Sul riordino

luglio 2025

di Paolo Repetto, 21 novembre 2025

Ma bene, andiamo avanti così.
Si comincia facendo il pesto con le noci e si finisce a letto con i consanguinei!
da “Accoglienza ligure”

Quelli che non studiano la storia sono condannati a ripeterla.
E quelli che la studiano sono condannati a vedere come la storia si ripeta
per colpa di coloro che non la studiano.
George Santayana

Ho trascorso l’intera mattinata a mettere ordine in magazzino. In questa stagione la mattinata è lunga, inizia alle 6:30, quindi avevo grandi aspettative. Il risultato però non è all’altezza. Quando a mezzogiorno esco, volgendo indietro un ultimo sguardo per vedere l’effetto, stento a capacitarmi di aver trafficato per sei ore lì dentro, visto che non ho sistemato alcunché e il grande sgombero ha prodotto solo uno striminzito sacchetto di rifiuti.

Il problema è che il magazzino non è un vero magazzino: lo chiamo così per distinguerlo dal garage, ma in realtà è un deposito per tutti gli utensili, metà dei quali fuori uso, un ricovero per mobili che si tarlano in attesa di restauro e per imballaggi e materiali di scarto che “potrebbero sempre tornare utili”, un laboratorio per riparazioni, verniciature, bricolage, fantasiosi assemblaggi. Le pareti sono occupate da scaffalature e da armadi di varia natura, che nelle intenzioni avrebbero dovuto consentire la reperibilità al primo colpo di ciò che vai a cercare, ma nella realtà si sono andati stipando col tempo in maniera tutt’altro che sistematica. Così oggi mi capita quasi sempre di sapere che un dato oggetto ce l’ho, ma non avere la minima idea di dove cercarlo. Purtroppo è quel che comincia a capitarmi anche coi libri, malgrado per questi un certo ordine di collocazione l’abbia mantenuto.

C’è anche un altro settore nel quale inizio a perdere colpi. È quello della manutenzione della memoria. A volte gli amici si meravigliano del fatto che ricordi nomi e situazioni lontani nel tempo, che mi sovvenga di cose che ho vissuto o che ho letto o che ho visto al cinema sessant’anni fa; e aggiungo che mi meraviglio anch’io, soprattutto quando si tratta di roba di poca o nessuna rilevanza (il nome di un autore, di un personaggio, di un attore, il titolo di un film). Questo nel momento stesso in cui ad esempio non rammento il titolo del libro che sto leggendo, o mi accorgo che le pagine lette non mi si stampano affatto in testa.

Sto divagando, ma mica poi troppo. Il tema voleva essere quello dell’ordine, sul quale peraltro ho già scritto, anche recentemente (vedi Essere …). Solo che vorrei trattarlo da un altro punto di vista.

L’ordine di un magazzino, di un’officina, di un laboratorio, così come quello di una biblioteca, o volendo anche di un cervello, dovrebbe essere finalizzato a semplificare l’attività cui in quel luogo o con quello strumento ci si dedica. Non sempre però lo scopo è quello. Spesso l’ordine è fine a stesso, oppure ha una funzione di rappresentanza. In genere comunque è specchio della personalità dell’ordinante. Ne Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta Robert Pirsig identifica due tipologie di officina meccanica, quella “classica” e quella “romantica”.

Nella prima tutti gli strumenti sono ordinatamente disposti in sedi apposite, nella seconda sono buttati a casaccio sul carrello o sul piano di lavoro. Ma non per questo, secondo Pirsig, chi li usa ha maggiore difficoltà a rintracciarli: semplicemente ricorda a memoria dove avrebbe potuto riporli, e li trova subito. A queste due tipologie di meccanici corrispondono anche due diverse tipologie di motociclisti: quelli che apprezzano il vento in faccia e il senso di libertà che la motocicletta ti dona, e non si preoccupano e non hanno conoscenza degli aspetti tecnici; e quelli che invece auscultano le pulsazioni del motore, e godono della sua efficienza, per cui ad esempio hanno cura di regolare la mandata dell’aria quando devono affrontare dislivelli altimetrici importanti. Tutto questo, anche se sembrerebbe entrarci per nulla, è al contrario significativo di atteggiamenti diversi nei confronti della vita: il primo meno responsabile, più “anarchico”, e tutto sommato più egoistico, il secondo più apprensivo e responsabile. Poi c’è il mio, diviso tra la voglia di riordinare il mondo intero e una rassegnata pulsione a lasciare che il mondo si ordini da solo. Per cui passo la vita a riassestare la mia mente, per cercare di conciliare le due spinte opposte e capire quale è innata e quale acquisita.

Qui volevo arrivare. Nel pezzo postato mesi fa sul mettere ordine e sul mio atteggiamento quasi maniacale in proposito, non avevo indagato da dove questo atteggiamento discenda: o forse ho dato l’impressione di considerarla tutta una questione di carattere innato. Beh, non è proprio così. Certamente nella disposizione o meno all’ordine c’è una componente biologica, ma credo che a determinarla siano anche le condizioni ambientali in cui uno cresce. Il che è abbastanza ovvio, c’entrano sia la genetica che l’epigenetica: ma in genere il peso di questi fattori viene equivocato, e chiamato in causa a seconda dei casi per giustificare un comportamento o per stigmatizzarlo. Credo che la questione sia un po’ più complessa.

Intanto so bene che noi umani costituiamo un’anomalia nell’ordine “naturale” delle cose, e che siamo un’anomalia a termine: se credessi in un disegno superiore direi che siamo un esperimento della natura destinato a finir male. Ma so anche che ci siamo, e che per il momento l’esperimento sembra aver avuto successo, vista la velocità con la quale ci moltiplichiamo e abbiamo colonizzato ogni parte della terra. Un successo senza dubbio “quantitativo”, mentre sulla qualità si può ovviamente discutere. Penso dunque che dei due aspetti occorra prendere atto in maniera diversa, convivere con l’esperimento senza darci troppa cura del progetto. Cosa che oggi, a dispetto di quanto può sembrare, non facciamo affatto (ma su questo tornerò dopo).

Veniamo invece all’origine dei diversi atteggiamenti.

In casa mia ho vissuto, per tutto il periodo dell’infanzia e della prima adolescenza, una povertà dignitosa, ma sempre sul filo del rasoio: voglio dire che ogni minima sbandata poteva significare cadere nella miseria. (e qui sarebbe da riflettere su quanto sia cambiato in settant’anni il concetto di povertà, quando ci viene raccontato quotidianamente che sei milioni di italiani, la metà dei quali bambini, vivono sotto la soglia di povertà, ma il novanta per cento, bambini compresi, dispone di un cellulare molto più recente e performante del mio). Questa condizione tuttavia non mi pesava più di tanto. Ne sono diventato consapevole solo a posteriori, quando ho potuto accedere a uno stile di vita meno precario. Allora costituiva la normalità, e quando la rievoco non me ne compiango affatto, ne ho addirittura nostalgia.

Comunque. In quello scenario la possibilità del disordine non era nemmeno concepita: si tirava avanti con lo stretto necessario, non potevamo permetterci di perdere, di trascurare, di sciupare qualcosa. Nessun alimento aveva il tempo di scadere, ogni capo d’abbigliamento aveva una doppia o tripla vita, e anziché nel raccoglitore della Caritas finiva in pezze da rammendo o in stracci per la pulizia. Il raccoglitore d’altra parte non esisteva, e la Caritas credo nemmeno. L’attenzione non c’era alcun bisogno di inculcarmela: avevo davanti agli occhi i comportamenti dei miei genitori, e mi sembrava perfettamente naturale viverla. Anche quando mi confrontavo con situazioni diverse (quasi mai all’interno della nostra piccola comunità: piuttosto coi villeggianti estivi prima, poi con i compagni delle scuole secondarie: con quelli insomma che potevano permettersi di comprare i fumetti e i libri, di mangiare un gelato o bere una gazzosa) me ne facevo una ragione: tirando dritto avremmo forse potuto un giorno permettercelo anche noi.

In effetti col tempo anche la situazione nostra è cambiata, siamo usciti dall’economia di sopravvivenza: ma il mio atteggiamento nei confronti delle cose, e del mondo, è rimasto. Non ho certo atteso le mode mainstream e i guru televisivi dell’ecologia per praticare il riciclo. Ma soprattutto, non ho mai accettato l’idea che il mondo possa essere cambiato col disordine. Anzi, con gli anni e con l’approdo ad una razionalità più matura il legame tra vita ordinata e vita dignitosa nella mia mente si è rafforzato. Questo non significa che abbia poi sempre vissuto un’esistenza tranquilla e ordinata, per alcuni versi è stata disordinatissima: ma il concetto e l’aspirazione di fondo sono rimasti sempre quelli.

Mi chiedo allora: se fossi cresciuto in un’altra famiglia, in un ambiente diverso, sarei stato altrettanto fermo nei miei convincimenti, avrei scoperto comunque il mio imperativo categorico? Malgrado quanto ho detto sinora, tendo a credere di sì: sono in fondo un determinista, quasi un lombrosiano. E mi spiego soprattutto in termini di determinazione genetica la mia intolleranza o quanto meno il mio atteggiamento negativo nei confronti dello spontaneismo e del movimentismo, quando con questi termini si intendano azioni distruttive fini a se stesse, non mirate alla creazione di un ordine nuovo. O quando questo fine diventa solo un pretesto per scaricare frustrazioni, risentimenti, invidie, per cambiare non l’assetto di una società, ma la propria posizione all’interno di quell’assetto.

E tuttavia, ripeto, non sono così sicuro. Porto un esempio. Durante la prima occupazione dell’Università di Genova (nel dicembre ‘67) mi scontrai piuttosto bruscamente con alcuni “compagni” che, da brave “guardie rosse” nostrane, stavano devastando la biblioteca dell’istituto di storia moderna (a loro parere sentina della famigerata “cultura borghese”). Alla fine li costrinsi a rimettere ordinatamente i libri sugli scaffali dai quali erano stati strappati (ero molto “determinato”, anche in questo senso. E, per inciso: fu lì che capii che la mia lotta non era la loro, e che se dai “nemici” dovevo guardarmi io, dovevo farlo poi tanto più nei confronti di quelli che teoricamente avrebbero dovuto essermi amici). Ora, questa può sembrare una situazione estrema, significativa in fondo solo di una particolare contingenza e della mia ipersensibilità di bibliomane: in realtà ha continuato a ripetersi, complice anche una classe intellettuale che i libri li scrive e non ha ritegno a promuoverli in televisione o nei festival come un tempo solo i mobili di Aiazzone, ma “decostruisce” la tradizione culturale da cui discendono e asseconda ruffianamente la bovina ignoranza del proprio pubblico. Continuo a ripetermi, ma ritengo che l’atteggiamento degli odierni “maîtres à penser”, per fortuna effimeri, nei confronti della cultura “borghese” occidentale non sia mai sufficientemente smascherato.

Ebbene, ricordo chiaramente di aver pensato in quell’occasione: “Se li vedesse mia madre – che non avendo mai potuto permettersi di acquistarne uno, ma amando sinceramente la lettura, considerava i libri oggetti sacri – tirerebbe loro il collo come alle galline”. Ho agito io, ma dietro di me c’era un preciso ambiente che si indignava.

Il mio è dunque un atteggiamento complesso, quasi contradditorio. Perché può sembrare che per come lo concepisco io l’ordine comporti in fondo una rinuncia alla libertà. Ma non è affatto così. L’idea di fondo è invece che il massimo possibile di ordine sia la migliore garanzia per il massimo possibile di libertà. La mia libertà di spostarmi da un luogo ad un altro non può essere confusa con la libertà incondizionata di muovermi alla velocità e nella direzione e lungo la traiettoria che più mi aggrada. Questo può valere all’interno di uno spazio disabitato, non certo in un mondo sovraffollato e comunque condiviso con milioni o miliardi di altre persone. Ordine in questo caso significa un minimo comune accordo di reciprocità per cui la mia velocità e la mia traiettoria non interferiscono, non intralciano, non configgono con quelle di altri. È una limitazione, non una privazione di libertà.

Quel che mi si obietta a questo punto è che una società perfettamente ordinata è una società utopica, e come tale immobile, posta fuori dal tempo. Infatti: nessuno ha però parlato di società perfettamente in ordine, primo perché non esiste, non è mai esistita e non esisterà mai, poi perché ogni progresso, ogni cambiamento, non sono una rivolta contro l’ordine, ma evidentemente contro qualcosa che non funziona, quindi che crea disordine. Ogni avanzamento è un ripristino dell’ordine ad un livello più alto.

Ecco: io penso che oggi più che mai dovremmo avere chiaro in mente questo concetto. E invece dalla sinistra, dove mi ostino a collocarmi, ultimamente sentendomi sempre più disagio, l’ordine è visto come un attacco reazionario alle libertà: per cui, ad esempio, le forze dell’ordine, quando cercano di impedire il saccheggio dei supermercati o la distruzione dei beni pubblici come la segnaletica e i contenitori di rifiuti, diventano automaticamente forze del male. E il malinteso è avvallato quando non si prendono le distanze dalle bande di sciagurati che scandendo bovinamente slogan e ammantati di bandiere sempre diverse cercano di mettere il mondo a soqquadro.

Tutta questa tirata non voleva essere altro che una premessa per arrivare a parlare dell’oggi, per enunciare i miei prolegomeni ad ogni futuro scambio di vedute. Spero che un’operazione onesta di pulizia concettuale possa rimuovere qualcuno degli ingombri che rendono faticoso il cammino verso un minimo di “verità” condivisa.

Nelle quotidiane discussioni con gli amici mi trovo sempre a recitare la parte di chi pretende una conoscenza e un’interpretazione “ordinata” della materia di cui si dibatte, e non sopporta le argomentazioni passionali, fondate sulla simpatia e sull’emotività. Questo vale particolarmente per la storia: pur nella consapevolezza che non potremo mai conoscere tutti i fatti, e che quelli che conosciamo ci giungono filtrati da sguardi immancabilmente partigiani, sono convinto si possa arrivare, sia pure con molta approssimazione, a delineare un qualche ordine. Nella mia interpretazione l’ordine non sottende una finalità superiore, uno scopo ultimo: è solo un’ordinata sequenza. Che di per sé parrà non dire molto, ma è a mio parere la condizione necessaria per affrontare qualsiasi argomento. Partendo da ciò che è più attendibilmente documentabile si può infatti procedere a individuare e dipanare il filo. Non dico che si possa pervenire ad una “verità storica”, ma con un po’ di buona volontà, attraverso il confronto e la verifica di tutte le fonti possibili, si può comunque accedere ad un denominatore di lettura comune. E in questo processo non devono avere spazio la passionalità e la simpatia.

È chiaro che quando della storia di cui si è diretti testimoni, o addirittura attori non protagonisti, e di cui si discute (oggi ad esempio della questione ucraina o di quella palestinese) abbiamo una informazione immediata, e soprattutto una rappresentazione anche visiva, l’impatto emotivo è forte, e riesce difficile non assumere atteggiamenti pregiudiziali. Ma anche in questi casi, se ci si sforza un poco si è in grado di capire da dove arrivano le informazioni, e come sono gestite e manipolate, e perché.

Per spiegarmi meglio vado a ripescare nel passato due casi che permettono di esemplificare sia il modo in cui è prodotta, intenzionalmente o a volte magari per semplice omissione, la disinformazione storica, sia il perché mi sembri così importante “fare ordine” nella ricostruzione storica, a partire da quelli che possono sembrare “dettagli” puramente quantitativi.

Il primo riguarda la vicenda della resistenza opposta dai militari italiani all’ordine di resa impartito loro dai tedeschi, sull’isola di Cefalonia, dopo l’armistizio dell’8 settembre. Fino a un paio di decenni fa il numero degli uccisi in combattimento o fucilati dopo la resa era quantificato, sulla base delle frettolose e svogliate inchieste avviate nell’immediato dopoguerra dalla magistratura militare, in circa diecimila, comprensivi di oltre un migliaio di prigionieri annegati per l’affondamento (da parte degli alleati) delle navi che li stavano trasbordando verso l’Italia.

Solo agli inizi del nuovo millennio, a seguito di polemiche che si trascinavano da mezzo secolo, le inchieste sono state riaperte e diversi storici, sia italiani che tedeschi, hanno ricostruito attraverso una documentazione più solida e più ampia tanto i fatti quanto le motivazioni che li determinarono, ridimensionando tra l’altro il numero dei caduti e dei fucilati. Attualmente, a detta di uno studioso serio come Gianni Oliva, “le cifre su Cefalonia sono verosimilmente comprese fra un minimo di 3 500 e un massimo di 5 000”.

Quel che suona incredibile è che per arrivare a queste conclusioni, tutt’altro che precise e definitive, siano occorsi ottant’anni. E più incredibile ancora è che di fronte all’ammissione degli storici che per primi avevano affrontato l’argomento (è il caso di Giorgio Rochat) di essersi fidati di testimonianze poco attendibili, ci sia chi contesta gli ultimi dati in nome di una “sacralità” del sacrificio resistenziale dei nostri militari. Come se rivedere al ribasso le dimensioni dell’eccidio ne sminuisse la tragicità.

Una vicenda molto simile riguarda la narrazione della repressione del brigantaggio nell’Italia postunitaria, e nella fattispecie quella delle “stragi” di Pontelandolfo e Casalduni. Per un secolo e mezzo si è fantasticato di una carneficina con centinaia di vittime, compiuta dall’esercito piemontese per vendicare l’agguato in cui erano stati uccisi quarantacinque bersaglieri. Questa versione era stata fatta propria ad un certo punto da Gramsci e dalla storiografia marxista, nel quadro di uno schema interpretativo decisamente antirisorgimentale (Gramsci scriveva nel 1920: “Fino all’avvento della Sinistra al potere, lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di briganti”).

Qui la comprensione della storia c’entrava poco: si trattava di creare una coscienza di classe fondata sulla divisione netta in buoni e cattivi, in oppressi e oppressori. E bene o male, sia pure immersa nell’oblio rapido che caratterizza tutta la nostra storia più recente, è rimasta quella la versione corrente della vicenda.

La cito perché ultimamente è stata ripescata e amplificata da un gruppo di intellettuali meridionali (i sedicenti neoborbonici, che predicano nostalgie pre-unitarie) che hanno fatto a gara nello sparare cifre esorbitanti (tra i seicento e i novecento trucidati) oltre che nel dare versioni romanzate dei fatti.

Fortunatamente altri storici, anch’essi meridionali, hanno opposto a questo delirio un lavoro di ricerca minuzioso e obiettivo, col risultato che i morti verificati a Pontelandolfo risultano essere tredici, e a Casalduni nessuno (non lo dico io, lo ha confermato il sindaco del paese vittima della repressione, in occasione del centocinquantesimo anniversario dei fatti)

Ora, la questione qui non è quella del ridimensionamento dei numeri: sotto un profilo morale, importa poco che i trucidati fossero diecimila o tremila, seicento o tredici. Fossero stati anche solo trenta a Cefalonia e cinque a Pontelandolfo l’orrore di quanto accaduto non sarebbe minimamente sminuito. Ad essere sminuita invece è la credibilità dei narratori, per cui riesce difficile poi dare credito a qualsiasi altro aspetto della loro versione, e soprattutto alla loro buona fede. Un confronto su questi temi diventa impossibile, fino a quando non si sono accertati con una certa verosimiglianza i dati di fondo, quelli materiali: numero dei morti, effetto delle distruzioni, proporzione delle forze in campo, ecc … Perché questi non sono dati freddi, ma cifre che anche attraverso le loro entità suggeriscono poi le cause, le motivazioni; e soprattutto perché tradiscono abbastanza l’apertamente l’uso che se ne vuol fare.

L’ordine che io esigo si chiama in questo caso chiarezza delle posizioni e correttezza e concretezza delle argomentazioni. Devo sapere che sto parlando con persone che cercano di fare il mio stesso percorso, che vogliono conoscere, e non essere confermate in ciò che già credono di sapere, che non hanno già scelto pregiudizialmente le fonti su cui fare affidamento, ma cercano di orientarsi tra tutte quelle che si ritrovano a disposizione. Esigo interlocutori che non dicano le mie stesse cose, ma parlino la mia stessa lingua. Come posso prendere sul serio, ad esempio, gente che non ha il minimo dubbio sui numeri delle vittime della guerra di Gaza, forniti tutti solo dalla fonte palestinese, mentre quel dubbio lo ha coltivato e continua a coltivarlo sulla possibilità che siano state le stesse autorità statunitensi ad orchestrare l’attacco alle torri gemelle, o quelle israeliane a guidare il raid sanguinario del 7 ottobre? Quando basterebbe ad esempio prendersi la briga di conoscerli, quei numeri, per accorgersi che le due uniche versioni esistenti, quella del Ministero della Salute e quella dell’Ufficio governativo per i media, presentano discrepanze enormi ma cifre finali sorprendentemente uguali (Per chi non abbia il tempo di andarsele a cercare: al giugno 2025 i morti maschi erano per il Ministero della Salute 24.618, le donne 9.790 e i bambini 15.613; per Ufficio per i media ( in pratica, il Ministero per la propaganda) sono invece rispettivamente 19.702, 12.365 e 19.954. Un quarto di maschi in meno, un quarto delle donne e 2.341 bambini in più. Per arrivare nel totale ad una cifra identica: 50.021).

Non è una questione di pignoleria maliziosa. Cosa mi cambiano quei numeri in termini di orrore, di sdegno, delle responsabilità di Netanyahu per la strage, e del popolo che lo ha eletto, e dell’esercito che se ne fa strumento? Niente, naturalmente: stiamo parlando di esseri umani, di decine di migliaia di vite stroncate, e comunque non c’è un limite al di sotto del quale la colpa sia veniale. Ma in termini di credibilità mi cambia, eccome. Comincio col pensare che le cifre siano state manipolate per puntare sull’effetto “innocenza”, sulla sensibilità particolare alla violenza praticata sui più deboli. E posso anche capire il motivo: la propaganda, soprattutto oggi, con le potenzialità offerte da una rete informativa che copre in tempo reale tutto il mondo, vale come arma di guerra quanto i missili e i carri armati.

Ma a questo punto è logico che qualche dubbio possa averlo anche sulla veridicità oggettiva dei numeri, buttati sul piatto per alzare la posta finale, e quindi su una qualche volontà di arrivare ad una soluzione che non contempli il vendicare quei morti facendo sparire completamente Israele. (Questi ultimi dubbi non dovrei nemmeno coltivarli, perché le intenzioni sono state chiaramente espresse in qualsiasi documento delle organizzazioni politiche palestinesi già da ben prima della nascita di Israele stessa).

Sono perplesso riguardo la possibilità di un confronto serio quando vedo che lo sdegno che dovremmo condividere ed esprimere per ogni massacro sembra risvegliarsi solo di fronte ad unica situazione. Non ricordo manifestazioni di piazza contro il massacro dei tibetani da parte dei cinesi (un milione di morti): quelli più informati lo hanno giustificato con la necessità di abbattere un regime sermi-feudale. O contro la pulizia etnica che si sta effettuando in Sudan, che dura da oltre mezzo secolo e che ha provocato oltre mezzo milione di vittime e cinque milioni di profughi; o contro quello che è accaduto in Cecenia, che ancora accade in Nigeria, in Birmania, in Medio oriente, lo sterminio degli Yazidi e dei Curdi, e potrei continuare per un’ora. Non si tratta di uscirne con la scappatoia del famigerato “benaltrismo”, ma al contrario di mantenere nei confronti dell’umanità intera lo stesso calore, di esprimere la stessa solidarietà. Invece la giustificazione dietro la quale si trincera questa freddezza è che certe vicende ci toccano meno, che rimaniamo indifferenti perché si tratta di situazioni lontane. E sarebbe già grave così, ma la verità è che i motivi sono molto più meschini.

Possiamo riscontrarlo anche nella vicenda ucraina. Ogni volta che si cerca di partire dall’unico dato di fatto inoppugnabile, e cioè che esistono un aggressore e un aggredito, scatta il meccanismo pavloviano delle obiezioni: le provocazioni della Nato, il presunto nazismo degli ucraini, la corruzione dilagante nel paese, ecc. Un meccanismo che applicato alla seconda guerra mondiale vedrebbe nei polacchi, rei di avere rioccupato nel precedente dopoguerra le terre che erano state loro sottratte un secolo prima con due successive spartizioni, i veri responsabili dello scoppio del conflitto e dell’aggressione nazista. Che l’Ucraina sia un paese corrotto (ma ne esiste uno che non lo sia?), che abbia fornito quattro divisioni alle SS durante l’ultimo conflitto (ma forse in questo c’entrano un po’ l’Holodomor, il grande terrore del ‘37/’38 e il genocidio dei Tartari di Crimea del ‘44), tutto questo lo so anch’io: ma mi trovo a discutere con gente che i precedenti non li conosce o non vuole prenderli in considerazione, e accusa l’Occidente di fare propaganda attraverso la falsificazione della storia, mentre dà credito all’offensiva di disinformazione intrapresa dalla Russia putiniana, senz’altro più subdola, più agguerrita e senza dubbio meno contrastata e denunciata dall’interno.

Ora, quando esponi le tue perplessità, i tuoi dubbi, le tue contrarietà, ti viene immediatamente ribattuto che dall’altra parte, diciamo da una generica “destra”, che ormai non ha più una connotazione politica e men che mai ideologica, ma comprende un’ampia maggioranza trasversale ai partiti, ai credi e alle classi, la manipolazione della storia e l’uso propagandistico della sua falsificazione sono da sempre lo strumento principe per la conquista o la conservazione del potere. E fin qui ci arrivo anch’io. Ma questo implica che ci si debba adeguare, prendendo per vero tutto ciò che arriva dalla nostra (quale?) parte e dubitando a prescindere di tutto ciò che arriva dagli “altri”? Al contrario: il fatto è che non dobbiamo competere coi nostri antagonisti su un terreno che loro hanno scelto, dove peraltro non toccheremmo palla, ma soprattutto l’adeguarsi a certe modalità rappresenterebbe una sconfitta in partenza. La vera vittoria sta semmai nel non porsi sullo stesso piano, nel tenere un atteggiamento che ci distingua. Che non significa “fare gli strani” o percepirsi élite, ma esigere da noi stessi innanzitutto, e poi dagli altri, una conoscenza conseguita col sudore dei nostri neuroni e un’onestà intellettuale che vale ben più dell’oro, anche se oggi è molto meno quotata.

Questi atteggiamenti li ritrovo però in merito a un sacco di altri temi, da quello del cambiamento climatico a quello dei vaccini, sino a quelli solo apparentemente meno urgenti dell’analfabetismo globale di ritorno o della interpretazione distorta dei diritti: ed è difficile di fronte a certi arroccamenti fondamentalisti evitare la resa, o non cadere a propria volta nella partigianeria. Ciò che mi riporta alla sensazione che avevo espresso all’inizio di questo scritto.

Insomma. Non presumo di avere in mano argomenti validi per suffragare ogni mia convinzione (perché immagino sia chiaro che le mie posizioni le ho – e anche i miei pregiudizi: ma almeno li riconosco e li dichiaro subito, e in questo modo li ripongo in un cassetto); vorrei solo poterne discutere con lucidità, con la massima obiettività possibile e senza condizionamenti emotivi: e magari rivederle, o addirittura, se mi si convince del contrario, prenderne le distanze. Non mi capita spesso, purtroppo. E il rischio è di arrivare a chiedersi se davvero ne vale ancora la pena, se le quattro ore che ho impiegato a scrivere questo pezzo o i dieci minuti che occorrono per leggerlo non siano buttati. Ma per rispondermi subito dopo che è la mia natura “ordinatrice” a impormelo, e che persino mia madre, per una volta, sarebbe d’accordo.

Allora ho deciso. Visto che il mio laboratorio mentale è ancora sottosopra, tornerò a riordinarlo. Nel frattempo però non ci voglio intrusi poco rispettosi. Per entrare, da domani, si bussa, si lasciano fuori le calzature pregiudiziali e si usano le pattine.

La retorica e la “Gramatica”

ritorno nei bagni pubblici di Tokyo

di Paolo Repetto, 26 gennaio 2024

Bah! l’ultima delle cose che intendevo fare era tornare sul film di Wenders. Mi sembra di aver già detto tutto quello che avevo da dire. Un amico mi ha però segnalato una recensione molto negativa di Lorenzo Gramatica (Contro la retorica delle piccole cose, pubblicato su Lucysullacultura.com), specificando che lo condivide: opinione più che legittima, ma che mi fa sentire un po’ tirato per la giacchetta. E allora è forse il caso di qualche chiarimento, perché a me invece la recensione non è piaciuta affatto.

Non m’è piaciuto innanzitutto il tono, o se vogliamo l’intenzione che sta sotto l’articolo.

Gramatica trova irritante, lezioso, falso il film. Ha tutto il diritto di farlo. Ha pagato un biglietto per vederlo, non è rimasto soddisfatto e lo dice apertamente. Ma poi fa di più: smonta il film pezzo per pezzo, e ci offre una lezione su cosa è o dovrebbe essere il cinema e su cosa è o dovrebbe essere la vita. E qui diciamo, tanto per adeguarci subito all’argomento, che la fa un po’ fuori dal vaso. Sembra essersi auto-investito di una missione salvifica, quella di svegliare le anime belle e grulle che si son bevute la favoletta “della vita semplice, dei piccoli gesti, della gioia che c’è nell’accontentarsi”. Ora, io ho visto lo stesso film, e sinceramente riesco solo a immaginare spettatori che per due ore o sono stati presi o si sono addormentati: non credo che avremo una marea di aspiranti ai prossimi concorsi per operatori ecologici municipali (attualmente mi risulta vadano deserti). Sono entrati in sala come me, per assistere a una proiezione, a uno spettacolo, mica sono andati in un ashram o in una sala di meditazione per farsi intortare da un discepolo di Osho. Nessuno degli amici che hanno visto Perfect Days e coi quali l’ho commentato ha manifestato l’intenzione di darsi alla pastorizia o di ritirarsi in un eremo. Ma questo riguarda l’idea generale del ruolo del cinema, sulla quale torneremo.

La retorica e la Gramatica 02 - Perfect Days

Rimaniamo per ora sullo specifico di Perfect Days. Gramatica scrive che il film è, “superficialmente, un elogio della vita semplice, dei piccoli gesti, ecc …”. Ora, l’avverbio messo così, tra due virgole, può voler dire due cose: che il regista tratta l’argomento solo in maniera superficiale, o che sotto la superficie vuol dire altro. Il recensore secondo me lo usa in entrambe le accezioni. Rispetto alla prima mi chiedo dunque: cosa avrebbe dovuto fare Wenders per non rimanere in superficie? Un’inchiesta sui pulitori di cessi di tutto il mondo (tranne naturalmente dell’Italia, perché qui i cessi pubblici non ci sono, e se ci sono non li lava nessuno)? Gramatica ci ha appena comunicato che la commissione era per uno spot pubblicitario, perché “di questi bagni pubblici Tokyo è molto fiera” e “Ci si tiene molto, insomma, a questi bagni” (l’avevamo capito da soli, e aggiungo di mio che anch’io ci tengo molto a trovare bagni così – vedansi i miei criteri di giudizio sulla civiltà di un popolo). Wenders ne ha fatto un film, che sarà pure una furbata per far arrivare il messaggio a miliardi di utenti e in forma più accattivante, ma la ragione sociale del committente è stampata ben visibile per tutta la durata della storia sulla tuta da lavoro del protagonista, per cui non lo si può certo accusare di pubblicità occulta. Da buon maestro del sospetto però Gramatica insiste: “è strano non vedere praticamente mai macchie di piscio in un film dove il protagonista di mestiere è addetto alle pulizie”. In realtà è meno strano di quanto a lui appaia, perché siamo a Tokyo, dove probabilmente ti educano anche a centrare il buco, e dove magari c’è sempre qualcuno che rimedia ai lanci fuori bersaglio, Quindi, via il sorrisetto ironico: sono contento che qualcuno ci tenga a farmi trovare servizi puliti. A Roma non ci tengono, e non auguro a nessuno di averne bisogno (a proposito, non oso nemmeno immaginare lo scandalo di Gramatica davanti alle strade romane senza rifiuti mostrate ne La grande bellezza). Wenders ha fatto dello spot una cosa godibile (almeno per me, ma a quanto pare non sono il solo): pretendevamo ne tirasse fuori un Viaggio al termine della notte?

La retorica e la Gramatica 03 - Perfect DaysE qui subentra la seconda accezione. Cosa non ci ha fatto vedere Wenders gabellandoci la superficie di una vita dolcigna? Eleggendo a protagonista della storia un tipo che “conduce una vita esangue? […] Che non ha moglie, non ha figli, non ha animali da compagnia, non ha affetti stabili? La cui vita “è scandita da azioni che si ripetono identiche o quasi ogni giorno, che sorride benevolo e grato quando la giornata è bella, quando un bambino lo saluta, ecc… Che sorride, sorride e sorride ancora guardando le cose che accadono, e in definitiva della vita è osservatore defilato, perché le cose non accadono a lui, accadono agli altri?”.

Per Gramatica questa è pura malafede: cosa ci viene a raccontare Wenders? “La disciplina! La bellezza delle piccole cose! La felicità che si ottiene attraverso la reiterazione dei gesti e la ricerca del piacere nella quotidianità! I giorni perfetti!” Insomma, “tutto lo stucchevole repertorio di luoghi comuni a cui si ricorre in questi casi?” Ma non sia mai! “La vita non è poetica: è difficile, dura, imprevedibile, dolorosa, buffa, ridicola, insensata, crudele. Non è ordine, è caos; il silenzio è spesso sovrastato da un rumore assordante e dal rovello incessante dei pensieri, a volte angoscianti e ossessivi, altre stupidi o turpi, che facciamo ogni giorno.” Alla faccia del bicarbonato di sodio, avrebbe detto Totò, e si sarebbe toccato. Io che non sono superstizioso non mi tocco, ma mi chiedo cosa non abbia funzionato nella vita di Gramatica. Il quale dice ancora: “Ma chi vorrebbe invecchiare come Hirayama? Come si può invidiare chi trova consolazione e salvezza negli oggetti, chi cerca la bellezza in una foto e non nei rapporti umani sfaccettati e imperfetti […]. Quello dei rapporti umani che non riesce a costruire, per timidezza e incapacità, è uno dei drammi di questo protagonista, anche se il dramma non ci viene presentato come tale. – Hirayama è un uomo solo […] che non sembra avere desideri di alcun tipo. Ha, in alcuni momenti, dei crolli emotivi che dovrebbero suggerire anche al commentatore più distratto e ottimista, che dietro al fondale di sorrisi e sguardi benevoli, si nascondono i calcinacci di una vita irrisolta.” Eh, la Madonna! Vedi un po’ cosa può nascondersi sotto la superficie ipocrita di un’esistenza sdolcinata. Intanto “una metodica, cinica e insincera ricerca dell’approvazione e della commozione dello spettatore”. Per ottenere la quale si ricorre anche “ai mezzucci narrativi. Ad esempio: un ragazzo con disabilità cognitive e un malato di cancro all’ultimo stadio sono due personaggi che compaiono nel film quasi solo per manifestare la loro condizione patologica, funzionale alle prese di coscienza del protagonista”.

Che con me a quanto pare non ha funzionato, perché non mi sono commosso, mi sono divertito. E perché, da paziente oncologico, non penso che per essere onesto un film debba per forza ricavare uno spazio non “funzionale” per disabili o malati terminali, e naturalmente nemmeno per le presenze femminili, o quelle fluide, o quanto altro richiesto dal “politicamente corretto”.

La retorica e la Gramatica 04 - PatersonMa non finisce qui. Perché ora viene fuori la proposta esistenziale alternativa del recensore, quella che avevamo già cominciato ad intravvedere. “Sospetto che la simpatia e la benevolenza che sono state accordate al film, risieda anche in questa mancanza di ambizioni del protagonista, scambiata forse per umiltà.” Perlomeno in un film paragonabile a questo, Paterson di Jim Jarmusch, il protagonista “è un autista di autobus e poeta dilettante, che scopre però di voler ambire alla pubblicazione. In lui si annida un desiderio, sopito, da risvegliare. E oltretutto non è solo: ha una moglie, un cane, degli affetti”.

Ecco dove si voleva arrivare. “Quest’uomo ha scelto davvero di pulire i bagni?” E figuriamoci! “A me Hirayama pare un po’ triste, con un lavoro poco gratificante a cui si dedica con ossessività alienante.” E, diciamolo, neanche solo triste: uno che “passa il sapone, togli la macchia, ma poi quale macchia? In questi bagni di design dove è tutto candido, immacolato, splendente prima ancora che il protagonista si metta al lavoro!” è evidentemente anche un povero sempliciotto. Come noi spettatori, d’altronde, irretiti dalla “retorica un po’ semplicistica delle grandi dimissioni”. Per cui: “C’è qualcosa di vagamente consolatorio nel pensiero che qualcuno non voglia migliorare la propria condizione, scelga di non competere in amore e nel lavoro, a differenza di noi spettatori, che possiamo bearci dell’infelicità di Hirayama perché rifiutiamo di considerarla tale”.

Immagino invece la felicità di Paterson, che scopre di ambire alla pubblicazione, che ha una moglie, desideri sopiti da risvegliare e soprattutto un cane, da portare a spasso nelle mattinate invernali, con il cappottino. Mi corre un brivido lungo la schiena.

La retorica e la Gramatica 05 - Paterson

Qui ci starebbe ora una puntuale confutazione della lettura che Gramatica dà del film e dell’esistenza. Ma l’ho già tirata sin troppo in lungo, e quindi cerco di dare un taglio virandola sull’autobiografico. Anche perché, ripeto, da quella lettura mi sento tirato direttamente in causa.

La retorica e la Gramatica 06 - Perfect DaysIntanto, sul lavoro poco gratificante. Non mi sono mai dedicato alle latrine pubbliche, pur attribuendo loro un grande significato, ma ho dovuto forzatamente occuparmi in più occasioni di ripristinare fognature, e non solo le mie. Il terreno dietro casa ogni tanto va a farsi un giro, e ha la cattiva abitudine di portare con sé le tubazioni. Non c’è verso a trattenerlo. L’ho fatto quindi non per scelta, ma per necessità, vincendo le prime volte lo schifo e abituandomi poi all’idea che si tratti di un lavoro come un altro. Non mi sono divertito come a tirare con l’arco o a giocare a calcio, ma una volta portato a termine il lavoro mi sono sentito gratificato: era una cosa che andava fatta, e possibilmente bene. Anche sapendo, dopo un paio di volte, che poteva diventare routine. Sono il prigioniero di una concezione vetero-borghese del lavoro, un alienato che non si accorge di aggirarsi tra i calcinacci della vecchia facciata?

Poi, sull’ambire alla pubblicazione. Ho avuto la ventura di veder pubblicate le cose che scrivevo attorno ai venticinque anni, tra l’altro presso una casa editrice piuttosto seria. A trenta ho deciso che non era la mia strada: mi impegnava troppo, su un fronte unico, e mi impediva di correre dietro ai miei molteplici e confusi interessi. Da allora continuo a scrivere per me e per pochi amici, giusto quelli che mi stanno leggendo. Mi dà molta soddisfazione, non mi sento affatto irrisolto o frustrato. Anzi, mi reputo fortunato, o meglio ancora, sono sicuro di esserlo, perché ho potuto scegliere, e perché a conti fatti ho scelto bene. Per cinquant’anni mi sono occupato solo di quello che davvero mi interessava, nei tempi e nei modi che ho ritenuto più opportuni, e ho interagito solo con interlocutori dei quali avevo stima. Sono un’anima bella, infarcita di luoghi comuni, sorda al grido di dolore che arriva dalla vita vera?

La vita vera, appunto. Che la vita non sia tutta poesia lo so anch’io. Lo sa chiunque non sia un perfetto idiota. Di lì però a pensare che sia solo dura, imprevedibile, dolorosa, buffa, ridicola, insensata, crudele, e che i nostri pensieri quando non sono angoscianti e ossessivi siano stupidi o turpi, ce ne passa. Posso capire che alcuni, molti addirittura, abbiano seri motivi per non sentirsi particolarmente felici (e Gramatica evidentemente, da quel che scrive, è tra costoro. Altro che Hirayama): ma ritengo anche che molti l’infelicità se la creino e se l’alimentino, mossi da un risentimento sordo che poi, spesso, si manifesta anche in un malinteso “impegno”, contro tutto e contro tutti. Sono coloro che si sentono in costante credito nei confronti della vita. Questo risentimento nasce proprio dal pensare che la vita debba essere competizione sempre, affermazione di sé in ogni ambito, nell’amore come nel lavoro: e allora non è sopportabile vedere qualcuno che quell’ambizione proprio non ce l’ha, che si impegna piuttosto a dare senso a quel che gli passa il convento, a farselo piacere.

Personalmente non mi sono mai sentito in competizione né in amore né sul lavoro. Ho amato e ho lavorato cercando di trarre tutto il piacere e il divertimento possibili dall’una e dall’altra cosa, e non per vincere una qualche gara. Non ho alcuna necessità di cercare consolazioni. E non mi passa nemmeno per l’anticamera del cuore o del cervello di bearmi dell’infelicità di Hirayama, perché davvero non la considero tale. Di più: amo la pulizia e l’ordine, segnatamente in bagno, in qualche caso aziono due volte lo sciacquone. Non ho tutta questa nostalgia delle macchie di piscio che sembra provare Gramatica. Sono un ipocrita, falsamente umile (oltre che ecologicamente scorretto)?

La retorica e la Gramatica 07 - Perfect Days

Ancora, sul ruolo da attribuire al cinema (e quindi sui criteri in base ai quali giudicare un film). Avendo vissuto da infante e da adolescente l’epoca d’oro della cinematografia, quella tra l’immediato dopoguerra e l’avvento della televisione, so per esperienza diretta quanto un film potesse incidere sulla formazione di un ragazzo, ma anche sugli orientamenti di un adulto: uso il congiuntivo remoto perché oggi naturalmente questo potere si è trasferito ad altri media, e il cinema si trascina lungo un viale del post-tramonto, illuminato da luci artificiali. So anche però che il cinema è come la montagna, ci trovi quello che ci porti. Per cui, se lo frequenti con lo spirito giusto può a volte suscitarti una maggiore consapevolezza rispetto alle tristi realtà che ti circondano, ma altre volte può offrirti dei parametri ideali. Ideali, appunto, ai quali guardare laicamente, con la debita attitudine critica. E sufficienti comunque ad aiutarti a capire che abbiamo noi stessi la possibilità e la responsabilità di dare un senso al caos che Gramatica sconsolatamente (non gli piacciono le cose vagamente consolatorie) vede regnare.

A me piacciono i film western. Sono un appassionato di John Wayne e di Clint Eastwood, ma non per questo mi faccio largo a cazzotti o ho mai sfidato qualcuno a duello. Mi hanno solo aiutato a capire che nella vita non ci sono solo interpretazioni, ma fatti; non solo opinioni, ma valori. E che rispettare i valori in cui credi (e magari farlo per quanto possibile con eleganza) è già dare una direzione, e addirittura un senso, alla propria esistenza. Sono un fascista, nemmeno consapevole di esserlo?

Per finire. Penso che i rapporti umani possano essere coltivati anche con il silenzio e la cortesia, che non siano necessariamente inibiti dalla timidezza e dalla discrezione. Lo dice uno che non è né timido né particolarmente riservato, ma intrattiene rapporti sinceri e profondi con persone che sanno camminare leggere su questa terra, e considera questo un privilegio. Ho anche una raccolta cospicua di musicassette anni sessanta, tra le quali quelle degli Animals, di Patti Smith e di Otis Redding: solo che a differenza di Hirayama non ho nemmeno il riproduttore per ascoltarle. E la sera, prima di dormire, addirittura leggo. Sono un disadattato?

E chiudo davvero. Mi accorgo di recitare da sempre un mantra più ripetitivo del rituale giornaliero di Hirayama. Dovrei essermi stancato (probabilmente ho stancato gli altri). E invece no. L’unica cosa che mi stanca è la piccineria di gente che ha risvegliato la propria ambizione, in realtà neppure troppo sopita, e si firma, come il nostro recensore, Editor-in-Chief.

La retorica e la Gramatica 08 - Perfect Days

P.S. (Ti pareva!) Proprio stamane ho avuto necessità di usare i bagni pubblici nel mercatino di Borgo d’Ale. Mi sono divertito comunque, ma mi sono venuti subito in mente Wenders e Gramatica. Se quest’ultimo proprio ci tiene a vedere macchie di piscio, gli do appuntamento per la prossima terza domenica del mese.