla e nella cerchia limitata della vita civile, i suoi godimenti e desideri, con l’elemento della fluidità, del pericolo e del naufragio. In tal modo, inoltre, attraverso questo superiore mezzo di collegamento, l’industria ingloba delle terre lontane all’interno del traffico commerciale – cioè di un rapporto giuridico che introduce il contratto –, e in questo traffico rinviene al tempo stesso il massimo mezzo di civilizzazione. Qui il commercio riceve il proprio significato cosmostorico».

L’originalità di Schmitt sta dunque solo nella valutazione che dà di questo processo storico e del suo temporaneo esito, che non è altrettanto positiva di quella di Hegel, e apre comunque altri scenari. Va considerato, tra parentesi, che per entrambi i filosofi tedeschi la vicenda inglese è emblematica, ma mentre Hegel parla di un’Inghilterra all’epoca sua alleata della Prussia, e per molti aspetti riferimento alto di civiltà, Schmitt la vede invece come la potenza nemica per eccellenza del suo Reich. Non parla di “perfida Albione”, ma insomma, non mostra nemmeno una calda simpatia. D’altro canto, qui le simpatie c’entrano poco: deve trattarla per quello che rappresenta nel quadro dialettico che sta tratteggiando.

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Con l’Inghilterra infatti siamo per Schmitt di fronte a un caso unico. La sua peculiarità, la sua unicità consistono nel fatto che “l’Inghilterra compì una trasformazione elementare in un momento storico e in un modo del tutto differenti da quelli delle precedenti potenze marittime, trasferendo cioè veramente la sua esistenza dalla terra all’elemento del mare. Essa così non vinse soltanto molte battaglie navali e molte guerre […], ma anche […] una rivoluzione di immensa portata, una rivoluzione spaziale”.

Analogamente a quanto già fatto nei confronti degli elementi, qui Schmitt si svincola dalle concezioni della spazialità proprie delle scienze naturalistiche. La concezione dello spazio, scrive, muta a seconda dell’osservatore, delle sue esperienze, della sua vita: un contadino, un marinaio o un aviatore hanno evidentemente dello spazio esperienze ben diverse. Anche in questo caso, nulla di particolarmente originale: Jules Michelet, ad esempio, aveva già trattato ampiamente questo tema un secolo prima, ne La mer. Ma per il giurista tedesco le differenze di sguardo sono ancora più grandi e profonde quando si tratta nel complesso di popoli diversi e di diverse epoche della storia dell’umanità. Lo spazio viene infatti costruito e costantemente ridefinito dallo sprigionarsi delle energie storiche. Cambia a seconda dei parametri che si adottano per misurarlo, dei tempi necessari per percorrerlo e dei modi in cui lo si fa. A dimostrazione porta gli esempi di grandi rivoluzioni spaziali avvenute nell’antichità. Quella di Alessandro il Grande, che violò le porte dell’oriente e mise a contatto ravvicinato delle culture prima contrapposte. Quella di Giulio Cesare, che conquistò la Gallia e la Britannia dilatando uno spazio politico che un secolo dopo copriva tutte le coste meridionali del Mediterraneo e arrivava a settentrione all’Atlantico. Quella determinata dalla comparsa sulla scena mondiale dell’Islam, che costrinse per secoli l’Europa a rinchiudersi in se stessa e in un rapporto quasi esclusivo con l’economia (e la cultura) della terra. Quella infine prodotta dalle crociate, a partire dal XII secolo, che riaprì i traffici commerciali e culturali col Vicino Oriente, avviando così nuovi traffici commerciali, e indusse una volta ancora un cambiamento nel concetto di spazio.

Nulla di tutto ciò è tuttavia paragonabile, per Schmitt, a quanto avviene nei secoli XVI e XVII. Non si tratta più soltanto di un adeguamento “quantitativo” nella percezione della spazialità, ma di una vera e propria rivoluzione spaziale, con tutto quello che comporta sotto il profilo culturale. La scoperta di mondi nuovi al di là dell’oceano fornisce la definitiva conferma della sfericità del globo terrestre e prelude anche alla rivoluzione copernicana, all’eliocentrismo, alla definizione delle orbite terrestri, all’idea di un universo infinito, alla formulazione della legge di gravità. Anzi, secondo Schmitt l’ordine andrebbe invertito: è proprio il rivoluzionamento del concetto di spazio ad aver consentito la scoperta di un nuovo continente e di nuovi oceani, piuttosto che il contrario. Altri prima di Colombo avevano toccato le coste americane, ma senza che questo originasse la coscienza di una “scoperta”. La scoperta implica infatti energie spirituali e consapevolezza storica superiori rispetto a ciò che viene scoperto: “Occorre una trasformazione dei concetti di spazio che abbracci tutti i livelli e gli ambiti dell’esistenza umana”.

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Qui Schmitt approda al campo di ricerca che gli è più congeniale. Questo rivoluzionamento del concetto di spazio cambia lo stato giuridico (il nomos) delle terre scoperte (e di chi le abita), che vengono conquistate, spartite e sfruttate dai popoli europei schiavizzando o addirittura eliminando le popolazioni indigene. Lo fanno invocando quali giustificazioni giuridiche la diffusione del cristianesimo prima e la civilizzazione di genti barbare dopo: “Da tali giustificazioni nacque un diritto internazionale cristiano-europeo, ossia una comunità dei popoli cristiani d’Europa contrapposti al resto del mondo. Questi popoli costituirono una famiglia delle nazioni, un ordinamento interstatale” che prevedeva un diritto internazionale dal quale i popoli non cristiani erano esclusi, o rappresentavano al più un oggetto. “L’epoca delle scoperte può essere definita altrettanto bene – e forse in modo ancora più esatto – come l’epoca della conquista di terra da parte dell’Europa”.

Il nuovo diritto non è dunque più quello della medioevale res publica cristiana. I popoli che hanno aderito alla riforma non riconoscono la spartizione (la raya) tracciata dall’autorità papale, e portano avanti una ridefinizione del nomos, del diritto terrestre e marittimo, che culmina in quello che diverrà lo jus publicum europaeum, il nuovo diritto internazionale, dettato dalla potenza inglese in quanto dominatrice dei mari.

Insomma, gli europei considerano i territori d’oltreoceano come terra aperta alla conquista, nella quale non valgono le stesse regole e le stesse autorità valide nel vecchio continente. Questi territori sono intesi, si potrebbe dire, più come una continuazione del mare che come un’appendice del suolo europeo, e in quanto tali consentono libero corso alle ambizioni dei nuovi soggetti politici che si affacciano alla ribalta della storia.

Sto semplificando molto, ma la sostanza dell’analisi di Schmitt è questa. Il disconoscimento dei poteri ai quali faceva riferimento la normativa precedente, il papato e l’impero, determina una crisi di legittimità. L’idea di una casa comune cristiana, sulla quale bene o male tutto il medioevo si era retto, si dissolve, e ciò innesca situazioni di conflitto che sono diverse nelle cause, nei modi e negli esiti da quelle del mondo antico e medioevale. Dapprima almeno ufficialmente questi conflitti mantengono un carattere di scontro religioso (la guerra dei trent’anni, ad esempio), ma assumono poi via via le valenze di guerre civili.

Ora, per comporre queste conflittualità cruente e indiscriminate (l’hobbesiano bellum omnium contra omnes) si afferma sempre più lo Stato “moderno”, che regolamenta gli scontri e definisce la linea amico/nemico, sulla base però di una inimicizia orientata all’appropriazione territoriale. La politica dello stato è una politica di potenza, e funziona giocoforza a detrimento di altre entità statali-territoriali, perché la potenza, nella prospettiva continentale. si misura essenzialmente nella quantità di territorio controllato. Regolamentare gli scontri non significa dunque liquidarli. Significa “formalizzarli”, dettare regole per la loro conduzione (ad esempio, una guerra si inizia con una dichiarazione di guerra e si chiude con un armistizio), per quanto possibile senza coinvolgere i civili e facendo un uso moderato della violenza: in pratica al nemico viene riconosciuto uno status giuridico, ne vengono considerate, anche se non accettate, le ragioni. Tutto questo naturalmente in linea teorica, perché poi la dicotomia amico/nemico può essere estesa fino all’annientamento fisico dell’avversario. È comunque evidente che queste regole valgono solo fino a quando l’elemento di riferimento rimane la terra, sulla quale hanno senso dei confini e le distinzioni che questi impongono. La violenza viene dunque limitata nel Vecchio Continente, ma può esplodere senza vincoli sul mare e nei territori extraeuropei.

Ecco che si chiarisce allora il ruolo dei pirati e dei corsari di cui sopra. Hanno aperto un fronte nuovo, i primi scorrazzando per i mari come nemici di tutti, hostes humani generis, i secondi facendolo come “imprenditori privati”, autorizzati da lettere di corsa rilasciate dai loro governi ad arrembare le navi nemiche. Gli uni e gli altri hanno annunciato la grande trasformazione, anticipando il nuovo equilibrio tra elementi e tra continenti.

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In sostanza: il mare – che appare infinito, illimitato e sempre uguale a se stesso – a differenza della terra rimane libero per la pesca, la navigazione pacifica e la belligeranza. Rimanda in fondo allo stato di natura. La guerra che si combatte su di esso è guerra indiscriminata di preda e di distruzione, coinvolge tutto il naviglio battente bandiera nemica e persino le navi di paesi neutrali che commercino col nemico. La guerra terrestre mirava invece alla conquista di territorio e dunque a preservarne la popolazione, le risorse e l’ordine pubblico. Anche un’occupazione temporanea tendeva pur sempre alla conservazione dell’ordine sociale e dell’ordinamento giuridico vigente, se in linea con lo standard europeo.

La trasformazione agisce ancor più in profondità. Come abbiamo già visto sottolineare da Hegel, l’opzione per un’espansione marittima si è rivelata assolutamente funzionale alla rivoluzione industriale. Le innovazioni tecniche hanno senz’altro facilitato anche gli spostamenti via terra, ma per la traversata e la conquista dei mari sono addirittura cruciali. Il controllo e il dominio progressivo dell’elemento marino si sono immediatamente legati al progresso dell’equipaggiamento tecnico, che ha diminuito i rischi, sollecitato l’azzardo e alimentato la fiducia in una libertà senza limiti. Tradotto in concreto, questi stimoli e le risposte che hanno dettato hanno costituito il volano per le scoperte industriali che tra Settecento e Ottocento hanno valso all’Inghilterra il primato tecnologico ed economico.

L’epoca del libero commercio fu anche l’epoca del libero dispiegarsi della superiorità industriale ed economica dell’Inghilterra. Libero mare e libero mercato mondiale si unirono in una idea di libertà di cui solo l’Inghilterra poteva essere il latore e il custode”. Un’idea di libertà che si traduceva anche nell’aspettativa (non solo da parte degli inglesi, ma di tutto il mondo in via di industrializzazione), legata al rapido incremento della ricchezza, di un Paradiso terrestre millenario.

E tuttavia, durante la fase quasi bisecolare di dominio sul mondo, un dominio che sembrava definitivo, la rivoluzione industriale stava producendo anche una rivoluzione rispetto all’essenza stessa dell’isola e una mutazione antropologica della sua gente: “Da grande pesce il Leviatano si trasformò in macchina […]. La macchina mutò il rapporto dell’uomo con il mare. La temeraria specie di uomini che fino a quel momento aveva fatto la grandezza della potenza marittima perse il suo antico significato. […] Tra l’elemento del mare e l’esistenza dell’uomo si frappose un dispositivo meccanico”.

Secondo Schmitt altro è misurarsi col mare in un corpo a corpo, altro è invece un dominio meccanizzato, dovuto alla tecnologia navale sviluppata. “L’esistenza puramente marittima – il segreto della potenza mondiale britannica – era stata colpita nella sua essenza […]. Il mare rimase un forgiatore di uomini, ma l’azione di quella spinta che aveva trasformato un popolo di pastori in corsari diminuì, e a poco a poco cessò”.

E così, già all’alba del ventesimo secolo lo spazio d’azione delle grandi potenze si era talmente ampliato da non consentire più un predominio marittimo britannico. Si affacciavano sulla scena altri concorrenti, aventi alle spalle un potenziale industriale ben maggiore (gli Stati Uniti, ad esempio, ma anche la stessa Germania). Soprattutto però si stavano aprendo le altre due dimensioni, quella dell’aria con l’invenzione degli aeroplani e le applicazioni dell’elettricità, e quella del fuoco con i motori a combustione e con le bombe deflagranti e detonanti.

Sugli sviluppi futuri Schmitt è molto prudente. Non dimentichiamo che scrive in Germania, nel bel mezzo del conflitto più spaventoso che l’umanità abbia mai conosciuto, mentre la Luftwaffe è appena uscita sostanzialmente sconfitta dalla battaglia aerea d’Inghilterra e l’Operazione Barbarossa ha bruciato oltre mezzo milione di veicoli e milioni di uomini sul fronte russo. Sono avvenimenti che confermano da un lato e smentiscono dall’altro le sue idee sul dominio dell’aria e della potenza di fuoco. Mentre già intravede il fallimento del progetto tedesco di espansione territoriale sul continente, gli riesce difficile immaginare un nuovo assetto dell’ordine mondiale.

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Si limita quindi a constatare che il nuovo stadio della rivoluzione spaziale ha già prodotto un ulteriore mutamento del concetto di spazio. “Oggi non concepiamo più lo spazio come una mera dimensione in profondità, vuota di qualsiasi contenuto pensabile. Lo spazio è diventato per noi il campo di forze dell’energia, dell’attività e del lavoro dell’uomo.” Il che, scritto ottanta anni fa, mostra una notevole capacità di preveggenza, se consideriamo che il fattore produttivo principale oggi è il lavoro immateriale, il traffico di informazioni che avviene appunto attraverso lo spazio aereo.

Inoltre “rispetto all’epoca dei velieri per l’uomo il mondo del mare è mutato elementarmente. Oggi, in tempo di pace, qualsiasi armatore può sapere giorno per giorno e ora per ora in quale preciso punto dell’oceano si trova la sua nave in mare aperto. Ma, se le cose stanno così, viene a cadere anche quella separazione di terra e mare su cui si fondava il legame durato sinora tra dominio marittimo e dominio mondiale”.

Insomma: “Cresce, inarrestabile e irresistibile, il bisogno di un nuovo nomos del nostro pianeta. Lo invocano le nuove relazioni dell’uomo con i vecchi e i nuovi elementi, e lo impongono le mutate dimensioni dell’esistenza umana”. In tutto questo “molti vedono solo un disordine privo di senso, laddove in realtà un nuovo senso sta lottando per il suo ordinamento”.

Che il mutamento si sia verificato, e che sia stato radicale quanto e forse molto più di quello del XVI secolo, è indubbio. Che un nuovo senso si sia affermato, è già più discutibile: o almeno, si è senz’altro affermato, ma sarebbe assai difficile anche per Schmitt riconoscerlo. Direi che se gli antesignani dobbiamo coglierli, invece che nei corsari, nei filibustieri della finanza e nei pirati informatici, allora il futuro si annuncia davvero fosco.

Dovremmo cominciare a prendere in considerazione un quinto “elemento”, ignoto ai filosofi antichi: un virus spirituale malefico e istupidente, capace di convogliare ogni umana volontà di potenza in una voluttà di suicidio di tutta la specie.

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La cosa buffa, o preoccupante, a seconda di come la si vuol vedere, è che in realtà non intendevo fare l’esegesi della Weltanschauung di Schmitt. Spero lo si sia capito, perché altrimenti dovrei vergognarmi del risultato. Non rientrava nel mio progetto iniziale e nemmeno è nelle mie forze. Oltretutto, Schmitt non è affatto tra i miei autori di riferimento. È capitato però che, rileggendo Terra e Mare, mi sia reso conto di aver completamente trascurato in un precedente scritto sulla rivoluzione industriale inglese (Perché l’Inghilterra?) l’aspetto di cui vi si parla: che non sarà determinante quanto lo vorrebbe Schmitt, ma è comunque tutt’altro che trascurabile. Volevo dunque fare parziale ammenda di questa lacuna e nel contempo offrire un po’ di informazione a chi non conoscesse il libro. Ma soprattutto volevo giustificare alcune considerazioni che il reading prima e la rilettura di Terra e Mare poi hanno indotto.

Devo ammettere però che l’argomento mi ha preso la mano e a quel punto le mie considerazioni, che non riguardavano la storia del mondo, ma alcuni particolari aspetti del carattere, del mio e di quello di popoli che un poco conosco, sono passate in second’ordine. Mi limito dunque ad accennarle, ripromettendomi magari di tornarci su in altra occasione. Basterà questo comunque a rendere evidente che non sono in grado di abbandonarmi a una riflessione senza filtrarla attraverso le esperienze letterarie. È così, non posso farci nulla.

Sul mio rapporto col mare

Amo nuotare, ovunque, ma tanto più in mare. Dal momento che lo faccio quasi sempre in Liguria, quando mi spingo un po’ più al largo approfitto per abbandonarmi a galleggiare a morto, rivolto indietro a considerare l’arco dei primi contrafforti appenninici che chiudono lo sguardo a poche centinaia di metri, a volte a poche decine, dalla riva. Confronto quella barriera naturale con l’immagine che ho davanti, un orizzonte piatto e aperto e invitante, che una suggestione culturale mi fa percepire persino leggermente incurvato. E mi chiedo spesso da cosa sono maggiormente attratto. Da un lato c’è la sicurezza della terraferma, tanto più di una riva difesa alle spalle da una recinzione orografica che crea identità territoriale, racchiude un mondo che conosco e che mi è famigliare, anche se tecnicamente ne vivo al di fuori. Anzi, questa distanza mi porta a percepirne forse ancora meglio il particolare carattere aspramente “terrigno”. Dal lato opposto si apre la possibilità di fuga verso altri mondi, quali che siano, dove non valgono le stesse regole, le stesse consuetudini, lo stesso “nomos” direbbe Schmitt, che vale sulla mia terra. La possibilità di essere “un uomo libero, un orgoglioso nuotatore che fendeva l’acqua in cerca di un nuovo destino”, come Il Clandestino di Conrad. Ancora oggi, quando l’età mi ha tolto ogni voglia di sperimentare il nuovo e il diverso, e sempre più volentieri mi rifugio nella sicurezza del consueto, mi capita di rivolgermi la stessa domanda: magari ad una distanza sempre minore dalla riva, per cui la risposta parrebbe già implicita: ma ancora sto a chiedermi se il mio sia stato, al netto di esiti tutt’altro che clamorosi, uno spirito avventuroso o uno tranquillo, talassico o terraneo.

Se provo a interrogare le scienze naturali o quelle psicologiche ricevo risposte contraddittorie, almeno rispetto alle mie esperienze. Per la biologia il contatto e la vicinanza con l’acqua aumentano il rilascio di dopamina e serotonina, le sostanze chimiche collegate alla felicità. Per lo psicologo l’acqua non solo simboleggia la vita, ma anche la rinascita. Il movimento del mare e la sua immensità hanno un effetto quasi ipnotico, che genera una sensazione di tranquillità e benessere che ci permette di rigenerarci. In effetti, anche in molte religioni il mare viene considerato simbolo di purificazione. Per la psicanalisi poi il mare è una delle immagini più frequenti dell’inconscio, di quello personale come di quello collettivo. E via di questo passo.

Devo avere un metabolismo un po’ bizzarro, perché le sensazioni che il mare mi trasmette sono diverse. Su di me l’effetto è adrenalinico, non certo di tranquillità, ma di voglia di solcarlo, di penetrarlo. Non resisto cinque minuti sulla spiaggia, devo entrare in acqua e spingermi al largo. Byron descrive perfettamente questa pulsione ne Il pellegrinaggio del giovane Aroldo:

E io ti ho amato, Oceano,
e la gioia dei miei svaghi giovanili,
era di farmi trasportare dalle onde
come la tua schiuma;
fin da ragazzo mi sbizzarrivo con i tuoi flutti,
una vera delizia per me.
E se il mare freddo faceva paura agli altri,
a me dava gioia,
Perché ero come un figlio suo,
E mi fidavo delle sue onde, lontane e vicine,
E giuravo sul suo nome, come ora.

(e tra l’altro l’ha anche tradotta in vere imprese natatorie, come la traversata dei Dardanelli, ripetuta un secolo e mezzo dopo, a settant’anni, da Patrick Leigh Fermor, e da Charles Sprawson. Io, molto più modestamente, mi spostavo da Quarto a Bogliasco)

In gioventù ho anche navigato, sia pure per un breve periodo, e non su una nave da crociera ma imbarcato come mozzo (all’epoca la dizione, non so se ancora politicamente corretta, era “piccolo di camera”) su una petroliera: ebbene, la sensazione era la stessa: la voglia di andare avanti, di vedere altro mare. Non si trattava certo di una sfida, il natante su cui viaggiavo non era una barchetta a vela ma un mastodonte più che sicuro. Era piuttosto la strana sensazione di stare immerso in qualcosa che visto da riva, come scrive Michelet,” soprattutto quando c’è calma piatta e le onde si frangono tranquille e regolari sulla rena, ti trasmette il senso dell’instancabile eternità”, dalla quale non puoi che essere escluso: mentre visto da dentro, quando lo percorri, non appare più come quell’entità infinita ed eterna che ti respinge e ti annichilisce, ricordandoti la tua diversità. Ho anche constatato di non soffrire affatto il rollio o il beccheggio delle onde, neppure quando in mezzo a una tempesta erano particolarmente accentuati. Ancora dal giovane Aroldo:

Sull’acqua ancora una volta. Malgrado tutto sull’acqua!
E le onde sotto di me scalpitano come un destriero
Che conosce il suo cavaliere. Sia benvenuto il loro mugghiare!
Ovunque mi portino mi guidino rapide!

A quanto pare ho nelle vene un po’ di sangue inglese.

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… e sul mio rapporto con l’Inghilterra

Qui mi soccorre la lettura di Terra e Mare. Ho sempre nutrito una grande ammirazione per lo spirito inglese, a dispetto di quanto ne dice mia figlia, che vive sull’isola, ne è cittadina, ma non ha dei suoi connazionali una grande opinione. La mia ammirazione ha una matrice letteraria, senz’altro, perché la letteratura inglese è quella cui ho maggiormente attinto sin da ragazzo e che ha alimentato alla grande la mia fame giovanile di viaggi e di avventura. Il riferimento obbligato in questo caso è naturalmente Stevenson. “Per un ragazzo di dodici anni traversare la Manica è come cambiare cielo; per un uomo di ventiquattro traversare l’Atlantico significa appena un lieve cambiamento di alimentazione. Ma io ero ormai uscito fuori dall’ombra dell’Impero Romano, che ci ha dominato dalla culla con le rovine dei suoi monumenti, le cui leggi e la cui letteratura ci assediano da ogni parte, piene di divieti e di costrizioni.” Schmitt avrebbe visto in queste parole una conferma della sua analisi.

Naturalmente parlo dell’Inghilterra di ieri, o perlomeno dell’immagine di sé che quel paese fino a ieri riusciva a trasmettere. Mi son fatto l’idea (e quando mi faccio un’idea rimane ben radicata) che quello inglese sia un popolo che ha saputo mediare tra la volontà di fuga e di rottura e l’attaccamento alla terra e alle convenzioni. Ha attraversato gli oceani non per dimenticare la sua isola, ma per espanderla, per portarne un pezzo altrove, e magari per rigenerarla. Credo anche che il suo rapporto col mare sia stato in gran parte determinato dalle condizioni di temperatura e di violenza di quest’ultimo. Il mare inglese, lo dico per esperienza diretta, non è fatto per starci ammollo ma per essere affrontato: le sue onde, le sue correnti e le sue maree vanno conosciute e rispettate. Conrad ne era consapevole, tanto da scrivere che “Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza”. Ma questo non implica un rifiuto, anzi: “Scoprii quanto ero uomo di mare, nel cuore, nella mente e, per così dire, nel corpo: un uomo esclusivamente di mare e di navi; il mare, l’unico mondo che contasse, e le navi, un banco di prova di virilità, di carattere, di coraggio, di fedeltà e d’amore”. Anche qui mi riconosco.

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Infine: sui popoli di terra e su quelli di mare

Ricordo che mentre leggevo Il Mare di Michelet mi erano tornati in mente proprio i versi di Byron. Mi erano tornati in mente perché l’incipit del libro di Michelet trasmette un’immagine ben diversa: “Un coraggioso marinaio olandese, fermo e freddamente osservatore, che trascorre la sua vita in mare, dice francamente che la prima impressione che si riceve è la paura. L’acqua, per tutti gli esseri terrestri, è l’elemento non respirabile, l’elemento dell’asfissia. Barriera fatale, eterna, che separa irrimediabilmente i due mondi”.

E continua su questo tono, sottolineando come “Gli orientali vedono solo l’abisso amaro, la notte dell’abisso. In tutte le lingue antiche, dall’India all’Irlanda, il nome del mare ha come sinonimo o analogo il deserto e la notte. […] La massa immensa in estensione, enorme in profondità, che copre la maggior parte del globo, sembra un mondo di tenebre. Questo è soprattutto ciò che colse e intimidì i primi uomini […]”.

Quanto al rapporto con l’acqua marina, è l’esatto contrario di quello di Byron: “L’acqua del mare non ci rassicura in alcun modo con la sua trasparenza. Non è la simpatica ninfa delle sorgenti, delle limpide fontane. È opaca e pesante; colpisce forte. Chiunque vi si avventuri si sente fortemente spinto in alto. È vero che aiuta il nuotatore, ma lo controlla; e questi si sente come un bambino debole, cullato da una mano potente, che potrebbe facilmente spezzarlo”.

Il libro è poi in realtà tutto un peana ai doni del mare, ai benefici per la salute e per l’economia, ecc …. Ma con un rispetto che non è quello di Conrad. Intanto “Le piccole libertà audaci che ci prendiamo sulla superficie dell’elemento indomabile, la nostra audacia nell’incontrare questo profondo sconosciuto, sono poche, e non possono fare nulla per il giusto orgoglio che il mare mantiene, in realtà, chiuso, impenetrabile”.

Del resto anche Hegel aveva già affermato che “Il coraggio di fronte al mare deve essere insieme astuzia, perché ha a che fare con ciò che è astuto, con l’elemento più malsicuro e mendace. Questo infinito piano è assolutamente morbido, non resiste affatto ad alcuna pressione, neanche al soffio: ha l’aria infinitamente innocente, remissiva, amabile, carezzevole, ed è appunto questa cedevolezza che cambia il mare nel più pericoloso e formidabile elemento”.

Insomma, si direbbe che i popoli continentali, anche quelli che hanno avuto dei cantori del mare come Victor Hugo, Jules Verne o Pierre Loti, e sono bagnati su tre lati, col mare non abbiano mai conquistato la stessa confidenza degli inglesi. Questo vale tanto per i francesi (quando soggiorna in Bretagna e in Normandia, Michelet constata che i pescatori sono tutti ugonotti) e per gli spagnoli (i loro più grandi navigatori, Colombo e Magellano, arrivano da fuori) che per gli italiani: un po’ meno per i portoghesi e per gli olandesi. Per Hegel, e anche per Schmitt, in quanto tedeschi la cosa è già più comprensibile (ma ad Hegel non piacevano nemmeno le montagne, non piaceva nulla che non fosse immediatamente ric0onducibile sotto il dominio della ragione). Per quanto concerne gli italiani, popolo di santi, poeti e navigatori, in fondo questi ultimi si sono storicamente formati sulle acque relativamente più tranquille del Mediterraneo. Dei santi conviene tacere, ma anche i nostri poeti non mostrano una particolare dimestichezza con l’elemento marino. Quando raramente ne parlano, come Montale in Maestrale, lo fanno dalla riva, avendo di fronte un mare placido:

S’è rifatta la calma
nell’aria: tra gli scogli parlotta la maretta.
Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma
a pena svetta.
Una carezza disfiora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s’infrange e ancora
il cammino ripiglia.

La domanda a questo punto torna ad essere: gli inglesi sono diventati un popolo talassico per forza di cose, dal momento che vivevano su un’isola (ma allora i sardi? o gli abitanti dei Caraibi), o per una scelta spirituale, come in fondo afferma Schmitt e come già argomentava Michelet? (“La razza inglese – scrive quest’ultimo – ha riacquistato una forza straordinaria e un’attività estrema. Il suo rinnovamento lo deve prima al suo grande business (niente di sano come il movimento), poi, va detto, anche al cambiamento delle sue abitudini. Adottò un’altra dieta, un’altra educazione, un’altra medicina; tutti volevano essere forti per agire, commerciare, vincere.”)

Ma soprattutto: non è che il rapporto col mare agisca sui singoli individui come fa a livello delle popolazioni, e che anche là dove non è la causa sia quanto meno l’indizio di una precisa scelta esistenziale? Non c’è alcun giudizio di valore dietro questa domanda. Solo verrei capire se anch’io, sotto sotto, sono un calvinista.

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La breve bibliografia qui suggerita raccoglie sia i libri ai quali ho fatto diretto riferimento nel pezzo, sia alcuni di quelli che, senza comparire, lo hanno ispirato.

George Byron, Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, Kessinger 2010
Joseph Conrad, La linea d’ombra, Rizzoli 2008
Joseph Conrad, Il Clandestino, De Agostini 1982
Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani 2006
Victor Hugo, I lavoratori del mare, Mursia 2016
Raffaele La Capria, Ferito a morte, Bompiani 1961
Pierre Loti, Pescatore d’Islanda, Nutrimenti 2010
Jules Michelet, Il Mare, Elliot 2019
Eugenio Montale, Ossi di Seppia, Mondadori 1951
Vittorio G. Rossi, Oceano, Mondadori 1957
Vittorio G. Rossi, Terra e acqua, Mursia 1988
Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi 2002
Senofonte, Anabasi, Rizzoli 2008
Stenio Solinas, Percorsi d’acqua, Ponte alle Grazie 2004
Charles Sprawson, L’ombra del massaggiatore nero, Adelphi 1995
Robert L. Stevenson, Nei Mari del Sud, Editori Riuniti 2002
Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari, Einaudi 2018

P.S. Una curiosità linguistica. Il mare è designato esclusivamente da un sostantivo maschile solo in italiano e in islandese. In inglese, in francese, in olandese, persino nel greco antico è al femminile, in spagnolo lo stesso termine può essere declinato in entrambi i generi. Vorrà dire qualcosa?

In pancia alla balena

di Paolo Repetto, 8 novembre 2021

La ricognizione nelle letture della scorsa estate mi sta prendendo la mano. Davvero non mi ero accorto che la stagione fosse stata così ricca. Ero distratto dai nostri successi sportivi (la raccolta continua: ori mondiali nel ciclismo su pista, nella ginnastica a corpo libero e in quella ritmica e nel nuoto: uno persino in matematica; manca più solo il rugby), dall’uscita allo scoperto dei neo-squadristi e dall’epidemia di coming out televisivi.

Riparto dunque dall’acquisizione più recente, quel Balene nella pancia che è comparso poco tempo fa sul sito. Non voglio mettere il becco dappertutto, ma la lettura mi ha intrigato “attivamente”, mi ha indotto a spingere un po’ più in là lo sguardo, e credo fosse ciò che chi lo ha scritto si augurava. L’ho fatto a modo mio, senza scendere in profondità e limitandomi a cercare altri esempi letterari di soggiorni più o meno prolungati nelle pance di mostri marini: il che magari non risponde esattamente agli intenti dell’autore, ma soddisfa piuttosto la mia maniacale sindrome dei repertori. E tuttavia, qualcosa è venuto fuori anche da questa scorribanda in superficie. Le considerazioni che seguono non sono quindi riservate solo a chi è affetto dalla stessa mia malattia.

Per cominciare, ho verificato che la condizione dalla quale il saggio prende spunto, la prigionia nel ventre di un mostro, di un pesce o di un cetaceo, è talmente ricorrente da costituire un vero e proprio tòpos, le cui costanti sono una situazione iniziale negativa, l’essere ingoiato, e una soluzione finale positiva, l’uscirne vivo (e la singolarità sta proprio nel fatto che i protagonisti rimangono incolumi, passano per la bocca senza essere triturati dai denti, scivolano senza essere soffocati in gola e non sono bruciati dagli acidi dello stomaco). Non voglio inseguirne qui tutte le diverse fenomenologie, perché una cosa del genere porterebbe solo ad un elenco arido e inutile: le narrazioni mitologiche e le letterature di tutti i popoli del mondo sono piene di mostri marini di dimensioni immani e dalle forme più fantasiose, balene-isola, serpenti di mare, piovre giganti, draghi, ecc…. Mi limito pertanto a ricordare alcune delle più famose (dando per scontate naturalmente le storie di Giona, di Pinocchio e della balena bianca, che sono già state ampiamente rievocate in Balene nella pancia), cercando di lasciar parlare il più possibile i testi. Credo che anche quelli che ai fini dell’indagine sulla “leviatanologia” paiono irrilevanti possano in realtà diventare rivelatori.

Ciò che veramente importa è infatti quel che accade alle vittime, una volta dentro. La condizione e il tipo di reazione possono variare, ma sono tutte riconducibili grosso modo a due filoni: uno che potremmo definire mistico-biblico (anche se la storia di Giona non è affatto un archetipo, riprende miti mesopotamici molto più antichi) e un altro di matrice greco-razionalistica. Nel primo caso l’incidente è vissuto come occasione di riflessione, di espiazione e di redenzione rispetto ad una colpa originaria, il pesce è uno strumento di Dio e la soluzione arriva dall’esterno, per volontà appunto divina; nel secondo è sofferto come prigionia soffocante da cui evadere, il pesce-mostro è ucciso dall’interno, e la liberazione è frutto della intelligenza e dello spirito di sopravvivenza umani.

In pancia alla balena 02In sostanza, la vicenda viene usata spesso come metafora di una condizione di disagio psicologico, talvolta come simbolico passaggio di rigenerazione, di norma come espediente fantasioso per insaporire l’avventura.

Un esempio di reazione “razionale” (le virgolette qui ci stanno tutte) è offerto, nella letteratura classica, dalla Storia Vera di Luciano di Samosata. Di vero nella Storia di Luciano c’è in effetti ben poco, anzi, proprio nulla, e quindi andrebbe gustata esclusivamente per l’abilità nel tenere sempre alta la curva dell’iperbole, senza pretendere significati reconditi. Ma il confronto con il trattamento biblico della stessa situazione diventa inevitabile.

Vedo di riassumere. L’autore e i suoi compagni, che si sono messi per mare in cerca di avventure, ne trovano più di quante vorrebbero, tanto da finire addirittura sulla luna. Di ritorno dal nostro satellite (dove peraltro le cose vanno esattamente come da noi, tra guerre continue) scendono sulla Terra, o meglio planano sull’oceano, e quasi subito la loro nave viene inghiottita da un’enorme balena. All’interno del cetaceo trovano un grande mare, e in mezzo ad esso un’isola abitata da tribù cannibali e primitive. Lasciamo però la parola al protagonista:

Due soli giorni navigammo con buon tempo, al comparire del terzo dalla parte che spuntava il sole a un tratto vediamo un grandissimo numero di fiere diverse e di balene, e una più grande di tutte lunga ben millecinquecento stadi venire a noi con la bocca spalancata, con larghissimo rimescolamento di mare innanzi a sé, e fra molta schiuma, mostrandoci denti più lunghi dei priapi di Siria, acuti come spiedi, e bianchi come quelli d’elefante. Al vederla: – Siamo perduti –, dicemmo tutti quanti, e abbracciati insieme aspettavamo; ed eccola avvicinarsi, e tirando a sé il fiato c’inghiottì con tutta la nave; ma non ebbe tempo di stritolarci, ché fra gl’intervalli dei denti la nave sdrucciolò giu.

Come fummo dentro la balena, dapprima era buio, e non vedevamo niente; ma dipoi avendo essa aperta la bocca, vediamo una immensa caverna larga e alta per ogni verso, e capace d’una città di diecimila abitanti. Stavano sparsi qua e là pesci minori, molti altri animali stritolati, e alberi di navi, e ancore, e ossa umane, e balle di mercanzie. Nel mezzo era una terra con colline, formatasi, come io credo, dal limo inghiottito; sovr’essa una selva con alberi d’ogni maniera, ed erbe e ortaggi, e pareva coltivata; volgeva intorno un duecento quaranta stadi, e ci vedevamo anche uccelli marini, come gabbiani e alcioni, fare i loro nidi su gli alberi.

Allora venne a tutti un gran pianto, ma infine io diedi animo ai compagni, e fermammo la nave. Essi battuta la selce col fucile accesero del fuoco, e così facemmo un po’ di cotto alla meglio. Avevamo intorno a noi pesci d’ogni maniera, e ci rimaneva ancora acqua di Espero. Il giorno appresso levatici, quando la balena apriva la bocca, vedevamo ora terre e montagne, ora solamente cielo, e talora anche isole, e così ci accorgemmo che essa correva veloce per tutte le parti del mare.

Poiché ci fummo in certo modo abituati a vivere così, io presi sette compagni e andai nella selva per scoprire il paese. […] Affrettato il passo giungemmo a un vecchio e un giovinetto, che con molta cura lavoravano un orticello, e l’annaffiavano con l’acqua condotta dalla fonte.

In pancia alla balena 03Compiaciuti insieme e spauriti, ci fermammo; e loro, come si può credere, commossi del pari, rimasero senza parlare. Dopo alcun tempo il vecchio disse: Chi siete voi, o forestieri? forse geni marini o uomini sfortunati come noi? ché noi siamo uomini, nati e vissuti su la terra, e ora siamo marini, e andiamo nuotando con questa belva che ci chiude, e non sappiamo che cosa siamo diventati, ché ci par d’essere morti, e pur sappiamo di vivere.

A queste parole io risposi: Anche noi, o padre, siamo uomini, e siamo arrivati poco fa, inghiottiti l’altro ieri, con tutta la nave. Ci siamo inoltrati volendo conoscere com’è fatta la selva, che pareva grande e selvaggia […] Ma narraci i casi tuoi: chi sei tu, e come qui entrasti.

Quando fummo sazi, ci domandò di nostra ventura, e io gli narrai distesamente ogni cosa della tempesta, dell’isola, del viaggio per l’aria, della guerra, fino alla discesa nella balena.

Egli ne fece le meraviglie grandi, e poi a sua volta ci narrò i casi suoi, dicendo: Fino alla Sicilia navigammo prosperamente, ma di là un vento gagliardissimo dopo tre giorni ci trasportò nell’Oceano, dove abbattutici nella balena, fummo uomini e nave inghiottiti; e morti tutti gli altri, noi due soli scampammo. Sepolti i compagni, e rizzato un tempio a Nettuno, viviamo questa vita coltivando quest’orto, e cibandoci di pesci e di frutti. La selva, come vedete, è grande, e ha molte viti, dalle quali facciamo vino dolcissimo; ha una fonte, forse voi la vedeste, di chiarissima e freschissima acqua. Di foglie, ci facciamo i letti, bruciamo fuoco abbondante, prendiamo con le reti gli uccelli che volano, e peschiamo vivi i pesci che entrano ed escono per le branchie della balena; qui ci laviamo ancora, quando ci piace, che c’è un lago non molto salato, di un venti stadi di circuito, pieno d’ogni sorta di pesci, dove nuotiamo e andiamo in una barchetta che io stesso ho costruito. Son ventisette anni da che siamo stati inghiottiti, e forse potremmo sopportare ogni altra cosa, ma troppo grave molestia abbiamo dai nostri vicini, che sono intrattabili e selvatici.

A sistemare i vicini ci pensano Luciano e i suoi compagni. Secondo un costume che già all’epoca era consolidato l’equipaggio stermina tutti i selvaggi, ma si ritrova poi ad assistere ad una battaglia tra giganti che combattono stando su isole lunghissime, che spostano a remi come fossero piroghe. I greci capiscono allora che la faccenda può diventare delicata e cominciano a studiare come filarsela.

Da allora in poi, non potendo io sopportare di rimanere più a lungo nella balena, andavo mulinando come uscirne. In prima ci venne il pensiero di forare nella parete del fianco destro, e scappare. Ci mettemmo a cavare; ma cava, e cava quasi cinque stadi, era niente: onde smettemmo, e pensammo di bruciare il bosco, e così far morire la balena. Riuscito questo, ci sarebbe facile uscire. Cominciando dunque dalle parti della coda vi mettemmo fuoco, e per sette giorni ed altrettante notti non sentì bruciarsi; nell’ottavo ci accorgemmo che si risentiva, ché più lentamente apriva la bocca, e come l’apriva la richiudeva. Nel decimo e nell’undecimo era quasi incadaverita, e già puzzava. Nel dodicesimo appena noi pensammo che se in un’apertura di bocca non le fossero puntellati i denti mascellari da non farglieli più chiudere, noi correremmo pericolo di morir chiusi dentro la balena morta: onde puntellata la bocca con grandi travi, preparammo la nave, vi riponemmo molta provvigione d’acqua, e destinammo Scintaro a fare da pilota. Il giorno appresso era già morta, noi varammo la nave, e tiratala per l’intervallo dei denti, e ad essi sospesala dolcemente la calammo nel mare.

Usciti a questo modo, salimmo sul dorso della balena, e fatto un sacrificio a Nettuno, ivi rimanemmo tre dì, ché era bonaccia, e il quarto ci mettemmo alla vela. (Luciano di Samosata, Storia vera, libri I e II)

Al di là degli intenti di Luciano, che cerca solo di catturare e mantenere viva la meraviglia del lettore con gli effetti speciali, e quindi usa toni e modi che con la vicenda biblica di Giona hanno niente a che vedere, vengono fuori dei particolari che segnano una differenza significativa. Il luogo buio ma ricco di pesci, relitti di navi e ossa umane, piuttosto che a un loculo dove giacere per tre giorni in attesa della rinascita (che è il caso di Giona, a cui si rifarà poi dichiaratamente quello di Cristo) somiglia molto ad un possibile aldilà, abitato da uomini cui “pare d’essere morti, e pur sanno di vivere”. Anche se non è lecito leggere nella narrazione romanzesca di Luciano troppi significati simbolici, è pur vero che presso le culture classiche la tomba è un luogo ricco di oggetti e cibo, corredo necessario ad accompagnare il defunto nella sua nuova condizione. Come a dire che di qui o di là, non c’è poi molta differenza. Non è certo quello che pensavano gli eroi omerici, a giudicare dalle interviste che Ulisse realizza durante la discesa nell’Ade, ma si attaglia invece perfettamente all’epicureismo che Luciano professa. I tempi eroici sono finiti da un pezzo, e questo è lo specchio del mondo in cui Luciano vive.

In pancia alla balena 04Anche lui fa però riferimento ad una preesitente mitologia classica che di mostri acquatici ne propone a bizzeffe, o che propone lo stesso con fattezze diverse (è quello che viene denominato kētos; da cui successivamente, nella tradizione cristiana, il cetaceo per eccellenza, identificato nella balena). Perseo, ad esempio, lo combatte per salvare Andromeda (e in alcune versioni del mito lo uccide dopo essersi fatto ingoiare. In altre è invece Eracle ad uccidere ketos).

Particolarmente temuti sono poi i serpenti marini e le piovre. Nel secondo libro dell’Eneide sono proprio due serpenti usciti dal mare ad aggredire sulla spiaggia di Troia Laocoonte ed i suoi due figli. Riporto l’episodio, facendolo però raccontare non da Virgilio, ma da un autore leggermente più tardo, Petronio, perché nella sua narrazione c’è un interessante parallelo tra due tipi di mostruosità, quella naturale rappresentata dai serpenti che ingoiano i figli di Laocoonte e dilaniano il padre accorso in loro aiuto, e quella artificiale, rappresentata dal cavallo, (che tale appare subito ai Troiani, un mostrum, come dice Enea), nella cui pancia si nascondono i Greci per riuscire a penetrare in Troia.

Laocoonte ministro di Nettuno fende urlando la folla, vibra la lancia, la scaglia nel ventre del mostro, ma il volere dei numi gli fa debole il braccio, e il colpo rimbalza attutito, e dà credito all’inganno. Ma ancora egli chiede vigore alla mano spossata e saggia con l’ascia i concavi fianchi. Trasalgono i giovani chiusi nel ventre panciuto, e al loro sussurro la mole di quercia palpita d’estranea angoscia. Quei giovani presi andavano a prendere Troia, finendo per sempre la guerra con frode inaudita. Ma ecco un altro prodigio là dove Tenedo sorge dal mare, i flutti si gonfiano turgidi, rimbalzano le onde, si gonfiano di schiuma che la spiaggia ribatte, quale un tonfo di remi arriva nel cuore sereno della notte, quando solca una flotta le acque del mare che fervide gemono sotto l’impeto delle chiglie. Là noi volgiamo gli occhi e vediamo due draghi, che torcendosi spingono l’onda agli scogli, e coi petti impetuosi vorticano schiume intorno ai fianchi, come alte navi. Il mare percuotono con le code, le sciolte criniere lampeggiano come gli occhi, un bagliore di folgore incendia il mare e le onde sono tutte un tremolio di fremiti. Ogni cuore è sgomento. Cinti di sacre bende e con addosso il costume frigio i due figli gemelli di Laocoonte stavano lì sulla spiaggia. A un tratto li avvinghiano nelle loro spire i due draghi di fiamma, e quelli protendono ai morsi le piccole mani. Ciascuno non sé ma il fratello aiuta, e pietà si scambiano, finché morte li coglie in un mutuo terrore. Alla strage si aggiunge anche il padre, ben debole aiuto, che i due draghi già sazi di morte assalgono e trascinano sul lido. Giace vittima il sacerdote tra le are e il suo corpo percuote la terra. Cosi venne profanato il sacro e Troia affacciata sulla rovina perse per prima cosa gli dèi. (Satyricon, 88.9.4)

In pancia alla balena 05

Anche in questo caso lo scotto per il successo è la permanenza nel ventre buio di un animale. Quasi una forma di iniziazione. Ma, come dice Petronio, quella che si compie qui è una dissacrazione. E la dissacrazione vera è quella operata attraverso la téchne, la capacità di artificio degli umani. Il cavallo è una macchina: non è la prima, esistono altre macchine da guerra, ma questa nasconde uomini nella sua pancia. Prelude a mostri di altro tipo.

In pancia alla balena 06Le creature marine mostruose diventano una presenza fissa nelle mappe tardo-medioevali del mondo, soprattutto in quelle nordiche. Ma perdono per strada la loro valenza simbolica, per assumere invece sempre più una funzione narrativa o decorativa. Non esistono per punire chi si è macchiato di qualche colpa o dubita della giustizia divina, ma rientrano nel folklore paesaggistico e nei rischi dell’avventura. Sono significative in questo senso le immagini di draghi marini che corredano la Storia dei popoli settentrionali di Olao Magno (una delle perle della mia biblioteca: In Vinegia, appresso Francesco Bindoni, MDLXI) o la Carta Marina realizzata dallo stesso tra il 1527 ed il 1539, immagini che sono poi state trasferite pari pari nelle carte di Ortelio agli inizi del secolo successivo. I mostri sono rappresentati nel loro rapporto con gli umani, che rimane sempre ambiguo: nell’immagine di fianco, ad esempio, i naviganti hanno agganciato con l’ancora una creatura mostruosa, scambiandola per un’isola, e sono poi scesi tranquillamente dalla nave per accendere un fuoco sulla sua schiena. In questo caso nella situazione paradossale è evidente la linea di discendenza da Luciano: nelle caratteristiche fisiche attribuite al mostro c’è invece quella dalle antiche mitologie norrene, che al mare, e nella fattispecie all’oceano, associavano pericoli di ogni tipo, e quei pericoli li traducevano e li ibridavano visivamente nelle figurazioni più bizzarre.

In pancia alla balena 08Una vera balena in grasso ed ossa la ritroviamo invece nella letteratura cavalleresca tra Quattrocento e Cinquecento. Nel quarto dei Cinque Canti che Ariosto aggiunse e poi ritolse all’Orlando furioso, a finire nel suo ventre è Ruggero, perseguitato dalla maga Alcina.

Avea Ruggier lasciato poche miglia
Tariffa a dietro, e dalla destra sponda
Vede le Gade, e più lontan Siviglia,
E nelle poppe avea l’aura seconda;
Quando a un tratto di man, con maraviglia,
Un’isoletta uscir vide dell’onda:
Isola pare, ed era una balena
Che fuor del mar scopría tutta la schiena.

Nel panico che segue la nave prende fuoco, e Ruggero tra il morire bruciato e l’annegare sceglie la seconda opzione e si butta in mare con tutte le armi. Ma

Qual suol vedersi in lucida onda e fresca
Di tranquillo vivaio correr la lasca
Al pan che getti il pescatore, o all’esca
Ch’in ramo alcun delle sue rive nasca;
Tal la balena, che per lunga tresca
Segue Ruggier, perché di lui si pasca,
Visto il salto, v’accorre, e senza noja
Con un gran sorso d’acqua se lo ingoja.
Ruggier, che s’era abbandonato e al tutto
Messo per morto, dal timor confuso,
Non s’avvide al cader, come condutto
Fosse in quel luogo tenebroso e chiuso;
Ma perché gli parea fetido e brutto,
Esser spirto pensò di vita escluso.
Era come una grotta ampia e capace
L’oscurissimo ventre ove era sceso (…)
Brancolando, le man quanto può stende
Dall’un lato e dall’altro, e nulla prende.
Un picciol lumicin d’una lucerna
Vide apparir lontan per la caverna.

In pancia alla balena 09Chi sopravviene è un vecchio dalla lunga barba bianca, che alla domanda di Ruggero: sono vivo o sono morto? risponde:

Figliuol, rispose il vecchio, tu sei vivo,
Come anch’io son; ma fôra meglio molto
Esser di vita l’uno e l’altro privo,
Che nel mostro marin viver sepolto.
Tu sei d’Alcina, se non sai, captivo;
Ella t’ha il laccio teso, e al fin t’ha côlto,
Come côlse me ancora, con parecchi
Altri che ci vedrai, giovani e vecchi.

Tra questi altri, presso i quali il vecchio conduce Ruggero, e che si sono organizzati come in un camping, c’è anche Astolfo.

Tosto che pon Ruggier là dentro il piede,
Vi riconosce Astolfo paladino,
Che mal contento in un dei letti siede,
Tra sè piangendo il suo fiero destino.
Lo corre ad abbracciar, come lo vede:
Gli leva Astolfo incontra il viso chino:
E come lui Ruggier esser conosce,
Rinnôva i pianti, e fa maggior l’angosce.

I due si confidano vicendevolmente le proprie sventure, e poi si mettono a tavola, per un banchetto imbandito dai compagni di Astolfo. Come siano alla fine usciti dal ventre della balena non lo sappiamo. Ariosto li liquida così:

Ma di Astolfo e Ruggier più non vi sego:
Diròvvi un’altra volta i lor successi.
Finch’io ritorno a rivederli, ponno
Cenare ad agio, e di poi fare un sonno.

In pancia alla balena 10

Non ce lo dirà mai perché nella versione definitiva dell’Orlando l’episodio che ho appena raccontato non compare: compare sì la balena, ma Astolfo viaggia sul suo dorso accanto ad Alcina, della quale è follemente innamorato. Ruggero si lancia inutilmente in mare per sottrarlo all’incantesimo amoroso, ma è respinto dalle onde. La differenza tra le due versioni è sostanziale: quella da me riportata è stata elaborata da Ariosto in un momento di ripensamenti morali e religiosi (siamo nella fase più calda della riforma protestante), e si fondava sulla possibilità di riscatto dalla pazzia umana attraverso la fede. Sono propenso a credere che non sia estraneo l’influsso dell’Elogio della follia di Erasmo. Questo spiega la riesumazione del modello biblico, declinato alla luce dell’etica cavalleresca, per cui i due eroi, prigionieri della follia umana e redenti dalla follia della Croce, diventano soldati di Cristo.

Il motivo per il quale i cinque canti non sono stati inseriti è comunque evidente. Ripensamenti o no, Ariosto si è reso conto che non c’entravano affatto con lo spirito e con la temperie del poema, e ce li ha risparmiati.

Esistono però, se non nella mitologia almeno nella tradizione popolare, anche dei pesci buoni, come quello che nella quinta giornata del Pentamerone di Giovan Battista Basile sottrae la giovane Nennella all’annegamento, ingoiandola, e la risputa poi fuori dopo averla condotta in salvo. Nennella e il fratello Ninnillo sono stati lasciati nel bosco per volontà di una matrigna cattiva (un pescecane maledetto, la definisce Basile), Dopo varie vicende finiscono separati, e mentre Ninnillo è adottato da un principe, Nennella, rapita da un corsaro, è coinvolta nel naufragio dell’imbarcazione di quest’ultimo, nel quale tutti muoiono tranne lei.

In pancia alla balena 11Solo Nennella […] scampò questo pericolo perché proprio in quel momento si trovò vicino alla barca un grande pesce fatato, che, aprendo un abisso di bocca, se l’inghiottì. E quando la ragazza credeva di avere finito i suoi giorni proprio allora trovò cose da trasecolare nella pancia di questo pesce, perché c’erano campagne bellissime, giardini deliziosi, una casa signorile con tutte le comodità, dove se ne stava da principessa.

Ora accadde che quel pesce la portasse di peso a uno scoglio, dove […] il principe era venuto a prendere il fresco. E Ninnillo s’era posto a un verone del palazzo. Nennella lo vide attraverso le fauci aperte del pesce e gridò: “fratello mio, fratello mio”. […]

Il principe gli disse di accostarsi a pesce e vedere che cosa fosse […] E Ninnillo si avvicinò al pesce e quello, poggiata la testa sopra uno scoglio e aperti sei palmi di bocca, ne fece uscire Nennella, così bella che sembrava proprio una ninfa che, in un intermezzo, usciva, per incanto di qualche mago, da quella bestia. (Pentamerone, V giornata, favola VII)

Per completezza di informazione, c’è il lieto fine: il principe combina per entrambi dei matrimoni da favola, mentre la matrigna finisce sfracellata dentro una botte fatta rotolare giù da una rupe.

Quasi due secoli dopo un altro eroe letterario fa quest’esperienza: è il barone di Münchausen (a proposito: andando a sfogliare per l’ennesima volta il libro delle sue avventure ho ritrovato l’episodio della trombetta da postiglione che si era congelata e che una volta al caldo della stufa si scongela ed emette le sue note. Qui l’autore si è chiaramente ispirato all’episodio di Gargantua che ho riportato ne L’estate tra i ghiacci). Il barone, o meglio, il suo biografo, Rudolf Erich Raspe, pesca a piene mani dai racconti di Luciano e dell’Ariosto, compreso il viaggio sulla luna, e non può certo mancare di fare la sua esperienza col cetaceo. Anzi, è quasi un habitué degli incontri molto ravvicinati con balene o con pesci comunque enormi. Li racconta ad una maniera che sarà un secolo dopo quella di Mark Twain, perentoria ed essenziale, quasi a non lasciare il tempo al lettore di riprendersi dallo stupore. Come a dire: se non mi credi, cosa stai a fare qui, puoi andare a bere da un’altra parte.

Ma è anche il modello sul quale si fondano i cartoni animati del Vicoyote e di Silvestro, di un mondo paradossale, opposto a quello razionale e reale, nel quale l’inverosimile sconfigge di continuo il verosimile, le situazioni sono rovesciate, i rapporti distorti. In fondo questo cumulo continuo di frottole non fa che anticipare la tecnica persuasiva della pubblicità e del dibattito politico moderni. Procede per accumulo di enfatizzazioni, iperboli, pure invenzioni ed esasperazioni, fino a farci accettare la menzogna come norma. Ma almeno, nella bocca del barone tutto il racconto è simpaticamente surreale, le fanfaronate si susseguono come fuochi d’artificio, esplodono a raffica senza accampare alcuna pretesa di credibilità.

Riporto quasi per intero i passi, che traggo da una vecchia traduzione per Marzocco a cura di Giuseppe Fanciulli, perché difficilmente potrete trovare nelle edizioni moderne una versione così fedele all’originale di Raspe (oggi circolano solo “adattamenti”, e tremo a pensare a cosa succederà quando i “politicamente corretti” si ricorderanno del barone).

Errammo per oltre tre mesi senza sapere dove andavamo, non avendo bussola, finché ci trovammo in un mare che appariva tutto nero. Ne assaggiammo l’acqua e scoprimmo con grandissimo stupore che era ottimo vino, così che ci volle tutta la nostra autorità per impedire ai marinai di ubriacarsi. Purtroppo il nostro pensiero fu presto distolto da questa inezia, perché ci trovammo circondati da immense balene e da altri mostri marini smisurati, uno dei quali era talmente lungo che non riuscii a vederne la coda, neanche con l’aiuto dei migliori cannocchiali.

Per disgrazia ci accorgemmo della sua presenza quando gli eravamo già troppo vicini, e in men che non si dice tutta la nostra nave con le vele spiegate e gli alberi ritti passò nella sua gola.

Là dentro errammo per qualche tempo, finché, avendo il mostro inghiottito una prodigiosa massa d’acqua, la nave seguì la corrente, e ci trovammo in un momento nello stomaco della bestia. L’aria per la verità, era laggiù piuttosto calda, e tuttavia gettammo l’ancora in un sicuro porto e ci guardammo in giro. Vi era un gran numero di ancore, gomene, scialuppe e di navi cariche e vuote inghiottite dal mostro. L’oscurità profonda ci costringeva all’uso continuo delle torce: due volte al giorno galleggiavamo e due eravamo a secco: quando il mostro beveva era il flusso e quando risputava l’acqua era il riflusso. Secondo i nostri calcoli l’acqua immessa era ordinariamente in quantità maggiore di quella contenuta nel lago di Ginevra, che ha trenta chilometri di circonferenza.

Il secondo giorno della nostra prigionia volli tentare, col capitano e gli altri ufficiali, un’escursione durante il periodo del riflusso. Muniti di torce scoprimmo tanta altra gente che si trovava nelle stesse condizioni nostre. Ve n’era di ogni nazione: saranno state più di diecimila persone, che si disponevano appunto a tener consiglio per decidere sul mezzo migliore per uscire da quella prigione.

Vi erano persino dei bambini che non avevano mai visto il mondo, essendo nati là dentro […]

Proposi subito un tentativo di salvataggio con l’introdurre due alberi maestri legati insieme nella gola del pesce, in modo che non potesse più chiudere la bocca. (…) Il mostro sbadigliò, e l’asta lunghissima venne subito piantata nella sua gola, quindi il passaggio rimase per noi definitivamente aperto, e non appena giunse l’ora del reflusso disponemmo un ottimo servizio di scialuppe per rimorchiare tutte le navi fino alla luce del sole.

Potete immaginare con quale gioia lo salutammo dopo quindici giorni di prigionia e di tenebre. […] dopo molte profonde osservazioni io potei riconoscere che ci trovavamo nel Mar Caspio. Come mai potevamo essere giunti a questo mare che è come un gran lago chiuso da ogni parte? … il mostro che ci aveva ospitato nel suo stomaco per due settimane doveva averci trascinato fin là traversando qualche passaggio sottomarino.

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Ci ha preso gusto, perché nella seconda parte del libro, quella dedicata alle avventure di mare, Münchhausen racconta della collisione con una balena addormentata lunga ottocento metri, una botta talmente violenta che un marinaio che stava ammainando la vela maestra è sbalzato in aria di quindici chilometri, e riesce a tornare sulla nave solo aggrappandosi alla coda di un gabbiano. La balena, giustamente risentita, prende in bocca l’ancora e trascina la nave a velocità folle per un sacco di tempo, fino a quando la catena si spezza. Ma il bello viene dopo.

Mentre è al comando di una guarnigione a Marsiglia, il barone decide di concedersi una bella nuotata in mare. Ma:

Ad un tratto, veloce come un lampo, vidi venire verso di me un pesce enorme che mostrava già la bocca spalancata intenzionato a divorarmi. Non avevo via di scampo: fuggire era impossibile. Dovevo escogitare una soluzione al più presto possibile. Impulsivamente mi feci il più piccino possibile, cacciando la testa fra le spalle e stringendo più che potevo le braccia contro il corpo. Mi fu così possibile passare tra le ganasce del pesce e scivolare nel suo stomaco senza finire maciullato dalla sua affilata dentatura.

Puoi immaginare l’oscurità nella quale piombai una volta all’interno di quel corpo, ma ciò che mi risultò veramente insopportabile fu il calore. Di lì a poco sarei morto soffocato. Presi, dunque, una decisione drastica: provocare un tale dolore alle viscere del pesce da indurlo a una qualsiasi reazione! Iniziai, infatti, a ballare, ad agitarmi e a dimenarmi come un pazzo furioso lungo tutto il ventre dell’animale.

L’animale, a sua volta, fece la stessa cosa. Poi cominciò a urlare e a gemere in un modo spaventoso; infine si alzò, emergendo per metà dall’acqua. L’equipaggio di un bastimento mercantile italiano, che usciva allora dal porto, rallentò per ammirare quello spettacolo curioso e mai visto prima. I marinai si armarono di ferri e uncini e attaccarono il pesce, che in pochi minuti fu ucciso. Quindi la preda venne condotta a riva e io udii distintamente quegli uomini che si consultavano su come farla a pezzi per ottenere la maggiore quantità possibile di olio pregiato. II pericolo che stavo correndo era veramente grande. Rischiavo di essere squartato assieme all’animale. Cercai di non farmi prendere dal panico e di ragionare. Avrei atteso pazientemente che i ferri affondassero nella carne del pesce e avrei poi calcolato la direzione del taglio, nascondendomi altrove.

Dapprima i marinai lacerarono il ventre dell’animale cosicché, appena intravidi la punta dell’arpione bucare le viscere, andai a rifugiarmi nella coda dell’animale. Poi, quando la luce naturale illuminò la cavità, presi a gridare con tutta la forza dei miei polmoni. Mi è impossibile descriverti la meraviglia che si dipinse su tutti i volti nel momento in cui la mia voce si fece strada fra le viscere del pesce. Quella meraviglia fu anche più grande quando videro uscire un uomo vivo e completamente nudo come il nostro primo padre Adamo.

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Il topos dell’ingoiamento torna con frequenza nella letteratura romantica e tardo-romantica, sia pure sotto spoglie rinnovate. Può rientrarci infatti anche la vicenda raccontata da Edgard Allan Poe in Una discesa nel Maelström, così come Le avventure di Gordon Pym, che ci fanno incontrare un altro essere mostruoso, la sfinge dei ghiacci.

In pancia alla balena 14Nel primo racconto una violenta tempesta sospinge tre pescatori norvegesi, tre fratelli, verso un enorme vortice: il maelström. La loro imbarcazione è risucchiata in un abisso che si apre a cono rovesciato e viene attirata verso il fondo. Alla fine uno solo dei tre si salva, aggrappandosi ad un barile vuoto che è risputato fuori. Le correnti lo spingono a questo punto verso la riva, e lì può raccontare la terribile esperienza che ha vissuto: ma ne è uscito trasformato, i suoi capelli si sono completamente sbiancati e il suo equilibrio psichico è distrutto.

Qui dominante è il tema della potenza distruttiva della natura, dalla quale nella sua fragilità l’essere umano viene divorato. Ma, al di là dello sgomento, c’è una certa rassegnata identificazione:

“Ora che eravamo in mezzo al gorgo, mi sentivo più calmo … Avendo compreso che oramai non avevamo più alcuna speranza, mi ero liberato di gran parte del terrore … Penso che fosse la disperazione a distendere i miei nervi.”

che può diventare addirittura attrazione:

“Trovavo fosse una cosa meravigliosa morire in quel modo e folle dare tanta importanza alla mia vita personale di fronte a quella manifesta ne della potenza di Dio.”

Un Poe decisamente biblico, così come biblico è il suo contemporaneo Melville. C’è però anche qualcos’altro. L’orrore viene dall’abisso, e l’abisso sul quale ci affacciamo può essere anche quello degli strati più profondi del nostro animo, nel quale albergano sentimenti che non vorremmo conoscere e che escono allo scoperto nei momenti estremi. Due dei fratelli, ad esempio, si ritrovano a disputarsi l’unico appiglio per la salvezza:

“… Si lanciò verso l’anello dal quale, nella sua agonia di terrore, cercò di strappar via le mie mani, non essendoci posto per due.”

Si torna ai mostri nella pancia di cui parla il saggio dal quale siamo partiti. Ma per prendere subito un’altra direzione, meno intimista.

In pancia alla balena 15Infatti: dove conduce l’abisso? Non necessariamente all’inferno, malgrado le due immagini siano strettamente associate. È possibile che Poe si sia ispirato per questi due racconti alla teoria della “terra cava”, diffusa nella prima metà dell’ottocento da alcuni esploratori, che si cimentarono anche in improbabili spedizioni polari. La versione più fantasiosa di questa teoria postulava che una razza umana abitasse nella pancia della terra, in qualche caso disputandola a residuali mostri preistorici. Anche se Poe non ne fa mai menzione esplicita, direi che la cosa era senz’altro nelle sue corde, e che proprio attraverso la sua opera sia stata trasmessa a diversi autori da lui fortemente influenzati.

A Poe si rifà infatti esplicitamente Verne in Ventimila leghe sotto i mari, facendo inghiottire il Nautilus da un gigantesco maelström (ma il sottomarino riesce a salvarsi, e lo ritroveremo poi in una grotta de L’isola misteriosa.) Il richiamo è ancora più esplicito ne La sfinge dei ghiacci, concepito come un seguito de Le Avventure di Arthur Gordon Pym.

I mostri marini in Verne sicuramente non mancano, ma direi che il più interessante è proprio il Nautilus. Tale appare all’opinione pubblica, visto che i superstiti delle navi da esso affondate raccontano “di avere visto una ‘cosa enorme’, strana, lunga, fusiforme, talvolta fosforescente, infinitamente più grande e più veloce di una balena”, che lancia sbuffi d’acqua a grandi altezze; ma in un primo momento appare tale anche al professor Aronnax, che lo scambia per un enorme narvalo. In effetti il Nautilus è un mostro: un mostro artificiale, che ha un lontano progenitore nel cavallo di Troia. Nel suo ventre dimorano e viaggiano per ottantamila chilometri i tre protagonisti, incontrando calamari giganti ed esplorando foreste sottomarine. Ma hanno anche modo di meditare, confrontandosi col capitano Nemo, che ritorce le conquiste del progresso contro la coscienza sporca della società del profitto. Ed anche loro escono dal soggiorno nella pancia del mostro molto cambiati.

A Verne l’idea di cacciare i protagonisti delle sue storie in caverne, cunicoli, anfratti del sottosuolo piace parecchio (così come quella di farli volare nello spazio: anche lui li manda sulla Luna). Non vuole lasciare spazi inesplorati, si picca dare una spiegazione razionale di tutto (la Sfinge dei ghiacci si rivela alla fine del suo romanzo essere una montagna ghiacciata) ma un gusto particolare lo prova quando può uscire dal binario del verosimile e aprire alla scoperta paesaggi totalmente inediti. Il Viaggio al centro della terra è un’esplorazione dell’abisso che strizza l’occhio alla teoria della terra cava. Tradotto nel linguaggio usato per queste riflessioni, il titolo potrebbe essere Nella pancia del mondo.

Cos’hanno in comune tutte queste vicende? Più di quanto non si pensi. L’unica differenza tra il calarsi nelle viscere della terra e l’entrare nello stomaco di una balena sta nel fatto che nel secondo caso di norma non si sceglie. Non è una differenza da poco, ma l’esito è lo stesso. È la vertigine creata dall’ignoto, dal non sentire sotto i piedi la terra (“sente che sotto i piedi arena giace,/ Che cede, ovunque egli la calchi, al peso” scrive Ariosto), dal roteare e precipitare nel vuoto. Racconta più il disagio della civiltà che non l’epopea del progresso. Come del resto hanno fatto, in maniere diverse, tutti i suoi predecessori.

Per chiudere almeno momentaneamente il cerchio dovrei parlare ora di altri epigoni di Poe, di Edward Bulwer-Lytton e del suo Vril (ne La razza ventura), ad esempio, o di Lovecraft, che ne Il tumulo immagina l’esistenza da tempi remotissimi nel sottosuolo terrestre di un mondo abitato da esseri terribili: ma sono cose di cui ho già trattato più o meno diffusamente altrove, e non voglio ripetermi.

L’impressione rimane quella: che in ogni epoca (anche in quelle nelle quali nasceva o si affermava la fiducia nel progresso) la letteratura abbia espresso, più che i timori per le incognite negative del futuro, i rimpianti per la perdita progressiva di dimensioni misteriose e inesplorate, della possibilità di essere sorpresi o di trovare in esse rifugio. Di qui l’ambiguità. Gli uomini a temono ma al contempo amano tanto il mistero quanto i pericoli che esso può celare: non possono fare a meno di una certa dose di adrenalina, e in un mondo totalmente disvelato e per la gran parte messo in sicurezza il rischio se lo vanno comunque a cercare, come testimoniano gli sport estremi. Oppure cercano i surrogati della vertigine, sulle montagne russe o nel bungee jumping ,

Concludo con una vicenda sulla cui autenticità lascio libero di decidere il lettore, e che in caso positivo non può non produrre qualche riflessione.

Il fatto sembra essere accaduto nel 2019, ed è stato raccontato da un sub che nuotava al largo delle coste sudafricane (pare comunque che esista anche una documentazione fotografica esterna, per quanto confusa). Era intento ad osservare il comportamento degli squali che gli nuotavano attorno (questo la dice già lunga sul personaggio), per cui troppo tardi si è reso conto di quello che gli stava accadendo:

[…] improvvisamente intorno è diventato buio. Ho capito che ero stato inghiottito da qualche animale. Ho trattenuto il respiro perché pensavo che si sarebbe immerso e mi avrebbe liberato molto più profondamente nell’oceano, era buio pesto dentro. Ovviamente poi l’animale si è reso conto che non ero quello che voleva mangiare, quindi mi ha sputato fuori. Una volta che sei preso da qualcosa che pesa oltre 15 tonnellate e si muove molto veloce nell’acqua, ti rendi conto che in realtà sei solo così piccolo in mezzo all’oceano. Ho sentito una pressione pazzesca ai fianchi ed è stato quando la balena si è accorta di aver sbagliato boccone. Lentamente ha spalancato le fauci per liberarmi e sono stato letteralmente spazzato via, insieme a quello che mi è sembrato una tonnellata d’acqua.

Ho confrontato questo racconto con quello di Münchausen. Quand’anche la si accetti come vera, la vicenda in definitiva non ci trasmette nulla. Semmai conferma quel che scrivevo prima a proposito del pericolo volutamente rincorso. Non è nemmeno spettacolare, e neppure lo sarebbe se fosse stata integralmente ripresa in soggettiva dal protagonista: senza i relitti, la possibilità di incontri straordinari, i banchetti a base di pesce e frutta, l’interno di questo pesce è solo una scatola buia e stretta. La dissacrazione delle paure e delle fantasie ancestrali ha lasciato il posto solo a quelle virtuali e artificialmente indotte. Il risultato è che non sappiamo più di cosa davvero dovremmo aver paura, e abbiamo paura di tutto.

P.S. In realtà non è finita qui. Rimane in sospeso il confronto con chi ha scritto un saggio intitolato “Nella pancia della balena”, ovvero George Orwell. Ma Orwell, come Cervantes, non può essere liquidato nelle poche righe di una rassegna come questa. Anche per lui do quindi appuntamento ad una prossima puntata.

Mi arriva notizia nel frattempo che siamo anche campioni d’Europa nel Football americano. Adesso il rugby non ha più scusanti. E io nemmeno.

Ma non sono così sicuro di voler davvero uscire dalla balena.

In pancia alla balena 16

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Balene nella pancia

Balene nella pancia copertinadi Lordo de Cetus, 30 ottobre 2021

elementi di leviatanologia

Qualche riga di presentazione (Paolo Repetto)

Cercando-mi-mostro

La bestia vista dal di dentro: come trovare un perché

A fiutarne le orme: descrizione di alcuni animali strani

Con la pancia nel fango. Ovvero, mostro ciò che ero o ciò che sarò?

In certi laghi del Messico, da milioni di anni. Ovvero, siamo tutti neotenici

Una situazione nuova. Ovvero, mi difendo legittimamente?

Prima e al di là di qualsiasi parola. Ovvero, il suono del mostro

Un cencio. Ovvero, malattia in aspetto di mostro

Uccidere Chimere. Ovvero, uomini d’un tempo mostruoso

Un sogno nel sangue: la tensione profonda verso l’altro

Il morso nella carne, il verme del pensiero: soma e psiche

Vedere dalle orecchie, sentire nelle mani, toccare con gli occhi

Conclusione inconcludente: mostrando-mi-nascondo

Appendice(ctomia): due punti di vista, o di fuga

dell’Affondare, una favola

del Riemergere, una preghiera

Qualche riga di presentazione

(sperando non guasti il piacere)
di Paolo Repetto, 28 ottobre 2021

Questo “Trattato di Leviatanologia” probabilmente vi sorprenderà. Può infatti sembrare non in linea con l’atteggiamento “neo-illuministico” (definiamolo così, anche se ci va un po’ stretto) che i Viandanti hanno sino ad oggi praticato. Io sono invece convinto del contrario, credo anzi valga la pena cogliere l’occasione per ribadire un paio di concetti. Ogni tanto è opportuno ricordare anche a noi stessi perché esiste il sito e cosa intendiamo per coerenza.

A proposito di quest’ultima, pare persino superfluo sottolineare che nel nostro caso essa non può riguardare una qualsivoglia “linea”, dal momento che i Viandanti non se ne sono mai data una: nel senso almeno che non hanno mai definito una qualche “ortodossia”, né in merito allo specifico degli argomenti né per quanto concerne angoli prospettici preferenziali dai quali affrontarli o eventuali criteri formali da rispettare. Naturalmente, a farci incontrare e a tenerci assieme da almeno un quarto secolo è stata la comune adesione ad alcuni valori di fondo, quelli dichiarati nella presentazione del sodalizio e rimasti tali nel tempo (e che sono esplicitati in apertura del sito, nella finestra “Chi siamo”). A questi valori siamo tuttora attaccati, e continueremo a propugnarli. Ma ciò significa solo che abbiamo un’idea più o meno concorde di come gira il mondo e una mezza idea altrettanto condivisa di come vorremmo girasse. Non neghiamo l’esistenza o la possibilità di altri valori, altre idealità, altri stili di vita: solo che alcuni li riteniamo degni di rispetto e di una considerazione curiosa, altri di un’attenzione puramente difensiva. In questo secondo caso la linea diventa visibile, si traccia da sola: è il muro di resistenza da opporre all’imbecillità. Tutto qui.

Pertanto: non siamo “moderni”, nel senso che non ci riconosciamo in alcuna ideologia, ma nemmeno siamo “post-moderni”, nel senso che continuiamo a coltivare delle idealità, pur rimanendo consapevoli che di idealità si tratta (ovvero di linee guida per un progetto di vita, e non del suo disegno esecutivo), e che non crediamo che tutto possa essere recuperato e giustificato alla stessa stregua.

Quanto al sito, in questi venticinque anni i Viandanti hanno ospitato, e continuano a farlo, prima sulla rivista cartacea e poi nel loro spazio web, i contributi più diversi sugli argomenti più disparati. Ma non in maniera indiscriminata. Questi contributi devono rispondere ad alcune condizioni che, pur non essendo mai state “codificate” in maniera esplicita, discendono in automatico dallo spirito del sodalizio. Sono condizioni molto semplici: il sito non è un ricovero per aspirazioni autoriali frustrate dal mancato apprezzamento, quindi non è aperto alle “prose d’arte”, alla “fiction”, a una qualsivoglia concezione “mercantile” della letteratura. Non è insomma una vetrina per le ambizioni di chi aspira ad entrare nel “giro buono” (e d’altro canto, stante l’irrilevanza della nostra voce, comparirvi sarebbe comunque una perdita di tempo). Il che non vuol dire che chi scrive per i Viandanti non possa aspirare comunque ad un pubblico più vasto, ma semplicemente che non può essere questa la sua principale motivazione.

E arriviamo allora al testo di cui parlavo. Che considero esemplare, perché non è stato composto per il sito, ma ha tutti i requisiti per trovarvi spazio. È perfettamente “allineato” sulla non-esistenza di una “linea” dei Viandanti, per almeno tre motivi. Per ciò che tratta, per come l’argomento è trattato e per chi lo ha trattato.

Il tema del mostro marino intanto non è così peregrino: è già stato toccato ad esempio non molto tempo fa da Fabrizio (cfr. Mai oramai, ma ora!). A cambiare è la prospettiva nella quale l’argomento viene inquadrato. Sono invece del tutto originali i modi della trattazione, che entra ed esce disinvoltamente da pagine poco frequentate e scopre al loro interno percorsi di lettura inediti. Infine, l’autore. Ho conosciuto poche persone che incarnino lo spirito dei Viandanti più di chi ha redatto questo “trattato”. Condivide con un’umiltà che a qualcuno di noi (mi riferisco soprattutto a me stesso) senz’altro manca i valori semplici e solidi cui accennavo prima, lo fa in maniera trasparente e discreta ed è coerente nella loro pratica. Lo dimostra il fatto che questo scritto, così come le poesie in idioma genovese che pubblicheremo a breve, ho dovuto quasi estorcerglieli: e alla condizione che l’uno e le altre comparissero sotto uno pseudonimo. Non per snobismo o per falsa modestia, ma per un pudore autentico e capace di autoironia: ciò che del resto si può immediatamente verificare leggendo “Balene nella pancia”.

Infine. Anche le poesie di “Cö-o dindõ” chiedono due righe a parte. La poesia era assente da qualche tempo dalle pubblicazioni dei Viandanti, ma anche prima non vi aveva trovato grande spazio. Non si tratta di scelte o di preclusioni “editoriali”: semplicemente riesce molto più difficile (e questo è senz’altro un limite nostro, ma è anche oggettivamente vero) il rapporto con una modalità espressiva che è a metà tra quella letteraria e quella musicale, e suppone quindi una sintonia “immediata”, che preceda cioè la mediazione della comprensione razionale (così almeno la vedo io). Ora, la scrittura dei Viandanti è volta in linea di massima a capire qualcosa del mondo, mentre la poesia, anche quando è davvero tale (ovvero quando non è solo una scorciatoia ), proprio per la sua natura simbolica ed evocativa il mondo aiuta piuttosto a “sentirlo” che a spiegarlo. E noi “sentiamo” più facilmente, siamo naturalmente più partecipi e coinvolti in esperienze che già ci appartengono, nelle quali ci rispecchiamo. Per farla breve: attraverso il ragionamento in prosa conosciamo il mondo e lo raccontiamo, nella evocazione poetica ci riconosciamo.

Bene. È quanto accade anche con i versi di questo piccolo canzoniere. Anzi, la scelta del dialetto parrebbe accentuare ancor più il particolarismo identitario, restringere il campo dei possibili utenti ed escluderne tutti coloro che quell’idioma non lo masticano. Invece non è così. Certo, nella musicalità scabra ed essenziale del dialetto genovese (che in realtà non è un dialetto, ma una sorta di pidgin) noi semi-liguri riconosciamo il profilo delle creste appenniniche che abbiamo tanto spesso cavalcato, e immediatamente siamo rimandati ad ambienti, situazioni, personaggi, giochi, emozioni che nel loro assieme, comprensivo anche degli aspetti più mesti o dolorosi, ci parlano di un mondo che abbiamo conosciuto: ma questi versi vanno oltre, e con un leggero sforzo di decrittazione (perché non è sufficiente accontentarsi della traduzione a fronte, le versioni vanno confrontate e la sonorità dialettale va recuperata e assaporata) possono parlare a chiunque. Possono dirgli che questo mondo lo stiamo attraversando un po’ troppo in fretta, e che prima di affannarci a cambiarlo dovremmo avere almeno la pazienza di guardarci attorno, per goderne e per vedere cosa davvero varrebbe la pena salvare.

A me hanno parlato. E comincio a salvare proprio loro.

Vi era un grande drago e i Babilonesi lo veneravano. Il re disse a Daniele: “Non potrai dire che questo non è un dio vivente; adoralo, dunque”. Daniele rispose: “Io adoro il Signore, mio Dio, perché egli è il Dio vivente; se tu me lo permetti, o re, io, senza spada e senza bastone, ucciderò il drago”. Soggiunse il re: “Te lo permetto”. Daniele prese allora pece, grasso e peli e li fece cuocere insieme, poi preparò delle polpette e le gettò in bocca al drago che le inghiottì e scoppiò; quindi soggiunse: “Ecco che cosa adoravate!”. (Dn 14,23-27)

 

Cercando-mi-mostro

un impresentabile inseguimento

…quand’ecco uscir fuori dall’acqua e venirgli incontro una orribile testa di mostro marino, con la bocca spalancata come una voragine, e tre filari di zanne che avrebbero fatto paura anche a vederle dipinte.

Pinocchio inghiottito dal Pescecane. Giona nel ventre della Balena, come Cristo, anche lui tre giorni e tre notti, nelle viscere più profonde. Decine di personaggi, dalla mitologia alla fantascienza, dalle fiabe ai testi sacri, esseri umani minacciati, aggrediti, fagocitati, da creature inimmaginabili, abnormi, terrificanti. Sono io, eccomi qua, inabissato nella mia Paura. Sei tu, anima divorata dal Mostro che ti rincorre, Corpo avvoltolato nel Morbo che ti rosicchia. Il terribile Drago che più ci minaccia, il Serpente sepolto fin dalle Origini, dentro di noi. La grande Bestia che esce dal mare, ci spaventa e sottomette, l’Ossessione archetipica profonda dell’Oceano della mia preistorica Mente/Coscienza. Eccomi qua. Sempre io, sono. La Minaccia ungulata, le Fauci spalancate, l’enorme Massa ignorante e ricoperta di alghe e conchiglie, il Bestione cornuto e ululante. Arcaico Cervello di Rettile sepolto nella mia evolutissima Neocorteccia. Io, ancora qua, a divorarmi, a scavarmi, da dentro. La Bestia più atroce, ce l’ho in fondo al Ventre, annidata nei recessi del mio personalissimo Essere, cellula Uovo feconda di ogni paradossale inquietudine di specie, annidata irrimediabilmente nella nutriente mucosa dell’utero della mia incerta esistenza…

– E sapete chi era quel mostro marino? Quel mostro marino era, né più né meno, quel gigantesco Pescecane ricordato più volte in questa storia, e che, per le sue stragi e per la sua insaziabile voracità, veniva soprannominato l’Attila dei pesci e dei pescatori.

Chi è, il Mostro, cos’è? Che mi rappresenta? Come mi si presenta? Perché me lo trovo sempre davanti, dentro, piantato lì, come Chiodo di Croce, inabissato nel mio esserci, maligno Granchio intanato? Che Diavolo cerchiamo, davvero, noi, andando a frugare così il Male nel mare? Che tormento brutale ci spinge, quale fascinosa Sirena ci attira laggiù? Cosa, in fondo, vorremmo trovare, nella pancia del Mostro? Ma non siamo noi, poi, i mostri più minacciosi, non è nella nostra pancia, inquietissimo mare, che dobbiamo pescare il male di noi? La mia Malattia, la mia Bianca Balena naviga sovrana sul fondo dell’Oceano di me. Sono forse io, il Creatore del Mostro, divorato da ciò a cui ha dato la vita…?

Perché, chiedo, occuparsi di Mostri? Perché preoccuparsene? Magari, proprio per questo: perché siamo noi, i nostri più mostruosi nemici; sono io, l’invincibile Pescecane, l’Attila vorace, affamato di me stesso. Frugarci, allora, ci serva a capire qualcosa, della nostra Storia e Materia, delle nostre più intime Malattie.

Da sempre, l’uomo prende tutte le sue più inconfessabili e incomprensibili fobie, le riforgia in terrificanti figure, dà loro improbabili forme e dimensioni, le arricchisce di inverosimili attributi, le storpia vieppiù con atavici terrori o con avveniristiche improbabilità, le gonfia, le deforma e le sporca ben bene, e poi le sbatte, quasi a dimenticarle, sul fondo del mare. E quelle lì se ne stanno, nuotando tranquille e inguardabili, nei silenzi profondissimi, nelle oscurità abissali. Soltanto, qualcuna, di tanto in tanto, senza troppi apparenti motivi, se ne ritorna a galla, butta fuori l’orrendo capino. Fa bella e ricca mostranza di sé.

Immaginatevi lo spavento del povero Pinocchio alla vista del mostro. Cercò di scansarlo, di cambiare strada, cercò di fuggire; ma quella immensa bocca spalancata gli veniva sempre incontro con la velocità di una saetta.

Queste inorganiche e parzialissime riflessioni sull’argomento, nella forma sciocca dell’accumulo di materiali per la fondazione di una Scienza del Leviatano, sono in realtà il tentativo di rispondere ad un’unica domanda: perché Dio, nel quinto giorno della Creazione, dopo aver preparato l’ambiente, con gli astri, il sole, la luna, le acque, la terra, la meravigliosa varietà del mondo vegetale, come primo essere animale vivente, mette nel mare il tannin, il ‘mostro marino’? (Gn 1,21). Una curiosa questione, mi pare. Soprattutto se la mettiamo accanto al fatto che più o meno tutte le culture antiche prevedono nei loro miti fondativi, divinità o mostruosità acquatiche, con cui o contro cui l’Ordine cosmico ha ragione sul Caos primordiale.

La mia risposta alla domanda è semplicemente questa: il Mostro marino è Necessario.

Questa incomprensibile Presenza risulta indispensabile, all’equilibrio globale della Natura. Quindi all’Uomo. È come se Dio mettesse l’uomo, non a caso l’ultimo animale posato nell’esistenza dal Creatore, davanti allo Specchio: “Questo, tu sei. Da questo tu vieni, questo puoi diventare”. Eccolo lì, il padrone del mondo: il Gran Leviatano di se stesso, davanti al suo Segno. “Persino l’Abnorme, l’Incredibile, l’Inconfigurabile, è dentro il Mio Ordine. Devi, dunque, imparare a convivere con il Disordinato Animale nascosto nel fondo di te…”.

– Affrettati, Pinocchio, per carità! – gridava belando le bella Caprettina. E Pinocchio notava disperatamente con le braccia, col petto, con le gambe e coi piedi. – Corri, Pinocchio, perché il mostro si avvicina! E Pinocchio, raccogliendo tutte le sue forze, raddoppiava di lena nella corsa. – Bada, Pinocchio!… il mostro ti raggiunge!… Eccolo…! eccolo!… Affrettati per carità, o sei perduto! E Pinocchio a notar più lesto che mai, e via e via e via, come andrebbe una palla di fucile. E già era presso allo scoglio, e già la Caprettina, spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue zampine per aiutarlo a uscire dall’acqua…

Questa, dunque, la tesi. L’inevitabilità del Mostruoso, in specie di quello marino, come altra faccia dell’incapacità dell’uomo di rimanere dentro l’Ordine, della sua diabolica tendenza a non comprendere in sé ciò che gli appare Diverso da sé. Tesi che, con buone probabilità, non riuscirò davvero a dimostrare. Però è divertente lo stesso, averla immaginata…

Partirò, come si è intuito, dalla Bibbia, perché è il Libro che leggo più spesso. Ma credo che potremmo portare avanti le stesse considerazioni anche avendo come punto d’avvio altra letteratura sapienziale del Vicino Oriente Antico, oppure Omero, o le Favole Popolari, o ancora i Veda e altri Testi Sacri d’ogni religione e paese. E financo la Letteratura o la storia del Cinema. Faremo comunque in questi ambiti qualche scorribanda, con la nostra barchetta. Un’ultima considerazione preliminare. Da un rispolvero anche molto sommario di riferimenti al tema sepolti nella mia tremolante memoria, mi pare di poter dire che la figura mostruosa marina ha due grandi rimandi simbolici. Da una parte è personificazione, incanalamento di Forze Negative, più o meno assimilabili all’idea di Male, insomma. Ossessione, Malattia, Minaccia, e universi collegati. Ma in altri, per quanto certo meno numerosi casi, essa può invece rappresentare l’Essere Luminoso, una forza asservita al Bene, Segno (premonitore, ammonitore, rammemoratore) dell’Essenza Divina; Elemento decisamente Salvifico, in buona sostanza. Credo che, nello sviluppo di queste riflessioni, dovremo tenere presente e far emergere questi due poli tematici dell’argomento.

Ma ormai era tardi! Il mostro lo aveva raggiunto: il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il povero burattino come avrebbe bevuto un uovo di gallina; e lo inghiottì con tanta violenza e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giù in corpo al Pescecane, batté il colpo così screanzato, da restarne sbalordito per un quarto d’ora.

 

La bestia vista dal di dentro:
come trovare un perché

Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona.

Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti.

Qualche giorno fa passando davanti ad un televisore acceso, ho assistito a questo interessante scambio di battute: dopo aver descritto le eccezionali caratteristiche di uno stranissimo enorme animale acquatico, un uomo, apparentemente uno scienziato, concludeva dicendo entusiasta: “Un Dio, un Dio a tutti gli effetti!”. Il giovane di fronte a lui, che lo aveva ascoltato con mimica via via sempre più preoccupata, ribatteva, con intonazione conclusiva e disperata: “Un mostro!”. Mi ha incuriosito e stupito molto, quest’accostamento spericolato, Dio/Mostro, enfatizzato dal contrasto nel timbro di voce dei due personaggi, tra l’entusiasmo vivissimo dell’uno e il funereo sconforto dell’altro. Non ho potuto vedere tutto il film, ma di un’altra sequenza sono riuscito ad annotare ancora una frase. Sempre quello lo scienziato, cercando di spiegare la sua teoria su quell’essere sconosciuto e abnorme, diceva: “La Natura ha un Ordine, e il potere di ristabilire l’equilibrio. Io credo che sia Lui quel potere!”. Mi ha fatto pensare molto, questa immagine. La mia visione del Dio ‘Pantocrator’, Colui che Tutto regge nelle mani e tiene al suo posto ogni cosa, non è molto lontana dalla descrizione che lo scienziato dava del Bestione. Il film, naturalmente, si chiama Godzilla, una produzione del 2014, che nella mia pressoché totale ignoranza della recente cinematografia, non conoscevo. Ho cercato di tradurre il titolo-nome, e ho scritto qualcosa come: ‘le Branchie di Dio’, o forse ‘il Dio con le branchie’, o ancora meglio, “Colui che respira sotto l’acqua” (viene in mente lo Spirito che alla Creazione aleggia sopra le acque, in Gn 1,2).

Apriamo la Bibbia, dunque.

È facilmente immaginabile che la cultura ebraica antica avesse un concetto del “mostro” parecchio lontano dal nostro. Senza entrare troppo nel dettaglio, pensiamo anche solo al fatto banale della quantità e qualità della conoscenza. Essendo una componente dell’idea del mostruoso anche ciò che è difficilmente spiegabile secondo le competenze scientifiche del tempo in cui quell’idea è elaborata, un grande numero di animali di cui oggi possiamo ammirare vita e abitudini, raccontati in documentari dettagliatissimi, sette o ottomila anni fa facevano invece parte della categoria dei mostri più misteriosi e spaventevoli, oppure erano adorati e temuti come divinità buone o cattive.

La Scrittura, comunque, intorno al tema del “mostruoso”, in specie di quello marino, ha una posizione decisamente articolata, sia nella terminologia che nei significati, e direi anche nella considerazione, negli atteggiamenti di fronte al mostro.

Cominciamo dall’analisi lessicale. Sono tre i termini che il Libro usa per dire il ‘Mostro del Caos’, l’Essere primordiale, la personificazione mitica della forza che si oppone alla Signoria creatrice di YHWH: Raab (p.e. Gb 9,13 e 26,12); Leviatàn (p.e. Gb 3,8 e 26,13); e, appunto, Tannin (oltre a Gn 1,21, p.e. Gb 7,12).

Dicevo della varietà di interpretazione. Raab, per esempio, è usato come personificazione mitica delle acque primordiali, essere potente fatto a pezzi da YHWH (Is 51,9), o ancora, in contesto storico, personificazione del Mar Rosso e dell’Egitto (il ‘domato’ di Is 30,7).

Il Leviatàn, drago, gran serpe che fugge, ripreso dalla mitologia fenicia, pure esso mostro del caos primitivo, ritenuto anche responsabile delle eclissi quando, ridestato da maledizioni efficaci di stregoni nemici della luce, inghiottiva momentaneamente il sole. Isaia 27,1 riprende pressoché testualmente un poema di Ras-Samra (sec. XIV a.C.) che dice: “Tu schiaccerai Leviatàn, serpente fuggiasco, tu consumerai il serpente tortuoso, il potente dalle sette teste”. Il profeta Amos ne parla come di un’arma nelle mani di Dio: tra i vari annunci di castigo ai popoli, fa dichiarare al Signore: “Anche se si nascondessero al mio sguardo in fondo al mare, laggiù ordinerei al Serpente di morderli…” (9,2). E curioso, rispetto al Leviatàn è anche il doppio registro che si ritrova nel Salterio: il Salmo 104,26 lo presenta come un Bestione pacifico e giocherellone, plasmato nel mare “perché in esso si diverta”; il Salmo 74,16 invece ricorda a YHWH: “gli hai spezzato la testa e lo hai dato in pasto ai mostri marini”, trattandolo quindi come minaccioso pericolo.

Anche il termine Tannin viene applicato a tipologie di bestie differenti. Secondo la versione CEI 2008 della Bibbia di Gerusalemme, le 14 occorrenze del termine sono rese così: mostri marini (Gn 1,21; Gb 7,12; Sl 148,7); serpenti (Es 7,9.10.12; Dt 32,33); draghi (Sl 74,13; Sl 91,13; Is 27,1; Is 51,9; Ger 51,34); coccodrillo (Ez 29,3; 32,2, in entrambi personificazione del Faraone e dell’Egitto).

Ma torniamo, arricchiti dalla consapevolezza terminologica, al nostro enigma di partenza.

L’altro ieri ho posto la mia domanda (“perché Dio crea il mostro marino”) a un biblista (laico). Purtroppo il canale comunicativo era decisamente limitato (un sms!), quindi non potevo aspettarmi grandi rivelazioni. Però la sua risposta, per quanto sostanzialmente corretta, non mi convince fino in fondo. Mi ha detto, più o meno: per sottolineare il potere ordinativo di YHWH sul creato, anche sulle più infime creature degli abissi (corsivo mio). Ora, questo è sicuramente vero, e parte non trascurabile della questione. Resta però la posizione assolutamente preminente – il primo essere vivente creato; ventunesimo versetto del primo Libro! – che sembra sottolinearne un’importanza particolare. Più che di ‘infime creature’, sembrerebbe trattarsi di abitatori degnissimi e importantissimi dell’Universo in via di ordinazione. Senza contare, poi, che solo il Tannin è individuato nominalmente, mentre per tutti gli altri esseri viventi si usano categorie molto varie, uccelli, esseri che guizzano e brulicano nell’acqua, e nel giorno successivo, bestiame, rettili, animali selvatici. Aggiungo, per completare il quadro, che all’atto creativo che pone nell’essere i tanninim, con tutti i pesci del mare e gli uccelli del cielo, Dio vede che è ‘cosa buona’, e li benedice con la formula: ‘siate fecondi e moltiplicatevi’! Il mostro non è, quindi, un errore, un difetto di fabbricazione, qualcosa venuto male o sfuggito al controllo della Mente Ordinatrice. No, è un essere voluto, e voluto proprio così, il primo a prendere il suo posto nel Cosmo, originariamente buono, e destinato anch’esso, come tutte le altre creature, a far prole, a riprodursi per popolare di sé il mondo. Non ho detto questo, per messaggino, al biblista, ma so che nel suo modo scanzonato e ironico mi darebbe quasi ragione.

Anche perché c’è dell’altro. Come abbiamo visto, il Mostro ritorna, più e più volte, in modi e forme diverse, nell’intero corpo della Scrittura. Ed è presente nelle due ‘ricapitolazioni cosmiche’, che spesso si ripropongono anche nella Liturgia delle Ore, di Daniele 3,52-90: “Benedite, mostri marini e quanto si muove nell’acqua, il Signore” (v.79) e del già citato Salmo 148: “Lodate il Signore dalla terra / mostri marini e voi tutti abissi” (v.7). Anche questo deve avere la sua rilevanza.

Riassumendo (riprendo queste considerazioni da alcune note della Bibbia di Gerusalemme), possiamo ricostruire l’evoluzione ‘sapienziale’ della ‘presenza mostruosa’ di cui abbiamo visto l’origine in Genesi 1 in questo modo. Recuperando elementi dalla cosmologia babilonese, a YHWH si attribuisce la vittoria, anteriore all’organizzazione del Caos, sul Mare (Tiamat) e sui mostri suoi ospiti, e il loro perdurante assoggettamento. Leviatàn, in particolare, che l’immaginazione popolare e poetica raffigura dormiente, e di cui sempre si teme il risveglio distruttivo e catastrofico per l’ordine esistente.

Ancora BJ suggerisce che il Drago di Apocalisse 12 (enorme, rosso, con sette teste e dieci corna, e la coda che trascina un terzo delle stelle del cielo), incarnazione della resistenza della potenza del male contro Dio, è per certi versi assimilabile a quel Serpente del Caos descritto sopra. Ricordiamo anche che il Drago, sconfitto in cielo e precipitato sulla terra (12, 7-9), va ad appostarsi sulla spiaggia del mare. E dal mare sale una Bestia, anch’essa con sette teste e dieci corna, “simile a una pantera, con le zampe come quelle di un orso e la bocca come quella di un leone” (13,2). A lei il Drago dà la sua forza e il suo potere. Entrambi, personaggi mostruosi di figura e ruolo decisamente negativi, nell’ultimo combattimento escatologico, finiranno nello stagno di fuoco e zolfo.

Ma chiudiamo questa carrellata biblica con un’immagine decisamente più simpatica. Del Leviatàn occorre segnalare ancora lo stupendo encomio di Gb 40,25-41,26, a mia memoria la descrizione più estesa e dettagliata di un essere vivente nella Sacra Scrittura. Qui il mostro prende un po’ le caratteristiche del coccodrillo, ma certo rimane il riferimento simbolico alla potenza primordiale ostile al Principio Ordinatore, e soltanto da Lui soggiogata. Siamo, direi, al punto più alto della Scienza del Mostruoso in campo biblico. È Dio stesso che descrive a Giobbe la perfezione e la potenza della creatura mostruosa. Questa diretta testimonianza della Voce Divina, questa ‘Parola di Dio’ espressamente dedicata all’Essere abnorme, conferma, credo, quell’importanza particolare, di cui sopra parlavo. Possiamo stralciarne alcuni frammenti, come squame preziose di un variopinto mantello, unico per bellezza e intensità lirica (brani tratti da Gb 40,31-41,26):

 

“Crivellerai tu di dardi la sua pelle / e con la fiocina la sua testa? / Prova a mettere su di lui la tua mano: / al solo ricordo della lotta, non ci riproverai! / Ecco, davanti a lui ogni sicurezza viene meno, / al solo vederlo si resta abbattuti. / […] / Non passerò sotto silenzio la forza delle sue membra, / né la sua potenza né la sua imponente struttura. / […] / Il suo dorso è formato da file di squame, / saldate con tenace suggello: / l’una è così unita all’altra / che l’aria fra di esse non passa. / […] / Il suo starnuto irradia luce, / i suoi occhi sono come le palpebre dell’aurora. / Dalla sua bocca erompono vampate, / sprizzano scintille di fuoco. / Dalle sue narici esce fumo / come da caldaia infuocata e bollente. / […] / Compatta è la massa della sua carne, / ben salda su di lui e non si muove. / Il suo cuore è duro come pietra, / duro come la macina inferiore. / Quando si alza si spaventano gli dei / e per il terrore restano smarriti. / […] / La sua pancia è fatta di cocci aguzzi / e striscia sul fango come trebbia. / Fa ribollire come pentola il fondo marino, / fa gorgogliare il mare come un vaso caldo di unguenti. / Dietro di sé produce una scia lucente / e l’abisso appare canuto. / Nessuno sulla terra è pari a lui, / creato per non aver paura. / Egli domina tutto ciò che superbo s’innalza, / è sovrano su tutte le bestie feroci”.

 

A fiutarne le orme:
descrizione di alcuni animali strani

Puoi tu pescare il Leviatàn con l’amo

e tenere ferma la sua lingua con una corda…?

Se spostiamo lo sguardo dalla letteratura sacra a quella profana, credo che potremmo mettere insieme davvero un’infinità di tessere per arricchire il nostro mosaico che tenta di rappresentare l’Essere Mostruoso, in specie quello di ambiente o provenienza marina. Direi che scrittori e poeti di tutti i tempi hanno preso il mare e le sue più imprevedibili e improbabili creature, come campo di ricerca estetico-narrativo o etico-filosofico, come costruzione e disvelamento di simboli e del mistero dell’esistenza, o semplicemente come esercizio di stile e di fantasia. Del racconto di Omero, per esempio, che raccoglie tutta la favolistica e le mitologie precedenti e dischiude gran parte della letteratura a venire, leggo: “Un viaggio da oriente verso occidente, in una dimensione orizzontale. Ma, una volta immerso nella sfera marina, è come se fosse, il suo, un viaggio in verticale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo. Si muove il navigante tra streghe, giganti, mostri impensati, tra smarrimenti, inganni, oblii, allucinazioni, perdite tremende, fino alla solitudine, all’assoluta nudità, al rischio estremo per la ragione e per la vita”. È la descrizione della mia vita, della nostra vita, precisamente, la vita di ognuno di noi, nel grande mare dell’esistenza, le prove mostruose che prima o poi ci troviamo davanti. E ancora: “Il romanzo di Ulisse non poteva svolgersi che in mare, perché il mare, cammino fluido e mutevole, sconfinato e monotono, è il luogo dove il concreto, il reale si sfalda, vanifica, e insorge l’irreale, s’installa il sogno, l’allucinazione: il generatore dei mostri, che sono le immagini delle nostre paure, dei nostri rimorsi” (Vincenzo Consolo, L’isola dei mostri, in Letture Omeriche a cura di S. Colmagro).

Difficile orientarsi, in un oceano sconfinato così, intere biblioteche di riferimenti e citazioni. Però, proprio per l’abbondanza di materiale a disposizione, direi che in tale mare, ovunque si pesca, si pesca bene … Abbandono quindi volontariamente qualsiasi pretesa di ricerca metodica o criterio di scelta. Mi affido a pochi esempi, significativi perché scelti pressoché random, testi che stanno sulle dita di una mano (esadattila, naturalmente …), che posso afferrare soltanto allungando un braccio (appena appena, naturalmente, telescopico …).Ci daranno comunque senz’altro qualche apertura panoramica interessante.

Consigliabile, ovviamente, la lettura preventiva del testo a cui il commento fa riferimento[1].

I riferimenti sono:

allegato 1. Lo zio acquatico, da Le Cosmicomiche di Italo Calvino (1965);

allegato 2. Angelica farfalla, da I Racconti di Primo Levi (1966);

allegato 3. L’uomo che vide la lucertola mangiare suo figlio, da Vietate le sedie di Ignacio de Loyola Brandao (1981);

allegato 4. Il mostro, da L’orrore del mare di William Hope Hodgson (1914);

allegato 5. Il mostro, da I lavoratori del mare (parte II, libro IV, cap. II) di Victor Hugo (1866);

allegato 6. La Chimera, da Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese (1947);

allegato 7. Il cancro come simbolo di una partenogenesi inconscia, da Cancro perché di A. Caddeo, D. Marafante, R. Morelli, A. Setton (Riza Scienze n.5, settembre 1984);

allegato 8. Freaks – Miti e immagini dell’io segreto, di Leslie Fiedler (1978) (Garzanti 1981).

Inoltre:

Vincenzo Consolo, L’isola dei mostri, in Letture omeriche a cura di Stefano Colmagro. – Venezia : Marsilio, 1994).

Allegato 1.

Con la pancia nel fango. Ovvero, mostro ciò che ero o ciò che sarò?

Vogliamo partire dai progenitori preistorici? Ecco qua. Un gustosissimo racconto di Italo Calvino, in cui, con maestria, si descrive, in una ironica condensazione temporale, il passaggio evolutivo dalla vita acquatica alla terrestre, con le problematiche e i traumi collegati. L’invenzione ‘cosmicomica’ ci insegna che a volte quello che ci sembra mostruoso è ciò che di noi non vogliamo più accettare, di cui vogliamo, magari con troppa fretta e impazienza, liberarci. Così è mostruosa la sapienza degli anziani, tutta la tradizione che si vuole superare. Vediamo mostruoso ciò che pensiamo ci impedisca di guardare avanti, di progredire, di essere più ‘nuovi’. Si chiarifica qui bene il contrasto tra il bisogno ‘evolutivo’ dell’andare oltre, della ricerca verso territori inesplorati, e la sicurezza del conosciuto, la saldezza delle radici, nel nostro testo rappresentato dall’opposizione tra le trasformazioni continue imposte dalle necessità di adattamento alla variabilità della terraferma e invece l’immutabilità, il costante equilibrio di una vita ‘senza metamorfosi’, nella quale soltanto possono essere mantenute ‘le ragioni per cui è bello vivere’, e si può ‘arrivare all’essenza di sé e di ogni cosa’. “Va là, girino, che appena torni a bagno torni a casa!” è una battuta geniale, che dovremmo tenere presente, nella nostra ansia ‘mostruosa’ di proiettarci nel non ancora conosciuto. Lo sviluppo della storia ci dice che è lecito anche tornare indietro, che ‘solitudine’ è anche incapacità di essere in sintonia col proprio tempo. Che la mostruosità di essere ‘uno che è uno’, è un destino come un altro.

Allegato 2.

In certi laghi del Messico, da milioni di anni. Ovvero, siamo tutti neotenici.

Cambiamo cornice storica, torniamo più vicini a noi, trattando però ancora un’epoca tormentata, ‘di passaggio’. E trasferiamoci dal genere comico-cosmologico a quello tragistorico. ‘Tempi propizi alla teoria’, li definisce l’autore. Tempi di mortificazione, di mostrificazione dell’uomo, direi io. Ci facciamo guidare da un altro scrittore italiano, contemporaneo di Calvino, che ha attraversato con il proprio corpo e conosciuta nella propria carne la mostruosità come Barbarie della belva umana. Il racconto che leggiamo, come tutta la narrativa di Primo Levi, ci ricorda che quando il Mostro è l’uomo a cui si è addormentata la ragione, facilmente esso tende a generare altri mostri. Un processo a cascata, potremmo definirlo. In effetti, in questa breve storia, tutti i protagonisti sono o diventano mostruosamente inumani, come contagiati da un’epidemia inarrestabile. La vera “eresia della Natura”! Tutti mostri: lo scienziato pazzo, e le gerarchie militari che gli permettono gli esperimenti; i poveri uomini mutanti e anche chi, affamato fino alla disumanità, rosicchia le loro ossa; il guardiano, infermiere che si fa carnefice, e chi dice: meglio voltarsi dall’altra parte. E, in fondo, pure noi, mostri curiosi, che leggiamo magari sorridendo o ammirando la ‘fantasia’ dell’autore, senza chiederci troppo a fondo o troppo a lungo come mai cose simili, magari con dettagli solo leggermente diversi, possano essere accadute in tempi non molto lontani da noi, accadano in luoghi non molto distanti dai nostri, e probabilmente ancora accadranno, a persone non molto diverse da noi… Anche l’ambiente in cui la storia si svolge, è adeguatamente ‘mostrificato’. Citando solo dall’incipit: selciato sconnesso, colate di macerie, crateri di bombe, acque melmose, bolle vischiose. Persino gli orti, sono rachitici. Tutto, ovviamente, in esplosivo contrasto con il morbido e paradisiaco titolo, che ci fa sognare candore di serafini e svolazzar d’ali variopinte! E, invece, ancora: il campanello non funziona, la porta è sfondata, all’interno polvere, ragnatele, odore di muffa, fughe di topi nel buio, immondizia, macchie di sangue, pullulare di vermi… ossa di origine indefinibile. I sentimenti degli uomini: ‘ribrezzo, odio, curiosità’. Eccoci ancora qua, davanti a quel dannato specchio: mostri che guardano mostri.

(Tra i Racconti di Levi ce ne sono diversi altri, che potrebbero proficuamente entrare nella nostra analisi. Ricordo soltanto, almeno: il curioso L’amico dell’uomo; il bellissimo Quaestio de Centauris, con la geniale descrizione introduttiva della ‘panspermìa’, post-diluvio, “un tempo mai più ripetuto di fecondità delirante, furibonda, in cui l’universo intero sentì amore, tanto che per poco non ritornò in caos… giorni in cui la terra stessa fornicava col cielo, in cui tutto germinava, dava frutto” (stupenda l’immagine dell’origine delle grandi balene, i leviatani, dal connubio tra il fango primordiale e la chiglia femminea dell’arca…); e ancora le inquietanti pagine di Vilmy e di Ottima è l’acqua).

Allegato 3.

Una situazione nuova. Ovvero, mi difendo legittimamente?

Fulminante, come il guizzo d’una vipera che scompare tra i sassi, il perturbante, surreale racconto di Ignàcio de Loyola Brandão. Cosa dirne, non so. Riesco solo ad arruffare lì una sfilza di domande, stupide e senza risposta. Cosa facciamo, di fronte a ciò che ci accade, quand’esso ha dell’inaspettato, del sorprendente, del mostruoso? Sappiamo reagire? E come? C’è la paralisi? O riusciamo ancora a usare l’intelligenza, la sensibilità, la volontà? Le nostre paure, sono reali? Oppure sono fantasie ossessive? O forse, meno razionalmente, mi chiedo: gridare? prendere il coltello, avere una pistola? O, più semplicemente, girarsi dall’altra parte, e continuare a dormire… Si può ‘comprendere’ la Diversità, nel suo violento manifestarsi? In fondo, quelle due paginette senza senso mi strappano fuori la domanda vera. La Domanda delle domande: qual è la Bestia che mi divorerà? Di che Mostro devo morire, che Bandito sta per assalirmi, quale Malattia mi sto costruendo, nella mia fantasia cellulare?

Mah, comunque sarà meglio andare a vedere se abbiamo chiuso bene la porta di casa. Che non entri davvero qualcuno, a rubarci tutto… Posso dirlo? Sento già un peso sul petto… mio Dio, sembra proprio una brutta zampaccia pelosa …

 

Allegato 4.

Prima e al di là di qualsiasi parola. Ovvero, il suono del mostro.

Un’altra ‘orrenda creatura’ ce la regala Hodgson, scrittore inglese di fine Ottocento, morto soldato nella prima guerra mondiale. Di lui qualcuno ha scritto: “Pochi lo eguagliano nell’adombrare la vicinanza di forze sconosciute e di mostruose entità attraverso accenni casuali e particolari insignificanti, oppure nel comunicare le sensazioni dello spettrale e dell’anormale legati ai luoghi”. Ma in questo racconto, che traggo da una raccoltina ‘millelire’ intitolata ‘L’orrore del mare’, il mostruoso, l’orrorifico, l’abnorme, più che adombrato, è dispiegato in tutta la sua dirompente spaventosa teatralità, distruttiva e terrificante. A differenza del brano precedente, qui tutto l’impianto è realistico, cronachistico direi. L’ambientazione, le reazioni degli uomini, i movimenti delle cose, i dettagli dei rumori, delle forme e dei colori, tutto è dipinto naturalisticamente, ci è messo davanti in tutta la sua reale crudeltà e oggettività, e questo ci costringe alla partecipazione, siamo lì, su quella nave invasa, a tremare per il terrore, ad assistere allo spettacolo del Mostro che ci sgomenta, lentamente ci annienta. Forse è proprio la precisione di quel realismo descrittivo ambientale e psicologico, che ci costringe a considerare reale anche l’orrenda ‘Cosa’ che minaccia e divora tutto e tutti. Più d’ogni altra cosa, impressiona quello sgranocchiare di mascelle, ‘odioso suono di mandibole’, e quei muggiti bestiali, ‘infernali’, di rabbia, di dolore, di sazietà, che danno il ritmo all’azione, cadenzano la progressiva inarrestabile solitudine del protagonista. Nella quasi totale assenza di dialoghi, la ‘colonna sonora’ del racconto costruisce intorno a noi la gabbia della paura, della disperazione, dell’incubo. Cosa c’è, dietro l’invenzione letteraria? Dove va a scavare l’autore? Fino a dove arriva quel suo artiglio a tenaglia, che sfonda l’oblò della nostra coscienza e ci fruga le viscere? Cosa mastica, rumorosamente, il Mostro, di noi?

Allegato 5.

Un cencio. Ovvero, malattia in aspetto di mostro.

Victor Hugo ci dà esempi altissimi di indagine su cosa è mostro e su come l’uomo ci si pone e trova davanti, soprattutto in campo sociale e relazionale-sentimentale. Almeno due suoi romanzi sono interamente costruiti intorno a queste tematiche, (1831) e Notre-Dame de Paris L’Homme qui rit (1869). Ma c’è un altro romanzo, forse meno conosciuto, Les Travailleurs de la Mer (1866), tutto di ambiente marino, in cui ad un certo punto della vicenda l’uomo si trova davvero solo davanti, anzi tra le braccia, del Mostro. Nella sua stupenda prosa descrittivo-catalogatoria, enciclopedica ma tendente al meditativo, lo scrittore francese ci conduce passo passo per mano, dal ritratto realistico dell’animale inquadrato, fino alle sue più profonde significazioni simboliche. Hugo ci spiega bene, credo, che il mostro non è qualcosa che si trova ‘fuori’ della Realtà, non è invenzione, fantascienza, costruzione di una mente – seppur perversa – umana. No. Come già dalla Bibbia, ancora capiamo che esso è parte della Creazione, parte di noi, zona magari oscura, certo inspiegabile per la nostra ragione, ma componente integrante della Natura, parte viva e realissima di ciò che biologicamente e ontologicamente siamo. Qualcosa che ci spaventa, che ci attacca, ci disgusta e distrugge. Ma la modalità dell’Incontro tra l’uomo e la sua Ossessione Tentacolare, e il Significato Ultimo di questa Presenza Orripilante, questo ci interessa e ci tocca molto da vicino. “L’artiglio è niente, a paragone della ventosa. L’artiglio è la bestia che penetra nella vostra carne; la ventosa siete voi che entrate nella bestia”. L’idra si incorpora nell’uomo; l’uomo si amalgama con l’idra. Forma con essa un solo essere. Le ipotesi filosofiche di ‘lettura’ delle creature ‘ripugnanti’ non riescono comunque a rispondere all’eterna domanda: “A qual fine? A che serve ciò?”. Il punto di approdo della meditazione filosofica di Hugo, quindi, è lo sconfinamento nel campo del demoniaco. “Il demonio è la tigre dell’invisibile”. Se i cerchi d’ombra continuano indefinitamente, se questa catena esiste, è certo che l’esistenza della piovra ad una estremità prova l’esistenza di Satana all’altra. Si ripropone il terribile enigma del male. Ma di questo, semmai, in un altro capitolo.

Allegato 6.

Uccidere Chimere. Ovvero, uomini d’un tempo mostruoso.

Ho aperto questa piccola rassegna letteraria con un tuffo nel mare della preistoria ‘evoluzionistica’; la chiudo con un volo nei cieli di quella ‘mitologica’. Ritorno, in conclusione, ad un autore ‘nostrano’. Un libro stupendo, in cui i miti classici diventano strumenti di lettura della storia intima, personale dello scrittore e del lettore e collettiva del nostro tempo, di tutti i tempi. Nei suoi ‘dialoghetti’, Pavese recupera alcuni dei personaggi delle storie omeriche, della tragedia greca, delle Metamorfosi ovidiane. La classicità greco-latina, i miti ellenici, scelti perché “il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo – cioè non qualcosa di arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene, come a tutti i linguaggi, una particolare sostanza di significati che null’altro potrebbe rendere”, dice l’autore stesso, nella sua ‘Avvertenza’. Dei, Titani, Mostri, Semi-Dei, Eroi, Uomini, nel loro complicato esistere e succedersi, incontrarsi, scontrarsi e sopprimersi, amarsi, odiarsi o ignorarsi, durare o scomparire. Tutto questo e altro, nei temi base di tutta la mitologia e la poesia di ogni tempo: la vita e la morte; la sessualità e il sangue; la ‘comprensibilità’ della Natura; la ‘irragionevolezza’ dell’Esistenza… “Non c’è dubbio che Pavese in questi dialoghi sia partito alla ricerca di una simbologia inconscia e dei tramiti in cui poteva avverarsi il passaggio dal proprio ‘caso’ personale, dal proprio orrore di esistere al mito sottostante, all’immensa, brulicante naturalità degli archetipi” (dalla nota introduttiva, di Roberto Cantini). Il dialogo che ho scelto ricorda Bellerofonte, figlio di Sisifo, l’uccisore di Chimera, il mostro della Licia, metà leonessa e metà drago, dal fiato di fuoco. Bellerofonte fu uomo ‘giusto e pietoso’ ma, divenuto vecchio, si sente abbandonato dagli dei. Sembrerebbe la semplice sorte di tutti gli uomini, ma in lui la cosa assume una misura ulteriore: non è soltanto triste, vecchio e solo, lui ‘sconta la Chimera’, cioè il suo destino di essere uccisore di mostro. “Chi una volta affrontò la Chimera, come può rassegnarsi a morire?”. A che serve uccidere l’Essere Mostruoso, se per l’uomo ‘trionfatore’ la conseguenza è, comunque, la vecchiaia, il deperimento e la perdita delle forze, la solitudine, la morte? È la sfida, la possibilità del combattimento, che dà la vita, sapere che una Chimera ti aspetta, da qualche parte tra le rupi. Una volta uccisa, tutto finisce, con lei. Spunto interessante di riflessione, sulla ‘necessità’ dei mostri, e la conseguente impossibilità della loro soppressione, sulla nostra relazione con loro, sulle nostre illusioni di ‘supremazia’… Questo ci insegna colui che “non è più nulla e sa ogni cosa”, e ci mostra la Verità, il nostro ‘Destino’.

In riferimento alla ‘problematicità’ dell’uccisione del mostro, anche Ovidio, parlando dell’Idra (Met. IX,70-73), ci ricorda: “Vulneribus fecunda suis erat illa, nec ullum / de centum numero caput est impune recisum, / quin gemino cervix herede valentior esset”. Anche questa è una lezione del mostro che dovremmo far nostra: la capacità di rigenerarsi dalle proprie ferite.

Altri Dialoghi si potrebbero leggere, tutti molto ricchi e stimolanti per le nostre riflessioni. Ne riporto solo un secondo, senza commento, il bellissimo ‘La rupe’, che lo stesso autore introduce così: “(nell’era titanica) qualcuno anzi pensa che non ci fossero che mostri – vale a dire intelligenze chiuse in un corpo deforme e bestiale. Di qui il sospetto che molti degli uccisori di mostri versassero sangue fraterno”.

A proposito, comunque, del destino di uccisore del mostro, apriamo un nuovo capitolo.

 

Un sogno nel sangue:
la tensione profonda verso l’altro

…ha incrociato una volta

da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,

e.ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,

ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue

e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia…

La bella poesia di Pavese (I mari del Sud) porta il fuoco della nostra lente d’indagine sopra un’opera unica, ci dischiude un nuovo universo da esplorare. Non a caso, fu proprio lui, lo scrittore piemontese a portare in Italia e a tradurre per primo il capolavoro di Melville.

In effetti, uno degli aspetti positivi di tutto questo frugare tra mostri, per me, è stata proprio la ‘discesa’ nel Moby Dick. Uno dei libri che da tutta la vita mi porto dietro nei miei traslochi esistenziali, ma che mai avevo letto integralmente e seriamente. Anche di questo, ringrazio chi mi ha ‘stimolato’ a questa apparentemente insensata indagine. Perché il libro di cui parliamo è molto bello, uno di quelli che vale la pena di aver letto, uno dei pochi di cui è bene fare tesoro, prima di morire.

Ora, ovviamente, non faccio qui l’analisi del ‘romanzo’, chiamiamolo così (“un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano”, lo definì Pavese stesso). Come tutti i veri capolavori, se ne può dire tutto, ma è bene dirne il meno possibile. Lascio agli studiosi, ai critici il loro mestiere. Vorrei riuscire soltanto a capire cosa può insegnare a me questa storia, col girotondo apocalittico dei suoi personaggi, a me, intorno alle questioni su cui sto riflettendo.

Ma non è cosa facile: significa voler classificare, né più né meno, gli elementi del caos.

Il vocabolario mi suggerisce che il latino Ballaena descriveva un animale fantastico che appariva e scompariva improvvisamente. Da questo, il nostro ‘balenare’, lampeggiare, brillare e subito scomparire. Interessante anche l’etimo di ‘cetaceo’, dal latino coetus, di derivazione greca Ketos: mostro marino. Ecco perché qualche traduzione della Bibbia traduce effettivamente il termine di Genesi 1,21 con ‘cetacei’.

Oggi, di questi animali meravigliosi sappiamo quasi tutto. Misticeti (balene) e odontoceti (delfini) sono mammiferi a tutti gli effetti, e specializzatissimi, respirano con polmoni, hanno sangue caldo, ghiandole mammarie con cui allattano i piccoli; alcune specie possiedono un cervello grande all’incirca come quello dei primati. Soprattutto le dimensioni, sono impressionanti: un capodoglio può arrivare ad una lunghezza di 20 metri e a un peso di 60 tonnellate!

Chi sono io, per presumere di pigliare all’amo il naso del Leviatano?

Quindi la Balena, scelta come biblico ‘Leviatano’ dallo scrittore americano è decisamente affascinante. Vero simbolo animale di ciò che è strutturalmente e fisiologicamente vicino e assimilabile a noi (sistema respiratorio, circolatorio, nervoso, riproduttivo), e di ciò che rispetto a noi è anatomicamente e morfologicamente totalmente sproporzionato (dimensioni, habitat, comportamento, vita sociale). Melville, se vogliamo, come Genesi, mette uno di fronte all’altro, l’uomo e il suo mostro. Ma, vorrei dire, lui va oltre questo: ci invita a prendere in considerazione l’ipotesi più ardita. Tra le tante simbologie che possono essere attribuite alla Balena Bianca, non credo sia da escludere il riferimento all’Essere in assoluto, cioè a Dio.

E di tutte queste cose la balena albina era il simbolo.

“Moby Dick è per ognuno ciò che ognuno lo crede”, dice con molta ragione Nemi d’Agostino nell’introduzione alla mia edizione del romanzo. Per Padre Mapple è il mostro biblico, strumento misterioso di Dio, di cui bisogna soltanto accettare l’operato, e dunque inseguirla per vendetta è blasfemia; per Achab è “il cancro che aveva nell’anima”, incarnazione del male metafisico, orrore della natura che deve essere estirpato; per Quequeg è un demone contro cui i suoi fratelli selvaggi da sempre hanno lottato; per Stubb e Flask un semplice sorcio d’acqua ingigantito… e per qualcuno può perfino non esistere. Mi pare che siamo decisamente nel campo della ricerca teologica. “Solo per Ismaele essa è tutto questo e più”: l’io narrante raccogliendo in sé tutte le convinzioni individuali dei vari personaggi, e riuscendo a fonderle nella sua visione empatica e onnicomprensiva, ci propone l’unico modo ‘sensato’ di porsi di fronte all’Altro: la comprensione rispettosa, l’inchino davanti al Mistero, quel tentativo di incontro e conoscenza profondo, che potremmo definire: ‘Relazione d’Amore’.

… e sventolando nell’aria la coda ammonitrice come una bandiera, il gran dio si mostrò, si tuffò e scomparve.

Ancora citando d’Agostino: “Ambigua come la natura … benigna e malvagia, vulnerabile e immortale … la balena leggendaria comprende in sé l’essere e il non-essere … In quel bizzarro abbozzo di sistema cetologico che Ismaele si rimugina in testa durante gli ozi di bordo (e che è manuale scientifico-pratico e inchiesta sul Profondo, rassegna delle meraviglie del mare e trattato sull’altra faccia delle apparenze, tentativo di classificazione del Caos e allegoria della ricerca del Vero) più si indaga sulla balena e più si scoprono solo misteri. Associata fin dall’inizio al mistero stesso dell’Essere, al Caos e alla Divinità, essa è anche l’altro da noi che è parte di noi. Evitarla vuol dire evitare noi stessi, volerla distruggere volerci distruggere…”. Solo una buona disposizione, quindi, davanti all’altro da me che è parte di me, solo l’Accettazione, il Rispetto, la Benevolenza consapevole, la sana Curiosità, l’intelligente riconoscimento d’essere parte d’un Unico Tutto, può salvare, cioè restituire il senso vero all’esistenza: Ismaele, disponibile a “riverire il mistero delle cose”, è l’unico personaggio della storia capace di sopravvivenza e rinascita, e l’unico a poter testimoniare tutto questo. “E sono scampato io solo per informartene”, scrive, citando ancora Giobbe, nell’ultima pagina l’autore del Moby Dick. Quell’Amore, che è rispettosa disponibilità alla conoscenza dell’Alterità, ci propone Melville nel suo capolavoro. Strappo una decina di righe dal libro, come esemplificazione narrativa dell’Amore di cui parlo.

Ma del grande capodoglio, quell’alta e possente dignità divina che inerisce alla fronte è così immensamente ampliata, che se lo guardate bene di fronte sentite la divinità e le tremende potenze più fortemente che alla vista di qualsiasi altra cosa viva nella natura. Perché non vedete nessun singolo punto, nessun tratto distinto, né naso né occhi né orecchi né bocca, nessuna faccia perché il capodoglio non ne ha, nulla tranne quell’unico vasto firmamento della fronte, pieghettato di enigmi, silenziosamente gravato del destino di navi, lance e uomini. Né di profilo questa fronte meravigliosa appare più piccola. […] Di profilo vedete benissimo quella depressione orizzontale, a forma di semiluna spezzata, che per Lavater è nell’uomo il segno del genio. Ma come, genio in un capodoglio? Ha mai scritto un libro o pronunciato un discorso, il capodoglio? No, il suo grande genio si rivela in questo, che egli non fa nulla di speciale per provarlo. E inoltre è dichiarato nel suo silenzio da piramide. […] Come può sperare questo ignorante Ismaele di leggere il tremendo caldaico della fronte del capodoglio? Non posso che mettervela davanti. Leggetela voi se potete.

Ismaele si pone così, davanti alla Balena bianca. Sono capace, io, di mettermi in questa posizione di prossemica relazionale amorosa, di fronte a ciò che mi appare infinitamente diverso dalla norma a cui sono abituato? Ognuno di noi, ha questo terribile compito. Guardare la fronte del Capodoglio. Provare a leggere quelle enigmatiche rughe, ascoltare quel misterioso impenetrabile silenzio…

Il baleniere è solo in acque così solitarie.

 

Il morso nella carne, il verme del pensiero:
soma e psiche

Moby Dick non ti cerca.

Sei tu, che pazzamente lo insegui.

A. Del mostrarsi del Diavolo.

Qualche pagina indietro abbiamo lasciato scivolar via Victor Hugo mentre sconfinava nel ‘demoniaco’. Proviamo a riacciuffare per la coda la bestiaccia… Anni fa dentro una sacca di libri che un amico mi ha portato trovai pure un ‘Trattato di Demonologia e Manuale dell’Esorcista’, dall’inquietante titolo: “Summa Daemoniaca”. Confesso di non averlo mai aperto, ma ora mi pare il momento di dargli una sfogliata. L’autore è un sacerdote teologo spagnolo, naturalmente specializzato in demonologia ed esorcista. Scorrendo il libro capisco perché istintivamente l’ho un po’ ignorato. La materia è decisamente lontana dalla mia sensibilità, in più è organizzata e presentata in una forma per me di difficile penetrazione. La struttura del libro, il tipo di linguaggio usato, perfino la veste grafica, tutto impedisce che questo libro mi risulti simpatico. Ma ho solo questo sull’argomento, quindi cercherò di raccogliervi qualcosa, nonostante tutto. Nella ‘Questione 51’, “Che forma hanno i demoni quando si manifestano agli uomini?”, trovo un’osservazione che mi sembra interessante per l’apertura di orizzonte di questo capitolo: “Quando diciamo che Satana è un drago o un serpente, quello a cui in realtà ci riferiamo è il suo carattere mostruoso, fiero, velenoso e astuto, tipico di questi esseri. Ma non ci riferiamo ad un’immagine concreta, dato che Satana continua ad avere l’aspetto di un bellissimo angelo nonostante la ripugnanza del suo aspetto morale. Ha sofferto una deformazione solo nella sua persona, ma non nella sua natura. Il suo essere personale si è deformato, ma la sua natura resta e resterà intatta, faccia quel che faccia. Dato che entrambe le cose sono inseparabili, egli in verità è un mostro, un essere deforme, qualcuno che causa ripugnanza e avversione”. Direi che questo è condivisibile, ad ogni livello, al di là di ciò che pensiamo sull’esistenza ‘personale’ di Satana. Il Mostro non sempre si presenta vestito da mostro, a volte il mostruoso è invisibile allo sguardo, si nasconde dietro un’apparenza ‘angelica’, e magari allora è anche più pericoloso e devastante. Ognuno potrebbe ricordare nella propria vita incontri e accadimenti del genere, maligne mostruosità mascherate da eventi luminosi, con i danni che magari ne sono conseguiti.

  1. Nel Mare della Psiche, i Mostri dell’Inconscio.

Non mi allontano troppo. Leggevo in questi giorni un tomo d’una collana di studi sulla psicologia del profondo: “Colpa. Considerazioni su rimorso, vendetta e responsabilità”. Un bel polpettone, ma parecchio interessante. Nel bel mezzo delle sue ‘analisi’, l’autore inserisce uno strano ‘interludio’, dal titolo: ‘Il diavolo con le mammelle’, sul significato psicanalitico dei demoni, indagato attraverso lo loro raffigurazione e il loro sesso. Il punto di partenza, direi, è il ‘bisogno di creare demoni’ in tutte le popolazioni e religioni antiche, come intermediari, mediatori tra l’uomo e la divinità. Questi spiriti possono essere benigni o maligni, e le loro raffigurazioni e interpretazioni variano da cultura a cultura. Il Serpente, ad esempio, simbolo fallico per eccellenza, in ambiente biblico è archetipo del ‘tentatore’, nella cultura cinese diventa il Drago, simbolo del Verbo creatore; nella saga sumerica di Gilgamesh è il nemico che induce al male, mentre nella tradizione cretese allude alla capacità di curare, di guarire, metafora quindi di rinascita dopo la malattia (la capacità di ‘cambiare pelle’), da cui anche il mito di Asclepio e il serpente simbolo della Medicina.

Altre figure apparentemente terrifiche del buddhismo cinese o giapponese, sono in realtà protettori di individui e luoghi sacri, difendendoli da influssi malefici. Interessante questo passaggio: “Nel momento in cui perde la sua funzione di intermediario, il demoniaco sembra predisporsi a divenire il ricettacolo delle proiezioni di tutto ciò che gli esseri umani non possono tollerare in se stessi e nella vita. O più semplicemente: non vogliono o non possono conoscere pienamente”.

  1. La Malattia come Disordine.

Arriviamo così a uno dei risvolti per me più interessante del ‘mostruoso argomento’. La riflessione sulla Malattia come concretizzazione della Paura, il Male fisico o psicologico come trasformazione neuro-organica, fisio-patologica, dei fantasmi e dei simboli del pensiero. Il Mostro che diventa la ‘confusione’ delle mie cellule, il panico della mia memoria immunitaria, l’ingarbugliarsi delle mie strategie biologiche difensive. Raccolgo un paio di stimoli da una raccolta di saggi di diversi autori (Il Male, a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica).

Innanzitutto la conferma che il Male può arrivare dall’esterno, ma anche dall’interno di noi, più precisamente: “L’oscura consapevolezza di essere esposti non solo al male che bisogna subire da parte degli altri ma anche a quello che può nascere, in particolari circostanze, dal fondo melmoso e oscuro di ciascuna esistenza”. L’uomo mente a se stesso, e piuttosto che riconoscere il male dentro di sé, lo rimuove, lo rinnega, lo proietta all’esterno. Questo “ci fa individuare come nemici coloro che sono diversi, combattere le idee che non abbiamo pensato, rifiutare la realtà che non riusciamo a possedere e a manipolare”. E soprattutto non ci permette di difenderci dall’attacco distruttivo di quel male interiore che abbiamo infantilmente ignorato o scaraventato altrove.

Ancora: l’organizzazione delle strategie terapeutiche nel rapporto dell’uomo con il male. “Con la malattia il disordine irrompe nella vita del soggetto e della società, ne altera gli equilibri. Il ruolo del medico e della medicina ha sempre avuto attinenza con la capacità di ripristinare un ordine, un equilibrio alterati. Ruolo che l’etimologia conferma: il latino medeor (guarire) e il greco mèdomai (prendere cura di) derivano dalla radice indoeuropea med– che implica il senso di ‘misura’, ma non con il significato di misurazione, bensì con quello di moderazione (latino modus, modestus), quella moderazione necessaria a ristabilire un ordine perturbato”. ‘Guarire’, quindi, non è tanto ‘far passare un malato allo stato di salute’, ma piuttosto ‘sottomettere un organismo turbato a regole previste, riportare l’ordine in una perturbazione’. Da questo concetto deriva quello di ‘incurabilità’, la ‘forza’ che si oppone con ogni mezzo al ristabilimento dell’ordine “ancorandosi con determinazione assoluta alla malattia e alla sofferenza. Questi fenomeni costituiscono prove inequivocabili della presenza, nella vita psichica, di una forza che per le sue mete denominiamo pulsione di aggressione o di distruzione, e che consideriamo derivata dall’originaria pulsione di morte insita nella materia vivente” (Freud). La domanda conseguente è: come mettersi davanti all’incurabile? Cioè, come aver cura della sofferenza altrui se essa appare immodificabile? È possibile curare, senza pretendere di trionfare, di modificare, di cercare di mettere ostinatamente in ordine ciò che è definitivamente fuori quadro? “Di fronte alle apparenti contraddizioni presenti in queste domande sarà utile fare riferimento al pensiero junghiano, che proprio nella contrapposizione degli opposti apparentemente inconciliabili riconosce il principale aspetto dinamico della vita psichica. […] È indubbio che nella sua visione della psiche e dell’esistenza umana il male, il negativo svolgono un ruolo attivo, inducendo un’integrazione e un allargamento dell’orizzonte di coscienza. Nel pensiero junghiano il confronto con il male contiene un’intrinseca possibilità di rovesciamento nell’opposto: da un massimo di negatività può emergere la possibilità di una trasformazione positiva, che si sviluppa attraverso un’esperienza simbolica in grado di conciliare le componenti della personalità che fino a quel momento si escludevano reciprocamente”. Davanti alla ‘incurabilità’, il primo passo è l’accettazione dell’incurabilità stessa, per arrivare con pazienza alla consapevolezza che ciò che può essere utilmente trasformato non è il disturbo, che in quanto incurabile rimarrà immodificato, ma il ruolo che esso svolge nell’economia psichica complessiva del soggetto. Questo, in sostanza, il ‘rovesciamento nell’opposto’ junghiano: “rinunciare a una volontà trasformatrice può essere talvolta la sola via che rende possibile la trasformazione”. Che poi non è altro che il principio che sta alla base della mia personale dolorosa esperienza di morte/risurrezione e della mia attuale esistenza cristiana.

D. Nel segno del Cancro. La poesia in un guscio di noce.

Per molto tempo, la “metafora privilegiata dell’incurabilità” era identificata con il cancro. Esso è anche uno dei mostri che più ci spaventano: cosa c’è di più abnorme e allucinante, infatti, di un Essere che nasce e cresce dentro di me, ospite indesiderato e imprevisto, ingombrante, invadente, inarrestabile, che mi occupa, mi consuma, mi deforma, mi prosciuga la vita da dentro? Ho davanti uno dei libri che più ho amato da giovane: “Di cancro si vive”, di Luigi Oreste Speciani. Leggo che l’antico nome egizio di granchio (tradotto in greco karkinos e in latino cancer) viene dall’aspetto osservato dagli imbalsamatori che aprivano l’addome del cadavere, simile a un crostaceo, con una massa centrale e gettate radiali periferiche. Perché ne scrivo qui? Cosa c’entra questo mostro con la mia vita? Quanto la minaccia? Quanto lo temo, o lo desidero? Lo combatto o lo invoco. Non lo so. Nessuno, probabilmente, lo sa. Io, però, ricordo. Era l’ottobre dell’83, avevo dunque 23 anni, e per tre giorni partii da Mornese al mattino alle cinque, un treno da Arquata, verso Milano. Il congresso si intitolava “cancro perché”, così, tutto minuscolo e senza punto interrogativo, organizzato dalla Società di Medicina Psicosomatica e dall’Istituto di Medicina Integrata. Ho tra le mani, 35 anni dopo, gli atti di quel congresso. Se mi chiedo cosa mi portava là, solo, in un ambiente in cui non c’entravo davvero nulla, proprio non so rispondere. Eppure, credo, la mia vita doveva passare anche attraverso quella grande sala da conferenze. Qualcosa deve essersi piantato, dentro di me, di quell’esperienza. Niente è rimasto, nella mia memoria consapevole, dei discorsi che ora rileggo su queste ultradatate pagine. Ma piango, ripensando al dolcissimo volto di una ragazza, che nelle pause leggeva Castaneda. Scrissi per lei una poesiola (sicuramente impresentabile!), la chiusi in un guscio di noce, e pensai che se riuscivo a fargliene dono, se avessi saputo chiamare per nome la Bellezza, guardarla negli occhi, in qualche modo avrei allontanato per sempre da me il Mostro Maligno. Oggi penso: il gheriglio ha la forma del cervello, il sentimento poetico è il cuore: era il mio modo goffo di mettere l’Amore al posto della Ragione, una terapia ‘alternativa’ nella prevenzione del Male. Non so dire nulla di più di queste poche stupide banalità. Se non che, ovviamente, non fui capace di far arrivare quel bigliettino a quella mano. Mi consolai però, quando sentii dire che i pazzi hanno una probabilità molto bassa di ammalarsi di cancro…

Torniamo all’oggetto. Mi piace questa definizione: “Il cancro è una crisi esistenziale, primitivamente emozionale e sentimentale, che solo successivamente si somatizza nella nostra architettura fisica e cellulare”. Chi dice questo, conclude così il suo intervento: “In rigorosi termini probabilistico-statistici ed entropici, la crescita tumorale identifica il comportamento autonomo della cellula normale nei suoi stadi precoci di sviluppo (disgenesia regressiva). Siamo invece noi, gli organizzati, ad essere straordinariamente improbabili, e costretti a reinventare questo equilibrio psico-morfo-funzionale, matematicamente impossibile, ad ogni istante della nostra vita come organismi. A rischio, se si turba o si infrange, di regredire (biologicamente!) a uno stato cellulare entropicamente più probabile, quale una coltura non-organizzata di amebe, limitata solo dall’esaurimento del pabulum”. Ecco, dunque, la verità. Il mostro sono io, non la mia malattia. Io sono, l’Improbabile, il complicatissimo marchingegno, l’esagerato divoratore di energia. La minaccia più grande, per me e per tutto, sono io. Che quel Principio Ordinatore, capace di tenere insieme l’universo di 60 trilioni di cellule del mio corpo, che muoiono e si rigenerano al folle numero di 18 biliardi al minuto, continui ad occuparsi con benevolenza di me…

Rimando ad uno degli articoli della rivista che raccoglie gli atti del convegno (allegato 7), che affronta il panorama simbolico contenuto e scatenato dalla malattia. In fondo, il mostro che mi cresce dentro, la balena che mi rosicchia dalla pancia, non è altro, forse, che un estremo tentativo di ri-creazione di me, confusa e male orientata certamente, ma spinta vitale, comunque, energia novella che vuole prendere forma, il figlio a cui ‘dare la vita’, ribelle, malefico, magari assassino, come di frequente i figli sono, ma che non posso non amare, perché è parte di me. Spesso, la parte più preziosa, più personale, più intima, inconfessabile, di me.

E. ‘Quel che ho inteso dall’esempio dei semi’.

Ho parlato di Amore risanante. Mi viene in mente il suo opposto. La declinazione della ‘mostruosità dell’amore’. Eros strettamente congiunto con Tànatos. Conosco un luogo, dove questo si fa carne viva, pagine in cui quel tema prende dolorosamente Corpo. Il Teatro di Pier Paolo Pasolini. Dovremmo leggere una ad una le sue sei tragedie, per vedere rappresentato in tutta la sua esplosiva drammatica problematicità il nodo della ‘Diversità’ nella relazione d’amore, come metafora della dialettica persona/società, o meglio del rapporto ‘incurabile’ tra individuo e Potere. Calderon (diverse variazioni oniriche sull’Incesto mitico), Orgia (l’inutile e distruttiva evasione-fuga sadomasochistica nella coppia piccolo-borghese), Affabulazione (il difficile rapporto tra un Padre e il Figlio, in una reinvenzione dei miti di Crono divoratore della prole e di Edipo parricida), Pilade (diversità incarnata, come Disadattamento, bestemmia alla Religione della Ragione), Porcile (la zoorastia, abominevole commercio carnale con i maiali del figlio ribelle, come il più infimo oggetto di passione amorosa, per contrastare la più infima abiezione del Potere paterno assassino), Bestia da Stile (l’autobiografica esposizione ‘definitiva’ del poeta, che si offre sull’Altare dell’Impotenza). Questo il campo di battaglia in cui lo scontro avviene, il campionario di ogni possibile inquadratura del tema: “l’analisi delle pulsioni oscure e violente che agiscono dal profondo dentro di noi, fra noi e intorno a noi” (Aurelio Roncaglia). Il corpo umano si sperimenta come il luogo del sacrificio, la vittima sacrificale e, in un certo senso, anche il sacerdote officiante, in un terrificante Rito dell’Essere se stesso nell’Essere Altro.

Da un saggio che indaga l’articolata posizione di Pasolini rispetto al Sacro mi piace raccogliere questa osservazione: “Con la soppressione delle culture popolari, soprattutto nel loro carattere religioso, si è perduto un momento che risultava fenomenologicamente essenziale alla cognizione del diverso, all’avvertimento del mistero, di ciò che si svela come ‘completamente altro’”. Con lo smarrimento del sentimento del sacro, l’alterità si muta in diversità, si perde la capacità di aprirsi ad accogliere l’altro in quanto irriducibile altro. Citando Baudrillard: “Non esiste razzismo finché l’Altro è Altro, finché lo straniero resta estraneo. Il razzismo comincia ad esistere non appena l’altro diventa diverso, cioè pericolosamente prossimo. È a questo punto che si sveglia la velleità di tenerlo a distanza”. La democratica frase: “siamo tutti uguali”, cioè, significa in realtà: “l’altro deve essere uguale a me”. Ciò che si identifica come ‘diverso’ diventa un ostacolo, da rimuovere, da sopprimere o, se questo non è possibile, da ‘tollerare’. Nel Prologo di Orgia Pasolini fa dire al suo personaggio, l’Uomo, morto da poco: “Cos’è insomma la Diversità / se non un puro termine di negazione della norma? / E quindi parte della norma stessa? / E, quel che importa, che cosa deve fare chi è Diverso? / Negro, Ebreo, mostro, cosa sei tenuto a fare?”. Pasolini, nel testo citato come nel drammatico compiersi della sua esistenza (morirà ad Ostia, ricordo, dal latino hostia, vittima espiatoria!), sembra concludere che il Diverso è costretto ad accettare un destino di Sacrificio: solo andando incontro alla Santità può riaffermare la propria sacralità e quindi quella del mondo[2]. “‘Luogo’ dove solo il poeta può accedere e da cui, nello scoprire il senso dell’irriducibilità degli opposti, può denunciare come un’illusione mortifera la pretesa universalistica della cultura dominante che, nella ‘certezza’ di poter riconciliare, finisce al contrario col distruggere tutto ciò che è altro da sé”.

F. Io sono te. La Lezione del Corpo Deforme.

Il piano sociale, il piano morale. Il piano fisico. La ‘difformità’, come condanna, come destino, come scelta, come antagonismo, come vocazione… C’è ancora una sezione che dobbiamo almeno citare. Il sottotitolo del testo che prendo come riferimento recita: “Mostri o mutanti, scherzi di natura, incubi viventi, incarnazione delle nostre paure, caricatura delle nostre illusioni”. Si tratta di una ricerca approfondita che parte dalla teratologia per arrivare alla rivoluzione culturale degli anni 60-70 del Novecento, dalla teologia al ‘Baraccone dei Fenomeni’. Dalle tavolette babilonesi a Plinio, dai trattati medievali al film di Browning.

Credo che la cosa migliore sia allegare direttamente e integralmente il libro, così da permetterne la sua più approfondita fruizione. Si tratta, ovviamente, di Freaks, di Leslie Fiedler. Buona lettura e proficuo utilizzo! (allegato 8).

Segnalo soltanto alcuni spunti, raccolti dall’introduzione al saggio, che potrebbero essere approfonditi e arricchiti da altre riflessioni e testimonianze.

In primo luogo la questione del ‘nome’: come chiamare ciò che si manifesta come diverso?

Ricordando anche l’etimologia del termine ‘mostro’, che ci dà informazioni interessanti: da moneo, ammonisco, o monstro, esibisco, entrambi i significati dicono che l’oggetto mostruoso non è soltanto qualcosa da guardare con disgusto o paura, da allontanare o sopprimere, o peggio, da ignorare, ma è qualcosa che ci serve, è messo lì, davanti a noi, per insegnarci, ricordarci qualcosa, mostrarcela, appunto. L’Anormalità fisica, psicologica, esistenziale, non è un capriccio, un errore della Natura, ma fa parte a pieno titolo del Disegno della Provvidenza (come anche Genesi ci ha suggerito).

L’autore ci spiega bene il “senso di sgomento quasi religioso” di fronte all’essere ‘strano’. Uno spavento irrazionale, davanti a qualcosa che ‘ci guarda’, ci riguarda, ci chiama, come dicendoci: “Noi ti conosciamo. Noi siamo te!”. Un’ansia profonda, un timore atavico, perché il ‘deforme’ raccoglie in sé tutte le nostre paure primordiali: la violazione dell’armonia e delle proporzioni organiche; la sfera della sicurezza e della funzionalità sessuale; il confronto ‘presuntuoso’ con le altre specie animali e l’angoscia per la nostra componente ‘bestiale’; il territorio, i confini, la precisa definizione della nostra identità. Da qui l’analisi della Psicologia del Profondo, soprattutto a partire dalla letteratura per l’infanzia.

Dalle più antiche testimonianze dell’inspiegabile deformità teratologica ai nani e buffoni di corte, dalle esibizioni nei ‘Freaks Show’ ottocenteschi agli stati mentali alterati da sostanze allucinogene degli anni 60, fino all’ostentazione parossistica di tatuaggi e piercing e alla ricerca estrema, ai limiti e oltre i limiti dell’autolesionismo, della Body Art, la recezione del ‘Fenomeno della Ripugnanza’ oscilla, dal vertice del sublime all’abisso dell’orrido. Sbagli o punizioni di Dio, oppure premonizioni, auspici di sorte favorevole? Perversione dell’ordine naturale, oppure rivelazioni dell’Io più segreto? Segno, dono, arricchimento, oppure macchia, nemico, colpa del genere umano? Colui che mi porta ciò che mi manca, che mi insegna ciò che non so, oppure insolente, inutile, comico aborto di me?

 

Vedere dalle orecchie, sentire nelle mani,
toccare con gli occhi

Appunti per la lettura teologica di un film

In lui era la vita…

Bene. Ho già scritto tante bestialità. Ora butterò giù la più grossa. Sto per mostrare tutta la mia mostruosità concettuale. Cammino sul filo della Bestemmia, e sento che sto per scivolar giù. Perciò, chi è troppo sensibile d’animo o troppo dogmatico di mente, chi ha cuore debole o cervello raffinato, può tralasciare la lettura di questa pagina. Ma, per chi ha ancora curiosità e coraggio d’ascoltare, voglio dire da ultimo questo. Se davvero il Mostro è colui che ci ammonisce, ciò che attraverso lo Stupore ci racconta qualcosa, attraverso il suo Essere fuori norma ci fa conoscere la Norma, se è il Portatore di Novità, il bizzarro, paradossale Educatore, l’Insegnante esagerato di Tutto, allora… per me, il mostro più mostruoso, il vero Mostro Maestro, è Lui, l’uomo Gesù Cristo. Riflettiamo: una nascita a dir poco misteriosa; una vita fatta di gesti stravaganti (uno su tutti? camminare sull’acqua…); l’ostinata propensione alla provocazione; la sua soppressione ‘scandalosa’, vera e insostituibile e consapevole Vittima Sacrificale; la ‘discesa nel ventre della terra’, il suo ‘durare’, oltre la morte, oltre ogni morte, ucciso infinite volte, ogni giorno, sempre Vivente, e continuamente risacrificato per la liberazione dell’Uomo. Colui che era, che ancora verrà. Il sempre Presente. Conoscete un essere più mostruoso di questo? Lo conferma il Catechismo: una sola persona, due nature, l’umana e la divina (Concilio di Calcedonia, 451). Doppia natura, come detto, caratteristica fondamentale dell’Essere Altro.

Questo bizzarro cappello introduttivo mi serve per affrontare l’ultimo compito: organizzare alcune riflessioni intorno ad un film. Mi hanno regalato un dvd, e ho promesso di vederlo. Non so nulla della storia, non conosco l’autore. Quindi sono completamente libero da qualsiasi preconcetto d’analisi, posso godermi la visione, e lasciar correre il pensiero e la fantasia.

Guardo La forma dell’acqua (di Guillermo del Toro, Premio Oscar come miglior film, 2017) nel giorno della memoria di Maria Maddalena, la donna che seppe così amare il Cristo, da incontrarlo per prima dopo la sua morte. Uno dei primi pensieri, finita la visione, è se questo non è un Vangelo. Mi chiedo: che differenza c’è fra l’Essere descritto e Gesù Cristo? Anche alcuni Evangelisti terminano la loro narrazione con la constatazione: “Tu sei un Dio!”, ultima battuta del ‘cattivo’ persecutore morente, sovrapponibile al: “Davvero quest’uomo era figlio di Dio” pronunciato dal centurione, dopo la morte di Cristo, in Marco 15,39. Del resto, cos’è il Messia, se non il Maestro, il Profeta dell’Amore, che è direi anche il senso globale dell’Essere descritto nel film: Colui che spalanca nuove possibilità alla relazione d’Amore. Tra l’altro, fin dall’inizio si dice di lui che da alcuni (i ‘Primitivi’ del luogo da cui è stato prelevato, un fiume in Amazzonia) viene creduto un Dio. Questa ‘ipotesi’ torna nel corso del film, ad esempio nell’episodio dell’incontro tra la ‘creatura’ e il gatto. La poesia finale, poi, non lascia troppi dubbi e conferma l’indirizzo di lettura che sto proponendo: il film è, anche, una parabola ‘teologica’, si parla della Relazione con Dio. O meglio, ma è lo stesso, della possibilità di una relazione d’Amore ‘Ulteriore’ con l’Essere Altro. Trascrivo gli ultimi versi che la voce fuori campo dell’amico della protagonista recita sulla scena finale del film, nella fusione totale dell’Essere nell’ambiente originario che lo accoglie:

Incapace di percepire la Tua Forma / Ti trovo ovunque intorno a me / la Tua Presenza mi riempie gli occhi / e con il Tuo Amore / il mio cuore si fa piccolo / perché Tu sei ovunque…

Un sonetto di Shakespeare? Una canzone di John Donne? Un frammento della Dickinson? Non so. Sant’Agostino, praticamente. Per alcuni aspetti, direi che tutto il racconto del film ha qualcosa del Cantico dei Cantici, il Libro della Bibbia in cui si cerca di descrivere l’esperienza unitiva tra uomo e Dio, attraverso le parole dell’Amore umano, anche nella sua dimensione più fisica.

Tra l’altro, sempre a conferma di quel che sto dicendo, notiamo che i rimandi biblici sono diversi, e importanti: ricordo qui solo l’episodio di Sansone, interamente raccontato in due puntate, come collegamento e rimando tra l’inizio (la presentazione dei personaggi buoni e cattivi, col riferimento all’amica di nome Dalila) e la fine (col ‘tradimento’, la delazione che, attraverso la pur incolpevole stessa Dalila, introduce la catastrofe finale). In effetti è probabile che questa citazione del personaggio biblico sia usata proprio per contrasto, a dimostrazione che l’amore cercato nell’esclusiva dimensione umana, senza il necessario fondamento divino, non può che portare alla rovina definitiva dell’esistenza.

Riassumendo all’osso la trama: come spesso accade nei film di ambientazione e tematica più o meno fantascientifica, si tratta della lotta tra il Bene e il Male. Ma qui non sul piano politico, sociale o morale, ma nel suo significato più alto, Religioso. La contrapposizione è tra ciò che sembra capace di provare Amore, e chi invece, tetragono, ne risulta impermeabile, come vetro su cui scorrono gocce di pioggia.

Annoto, in ordine sparso e senza svilupparli, alcuni spunti tematici, su cui si potrebbe riflettere (lo confesso: sono troppo pigro per sistemarli e approfondirli…).

. perché la Maddalena/Elisa ‘sente’, è ‘capace di riconoscere e incontrare’ l’Essere sommerso nella sua materia fluida?

. c’è una ‘predisposizione’ alla ‘chiamata’e all’incontro? (la ragazza ha già prima una sua relazione ‘erotica’ con l’acqua, se ogni mattina si masturba immersa nella vasca piena!)

. perché è muta? C’è un Silenzio che è necessario all’Incontro? La diversità, la ‘menomazione’ dispone al ‘sentire’? Le Diversità si attraggono?

. perché il primo ‘Contatto’ avviene attraverso l’Uovo (simbolo dei simboli, riferimento creazionale, che dice Inizio, Fecondità, Nascita, Vita, Riproduzione; anch’esso già anticipato dal timer della colazione).

. qual è il significato profondo dell’offerta rituale del cibo?

. il senso, anch’esso mistico e cultuale, della Musica e della Danza.

. anche il Male, la forma assoluta del Negativo, si costruisce e propone come un dio. Il dio dell’Autosufficienza, dell’Autoimposizione, dell’uomo Artefice di sé e Capace di Tutto. Il Grande-Estimatore-di-Se-Stesso. Anche questo dio perverso chiede il Silenzio, ne è attratto, eccitato. L’Amore, a qualunque livello, sembra non abbia proprio bisogno di parole umane.

. episodi di Guarigione miracolosa (la ferita al braccio; la crescita dei capelli; anche i muti parlano!). L’importanza dell’Imposizione delle Mani, gesto sacro per eccellenza, usato qui sia come atto risanante, sia come Benedizione finale al momento della separazione.

. cosa sono, invece, le due dita strappate, (le Colonne del Tempio), e perché sono rigettate?

. la ridicola e disastrosa autostima dell’uomo sempre votato al male: “Io non fallisco, io risolvo”, davanti all’inarrestabile e salvifico Disegno Superiore dell’Amore.

. la ‘Risurrezione’ dell’Essere. E la ‘Partecipazione’ alla sua Vita Ulteriore: apparentemente Elisa, nell’Unione Sponsale marina definitiva ritorna alla vita: nell’Abbraccio e dopo il Bacio dello Sposo, in lei torna il Respiro.

. la ‘doppia natura’ dell’Essere: Acqua/Aria; somma potenza e libertà vs prigionia, sottomissione, debolezza. L’Essere è in grado di respirare e sopravvivere in due ambienti, ma quello ‘umano’ è soffocante, opprimente, avvilente; quello ‘immerso nell’Alterità’ invece è liberante e rivitalizzante nel modo più pieno e totale.

. il genere ‘Parabola’: ricercata ingenuità, irrealismo e parossismo come cifra narrativa, sforamento e contaminazione di generi (spy-noir-fantasy-horror-love-musical), con il gusto per il rovesciamento spiazzante (fantascienza proiettata nel passato, il russo buono, ecc.), che ambienta e facilita la considerazione del ‘Diverso’ come migliore del ‘Normale’; il finale nell’inevitabile proiezione favolistica di felicità e contentezza senza fine.

. il discorso sulla ‘Solitudine’: tutti i personaggi sono infinitamente, irrimediabilmente, definitivamente soli. L’unico farmaco contro la Solitudine pare essere questo: credere, praticare, ‘salvare’ l’Alterità.

. da dove viene l’Essere? (dal Fango! è un nuovo Adamo?). A cosa serve? (è salvifico? come? individualmente, per la ragazza, probabilmente sì, ma la dimensione Universale e Cosmica della Salvezza? Come siamo coinvolti nella sua Presenza? dalla sua Sopravvivenza? dal suo Ritorno alla Vita?).

. cosa è l’Altro. Chi è. La ‘Banalità’ certo voluta della Descrizione della Mostruosità. Il ‘Mostro’, il Diverso, l’Altro, non è avere un po’ di membrana tra le dita o le orecchie che si gonfiano… ‘Diversità’, forse, si dà tra chi ha ‘Sentimenti Umani’ e chi non li ha… (su criteri, cioè, di sensibilità, delicatezza, rispetto, disponibilità al sacrificio di sé, ecc.).

. l’Altro come l’Abitatore di un diverso Elemento. Vivere sulla (e venire dalla) Terra; Respirare Aria; Essere fatti d’Acqua; Avere dentro il Fuoco. Colui che usa e combina gli Elementi in modo ‘Diverso’ (ancora nel riferimento a Cristo: calma la tempesta di vento, porta sulla terra il fuoco, cambia la natura dell’acqua, fa tremare la terra alla sua morte).

. il 10 pioverà. Il Divino è padrone degli eventi atmosferici (v., p.e., il profeta Elia e la sua relazione con gli elementi).

. l’Essere ‘Primordiale’ coincide con l’Essere ‘Ultimo’. Il Primo e il Secondo Adamo.

. l’apice del paradossale: il Gesto Sessuale come atto ‘ricreativo’ d’una realtà ‘altra’, diversa, dagli elementi capovolti, appunto (la stanza piena d’acqua!). Ma cosa vuol dire, davvero? E perché l’Acqua, ‘realtà Altra’, invade il Cinema?

. la dolcezza del sentimento, nel canto di Elisa, altro momento di forte ‘tensione religiosa’: “Sei andato via, e il mio cuore ti ha seguito. Dico il Tuo Nome in ogni mia Preghiera…”.

. la Storia di Ruth. Un film di Henry Koster, del 1960 (lo registro con simpatia, per ragioni anagrafiche personali… anche se fa una certa impressione essere coetanei di un kolossal che pare così datato. Ma mi consolo, in quell’anno qualcuno girava Come in uno specchio). Anche il film dentro il film, dunque, è biblico. Perché? E perché l’Essere ci si incanta, ci si perde davanti? Rut è il racconto dell’apertura, dell’Universalismo, dell’Amore verso la Straniera. E insieme la Promessa della Discendenza: dall’Amore tra Rut e Booz nascerà Davide, da cui verrà il Cristo. L’inseminazione della sala cinematografica può farci immaginare una ‘discendenza’ al rapporto tra la ragazza e l’Essere. In qualche profondità oceanica, un Uovo si schiuderà, forse… Di quella citazione cinematografico-scritturistica, degna di nota mi pare anche la prima battuta: “Ho peccato, ho dubitato della necessità del sacrificio…”, che direi distribuisce una certa luce interpretativa sull’intero film, e sulla ‘messianicità’ della mostruosa creatura protagonista.

È poco, lo so. Si può fare meglio. “Non si traggono profitti dal pesce della settimana prima”, per citare il malcitato Lenin! Non sono un critico cinematografico, tanto meno un buon teologo. E anche, il mio cervellino è limitato, e dopo un po’ fuma e puzza come pesce marcio… Però il film mi è piaciuto, non so dire cosa, ma qualcosa mi ha dato. E sicuramente, ci può anche aiutare a considerare la Vita non “il naufragio dei nostri piani”, ma una splendida nuotata nel mare dell’Amore, del piano di Dio.

 

Conclusione inconcludente:
mostrando-mi-nascondo

A quanti però lo hanno accolto

ha dato il potere di diventare figli di Dio…

Dall’Incontro con l’Altro ci sono tanti modi di ‘venirne fuori’. Si può far finta di niente. Si può farsi toccare, o cercare di rendersi intoccabili, si può perdere o trovare Tutto; soccombere o tornare alla Vita. Sfiorare il Cielo, farsi avvolgere dal mare o sprofondare sottoterra.

Pinocchio, appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel buio, e cominciò a camminare a tastoni dentro il corpo del Pescecane, avviandosi un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano.

Da ragazzino giocavo a pallanuoto. Passavo cinque o sei ore al giorno pucciato nell’acqua. Per un po’ di tempo ho pensato che quello era il mio vero elemento; qualcuno già mi diceva che le mani mi stavano diventando palmate (a proposito di membrane tra le dita), come le zampe di un’anatra! Sì, stavo decisamente meglio a mollo, nell’acqua, che con i piedi per terra e la testa per aria, tra le nuvole… Poi è finita: un altro fuoco è venuto a strapparmi via da quella miaimmersione nei primordi. Falò della Passione. Innamoramenti, Ribellioni. Partenze come Fughe. Distanze come Rifiuti. Abbandoni come Alterità. La mia generazione si nutriva soprattutto di ri-sentimenti poetico-estetico-politici: l’Avversario, il Nemico, il Diverso era colui che leggeva altri libri, vestiva altri abiti, conteneva in sé idee diverse dalle tue. Una generazione che potremmo riassumere nel titolo di un film: “Sbatti il mostro in prima pagina”… Ma bando all’autobiografia. (Comunque, a pensarci bene, anche i titoli dei giornali, sono pieni di ‘mostri’, più o meno reali o ‘costruiti’, intercambiabili a seconda dei bisogni: terroristi, dittatori genocidi, serial killers, pedofili, le folle di migranti, mostro collettivo più alla moda e, ultimi arrivati, femminicidi).

E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto, che gli pareva d’essere a mezza quaresima.

Della Cosa Politica, dunque. Lo ‘Stato Sociale’ non è un gruppetto easy-rock che vince Sanremo. Bensì uno dei mostri più indagati e temuti, corteggiati e combattuti. Nel 1651, a Londra, Thomas Hobbes dà alle stampe Leviathan, la sua opera più importante e famosa. Essa ci ammaestra intorno al ‘mostro sociale’, collettivo, creato dall’uomo per limitare la sua innata e insopprimibile tendenza/necessità di essere ‘mostro’ al suo simile. Un Leviatano gigantesco e onnicomprensivo dove si raccolgono e soffocano tutte le mostruosità individuali. Gli uomini, per sopravvivere al loro individualismo distruttivo, si uniscono in società, e istituiscono lo Stato, il potere politico, ‘volontà comune’ che diventa sovrano assoluto delle volontà dei singoli. Il terribile mostro biblico è quindi la metafora del Contratto Sociale, quel Patto che, in definitiva, libera e insieme sottomette tutti gli uomini: “Per parlarne con più reverenza, il Dio mortale al quale dobbiamo, al di sotto del Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa”, poiché “col terrore è capace di disciplinare la volontà di tutti alla pace interna e al mutuo aiuto contro i nemici esterni”. Ma anche i mostri più terribili, a lungo andare, si addomesticano, e finiscono col perdere gran parte delle mirabili e funzionali caratteristiche originarie…

E più andava avanti e più il chiarore si faceva rilucente e distinto; finché, cammina cammina, alla fine arrivò, e quando fu arrivato… che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte, mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.

Discorsi stantii, d’altri tempi. Qui bisogna, piuttosto, trovare il modo di sgattaiolar fuori da questi fogli. Come fare, dove andare, a finire? Tirare le somme, è sempre stata una delle mie più insormontabili difficoltà…

Intanto, dichiaro che sono consapevole di non aver detto nulla. Di sensato e di nuovo.

Si sa, non riesco mai a dimostrare tesi, io, ho semmai solamente pensieri da dispensare.

Ma non è colpa mia: io sono l’Altro, questo l’abbiamo capito. Quindi, prendetevela con Lui!

Del resto, bibliografie sconfinate s’occupano di mostri, li raccontano, li descrivono, li spiegano e documentano, li sezionano e analizzano: potrei forse io immaginare, aggiungere qualcosa, che non sia già stato detto?

Non ho parlato di Storia dell’Arte, ad esempio. Un’iconografia abbondante: i draghi di san Giorgio, i pazzi di Gericault, per dirne solo un paio, i primi che mi vengono in mente.

E poi, fantasie e fantasmi di tutti i tempi, per tutte le età: dinosauri, sirenette, orchi, squali d’ogni tipo e mostriciattoli d’ogni forma… dovunque ti giri, un essere informe in agguato!

Il solito monitor gracchiante giusto iersera ha sputacchiato maligne sequenze di un’Hydra, francamente imbarazzante, per qualità e contenuti. Un mostro decisamente di serie B, ma l’immaginario umano è pieno pure di quelli. Eccome!

Mostruosi anche, a volte, i più dolci gesti d’affetto. Mi hanno recapitato pochi giorni fa una bella cartolina di saluti: un angolo di palazzo con portico immagino medioevale, in Salita Motta al Lago d’Orta: sulla facciata l’affresco (uno stemma?) che riproduce un serpentone antropofago incoronato, con tanto di ometto tra le fauci! (quale, il messaggio? Chi sono io, il divorato, o il divoratore? Ed è più mostruosamente spaventevole quel blu profondo di lago che si spalanca accanto alla piazza, o la folla di turisti, che gli stanno inconsciamente seduti davanti, sul bordo dell’inquieta liquida materia?)

I laghi, già. Proprio all’inizio di questa mia esplorazione, mi si era messo davanti, civettuolo, un cartone di Lock Ness; tutto giocato sul filo della realtà/finzione, esistenza/inesistenza del Mostro. Queste, le ultime parole con cui la storia si conclude:

Ma credo che alcuni misteri, debbano rimanere insoluti!”.

E questa, potremmo davvero prenderla come provvisoria ultima stazione del nostro viaggio.

A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e, spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare: – Oh, babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!

Ho finito le idee. Eppure, almeno una cosa bisogna ancora dirla, faticosamente pensarla. Pinocchio nel ventre del Pescecane ritrova e riabbraccia Geppetto. Giona, nella pancia della sua Balena, prega, e rincontra Dio Padre. Anche questo, dovrà pur insegnarci qualcosa. Monstrum, ciò che ammonisce, fa riflettere. Ci ricorda ciò che siamo, che siamo stati, ci fa vedere quello che possiamo o non possiamo diventare. Ci aiuta a non dimenticare ciò che è accaduto, a non temere, o a temere ‘con giusta misura’, ciò che dovrà accadere. L’Essere inghiottito dal Mostro ci apre al tema del ‘Ritorno’, dell’Incontro, della Riappacificazione (interiore, generazionale, transnazionale, ultraterrena). Giona, nel punto più profondo della sua Discesa, innalza un Inno al Dio che salva. Questo, per lui, l’Inizio della Nuova Vita.

Il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla spiaggia.

Il pesce della storia, nella lingua ebraica originaria, è di genere femminile: essere inghiottiti dal pesce come rientrare nell’Utero materno, essere risputati a terra come essere nuovamente partoriti. È, dunque, davvero un riappropriarsi delle Origini, la risistemazione della propria biografia; Ricapitolazione di Tutto, il riconoscimento del necessario Ricongiungimento: un Essere mancante, che si completa nell’Infinità. Non è qualcosa del genere, la Risurrezione?

Questo, anche, ci dice il mostro: che non può esserci fine.

 

Appendice(ctomia):
due punti di vista, o di fuga

Come in tutti i percorsi, come nella vita, anche nel ‘comprendere’ il Mostro, c’è un doppio movimento: dapprima si scende e poi si risale.

dell’Affondare, una favola[3]

mi son caduto dentro! non so com’è successo, devo essere scivolato sullo scendiletto dell’identità, precipitando giù a capofitto, nello scantinato profondo ventre della mia persona vana. è stato come un perdersi, nell’abissale rintrovarsi, o il c’ostruirsi vis cerico d’un m’isterico in cavarsi. roba da matti, chi me l’avesse detto! ora passeggio, le braccia ciò ndoloni nel puzzo antico di budella molli. raccolgo ingenuo pezzi rimasti cati di ciò che m’hanu trito, ritr’ovo quasi tutto quello che avido mi sono divo rato, son come di lavato dal passato di sventura. la chiamo in digestione di esistenza, mi sporgo su ogni ansa che sparge vecchia ansia. mi guardo intorno, nell’interno: sono una cosa flaccida, in movimento ipocrita, insulsa bava di bolo, spiaccicosa poltigliola, stravagante arabesco imputridente, divertimenticolo accecato di sé. dunque, niente di che. eppure è lì, nel buio indigerito d’un me finora inconosciuto, che – lo credereste? – ho incontrato il Bestino. la chiamo così, l’anima letta, che mi è parente rale, quel quid del m’io me stesso, chissà da dov’è uscito, colui che, polso fermo, d’un tratto chiaroscuro, disegna precisissimo la mia d’estinazione, il filo di equilibrio del cammino, nel bene e male, l’univoco, l’inestinguibile mio stretto vasto Vaso Destino. Bestino è d’una forma strana, poco mprensibile, misura men d’un mignolo micragno, tendente all’infinito, è amorfo con propaggini e senza cartilagini, non ha occhi, ma sente, tutto riceve e mèmora, senza nessuna remora. e sempre dice il vero, a volte dolce mente lenta ma avvolta lenta mente. sostengono, qui attorno, che sappia l’ora, il modo, il luogo del Ritorno, sia lui, una specie speciale di Semenza-Sostanza-Sentenza, della durata, della sensatezza di tutta l’esistenza. chissà s’è vero, sembra un innocuo vermiciattolo, che schiacci con un dito, invece è il Senso Unico della tua carreggiata. Fino all’ultima, sospirata espiatoria scoreggia ben tirata. davanti a quest’ameba di mia sincera malattia, ho dunque ancora una speranza. io, disarmato e nudo così, involtolato d’escremento, precipitato dentro, incrementato di fecalica ospitalità, fracico di villi e di bacilli, davanti a questa tenace tenia di me mòria, io, una cosa, credo, la comprendo. io sono ancora io, in quest’antro d’Assenza, stanza di me nticanza, ancora tengo, dentro di me, nel fondo della pancia, un’oncia del mio Ben essere. è un minuscolissimo microbino di me, mostriciattolo inverosimile inimmaginabile. Lui, Bestino del mio in Testino, sono sicuro, che Lui mi salverà.

del Riemergere, una preghiera.

vedi?, sono confuso, Dio, sono pieno di me,

colmo d’ogni stranezza, obbrobrio, alterità

un’informe sgraziata accozzaglia di rozzi pezzi

impazzita proliferazione di cellule ingorde

cicatrici mal cucite, rammendi di cadute

cisti e ricordi, escrescenze dell’impossibilità.

Aiutami Tu, Sistematore delle Cose Strane,

mettimi a posto, sanami, insegnami il mio posto

nella Semplicità, nel placido coesistere di Tutto.

dammelo, l’Ordine, comandami ch’io sia

qualcosa in mezzo a qualcos’altro, ben combinato

con i giusti rapporti, di scambio e di distanza,

omeostasi felice, ordinami che sia, soltanto,

mostruosa cosa, Tua

briciola in equilibrio, bestiolina che nuota,

capace di nuotare, nel mare malato dell’Amore.

(E naufragare ci sia dolce).

alla parte insana, distorta di noi

tra s.Olga e Maria Regina, 2018

dalla Rocchetta, con intenzione

[1] *(n.d.e.) Non tutti i brani e i racconti commentati dall’autore sono facilmente reperibili. Si era pensato in un primo momento di allegarli direttamente, così da agevolare il percorso del lettore: ma l’allegato sarebbe diventato a questo punto più corposo della trattazione stessa e avrebbe comportato difficoltà per la stampa D’altro canto, un testo del genere, che è stato redatto senza alcun ausilio informatico, chiede e merita un piccolo sforzo anche da parte di chi lo affronta: ambisce a qualcosa di più di una lettura veloce e distratta, vuole incuriosire il lettore, fornirgli indizi e spingerlo a investigare in proprio. Se riuscirà a trasmettervi questo stimolo, la ricerca di questi pezzi costituirà un piacere aggiuntivo.

[2] Sul Destino del Sacrificio. Oggi è san Lorenzo. Leggendo una pagina di Agostino sul senso del Martirio come partecipazione all’Offerta di Cristo (“Lui ha dato la sua vita per noi, anche noi dobbiamo dare la nostra vita per gli altri”, 1 Gv 3,16), penso che spesso anche il Mostro ‘deve’ essere sacrificato per la salvezza dell’Uomo e del Mondo. Possiamo dunque, nel paradosso delle nostre riflessioni, immaginare un’ ‘Imitatio Monstri’: il Mostro è tale se porta la sua Diversità fino all’Offerta Espiatoria, e io devo ‘partecipare’ della Mostruosità, fino a far passare attraverso di me la necessità del suo destino sacrificale…

[3] (chiedo scusa per il lessico singhiozzante, al limite del dislessico, ma qui dentro non si vede un fico secco, e poi con tutti questi scossoni peristaltici, non è mica facile scrivere correttamente, con tutt’i puntini sugl’i).

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