Risvegli

di Paolo Repetto, 29 luglio 2023

Nelle Vite dei maggiori filosofi Diogene Laerzio racconta di un giovane cretese, Epimenide, che fu mandato un giorno dal padre in campagna a cercare una pecora dispersa. Dopo aver girovagato a lungo il ragazzo, sfinito per il caldo e la fatica, si addormentò in una caverna, per risvegliarsi solo cinquantasette anni dopo. Devo dire che Diogene Laerzio non è particolarmente attendibile, tirava un po’ all’enfasi sensazionalistica, e che altri che hanno scritto di Epimenide prima di lui, come lo stesso Platone e poi Plutarco, non fanno cenno a questo episodio, mentre colui che fu probabilmente la sua fonte, lo storico-geografo Pausania, parla di “soli” quarant’anni. Anche nelle trasposizioni moderne della leggenda (Goethe ne Il risveglio di Epimenide e Washington Irving ne La leggenda di Rip Van Winkle) le cifre sono discrepanti: cinquant’anni di sonno per il primo, venti per il secondo: ma c’è una spiegazione, e la vedremo.

La sostanza della storia è comunque che, a prescindere dalla durata del riposino, al suo risveglio Epimenide trovò il mondo molto cambiato, quasi irriconoscibile (e si parla di sei o sette secoli prima di Cristo). A quanto pare già in gioventù il bell’addormentato era un tipo poco convenzionale (ad esempio, portava i capelli lunghi, contro l’uso dei tempi) ed è naturale che al momento in cui rientrò dal mondo dei sogni la sua eccentricità apparisse ancora più marcata. Ma nelle società antiche la stranezza, se da un lato era vista con sospetto, dall’altro veniva letta come spia di facoltà speciali, in questo caso divinatorie. Epimenide cominciò dunque ad essere chiamato in tutta l’Ellade per fornire consulenze su situazioni difficili. Lo interpellarono anche gli ateniesi, prostrati da un’annosa pestilenza, e il nostro risolvette in quattro e quattr’otto il loro problema, identificandone le cause; poi se ne andò, schivo di onori e rifiutando oltretutto qualsiasi compenso (era davvero un eccentrico). Pare invece che, come sempre accade, non fosse particolarmente apprezzato dai suoi compatrioti, dei quali infatti diceva: “Cretesi, cattive bestie, ventri pigri, mentitori sempre” (questa invettiva gli è attribuita da Paolo di Tarso). Di qui il famoso paradosso del mentitore, per cui, essendo lui cretese, se tutti i cretesi mentono nemmeno lui è credibile, e le sue accuse sono infondate.

Ma non è questo che mi interessa. Mi interessano invece la capacità divinatorie, perché interrogato sull’origine dei suoi poteri Epimenide si scherniva asserendo di non vaticinare rivolgendo lo sguardo al futuro, ma sulla base della conoscenza del passato. Mi pare un’affermazione tutt’altro che scontata, degna nel caso specifico di una riflessione più approfondita: credo infatti che il filosofo-vate non volesse affermare semplicemente che pensare al passato è fondamentale per capire il presente e orientare il nostro futuro, cosa abbastanza ovvia (anche se oggi non lo è affatto). Intendeva dire, sulla base della sua straordinaria esperienza, che chi per qualche motivo è rimasto più strettamente vincolato al passato, o non ha vissuto direttamente i cambiamenti, quando se li trova di fronte è in grado di apprezzarne la reale portata, si rende conto più nitidamente della di-stanza intercorsa. È in fondo ciò che accade a noi tutti, che non avvertiamo i mutamenti che avvengono in noi stessi e nelle persone con le quali abbiamo maggiore consuetudine, mentre li constatiamo sgomenti in coloro che abbiamo perso di vista per venti o più anni.

La cosa mi coinvolge perché in qualche modo un’esperienza simile a quella di Epimenide la sto vivendo anch’io. Provo sempre più spesso la sensazione di risvegliarmi da un lungo letargo e di trovarmi di fronte ad una realtà nella quale non mi raccapezzo. Ne avrei tutti i motivi, perché nel frattempo la trasformazione del mondo ha conosciuto un’accelerazione esponenziale. I cambiamenti che mi sorprendono in realtà io li ho vissuti da dentro, sono passati sulla mia pelle, sul mio corpo, sulle mie speranze e aspirazioni (lasciando anche cicatrici evidenti): eppure, sarà senz’altro per effetto dell’età e del rimbambimento senile, che induce anche patologiche nostalgie, il mondo nel quale mi risveglio ad ogni notizia di telegiornale, ma anche ad ogni esperienza di quotidiana banalità, non lo riconosco, non mi piace, mi respinge (il che potrebbe in fondo essere un bene, perché avrò meno rimpianti al momento di lasciarlo). Insomma, l’impressione è di essermi addormentato sessant’anni fa pieno di certezze e di speranze e di risvegliarmi oggi pieno di dubbi e di delusioni.

Per esemplificare questa sensazione ricorro ad alcune notazioni che ho appuntato in una giornata tipo della scorsa settimana. Non tengo un diario, ma assicuro che è andata proprio così, non sto inventando nulla.

Dopo aver tentato invano di chiudere gli occhi per più di un paio d’ore consecutive, e troppo stanco per leggere, mi piazzo ad un un’ora antelucana davanti al televisore, lasciando scorrere distrattamente le immagini mute e sperando nel loro effetto soporifero. Ad un certo punto però mi imbatto in un vecchio film-documentario, di quelli in voga nei tardi anni cinquanta, che giocavano maliziosamente col pretesto del cinema-verità per offrire agli spettatori immagini che all’epoca apparivano pruriginose. Si tratta di Europa di notte, di Alessandro Blasetti, che quella moda l’ha inaugurata. Mi sono perso tutta la parte “spettacolare”, ma mi godo invece lo spezzone finale, quello davvero documentale, che mostra in bianco e nero una Roma percorsa ai primi chiarori dell’alba dalla cinepresa, a raccontare un lento risveglio dopo i bagordi notturni: una Roma semideserta (per le strade ci sono solo i netturbini e distributori dei pacchi dei giornali alle edicole), grigia ma pulitissima (è quella dei film tardo-neorealistici, tipo Poveri ma belli – quella sporca comincerà ad apparire solo tre anni dopo, con Accattone).

Il caso (?) vuole che uno dei servizi del telegiornale trasmesso immediatamente dopo sia dedicato proprio all’immondizia che sta sommergendo ormai da decenni la capitale. Roba da chiedersi come abbia fatto una città che un tempo dominava il mondo – e già all’epoca era abitata da più di un milione di persone – a ridursi ad un tale letamaio. E non c’è in giro un Epimenide da consultare (se ci fosse se ne andrebbe via di corsa), o meglio, ne vengono consultati una miriade, ma si limitano a intascare il compenso. Soprattutto non c’è l’ombra di netturbini (anche se a ruolo paga ne risultano duemilaquattrocento).

Con la prima sigaretta arriva anche la prima riflessione: allora la mia non è solo una percezione distorta, falsata dalla nostalgia: il mondo che ho conosciuto prima di addormentarmi era molto più pulito, nelle città come nelle campagne, lungo le strade di montagna come sul greto dei fiumi. Come ho già raccontato altrove, nelle campagne non si producevano rifiuti: tutto veniva riutilizzato, legno e carta per le stufe, l’organico per gli animali o come fertilizzante, la plastica non esisteva e le bottiglie di vetro erano preziose, i mobili, gli abiti e persino la biancheria passavano di padre in figlio. Persino le cicche venivano disfatte per recuperare il tabacco. Lungo le strade che salivano al paese e nelle vie interne le cunette erbose erano rasate ogni tre o quattro giorni, a ciascun cantoniere competeva la manutenzione di un tratto e c’era una vera e propria gara a chi lo teneva più in ordine. Anche nelle città funzionava una raccolta minuziosa. A Genova, dove ho trascorso nell’infanzia brevi periodi presso una zia portinaia, lo smaltimento dei rifiuti era quasi un rito, i netturbini erano implacabili con chi non rispettava i tempi e i luoghi del conferimento. Certo, la mia è una visione di superficie, ma almeno la superficie era pulita.

Risvegli 02

Mentre attendo che il caffè gorgogli nella moka il telegiornale prosegue. Un automobilista ubriaco, tra l’altro già privato un sacco di volte della patente, ha sterminato una famiglia che passeggiava tranquillamente a bordo strada. Gli omicidi stradali danno ormai vita ad una rubrica quotidiana, come i femminicidi e le previsioni meteo. Quando mi sono assopito, sessant’anni fa, naturalmente queste cose non accadevano. Mi si obietterà che circolavano forse un cinquantesimo delle auto odierne, ma la realtà è che c’erano anche molti meno ubriachi, alla faccia delle statistiche che vengono sbandierate ad ogni occasione, e quelli che c’erano in genere potevano fare del male solo a se stessi. Durante tutta l’adolescenza e la giovinezza non ricordo comunque di aver mai visto un mio coetaneo sbronzo. C’era sì qualche adulto o qualche anziano che alzava il gomito, ma al massimo capitava di trovarlo steso in una cunetta, dove aveva trascorso la notte dentro la neve, protetto dall’antigelo che circolava nel suo corpo. Oggi, a quanto mi arriva, lo sballo e la sbornia sono diventate abitudini giovanili, riti di passaggio che tendono a protrarsi poi all’infinito, e hanno anche cancellato le differenze di genere.

Al contrario di quanto faccio al solito, dopo il caffè non spengo il televisore. Una sindrome masochistica mi spinge a seguire anche le notizie internazionali. A meno di duemilacinquecento chilometri da noi, distanza che un aereo di linea percorre in tre ore, è in corso una guerra. Dopo quasi un anno e mezzo di carneficina, della quale non conosciamo nemmeno approssimativamente i costi reali, in vite umane, in sofferenze e in distruzioni, siamo a constatare che la cosa potrebbe durare all’infinito, così come evolvere all’improvviso in un disastro globale. Ci siamo già assuefatti, e le notizie dal fronte arrivano ormai di spalla, dopo le polemiche sulla Santanché e su La Russa.

Risvegli 03

Nessuno dei miei coetanei, nati a immediato ridosso dell’ultimo grande conflitto, avrebbe mai immaginato sessant’anni fa una cosa del genere. Si parlava di guerra fredda, è vero, veniva evocato ad ogni piè sospinto lo spauracchio nucleare, ma almeno dalle nostre parti (intendo in Italia, e penso anche al resto d’Europa) nessuno ci ha mai creduto veramente. A differenza che negli Stati Uniti, le aziende produttrici di rifugi antiatomici da noi hanno chiuso velocemente i battenti, e i pochi che sono stati venduti erano più intesi ad esibire uno status che a garantire una improbabile sicurezza.

Questo non significa che le guerre non ci fossero, che non fossero sanguinose e che non ne avessimo notizia. Sapevamo dell’Algeria, del Congo, del Biafra, del Vietnam e di tutti gli altri conflitti in corso in ogni angolo del mondo. Ma almeno li percepivamo come gli ultimi sussulti di un imperialismo in agonia, speravamo che avrebbero chiuso definitivamente la vergogna dello sfruttamento coloniale e aperto ad un mondo più giusto. Non è certamente il caso di quest’ultimo scontro: ed è indubbiamente assai più concreto il rischio di una deriva nucleare, anche se lo si esorcizza parlando di “atomiche tattiche”. Sembra che il mondo si sia rassegnato alla ineluttabilità di questo esito.

Di fronte a tutto ciò appare ancora più colpevole e scandalosa l’impotenza dell’Europa. All’epoca l’Unione Europea era ancora in fasce, esisteva solo per determinati settori economici, ma davvero si credeva che avrebbe potuto evolvere in una realtà politica. Magari eravamo tutti molto più ingenui, e non solo noi ragazzi, ma a volere questa unione era una classe politica che aveva vissuti gli orrori della guerra ed era determinata a non consentire che si ripetessero. Se potesse assistere allo spettacolo offerto dalle istituzioni politiche europee odierne inorridirebbe.

In appendice alle immagini della guerra arrivano quelle degli sbarchi dei migranti dall’Africa e dall’Asia. Nella sola giornata di ieri se ne sono contati settecento, e si sospetta che almeno un centinaio siano scomparsi nelle acque dello Ionio. Non riesco a seguire le polemiche e le dichiarazioni su accoglienza, respingimenti e ricollocazioni: un teatrino nauseante. Da neo-risvegliato mi colpiscono invece la natura e la dimensione del fenomeno. Mi ero assopito più mezzo secolo fa nella convinzione che la grande novità del terzo millennio sarebbe stata costituita da un terzo mondo finalmente libero e indipendente, capace di giocare un ruolo da protagonista: non mi aspettavo certo che la cosa prendesse questa tragica piega. Anche se non sono mai stato facile agli entusiasmi “rivoluzionari” del terzomondismo (voglio dire, niente Cuba, niente libretto rosso, niente Angola, ecc…), se guardo alla situazione geopolitica mondiale con gli occhi di allora non posso che rimanere allibito. È accaduto tutto il contrario di quanto speravo: il colonialismo ha cambiato pelle e ha trovato nuovi interpreti (la Cina, la Russia, gli stati arabi del golfo, …), le classi dirigenti indigene, in Africa come in Asia come nell’America Latina, hanno dato di sé pessima prova, dimostrandosi tutte egualmente incapaci e corrotte, quale che ne fosse l’estrazione o l’ideologia di riferimento, l’ONU è un baraccone privo di qualsiasi credibilità e potere, mentre tutte le agenzie specializzate che ha partorito, come l’UNESCO, la FAO e compagnia cantante sono diventate delle greppie inefficienti alle quali si nutre un numero scandaloso di funzionari, reclutati per lo più nei paesi “in via di sviluppo” e affamatissimi. Certo, hanno concorso gli stravolgimenti climatici, la desertificazione, lo sfruttamento criminale delle risorse operato dalle potenze neocoloniali: ma quello che balza agli occhi è ad esempio il fallimento di ogni progetto di “negritudine”, quello che aveva ispirato i primi anni dell’indipendenza africana. Altro che terzomondismo: e infatti, persino il termine è sparito dal vocabolario politico (così come “negritudine”, che da bandiera è diventata un insulto), e l’eredità è stata raccolta dall’azione “caritatevole” delle organizzazioni non governative, che anche quando sono in buona fede sembrano travasare l’acqua dell’oceano con un cucchiaio.

Risvegli 04

Le previsioni del tempo completano il quadro. Mezza Europa è prostrata da temperature torride, una buona parte è devastata da roghi che mandano in cenere il poco che rimane del patrimonio boschivo, mentre l’altra mezza è bombardata da fenomeni atmosferici estremi, trombe d’aria, bombe d’acqua, grandinate. Questo accadeva senz’altro anche sessant’anni fa, e seicento, e seimila: ma si trattava di situazioni eccezionali, ed erano percepite come tali. Oggi rappresentano la nuova “normalità” meteorologica, al di là dei titoli strillati sui quotidiani e del sensazionalismo isterico dei notiziari televisivi: una “normalità” percepita attraverso lo stravolgimento mediatico, nel quale all’afa e alla grandine si aggiungono le inconcludenti polemiche tra catastrofisti e negazionisti (che, è sin troppo scontato dirlo, lasciano il tempo che trovano). La chiusa finale, prima del diluvio pubblicitario, reca almeno una nota comica, ma di una comicità desolante, priva di qualsiasi umorismo: sono i consigli dispensati degli esperti, che tutti seri in volto e qualche volta supportati dall’autorevolezza di una divisa suggeriscono di bere molta acqua e di stare all’ombra, o nel caso opposto di rimanere in casa durante i nubifragi e non cercare riparo sotto gli alberi.

È ora di spegnere e di staccarsi dal divano. Una passeggiata solitaria mi porta al Capanno, dove trascorrerò il resto della mattinata trafficando e leggendo. Ma lungo il percorso mi guardo attorno. Sessant’anni fa questa passeggiata la ripetevo quattro volte il giorno, con un passo decisamente diverso, oppure in bicicletta. L’ultima casa del paese era in fondo al viale, dopo partivano i vigneti. Non c’era un metro di incolto, e a vista d’occhio i filari coprivano le colline più prossime ma anche quelle al di là del fiume. Dalla tonalità di verde delle foglie potevi capire dove maturavano il dolcetto, la barbera, il moscato. Oggi la macchia ha riconquistato tutti i declivi. Nella Valle del Fabbro non c’è più una sola vite, l’unico fazzoletto di coltivo è costituito dal mio frutteto, anch’esso purtroppo in via di inselvatichirsi. Per certi versi può apparire un angolo paradisiaco, ma è il paradiso dei rovi, e anche se egoisticamente me lo godo non può non trasmettermi la sensazione triste dell’abbandono.

Per la lettura mi rifugio in alcuni fascicoli de Le vie del mondo, risalenti agli anni in cui mi sono addormentato. Ho conferma di ciò che scrivevo sopra quanto alle aspettative su un mondo più libero, più giusto, più pacifico. E noto anche come non ci sia traccia di razzismo nella descrizione di paesi e di popoli lontani, appena emersi dal limbo della storia: c’è solo una gran curiosità, checché ne dicano gli odierni cancellazionisti, per i costumi, per le tradizioni, per le prospettive future che ciascuna di queste culture potrà perseguire senza negarsi. L’occidente non ha atteso i cultori della memoria particolaristica per farsi un esame di coscienza, come ben sa qualsiasi appassionato del western classico: nel cinema degli anni Cinquanta dietro ogni rivolta o scorreria o massacro operato dagli indiani c’erano la mano o le mene di mascalzoni bianchi.

Nel pomeriggio cerco consolazione dal Tour de France. Un tempo, nel dormiveglia di fine secolo scorso, andavo a seguirne dal vivo qualche tappa alpina. E prima della metà degli anni Sessanta lo vivevo attraverso le radiocronache. Ho tifato e ho urlato anch’io, ma quella che vedo oggi è una mandria di idioti assiepati lungo le salite, che intralciano con bandiere e cartelli la fatica dei corridori, corrono al loro fianco mezzi nudi per scattarsi un selfie, rischiando ad ogni passo di buttarli a terra, o si parano davanti alle moto bardati da cerebrolesi per strappare un attimo di visibilità internazionale. Non mi si venga a dire che è sempre stato così, che anche Bartali e Nencini erano stati ostacolati: si tratta di cose ben diverse. Là c’era di mezzo uno sciovinismo esasperato, stupido ma ingenuo: qui vediamo invece manifestarsi platealmente gli effetti del rincretinimento mediatico, della spettacolarizzazione di tutto, e in primis della stupidità. Lo sciovinismo, il tifo, sono degenerazioni della sportività: questa è invece degenerazione assoluta, una crescente tabe antropologica.

Non riesco neppure ad attendere l’arrivo della tappa, sono disgustato. Esco a fare un giro per strada. Il paese sembra un villaggio fantasma. Non un’anima, neppure un cane o un gatto (oggi vivono in casa), e non certo per via del Tour. È già l’ora nella quale dalle porte delle case che si affacciano in via Benedicta o dai vicoli che ne dipartono uscivano sedie e sgabelli, e zie e nonne e mamme si riunivano in capannelli lungo la strada, dandosi sulla voce da un gruppo all’altro, commentando ogni passaggio e facendo la tara ad ogni acquirente che uscisse dai negozi aperti sullo stradone. Oggi i capannelli non ci sono più, in compenso malgrado il divieto ci sono auto posteggiate lungo tutta la via, e non ci sono più nemmeno i negozi (erano dodici, oggi ne rimane uno). Se muore qualcuno paradossalmente se ne ha notizia solo il giorno dopo, dai manifesti affissi nella bacheca, se qualcuno è malato o finisce all’ospedale lo si viene a sapere quando ricompare, per i pettegolezzi ci si può rivolgere solo all’agenzia informale che opera davanti al bar, ma con gravi ritardi e scarsi dettagli. Insomma: non c’è più alcun controllo sociale, e questo in un paese di meno di mille abitanti. Figuriamoci in città. L’unico controllo è quello che passa attraverso gli iphone, ma è tutta un’altra faccenda.

In tre quarti d’ora, misurando il passo e cercando di cogliere i minimi indizi di cambiamento, di interventi edilizi, di restauro dei muri e degli infissi, dei segni di vita insomma, faccio il giro completo del paese. Incrocio quattro persone, e non ne conosco nemmeno una. Più della metà degli attuali abitanti è arrivata recentemente da fuori, attratta dai costi stracciati delle case – che nonostante ciò rimangono invendute per anni.

Alla metà del secolo scorso, quando i residenti erano quasi il doppio, li conoscevo benissimo tutti, sapevo dove abitavano, che attività svolgevano, che carattere avevano, se fossero affidabili o meno. Oggi mi sento uno straniero nella terra nativa. Continuo a non chiudere a chiave la porta la notte, ma in realtà non sono più così serenamente fiducioso.

Risvegli 05

Scende finalmente la sera, e con essa torna purtroppo anche l’incubo dell’insonnia. Una volta era costume tirar tardi in cortile, dove confluivano vicini, dirimpettai e passanti occasionali: ma dopo la morte dei miei genitori la consuetudine si è rapidamente persa.

La televisione naturalmente non aiuta, i film sono gli stessi già trasmessi cinquanta volte, persino i western sono inguardabili, ridotti a uno spezzatino in un mare di pubblicità, i talk show sono un oltraggio costante al pudore intellettuale. Non restano che i libri, ma anche la dondolo a quest’ora è scomoda, e a letto ogni posizione di lettura è immediatamente stancante. Spengo la luce, chiudo gli occhi e mi concentro.

Realizzo che per tutta la giornata ho comunque fatto uso senza pensarci affatto di strumenti (il computer, il cellulare, il forno a microonde, ecc …) dei quali sessant’anni fa nemmeno avrei sospettato l’avvento, e di altri dei quali non avevo la disponibilità (auto, telefono, televisione, …). Che ho mangiato cibi conservati in confezioni di plastica, e lo stesso vale per le bevande. E che tutto sommato, a dispetto della consapevolezza negativa, ho anche pensato secondo gli schemi conseguenti a tutto questo modo di vita. Solo ora mi rendo conto di quanti bisogni artificialmente indotti ho cumulato, di quanto ne sono diventato dipendente. Mi vien da pensare di essermi mosso per tutto questo tempo come un sonnambulo. Di fatto, mi piaccia o meno, mi sono adeguato a tutti i cambiamenti, a tutte le novità. Non dico di averli digeriti o capiti tutti, ma quantomeno ci ho convissuto. E nemmeno ho scordato come il mondo preletargico non fosse propriamente un Eden. Diciamo che ho vissuto in uno stato di coma vigile, e che forse sono meno convinto di quanto credo di volerne davvero uscire.

Comunque ci provo. Può essere che stavolta mi addormenti, per risvegliarmi sessant’anni addietro. Non con sessant’anni di meno, non è questo a interessarmi. Eden o no, ciò che rivoglio, almeno per un attimo, è quel mondo.

P.S. Ho accennato inizialmente alle discrepanze sulla durata del sonno di Epimenide (alias Rip Van Vinkle) che si trova nelle versioni moderne della leggenda. Me ne do questa spiegazione. Goethe scrive Il risveglio di Epimenide nel 1814. Dietro l’opera c’è una motivazione politica autogiustificatoria. L’autore cerca di spiegare il suo cinquantennale silenzio di fronte agli straordinari accadimenti dell’ultimo secolo, rivoluzioni americana e francese comprese, e soprattutto rispetto a quelli che hanno profondamente toccato la vita della Germania. Sembra voler dire che il suo non è stato un atteggiamento di fuga e di non compromissione con la realtà, ma di osservazione della realtà dall’alto di una speciale consapevolezza indotta dal sapere artistico. E infatti, dopo tanti sconvolgimenti, le cose sono tornate al loro posto (Napoleone è appena stato sconfitto), l’ordine è stato ristabilito. Al contrario Irwing, che scrive il Rip van Winkle pochi anni dopo (1819) in Inghilterra, ma lo ambienta in America, constata che in vent’anni le cose sono cambiate moltissimo, sia sul piano politico che su quello economico e sociale. Si è addormentato in una colonia inglese e si risveglia negli Stati Uniti, rischiando addirittura di essere linciato quando in perfetta buona fede dichiara la propria lealtà alla corona britannica. Ma soprattutto prende atto di una rivoluzione ancora più importante, quella industriale, che viaggia sulle ferrovie e sui battelli a vapore, e del fatto che le trasformazioni sono destinate a diventare sempre più veloci. Nessuno attribuisce a Rip facoltà divinatorie, ma molti credono alla sua storia e invidiano la sua esperienza, non fosse altro per il fatto che gli ha consentito di sfuggire alla tirannia della moglie. In sostanza, secondo Irwing, due decenni sono sufficienti a cambiarti la vita e a trasformare il mondo.

Direi che alla luce degli ultimi due secoli abbia visto ben più lontano di Goethe.

Risvegli 06

Camera con vista sul futuro

di Paolo Repetto, 9 aprile 2020

Da un mese e mezzo vivo confinato in un terrazzino al settimo piano. Fortunatamente è orientato a sud, e aggetta su un fazzoletto triangolare di verde, al di là del quale corre un ampio viale e si allarga poi una distesa periferica di costruzioni basse. Non mi è quindi impedita la vista in lontananza, a centottanta gradi, dei profili dell’Appennino retrostante Genova: del Tobbio, delle alture della Val Borbera e di quelle della valle dell’Orba. Consolazione magra, ma di questi tempi ci si aggrappa a tutto.

Più che all’orizzonte, però, anche per non rinfocolare troppo la nostalgia, quando alzo la testa dai libri guardo in questi giorni di sotto, in cerca di forme di vita che si muovano tra lo spalto e il rettilineo di via Testore e mi rassicurino che non è esplosa una bomba al neutrino. La via appare sgombra e inutilmente scorrevole, mentre di norma è intasata da auto in doppia fila, ed è vuoto e silenzioso anche il marciapiede sul quale estate e inverno sostano e schiamazzano gli avventori del bar (e proprietari delle auto in doppia fila), tutti rigorosamente col bicchiere in mano. Solo negli orari consentiti dal decreto c’è una piccola e compostissima fila davanti al minimarket d’angolo.

Quando riguadagno l’interno cerco di rimpicciolirmi il più possibile e di muovermi come un astronauta, lento e levitante. La condizione di quarantena impone naturalmente di trovare linee nuove di compromesso con lo spazio in cui vivi e con chi lo condivide con te. Tre persone per ventiquattro ore al giorno per cinquanta giorni sono più di tremilacinquecento persone, anche al netto delle uscite per i rifornimenti o per le mie mezz’ore quotidiane d’aria attorno all’isolato: uno sproposito, per ottanta metri quadri. A breve saranno a rischio di crollo i palazzi più ancora che i viadotti – anche se questi ultimi, pur sgravati del traffico, continuano allegramente ad afflosciarsi,). Diventa un’arte lo scansarsi.

Non solo: il “distanziamento sociale” induce a cercare nella televisione un surrogato di quel contatto con l’esterno che è venuto drammaticamente a mancare. Ti riduci, non fosse altro per l’aggiornamento sulle perdite giornaliere e sul progredire del contagio, a sedere davanti alla televisione, e stenti poi a rialzarti, perché in effetti non hai altro di urgente da fare. Insomma, se si conserva un po’ di coscienza critica si può verificare su noi stessi cosa significa rimbambimento depressivo.

Questo spiega forse perché mi sforzo di rappresentare invece la mia attuale condizione come un’opportunità, secondo la moda ormai invalsa di considerare opportunità qualsiasi disgrazia o accidente capiti. Non è facile, e infatti ci sto girando attorno senza risolvermi sin dall’esordio di questo pezzo: ma voglio provarci.

Mettiamola così: io godo di un punto d’osservazione privilegiato, rispetto a tutti gli amici che vivono in campagna o dispongono almeno di un piccolo giardino, e soffrono in maniera molto attutita gli “effetti collaterali” di questa crisi. Io vivo nel cuore della battaglia, come un reporter di guerra. Loro non sanno cosa si perdono, perché quando il tran tran quotidiano muta così drasticamente si attivano, per forza di cose, dei sensori diversi, e si colgono aspetti del reale che nella normalità sfuggono o appaiono assolutamente insignificanti.

Ora, senza pretendere a discorsi filosofici o ad analisi psicologiche o sociologiche, per i quali conviene rivolgersi ad altri, vorrei limitarmi a fornire qualche esempio di ciò che una condizione di normalità non ci indurrebbe mai a considerare significativo. Vado in ordine sparso, e lascio aperte queste pagine, come già i miei precedenti interventi antivirali, a ogni sorta di integrazione, correzione e aggiunta.

 

1)    Parto proprio dalla televisione. Non mi sarei mai atteso di scoprire attraverso la tivù quanto è grande il patrimonio librario degli italiani. Con questa storia dello streaming, per cui si interviene da casa, vedo fiorire ovunque insospettabili librerie domestiche. Mi si obietterà che è abbastanza normale, uno non si collega dando le spalle al lavandino della cucina o alla cassetta dello sciacquone, ed è vero: ma vi invito a fare caso, nel corso dei collegamenti, non all’intervistato, che in genere non ha granché di interessante da dire, ma al tipo di scaffalature che ha alle spalle e alla disposizione dei volumi, anche senza cadere nella mia maniacale pretesa di riconoscere dal dorso le case editrici, e quindi gli orientamenti culturali del proprietario, o di leggere addirittura i titoli (questo si può fare meglio sul monitor del computer, ingrandendo e mettendo a fuoco i particolari). A volte il gioco è davvero mal condotto. Ieri ho visto una povera Billy nella quale pochi volumi totalmente anonimi, tipo quelli usati dai mobilieri nelle esposizioni, erano sparsi in assembramenti ridottissimi su ripiani per il resto desolatamente vuoti (non c’erano nemmeno vasi o teste di legno africane o altre suppellettili), e questo solo nella colonna immediatamente alle spalle del parlante. Avendo il tizio calibrato male l’inquadratura si scorgevano le colonne ai lati completamente deserte.  Penso che a un certo punto abbia preso coscienza dell’assurdità della situazione, o qualcuno gliela abbia fatta notare, perché ha cominciato a impappinarsi e ha chiuso frettolosamente il collegamento. Sono rimasto con l’angoscia per quegli scaffali vuoti.

In altri casi, invece, regìe più accorte predispongono una inquadratura di sghimbescio, facendoci intravvedere infilate di scaffali grondanti libri lungo tutta una parete. In realtà ci tolgono l’unico piacere, quello appunto del gioco al riconoscimento.  Si tratta in genere di filosofi o liberi pensatori. I rappresentanti della vecchia guardia, le figure istituzionali, si coprono invece le spalle con solide enciclopedie, trentacinque volumi tutti uguali e tutti ugualmente intonsi, forse per mantenere un profilo neutrale, o trasmettere un’immagine di solidità, ma più probabilmente perché non possono esibire altro. Mentre i direttori di riviste e quotidiani sono preferibilmente incorniciati dalle raccolte cartacee delle loro creature, alla faccia di tutti gli archivi digitali, o dalle intere collane edite in allegato. Insomma, tutto piuttosto pacchiano. C’è un futuro per giovani che volessero specializzarsi in Scenografia delle Screaming, anziché in Storia. Elisa ha perso un’occasione.

Comunque, non mi si venga a dire che l’editoria è in crisi. Non so se gli italiani leggono, ma senz’altro hanno comprato libri. Forse lo hanno fatto recentemente, avendo sentore della crisi e prevedendo i collegamenti in remoto. Ma lo hanno fatto.

In compenso, mia figlia Chiara, che lavora in Inghilterra nel settore finanziario, mi racconta che nelle videoconferenze i suoi colleghi si presentano quasi sempre dando la schiena a quadri di autori in qualche modo riconoscibili e riconosciuti (almeno a livello locale). In Inghilterra va l’arte, in Italia la letteratura (ma proprio stasera, nel salotto-streaming della Gruber, alle spalle della vicepresidente della Confindustria campeggiava un’opera di Gilardi, mentre dietro tutti gli altri convitati virtuali le librerie sembravano in terapia intensiva, tanto il loro respiro era artificiale).

Mi sono anche chiesto come me la caverei io, dovendo collegarmi da casa (non dal terrazzino di Alessandria, ma da Lerma). Sarei in grave imbarazzo, perché in qualunque ambiente e da qualsiasi angolatura avrei alle spalle libri, e tutti libri ai quali tengo e che farebbero la gioia di un riconoscitore, nonché scaffalature autoprodotte. Quindi, o dovrei programmare una serie di interventi con inquadrature diverse, o sarei tenuto per equità a rinunciare. Forse mi conviene adottare quest’ultima soluzione.

 

2)   Per dimostrare che non sono poi così prevenuto nei confronti della televisione, eccomi a riconoscerle dei meriti, quando ci sono. Uno dei più grandi, nella gestione di questo terribile momento, è senz’altro l’oscuramento di Sgarbi. Lo stiamo pagando ad un prezzo altissimo, trattandosi tra l’altro solo di una parziale e tardiva riparazione a una schifezza che andava avanti da anni, ma insomma, aggrappiamoci anche alle piccole consolazioni. Se assieme al virus avessimo dovuto sopportare anche lui la tragedia sarebbe diventata del tutto insostenibile. Rimane purtroppo il timore che non appena cessata l’emergenza possa ricomparire. Dicono che usciremo da questa prova migliori: bene, il suo ritorno o meno sui teleschermi sarà la cartina di tornasole.

 

3)   Un altro merito della tivù è quello di aver dato fondo al magazzino dei film western (quelli veri, intendo). Purtroppo però sto scoprendo che li avevo già visti tutti, e non solo la gran parte, come pensavo. Mara si diverte, ogni volta che durante lo zapping si imbatte in un cappello a larghe tese e in un cavallo, a chiamarmi per verificare se lo riconosco, e a sentirsi elencare all’istante titolo e interpreti, spesso anche il regista. A molti questo esaurimento delle scorte non parrà una cosa di particolare rilievo, ma per me lo è. È sintomatico, simbolico di un ciclo che si è esaurito e di un mondo che ha fatto il suo tempo. Può andare definitivamente in archivio (non mi riferisco solo al western). Il fatto è che dentro quel mondo ci sono anch’io.

 

4)   Cambiano i rituali. Fino a un paio di mesi fa nella mia liturgia mattutina, subito dopo il caffè e la prima sigaretta, veniva il siparietto di Paolo Sottocorona, con le previsioni meteo fino a due giorni avanti, offerte con garbo e ironia, sottintendendo sempre: “se non andrà proprio così non prendetevela con me, faccio quello che posso”. Ho smesso completamente di seguirlo, anche perché di come sarà il tempo nei prossimi due giorni non mi può fregare di meno, visto che li trascorrerò comunque in casa. Ho introdotto invece un rituale vespertino, quello del collegamento con la Protezione Civile, con tanto di snocciolamento delle cifre dei contagi e dei decessi. So che le cifre sono approssimate e virtuali, e che i costi umani reali di questo dramma li conosceremo davvero, forse, solo dopo che si sarà totalmente consumato: ma mi dà l’illusione di partecipare in qualche modo ad una cerimonia collettiva di addio, assieme ad altri milioni di telespettatori, per evitare che sei o settecento persone ogni giorno se ne vadano insalutate, senza un funerale, senza qualcuno che le accompagni, inghiottite immediatamente dalle statistiche.  Che è esattamente il contrario di quanto cercano di fare, ed è anche comprensibile perché lo facciano, coloro che danno l’informazione.

 

5)   Ho provato a tenere una conta differenziata per età e per genere delle persone che incontro al supermercato, che vedo passare dal terrazzino o che incrocio durante i duemila passi quotidiani extra moenia. È probabile che le mie statistiche siano viziate da una deformazione prospettica, da un campionamento troppo parziale, ma io riporto solo quanto ho potuto constatare, e cioè che le percentuali per genere sono inversamente proporzionali a quelle ufficialmente rilevate dei tassi di contagio.  Le donne in sostanza contraggono il virus due volte meno degli uomini, e stanno in giro due volte di più. Forse proprio perché rassicurate dalle statistiche, o forse più semplicemente perché nelle situazioni critiche sono meno ipocondriache e più spicce dei maschi, o magari perché nel fare la spesa non si fidano dei mariti e vogliono avere l’ultima parola nella scelta dei prodotti. Sia come sia, sono protagoniste nella quotidianità dell’emergenza.  Mi faceva notare Nico Parodi che al di là della crisi il tema del nuovo ruolo femminile e delle prospettive che disegna sarebbero da affrontare non più con il cazzeggio degli psicologi e dei sociologi da talk show, ma andando a sommare tutta una serie di evidenze e di proiezioni scientifiche. Credo che qualcuna, di tipo nuovo, verrà fuori anche da questa situazione.

Per quanto concerne invece le classi di età, gli anziani sembrano decisamente molto più girovaghi dei giovani, a dispetto del fatto di essere maggiormente a rischio. Probabilmente anche questo dato ha spiegazioni plurime, compatibili comunque l’una con l’altra. Intanto, già sotto il profilo prettamente demografico in città come Alessandria vivono molti più anziani che giovani, per motivi logistici. Questi ultimi tendono a decentrarsi nella cintura dei paesi attorno, hanno maggiore facilità di spostamento e frequentano probabilmente anche in questo periodo, per gli approvvigionamenti, i grandi centri commerciali periferici. Poi sembra che gli anziani abbiano perfettamente inteso il senso del messaggio lanciato dal governo e rimbalzato da tutte le reti televisive, che non è “Abbiate riguardo per la vostra salute” ma “Non cercatevi guai perché non abbiamo le risorse per curarvi”, e vogliano ribaltarlo, dimostrando di sapersela cavare comunque. Infine c’è il fatto che i giovanissimi, anche se liberi da incombenze scolastiche, non li si incontra al supermercato, perché sono esentati per statuto dal farsi carico del vettovagliamento o di altre incombenze spicciole. È probabile abbiano escogitato luoghi e modi diversi per ritrovarsi, oppure si brasano beatamente davanti al computer o al telefonino (come del resto facevano anche prima).

6)   E i cani, che avevamo lasciato come grandi protagonisti della resistenza allo stress da quarantena?  Continuano stoicamente a reggere agli straordinari cui sono sottoposti, ma rilevo un calo nella frequenza delle uscite, forse connesso a quanto dicevo sopra. Erano infatti soprattutto i giovani a offrirsi come conduttori, e nel frattempo questi hanno trovato scuse diverse per le uscite, o si sono definitivamente poltronizzati. Un’altra cosa piuttosto voglio segnalare. È naturale vedere nelle aiuole qui sotto solo animali di piccola taglia, come si addice a bestiole che vivono in appartamento.  Ma allora, mi chiedo, che fine hanno fatto i pittbull e i mastini tibetani che giravano un tempo? Dispongono tutti di confortevoli giardini? E se no, dove li portano a pisciare? E se si, che ci facevano in giro, prima?

 

7)   Chiudo, per il momento, accennando al rischio molto concreto per tutti dell’abitudine all’ozio. L’ozio forzato snerva, per due principali motivi: da un lato perché dopo aver scatenato una prima insofferenza insinua sottilmente l’idea che i progetti che avevi in mente non siano poi così importanti e così urgenti, visto che comunque non puoi dare loro corso e devi fartene una ragione. Dall’altro, la prospettiva di molto altro tempo vuoto a disposizione spinge a rimandare anche le cose che potresti fare subito, e che ti eri sempre chiesto se mai sarebbe capitata l’opportunità di farle. È quanto mi sta accadendo con tutti i propositi di completamento dei lavori lasciati a metà sul computer, o di lettura dei libri accumulati, cose per le quali persino quando ancora ero in servizio riuscivo a trovare un paio d’ore la sera o di notte, mente adesso giro attorno e inseguo da un libro o da un sito all’altro sempre nuove distrazioni. Sono al punto che l’idea di quel che mi aspetta al rientro a Lerma, dei lavori di riassetto del giardino e del frutteto sconciati dai nubifragi autunnali mi spaventa, e ad ogni nuova dilazione imposta tiro quasi un sospiro rassegnato di sollievo. Non è una sindrome da poco, e non credo di essere l’unico a viverla.  Se un po’ può servire a smorzare l’ansia di accelerazione continua che si viveva in precedenza, oltre un certo limite rischia di convincere alle beatitudini del letargo.

In me quest’ultima pulsione sta già vincendo. Spero di non averla indotta anche in chi, già fiaccato dalla noia, ha provato sin qui a seguirmi.

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Il giorno della marmotta

di Paolo Repetto, 2 aprile 2020

Quando comporranno il mio manifesto funebre dovranno scontarmi un anno. Perché ho già capito che quello in corso mi sarà interamente sottratto: e comunque già mi è stata rubata la primavera, che per un anziano come me è la stagione di una fugace rinascita. Non dicono infatti i saggi pellerossa: ho vissuto tante primavere e ho superato tanti inverni? (non so se lo dicono, ma mi piace pensarlo).

Non voglio farla tragica, ci sono situazioni ben più serie della mia, alcune delle quali le vivo anche da molto vicino, e ho quindi quasi ritegno a parlare delle mie nevrosi da quarantena. Ma l’alternativa è il silenzio totale, e questo lo vedrei come una resa al virus e al disamore per la vita che si sta insinuando in tutti noi. Provo così, a venti giorni esatti dalle prime impressioni proposte su questo sito, a ricapitolare un po’ la situazione.

Parto dal titolo di questo intervento. C’è un film americano dei primi anni novanta, che non conoscevo affatto e che solo uno come Geppi poteva segnalarmi, distribuito in Italia col titolo Ricomincio da capo, mentre nell’originale fa riferimento a una ricorrenza celebrata negli Stati Uniti e in Canada il 2 di febbraio, il Groundhog Day, giorno della Marmotta. Si tratta di una delle tante ricorrenze riciclate (e non solo per promuovere consumi, ma nel tentativo di surrogare con una liturgia laica la scomparsa dei tempi sacri) delle quali si nutre la modernità: trascrizioni profane di antiche celebrazioni cristiane, a loro volta già istituite pescando in più antiche tradizioni pagane e riadattandole. (Sul tipo di quella di Halloween, che si è sostituita nel mondo protestante alla festa di Ognissanti, a sua volta ricalcata sulle credenze celtiche nel ritorno dei morti il giorno del Samhain).

Nella versione americana della ricorrenza si è adattato un proverbio scozzese, che recita più o meno: Se il giorno della Candelora è luminoso e chiaro, ci saranno due inverni in un anno. In effetti, proprio di una rivisitazione della Candelora si tratta, che anche dalle nostre parti è indicata come spartiacque temporale per i vaticini meteorologici. Noi basso-piemontesi diciamo: Su fa bruttu a ‘ra Candlora, da l’invernu a summa fora (mi si perdoni la trascrizione alla buona: non sono un filologo dialettale. Il dialetto mi limito a parlarlo).

Ma cosa c’entra in tutto questo la marmotta? C’entra perché gli americani sono dei bambinoni e hanno bisogno di spettacolarizzare un po’ tutto, e allora si sono inventati un cinema particolare: in questo giorno si dovrebbe tenere d’occhio l’ingresso di una tana di marmotta (già la location è abbastanza problematica), perché è il periodo in cui i suoi inquilini si risvegliano. Ora, se la marmotta emerge dal buco e non vede la sua ombra, perché il tempo è nuvoloso, l’inverno ha i giorni contati; se invece è una giornata limpida e soleggiata la marmotta scorgerà la sua ombra, si spaventerà e si rintanerà velocemente. Ciò significa che l’inverno andrà avanti fino a metà marzo.

Si farebbe molto prima a dare un’occhiata al cielo, senza disturbare la povera marmotta: ma tant’è, anche noi appena svegli non guardiamo dalla finestra, ma accendiamo il televisore per seguire le previsioni meteo.

Bene, tutte queste premesse per arrivare alla spiegazione dei titoli, il mio e quello originale del film: che però con quello che voglio dire c’entrano solo di striscio. Nel film accade infatti che un giornalista inviato nel Connecticut a scrivere un pezzo di folklore sulla celebrazione, e giustamente scazzato (un po’ come Forster Wallace al Festival dell’aragosta nel Maine), si ritrova bloccato in un paesino da una tempesta di neve e scopre, con crescente disperazione, che lì i giorni si ripetono tutti esattamente uguali, introdotti al mattino dal “Salve. Oggi è il giorno della marmotta” sparato dalla radio locale. L’idea è originale, una cosa alla Robida – ma lui il tempo non lo fermava, lo faceva correre addirittura all’indietro, e almeno c’era un po’ di movimento, di novità, sia pure a rovescio. Quel che in fondo tutti oggi vorremmo.

Ecco dove volevo arrivare con questo lungo giro. Da un mese, ogni mattino, è come se qualcuno mi dicesse dalla radio: “Salve. Oggi è il giorno del coronavirus, e sarà esattamente simile a ieri e a domani”. Anzi, non è come se qualcuno me lo dicesse: me lo urla la tivù, me lo dicono i giornali, che ormai non sanno più che titoli inventare, li hanno già esauriti tutti. La sostanza è sempre la stessa. Cifre dei contagiati, dei decessi e dei guariti – queste ultime ovvie (se non fossero guariti sarebbero deceduti), ma servono a far apparire un po’ meno cupa la faccenda. Per il resto, le rituali raccomandazioni sui comportamenti da tenere, e gli altrettanto rituali giri d’opinione con giornalisti, attori, cantanti, e politici a piede libero, per l’occasione allargati anche a virologi e operatori sanitari.

Mi si potrà obiettare che in fondo i giorni si susseguivano tutti uguali, o quasi, anche prima. Senz’altro era così in tivù, fatto salvo l’oggetto dei talk e delle interviste. Ma la quotidianità era un po’ più mossa. Incontravi gli amici, cosa ben diversa dal sentirli anche tutti i giorni per telefono, scazzati come te e progressivamente sempre più imbozzolati, per cui ti rendi conto di quanto l’empatia abbia bisogno del contatto fisico; ti inventavi lavori, occupazioni, blitz nei musei, al cinema, in libreria, o semplicemente su un sentiero di campagna. Ma non è tanto ciò che effettivamente facevi, a mancare (qualcuno mi dice: in fondo non ho mutato di molto le mie abitudini): pesa l’idea di non poterlo fare, di non essere nella condizione di decidere anche per cose piccolissime e apparentemente insignificanti. Pesa l’assenza di una qualsiasi possibilità di progettare il proprio tempo.

In questo mese ho avuto l’opportunità di mettere mano ad un sacco di cose che avevo lasciato indietro, ai libri che avevo raccolto proprio in vista di eventualità drammatiche simili (ma a questa specifica non avevo mai pensato, mi ero fermato a fratture multiple alle gambe o a lungodegenze), eppure non sono riuscito a concludere alcunché. È come se avessi già accettato l’idea che avrò un futuro, per quel che ne rimane, assolutamente vuoto, e che devo lasciarmi indietro qualcosa per riempirlo.

Passiamo adesso da quel che provo dentro a quello che mi vedo attorno.

Quando esco a fare la spesa, o anche solo per un breve giro attorno all’isolato, per non perdere l’uso delle gambe, vedo persone sempre più distanziate e sempre più protette. Nei giri a vuoto non incontro praticamente nessuno, ma le rare volte che incrocio qualche altro passante, in automatico ci spostiamo sui lati opposti della strada.

È già un riflesso condizionato, che in realtà non ha alcun valore profilattico, ma è diventato immediatamente istintivo. Mi chiedo se riusciremo a liberarcene una volta che l’incubo sia cessato (sempre che cessi). Temo di no: che rimarrà per il futuro un’ombra su tutte le situazioni di prossimità con gli altri.

Vedo anche che a dispetto di questi comportamenti, enfaticamente celebrati come virtuosi, mentre invece sono dettati da una comunque giustificata paura, la sottovalutazione del fenomeno da parte di molti non è rientrata. Ha solo cambiato motivazione. Prima era dettata nei più dall’ignoranza, in alcuni da una effettiva esperienza nel campo, che induceva a proiettare quanto accade in un panorama sanitario già da sempre inquietante, anche se sottaciuto, e in altri ancora da una inguaribile tendenza a scorgere ovunque indizi di complotto e attentati alla democrazia (vi suggerisco di leggere gli interventi in proposito di Giorgio Agamben comparsi a partire dalla fine di febbraio su “Il manifesto”. Tra l’altro, avrete per una volta l’occasione di capire di cosa sta parlando, mentre lui paradossalmente non l’ha capito affatto).

Ora, per gli ignoranti purtroppo non c’è vaccino: probabilmente molti sono passati nel giro di questi giorni dalla sottovalutazione all’allarmismo esasperato e inconcludente. Per chi ha delle competenze, la cosa è più complessa, perché in effetti il balletto delle cifre, la confusione tra valori assoluti e valori percentuali, il mancato coordinamento stesso tra i vari organismi che dovrebbero gestire la cosa e che si fanno invece la guerra, anche attraverso le cifre, impedisce obiettivamente di avventurarsi in analisi e giudizi. Forse varrà la pena attendere che l’emergenza si plachi, per riflettere con mente più sgombra. Purché però nel frattempo non si tenda a ridurre l’effetto del virus a un “colpo di grazia” inferto a gente destinata comunque a morire. Siamo tutti destinati a morire, ma non siamo molto ansiosi che la pratica sia sbrigata più velocemente.

Quanto ai “complottisti” (e ci faccio rientrare tutti quelli che insorgono contro un presunto progetto di aggressione alle libertà democratiche), quel punto di vista – riassumibile nel “ne muoiono tanti tutti i giorni per altre malattie, indotte dal sistema e dal suo modo di produzione, e nessuno se ne allarma: quindi è evidente che questa è una epidemia inventata per far passare leggi e provvedimenti liberticidi” – lo hanno assunto da subito. Anche qui rimando ad una intervista, che ho letto proprio oggi, rilasciata tal Francesco Benozzo, docente universitario, sul sito Libri e parole.

Confesso la mia ignoranza: non sapevo che Benozzo fosse un “poeta-filologo e musicista, candidato dal 2015 al Nobel per la letteratura, autore di centinaia di pubblicazioni, direttore di tre riviste scientifiche internazionali, membro di comitati scientifici di gruppi di ricerca internazionali (e qui giù sigle e acronimi tipo: IDA: Immagini e Deformazioni dell’Altro – n.d.r) e molto altro ancora. Dirò di più: non sapevo neppure che Benozzo esistesse, non mi è mai capitata tra le mani una delle centinaia di pubblicazioni che lo segnalano per il Nobel – eppure sono uno che di roba ne fa passare.

Comunque: dopo averci informato che lui vive (beato!) in mezzo a un bosco nel Trentino, e che quindi dei divieti se ne fa un baffo (che sia un sodale di Mauro Corona?) e che sta lavorando ad un poema dal titolo Màelvalstal. Poema sulla creazione dei mondi (dal che si desume che stavolta il Nobel non glielo toglie nessuno – a meno che mi candidi anch’io. Ci sto pensando), il professor Benozzo ci rivela che siamo tutti marionette inconsapevoli, vale a dire una massa di coglioni, che si stanno facendo infinocchiare, con la scusa di una epidemia inventata, dagli sgherri del sistema. E porta a convalida della sua tesi l’apprezzamento di Noam Chomsky (ti pareva che il grande vecchio potesse una volta tacere!), di cui è intimo e col quale quotidianamente corrisponde.

Il problema in questo caso non è se l’epidemia esiste o meno. Il problema è che esiste gente come Benozzo (lo dico a prescindere da questa sua esternazione e in nome di quella libertà di parola che lui vede già come strangolata – “chi non la pensa come i medici ufficiali viene denunciato, se è un medico viene invece radiato” (sic) – La mia, comunque, si rassicuri, non è una fatwah: è solo un’amara constatazione), gente piena di sé e pronta a pontificare su qualsivoglia argomento, soprattutto su quelli nei quali a dispetto delle riviste internazionali che dirige o cui collabora non ha alcuna competenza (Benozzo a quanto pare di capire è un docente di Filologia), pur di esibirsi e di far sapere che esiste. Al che, si potrebbe obiettare, c’è comunque rimedio: di personaggi così ce n’è a bizzeffe, i social li hanno moltiplicati, o ne hanno moltiplicata la visibilità: basta non dar loro spazio, non fare da cassa di risonanza (al contrario di quanto in effetti sto facendo). Ma il fatto è che quelli come Benozzo girano per le università – sono piene di nipotini di Agamben – e fanno la ruota davanti a ragazzotti sprovveduti, che avrebbero bisogno di essere guidati a un po’ di conoscenza, se non dai “grandi maestri” presso i quali Benozzo si è abbeverato, almeno da persone di buon senso e di onesta umiltà intellettuale. Non solo: bruciano nel falò delle loro vanità e dei loro vaniloqui anche quegli argomenti seri che si potrebbero riservare, con un po’ di intelligenza, a un dopo-crisi davvero costruttivo, per quanto lontano e improbabile. La riorganizzazione della sanità, le spese militari, l’uso politico della scienza e il monopolio che le è conferito sulla verità, ecc …

Ecco. Vedete quanto poco basta a cambiarti la prospettiva, a smuovere le acque, in questi frangenti calamitosi e forzatamente cheti. Avevo in mente una serie di altre riflessioni sulla vita al tempo del virus, ma per oggi l’ho tirata già sin troppo in lungo e rimando quindi a una prossima missiva. Soprattutto, però, ero convinto di non riuscire più a formulare alcun progetto, mentre me ne ritrovo uno già pronto tra le mani. In realtà è la continuazione di un impegno che sto portando avanti nel mio piccolo da tempo: quello di stigmatizzare la cialtronaggine, di qualsiasi tipo e su qualsiasi versante si annidi. Il virus a quanto parte invece di sedarla l’ha scatenata, e il clamore ha risvegliato la marmotta che è in me. Non ho visto la mia ombra, stamattina (anche perché non sono uscito). E allora, pur consapevoli che i cialtroni sono legione, bardiamo Ronzinante e buttiamoci nella mischia. Per questa volta, se c’è qualche donchisciotte libero, sono anche disposto a fare Sancho Panza.

 

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Al di là delle nuvole

di Fabrizio Rinaldi, 3 marzo 2018, da sguardistorti n. 02 – aprile 2018

Appartengo alla generazione che vedeva “Che tempo fa” del colonnello Bernacca. Con pacatezza, sobrietà e un eterno sorriso sulle labbra spiegava l’avvicinarsi di perturbazioni, elargiva consigli ironici e snocciolava termici tecnici come “isobare” e “pressione millibar”, che affascinavano la mia mente di bambino. Spostava su una lavagna grigia (così appariva nella tv in bianco e nero) quelle linee bianche, quelle lettere “A” e “B”, come se stesse spostando truppe su un campo di battaglia: ai miei occhi stava giocando a risiko. Ma potete vederlo voi stessi: consiglio di cercare su youtube “Le previsioni natalizie del Colonnello Bernacca (1968)”.

I miei genitori e nonni non sapevano nulla di cumulonembi, cirri e altocumuli, ma seguivano le previsioni di Bernacca per il sottile piacere di constatare poi che le aveva ceffate in pieno. Si fidavano molto di più del loro istinto: uscivano di casa per annusare l’aria e per guardare le nuvole, specie se c’era da tagliare l’erba o da vendemmiare.

Le nuvole le osservavano con occhi molto differenti da quelli romantici di cantori, di poeti e di pittori come William Turner, che passava giornate intere a contemplare il cielo e riempire i suoi taccuini di acquarelli (come quello che apre l’articolo) che ne raffiguravano ogni possibile configurazione. Il loro era lo sguardo esperto e concreto di chi ha imparato a leggere il linguaggio della natura perché da questo dipende la sua sopravvivenza, il portare o meno a casa il raccolto dei campi.

Esistono un’infinità di “segni” che, per chi sa guardare, possono aiutare a capire quale tempo verrà. Quando si approssima il bel tempo i ragni tessono la loro tela con fili lunghi, gli uccelli volano alti e cantano al mattino presto e il fumo sale verticalmente e si disperde rapidamente. Mentre in previsione di tempo brutto i ragni accorciano i fili della tela e restano inattivi, le api non escono dagli alveari, gli uccelli volano bassi e cantano poco e il fumo dal camino sale diagonalmente e si disperde lentamente. Certo, oggi questi segni sono difficilmente percepibili: quanti possono basarsi sulle api e sul canto degli uccelli, o sulle tele dei ragni? Ma soprattutto, che differenza fa, per chi poi trascorrerà tutta la giornata in un ufficio o dentro una fabbrica? “Bello” e “brutto” (o “cattivo”) tempo non esprimevano un giudizio estetico o etico su un fenomeno naturale. Erano riferiti principalmente alle implicazioni sui lavori agricoli.

Com’è difficile
nella calura estiva
credere alla neve!
ABBAS KIAROSTAMI, Un lupo in agguato, Einaudi 2003

Quando meteo.it e 3Bmeteo non esistevano non potevano arrivare sui cellulari (anche perché non esistevano nemmeno) i loro catastrofici annunci di imminenti cicloni, temporali o tempeste siberiane in questa stagione, oppure di caldo tropicale e tempeste di sabbia sahariana in estate. Se nevicava non c’era spazio per allarmismi, c’era solo da prendere la pala e spalare. Quando faceva caldo, si zappava all’alba e al tramonto, per il resto si stava sotto un albero, magari col fiasco di vino a contemplare – allora sì – le nuvole.

Non sono qui per rivangare i bei tempi passati (perché non lo erano), ma a sottolineare la totale differenza dell’approccio nei confronti dei fenomeni atmosferici e dello spirito col quale si affrontavano le avversità, e questo a dispetto di una sempre maggiore consapevolezza dei cambiamenti climatici in corso.

È venuto totalmente meno il pragmatismo che caratterizzava i nostri nonni e genitori. Per un qualsiasi fenomeno che vada leggermente oltre la norma ci chiudiamo a riccio in casa, anziché prenderlo per ciò che è realmente, invece di pigliare l’iniziativa e affrontarlo con praticità e un briciolo di positività.

A questo punto spero che al lettore venga un dubbio: “Stiamo parlando di nuvole o di altro”? E infatti, mi riferisco alle nuvole, ma più in generale alle notizie fasulle che vengono vomitate dai media, al libero corso dato a manifestazioni di intolleranza, verbale e non, sempre più violente, allo spazio riservato a politici che di tutto parlano per non dire assolutamente nulla, o a elezioni che ai più appaiono totalmente inutili.

Ho divagato parecchio perché questo accade quando si vuol parlare di politica: c’è una diffusa tendenza a sottrarsi dal sostenere le preferenze in quell’ambito, un po’ per disinteresse, un po’ perché in difficoltà nell’argomentare le proprie idee e un po’ per timore del giudizio degli altri. Allora ci si sottrae preferendo animate disquisizioni sul tempo che fu, sull’opportunità o meno di aggiungere al piatto consigliato zenzero o curcuma (imprescindibili toccasana moderni); persino si disserta con maggior partecipazione su millantate pratiche sessuali o, appunto, sulle perturbazioni che “attanagliano l’Italia”.

Le previsioni meteo davano e danno una stima più o meno approssimativa del tempo atmosferico: si può prestare loro credito o meno, e comportarsi di conseguenza, ma il tempo rimane comunque quello. Le previsioni elettorali, in genere attendibili come quelle meteorologiche, hanno invece lo scopo preciso di orientare il voto, di creare l’effetto gregge: non hanno nulla a che vedere con l’informazione, mentre sono uno strumento di pura propaganda. Quando non ottengono l’effetto opposto. Se dovessi comportarmi in base ai possibili scenari che mi sono stati prospettati in questi lunghissimi mesi domani me ne starei a letto.

Andrò invece a votare, come ho sempre fatto, non fosse altro per rispetto verso chi non ha potuto farlo e ha combattuto per poterlo fare: ma ancor di più delle altre volte prima di entrare nella cabina elettorale dovrò turarmi il naso, e una volta dentro scegliere il meno peggio di montanelliana memoria.

Prima però alzerò gli occhi al cielo per vedere com’è. Sono giorni che nevica, spero che il ragno ora possa tessere una lunga ragnatela.

Post Scriptum del 5 marzo: Visto il cielo plumbeo, il ragno ha raggomitolato i suoi fili per farsi una calda coperta. L’aspetta ancora una lunga e grama bassa pressione, molto bassa.

Collezione di licheni bottone

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