Esserci

(dalla Rappresentanza alla Rappresentazione)

di Paolo Repetto, 15 febbraio 2025

Ho avuto la percezione netta dello smottamento alla fine degli anni Settanta. Non che prima le cose andassero meglio, le tivù private erano nate a metà decennio e stavano già imponendo un nuovo “stile”, al quale la Rai era corsa immediatamente ad adeguarsi: ma tutto sommato la novità erano ancora i comici demenziali usciti del Bagaglino e un po’ di tette che davano fastidio a nessuno. Qualche avvisaglia c’era certamente già stata, ma all’epoca non avevo tempo da dedicare alla televisione, se non per gli incontri di boxe: quindi fui colto quasi alla sprovvista, e posso quasi citare anche la data della rivelazione.

Dell’accelerazione rovinosa mi accorsi assistendo a una delle prime puntate de Il processo del lunedì della gestione Biscardi, tra l’altro trasmessa su Rai3, l’emittente in forza alla sinistra. Ero allibito. Aldo Biscardi, che già di suo parlava un italiano a dir poco approssimativo e capiva una mazza di qualsivoglia argomento, aveva messo assieme una vera corte dei miracoli, nella quale tra pseudo-giornalisti ed ex-calciatori in bolletta gigioneggiavano personaggi assurdi come Maurizio Mosca, uno che su un campo di calcio non avrebbe avuto un ruolo nemmeno come raccattapalle. Non mi scandalizzava l’incompetenza, perché avendoci giocato sino a cinquant’anni sapevo benissimo che sul calcio non c’è nulla da sapere, da capire o da discutere, si tratta solo di mettere un pallone in rete o di non lasciarcelo finire, ma ero disgustato dalla beceraggine di tutto l’assieme, dai toni, dagli argomenti e dalle atmosfere da bettola d’angiporto, proposti su un medium nel quale un attimo primo erano passate notizie di guerre o di catastrofi, oppure rubriche di arte o di letteratura, o anche semplicemente qualche bel film o qualche documentario a tema storico. La cosa peggiore era che in quella trasmissione non circolava un filo di ironia, si prendevano tutti sul serio (come sogliono fare notoriamente gli imbecilli) e, ma questo l’ho scoperto dopo, venivano presi sul serio anche dalla sinistra più accorta, quella sempre un po’ più avanti, che plaudiva al fatto che finalmente si desse voce anche al più genuino “sentire popolare”, confondendo l’idiozia e la sguaiataggine con l’autenticità e la freschezza. In fondo, pensava, quei quattro bagonghi rompevano gli schemi seriosi e ingessati della televisione di regime, erano una ventata d’aria, magari puzzolente ma nuova.

Fu un tutt’uno: compresi allora che l’elogio di Franti tessuto da Umberto Eco e Fantozzi e il gossip confidenziale di Maurizio Costanzo non erano passati invano, c’era una logica che li legava, erano tanti cunei ribattuti nelle crepe della cultura occidentale aperte da due guerre e da tutto quel che c’era stato in mezzo. E compresi anche che quelle martellate non preludevano a una ripulitura e a un restauro (che non è una “restaurazione”, ma il riportare in vita quei motivi, quei colori, in definitiva quei valori originari che il tempo e le nequizie della storia hanno sporcato e deturpato), ma annunciavano la demolizione.

Da allora il degrado dell’etica, del gusto, del semplice buon senso non ha più avuto sosta: ogni volta che ho pensato si fosse toccato il fondo ho dovuto immediatamente ricredermi. Negli ultimi quarant’anni abbiamo visto di tutto: gabibbi chiamati a raddrizzare i torti e inviati “sul campo” bardati come mentecatti: filosofi di grido e indagatori della psiche ridotti a cumulare marchette nei talk show, senza il minimo pudore; intellettuali, artisti, politici, magistrati, sportivi, persino religiosi, in corsa a mendicare un passaggio televisivo per promuovere “eventi” o paccottiglia “d’ingegno”; uomini e donne di ogni età e condizione ansiosi di sputtanarsi in trasmissioni per cerebrolesi, in cambio di trenta secondi di visibilità.

I risultati li abbiamo di fronte: non è nemmeno più il caso di accendere la tivù per farsi un’idea del degrado. Basta girare per strada, origliare le conversazioni, quelle dal vivo e peggio quelle telefoniche, che vengono fatte condividere per un raggio di cinquanta metri, entrare in una scuola, sfogliare un quotidiano. Certamente però i media di massa rimangono il sensore più attendibile, non nel senso che ci raccontino il vero, ma, al contrario, perché del degrado sono il principale veicolo. Una trasmissione radiofonica come La Zanzara, ad esempio, giusto per fare riferimento alla manifestazione più recente di idiozia perversa nella quale mi sono imbattuto, dovrebbe essere usata come argomento di studio nelle facoltà di psicologia, di antropologia, di sociologia, per dare un taglio all’eterno dibattito sulla natura umana. Io non so se allo stato brado questa sia buona o cattiva, ma per certo è facilmente plasmabile da ogni input negativo, mentre non lo è altrettanto da quelli positivi. Se siamo stati modellati con la polvere, c’era qualcosa che non funzionava nell’impasto.

Comunque sia, credo valga la pena cercare di capire come milioni di anni di evoluzione ci abbiano regalato uno che si chiama come Paperino e ne ha la stessa consistenza cerebrale, ma si trova tra le mani le sorti del mondo. E che non ci è arrivato per via ereditaria, come accadeva un tempo, ma attraverso una ufficialmente libera competizione elettorale. È dura da spiegare, ma voglio provarci lo stesso, almeno a grandi linee e almeno per quanto riguarda la parte di cui sono stato un sempre più sconcertato spettatore.

Per parlare dell’oggi prendo spunto da un libro scritto sessanta anni fa, che fotografava la realtà sociale dell’epoca col teleobiettivo, ne coglieva gli sviluppi futuri e la incorniciava in una efficacissima definizione. Lo rispolvero non tanto per verificarne i riscontri, quanto piuttosto per constatare come nel frattempo l’interpretazione di quella (e quindi anche dell’attuale) realtà sia andata radicalmente cambiando. Devo dunque partire di lontano, sperando di non perdermi per strada.

Come è stata raccontata – Nel 1967 Guy Debord pubblicava La société du spectacle, (in italiano: La società dello spettacolo, De Donato, 1968, successivamente ritradotto e ristampato da Vallecchi, 1979, e ultimamente da Massari, 2002 e da Baldini-Castoldi, 2017). Debord era stato uno dei fondatori, dieci anni prima, dell’Internazionale Situazionista. (Per chi non conoscesse la vicenda del situazionismo, fornirò qualche riferimento in calce a questo intervento, allegando anche uno dei documenti di fondazione. Comunque anticipo che il situazionismo come inteso da Debord, da Asgen Jorn e da Raul Vaneigem aveva nulla a che vedere con i patetici sciamannati che da allora hanno nascosto dietro quella fortunata etichetta la propria presuntuosa inconsistenza).

Il libro arrivava al momento giusto – si era alla vigilia del Sessantotto. Conobbe anche una qualche notorietà (sia pure di seconda mano, perché era molto citato ma molto meno letto – in effetti era piuttosto noioso) e in particolare esercitò un forte influsso sul linguaggio immaginifico della contestazione. Debord vi sviluppava un’analisi della trasformazione che era in atto all’epoca nei rapporti sociali e nelle forme del dominio, ovvero della loro sempre più accentuata “spettacolarizzazione”: uno slittamento che aveva conosciuto un’accelerazione esponenziale con la comparsa della televisione, ma aveva preso avvio già nella prima metà del Novecento, con il cinema e con la radio. Non si limitava però a scandagliare il passato e il presente, profetizzava per questa trasformazione uno sbocco rivoluzionario: e lì la lucidità dell’analisi veniva meno, anche se non si può negare che in parte, almeno per quanto concerneva la deriva più immediata, quella precedente la rivoluzione informatica degli anni Novanta, i suoi pronostici fossero azzeccati.

Il testo di Debord si articola in una lunghissima sequenza di “tesi” (addirittura 221), e ha come modello formale quello del Manifesto del 1848. Esordisce così: “Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli”. Enunciazione che rimane quanto mai vera oggi, anche se io farei risalire la tendenza a tradurre la vita in spettacolo molto più addietro, a tempi precedenti la cosiddetta “modernità”: direi piuttosto che il moderno “modo di produzione” l’ha solo spinta alle estreme conseguenze, ad un esito per il quale Debord può scrivere che “le necessità della produzione capitalistica si sono staccate dalla vita, al punto che lo spettacolo è considerato come l’inversione della vita”.

Il nuovo manifesto prende l’avvio da dove Marx era arrivato, ovvero dall’alienazione prodotta dal capitalismo classico, che aveva indotto un passaggio di senso dell’esistenza “dall’essere all’avere”, e descrive l’ulteriore transizione ad un “capitalismo spettacolare”, quello che produce il passaggio “dall’avere all’apparire”. “La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni avere effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima”.

È accaduto insomma che la progressiva razionalizzazione dello sfruttamento, quella che il capitalismo moderno ha operato per esercitare un sempre maggiore controllo e mantenere gli sfruttati a margine del processo produttivo, nel ruolo di pura forza-lavoro, ha determinato una sovrabbondanza di beni (almeno nel mondo occidentale): ma questo non ha liberato né i popoli né gli individui dalla necessità, perché la sovrabbondanza è finalizzata al nuovo modello di accumulazione capitalistica, e non certo a venire incontro ai loro bisogni. Ha creato al contrario una necessità apparentemente meno immediata, ma più subdola, perché non potrà mai essere pienamente soddisfatta: la coazione al consumo. Il ciclo del controllo è stato quindi portato a compimento dal capitalismo contemporaneo sfruttando le masse non solo nella fase della produzione ma anche in quella del consumo, determinandone e falsificandone bisogni, aspettative, rapporti: penetrando insomma ogni aspetto dell’esistenza. (Come poi funzioni questa faccenda, perché insomma il capitale per accrescersi debba operare una sia pur molto contenuta redistribuzione, è apparentemente ovvio, ma i modi sono poi complessi da spiegare: ci hanno provato moltissimi economisti, arrivando a conclusioni diametralmente diverse. Io credo dipenda soprattutto da due fenomeni: la finanziarizzazione sempre più spinta – il prevalere del capitale finanziario su quello produttivo – e l’autonomizzazione della tecnica: cose di cui su questo sito si è già parlato, e sulle quali avrò ancora qui modo di tornare).

La totale dipendenza del produttore-consumatore è indotta dalla rappresentazione spettacolare che il capitale elabora di se stesso. I progressi tecnologici nel campo della produzione vanno infatti di conserva con quelli nella comunicazione – ma in questo caso sarebbe forse più corretto dire nella “persuasione”. Tanto meno un prodotto risponde ad una reale necessità, tanto più avrà bisogno di essere caricato di significati esterni che lo rendano desiderabile. I costi della sua promozione vengono naturalmente scaricati a valle, entrano quindi a far parte integrante del costo totale di produzione, mentre il marchio, la certificazione di qualità, promette al consumatore una ostentazione di esclusività e di capacità economiche. La comunicazione a questo punto non è più solo un mezzo, diventa un fine, e avviene in base a codici che sono elaborati tutti dall’offerente, e che vanno a ridisegnare le modalità dei rapporti tra gli individui. Nei paesi capitalisti si sta dunque configurando un modello sociale all’interno del quale gli individui sono ridotti a meri spettatori passivi di un flusso di immagini scelte dal potere. Queste immagini giustificano l’assetto di potere istituito e si sostituiscono completamente alla realtà. “Le nuove tecnologie della comunicazione spingono all’estremo il feticismo delle merci, la coazione al consumo, e soprattutto rimodulano il rapporto sociale fra gli individui, mediato dalle immagini”.

Il nuovo rapporto sociale è in realtà, secondo Debord, un non-rapporto. La messa in scena dello spettacolo presuppone, infatti, l’assenza di dialogo tra gli spettatori. Al consumatore non resta altro che ammirare, rimanendo nella passività assoluta, le immagini che altri hanno scelto per lui. L’individuo ha dunque esclusivamente il ruolo di “pubblico”, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. A parlare deve essere solo il potere. Gli individui risultano sempre più isolati nella folla atomizzata. “Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento”.

In questo isolamento lo spettatore finisce per essere dominato dal flusso delle immagini, immerso in un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato. O meglio: nel quale è vero ciò che chi governa lo spettacolo ha interesse a mostrare, mentre tutto ciò che non è stato creato o selezionato dal potere è falso, o non esiste.

Pertanto, nella misura in cui l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. Il consumatore non vive più esperienze dirette, ma si accontenta dei surrogati che lo spettacolo gli offre, e cerca di soddisfare quei bisogni, sia materiali che emozionali, che gli vengono artificialmente indotti. Diventa un consumatore di illusioni. Lo spettacolo è dunque il contrario della vita. Debord scrive “Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio”.

Molto all’ingrosso, questo è il succo della prima parte del saggio, quella dell’analisi: e direi che sin qui il discorso non fa una piega. D’altro canto, questa chiave di lettura della modernità e dei suoi esiti ultimi non arrivava del tutto nuova, e Debord stesso riconosce i suoi debiti. Si pone infatti come abbiamo visto in diretta continuità col marxismo (sia pure con un Marx liberato dai dogmatismi delle letture “ortodosse”, a partire da quella di Lenin), ma tra i suoi riferimenti vi sono anche Max Stirner, George Lucàks e i francofortesi (e io includerei Thornstein Weblen e Vance Packard, che tuttavia nel Sessantotto erano considerati “organici” al pensiero borghese, quindi poco spendibili – infatti non li cita mai). Il merito del libretto sta nell’aver raccolto e sistemato in una trama coerente tutti questi spunti, di averli attualizzati. E magari anche di avere intravisto le origini più remote del fenomeno, le cui prime avvisaglie fa risalire sino a Cervantes (e anche su questo tornerò).

Ciò che Debord metteva a fuoco sessant’anni fa oggi lo diamo per scontato, perché nella spettacolarizzazione viviamo immersi, è la nostra quotidianità: sul suo libro si è già depositata la patina del tempo, senza peraltro farne un piccolo classico del pensiero, ma al più un reperto documentale da esibire in occasione di future celebrazioni anniversarie o di festival del situazionismo. All’epoca invece l’analisi appariva, oltre che estremamente lucida, anche tempestiva, sviluppata in tempo utile per immaginare delle contromosse, per esorcizzare in qualche modo il fenomeno. Ed è proprio qui che Debord risulta datato: nell’idea che da questa coscienza potesse scaturire una qualche positiva reazione.

La seconda parte del nuovo manifesto è infatti dedicata alle strategie che Debord suggerisce per sottrarsi agli allettamenti della spettacolarizzazione. Non è il caso di elencarle tutte, ma direi che possono essere riassunte ed esemplificate nella pratica del détournement: ovvero del cambiamento di senso di tutto ciò che è espressione del potere, dell’inversione dei meccanismi della ricezione culturale, specialmente se legati alla comunicazione di massa, come la pubblicità o il fumetto, ma anche della modifica e della dissacrazione di oggetti estetici che da sempre orientano o dettano i canoni del gusto: “La libertà per esempio di trasformare la cattedrale di Chartres in luna-park, in labirinto, in campo di tiro, ecc.”.

Di primo acchito verrebbe da pensare che il suo invito sia stato raccolto. In fondo lo stravolgimento dei canoni estetici e dei messaggi, lo snaturamento di luoghi sacri o edifici storici, l’irrisione dei rituali, la falsificazione delle tradizioni, gli sberleffi alle istituzioni, tutto questo è già in atto da tempo. Il problema è che, appunto, lo “spiazzamento”, la “decostruzione”, il “disincanto” sono diventati la nuova normalità. Questa presunta “rivoluzione” continua ad essere gestita dal sistema stesso. Si può discutere se l’abbia anche innescata, senz’altro comunque se ne è appropriato, come è accaduto del resto per tutte le rivoluzioni dell’età moderna, da quella inglese a quella francese, da quelle “nazionali” dell’Ottocento a quelle “sociali” del primo Novecento. È accaduto nel Sessantotto, quando la contestazione giovanile è stata pilotata a svecchiare il sistema e a reclutare nuove fasce di utenti al consumo; è accaduto l’altro ieri, col femminismo, continua ad accadere oggi coi vari movimenti di rivendicazione di identità sessuale.

Insomma, il rinnovato protagonismo auspicato da Debord si risolve in una provocazione sterile, totalmente autoreferenziale, quando non addirittura funzionale al sistema che professa di voler combattere. In linea con la presunzione di épater les bourgeois che dal Romanticismo in poi ha sempre animato ogni “avanguardia” intellettuale. D’altro canto il situazionismo nasce proprio nell’ambiente delle avanguardie artistiche, che con la prosa della realtà hanno in genere un rapporto piuttosto conflittuale, e alla spettacolarizzazione sono predisposte già di per sé. Debord non fa che riproporre in chiave più esplicitamente politica il “sabotaggio” predicato mezzo secolo prima dai surrealisti, da operarsi con gli spostamenti di senso e gli accostamenti paradossali. Ma un orinatoio esposto in un museo o i baffi sul volto della Gioconda non smuovono le coscienze: semmai le anestetizzano, irridono dei valori, decostruiscono dei codici, ma non ne propongono di alternativi. Debord sembra non aver capito che il sistema è un muro di spugna. Fagocita tutto quello che gli butti contro e te lo rigetta in forma di merce. Non a caso i surrealisti più famosi sono Magritte e Dalì, quelli che hanno disatteso i dettami “internazionalisti” di André Breton, mentre nessuno legge più le poesie di quest’ultimo. E non a caso le “avanguardie” del secolo scorso, dai futuristi appunto ai surrealisti, rivelano poi una inquietante consonanza coi totalitarismi.

Com’era –Il discorso a questo punto potrebbe sembrare chiuso: liquidati ormai tutti i sogni di una palingenesi che passi per la presa di coscienza collettiva, rimane solo l’illusione di un protagonismo individuale, sia pure effimero. E invece, proprio di qui potrebbe partire una riflessione non oziosa. Non so infatti se Debord fosse del tutto inconsapevole di quanto onnivoro sia il sistema: di quanto cioè egli stesso, con la fondazione del movimento situazionista, e tanto più con la pubblicazione del libro, si prestasse ad essere risucchiato nei meccanismi di quella rappresentazione sociale che voleva smascherare. Forse consapevole lo era, dal momento che già immediatamente dopo la contestazione sessantottina, durante la quale il movimento aveva conosciuto una particolare popolarità, disgustato dalla massa di aspiranti che professavano la loro adesione all’Internazionale senza averne minimamente capito il senso, dichiarò quest’ultima disciolta (definiva sprezzantemente i neo-adepti “i pro-situ”: lascio immaginare cosa potrebbe pensare degli odierni “post-situ”): ma rifiutava di accettarne le conseguenze, e si trastullava con l’idea che portando scompiglio nei modi della trasmissione culturale, mostrando “di che lacrime grondi e di che sangue” e di che trucchi e menzogne si nutra, si sarebbe aperta la strada ad un ribaltamento dell’assetto sociale.

Lungo tutto il saggio è fortissima la critica alla contemplazione: “Solo nell’attività l’uomo realizza se stesso, nel caso contrario non può esserci che alienazione”. Ma non è ben chiaro di quale attività si stia parlando: “Poiché tutti diventeranno artisti ad uno stadio superiore, cioè in modo inseparabile produttori-consumatori di una creazione culturale totale, si assisterà alla rapida dissoluzione del criterio lineare di novità. Poiché tutti diventeranno, per così dire, situazionisti, si assisterà ad un’inflazione multidimensionale di tendenze, esperienze, di scuole, radicalmente differenti, e tutto questo non più successivamente, ma simultaneamente.” Appunto, un gran casino. Ma non del tipo che Debord si sforzava di immaginare.

Se infatti l’analisi era centrata, non lo erano le prospettive future che l’autore ne inferiva. Certo, come abbiamo visto la “spettacolarizzazione” si è realizzata compiutamente, addirittura al di là di quanto ci si potesse attendere. Tutti sono diventati “produttori-consumatori”, in una filiera nella quale sotto molteplici spoglie il capitale tecno-finanziario gestisce i luoghi, i tempi e i mezzi di produzione delle merci, gli apparati per il loro spostamento, le cattedrali del loro consumo e i rituali per la loro consacrazione. E all’individuo continua ad essere riservato un ruolo passivo di contemplazione (quello dal quale il situazionismo avrebbe voluto riscattarlo), di consumatore delle merci e di una cultura e di una politica “spettacolarizzate”, ridotte a merce anch’esse.

Ma è accaduto anche qualcosa che Debord non aveva messo in conto. Non solo non c’è stata affatto quella reazione liberatoria che secondo il filosofo belga le masse e i singoli individui, una volta acquistata consapevolezza, avrebbero prodotto, ma al contrario le une e gli altri si sono totalmente integrati nella messa in scena, e hanno accolto l’invito all’azione e al ritorno al protagonismo in un senso esattamente contrario a quello da lui atteso. Hanno scelto di essere, ma non di essere consapevoli, quanto piuttosto di essere visibili. Di esserci, di essere riconosciuti (che è cosa ben diversa dall’essere conosciuti), e quindi di rappresentarsi. Si sono arresi ad un surrogato di protagonismo, ad una smodata e malata coazione ad apparire che rientra perfettamente nel disegno del sistema spettacolare.

Va detto onestamente che un detournement di questo tipo non era prevedibile. Nel ‘67 internet e gli smartphone e i social network erano di là da venire, la frontiera tecnologica più avanzata della comunicazione scritta erano la Lettera 22 e il ciclostile. Ma ora che abbiamo imparato a conoscere i media di ultima generazione, a usarli, ad avvertirne le dipendenze, dobbiamo prendere atto che hanno completamente stravolto il quadro. Con le nuove tecnologie l’inflazione multidimensionale di cui Debord parla si è tradotta in una polluzione multimediale, entro la quale tendenze, esperienze, “scuole” non si esprimono, ma si appiattiscono, si svuotano di senso e si perdono dentro un rumore di fondo indistinto.

Provo a riassumere. Nelle aspettative della sinistra movimentista la rete telematica avrebbe dovuto fornire a ciascuno un megafono, essere lo strumento di una partecipazione attiva all’esercizio della democrazia diretta, del controllo dal basso, della trasparenza, e consentire un libero accesso alla conoscenza. Nella realtà si è rivelata un ulteriore formidabile strumento di manipolazione e ha dato la stura al manifestarsi di un individualismo narcisistico e presuntuoso, che si nutre di like e dell’illusione di protagonismo, Se nella fase precedente non c’era alcun dialogo e gli occhi degli spettatori-consumatori erano puntati solo sul cinema messo in piedi dal sistema, ora l’isolamento è ancor più totale, perché il dialogo è in realtà solo un chiacchiericcio unidirezionale e l’attenzione si concentra soprattutto sulle immagini autoprodotte e su una patetica ricerca di “consenso”, che dia l’illusione di una qualche eco e di una qualche visibilità. Tutto ciò che transita sulla rete viene banalizzato, e anche i messaggi e gli inviti al risveglio lanciati in buona fede, persino quelli che sembrano momentaneamente conoscere un certo successo, sono risucchiati velocemente nel vuoto. Ne è riprova il caso delle proteste di massa dello scorso decennio, degli indignati e dei girotondini, delle primavere arabe e non, delle rivolte popolari che non si sono non mai tradotte in rivoluzioni durature, nonché dei passaggi nostrani di banchi di Sardine: milioni di persone hanno risposto simultaneamente, come si augurava Debord, agli appelli al cambiamento diffusi attraverso i network, ma una volta in piazza non sapevano più cosa dire e cosa fare, e nei casi più seri hanno finito per scatenare risposte ferocemente reazionarie.

Per capire come si sia arrivati a questa situazione è necessario comunque fare un passo indietro. Non è liquidabile come un rincoglionimento generalizzato (anche se ha tutte le caratteristiche), frutto di un qualche avvelenamento da piombo come si ipotizzava un tempo per la fine dell’impero romano, o dell’inquinamento atmosferico. Il fatto è che i nuovi media sono stati colonizzati immediatamente dal sistema, così come del resto era accaduto per quelli del passato, ma con effetti più diluiti e meno traumatici. Negli anni Novanta l’alleanza tra il neo-capitalismo digitale e quello finanziario ha prodotto un vero sconvolgimento, in primo luogo nell’economia, accelerando la globalizzazione e la concentrazione monopolistica. Le innovazioni portate dall’ industria high tech sono state sospinte ed enfatizzate con enormi iniezioni di capitali da una finanza in cerca costante di nuove opportunità di investimento. A loro volta le nuove tecnologie hanno velocizzato in maniera esponenziale le transazioni, creando di fatto un mercato finanziario unico, legittimandone le operazioni speculative più ardite e cancellando le regole e i contrappesi che sino a ieri lo avevano regolamentato. E soprattutto hanno “smaterializzato” il concetto stesso di capitale, un tempo legato ai frutti di imprese produttive, oggi a quelli di una attività puramente speculativa. La gran parte dei dirigenti delle grandi multinazionali non ha la minima idea di cosa producano le aziende di cui hanno il controllo, mentre è sintonizzata costantemente sugli algoritmi che ne monitorano le fluttuazioni di valore.

Gli effetti di questa trasformazione sono stati immediati. Intanto il ridimensionamento, in termini di occupati, degli apparati produttivi. In un mercato aperto e senza regole la competitività può essere mantenuta soltanto abbattendo i costi fissi di produzione: e dal momento che sulle altre componenti, materie prime ed energia, non ha il pieno controllo, il capitale interviene comprimendo l’occupazione, esternalizzando il più possibile le attività, spostandole in paesi nei quali il costo del lavoro è più basso o appaltandole ad aziende più piccole, nelle quali la forza contrattuale dei lavoratori è minima; o addirittura individualizzandole, tramite l’affidamento a lavoratori “indipendenti” che operano in regime di “libero mercato”. In quest’ultimo caso soprattutto, ma anche negli altri, sono appunto le tecnologie digitali a consentire un controllo costante e istantaneo.

Ma questa è una storia risaputa. Mi interessano piuttosto gli affetti sociali più eclatanti che questo terremoto economico ha prodotto.

Intanto la precarizzazione del lavoro, quindi il venir meno di quel riferimento fisso che nel bene o nel male informava le esistenze delle generazioni precedenti. Con conseguente insicurezza e perdita di ogni stimolo a progettarsi un futuro. Poi la dissoluzione di quei legami di solidarietà che il lavoro dipendente creava, e che diventavano anche occasioni di amicizie, di rapporti interpersonali effettivi, concreti. Quindi il progressivo isolamento dei singoli nel guscio individuale e il disinteresse nei confronti dei problemi collettivi.

Nel mentre procedeva a questa azione distruttiva l’alleanza tecno-finanziaria si premurava anche di fornirne una giustificazione. Il lavoro precarizzato e individualizzato è stato presentato come un’opportunità di democratizzazione dei nuovi modelli produttivi. In sostanza, il lavoratore verrebbe a godere di margini di libertà più ampi di quelli di cui godevano coloro che operavano nelle imprese fordiste.

A sostituire i rapporti sociali concreti maturati lavorando in azienda provvederebbe la stessa rete, ampliando a dismisura la possibilità di contatto con interlocutori sparsi in tutto il mondo, e consentendo di scegliere e selezionare entro uno spetto molto più ampio.

A questo tipo di rappresentazione fornito dal sistema corrisponde però una realtà molto diversa. L’autonomia di cui dovrebbero godere i nuovi produttori è smentita proprio dal controllo più stretto che le tecnologie digitali consentono, oltre che dalla dipendenza costante dai flussi verso i quali il capitale dirige i consumi. D’altra parte, l’isolamento degli individui non è affatto superabile attraverso un surrogato tecnologico di rapporto che di per sé, per quelli che sono gli aspetti essenziali della sua natura (velocità, appiattimento dei livelli, la modalità stessa della fruizione), prescinde da ogni effetto emozionale e al tempo stesso non si presta affatto a reggere un discorso ponderato e organizzato.

Ciò che effettivamente vediamo scaricato e circolante in rete sono piuttosto sfoghi insensati, urlati, patetici, quando va bene solo sterili; ed è tutto materiale funzionale allo spettacolo. Creano da un lato l’illusione di una appartenenza identitaria, di far parte di una comunità che sia pure solo virtualmente ti riconosce e sia pure solo attraverso gli emoji ti prende in considerazione, dall’altro quella di affermare una autonomia di pensiero e di giudizio all’interno del delirio di voci collettivo. Tutti si influenzano vicendevolmente, tutti parlano e straparlano, ma nessuno in realtà ascolta l’altro. Un brevissimo tour nell’inferno dei social ci offre una fotografia allucinante e allarmante della solitudine, del livore e dell’avvilimento che regnano in platea.

Ma non è tutto: utilizzando i dati forniti dalla coazione ad autorappresentarsi, il sistema è ormai in grado di andare oltre le proposte di consumo generalizzate, di elaborare per ciascuno delle risposte mirate. Non si fa a tempo ad esprimere un’opinione, una preferenza, un interesse o un dubbio che si è immediatamente inondati di offerte e proposte da parte del mercato (e di risposte o di insulti da parte degli altri utenti). È in fondo il modello Toyota, applicato ad ogni forma di produzione di merce.

Questo ci si doveva attendere. Il fatto che Debord non l’abbia previsto è comprensibile, mentre lo è molto meno l’ostinazione odierna della sinistra superstite a non prenderne atto.

Vorrei precisare che il difetto stava comunque già a monte, ben prima della comparsa dei social. Stava intanto nel continuare da parte della sinistra ad adottare criteri di analisi obsoleti; nel fare riferimento a categorie sociali, il proletariato in primis, assunte come se nulla fosse cambiato dai tempi della redazione del Capitale; nel continuare a leggere Marx come un profeta, e non come un economista che ragionava sui dati e sulla realtà del suo tempo; nel credere infine che il sistema sarebbe comunque rimasto ancorato al modello fordista. Debord almeno questo ultimo cambiamento lo aveva intuito.

C’era naturalmente anche l’abbaglio di fondo che ha condizionato tutti i messianismi, religiosi o secolari che fossero, e le utopie: il postulare una natura umana originariamente positiva, corrotta poi ed espulsa dall’Eden per la sua presunzione di dominio sulla natura, bisognosa soltanto di essere riscoperta e redenta. Paradossalmente, questa riappropriazione del sé dovrebbe passare attraverso un contradditorio iter di “rieducazione” alla libertà, di rifiuto di ogni condizionamento politico e sociale (che in occidente si esprime innanzitutto attraverso la critica della democrazia). Di fatto, si risolve nello scivolamento progressivo verso una centralità dei diritti individuali rispetto a quelli collettivi.

Com’è – È ora però di arrivare al dunque. Che non significa tirare delle conclusioni, perché la trasformazione sociale è velocissima e imprevedibile, e riserva ogni giorno nuove sorprese: si possono però fare almeno un paio di considerazioni.

Intanto penso di dover chiarire ulteriormente a cosa mi riferisco quando uso il termine “sistema”, perché dal significato che gli si dà dipende l’interpretazione di tutto quanto ho scritto finora. Io lo intendo come il risultato di un processo, sempre in divenire, messo in moto sin dai primordi dell’evoluzione della specie umana, quando quest’ultima si è trovata nella necessità di ricorrere al soccorso di tecniche per garantirsi la sopravvivenza (e per “tecniche” intendo tutto, secondo l’originale valenza etimologica, dall’uso di protesi e di strumenti materiali – per la difesa, per gli spostamenti, per la domesticazione della natura, ecc. – a quello di un pensiero e di un linguaggio complesso, e dei supporti – scrittura, stampa, ecc. – destinati a trasmetterlo). Col tempo quel supporto che era nato in funzione difensiva si è sviluppato in una direzione offensiva, ed è stato monopolizzato o comunque posto al proprio servizio da una piccola parte dell’umanità per soggiogare e sfruttare non solo la natura, ma la restante maggioranza di una popolazione o di intere altre popolazioni. Di qui la formazione delle classi sociali (sacerdoti, cavalieri, scribi, ecc.) e la sua cristallizzazione in dominanti e dominati, secondo un modello che ha continuato a funzionare così, pur con tutte le possibili varianti, per millenni. Poi sono arrivate la rivoluzione scientifica, e appresso quella industriale, e al seguito di questa quelle sociali, che hanno aperto in quel modello delle crepe.

Ma la rivoluzione profonda, quella che ha sparigliato del tutto le carte, è stata indotta dall’autonomizzazione della tecnica. Voglio dire che ad un certo punto il controllo di quest’ultima è sfuggito dalle mani delle stesse classi dominanti, perché si è innescato un meccanismo in base al quale l’innovazione tecnologica non è più governata in funzione della produzione o dell’accumulazione di capitale, ma è forzata da un processo “necessario” e autoreferenziale di accrescimento. Lo sviluppo della tecnica non è più finalizzato a scopi esterni, ma ad alimentare la capacità tecnica stessa. Un po’ quello che sembra destinato ad accadere in maniera eclatante con l’intelligenza artificiale, ma che già è accaduto ad esempio quasi tacitamente con la progressiva finanziarizzazione del capitale. Il sistema a questo punto non è più rappresentato dai colossi dell’industria o della finanza o del network, tutti protagonisti intercambiabili, e meno che mai dagli apparati politici al loro servizio: è come un enorme e complesso quadro elettrico dove si sono cumulati e intrecciati nel corso della storia innumerevoli fili di colore e diametro diverso, e interruttori e relè e inverter e altre apparecchiature e pulsantiere, che assorbe e distribuisce energia, ma del quale nessuno più è in grado né di individuare i dispositivi di accensione o di spegnimento né di ricordare le finalità del funzionamento.

Tutto questo ha potuto accadere per via della parcellizzazione e della specializzazione delle competenze e dei ruoli tecnici, a sua volta indotta dalle esigenze di strumenti e di modalità produttive (o accumulative) sempre più performanti. Per costruire una carriola erano sufficienti le competenze di mio nonno, per un’auto elettrica si assemblano quelle di migliaia di operatori, nessuno dei quali possiede un’idea complessiva del prodotto finale e a ciascuno dei quali si chiede solo di garantire e aumentare l’efficienza del proprio segmento. Ciascuno aggiunge un filo o un interruttore, e si preoccupa che all’interno di quello passi o si interrompa la corrente. La finalità unica del quadro pare ormai essere proprio quella di funzionare.

Il termine più adatto per definire questa situazione potrebbe essere “tecnocrazia”: ma anche qui, occorre intenderci sull’accezione in cui viene usato. Nel mio caso non mi riferisco a un “governo dei tecnici”, perché questa accezione suppone una “autonomia” di questi ultimi che di fatto non esiste, in quanto al momento è ancora il capitale finanziario a orientare e decidere le direzioni della ricerca e dello sviluppo, e i tecnici semmai rappresentano la componentistica più avanzata, ma sono essi stessi dei cavi o degli strumenti di trasmissione. Penso invece ad un “governo della tecnica”. Sono due cose decisamente diverse: un governo dei tecnici ha una dimensione ancora “umana”, è comunque uno strumento, che può essere piegato a finalità di sfruttamento o di egemonia, ma teoricamente potrebbe anche perseguire altre strade; un governo della tecnica, come dicevo sopra, prescinde da qualsiasi altra finalità che non sia la propria perpetuazione e il proprio sviluppo.

Può sembrare quindi prematuro definire quella attuale una “tecnocrazia”, perché ancora il processo non si è compiuto: ma siamo già molto avanti su questa strada, sulla via della totale autoreferenzialità tecnologica.

Su questo discorso si innesta quello della spettacolarizzazione. Il quadro-sistema è il teatro in cui tutti recitano una parte, alcuni da protagonisti, la maggioranza come semplici comparse, ma nessuno è insostituibile e nessuno ha davvero in mano la regia. A decidere su chi o su cosa puntare o spegnere i riflettori è il tecnico delle luci, come in questo caso potremmo definire la tecnica autoconsapevole, quello che fa sì che il tutto continui a funzionare, che le spie rimangano accese. Qualcuno, non ricordo chi, ha scritto che oggi la scienza (e quindi la tecnica, che ne è l’applicazione) non guarda più a ciò che è utile fare, ma a tutto ciò che è possibile fare: che non è dunque più al servizio dell’uomo, ma di se stessa. Sembra stia parlando della saga di Terminator, ma se sostituiamo l’intelligenza artificiale guerriera che lì prende possesso del mondo in maniera violenta e crudele, e la sostituiamo con un’invadenza tecnologica strisciante, apparentemente ancora strumento e in realtà altrettanto determinata a diventare il fine, ci siamo già dentro. Fisicamente (io stesso ho già dovuto ricorrere a “ricambi” artificiali), ma soprattutto intellettualmente (la rete è già diventata un’indispensabile protesi della nostra memoria).

Non è un’immagine confortante, soprattutto se connessa a quella abusatissima (anche da me) di Kierkegaard, del teatro che sta andando in fiamme e degli spettatori che applaudono e se la ridono, ma è forse quella che meglio fotografa la realtà attuale.

Come se ne esce? Sinceramente, non ne ho la minima idea. Altri le idee le hanno, ma mi sembrano piuttosto confuse e contraddittorie, Per alcuni la soluzione verrà dalla tecnica stessa, che ad un certo punto, a sua stessa salvaguardia, attiverà un riduttore o un salvavita e rimetterà in ordine i fili. Altri prevedono un’operazione di autodifesa del capitale, che ha sensori acutissimi, e che davanti alla prospettiva di un generale collasso vorrà riformarsi secondo modalità più “sostenibili”. I nostalgici del marxismo continuano a sperare in un risveglio collettivo degli ultimi, che è improbabile quanto quello del capitale ed apre a scenari altrettanto foschi, e comunque nebulosi. Altri ancora, al contrario dei primi, ritengono che l’incombere della catastrofe ambientale stia già facendo maturare un rifiuto integrale della tecnica, e dunque del consumismo, e propugnano il ritorno ad una economia “a misura d’uomo”. Magari auspicando anche una drastica riduzione numerica della nostra specie, operata in questo caso dalla natura stessa coi suoi mezzi (dagli asteroidi alle epidemie). Insomma, l’impressione è che chi si pone il problema in termini realistici non possa augurarsi altro che un rallentamento della corsa al disastro, anziché una sospensione, e che negli animi si stia sottilmente insinuando la rassegnazione di fronte a ciò che appare ineluttabile. Non in tutti, per fortuna.

Non rassegnarsi non significa per me progettare migrazioni su Marte o continuare a vagheggiare rivolgimenti sociali sulla Terra, oppure ritirarsi a pascolar capre in montagna: significa molto più semplicemente continuare a fare quello che bene o male ho cercato di fare fino ad oggi: pensare, indagare, capire almeno come siamo arrivati alla condizione attuale, per vedere casomai una delle strade non scelte in passato potesse offrire qualche via di fuga. E lo scritto presente, nel suo piccolo, imponendomi di riflettere risponde a questo assunto.

Come sarà? – Cerco dunque di venirne a una, tornando finalmente al tema che avrebbe dovuto essere centrale. Ho parlato sin qui di due modalità di autorappresentazione, quella proposta dal sistema sul grande schermo del mondo e quella concessa nel formato selfie ai rimanenti otto miliardi di individui umani. Ora vorrei cercare di chiarire qual è il rapporto tra il trionfo della rappresentazione e il crescente rifiuto dell’istituto della rappresentanza. Che a questo punto mi sembra scontato. Ma andiamo con ordine.

La rappresentanza è uno dei cardini della democrazia occidentale, e di fronte all’attuale crisi di credibilità del sistema democratico è il primo ad essere messo in discussione. Lo si elenca tra i trucchi illusionistici imputati alla “modernità” per mascherare l’azione sempre più pervasiva del potere, anche se a ben vedere non è affatto un portato dell’età moderna. Delle modalità di delega erano già presenti infatti, per i ruoli più diversi e in ambiti di partecipazione più o meno ristretti, sin dalla nascita delle comunità umane (a dispetto di quanto sostenuto dai nostalgici dell’eden paleolitico, delle società “orizzontali” dei cacciatori-raccoglitori). E duemilacinquecento anni fa ad Atene erano già regolamentate secondo il modello vigente ancora oggi. Col tempo, con la crescita di istituzioni politiche di grandi dimensioni (per intenderci, con lo stato moderno), e soprattutto con i rivolgimenti sociali prodotti dal modo di produzione industriale, le forme della rappresentanza sono state più o meno uniformemente definite e universalmente accettate. Questo soprattutto in Occidente, e almeno fino a ieri.

Oggi non è più così. Nei confronti della democrazia rappresentativa crescono i dubbi e la disaffezione. E dal momento che non si conoscono modelli alternativi che abbiano funzionato meglio, la critica investe tutto il sistema di princìpi, valori, regole e procedure che caratterizzano le istituzioni democratiche nel loro complesso. Anche questi attacchi non sono una novità: nei secoli scorsi erano uno sport praticato principalmente dalle destre, legittimiste, populiste o tradizionaliste che fossero, e questo è comprensibile. Ma non meno ostile era l’atteggiamento delle sinistre più radicali, nelle loro svariate sfumature, ortodossamente marxiste, operaiste, consigliari, leniniste, anarchiche, che nel mirino hanno sempre avuto la “democrazia borghese”

La differenza sta nel fatto che quelle proponevano bene o male delle alternative, (anche se dove hanno potuto sperimentarle sono andate incontro a risultati tragici), dei progetti sociali definiti e strutturati, mentre il rifiuto espresso dal nuovo corso “movimentista” è tutto all’insegna dello spontaneismo, del culturalismo (le appartenenze identitarie non sono più quelle di classe, ma quelle di cultura o di genere), dell’“orizzontalismo” (quello che avrebbe dovuto passare per Internet). Ciò spiega l’incapacità di questi movimenti di coordinarsi e di adottare obiettivi, programmi e forme organizzative comuni. Si tratta in sostanza di un velleitario miscuglio di ideologie ferocemente antigerarchiche e antistataliste, genericamente antiautoritarie, orientate alla rivendicazione di diritti individuali o di gruppi specifici, che finisce poi paradossalmente per essere espressione più o meno cosciente della globalizzazione e per aggregare masse disorientate, il “volgo disperso che nome non ha”, attorno a leader carismatici.

Tutto questo meriterebbe però una trattazione specifica, che rimando a una prossima volta. Qui mi interessa invece mettere in luce come la narrazione in negativo della politica che prevale oggi non sia solo trasversale ai due vecchi schieramenti, ma li superi, perché è orchestrata appunto da quel “sistema post-politico” che ho identificato sopra. I temi, le argomentazioni e i modi della critica tradizionale sono ripresi e riproposti in una confezione patinata, che sfrutta la potenza e la duttilità dei nuovi strumenti mediatici lasciando parlare, per così dire, le evidenze. Quelle, naturalmente, che si prestano a screditare il modello democratico. Cosa ci raccontano infatti i notiziari, i talk show, le inchieste scandalistiche, ma anche i film, le serie televisive, gli spettacoli di satira, se non che il mondo della politica è un letamaio, che quello politico è uno sporco lavoro, che non c’è verso a giocare puliti e che occorre averci il minor contatto possibile se non vogliamo a nostra volta insozzarci?

Questa narrazione ha senz’altro buon gioco, perché per un funzionamento corretto della rappresentanza la delega dovrebbe essere conferita ad individui in possesso dei giusti requisiti, e nella realtà politica queste condizioni ideali non si verificano quasi mai – non è un problema di oggi, è sempre stato così. Sulle scelte influiscono infatti logiche di partito, condizionamenti economici, interessi più o meno occulti, che alla lunga falsano completamente le regole del gioco. Basti pensare ad esempio a ciò che accade negli Stati Uniti, dove l’enorme aumento dei costi delle campagne elettorali ha finito per riservare ai ricchi la competizione elettorale, tagliando fuori dalla possibilità di vedere rappresentati i propri interessi non solo le classi lavoratrici, ma anche le classi medie (per cui a questo punto è praticamente indifferente che vinca l’uno o l’altro candidato). Lì la cosa è più eclatante per le cifre spropositate che entrano in gioco, ma anche in Europa, pur senza arrivare a questi eccessi, la democrazia non sta molto meglio.  Ciò parrebbe in parte spiegare la disaffezione nei confronti della rappresentanza: in realtà spiega però solo quella nei confronti di coloro che deputiamo a rappresentarci, mentre oggi ad essere messo sotto accusa è proprio l’istituto politico.

Va altresì aggiunto che anche laddove una parvenza di senso le elezioni sembrano mantenerla, coloro che per onestà e competenza potrebbero essere più adeguati tendono a sottrarsi alla responsabilità, e non sempre per una scelta di comodo. In molti casi questo atteggiamento nasce dalle delusioni maturate nelle esperienze dirette, che inducono i più sensibili a ritirarsi nel loro guicciardiniano “particolare”.

Tutto, insomma, congiura a far prevalere l’idea che chi vuole preservare la sua dignità dovrà limitarsi alla resistenza passiva, alla difesa delle sue private libertà. E lasciare libero campo all’azione del sistema, rassegnandosi a vivere in una società post-democratica.

Questo avviene infatti mentre dietro le quinte dello spettacolo, nel mondo reale, aumenta in maniera esponenziale la distanza tra l’esigua minoranza dominante e il resto della popolazione, mentre è in atto lo smantellamento dello stato sociale, con la privatizzazione di una quota crescente di attività di assistenza, di cura, di controllo dell’ordine, di gestione del territorio e delle infrastrutture, tutte cose che prima rientravano nelle sfere delle relazioni private, famigliari e comunitarie. Quelle che erano le competenze degli stati sono trasferite ad agenzie transnazionali o a grandi aziende private che operano su scala planetaria, e le vecchie istituzioni politiche sopravvivono solo come facciate della gestione locale del capitale globale. E tutto ciò accade nella quasi totale indifferenza dei “sudditi”, la cui attenzione è stata frammentata e dirottata sui diritti individuali e sulle rivendicazioni identitarie, che sono impegnati a rappresentarsi e a gratificarsi reciprocamente sui social, e ai quali, disponendo di una tribuna teoricamente aperta sul mondo intero, di avere dei portavoce non importa più per niente. D’altro canto, che istanze dovrebbero rappresentare i delegati? quelle femministe, quelle ambientaliste, quelle pacifiste, quelle delle identità di genere o di cultura, e con quale tipo di mandato, e soprattutto, di fronte a chi?

Qui volevo arrivare. Il nuovo assetto sociale fa sì che venga meno anche la necessità di una finzione democratica, di un’ammortizzazione politica: democrazia e mercato, che bene o male avevano convissuto sino al secolo scorso, non viaggiano più di concerto. La prima non funziona nemmeno più da paravento, ha ceduto campo totalmente al secondo. Gli interessi del tecno-capitalismo globale, la sua nuova configurazione e gli strumenti di persuasione di cui dispone, gli consentono di governare direttamente le nostre vite, senza più bisogno di mediazioni politiche.

Questo, lo si voglia o no, è lo stato delle cose. Come si sarà capito, mi è difficile stabilire quanto sia frutto di un ben preciso progetto e quanto invece di un effetto a valanga, prodotto come dicevo sopra dall’autonomizzazione della tecnica, da una corsa di quest’ultima all’autorealizzazione che riesce per il momento perfettamente funzionale al capitale. Nel primo caso un’azione di contrasto dovrebbe essere eminentemente politica, e forse può essere ancora pensabile, nel secondo si tratta di mettere in discussione tutto un modello esistenziale, e qui davvero temo che le probabilità di sovvertire i pronostici infausti siano nulle. Rimanendo comunque al primo caso, sono convinto che l’azione politica non possa prescindere da una difesa e da una rivitalizzazione della democrazia. E che questa sia attuabile solo attraverso l’istituto della rappresentanza, senz’altro rivisto, purgato delle tante criticità, ridisegnato nei modi e nelle finalità: ma non ci sono alternative. Per come gli stati moderni sono configurati non si può pensare di saltare la rappresentanza per attuare una democrazia diretta: lo hanno dimostrato le recenti esperienze politiche dei “nuovi movimenti” che avevano come unico collante “l’indignazione”, l’insofferenza per i doveri, lo sprezzo per ogni tipo di istituzione – segnatamente di quelli che hanno avuto momentaneamente accesso al potere, come è accaduto in Italia per i grillini. Il rifiuto di un’organizzazione politica strutturata, la partecipazione digitale praticata con un click, ha creato in alcuni l’illusione che la democrazia potesse essere rivitalizzata semplicemente cambiandone le regole, in molti la presunzione di essere finalmente protagonisti e di farsi interpreti dei problemi del “paese reale”. Col risultato di consegnare il paese nelle mani di una combriccola incompetente e inconcludente, rissaiola, altrettanto disonesta e compromessa di quelle che avrebbe dovuto spazzare via, e di disamorare ulteriormente dalla partecipazione gli incerti e i delusi. Ha fatto cioè esattamente il gioco del sistema, ha recitato nel suo spettacolo.

Preferirei non assistere alle repliche.

Due postille

1)   Non vorrei che il mio approccio al tema della tecnica fosse confuso con quello dei vari Severino, Galimberti e, giù per li rami, Heidegger e Nietzsche. La differenza sta nel fatto che da costoro la tecnica è intesa come un male assoluto, il peccato originale che ha strappato l’umanità dal suo edenico rapporto con la natura, e ha indotto la nostra specie a contrapporsi alla natura stessa e a volerla dominare.

Ora, non c’è dubbio che la risposta adattiva della nostra specie alla propria particolare condizione di debolezza biologica sia finita sopra le righe, ma a mio giudizio questo rientra pienamente nella sua particolare natura. Si può anche pensare che l’uomo sia un tragico errore dell’evoluzione, ma è pur sempre frutto di un processo evolutivo, che nel suo caso ne è la continuazione “con altri mezzi”. La tecnica non è “innaturale” in sé, lo diventa semmai quando il suo controllo è volto a finalità che secondo il nostro metro morale risultano sbagliate. Non è espressione della pura “volontà di potenza” come pensa Heidegger, sulla scia di Nietzsche, o una fuga di fronte angoscia del divenire, del destino della mortalità, come la considera Severino. È una “necessità” evolutiva.

Insomma, dobbiamo capirci. L’uomo per sopravvivere ha bisogno della tecnica: su questo non ci piove. È una scimmia nuda: non ha una pelliccia né una corazza, non ha dentature potenti come le tigri o i coccodrilli, non ha zanne né artigli, non si difende e non attacca coi veleni. Non è attrezzato come tutti gli altri animali alla vita di natura, almeno a partire dal momento in cui lo consideriamo una specie separata dalle sue più affini. Quando questa separazione sia avvenuta più o meno l’abbiamo stabilito, ma non sappiamo né come né perché. Probabilmente i cambiamenti climatici hanno costretto una parte dei nostri cugini scimpanzé a uscire dalle foreste e li hanno gettati allo sbaraglio nelle savane. Comunque sia, per non sopravvivere precariamente solo come prede, gli esuli da quel momento hanno dovuto riadattare il loro fisico alla nuova situazione, e là dove la selezione non provvedeva hanno dovuto ingegnarsi con quello che l’ambiente offriva, pietre, ossa, bastoni, pelli degli animali uccisi. Farne delle protesi dei loro corpi. Sono diventati “umani”, e hanno cominciato a modificare con le loro attività l’ambiente stesso (caccia, raccolta, agricoltura, allevamento) e a plasmarlo progressivamente in un crescendo inarrestabile, a creare nuove forme di società e di rapporti, moltiplicandosi fino ad arrivare a coprire con la loro presenza ogni angolo della terra.

Tutto questo ad un certo punto ha travalicato la pura volontà di sopravvivenza. E qui sposo completamente la tesi esposta da Ortega y Gasset nella Meditación de la técnica (1939): “Senza la tecnica l’uomo non esisterebbe e non sarebbe mai esistito”. L’uomo, dice Ortega, sviluppa, proprio per le circostanze che deve affrontare, una “intelligenza tecnica”, idonea a individuare le relazioni tra i fenomeni che lo circondano. Oltre a fornirgli la basilare possibilità di sopravvivere, questa gli permette di immaginare molteplici possibilità esistenziali e di scegliere tra esse per costruirsi un programma di vita. La sua condotta non è quindi più casuale, ma intenzionale. Per poter realizzare questo programma, per poter “essere insomma quello che vorrebbe essere”, e quindi vivere bene, usa la sua ingegnosità tecnica per creare artifici e procurarsi strumenti che gli consentano di superare le difficoltà e gli allevino le fatiche. Compie delle azioni “tecniche” volte a modificare e a migliorare la natura che lo circonda, generando in tal modo una sovranatura, e adattando l’ambiente a se stesso. La tecnica non è infatti soltanto adeguamento dell’uomo alla Natura ma, viceversa, tende progressivamente a diventare adattamento del secondo termine al primo. “L’esistenza dell’uomo, il suo stare al mondo, non è uno stare passivo ma egli deve, necessariamente e costantemente, lottare contro le difficoltà che si oppongono a che il suo essere abiti nel mondo.

Bene. Anzi, male. Perché tutto questo funziona fino a quando l’uomo ha chiaro l’essere che vuole diventare: ma in caso contrario non può che maturare angoscia e disorientamento. E questa è la sua condizione attuale.

Cos’è accaduto allora (cosa è accaduto soprattutto nel frattempo, da quando quasi un secolo fa Ortega esponeva le sue Meditaciones: ma va ammesso che ciò che ancora non era così evidente il filosofo spagnolo ha saputo presagirlo)? È accaduto che gli sviluppi tecnologici hanno creato nell’uomo la sensazione di poter “essere tutto”: hanno moltiplicato esponenzialmente le sue possibili esistenze, ma proprio questa potenziale mancanza di limiti ha generato smarrimento, ha complicato sia l’individuazione che l’attuazione di un proprio progetto di vita, sino ad indurre all’assenza del desiderio o a perdersi dietro “pseudo-desideri, spettri di appetiti privi di sincerità e vigore”. L’uomo ha cominciato a riporre fiducia esclusivamente nella tecnica in quanto tale, addossandole anche la responsabilità creargli un senso. Dal canto suo il dominio della tecnica e della strumentazione scientifica, che orienta le nostre vite, quel senso invece lo nega, frammentandolo nella specializzazione e riducendo quei comportamenti che sono le caratteristiche costitutive della nostra identità a reazioni chimiche, elettriche o meccaniche (e questo per Ortega era uno dei prodomi della massificazione). “All’uomo è data l’astratta possibilità di esistere ma non gli è data la realtà. Questa se la deve conquistare, minuto dopo minuto: l’uomo, non solo economicamente ma anche metafisicamente, deve guadagnarsi da vivere”. Questo perché «l’essere umano e l’essere della natura non coincidono totalmente: dal “lato naturale” l’uomo risulta essere immerso nella natura circostanziale in cui i suoi processi naturali si attivano spontaneamente; la sua “parte extra-naturale” che “pretende di essere” ossia la sua personalità, il proprio io, necessita di costruzione, di cura ininterrotta e di attenzione».

Quindi: la tecnica è un beneficio nella misura in cui risponde alla sua funzione principale, ovvero, cambiamento ma soprattutto miglioramento della nostra situazione esistenziale. Il maggior rischio insito nella tecnica non è la produzione sterminata delle possibilità di vita che può offrirci; questa è una complicanza (il che non significa male assoluto) direttamente proporzionale alla sua grandezza. È invece l’uso improprio, il ricorso esasperato al suo aiuto per semplificarci la vita, che ce la semplifica ma solo nel senso che l’appiattisce, la omologa, la rende simile a tutte le altre, annichilendo la nostra identità. L’avanzamento tecnico, conclude Ortega, se fuori controllo, «indebolisce la forza dei centri riflessivi, semplifica e organizza razionalmente i rapporti umani. Potremmo essere vittime di un sistema tecnico che a sua volta corre un grave pericolo, quello “di sfuggirci dalle mani e scomparire in molto meno tempo di quanto potessimo immaginare”».

Riassumendo. La tecnica ha permesso all’essere umano di superare la sua ancestrale situazione di bisogno, di conquistare una libertà nei confronti delle determinazioni naturali della quale prima non godeva. Gli uomini hanno creato delle macchine moltiplicatrici della potenza, della velocità, della memoria, della conoscenza, le hanno usate per produrre o per distruggersi vicendevolmente, le hanno automatizzate e oggi con le nanotecnologie le hanno rese compatibili col nostro organismo, addirittura incorporabili. Tutto questo non l’hanno fatto le protesi, gli utensili, le strumentazioni, le macchine, lo hanno fatto gli uomini, e la tecnica è rimasta al loro servizio. Che poi ne abbiano fatto un buon uso o meno, è un altro discorso. Guardiamo al risultato: siamo più di otto miliardi. Dal punto di vista evolutivo, un incontestabile successo.

Fino ad oggi. L’evoluzione prevede infatti anche situazioni recessive. Anche queste le vanno messe in conto. Le specie che hanno esercitato sulla terra una eccessiva pressione si sono ridimensionate, o sono addirittura scomparse, e a questo non hanno provveduto solo i cataclismi o l’azione umana. I segni di una recessione di quella umana ci arrivano già dalle proiezioni sul calo demografico naturale a partire dalla metà di questo secolo (che potrebbe essere accelerato dalla natura stessa – epidemie, cambiamenti climatici – o dalla dissennatezza degli uomini – conflitti, carestie indotte). E sappiamo che anche là dove l’uomo ha inciso più profondamente e distruttivamente le tracce del suo passaggio la natura non impiega secoli per riprendere il sopravvento, ma pochi decenni.

C’è però un altro punto di vista da considerare: quello della essenza “umana”. Gli uomini non hanno bisogno della tecnica solo per sopravvivere. Hanno si trasformato il mondo per adeguarlo alle proprie aspirazioni, alla propria interiorità, per raggiungere i propri scopi, ma lo hanno fatto a costo di arrivare a dipendere totalmente dalle risorse tecniche. Le nuove necessità dell’uomo sono sempre meno determinate dalla sua natura e sempre più dallo stesso progresso tecnico-scientifico. La liberazione si è tradotta in una nuova forma di dipendenza.

Non è necessario insistere oltre su questo aspetto. Basta guardarci attorno. O riflettere su ciò che facciamo, sul tipo relazioni che viviamo. Ogni aspetto della nostra vita oggi è condizionato dalla tecnica, anche quando riteniamo di non essere “fuori controllo”. Può sembrare terribile, per molti versi lo è: ma l’ho già scritto sopra, non abbiamo alternative alla tecnica. Come scrive Ortega: “L’unica alternativa possibile all’uso delle macchine è quella di ritirarsi in se stessi e limitarsi a contemplare il mondo, rinunciando ai propri sogni e alle proprie aspirazioni per un futuro migliore”, e “vivendo in un continuo e vacuo sforzo di adattamento ai suoi (della tecnica) mutamenti”.

Questo non significa che non abbiamo alcuna possibilità di riprenderne almeno in parte il controllo, di sfruttarne positivamente i potenziali, di decidere se e quando cambiare marcia e svoltare. Significa che abbiamo una alternativa non all’uso, ma nell’uso.

Per darci un taglio, ed evitare di incartarmi ulteriormente, ricorro ad un esempio. Di fronte alla crescente digitalizzazione delle opportunità e delle competenze si parla del rischio di una “amnesia digitale”. Con questo si indica sia la precarietà dei contenuti, che possono andare dispersi per un qualsivoglia motivo, dall’attacco hacker all’incidente tecnico nel sistema, sia la perdita di competenze, la loro atrofizzazione, dal momento che l’operatività può essere demandata ai sistemi operanti sul web. Pensiamo alle mappe stradali, o alle calcolatrici sullo smartphone, o all’enorme deposito di conoscenze presente su Google. È chiaro che se ci affidiamo all’ausilio delle mappe digitali, che ci suggeriscono ogni svolta del nostro percorso, alla lunga perdiamo la capacità di orientarci autonomamente, di interrogare la segnaletica stradale, di affidarci al ricordo visivo. Lo stesso vale naturalmente se anziché ricorrere alle competenze di calcolo mi affido alla calcolatrice, o se per le mie ricerche consulto Google anziché faticare a rintracciare, a leggere e a comparare le fonti scritte.

È però da considerare un altro fatto: questo modo di procedere esige un investimento di tempo, di attenzione, di sforzo molto inferiore a quello classico. Se ci disabitua all’uso delle nostre facoltà, libera però anche molto spazio nel nostro cervello, che può essere riempito con altre conoscenze e competenze. È qui semmai che viene fuori il vero volto del problema: lo spazio liberato andrebbe riempito con conoscenze e competenze intelligenti, non col ciarpame. La responsabilità quindi non è della tecnica, che fino a questo punto ci offre una opportunità, ma nostra: siamo noi a dover decidere come utilizzare positivamente questi spazi. Il fatto che ciò non avvenga non può essere imputato all’invadenza degli strumenti, ma all’incapacità nostra di farne un uso sensato.

Quindi, lasciamo perdere le recriminazioni su come è andata a partire da Adamo ed Eva, o i vagheggiamenti di un’Arcadia presocratica desertificata dall’iper-razionalizzazione e dalle tecnologie. Abbiamo demandato alla tecnica la soluzione dei nostri problemi materiali, ci stiamo accingendo a demandarle anche il compito di pensare e decidere per nostro conto. È il momento di tracciare dei confini, e questo siamo ancora in grado di farlo: se non ci riusciremo come comunità umana, potremo comunque sempre volerlo come singoli. Non ci sono alibi.

Come vorrebbe dimostrare la postilla successiva.

2)  Ne La société du spectacle Debord indica tra i suoi riferimenti Cervantes, dandogli atto di aver precocemente intuito dove sarebbe andata a parare la “modernità”. E questo pur vivendo lo scrittore spagnolo in un paese che nel XVII secolo accusava un grave ritardo nella nascita di un capitalismo moderno. Nella seconda parte del Don Chisciotte attorno al “cavaliere dalla trista figura” viene infatti costruito un mondo artificioso, nel quale tutti recitano uno spettacolo ininterrotto, un po’ alla maniera del Truman Show. In questo caso lo spettacolo non è finalizzato come accade oggi a realizzare un dominio economico e psicologico totale, risponde semplicemente alla maligna voglia di divertimento del duca e della duchessa d’Aragona; ma si tratta comunque di una rappresentazione ingannevole, nella quale tutti hanno una loro parte, e che finisce per far perdere il senso della realtà anche a chi l’ha inscenata. Mano a mano che l’inganno si complica e richiede una partecipazione sempre più allargata ci accorgiamo che i primi a crederci sono proprio coloro che lo ordiscono, nel senso almeno che nello sbeffeggiamento della loro vittima cercano un riscatto, qualcosa che dia un surrogato di senso alle loro vuote esistenze.

L’ultima rilettura del romanzo mi ha rafforzato nel convincimento che avevo già maturato sessant’anni fa, al primo incontro: il cavaliere sarà un pazzo, almeno in base ai criteri di normalità che vigevano all’epoca e vigono tutt’oggi, ma non è un idiota. Attraversa tutte le sue disavventure consapevole di vivere nell’illusione, ma preferisce quella eroica che lui stesso si è scelta a quella squallidamente prosaica nella quale gli altri pretenderebbero di confinarlo. Lo dice chiaramente nel suo testamento: “Ed ancorché tutto avvenisse al rovescio di quello che io mi figuro, non potrà venire oscurata da malizia di sorta alcuna la gloria di aver tentata quest’alta e nuova impresa”. Ma non è l’unico ad avere questa consapevolezza: poco alla volta la sua determinazione scuote anche l’ignavia di Sancho Panza, e apre gli occhi a Sansone Carrasco, lo studente di Salamanca suo amico-avversario, che così lo ricorda dopo la morte: “Giace qui l’hidalgo forte / che i più forti superò, / e che pure nella morte / la sua vita trionfò. / Fu del mondo, ad ogni tratto, / lo spavento e la paura; / fu per lui la gran ventura / morir savio e viver matto”.

L’hidalgo non ha combattuto e vissuto invano.

Appendice

Informazioni più dettagliate sul situazionismo si possono trovare cliccando la voce su Wikipedia, e magari andando poi a confrontarle con quelle presenti su altri siti (ad esempio, su quello della Treccani, su Situazionismo.it, su Anarcopedia, ecc …) o in blog come Doppiozero e Carmilla; oppure consultando direttamente volumi come “AA VV, Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, Massari, 1998”, o “Mario Perniola, I situazionisti, Castelvecchi, 2005”, e “L’avventura situazionista. Storia critica dell’ultima avanguardia del XX secolo, Mimesis, 2013”.

È difficile dare un’idea dell’impatto reale che il situazionismo ha avuto sul pensiero alternativo del secondo novecento. Nato nell’ambiente delle avanguardie artistiche, il movimento si è poi spostato progressivamente sul terreno della critica rivoluzionaria, andando incontro nel frattempo a diverse scissioni (chi ha vissuto gli anni attorno al Sessantotto sa di cosa parlo) e prestandosi alle più svariate riletture. Gli va comunque riconosciuto di aver portato nella sinistra una ventata di rinnovamento, mettendo a nudo i ritardi e le miopie dei partiti tradizionali e la loro incapacità di far fronte alle trasformazioni in atto nel secondo dopoguerra.

Aggiungo solo un personalissimo ricordo di uno degli autori qui citati, Mario Perniola, una delle persone più aperte, intelligenti e disponibili che io abbia mai conosciuto, a dispetto di una non sempre totale convergenza delle nostre opinioni. Lo cito perché, a differenza di troppi altri cialtroni incontrati dentro e fuori del mondo accademico, mi ha regalato, col suo solo modo di essere, una straordinaria lezione di vita.

 “Manifesto”, redazionale del 17 maggio 1960, I.S. n. 4, Giugno 1960

Una nuova forza umana, che il quadro esistente non potrà soggiogare, si accresce di giorno in giorno con l’irresistibile sviluppo tecnico e l’insoddisfazione per i suoi impieghi possibili nella nostra vita sociale privata di senso. L’alienazione e l’oppressione nella società non possono venire pianificate in nessuna delle loro varianti, ma solo rigettate in blocco con questa stessa società. Ogni progresso reale è evidentemente sospeso alla soluzione rivoluzionaria della multiforme crisi del presente.

Quali sono le prospettive d’organizzazione della vita in una società che, autenticamente, “riorganizzerà la produzione sulle basi di una associazione libera ed uguale dei produttori”? L’automazione della produzione e la socializzazione dei beni vitali ridurranno sempre di più il lavoro come necessità esterna, e daranno infine la libertà completa all’individuo. Liberato così da ogni responsabilità economica, liberato da tutti i suoi debiti e le sue colpe verso il passato e gli altri, l’uomo avrà a disposizione un nuovo plusvalore, incalcolabile in denaro perché impossibile da ridurre a misura del lavoro salariato: il valore del gioco, della vita liberamente costruita.

L’esercizio di questa creazione ludica è la garanzia della libertà di ognuno e di tutti, nel quadro della sola uguaglianza garantita con il non sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La liberazione del gioco, è la sua autonomia creativa, che supera l’antica divisione tra il lavoro imposto e i divertimenti passivi. La Chiesa ha bruciato un tempo le cosiddette streghe per reprimere le tendenze ludiche primitive conservate nelle feste popolari. Nella società attualmente dominante, che produce in maniera massiccia degli squallidi pseudo-giochi di non partecipazione, una vera e propria attività artistica è classificata necessariamente come criminalità. È semiclandestina. Si presenta come fatto scandaloso.

Cos’è, in effetti, la situazione? È la realizzazione di un gioco superiore, con più esattezza, è la provocazione a quel gioco che è la presenza umana. I giocatori rivoluzionari di tutti i paesi possono unirsi nell’I.S. per cominciare ad uscire dalla preistoria della vita quotidiana. Proponiamo fin d’ora un’organizzazione autonoma dei produttori della nuova cultura, indipendente dalle organizzazioni politiche e sindacali che esistono in questo momento, poiché non riconosciamo loro la capacità di organizzare nient’altro che il riassetto dell’esistente.

L’obiettivo più urgente che fissiamo per questa organizzazione, dal momento in cui esce dalla sua fase sperimentale iniziale per una prima campagna pubblica, è la presa dell’UNESCO. La burocratizzazione, unificata su scala mondiale, dell’arte e di tutta la cultura è un fenomeno nuovo che esprime la profonda affinità dei sistemi sociali coesistenti nel mondo, sulla base della conservazione eclettica e della riproduzione del passato. La risposta degli artisti rivoluzionari a queste nuove condizioni deve essere un tipo nuovo di azione. Siccome l’esistenza stessa di questa concentrazione direttoriale della cultura, localizzata in un solo edificio, favorisce la conquista con un putsch; e siccome l’istituzione è del tutto sprovvista della possibilità di un uso sensato al di fuori della nostra prospettiva sovversiva, ci troviamo giustificati, di fronte ai nostri contemporanei, se ci impossessiamo di questo apparato. E l’avremo. Siamo determinati ad impadronirci dell’UNESCO, anche se per poco tempo, perché siamo sicuri di fare all’istante un’opera che resterà tra le più significative per illuminare un lungo periodo di rivendicazioni.

Quali dovranno essere i caratteri principali della nuova cultura, prima di tutto in rapporto all’arte del passato?

Contro lo spettacolo, la cultura situazionista realizzata introduce la partecipazione sociale.

Contro l’arte conservata, è un’organizzazione del momento vissuto, direttamente.

Contro l’arte parcellare, sarà una pratica globale basata contemporaneamente su tutti gli elementi utilizzabili. Tende naturalmente ad una produzione collettiva e senza dubbio anonima (almeno nella misura in cui, non essendo le opere immagazzinate in merci, questa cultura non sarà governata dal bisogno di lasciare delle tracce). Le sue esperienze si propongono, come minimo, una rivoluzione del comportamento ed un urbanismo unitario dinamico, suscettibile di essere esteso all’intero pianeta, e di essere poi diffuso su tutti i pianeti abitabili.

Contro l’arte unilaterale, la cultura situazionista sarà un’arte del dialogo, un’arte dell’interazione. Gli artisti — con tutta la cultura visibile — si sono separati del tutto dalla società, come sono separati tra loro dalla concorrenza. Ma anche prima di questa impasse del capitalismo, l’arte era essenzialmente unilaterale, senza risposta. Essa supererà questo periodo chiuso del suo primitivismo a favore di una comunicazione completa.

Poiché tutti diventeranno artisti ad uno stadio superiore, cioè in modo inseparabile produttori-consumatori di una creazione culturale totale, si assisterà alla rapida dissoluzione del criterio lineare di novità. Poiché tutti diventeranno, per così dire, situazionisti, si assisterà ad un’inflazione multidimensionale di tendenze, esperienze, di “scuole”, radicalmente differenti, e tutto questo non più successivamente ma simultaneamente. Inauguriamo ora quello che sarà, storicamente, l’ultimo dei mestieri. Il ruolo di situazionista, di dilettante-professionista, di anti-specialista è ancora una specializzazione fino a quel momento di abbondanza economica e mentale in cui tutti diventeranno «artisti», in un senso che gli artisti non hanno raggiunto: la costruzione della loro vita. Tuttavia, l’ultimo mestiere della storia è così vicino alla società senza divisione permanente del lavoro, che non gli si riconosce la qualifica di mestiere quando fa la sua apparizione nell’I.S. A quelli che non ci comprendessero bene, diciamo con un irriducibile disprezzo: “I situazionisti, di cui vi credete forse i giudici, vi giudicheranno un giorno o l’altro. Vi aspettiamo alla svolta, che è la liquidazione inevitabile del mondo della privazione, sotto tutte le forme. Questi sono i nostri fini, e saranno i fini futuri dell’umanità”.

Relazione di Spagna

di Paolo Repetto, 22 agosto 2019

Avevo promesso agli amici una relazione veridica sulla mia scappata in terra ispanica, ed eccomi sollecito all’appuntamento. La butto giù così, a caldo (è proprio il caso di dirlo, date le temperature di Madrid), cercando di non disperdere le impressioni e le suggestioni che si sono affastellate in questi giorni roventi. Non sarà quindi una cosa ordinata e sistematica, buona per le guide EDT (del resto, non credo si aspettino alcunché del genere), ma una zuppa leggera e fredda – un gazpacho, tanto per entrare in tema, tanto sale e poche vitamine. Mi sono imposto però un minimo di traccia: parlerò prima di quel che ho visto e poi di quel che ho fatto.

Con una premessa: in pratica questo è stato il mio primo vero – per quanto breve e circoscritto ad un’area molto limitata – soggiorno in Spagna. Avevo toccato il suolo spagnolo un paio di altre volte, l’ultimo pochi anni fa, con incursioni brevissime, e non ne avevo tratto alcuna impressione. O meglio, nell’occasione più recente ero scappato via di corsa, dicendomi, alla maniera di Obelix: “Sono matti questi spagnoli”. Arrivavo da un giro nella zona catara, dai paesini pacifici e addormentati dei Pirenei francesi, e appena attraversato il confine mi sono trovato in mezzo a ruspe, cantieri, pavimentazioni e asfaltature a tappeto, in ogni angolo. Dava la sensazione di un furore demolitorio febbrile, nel tentativo di recuperare il tanto tempo perso tra guerra civile e franchismo, ma senza alcun criterio o rispetto conservativo del passato: in buona sostanza, quel poco che avevo visto non mi era piaciuto affatto. Quanto agli spagnoli in genere, ne avevo un’immagine un po’ stereotipa, condizionata dalle reminiscenze manzoniane, dagli orrori della Conquista e dallo strapotere calcistico: per il resto, non dico flamenco e paella, ma quasi (di alcune ragazze spagnole, invece, conservo da sempre un ottimo ricordo).

Insomma, appena approdato a Madrid l’impressione di attivismo frenetico si è rinnovata: cantieri ovunque, lavori in corso in ogni quartiere. Ma con una differenza: intanto i cantieri una volta aperti vengono poi anche chiusi, a differenza che a casa nostra, nel senso che le cose viaggiano, e a ritmi cinesi. La più alta concentrazione di martelli pneumatici e perforatrici per chilometro quadrato mai vista, inizio lavori alle sette del mattino e sospensione in tarda serata, con l’accorgimento però di creare il minor disagio possibile alla viabilità dei residenti e ai flaneurs come me. Poi, i risultati si vedono: i palazzi del sei e del settecento paiono costruiti ieri, le facciate tutte riportate a nuovo, e non solo nel centro della città, ma ovunque. Gli spagnoli sembrano avere in orrore la patina del tempo, e detto così potrebbe dare l’idea di una città posticcia, di un enorme outlet turistico, ma l’effetto non è quello. Anzi, dopo un primo sconcerto ti accorgi che il risultato è una personalità specifica e forte: una città con un grande passato, che lo mostra tirato a lucido e proiettato nel futuro. L’esatto contrario di quel che accade, ad esempio, per Roma. Anche un passatista come me, nostalgico dell’ancient time, deve ammettere che gli spagnoli hanno centrato gli interventi. I viali sono magnifici, gli stili architettonici dei palazzi che li costeggiano sono perfettamente amalgamati, anche quando la “rivisitazione” è stata più pesante, nelle vie interne sono conservate tutte le vecchie insegne, le vetrine e i rivestimenti caratteristici, ma tutto è ripulito e restaurato, le piazze sono luoghi di vita e di incontro e non enormi parcheggi, il traffico è scorrevole, la metropolitana ti porta ovunque, non c’è una buca nei marciapiedi. Ho visto quel che vorrei vedere quando giro per l’Italia, e non trovo mai. La mia non è esterofilia: semmai, al contrario, è eccesso di amore per il mio paese, e disappunto nel vederlo così ridotto.

Ma scendiamo più nel particolare, alle cose cui ostinatamente bado quando mi muovo fuori d’Italia, o che mi si impongono, e rappresentano i criteri coi quali misuro la temperatura civile di un luogo. Anche qui, vira tutto al positivo. Non ho visto, o quasi, escrementi di cani per le strade. A dire il vero ho visto anche pochi cani. Dal che si desume che gli spagnoli sono poco inclini alla moda animalista che da noi furoreggia, oppure che sono più responsabili e ripuliscono accuratamente. Opterei per la prima ipotesi. Ho trovato, inoltre, servizi igienici pubblici pulitissimi (e gratuiti) in tutte le piazze, nei musei, nei giardini e in ogni luogo che ho visitato: il che, soprattutto per gli amanti un po’ attempati, come me, del latte al cioccolato e della birra, ha la sua importanza. Nessuno ha poi tirato a fregarmi sui prezzi e mi è stato rilasciato sempre ed ovunque, nei bar, nei negozi, nei ristoranti, lo scontrino fiscale. Ho trascorso diverse serate bighellonando attorno a quello che è l’ombelico di Madrid, la Puerta del Sol, ascoltando rapito i concertini di un fantastico sestetto d’archi che si esibiva per strada, ma soprattutto ammirando lo spettacolo della folla che scendeva compostamente o risaliva verso la piazza da sette grandi vie laterali, e non ho sentito una volta qualcuno alzare la voce, malgrado la metà almeno dei turisti fosse italiana, e per la maggioranza romana. Segno che la città stessa induce ad una fruizione pacifica, discreta, rispettosa anche coloro che di norma hanno comportamenti diversi. C’è in giro molta polizia (la stazione della metropolitana di Puerta del Sol è stata teatro dell’attentato del 2004), ma è una presenza tutt’altro che invadente. Gli ambulanti abusivi sono provvisti di teli a chiusura rapida, per facilitare le fughe repentine, ma in realtà sembra siano tollerati o addirittura ignorati dagli agenti: credo che la pantomima del fuggi fuggi che scatta alla comparsa di una loro auto faccia parte delle attrattive turistiche, perché non una volta ho visto l’auto fermarsi e gli agenti scendere. E ho anche notato che ci sono pochissimi mendicanti, a smentire l’immagine che della città davano gli scrittori spagnoli fino a tutto l’800. Ancora, ho mangiato bene, e molto, ovunque, a prezzi più che onesti, esattamente quelli dichiarati nei menù esposti, ho ritrovato intatto lo zainetto che avevo dimenticato in trattoria e sono stato pazientemente e cortesemente assistito a più riprese dagli addetti di fronte ad ogni operazione di prelievo, versamento o acquisto automatizzato, che per me costituiscono ostacoli quasi insormontabili. Cose che possono apparire normalissime, ma nella mia quotidiana battaglia in patria non lo sono affatto. Infine, fondamentale, ho avuto accesso gratuito a tutti, sottolineo tutti, i musei della città, semplicemente esibendo il documento d’identità con su scritto Dirigente scolastico (in qualche caso non ne ho avuto neppure bisogno, perché nei festivi l’ingresso è gratuito). Da noi non sono considerati validi neppure gli attestati specifici rilasciati dalle scuole.

Ora, magari sono stato fortunato, o magari sono altri i parametri di giudizio da adottare: ma per quel che mi riguarda Madrid (e così anche le altre due città che ho visitato) è promossa a pieni voti.

Veniamo ora a quel che ho fatto, che non è poi granché diverso da quel che fanno tutti i turisti. Ho appunto visitato tutti i possibili musei, a partire dal Prado, ma ho trovato eccezionale, per come è strutturato e per quel che offre, soprattutto il Thyssen-Bornemisza. Vi sono ospitate, tra l’altro, alcune tele stupende dei miei negletti paesaggisti nordamericani, Bierstadt, Church e Cole, e persino di George Catlin (non una delle loro opere è presente nei musei italiani). Al Prado la sala dedicata a Jeronimus Bosch vale da sola il viaggio sino a Madrid. Al contrario, al Reina Sophia faceva un po’ specie vedere la folla accalcarsi ad ammirare “Guernica” (che, diciamolo, al di là del valore ideologico è un grande falso, furbescamente costruito) e ignorare completamente le opere di Tanguy e di Magritte. Dal momento che a me interessano più i visitatori che le opere, e che ero in grado di cogliere solo i commenti degli italiani, limitati in genere alle lamentele per la lunga coda sotto il sole giaguaro del primo pomeriggio, non ne ho ricavato un gran campionario. Solo, all’uscita della sedicesima sala dei pittori novecentisti spagnoli, un: “A Marià, m’hai fatto rostì n’ora là fori, pe’ ste du’ palle!”

Ho fatto naturalmente anche la cosa più turistica che si possa immaginare, quella che ho sempre pensato riservata ai giapponesi. Ho preso il bus che fa il giro della città, quello col piano superiore scoperto, e non me ne sono pentito affatto. Col biglietto giornaliero si può scendere a ciascuna delle fermate previste e risalire sul mezzo successivo (ne transita uno ogni dieci minuti), e la cosa è estesa anche al circuito esterno, che porta nelle zone più periferiche. In questo modo ho potuto constatare come la pulizia e il risanamento abbiano toccato o stiano toccando ogni parte della città. Sono stati operati interventi ciclopici, per destinare ad esempio al verde pubblico immense aree in pieno degrado, che un tempo accoglievano attività produttive ormai obsolete. Ma il verde non manca nemmeno al centro della città: il parco del Retiro mi ha consentito di difendermi egregiamente dal solleone nei pomeriggi più torridi, in mezzo ad un silenzio vivo, animato.

Non mi sono comunque limitato alle visite d’obbligo. Avevo in mente alcune mete ben precise. Sono dunque andato in traccia di Cervantes: ho visto la casa in cui ha abitato nell’ultimo periodo (in Calle Cervantes, naturalmente: tra l’altro, una parte dell’edificio è in vendita, e mi sono informato sul prezzo), ho visitato la sua tomba nel convento delle Trinitarie Scalze (una delusione: una lastra marmorea recentissima, con su una breve frase del poeta e per il resto completamente spoglia, che fa a pugni con l’arredo pesantemente ma coerentemente barocco grondante dalle pareti e dal soffitto della chiesa), ho mangiato (bene) nel ristorante Cervantes (che chissà perché si spaccia per ristorante italiano – il cuoco è cinese, il padrone spagnolo, il cameriere sudamericano) e ho cercato libri antichi (troppo cari per le mie tasche) nella libreria Cervantes y Compañia (comunque, un gioiellino). Forse, dopo questa immersione, mi deciderò a rileggere come si deve il Don Chisciotte. Nella stessa via è nato ed ha abitato per tutta la vita anche Lope de Vega, che a quanto pare se la passava bene, perché la casa è piccola ma molto carina, e ha mantenuto tutti i tratti originari: i due comunque non si sopportavano, e immagino che, abitando a brevissima distanza, abbiano dovuto fare salti mortali per non incontrarsi. Lope mi è caro, come si suol dire, “di sponda”, per la traduzione e la messa in scena di molte sue opere da parte di Camus. Rileggendolo con gli occhiali camusiani ho scoperto un autore incredibilmente attuale, ma di una modernità che sta agli antipodi di quella del Chisciotte. Ho anche cercato e trovato, ma non visitato, la casa di Ortega y Gasset. La mappatura dei luoghi nei quali i nostri autori preferiti hanno trascorso la loro esistenza, specie se erano sedentari e abitudinari come Ortega e Lope, non è l’attività puramente collezionistica e gratuita che potrebbe sembrare: l’orientamento delle loro finestre spiega al contrario moltissimo di come vedevano il mondo. Ad esempio, Ortega y Gasset abitava proprio di fronte all’ingresso principale del parco del Retiro, di quello cioè che, complici le giornate torride, mi è sembrato un vero e proprio eden: e deve aver assistito con angoscia alla sua crescente appropriazione e magari indisciplinata frequentazione da parte dei borghesi e dei proletari massificati nel periodo tra le due guerre. Dalle sue finestre assisteva alla progressiva “dissacrazione del mondo”, non temperata da una crescita di istruzione e quindi della capacità individuale di responsabilizzarsi. Per questo ne “La ribellione delle masse” prefigura l’avvento prossimo del populismo fascista e anche quello più remoto, quello al quale stiamo assistendo, del populismo mediatico “democratico”.

Non c’è però solo Madrid, di cui pure, anche dopo una permanenza di una sola settimana, rimarrebbe molto altro da dire. Ho visitato, con blitz giornalieri, le due città più vicine alla capitale, Toledo al sud e Segovia al nord, attraversando per arrivarci un paesaggio lunare (soprattutto nel viaggio verso Toledo): brullo, piatto, bruciato completamente dal sole. Mi sono chiesto come potessero sopravviverci le pecore di cui il cavaliere della Mancha fa strage, nella totale assenza di un solo arbusto o filo d’erba verdeggiante. E ho anche visto, ai margini dell’autostrada, le scorie di un boom che per qualche anno, a cavallo tra i due millenni, deve avere dato alla testa agli spagnoli: intere aree commerciali e industriali abbandonate, capannoni tirati su in tutta fretta quindici o venti anni fa e già vuoti e fatiscenti, che in prospettiva non saranno neppure rimangiati dalla vegetazione perché vegetazione non ce n’è, e che avviliscono ulteriormente con la loro bruttura e il loro messaggio di precarietà un panorama già di per sé desolante.

Tanto più sorprendente è dunque trovare quasi all’improvviso, in un simile ambiente, piccole città che conservano intatta tutta la loro bellezza storica e architettonica, e che investono sul turismo senza lasciarsene, almeno per il momento, deturpare. Segovia, in particolare, ha attivato tutti i miei sensori alla bellezza, resi ancora più acuti proprio dallo squallore sofferto durante il viaggio. C’è un acquedotto romano perfettamente integro, che sovrasta di trenta metri l’ingresso della città e unisce per una lunghezza di oltre settecento i due versanti della valle. È costruito con blocchi di granito posati a secco, che si reggono a incastro, e sta lì da duemila anni, mentre i nostri ponti autostradali crollano dopo nemmeno mezzo secolo: per cento generazioni, quelle di coloro che vivevano alla sua ombra o che lo scorgevano di lontano, ha simboleggiato tanto la grandezza del passato quanto la sicurezza di una continuità nel futuro; anche perché fino ad un paio di decenni fa è rimasto attivo, continuando a rifornire d’acqua metà della cittadinanza.

Un discorso analogo vale per la cattedrale, o per l’incredibile Alcazar, ma anche per qualsiasi altra vestigia dell’altrieri, chiese, palazzi nobiliari o case borghesi, botteghe artigianali. Mentre ne ammiri il disegno o la semplicità elegante o la ricchezza non puoi non pensare alle sofferenze di tutti coloro che queste cose le hanno costruite, alle fatiche che sono costate, alle ingiustizie di cui sono impastate le mura, i pilastri e le colonne; ma hai l’impressione che un sia pur minimo riscatto di tutto ciò arrivi proprio dalla loro durata, dalla sfida vittoriosa al tempo e dalla testimonianza di un gusto del bello che ancora ci affascina ma che non siamo più in grado di coltivare concretamente.

Queste considerazioni valgono naturalmente per ogni luogo che abbia mantenuto ben visibile il suo rapporto con la storia, quindi non sono applicabili solo alla Spagna. Ma la mia impressione è che in terra spagnola questo rapporto sia davvero ancora pulsante, sia molto più intensamente e genuinamente sentito che dalle nostre parti. E che non si traduca dunque solo in un feroce campanilismo interno o in atteggiamenti sciovinisti nei confronti dell’esterno. Non so per quanto tempo ancora gli spagnoli riusciranno a gestirlo positivamente, senza scadere nelle caricature rozze e ideologiche dietro le quali altrove si nasconde la realtà dell’uniformazione culturale. Al momento, visto che anche a prezzo di una lunga “marginalità” storica hanno conservato quasi intatte e, sia pure per necessità, bene o male funzionali le loro vestigia storiche, sembrano ancora capaci di difendersi. È un’impressione a pelle, ripeto, limitata a una porzione molto piccola e probabilmente molto particolare del paese. Ma è sufficiente a farmi pensare che la Spagna sia un paese molto vivibile (sempre che i suoi abitanti si diano in tempo una calmata).

Da ultimo, aggiungo un paio di digressioni estemporanee, che non hanno a che vedere con lo specifico spagnolo, quanto piuttosto con l’occasione creata dal viaggio.

Mi era già capitato molte altre volte di cogliere in mezzo alla folla delle fisionomie famigliari, ma a Madrid il riconoscimento da casuale è diventato ad un certo punto intenzionale, scatenando un vero e proprio gioco di ricerca. Tutto ha avuto inizio quando ho incrociato in una calle un tizio che somigliava come una goccia d’acqua ad un mio conoscente di Montaldeo. Stavo per avvicinarmi e salutarlo, ma mi sono trattenuto all’ultimo momento, quando anche lui ha incrociato me e non ha dato segno di riconoscermi. Ancora sotto l’impressione di quella straordinaria epifania, nemmeno un’ora dopo ho incontrato su un passaggio pedonale il sosia quasi perfetto di un altro conoscente. Non l’ho salutato ma mi sono bloccato a metà dell’attraversamento, a vederlo allontanarsi di schiena, rischiando di farmi investire da un automobilista impaziente. Di lì è partita, ed è andata avanti anche nei giorni appresso, una serie di altre quasi-agnizioni, favorite ormai dal fatto che in tutti i volti che incrociavo cercavo le possibili somiglianze.

Per fortuna il gioco non si è fermato lì. Sarebbe stato piuttosto stupido. Mi ha portato invece a riflettere sul senso e sull’origine di queste somiglianze, con un percorso altrettanto strampalato, ma che penso valga la pena ricostruire sommariamente. Si dice che ciascuno di noi abbia in qualche parte del mondo almeno un sosia. A me pare una bufala colossale, ma è anche vero che su sette miliardi di persone, o su due se escludiamo gialli, neri, andini e ed esquimesi, qualcuno che ci somigli parecchio potrebbe ben esserci. Non ha dunque senso sperare (o temere, a seconda dei caratteri) di incontrare un sosia, mentre è interessante definire tutta una serie di particolari tipologie morfologiche, che possono essere anche trasversali rispetto al colore o ai caratteri specifici che in genere connotano un’etnia.

Senza tirarla troppo per le lunghe: i “tipi” fisici individuati dalle varie scuole fisiognomiche, da Aristotele a Lombroso, passando per Giovanbattista della Porta e Lavater, in effetti esistono. Sono senz’altro da rigettare le correlazioni dirette tra l’aspetto esteriore e le qualità dell’anima, o il carattere, se vogliamo metterla giù in termini laici, soprattutto quelle individuate dalla deriva pseudo-scientifica lombrosiana o ipotizzate a supporto dell’ideologia razzista, ma non si può nemmeno escludere che le successive ricombinazioni genetiche agiscano entro uno spettro vastissimo, e pur tuttavia limitato. In altre parole, sono convinto che la determinazione genetica di alcuni caratteri fisici (alto, basso, esile, massiccio, ecc…) combinandosi con le condizioni ambientali (naturali, sociali e culturali), determini o favorisca l’assunzione di comportamenti o modelli di pensiero simili. E che ciascuno di noi sia dotato di sensori “naturali” per il riconoscimento di tali caratteri, se sa dare loro ascolto.

Questo con Madrid non c’entra niente, ma a me trasmette una certa sicurezza. Ho l’impressione di sapere “a pelle”, anche a migliaia di chilometri di distanza dalla nicchia dei miei rapporti consueti, con chi ho o potrei avere a che fare. E devo dire che in genere la cosa funziona. A Madrid, ad esempio, ha sempre funzionato.

Infine, un passaggio al volo. Anzi, all’imbarco per il volo. Al momento della prenotazione del biglietto le compagnie offrono la possibilità di accedere, per una decina di euro in più, alla priority di imbarco: tradotto, sali prima sull’aereo. Dal momento che i posti sono comunque già assegnati (e non in base alla priority), e che allo sbarco l’uscita è vincolata unicamente alla distanza dal portellone, l’unico vantaggio è appunto quello di imbarcarsi con qualche minuto d’anticipo. Al Gate 20 dell’imbarco per Bergamo la fila della priority era sei volte più lunga di quella dei viaggiatori “ordinari”: col risultato che tra gli ultimi della priority, che avevano pagato dieci euro in più, e gli ultimi della fila normale non è trascorso nemmeno un minuto, sempre ammettendo che stiparsi uno o dieci minuti prima in quella scatola di sardine comporti un qualche vantaggio. Mi è venuto in mente l’episodio del cancelliere Ferrer: E tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guardare da quella parte donde s’annunziava l’inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano né più né meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant’è, tutti s’alzavano. E ho pensato che quando gli irriducibili come me saranno ridotti a meno del dieci per cento, la compagnia dovrà abolire la possibilità di accesso ordinario e inventare qualche nuova forma di priorità.

Insomma, sono andato a Madrid in cerca di Cervantes, e sulla via del ritorno ho ritrovato Manzoni. Se si spegne la tivù, anche in Italia è rimasto qualcosa di buono.


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Semplicemente, Europa

di Paolo Repetto, 30 gennaio 2019

C’è un libretto esile, che si legge in mezz’ora scarsa, dal titolo: “Una certa idea d’Europa”. In quelle poche pagine George Steiner identifica ciò che ha fatto (e in certa misura fa ancora) della civiltà europea qualcosa di totalmente diverso da ogni altra nel mondo, riconducendone l’essenza a cinque peculiarità, che lui definisce “assiomi”. È una lettura piacevole e sorprendente, che fornisce inaspettate argomentazioni contro il rifiuto della comune appartenenza culturale predicato da populisti, sovranisti e opportunisti di passaggio. Si ha l’impressione di sfogliare un album di schizzi, dietro i quali si intravede l’affresco di una intera civiltà, ma dai quali emergono anche i dubbi sulla sua sopravvivenza (i viaggiatori del Gran Tour, che appunto compilavano quegli album, rappresentavano soprattutto rovine).

Steiner riassume così i cinque “assiomi”:

  • il Caffè, inteso come luogo-simbolo di confronto, di discussione;
  • un paesaggio su scala umana (e percorribile a piedi);
  • l’intitolazione di strade e quartieri a statisti, scienziati, artisti e letterati;
  • la duplice matrice culturale (Atene e Gerusalemme);
  • la consapevolezza di vivere un capitolo “conclusivo”, una “stanchezza della storia”: tratto che è proprio solo della cultura europea.

Da essi fa discendere tutte le caratteristiche culturali e storiche del continente. Aggiunge anche due corollari problematici, costituiti uno dal persistere dei particolarismi, linguistici, etnici o culturali, l’altro dal peso dell’impronta cristiana, e in particolare dal nodo mai risolto dell’antisemitismo.

Individua infine alcuni fattori di apparente debolezza, che potrebbero però essere sfruttati in positivo:

  • il ritardo scientifico, o perlomeno il gap che si sta creando nel campo della ricerca rispetto agli USA (e oggi anche alla Cina), che va recuperato indirizzando la ricerca stessa in altre direzioni;
  • il ritardo economico, che potrebbe indurre o almeno facilitare scelte di modelli produttivi in totale controtendenza;
  • il progressivo allontanamento degli europei dalla religione, l’agnosticismo diffuso, che possono impedire o rallentare i processi di radicalizzazione fondamentalista (in atto invece nel mondo islamico, nella società americana e un po’ in tutte le aree del pianeta), sempre che non aprano la strada ad una religione del mercato e del consumo.

 

Può lasciare perplessi la totale assenza di riferimenti a sistemi istituzionali, idealità o ideologie politiche, modi di produzione, a tutto ciò insomma che ci si aspetta di trovare indicato a fondamento o carattere specifico di una civiltà. Ma ci si rende conto subito, procedendo nella lettura, che i riferimenti sono impliciti, e discendono per via naturale dalle scelte operate da Steiner. In realtà il libretto è letteralmente un pretesto, qualcosa che precede il discorso “profondo”, lo apre e lo stimola. Va gustato come un aperitivo, o meglio ancora come un antipasto, che non deve saziare, ma, al contrario, dovrebbe risvegliare l’appetito. Io mi muoverò all’interno di questo pretesto, senza avere naturalmente la presunzione di mettermi a confronto con Steiner. Intendo solo sviluppare alcuni punti del suo discorso per come li ho colti io, con le riflessioni che mi hanno suggerito (mescolandole magari a quelle scaturite dalla recente rilettura de “La ribellione delle masse” di Ortega y Gasset e degli scritti di Andrea Caffi e di Denis de Rougemont), ipotizzando per queste pagine un uditorio giovanile, al quale le cose che andrò a dire non appaiano scontate. Vorrei verificare se le peculiarità individuate da Steiner sussistono ancora, se ancora siano identificative della civiltà europea e, in caso di riscontro positivo, come possano essere declinate nella situazione attuale. Per farlo procedo nell’ordine che Steiner ha dettato.

 

 

  1. a) Cominciamo dal Caffè. Come abitudine alimentare è stata introdotta dalle scoperte geografiche del ‘500, quindi è un prodotto tipico della modernità. Come consuetudine di frequentazione sociale ha rappresentato per un paio di secoli il luogo per eccellenza di ritrovo degli intellettuali, dai letterati agli avvocati, la sede di uno scambio culturale che avviene al di fuori delle sedi istituzionali. Tale consuetudine si è sviluppata soprattutto nel periodo illuministico, fino a far diventare il Caffè un riferimento d’obbligo per il nuovo ceto borghese, in alternativa al salotto aristocratico e alla bettola plebea. Non a caso la bevanda eletta a simbolo è un eccitante: tiene svegli, al contrario del vino o della birra, aiuta a fare e a pensare, anziché a stordirsi e a dimenticare. In Italia è stato Goldoni a certificarne il ruolo (La bottega del caffè), mentre i fratelli Verri gli hanno significativamente intitolata la loro rivista. Ed è altrettanto significativo che i poteri costituiti abbiano sempre avuto i Caffè in sospetto, tanto che già Carlo II aveva tentato, invano, di far chiudere quelli inglesi. Almeno fino alla metà del secolo scorso la loro immagine è rimasta ben distinta rispetto a quella di altri locali pubblici, del pub, o del bar, soprattutto di quello americano, caratterizzandosi per un’atmosfera fortemente “attiva” e per un livello “alto” di socializzazione, laddove in quelli gli ingredienti (l’alcool, ad esempio, ma più recentemente anche la musica onnipresente) inducono piuttosto all’isolamento o a una conversazione futile nella sostanza e primitiva nei modi (non a caso si distingue lessicalmente tra le chiacchiere da bar e i discorsi da Caffè)

Il Caffè è dunque associabile a una tradizione di libero dibattito che spazia in ogni ambito, politico, intellettuale, artistico o filosofico, e dal quale ha origine quella che oggi chiamiamo “opinione pubblica”: ma soprattutto al ceto sociale che quella tradizione l’ha inventata. L’indicazione di Steiner sottintende l’esistenza e l’importanza in Europa di una classe sociale inesistente altrove, che ha impostato le istituzioni e le relazioni in una maniera sua caratteristica. Si parla di borghesia, di spirito borghese, e quindi di “valori” borghesi.

Steiner sembra non avere dubbi sul fatto che questi valori davvero esistano. Io qualche domanda in proposito me la sono posta, tanto tempo fa, arrivando alla conclusione che “un’ambiguità di fondo ha da sempre segnato la concezione “borghese”: mentre da un lato essa propugnava l’emancipazione dell’individuo, attraverso la costruzione del sistema dei diritti, a salvaguardia delle libertà personali, dall’altro mirava alla affermazione di una economia di mercato, e conseguentemente di una società industriale, il cui libero sviluppo doveva essere svincolato da tutte le pastoie tradizionali e nella quale l’individuo trovava spazio eminentemente, o soltanto, in qualità di produttore […] Le esigenze economiche hanno finito per prevalere sulle istanze sociali. E così di fatto la società dei diritti ha tranquillamente negato il diritto di appartenenza al genere umano a gran parte dell’umanità, reintroducendo proprio nel XVII e nel XVIII secolo la schiavitù, salvo poi abolirla non appena ha iniziato ad essere meno remunerativa rispetto alle nuove e più universali forme di sfruttamento introdotte dal modo di produzione industriale. L’etica del lavoro si è tradotta in giustificazione morale dello sfruttamento, e il trionfo dell’economia di mercato ha di volta in volta suggerito le risposte aggressive o difensive del nazionalismo. Allo stesso modo, la ribellione contro l’arbitrarietà del potere è in fondo approdata, nella sostanza, solo alla finzione della partecipazione democratica, e per di più in un ambito politico che nel frattempo andava demandando ogni reale funzione decisionale ai nuovi poteri forti, quelli economici. […]

Per quanto possa sembrare paradossale (dal momento che proprio al trionfo dello spirito borghese viene in genere associato il primato dell’etica rispetto alla morale), la borghesia non è stata in grado di produrre né un’etica (sistema di valori) né un’etichetta (stili di comportamento). […] O meglio, lo ha fatto, almeno nella fase di attacco, quando attraverso l’illuminismo ha elaborato il sistema del diritto borghese (fondato sulle libertà individuali – ivi comprese quelle alla proprietà, al commercio e all’imprenditoria) e il quadro delle istituzioni che lo regolamentano e che su esso si reggono (lo stato), ha creato un nuovo contesto politico e culturale di riferimento (la nazione) e prodotto strumenti extra-istituzionali di salvaguardia e di pressione (l’opinione pubblica), ed ha infine affidato al lavoro-dovere, al lavoro-realizzazione e alle realizzazioni – tecnologiche e capitalistiche – del lavoro il riscatto (attraverso l’idea di progresso) della perdita di senso dell’esistenza individuale e collettiva – della vita e della storia. Ma questi valori – libertà, nazione, stato, lavoro, progresso – che possono apparire quanto mai “forti”, si sono prestati da sempre ad interpretazioni ambigue e contraddittorie, e pur tutte legittimate da una intrinseca debolezza e duttilità, dal relativismo scaturente dal loro carattere convenzionale: così da poter essere piegati di volta in volta a rispondere alle trasformazioni indotte dal modo di produzione capitalistico.

 

Sottoscriverei ancora oggi queste parole, almeno per quanto concerne le “idee forti” di stato, di progresso, di nazione, e in parte anche i concetti di libertà, di democrazia e di lavoro-dovere: ma aggiungendo come postilla un’altra citazione, molto più sintetica, da Alain Touraine (La fine della modernità), perché coglie assai bene lo spirito di quanto affermato da Steiner. Recita così: “Pur con tutte le connotazioni negative che sono andate ad accumularsi dietro al termine borghesia, va riconosciuto che la società borghese è stata alla base dei movimenti rivoluzionari del XVII e del XVIII secolo e che ha finalmente legittimato l’espressione dei sentimenti nella vita personale, familiare e pubblica. È in questa società borghese – scientifica e razionale, insomma laica – che abbiamo vissuto. Ed è a questo modello di società che ci siamo riferiti nella battaglia contro le ingiustizie sociali, l’arbitrarietà del potere, il nazionalismo aggressivo e il colonialismo oppressivo.”

Ovvero, per dirla in altri termini: i valori, per quanto passibili di ambiguità e interpretazioni arbitrarie, quella società li ha espressi, e il fatto che siano poi stati declinati in maniera distorta non ne inficia la validità. Oggi i Caffè tradizionali sono quasi del tutto scomparsi, e lo sa benissimo anche Steiner. Così come è scomparsa o è diventata tutt’altra cosa la borghesia cui si riferisce. Ma questo non significa abbiano perso senso la razionalità, il laicismo, l’egualitarismo, la libertà individuale, per citare solo i valori più importanti, e risultino obsoleti quelli che sono stati i loro veicoli, il dibattito, il confronto, la rappresentanza. Per cui dobbiamo ancora fare riferimento ad essi, visto che nel frattempo non risulta ne siano stati proposti di altrettanto validi: e dobbiamo semmai vigilare e spingere per una loro reinterpretazione più genuina, e difenderne la corretta applicazione nei rapporti sociali.

 

Per tornare allo specifico dell’indicazione di Steiner, direi allora che uno degli slogan attorno ai quali riaggregarsi potrebbe essere proprio “riprendiamoci il Caffè”: ritroviamo cioè il piacere di incontrarci fisicamente, di guardarci in faccia anziché comunicare via twitter o “faccine”, e di riassaporare quindi il gusto di un confronto leale. Ciò che significa, ad esempio, rifiutare categoricamente lo squallore al quale i dibattiti maleducati e fasulli inscenati in televisione danno legittimità, o la demenza irresponsabile e aggressiva che dilaga sui social. Recuperare la misura nelle modalità del confronto, l’urbanità della discussione, potrebbe sembrare solo un problema di forma, di etichetta, ma in realtà va a toccare e a determinare anche la sostanza (ovvero l’etica conseguente). Si urla e si insulta solo per mascherare una assoluta mancanza di idee: perché le idee non si scontrano, ma si confrontano.

È ancora possibile questo recupero? Ne dubito. Temo che lo sfascio sia irrimediabile. Ma penso che qualcosa occorra comunque fare. La butto lì, a mo’ di esempio: qualche preoccupato ripensamento potrebbe produrlo una campagna di boicottaggio, allargata a livello internazionale, delle emittenti e dei social network che non applicano alcun codice etico, da attuarsi con le modalità innovative dettate dalla natura stessa degli obiettivi. Avrebbe quanto meno il risultato di far discutere seriamente sul problema, creando un immenso Caffè virtuale governato dalle regole della decenza. Non sto parlando ovviamente di censura: la decantazione avverrebbe in maniera spontanea, e il ritrovare o il conoscere per la prima volta forme di dibattito più nobili e responsabilizzanti potrebbe funzionare da volano per rimettere in circolo anche i valori.

Sono gesti minimi, probabilmente inutili: ma se vogliamo poter continuare a guardare negli occhi coloro che verranno dopo di noi ed esigere anche da loro una qualche responsabilizzazione, vanno almeno tentati.

 

  1. b) Il paesaggio “camminabile”. L’Europa è l’unica area del mondo nella quale si può andare dall’estremo occidentale a quello orientale, e da nord a sud, incontrando sempre un villaggio o una città entro una giornata di cammino, che si viaggi in diagonale, diritto o a zig zag. È un tessuto dalle maglie decisamente strette. Lo spazio europeo è tutto culturalmente caratterizzato, organizzato, disciplinato. Ciò ha due conseguenze: da un lato, in assenza di soluzioni spaziali di continuità (non ci sono deserti, la catene montuose sono facilmente superabili e hanno costituito un ostacolo molto relativo ai traffici di ogni tipo) l’interscambio tra culture è sempre stato fittissimo, e ha prodotto una crescita che nelle grandi linee è stata uniforme. “Il fatto è che per questi popoli chiamati europei vivere ha sempre significato muoversi e agire in uno spazio, o ambito, comune. E cioè per ogni popolo vivere equivaleva a convivere con gli altri” scrive Ortega y Gasset. Dall’altro lato, il confronto con una natura addomesticata non ha suscitato particolari terrori metafisici, e ha favorito invece nei riguardi di quest’ultima un’attitudine molto “laica”, desacralizzante.

Per quanto concerne la prima conseguenza, Steiner sottolinea soprattutto le componenti etimologicamente “pedestri” della cultura europea, di quella che si ritrova ad esempio nei ritmi poetici (non a caso la figura retorica di base della ritmica latina è il piede); o la stretta connessione da sempre percepita tra il camminare e il pensare (dai peripatetici a Kant, dai poeti romantici a Nietzsche). Un paesaggio così fittamente antropizzato, percorribile (e fino all’altro ieri percorso) ai ritmi lenti della camminata, sfuma necessariamente le differenze, a partire da quelle idiomatiche fino a quelle di costume, crea una consuetudine con la presenza “straniera”, che proprio per questo non è più sentita come completamente tale, e favorisce influenze reciproche continuative.

Quanto alla seconda conseguenza, nei quattro o cinque secoli della “modernità” l’atteggiamento disincantato nei confronti della natura è cresciuto sino ad andare troppo oltre, facendo presumere agli europei di avere il potere e il diritto di disporre di quest’ultima a piacimento, e non solo nel proprio continente. Di conseguenza il paesaggio, che nel sette-ottocento ancora era avvertito come rassicurante, (a dispetto della tendenza romantica a coglierne gli aspetti misteriosi e minacciosi) sta diventando sempre più inquietante, per l’eccesso di sovrapposizione di una “seconda natura”, quella artificialmente costruita dall’uomo, e per la constatazione della sua incompatibilità di fondo con i fenomeni non governabili della natura reale. Ma la situazione di allarme determinata dai cambiamenti climatici e dalla sempre maggiore fragilità di un territorio attaccato e sfruttato in maniera dissennata potrebbe avere un risvolto positivo, se si traducesse finalmente in una responsabile consapevolezza. Se si recuperasse cioè quello che per i Greci era il “senso del limite”.

I maggiori corsi d’acqua europei attraversano o lambiscono diversi paesi. Ogni refolo d’aria leggermente più forte diffonde l’inquinamento atmosferico da una regione all’altra. Le correnti sballottano allegramente da un litorale all’altro le schifezze scaricate a mare. La terra, forzata a colture intensive e concorrenziali, si impoverisce e si ribella. Insomma, tutta la natura che ci circonda concorre a dirci che senza una politica comune di salvaguardia ambientale siamo destinati a lasciare ai nostri nipoti lande davvero desolate e inabitabili.

 

Recuperare un’etica e un’estetica del paesaggio non significa però predicare il ritorno alla wilderness: non può tradursi in un integralismo ambientalista di natura puramente emozionale e irrazionale, assolutamente incompatibile con la situazione storicamente determinata di cui parla Steiner, e nella sostanza inconcludente. Si tratta invece di rendere la presenza umana compatibile, risanando quello che è stato guastato e trovando in questo ripristino anche l’occasione per inaugurare scelte economiche e produttive diverse.

 

Anche rispetto a questo argomento è difficile dare indicazioni operative concrete. Ma visto che da qualcosa occorre pur iniziare, partirei dal recupero di un minimo di conoscenza geografica e dalla conseguente consapevolezza che il problema va affrontato su scala almeno continentale, in attesa e nella speranza che venga avvertito e riconosciuto anche su quella planetaria, e che l’esempio europeo possa diventare trainante. Il paradosso contemporaneo è che mai come oggi c’è stata tanta informazione geografica, quella che passa attraverso le immagini e il racconto documentaristico, e mai come oggi, proprio per la natura di questa informazione, che si presta ad un consumo facile, rapido e passivo, c’è stata in realtà tanta ignoranza, alimentata anche dalla politica scolastica di liquidazione dell’argomento come disciplina specifica. Una foscoliana esortazione alle geografie dovrebbe dunque essere formulata di concerto da tutti gli intellettuali europei, ma essere poi accolta, diffusa e praticata da un corpo docente che soprattutto in Italia sembra rassegnarsi a subire passivamente le riforme più peregrine e insensate (ispirate in genere da oltreoceano, da un mondo cioè nel quale l’ignoranza geografica e storica è quasi un vanto nazionale).

 

  1. c) La storia sui muri. La quotidianità del rapporto e del legame con una cultura ben specifica non riguarda infatti solo gli spazi (quindi i luoghi della sua elaborazione e il paesaggio che la esprime), ma anche i tempi. Come sottolinea Steiner, nelle nostre città ogni via, ogni piazza, ci ricordano un momento, un evento, un protagonista. L’Europa è il luogo dell’onnipresente memoria, fissata nella toponomastica stradale oppure nei cartelli, nelle targhe, nelle lapidi che segnalano edifici di rilevanza storica, teatri di vicende particolari, residenze di personaggi della cultura o della politica, con corredo di date e di altre informazioni essenziali. Non è così altrove. Negli Stati Uniti, ad esempio, che pure rientrano nell’area della cultura “occidentale”, le strade, sia quelle cittadine che le extraurbane, non sono intitolate, ma numerate. Quando si va oltre la semplice numerazione, i riferimenti rimangono vagamente naturalistici (via dei cipressi, ecc) o, nelle regioni di antica colonizzazione iberica, religiosi. Lo stesso vale per la toponomastica in estremo oriente. In Giappone la maggior parte delle strade non hanno una intitolazione: negli indirizzi vengono indicati il numero di distretto, quello del blocco e quello dell’edificio specifico. In Cina i nomi delle strade sono connessi alla prossimità con un sito facilmente identificabile (ad esempio, Viale lungo il fiume, Viale dietro la Porta) o al loro rapporto coi punti cardinali (viale occidentale, viale settentrionale, ecc …).

Insomma, la “storicizzazione” toponomastica è solo europea. Sino a poco tempo fa in Europa chi percorreva uno spazio urbano compiva anche una immersione nella profondità del tempo. Assimilava l’idea che la cultura europea è frutto della sedimentazione plurisecolare di innumerevoli frammenti: cioè di una storia, e di una storia “umana”. E coltivava un fortissimo senso del passato, la coscienza dell’importanza di ciò e di chi lo aveva preceduto. Steiner arriva a dire che la ragnatela dei riferimenti è sin troppo soffocante, e questo in qualche modo è a volte anche un ostacolo per gli europei ad aprirsi al futuro, a immaginarlo nel segno della speranza (mentre gli americani sono totalmente immersi nel presente).

 

Credo lo sarà ancora per poco: perché la tendenza odierna è invece a cancellare la storia, a frammentarla in memorie particolaristiche, a negarne una qualsivoglia “oggettività”, e quindi esemplarità. Di fatto, l’impressione è che di questo fardello gli europei vadano liberandosi velocemente. Le trasformazioni nella toponomastica stradale rispecchiano molto bene il cambiamento dei tempi. Ai personaggi storici sono sempre più frequentemente sostituiti i protagonisti dell’effimero (un paio d’anni fa c’erano in Italia una quarantina tra vie e piazze dedicate a Fabrizio de Andrè, e non una intitolata a Camillo Berneri), oppure è preferita la neutralità di riferimenti pseudo-ambientali (via delle mimose, viale delle ginestre, ecc). La memoria si cancella proprio a partire dalle strade, con la complicità anche delle nuove modalità di spostamento, che richiedono di semplificare al massimo gli elementi identificativi, di uniformarli su scala globale e di governarli attraverso algoritmi matematici. Le autostrade europee, ad esempio, non sono già più contraddistinte da un nome (anche se spesso, soprattutto in Italia, vengono caratterizzate da specificazioni ambientali o simboliche del sole, dei fiori, dei trafori, …), ma da un numero. Ma agiscono anche altri fattori. La gran parte dei nostri ragazzi, dopo anni di tragitto in auto da casa alle successive sedi scolastiche, non saprebbe ricostruire il percorso su una carta stradale e non ha mai avuto occasione di chiedersi chi fossero i personaggi citati nelle lapidi poste all’ingresso di ogni via.

 

Il primo argine a questa cancellazione potrebbe alzarlo ancora una volta, come per la geografia, la scuola. Ma la rivalorizzazione della storia come disciplina scolastica, pur assolutamente necessaria, non è sufficiente. Occorre anche chiarire come e cosa andrebbe insegnato. Tre millenni di civiltà europea sono stati sottoposti nell’ultimo mezzo secolo non ad una sacrosanta rilettura critica, ma ad una aprioristica interpretazione in negativo, in nome di una malintesa “correttezza politica” o della riduzione del lavoro storico ad ermeneutica. Detto in altre parole, lo studio delle intenzioni, vere o presunte, ha avuto la meglio su quello dei fatti. Steiner cita la lapidaria liquidazione proferita da Henry Ford: “La storia è una sciocchezza”, che è tipica di chi la storia vuole azzerarla perché intende scriverne una totalmente nuova. Ma venendo da Ford, figlio di gente che alla storia europea ha voluto sottrarsi e quella indigena l’ha letteralmente cancellata, può starci. Per gli europei il discorso è diverso, molto più complesso: la storia non è stata liquidata come una sciocchezza, ma denunciata come una colossale millenaria menzogna, costruita e alimentata nei secoli per ridurre l’umanità a strumento della ragione economica. Hegel letto alla rovescia ma applicato alla lettera. Questa “decostruzione” è partita dall’ambiente intellettuale più progressista, come reazione allo scacco dei grandi progetti utopistici novecenteschi, ed è stata immediatamente fatta propria da un sistema ormai totalmente auto-referenziale, che nella cancellazione della storia trova la giustificazione a violare qualsiasi regola. Distruggere o screditare il passato è il primo passo per mettere le mani sul futuro, per obbligarne gli sbocchi, negando la ricchezza di possibilità che il passato ha creato. Penso che neppure Marx pensasse di poter essere preso così alla lettera, quando affermava che l’unico vero motore del mondo è l’economia: oggi sembra senz’altro essere così, e non con la complicità della storia, ma attraverso la sua negazione.

 

Si torna dunque sempre allo stesso punto. Per frenare questa deriva sarebbe necessario ripartire dalla scuola, da una riforma radicale che conduca a modelli di istruzione unificati in tutto il continente, e capaci di avviare e alimentare al loro interno uno scambio reale, tanto di allievi che di conoscenze. É una condizione essenziale perché dal confronto delle tante storie particolari si arrivi (forse dovrei dire, si torni) a intravedere quella che per oltre due millenni ci ha uniti: e che potrebbe suggerire qualcosa per il domani. È l’unica, e probabilmente ultima, chanche.

 

  1. d) Atene e Gerusalemme. La prima elementare coscienza storica da recuperare è quella della doppia eredità. Siamo tutti figli dei greci, ma siamo anche tutti discendenti dagli ebrei. Dalla grecità ci arrivano la musica, la matematica, la metafisica, in un ordine consequenziale (ma anche i modelli estetici, le scienze naturali, il lessico fondamentale di ogni disciplina o attività). Sono discipline che per loro stessa natura, o se vogliamo per la natura dei loro linguaggi, inducono il superamento dei confini linguistici. Già alla fine del Seicento un musicista come Georg Muffat poteva scrivere due Suites orchestrali nelle quali venivano presentati brani alla francese, all’inglese, alla tedesca, all’italiana, alla spagnola, addirittura all’ olandese, pescando nei repertori, nelle differenze e nelle tipicità di ciascuna scuola, e unificando antologicamente il tutto nelle mani di una sola orchestra. E scriveva, lui di origine tedesca, in un momento in cui la Francia e l’impero erano in conflitto, che la musica poteva andare oltre le meschine e contingenti conflittualità politiche, ed esprimere uno spirito europeo fondamentalmente unico. Così come fa la matematica, che con la musica è in diretta simbiosi (rapporto tra numeri interi e toni diversi della scala, divisione ritmica del metro musicale espressa in frazioni, altezza, intensità e ampiezze dei suoni, intervalli di frequenze, ecc …).

Anche se non è originaria dell’Europa, la scienza dei numeri ha trovato nella cultura europea la sua espressione più pura. Tanto la matematica egizia, poi diffusa in tutto il vicino oriente, che quelle indiana e cinese si limitavano all’esecuzione di calcoli aritmetici anche complessi ma finalizzati a scopi essenzialmente pratici (misurazioni di lunghezze, determinazioni di peso, ecc ). La matematica come teoria generale dei numeri e scienza geometrica teoreticamente fondata è invece opera dei Pitagorici. I Greci sottraggono i problemi matematico-geometrici alle finalità pratiche e li elevano a un livello speculativo puro. E questo vale anche per le scienze che con la matematica hanno una diretta connessione e ne traducono i principi in termini di conoscenze operative, come l’astronomia e la fisica.

La speculazione matematica pura apre a sua volta le porte alla metafisica, all’indagine su ciò che non è immediatamente percepibile e non è fisicamente rappresentabile. Come dice splendidamente Steiner, la fuga dei numeri primi verso l’infinito ci rivela la convergenza tra matematica e filosofia (ma anche con la musica).

 

Questo per l’eredità di Atene. Da Gerusalemme ci arrivano invece l’autocoscienza e la percezione delle vicende umane entro un quadro storico, il dialogo con la trascendenza, l’idea di un Libro supremo, di una Legge sulla quale si fonda la morale. Si potrebbe dire che mentre dai Greci discende il senso dell’essere, dagli Ebrei arriva quello del divenire (il tempo che non si ripete neutro e uniforme, ma si carica di significato, di aspettativa e quindi di senso: da cui il cristianesimo e l’idea di progresso, lo storicismo messianico e il socialismo utopistico).

Ne L’uno e il diverso (1970), altro libricino aureo, Denis de Rougemont (un pensatore svizzero famoso soprattutto per L’amore e l’Occidente, ma che andrebbe riletto per intero) scriveva che il cristianesimo “porta la contraddizione nel cuore dell’essere, e la traduce nell’enunciato dei suoi dogmi fondamentali. (…) La Trinità trasferisce in Dio stesso il paradosso dell’uno e del diverso, mentre l’Incarnazione porta all’estremo la coesistenza dei contrari, nell’inconcepibile definizione della persona di Gesù Cristo come “vero Dio e vero uomo”, nello st esso tempo”. Anche prescindendo dalla fede che si può loro accordare o meno, “è innegabile che questi dogmi abbiano finito col tempo per sedimentare tra i popoli d’Europa delle relazioni di natura essenzialmente dialettica. L’Europa è la “patria della diversità. È nella tensione tra i diversi, talora persino contrari e contradditori, che si configura il portato politico-culturale più alto dell’avventura europea-occidentale: il ‘pluralismo’, da intendersi in un senso dinamico e di tensione permanente, e il cui l’esito finale è quello di un equilibrio tanto fragile quanto prezioso.”

Le radici cristiane sono dunque uno dei tratti fondamentali dell’identità europea, non perché abbiano creato dei valori indiscutibili e statici, ma perché hanno connotato l’esistenza occidentale in senso “drammatico”, dinamico, all’insegna dell’agonismo Questo spiega anche la pulsione costante verso l’altrove, verso l’utopia, verso cioè sempre nuovi spazi di rigenerazione. “L’Europa – scrive ancora Rougemont -, è stata e può ancora senz’altro essere la patria delle antinomie inseparabili: autorità e libertà, persona e comunità, tradizione e innovazione, destra e sinistra, nord e sud, evangelismo e ritualismo, riformismo e rivoluzione, mito e scienza, eresia creatrice e sana dottrina, bisogno di sicurezza e gusto per il rischio, conformismo che mantiene i valori e originalità che li contesta e li rinnova”.

L’ibridazione tra i due corredi genetici (quella tentata già in origine da Paolo di Tarso) non è mai completamente riuscita. Tutta la storia culturale, politica, sociale dell’occidente vede l’alternarsi del prevalere dell’una o dell’altra concezione (rinascimento pagano, puritanesimo ebraico, illuminismo e romanticismo come situazioni di compromesso) e il permanere della tensione tra le due (razionalismo storico-scientifico versus fideismo e rivelazione). Nella società europea tuttavia questa doppia polarità, al di là delle scintille che ha costantemente prodotte, ha funzionato anche da motore, ha assolto ad una funzione insieme stimolante ed equilibratrice. Di essa sembrano rimanere oggi solo i cascami, e tra questi Steiner evidenzia il particolarismo, come frutto della mappa assurdamente frammentata dello spirito europeo, e l’antisemitismo, come portato atavico del gene cristiano.

 

Più di ottant’anni fa Ortega Y Gasset spiegava così la persistenza dei particolarismi: “Questo sciame di popoli occidentali, che ha cominciato a volare sulla storia partendo dalle rovine del mondo antico, è sempre stato caratterizzato da una duplice forma di vita. È successo questo: man mano che ciascun popolo costruiva il proprio genio peculiare, fra loro, o sopra di loro, si andava creando un repertorio comune di idee, di maniere, di entusiasmi. Non basta. Il destino che li rendeva, in egual misura, progressivamente omogenei e progressivamente diversi, va inteso nella sua forma più paradossale. Perché in essi l’omogeneità non è stata senza effetti sulla diversità. Al contrario: ogni nuovo principio di uniformità fecondava le differenze nazionali. L’idea cristiana genera le chiese nazionali, il ricordo dell’Imperium romano ispira le diverse forme dello stato; la “restaurazione delle lettere” del secolo XV dà slancio a letterature divergenti: la scienza e il principio unitario dell’uomo come “ragion pura” creano stili intellettuali che modellano in modo differenziato anche le astrazioni ultime del lavoro matematico. Infine, e per colmo: persino la stravagante idea del XVIII secolo, secondo la quale tutti i popoli devono avere una costituzione identica, produce l’effetto di destare romanticamente la coscienza differenziale delle nazionalità, che viene ad essere un incitamento a ogni popolo verso la propria particolare vocazione.” Ortega rivendicava la positività di questa contraddizione a fronte della “spaventosa omogeneità di situazioni in cui sta cadendo tutto l’Occidente”, di una sensazione opprimente di asfissia indotta come causa immediata dal trionfo o dall’avanzata dei fascismi in tutti i paesi europei, ma prima ancora dall’irruzione quasi improvvisa nella politica e nella cultura tutta dell’uomo-massa. Tutto questo comunque non lo induceva ad avversare l’idea di una unità, anche statale, dell’Europa. La dava anzi per necessaria e scontata (e lo dimostrano le pagine che andrò ad allegare a questo scritto).

 

Steiner propone considerazioni quasi simili. Da linguista qual è ritiene che “Per l’Europa la minaccia più radicale – quella che colpisce alla radice – è la marea detergente, esponenziale dell’anglo-americano, sono i valori globalizzati e l’immagine del mondo che questo vorace esperanto porta con sé. Il computer, la cultura del populismo e il mercato di massa parlano americano”. E quindi, non c’è dubbio: “L’Europa morirà se non combatte per difendere le sue lingue, le sue tradizioni locali, le sue autonomie sociali.” Questo non significa, beninteso, dare corda agli egoismi localistici, ai sovranismi. Tutt’altro. “Odi etnici, nazionalismi sciovinistici, pretese regionali sono stati l’incubo dell’Europa.” L’unica cosa da mutuare dal modello americano è “un federalismo che unisce territori immensi e climi così diversi”. In sostanza, per Steiner come per Ortega il problema non è rappresentato dal sussistere delle particolarità, ma dal loro tradursi in particolarismi, sotto la spinta di motivazioni ed emozioni che hanno poco o nulla a che vedere con l’eredità storica e sono invece innescate e manovrate ad arte da squallidi interessi egoistici molto attuali. Entrambi ci dicono che le differenze, le tradizioni, le autonomie sono in realtà tutelate molto meglio, o addirittura soltanto, laddove esista l’ombrello di una organizzazione sopranazionale capace di mantenere gli equilibri e al tempo stesso non interessata (e comunque tecnicamente impossibilitata) ad interferire oltre una certa misura.

Va aggiunto, rispetto a queste considerazioni, che oggi le cose sono complicate da una ulteriore ibridazione di ritorno. Il confronto non è infatti più solo con la ramificazione culturale americana, che si è sviluppata in modo autonomo dal ceppo europeo, ma anche col modello asiatico, cinese e non solo, che ha una propria matrice tradizionale ma è stato contaminato dal duplice colonialismo culturale occidentale, quello capitalistico e quello collettivistico. In questo caso non si tratta di una aggressione linguistica, come quella paventata da Steiner nei confronti della cultura anglo-americana, ma dell’invasione di un culto delle merci, degli oggetti, che pervade in maniera più o meno pacifica la nostra quotidianità e veicola modelli comportamentali non meno devastanti e uniformanti di quelli dell’american style of life.

 

Quanto all’antisemitismo, il tema meriterebbe un discorso a parte: è troppo complesso per poter essere svolto in questa sede. Steiner stesso lo accenna appena, solo per ribadire che il movente originario è religioso, è connesso a un rancore rimasto per duemila anni nel bagaglio del cristianesimo, senza essere sostanzialmente mai rinnegato, fino a trasmigrare poi nelle fedi secolari che del cristianesimo hanno raccolto l’eredità (tanto il progressismo socialista quanto il conservatorismo fascista). Questo spiega il persistere e la periodica recrudescenza del fenomeno in una Europa che ospita ormai minoranze ebraiche numericamente insignificanti ed economicamente irrilevanti. È l’ebraismo in sé, come modo d’essere e di pensare, l’oggetto dell’odio: gli ebrei ne sono solo le vittime concrete. Per questo la scomparsa della “differenza” ebraica rappresenta una perdita irrimediabile, che va al di là dell’orrore concreto e dell’enorme peso simbolico della tragedia che l’ha determinata: perché con la sua stessa presenza l’ebreo riusciva destabilizzante rispetto all’ordine tradizionale, la sua voce era svincolata dalle obbedienze e dai culti tradizionali, critica rispetto ad ogni forma di potere e portata per natura all’innovazione,

Il risultato è un appiattimento e al tempo stesso una accelerazione della scomparsa dell’identità europea, ormai sempre più diluita nel mare della globalizzazione.

 

  1. e) Il tramonto dell’Occidente. Di fronte a questa prospettiva si danno due possibilità: ci si può rifugiare in una rassegnata impotenza, o addirittura nell’assoluta indifferenza, oppure si può pensare che qualcosa di quella identità vada salvaguardato. Il primo di questi atteggiamenti potrebbe essere confuso con la “consapevolezza escatologica” di cui parla Steiner. È vero infatti che la cultura europea è stata caratterizzata dalla costante presenza di profezie di apocalisse, di catastrofe incombente. Gli europei hanno sempre mostrato coscienza del fatto che ogni civiltà, ogni cultura, hanno una scadenza, influenzati probabilmente anche dal paradigma scientifico che andavano sviluppando, all’interno del quale il senso della fine trovava piena conferma (le leggi dell’entropia). L’attesa di uno sconvolgimento finale non è però monopolio degli europei. Anche altre civiltà, e non solo i Maya, l’hanno condivisa. La peculiarità europea consiste semmai nel fatto che la catastrofe era concepita come esito di un declino le cui origini e motivazioni erano intrinseche alla civiltà stessa, e non come un evento catastrofico generato dall’esterno. Steiner parla di “stanchezza della storia”. Forse si potrebbe dire che è una stanchezza originata proprio dalla consapevolezza storica, dal fatto che nessuna civiltà come quella occidentale ha raccolto e conservato e interpretato le tracce e le testimonianze del proprio percorso. Il racconto della decadenza degli imperi è rimasto un bestseller assoluto nella letteratura storica, prima e dopo Gibbon.

L’atteggiamento nei confronti del “tramonto” non è comunque sempre stato lo stesso, e ancora oggi si diversifica. Fino alla metà dell’800 era viva una volontà di resistenza, la speranza di una rinascita. Poi, a partire da De Gobineau, il pessimismo ha prevalso, e questa disposizione si è acutizzata dopo il primo conflitto mondiale (Spengler, Zweig, …), in concomitanza proprio con il dissolversi degli ultimi grandi imperi continentali. Una pausa di vent’anni, e il secondo conflitto e la fine di altri imperi, quelli coloniali, sono arrivati a certificare che in futuro le civiltà protagoniste della storia sarebbero state altre.

La riflessione sulla propria storia, sul proprio destino, sulle proprie responsabilità che è scaturita dal confronto con gli orrori delle due grandi guerre è sconosciuta a tutte le altre civiltà. Il collasso europeo è stato vissuto da una parte della cultura, quella di “sinistra”, quasi con voluttà, dando origine a quello che Pascal Brukner ha ironicamente definito “il singhiozzo dell’uomo bianco”. Alla cultura occidentale, e a quella europea in particolare, sono stati imputati tutti i mali del mondo odierno. Dall’altra parte, a “destra”, la resistenza al collasso convive con una quasi rassegnazione (e qui vien fuori l’eredità greca, filtrata attraverso la filosofia di Nietzsche) e in alcuni casi con l’attesa di una catastrofe totale, ma rigenerante, che illuminerebbe di senso il tutto.

 

Che fare? Mentre ripercorre il passato dell’Europa Steiner butta ogni tanto anche uno sguardo al futuro, segnalando le urgenze più immediate. La prima, improrogabile, è il recupero di dignità alla cultura. Una cultura dovrebbe essere in grado di difendere la propria dignità da sola, ma come abbiamo già visto oggi quella europea è sotto attacco da più fronti, e con le finalità più svariate: politiche, economiche e, soprattutto, di rivalsa sociale. Questo la porta a configgere anche con la democrazia, o almeno con quella versione che si identifica nell’assioma populista dell’ “uno vale uno”. “Con la cultura non si mangia” è l’equivalente solo un po’ più becero dell’affermazione di Henry Ford rispetto alla storia.

A delegittimare il ruolo sociale, politico ed economico della cultura è in primo luogo il fatto che essa non appare più indispensabile per una “realizzazione” individuale, dal momento che tale realizzazione viene misurata sul parametro del “successo”, ovvero della visibilità e del potere d’acquisto. L’ammirazione e il rispetto (ma anche l’invidia) un tempo riservati a chi deteneva particolari saperi si sono spostati, all’interno della logica consumistica, verso chi arriva alla ribalta, sia pure per un attimo, per vie che non comportano alcuno sforzo di conoscenza particolare: ciò che consente a chiunque di identificarsi e di nutrire ambizioni a impegno zero. Se mai c’è stato un annullamento, sia pure solo virtuale, delle differenze, bisogna riconoscere che è quello prodotto dalla società dello spettacolo. Lo si è ottenuto azzerando quelli che sino a ieri erano considerati valori, livellando le aspettative solo verso il basso.

Steiner parla invece della necessità di tornare a riconoscere il ruolo delle “aristocrazie dello spirito”. Facendo scendere lo spirito di qualche gradino possiamo ricondurre il discorso al tema della “rivolta delle élites”, o meglio ancora di quella “contro le élites”. Le élites, europee e non, e segnatamente quelle progressiste (la cosiddetta sinistra), sono oggi accusate di aver perso il contatto con gli umori, i desideri, le difficoltà di un “popolo” disorientato dall’automazione, dal trionfo del virtuale e dalla globalizzazione, ma anche dagli spazi di opinione e di potere che apparentemente gli sono stati spalancati. L’imputazione di “tradimento” è mossa perché, in nome di un’idea di ‘progresso’ che ha preso le sembianze di un crescita soprattutto materiale, sono stati promossi tutti quei caratteri della modernità che hanno distrutto i vecchi collanti sociali, le sicurezze derivanti dallo spirito comunitario, dalle appartenenze identitarie, dal senso della famiglia, dalla codificazione dei ruoli di genere. Avrebbero cioè rotto quel patto di coesistenza tra élite e popolo che è alla base delle democrazie moderne (sono i temi dei saggi di Christopher Lasch, il più famoso dei quali si intitola proprio La ribellione delle élites).

Ora, questa percezione, l’idea cioè che i circoli elitari dall’alto di una condizione privilegiata e garantita guardino alla realtà in una prospettiva totalmente autoreferenziale, e se la raccontino tra di loro, è quotidianamente confermata da ciò che passa in televisione o si legge sui giornali. Ma occorre distinguere. Da un lato c’è una realtà di fatto: le pur assolutamente condivisibili battaglie per i diritti civili e per le tutele delle più disparate minoranze sono state condotte dando ormai per scontata l’affermazione di un diritto fondamentale, quello alla sopravvivenza dignitosa, che le crisi ormai ricorrenti mettono invece costantemente in forse, e ignorando un sentire comune che ancora non si è liberato dal bisogno di puntelli storicamente consolidati (la famiglia, ad esempio). Dall’altro c’è che la repentina conversione di massa alla religione del consumo, frutto della martellante predicazione dei media e avvenuta senza il filtro di una minima educazione alla scelta critica, ha indotto una percezione distorta della povertà, del disagio e delle diseguaglianze. In tutto questo c’è senz’altro una responsabilità degli intellettuali, che di fronte alla prospettiva di essere sostituiti quali guide spirituali dai nuovi astri emergenti, dello sport, dello spettacolo, della moda, si sono velocemente adeguati ai modelli comunicativi imposti dai media, illudendosi nel migliore dei casi di poter sfruttare quegli stessi media per veicolare contenuti alti, e piegandosi nel peggiore alla venalità e alla smania di protagonismo. Questo ha ridotto il dibattito a spettacolo, lo ha degradato a rissa e ha banalizzato qualsiasi idea. In questo modo la gran parte dell’élite intellettuale ha screditato se stessa, e nel contempo ha portato a termine la demolizione d’ogni principio e idealità, alimentando la convinzione che tutte le conoscenze in fondo si equivalgano, e nessuna offra certezze.

Il risultato è il disconoscimento della necessità di competenze specifiche per trattare ogni tipo di problema di interesse pubblico, ciò che sul piano politico si traduce ad esempio nella richiesta del passaggio ad una fantomatica e fumosa democrazia diretta, quella in cui appunto l’uno vale uno.

 

Una risposta lucida a queste accuse l’aveva però già data ottanta anni fa Ortega y Gasset: “Il fatto caratteristico del momento è che l’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia di affermare il diritto della volgarità e lo impone dovunque […] Ebbene: esistono nella società operazioni, attività, funzioni dei più diversi ordini che sono, per la loro stessa indole, speciali, e di conseguenza non possono essere eseguite senza qualità anch’esse speciali. Ad esempio: […] le funzioni di governare o di giudicare politicamente sugli affari pubblici. Prima queste attività speciali erano esercitate da minoranze qualificate – o che presumevano di essere tali. La massa non pretendeva di intervenire in esse: si rendeva conto che per farlo avrebbe dovuto effettivamente acquisire quelle doti e cessare di essere massa.”

È difficile sintetizzare in maniera più efficace il processo in corso. Naturalmente Ortega non intendeva difendere posizioni cristallizzate di privilegio: “Quando si parla di minoranze elette (élites, appunto) il consueto malcostume è solito equivocare il senso di questa espressione, fingendo di ignorare che l’uomo selezionato non è il petulante che si crede superiore agli altri, ma colui che esige più degli altri… e accumula sopra se stesso difficoltà e doveri.” Col che il termine aristocrazia torna al significato originario, il “tradimento” assume un altro significato e le élites telegeniche sono estromesse da ogni discorso serio,

 

Per Steiner il compito attuale delle aristocrazie europee dello spirito (che esistono ancora, a dispetto di tutto) dovrebbe essere di tentare le “audacie dell’anima”, impossibili dove l’imperativo unico (secondo il modello americano ma oggi anche asiatico-americano) è diventato fare soldi e riempire con quelli l’esistenza di beni materiali. L’audacia sta nell’anteporre la ricerca disinteressata della verità, la realizzazione della conoscenza e la creazione della bellezza al perseguimento dell’utile immediato. Insomma, il loro ruolo rimane sostanzialmente invariato: a mutare è la concezione di “progresso” della quale dovrebbero farsi portatrici.

Può sembrare un appello persino un po’ patetico, un rifugiarsi nell’utopia di fronte alla desolante consapevolezza di una situazione di non ritorno. È la prima obiezione che viene mossa ad ogni tentativo di indicare soluzioni controcorrente. Ma Steiner non vive affatto sulle nuvole, e prova anche a suggerire, sia pure in maniera molto vaga, scenari alternativi. Parte comunque dall’unica consapevolezza inconfutabile, quella per cui proseguendo lungo la strada attuale l’Europa non può che andare a perdersi totalmente, sotto ogni profilo. Tanto vale, allora, avere il coraggio di sognare “fuori”, partendo comunque dalla realtà.

Il ritardo economico che l’Europa sta cumulando, ad esempio, potrebbe tradursi in una opportunità proprio perché forse consente ancora, almeno in una certa misura, di fare marcia indietro. “Chissà, in una maniera che è difficile prevedere l’Europa darà il via ad una rivoluzione contro-industriale, pur avendo essa stessa dato inizio alla prima rivoluzione industriale” scrive Steiner. Per creare questa possibilità è però necessario prima di tutto sottrarre i nostri migliori talenti alle sirene non solo economiche che cantano da oriente e da occidente, trattenere o richiamare quei cervelli in fuga che vanno ad alimentare fuori d’Europa una ricerca tutta indirizzata al profitto o alle strategie egemoniche. Bisogna offrire loro prospettive reali di mettere a frutto, in ogni senso, capacità e interessi. Occorre quindi riformare le istituzioni universitarie, le agenzie di ricerca, e più in generale tutto il sistema dell’educazione secondaria.

Riformare ha senso però se si ha in mente un progetto di grande respiro, che vada a toccare ogni aspetto della futura società. In cosa potrebbe consistere questa “rivoluzione contro-industriale” è difficile a dirsi, ma non impossibile. Potrebbe ad esempio avere a che fare con un uso diverso del territorio (a partire da una contro-rivoluzione agricola, nel senso di una razionalizzazione produttiva che governi il mercato, e non ne sia governata), con lo studio e la sperimentazione di nuovi materiali per le costruzioni e per gli imballaggi, con sistemi di riciclaggio integrale, con l’applicazione di tecnologie ad impatto reversibile, con modelli produttivi, abitativi e di locomozione a basso consumo energetico: insomma, con investimenti in conoscenza destinati a diventare strategici di fronte al degrado che il sistema attuale sta creando. Il risultato non riguarderebbe solo le merci, i prodotti, ma prima di tutti i produttori e i consumatori: si tratta di modificare l’etica del consumo, e l’estetica che lo induce. Un aumento generalizzato di conoscenza, e soprattutto il recupero almeno parziale di dominio sugli oggetti che questa consente, ci emanciperebbe dalla schiavitù che si sta invece creando nei loro confronti, e fornirebbe un conforto spirituale la cui mancanza viene invece oggi compensata con la corsa a quelli materiali. Un livello qualitativamente e quantitativamente più alto di istruzione è l’unica arma per affrontare una diminuzione del benessere materiale. In questo senso il ritardo economico cumulato dall’Europa potrebbe rivelarsi alla lunga lo stimolo per un drastico cambiamento di rotta: è ciò che si chiama fare di necessità virtù.

 

Quanto infine al progressivo allontanamento dalla religione, e alla possibilità di darne una lettura positiva, sarei meno ottimista di Steiner. L’impressione è che in assenza di una solida corazza culturale, e nella prospettiva che saranno sempre meno quelli intenzionati a costruirsela, il vuoto lasciato dalle certezze e dalle consolazioni religiose venga comunque riempito con tutta la paccottiglia che l’industria del condizionamento al consumo è in grado di gettare sul mercato. Le nuove forme di religiosità profana le abbiamo sotto gli occhi, le possibilità di una loro radicalizzazione sono testimoniate dagli integralismi alimentari o animalistici come dal tifo calcistico. E laddove non ci siano neppure queste, rimane comunque trionfante la religione del possesso e del consumo velocissimo di beni, che ha già elaborato le sue liturgie (il pellegrinaggio all’outlet), le sue festività (i saldi, i lanci delle versioni più innovative di un prodotto), i suoi ministri con relative gerarchie (dallo stilista al testimonial al commesso di boutique). Magari non si sgozzerà nessuno per motivi religiosi, ma già si uccide senza tanti problemi per un telefonino o per un paio di scarpe firmate.

L’europeismo non deve dunque diventare un surrogato della fede religiosa. È una idealità strumentale, il percorso obbligato per garantire a mezzo miliardo di persone una vita all’insegna della pace, della libertà e di opportunità equamente distribuite. Come tale deve essere assunto e praticato in immediata connessione con la sua finalità.

Considerazioni finali. L’intento originario di questo scritto non era di formulare ipotesi su una possibile nuova configurazione istituzionale dell’unione europea, ma di verificare se oggi, in un contesto mondiale globalizzato sotto tutti gli aspetti, ha ancora senso pensare ad una realtà europea storicamente e culturalmente autonoma, e se mai lo ha avuto. E tale intende rimanere, anche se è evidente che dal tipo stesso di analisi condotta discendono ipotesi su come potrebbe essere per il futuro.

I destinatari dichiarati sono gli attuali ventenni. Non per una forma ipocrita di giovanilismo, un atteggiamento che detesto dal più profondo del cuore, ma perché per naturale avvicendamento saranno loro a vedersela domani con le scelte di oggi, e saranno ancora loro e quelli che verranno dopo di loro a pagarle, se errate. Mi sembra doveroso, nei limiti mie modeste possibilità, fornire un minimo di informazione e qualche stimolo alla riflessione.

Credo che questi ragazzi stiano pagando un dazio molto più alto di quello che solitamente grava sui travasi generazionali delle idealità. Le transizioni non sono mai state indolori, molto andava perso, molto veniva rifiutato: ma alla fine qualcosa rimaneva. Oggi l’eredità trasmessa è il nulla, anzi, quella confezione patinata del nulla che distoglie dal desiderare il vero. Un pensiero debole che prometteva il ritorno all’autenticità originaria, una volta venuto al dunque rivela tutta la sua inconsistenza, e spinge per reazione i giovani ad abbracciare “idee forti”, o presunte tali.

Negli anni Venti del secolo scorso un letterato francese, Ramòn Fernandez, descriveva così una gioventù scombussolata dalle trasformazioni dell’immediato dopoguerra, insofferente delle lezioni del passato e alla ricerca di nuovi vessilli da issare: “Strana generazione, che in nome di una libertà incondizionata sta preparando servitù di inaudito rigore.” Una considerazione che avrebbe potuto valere anche in altre epoche e per molti altri passaggi generazionali, ma che in quel frangente si rivelò quanto mai lucida.

Ho l’inquietante sensazione che la cosa stia nuovamente accadendo, che sia già in atto. La storia non si ripete, ma spesso fa rima.

 

La domanda che arriva al termine di questo estemporaneo excursus è dunque: si arriverà finalmente alla costituzione di un’unione politica europea? Leggendo le pagine di Ortega y Gasset riportate in calce a questo scritto si dovrebbe essere confortati rispetto alla sua ineluttabilità. Ma al tempo stesso tremano i polsi, perché queste pagine sono state scritte nel 1938, alla vigilia della guerra più devastante che l’Europa e il mondo intero abbiano mai conosciuto. L’impressione è che ci sia bisogno di tragedie ricorrenti per alimentare questa fede, e il modo semplicistico col quale i problemi dei rapporti interni al continente vengono oggi affrontati, la miopia collettiva rispetto ai pericoli di colonizzazione che arrivano dall’esterno, la violenza, non più solo verbale, che sembra animare ogni tipo di confronto non lasciano affatto sperare bene.

 

Non credo dunque all’ineluttabilità di cui parla Ortega, tanto più avendo presente ciò che accaduto negli ottant’anni che ci separano. Che il tentativo di unificazione sia sostanzialmente fallito, anche se ha comunque garantito al continente una stabilità quale mai aveva conosciuta nella sua storia, è evidente già solo per il fatto che stiamo qui a parlare della eventualità di una chiusura dell’esperimento europeista e a cercare di scongiurarla. Il modo migliore per evitare che questo fallimento trascini con sé tutte le idealità e le speranze che hanno alimentato da secoli il pensiero e l’azione degli europei più consapevoli è quello di guardare bene in faccia la realtà, e di separare l’immagine fallimentare che abbiamo davanti da quella coltivata nei propositi.

Quali fossero i propositi, un secolo fa, nell’immediato primo dopoguerra, lo testimoniano le parole di un pensatore, Andrea Caffi, che quanto ad aristocrazia spirituale ne aveva da vendere, e infatti è stato praticamente rimosso), e che sulla necessità che fosse questa aristocrazia a guidare una auspicabile unificazione la pensava esattamente come Steiner. Quelle riportate in appendice sono solo un brevissimo stralcio di una riflessione portata avanti per decenni, in mezzo all’indifferenza o addirittura all’insofferenza generale.

Quanto allo stato reale dell’europeismo col quale ci confrontiamo oggi, è benissimo fotografato da H. M. Enzensberger in un libello violentemente polemico (Il mostro buono di Bruxelles, 2011) nel quale attacca l’establishment europeo, denunciandone la totale autoreferenzialità. È stato accusato naturalmente di antieuropeismo, ma l’accusa potrebbe riguardare al più i toni, non certo la sostanza della sua denuncia, che va anzi assunta in blocco se si vuole seriamente ripensare l’opportunità di una unione che davvero rispecchi le idealità.

Riporto dunque in appendice anche un’intervista rilasciata dallo stesso Enzensberger in occasione della pubblicazione in Italia del suo pamphlet: ma voglio anticiparne qui poche righe, affidando ad esse la conclusione, perché mi sembrano tradurre in una esperienza immediata e concreta tutto ciò sin qui ho cercato di dire. “Io diventai europeo abbandonando l’Europa. Con mio grande stupore scoprii, ogni volta che tornavo dalla Siberia, dall’America Latina, dall’Est asiatico o dalla California, un sentimento sconosciuto: i piaceri del patriottismo. Ovunque atterrassi – fosse Budapest, Roma, Amsterdam, Madrid o Copenhagen – ero sopraffatto dal sentimento sicuro di essere arrivato a casa. Ciò che vissi in questo modo non era affatto un pensiero, non era un’idea platonica. Era per un verso una certezza sensibile, distinta e inconfondibile come un odore familiare, e per l’altro una trama sottile e fitta di realtà sociali.

 

Appendice 1

 (Aggiunta fuori testo)

 

Sin dal primo approccio col libretto di Steiner mi sono chiesto come mai l’autore non avesse inserito tra i suoi “assiomi” il concetto occidentale di amore, che mi sembra avere in effetti tutte le caratteristiche per costituire una peculiarità della cultura europea, se non addirittura per esserne fondamento. Mi riferisco a quella nascita dell’amore-passione di cui Denis de Rougemont parla ne L’Amore e l’Occidente, rintracciandone la prima compiuta espressione letteraria nella storia di Tristano e Isotta. Secondo de Rougemont il mito di Tristano esprime un amore fine a se stesso, l’amore per l’amore, e non per l’altra persona coinvolta nel rapporto. Si tratta quindi di un sentimento narcisistico, che pone l’enfasi più sulla crescita spirituale dell’amante che sulla relazione con la persona amata. Questa crescita avviene attraverso l’ interposizione masochistica di sempre nuovi ostacoli al raggiungimento dell’oggetto del desiderio (la distanza dall’amata, le convenzioni, le leggi dell’onore, ecc …), dietro la quale non c’è alcuna reale determinazione al superamento. Il vero amore, l’amore perfetto, quello che nel De amore Andrea Cappellano chiama fin’amor, ha come unico scopo non la realizzazione, il congiungimento fisico e spirituale, ma il perfezionamento morale dell’amante. Guinizelli dirà che “medesmo amor per lei rafina meglio”, e Dante ne farà il centro della sua poetica, dalla Vita Nova al canto V dell’Inferno, addossando la responsabilità (o il merito?) di una trasgressione proprio al romanzo di Tristano e Isotta. È dunque un amore-martirio che non ha nulla di sensuale (mentre è decisamente erotico), destinato per volere stesso dell’amante all’infelicità.

De Rougemont considera lo sviluppo del mito della passione (cioè, letteralmente, dell’amore-sofferenza) come origine di un travisamento radicale e di una mortificazione delle forze in gioco nella sfera amorosa. Parla di un “‘amore senza amore”, mosso dal timore di innamorarsi in un modo semplice e diretto, di cedere alla tentazione materiale, le cui origini sono da ricercarsi nella religiosità catara (che a sua volta avrebbe radici nel manicheismo, e prima ancora nel dualismo gnostico). E fa discendere da questo mito ogni possibile conseguenza nefasta: dal disprezzo nei confronti del matrimonio alla più universale violenza che la passione, in quanto desiderio deviato, necessariamente genera. Una volta che l’amore è stato pervertito in amore di sé e in costante ricerca di ostacoli, questa ricerca non tollera più limiti: la violenza crescente delle guerre, da ultime quelle coloniali e quelle mondiali, e le stragi conseguenti, ne danno a suo parere la terrificante testimonianza.

Ora, senza seguire De Rougemont nella sua catastrofica analisi, e indipendentemente dal fatto che venga letta in una luce positiva o in negativo, questa concezione dell’amore è data unanimemente per originale. Io la riassumerei così: l’amore che nasce con i trovatori (l’amor cortese) non è amore per la donna, ma amore per se stessi.- la donna è in fondo solo lo specchio nel quale spiamo la nostra immagine – e si sostanzia di ostacoli, di separazioni, di rinunce che agiscono sulla nostra condizione interiore. A differenza di quanto accade per il sentire diffuso nelle civiltà non europee, e in parte anche in quella europea pre-cristiana, nelle quali i parametri sono la stima e l’ammirazione altrui, l’europeo si confronta sempre con se stesso. Questa continua operazione di autoanalisi e di autocontrollo conduce dritti dritti, per un percorso lungo e complesso, che non è qui il caso di ricostruire ma che mi sembra abbastanza intuitivo, all’etica, e quindi all’imperativo categorico kantiano: l’uomo libero risponde prima di tutto a se stesso. Si potrebbe obiettare che una concezione analoga è rintracciabile anche in alcune culture orientali, ad esempio in quella buddista: ma in quel caso la liberazione è ottenuta attraverso progressive sottrazioni, mentre nella concezione occidentale è frutto di un esercizio interiore accrescitivo.

Non so perché Steiner non abbia preso in considerazione questo elemento peculiare e fortemente caratterizzante della civiltà europea, ma non posso credere che non lo avesse ben presente. Forse, anzi, lo aveva talmente presente da rendersi conto delle ambiguità interpretative cui si presta (De Rougemont ne è un esempio lampante), che possono dar luogo tanto ad una presunzione di superiorità della cultura occidentale quanto ad una sua demonizzazione (quella in effetti operata, più ancora che da De Rougemont, da tutto il pensiero post-moderno). Forse, intelligentemente, ha preferito non cacciarsi in un inutile ginepraio. E credo sarà meglio anche per me seguirne l’esempio.

Appendice 2

Andrea Caffi

Sul tramonto della civiltà europea

in “La Vita delle Nazioni”, I, n. 6-7, 15 ottobre 1925

 

[…] O si riconosce che la guerra mondiale ha provocato tali convulsioni nel corpo sociale, da rendere inevitabile “un’era di disfacimento, di torpore tedioso, di sterilità degradante; oppure si deve lavorare per raccogliere le forze e combattere il ‘male’: una gravissima crisi dalla quale uno sforzo d’intelligente volontà ed il non estinto amore della vita ci possono salvare

L’Unione degli Stati dell’Europa in un superiore ‘corpo politico’ giuridicamente definito e provvisto di organi e mezzi per governare effettivamente, d’un tratto farebbe svanire l’incubo della ‘mala guerra’ e subito (cioè fino dalla prima fase – molto lontana dalla trasformazione in veri “Stati Uniti’ – e quando la famigerata sovranità dei singoli membri della Confederazione sarebbe appena intaccata) abolirebbe le questioni stesse che oggi sono atri d ‘uragani: il ‘corridoio polacco’, la necessità d’uno sbocco al mare […], il trattamento delle minoranze nazionali, […] ma soprattutto ogni distinzione fra vincitori e vinti del 1918 […]. Ad un momento ulteriore è presumibile attribuire la totale unificazione del mercato interno europeo e una soluzione del problema coloniale […]

Se vogliamo sul serio salvare la società dalle guerre, dai governi totalitari e da tutte le bestialità che questi due aspetti d’un medesimo fenomeno implicano […] bisogna abbattere al più presto l’idolo della nazione; in particolare l’Europa sarà ridotta allo stato di ‘giungla’ (terreno per tigri e grossi cacciatori) se non si rinuncia radicalmente alle ‘sovranità nazionali’, agli orgogli e ‘sacri egoismi’ patriottici, alla superstizione della solidarietà etnica in nome della quale bisogna uccidere e morire.

La nazione come patrimonio culturale (lingua, “memorie comuni”, costumi, nella misura della nostra vita planetaria) si deve dissociare da qualsiasi formazione politica, privare completamente d’ogni mezzo di coercizione e suoi “membri” – che tali saranno unicamente per spontanea e revocabile adesione. Se non si secolarizza la nazione (oggi adorata e satollata di vittime umane come qualsiasi Moloch o Geova) secondo le stesse linee con cui il liberalismo ha assicurato la libertà di coscienza ed il libero esercizio di tutti i culti, è inutile voler edificare – nel quadro dello Stato nazionale essenzialmente barbaro – un regime di libertà e di giustizia sociale. E naturalmente le Nazioni Unite sono una tragica buffonata purtroppo peggiore – perché fatta con più evidente malafede – che la defunta Società delle Nazioni. La tesi dell’internazionale socialista è stata sempre l’abolizione delle frontiere e della nozione stessa di ‘straniero’. Se per ragioni ovvie conviene che ogni regione abbia un suo autonomo governo, bisogna stabilire fra i vari ‘paesi’ patti non di semplice “amicizia, non aggressione” etc. – ma di completa “simpolitia” (usando un vocabolo che definiva l’unione per esempio fra Atene e Samo) per cui cioè, senza formalità alcuna, il ‘cittadino’ d’un paese trasferendosi in un altro vi godrà degli identici diritti che gli ‘indigeni’ di quello”. È implicito che ciò comporti un mutamento radicale di tutto l’apparecchio giuridico, poliziesco, amministrativo (quello militare dovendo semplicemente scomparire) che si riassume ora nello “Stato”.

 

 

Appendice 3

José Ortega y Gasset

da La ribellione delle masse (1929)

il testo è tratto dal Prologo per i francesi premesso all’edizione del 1937

 

Da secoli, e con intensità crescente, esiste un’opinione pubblica europea – e anche una tecnica per influenzarla. Per questo motivo raccomando al lettore di risparmiarsi il sorriso maligno quando vedrà che negli ultimi capitoli di questo volume, con qualche audacia, di contro alla tendenza opposta che inducono le apparenze attuali, si afferma come possibile, come probabile, l’unità statale dell’Europa. Non nego che gli Stati Uniti d’Europa siano una delle fantasie più a buon mercato che esistano e non mi sento solidale con quello che altri hanno pensato sulla traccia di questi segni verbali. Ma d’altra parte è sommamente improbabile che una società, una collettività così matura come quella che già adesso formano i popoli europei sia lontana dal crearsi un qualche suo meccanismo statale che formalizzi l’esercizio del potere pubblico europeo già esistente. Non è dunque un cedimento alle sollecitazioni della fantasia né la propensione ad un idealismo che detesto, e contro il quale ho combattuto per tutta la mia vita, ciò che mi induce a pensare in questo modo. È il realismo storico che mi ha insegnato a vedere che l’unità d’Europa come società non è un “ideale”, ma un fatto di antica quotidianità. Così, una volta considerato tutto ciò, la probabilità di uno Stato generale europeo si impone necessariamente. […]

La figura di questo stato sopranazionale, sarà, è evidente, molto diversa da quella consueta […] Occorre rendersi conto che da molti secoli – e consapevolmente da quattro secoli – tutti i popoli europei vivono soggetti a un potere pubblico che per la sua stessa purezza dinamica non tollera altra denominazione che quella tratta dalla scienza meccanica: l’ “equilibrio europeo”, o balance of power.

Questo è l’autentico governo europeo, che nel suo volo attraverso la storia regola lo sciame di popoli Reattivi e battaglieri come api, scampati alle rovine del mondo antico. L’unità d’Europa non è una fantasia, ma la realtà stessa, e la fantasia è precisamente l’altra. È il credere che la Francia, la Germania, l’Italia o la Spagna siano realtà sostanziali e indipendenti.

È comprensibile nondimeno che non tutti percepiscano con evidenza la realtà dell’Europa, perché l’Europa non è una “cosa” ma un equilibrio. Già nel settecento lo storiografo Robertson chiamò l’equilibrio europeo the great secret of modern politics.

Un segreto grande e paradossale, non c’è dubbio. Perché l’equilibrio, o la bilancia dei poteri, è una realtà che consiste essenzialmente nell’esistenza di una pluralità. Se questa pluralità si perdesse, quella unità dinamica svanirebbe. L’Europa è effettivamente uno sciame: molte api e un solo volo.

Tale carattere unitario nella magnifica pluralità europea è ciò che io chiamerei la buona omogeneità, quella che è feconda e auspicabile, quella che già faceva dire a Montesquieu: l’Europe n’est qu’une nation composée de plusieurs, quella che induceva Balzac, più romanticamente, a parlare della grande famille continenntale, dont tous les effort tendent à je ne sais quel mystère de civilisation.

 

 

Appendice 4

Hans Magnus Enzensberger

Il mostro buono di Bruxelles (2011)

intervista rilasciata a Luigi Mascheroni per Il giornale, in occasione dell’edizione italiana (2013)

 

Quando l’idea di Europa mi raggiunse per la prima volta, avevo vent’anni. Le macerie non erano ancora state rimosse, qua e là si avvertiva ancora l’odore di bruciato della Seconda guerra mondiale. Quello che allora in Germania si chiamava il pensiero europeo mi apparve subito sospetto, come un trucco dall’arsenale dei borsaneristi. La prontezza con cui ci si apprestava a scambiare l’uniforme dell’orribile tedesco con la giacca dell’europeo mi sembrava assolutamente sinistra. Inoltre, il tessuto col quale era confezionato l’abito era vecchio e logoro: odorava di storia dello Spirito. Tutto sommato, un travestimento piuttosto ingenuo, tanto più che dietro l’idealismo consunto si celavano interessi consistenti.

L’idea di Europa negli anni Cinquanta serviva ad addolcire la pillola amara del riarmo e a mascherare la continuità dei grandi affari: si issava la bandiera europea, si distribuivano premi Karl, si tenevano comizi domenicali e ci si appellava, come se nulla fosse accaduto, all’umanesimo.

Io diventai europeo abbandonando l’Europa. Con mio grande stupore scoprii, ogni volta che tornavo dalla Siberia, dall’America Latina, dall’Est asiatico o dalla California, un sentimento sconosciuto: i piaceri del patriottismo. Ovunque atterrassi – fosse Budapest, Roma, Amsterdam, Madrid o Copenhagen – ero sopraffatto dal sentimento sicuro di essere arrivato a casa. Ciò che vissi in questo modo non era affatto un pensiero, non era un’idea platonica. Era per un verso una certezza sensibile, distinta e inconfondibile come un odore familiare, e per l’altro una trama sottile e fitta di realtà sociali. Non voglio derubricare questa esperienza sotto il concetto di cultura; mi risulta troppo ambiguo; perché la certezza di cui parlo aveva poco a che fare con l’Acropoli, con le lezioni di Hegel o con la Cappella Sistina. Non dipendeva dai monumenti. Ciò che intendo è più modesto e si spinge più in profondità di qualsiasi guida turistica. Si può trovare nella piccola locanda dietro l’angolo, al mercato, ai bordi di un sentiero di campagna, sul tram, alle manifestazioni, dagli antiquari, vicino ai tavoli di cucina; e lo ritrovo nei gesti e nelle abitudini, nella proteste e nei desideri quotidiani della gente che vive qui. Non è necessario ricordare che queste particolarità non implicano superiorità. Fossi stato un musulmano a ogni atterraggio ad Algeri o a Karachi avrei fatto di sicuro una scoperta analoga.

Col patriottismo che ho in mente non si può fare nessuno Stato, e non serve a sgravarci dall’eredità specifica che ognuno si porta dietro. È da decenni che mi sorprendono certi predicatori erranti che non si stancano mai di lagnarsi del declino della cultura europea. In Occidente, dicono, saremmo minacciati da un’inarrestabile americanizzazione. A fornirne una prova sarebbero le bibite rinfrescanti, i giocattoli e le pietanze di carne tritata. Nell’Europa dell’Est sarebbe addirittura comparsa una nuova razza, l’uomo sovietico. Mi chiedo se questi autori abbiano mai attraversato una strada in Europa, e per me rimane un enigma dove vivano. Propongo a questi pensatori una scommessa semplice semplice: mi si bendino gli occhi e mi si porti in una qualsiasi città europea. Scommetto che non confonderei nessun luogo, tra Lisbona e Cracovia, con Novosibirsk o Indianapolis.

Naturalmente, alle particolarità di cui parlo si può dare questo o quel nome. Non sono un nemico delle teorie, anche se spesso la scelta tra teorie mi risulta difficile. Tutt’al più, vorrei riallacciarmi alla tradizione filosofica inglese e scozzese, e designare il fenomeno di cui ci stiamo occupando col vecchio nome di civil society, di società civile europea. È lei che finora, dilaniata, fiaccata, oppressa, continuamente travolta dalle contraddizioni, è sempre sopravvissuta, ed è lei che l’Europa deve ringraziare per ciò che negli anni Quaranta nessuno avrebbe considerato possibile: una vita dopo la morte – dopo quella catastrofe morale, politica ed economica, apparentemente totale, che i tedeschi avevano inflitto a questo continente.

In ogni caso, tutte le tesi che è possibile costruire sull’Europa vanno a cozzare contro un limite che è nella natura dell’oggetto. Questa resistenza peculiare emerge molto nettamente se confrontiamo il nostro continente con i grandi imperi del presente: gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e la Cina. Al contrario di questi grandi regni, l’Europa non è mai stata una nazione, mai uno Stato, e non è un fatto solo politico, religioso e linguistico, ma anche una circostanza che caratterizza la nostra cultura e la nostra coscienza.

Tentativi di assoggettare il continente a un unico dominio, dai Cesari romani fino a Napoleone e infine a Hitler, non sono certo mancati. Ma non può essere un caso che questi tentativi siano tutti falliti. Ogni centralismo è antieuropeo o, per dirla con le parole del grande storico Jacob Burckhardt: «Una sola cosa è sempre stata letale per l’Europa: lo schiacciante monopolio di potere di uno Stato, proveniente dall’interno come dall’esterno. Ogni tendenza livellatrice, sia essa politica, religiosa o sociale, è mortalmente pericolosa per il nostro continente. Ciò che ci minaccia è l’unità imposta; ciò che ci salva è la nostra molteplicità». Chi non sa o non vuole rispettare questa eterogeneità – e ciò significa anche l’autonomia del singolo rispetto al tutto – è un cattivo europeo. Questo vale anche per la politica interna, ed è valido a tutt’oggi. Come si può riconoscere nell’esempio irlandese, basco, transilvano o kosovaro.

In questo senso, ciò che viene definito il declino dell’Europa nella politica mondiale è un colpo di fortuna che permette al continente di ritrovare finalmente se stesso. Da più di quarant’anni ormai non vengono sollevate pretese territoriali sul suolo d’Europa. La guerra per i confini è diventata impensabile. Nella nostra storia, questo non si verificava dai tempi di Carlo V, e si può spiegare solo con il fatto che i nostri sogni di grande potenza si sono dileguati. Quasi tutti i popoli europei, nel corso dell’ultimo millennio, a un certo punto si sono abbandonati al delirio imperiale, non solo gli inglesi e i francesi, ma anche i portoghesi, i danesi, gli olandesi, gli svedesi, per non parlare proprio degli eterni latecomers, i tedeschi, la cui furia omicida è stata solo l’ultima e più sanguinosa serie di assalti per conquistare il primo posto. Con la sconfitta di simili illusioni viene a e inevitabile che ogni ambizione imperiale porta con sé. Per dare il colpo di grazia a questa stupidità, è forse consigliabile considerare il continente nell’ottica non delle grandi nazioni, ma di quelle piccole; non del centro, ma della periferia. A chi sceglie una prospettiva del genere risulterà più facile capire dove conduce il viaggio.

Naturalmente, non si dovrebbe sopravvalutare la capacità di apprendimento dei potenti. Tra noi sono ancora abbastanza le persone che continuano ad abbandonarsi ai vecchi sogni e a trincerarsi dietro al progetto europeo per attuare le loro ambizioni megalomani. La loro mania è la grande tecnologia, e cioè viaggi nello spazio, armamenti, frenesia nucleare: bigness as usual. Ci vogliono assolutamente saldare insieme perché solo uniti siamo grandi e forti. L’ideale che inseguono consiste nel renderci come i giapponesi, una premura alla quale, credo, non si possano accordare grandi prospettive. Infatti, se proprio dovessi azzardare una tesi sulla condizione dell’Europa, sarebbe questa: la società civile europea è molto più avanti dei suoi governi, dei suoi apparati politici, partiti e istituzioni. Ho capito quali chance possiede, e queste chance sono ovunque, tranne che nel diventare un mammut tra i mammut.

Connessa alla sproporzione tra la società civile europea e la classe politica che la rappresenta è anche una certa delusione, diffusa tra gli abitanti del continente. Questo malumore si rivolge soprattutto alle condizioni della Comunità Europea. Non so se i politici avvertano chiaramente con quanto sdegno oggi la maggioranza degli europei occidentali reagiscano alla parola “Bruxelles”. Le commissioni, i consigli e i comitati si gingillano allegramente nei loro palazzi di vetro, e non sembra disturbarli il fatto che la loro attività sia considerata sempre più un manicomio dispendioso. Nell’ombra della sua miseria, sembrano dileguarsi anche i successi incontestati della Comunità, come lo smantellamento delle barriere commerciali, gli accordi valutari, la pianificazione industriale, le norme di sicurezza per i voli aerei o le dimensioni delle viti. Nessuno ha da ridire su queste prestazioni. Ma le istituzioni europee accampano la pretesa di essere più di semplici organi amministrativi. In effetti, operano scelte politiche di vasta portata ma, in quest’ottica, trent’anni dopo i Patti di Roma, si deve constatare che il progetto della Comunità è fallito.

Le rituali lagnanze sull’egoismo nazionale degli stati membri, che ci tocca ascoltare da allora, non bastano a spiegare la sconfitta: infatti, la composizione degli interessi, il compromesso, il tanto denunciato traffico illecito fanno parte della normalità politica di ogni società aperta. Le condizioni avvilenti delle istituzioni europee hanno una causa molto più semplice, così elementare da restare sempre inosservata: a queste istituzioni manca la legittimazione democratica. Sono rimaste disperatamente indietro rispetto alla consapevolezza politica degli europei, e la loro arretratezza si può facilmente quantificare: risulta di circa centocinquant’anni.

La Comunità si trova in uno stato precostituzionale, come se l’Europa vivesse ancora nell’anno di grazia 1848. In questa Comunità, chi ha qualcosa da dire non è eletto, e chi è eletto non ha niente da dire. La Commissione non è responsabile di fronte al Parlamento europeo, non può essere destituita e la Comunità si sottrae a un diretto controllo democratico. Questo naturalmente risulta molto comodo per la classe politica.

Finalmente ha un’istituzione in cui i popoli non possono mettere becco, e dalla quale non si può essere dimessi! Un sogno semiassolutistico! Questo stato di cose spiega senz’altro gli innumerevoli aspetti mafiosi della cosiddetta integrazione europea, l’incontrollato sperpero di risorse che viene praticato a Bruxelles e la scandalosa politica agraria e ambientale della Comunità.

Un’Europa predemocratica come giocattolo delle lobby: come ce lo siamo meritato? E, viceversa, quanto deve essere solido il nostro sodalizio per non crollare sotto questo antico fardello? Penso che i problemi che il nostro continente ha di fronte – dalla spaccatura Est-Ovest alla disoccupazione, dall’irrisolta questione della difesa alla distruzione delle nostre risorse vitali – siano così difficili che non possiamo permetterci, ancora per molto tempo, il sabotaggio dell’Europa da parte delle istituzioni europee.

 

 

Bibliografia essenziale

CAFFI, Andrea – Critica della violenza – Bompiani, 1966

CAFFI, Andrea – Semplici riflessioni sulla situazione europea ( in Giustizia e Libertà e il socialismo liberale) – M&B Publishing, 1999

CAFFI, Andrea – Scritti politici – La Nuova Italia, 1970

CAFFI, Andrea – Politica e cultura – Rubettino, 2014

DE ROUGEMONT, Dènis – L’amore e l’Occidente – Rizzoli, 1977

DE ROUGEMONT, Dènis – L’uno e il diverso – Il Lavoro, 1995

DE ROUGEMONT, Dènis – L’avvenire è nelle nostre mani – Paoline, 1974

DE ROUGEMONT, Dènis – Vita o morte dell’Europa – Comunità, 1949

ENZENSBERGER, Hans Magnus – Il mostro buono di Bruxelles – Einaudi, 2011

ORTEGA Y GASSET, Josè – La ribellione delle masse – SE, 2001

STEINER, George – Una certa idea di Europa – Garzanti, 2006

 

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