Alla ricerca del sottobosco digitale (e open source)

meditazioni fra micelio e algoritmo

di Fabrizio Rinaldi, 1° maggio 2025

Dal bordo del dirupo collettivo nel quale l’umanità sembra stia precipitando, tra inni di guerra e dilaganti populismi, negazionismi, fascismi, sovranismi e tutti gli altri peggiori “-ismi” possibili, guardo oltre per cercare di aggrapparmi a qualcosa – mentre già la terra mi frana sotto i piedi –, di scorgere un qualche segnale di speranza.

Vorrei andare oltre le mitragliate trumpiane di decreti a cui non si riesce a star dietro, oltre l’inettitudine servile meloniana, oltre il riarmo intimidatorio dilagante che somiglia all’adolescenziale gara a chi ce l’ha più lungo, oltre i conflitti che somigliano sempre più a stermini e oltre anche la non nuova, ma sempre più pervasiva, droga che euforizza i giovani (e non solo): i mirabolanti prodigi dell’intelligenza artificiale.

ChatGPT e simili si rincorrono per superarsi a vicenda, masticando dati e sputando sullo schermo testi, immagini, video e stringhe di programmazione per compiacere le nostre sempre più bacate menti nell’ottenere da popò di tecnologia cose come questa

Sì, neppure io ho saputo resistere alla tentazione di vedere i Viandanti Beppe, Paolo, Cristina e Antonio trasformati in anime nello stile di Miyazaki, il creatore di Lupin. Nelle ultime settimane Sam Altman, il guru di ChatGPT, ha dichiarato che i loro elaboratori d’immagini “stanno fondendo” per creare imitazioni di cartoni animati e action figure di pupazzetti che ci somigliano. La tecnologia più avanzata degli ultimi decenni viene utilizzata per nutrire il nostro narcisismo.

Forse allora è meglio cercare altrove le intelligenze, perché quella umana sembra destinata ad esser soppiantata prima del previsto; non dal meteorite o dai cambiamenti climatici, ma dall’imbecillità dilagante che ci circonda.

Se ci liberassimo della nostra presunzione antropocentrica e osservassimo ciò che accade sotto i nostri piedi mentre passeggiamo in un bosco, ci renderemmo conto che lì avviene qualcosa di più sofisticato di quanto può fare un qualsiasi chatbot. Adottando la giusta lentezza, non possiamo fare a meno di notare come la vita sia pervasa di strategie, adattamenti e forme di “sapienza” che sono intrinsecamente più avanzate di quelle umane e digitali.

Tra gli scienziati che sono riusciti a diventare social senza sembrare ridicoli, c’è il botanico Stefano Mancuso. Da anni sostiene una tesi che per molti suona ancora come un’eresia: le piante pensano. O almeno, fanno qualcosa di molto simile, ma in verde, senza sinapsi, senza Google e, soprattutto, senza doversi collegare alla presa elettrica.

Mancuso ci invita a smontare il vecchio cliché secondo cui i vegetali sarebbero passivi, immutati, immobili e destinati a farsi mangiare, calpestare o dimenticare nei vasi. Le piante, ci dice, non subiscono il mondo, ma lo leggono, lo decifrano e lo modificano. Non hanno un cervello, ma sono un sistema di intelligenza distribuita. Un po’ come quella digitale, solo che loro lo fanno da tempi immemori, senza data center e senza sosta, con una complessità appena scalfita dal sapere umano, in una perenne evoluzione ed espansione. Se non è intelligenza questa…

Senza la competenza specifica di Mancuso, ma con una sana curiosità e qualche giga di sarcasmo, provo a giocare con il confronto non fra uomo e macchina (rimando questo esercizio ai romanzi distopici come Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick), ma tra l’intelligenza vegetale e quella artificiale. Una partita che, avverto subito, finisce con una vittoria schiacciante del regno vegetale, ma sicuramente ci sono delle affinità. E non sono poche, né di piccola entità.

Sorprende che si parli tanto delle magnificenze del silicio, mentre raramente ci soffermiamo sui prodigi clorofilliani. Anzi no: nel computo dell’idiozia umana, il totale torna.

Una pianta non ha occhi né orecchie nell’accezione comune, eppure è costantemente immersa in un mare di informazioni ambientali: la direzione della luce, la temperatura, l’umidità, le vibrazioni sismiche, la presenza di acqua e di specifiche sostanze chimiche. Ricevendo ed elaborando questi segnali, non solo percepisce gli stimoli, ma li interpreta, modificando la sua crescita, la fioritura o la produzione di sostanze difensive.

Mi viene da pensare che, analogamente, anche un sistema di intelligenza artificiale si nutre dei dati (immagini, suoni, testi) che forniamo come input. Le AI generative, mentre consumano energia pari a quella di intere città, analizzano queste informazioni e prendono decisioni in un processo non dissimile, nella sua finalità adattiva, alla risposta di un vegetale al suo ambiente.

Le piante però vivono, si riproducono, interagiscono, consolidano il terreno e fanno qualcosa di essenziale per la nostra sopravvivenza: producono ossigeno. La macchina può batterci a scacchi, gestire il traffico degli aerei e dei treni, scrivere poesie, ma la betulla è poesia vivente e, nel frattempo, ci regala l’aria che respiriamo senza nemmeno vantarsene.

I vegetali dimostrano una sorprendente capacità di adattarsi all’ambiente in cui si trovano. Per esempio, un albero esposto a un vento costante svilupperà un tronco più robusto, plasmato nella direzione dell’aria; in un terreno povero estenderà invece le sue radici più in profondità per cercare nutrienti. Questa abilità nell’“imparare” dalle sfide ambientali ricorda i modelli di machine learning dell’intelligenza artificiale, che migliorano le loro prestazioni accumulando sempre più dati e attraverso la logica dei feedback. Proprio come le radici si ramificano per scovare acqua, gli algoritmi scovano soluzioni sempre più complesse per ottimizzare i risultati.

Se una pianta non si adatta, scompare; allo stesso modo, se una macchina non fa altrettanto, sommergerà il malcapitato per mesi con pubblicità di creme per il viso come è capitato a me, anche se non le ho mai usate e non ho intenzione di farlo.

Le piante dialogano fra loro senza usare le parole – un’invenzione piuttosto recente e limitata ad una sola specie –, ma rilasciano sostanze che si muovono attraverso l’atmosfera e il sottosuolo per interagire con quelle vicine (e non), magari avvertendole della presenza di un bruco che rosicchia le foglie o dell’avanzare di un incendio.

Sottoterra le radici intrecciano simbiosi con i funghi, dando vita al Wood Wide Web, una rete micorrizica talmente sofisticata che al confronto il digitale Word Wide Web sembra una Fiat Duna dell’87 col motore ingolfato. Altro che connessione 5G: il micelio non solo collega individui diversi (alberi, arbusti, erbe e qualche strambo con la smania di abbracciare tronchi e “sentire la loro energia”), ma smista nutrimenti e segnali in modo capillare, a basso consumo e senza interruzioni. Il tutto senza router, senza elettricità, e – soprattutto – senza abbonamento.

È, quindi, una connessione vibrante, che si adatta ed evolve in un sistema dove il benessere dell’individuo si intreccia con quello della comunità, in un contesto di cooperazione attenta nel dosaggio millesimale delle risorse. Un’ecologia delle relazioni che smonta qualsiasi idea di “sopravvivenza del più forte”.

Mentre le querce si scambiano messaggi criptati attraverso i funghi, noi ci ritroviamo a compulsare prompt da dare in pasto alle intelligenze digitali; queste elaborano soluzioni attingendo dai nostri dati, replicano le nostre manie con una precisione inquietante e producono risultati che riflettono i nostri limiti. Più che un’intelligenza collettiva, sembrano spesso un concentrato delle nostre idiosincrasie.

Il mondo vegetale, a differenza nostra, non si limita a imitare: si adatta e vive davvero. L’idea che le piante possano essere dotate di forme di intelligenza diffusa, consapevolezza ambientale e sofisticati adattamenti comunicativi dovrebbe farci riflettere sulla nostra concezione di benessere reciproco. Dovrebbe, ma non accade; anzi, mentre il bosco ci offre un esempio di mutualismo, noi approviamo leggi che riportano in auge il carbone e le trivelle (vedi le ultime sparate di Trump), convinti che la natura debba essere ottusamente dominata.

In questa farsa, l’unica cosa davvero artificiale sembra essere il nostro rapporto con il mondo naturale: abbiamo perso quella connessione, non quella a banda larga, ma quella biologica, relazionale e intima con ciò che ci circonda, che i nostri avi avevano, nonostante la loro visione limitata all’orto dietro casa. Mentre noi produciamo anidride carbonica e ci lamentiamo delle continue inondazioni, le piante continuano a scambiarsi zuccheri, produrre ossigeno e – a modo loro – ridere di noi, tra un fruscio di foglie e l’altro.

I veri maestri dell’economia circolare sono i vegetali: da milioni di anni, praticano un comunismo discreto ed efficace, basato su scambi mutualistici e alleanze fotochimiche complesse. E tutto questo senza mai aver ricevuto un premio Nobel in economia. Le semplici simbiosi mutualistiche, come le micorrize tra i funghi e le radici delle piante, metterebbero in crisi qualsiasi ideologia neoliberista.

Non c’è competizione, non c’è profitto, nessuna offerta pubblica; solo scambio reciproco e redistribuzione di risorse, supporto e cura sistemica. E tutto avviene senza regolamenti, amministratori delegati strapagati, sindacati e scioperi: un mutualismo che funziona perché nessuno cerca di fregare l’altro. È una sapienza collettiva che sa reagire a stimoli per mantenere un equilibrio di risorse a beneficio di tutti.

La fotosintesi clorofilliana, poi, è una forma di autosufficienza energetica che farebbe impallidire qualsiasi pannello fotovoltaico: energia solare trasformata in zuccheri condivisi all’interno della comunità, senza tasse sul sole e senza copyright sui cloroplasti.

Nel bosco, il capitale non si misura in PIL o followers, ma nella capacità di sostenersi vicendevolmente. Certo, a scapito di altri, ma in un’ottica di evoluzione e non di semplice prevaricazione. È un sistema in cui lo scarto di uno diventa il nutrimento di un altro, non una guerra commerciale a colpi di dazi. Tutto si regge su una rete di assistenza lenta e silenziosa. Nessuno urla, nessuno cerca di primeggiare. Eppure, tutto funziona. Altro che utopia: il comunismo vegetale è una realtà praticata ogni giorno, da milioni di anni, nei boschi, nei prati e nel terreno. E resiste, nonostante la nostra compulsiva tendenza a cementificare, a capitozzare gli alberi lungo le strade e poi lamentarci quando cadono.

La biochimica vegetale è un intricato sistema di segnali complessi, feedback ambientali, algoritmi naturali che elaborano stimoli e rispondono con movimenti, secrezioni, adattamenti. Sotto i nostri piedi c’è un sistema che processa dati, reagisce, si adatta e lo fa meglio di molte aziende che gestiscono i dati che noi regaliamo loro.

Mentre noi stanziamo risorse immense e prosciughiamo quelle naturali affinché degli algoritmi risolvano problemi più o meno complessi, nel verde la rivoluzione finalizzata al problem solving ambientale è in atto da milioni di anni ed è clorofilliana.

Le piante non si lamentano mai quando subiscono dei torti, che siano tagli indiscriminati, schianti, parassiti o animali che le danneggiano. Eppure, non vanno in burnout e, soprattutto, non chiamano l’avvocato. Semplicemente si adattano, cicatrizzano, deviano le risorse altrove e continuano a crescere, finché possono. Sono testarde ed efficaci.

Questa resilienza vegetale non è romantica, ma semplice – e tuttavia intrinsecamente complessa – strategia biologica evoluta, collaudata e ottimizzata nel tempo per non sprecare nemmeno una goccia di linfa. L’albero sa che non tutto può essere salvato, ma molto può essere rigenerato. E lo fa senza conferenze stampa sul nulla.

Curiosamente, proprio questa logica di perseveranza nonostante qualche inciampo sta alla base della progettazione delle attuali intelligenze artificiali: sono pensate per resistere ai guasti, per continuare a processare informazioni anche se un nodo si interrompe o un sensore va in panne. Vanno avanti senza filosofeggiare sul significato della vita (a meno che dei dementi umani non lo chiedano). Ricalcolano, correggono, procedono, proprio come fa un ciliegio quando la galaverna spezza un suo ramo: fa di tutto per farlo fiorire un’ultima volta prima che i tessuti conduttori di linfa si chiudano.

Se la capacità umana di affrontare e superare ostacoli si esaurisce dopo tre messaggi senza risposta, la natura – sia vegetale che digitale – ci mostra che il danno non segna la fine, ma è solo un’interruzione temporanea nella connessione. Come per l’esempio del ciliegio, se un sistema informatico va in crash – a patto che sia progettato bene – ha le risorse per rimettersi in carreggiata e ripartire. Noi umani ci troviamo in mezzo: tra piante e codice: potremmo davvero imparare qualcosa da entrambi. Senza clamore, senza app, senza guru della performance.

Mentre noi alziamo gli occhi al cielo ogni qual volta dobbiamo aggiornare l’antivirus o il sistema operativo (col terrore di perdere qualcosa), il faggio ha bisogno di intere stagioni per decidere se valga la pena sporgersi verso la luce o aspettare che il compagno di bosco lo faccia lui o schiatti.

Questo per dire che la risposta vegetale non è lineare e soprattutto non è schizofrenica: si iscrive in un tempo biologico, ciclico, stagionale, paragonabile a secoli rispetto a quello umano e ad ere rispetto a quello digitale. Tuttavia gli algoritmi complessi (quelli seri, non quelli che ti scrivono il tema su Foscolo in due secondi) che governano le machine learning, consentendo un apprendimento da dati, hanno anch’essi bisogno di un lasso temporale piuttosto lungo, fatto di tentativi, errori e altre azioni correttive affinché possano esprimere delle soluzioni più elaborate e finalizzate alla risoluzione cercata.

Basta guardare i primi video dei robot umanoidi: quei goffi golem elettronici che cadevano come ubriachi ogni volta che provavano a fare un passo, e poi confrontarli con le versioni attuali, in grado di correre, saltare, cucinare e pure interfacciarsi con noi per interpretare la nostra psiche.

Forse allora, prima di aggiornare compulsivamente la nostra tecnologia, dovremmo aggiornarci alla pazienza del creato. O almeno prenderci il tempo di uno sguardo differente, prima di condannare il progresso.

In conclusione, le piante — sì, proprio quelle che ignoriamo fino al giorno in cui ci accorgiamo che le peonie sul terrazzo, dietro il cesto della rumenta, sono morte — se osservate con un minimo di attenzione, rivelano una sorprendente intelligenza distribuita, articolata in molteplici forme. Nessun cloud, eppure elaborano segnali, apprendono dai traumi, comunicano con i vicini (senza bisogno della chat “Vicini inopportuni” su WhatsApp), risolvono problemi e, soprattutto, resistono nonostante noi. Tutti aspetti che, da qualche tempo, anche l’intelligenza artificiale tenta goffamente di imitare.

La prossima volta che un chatbot ci risponde con il consueto “Mi dispiace, non ho capito la domanda”, potremmo provare a fare come le piante: aspettare, osservare, metabolizzare. Non per buonismo biofilo, ma per pura sopravvivenza cognitiva.

Forse il problema è proprio lì: continuiamo a progettare intelligenze che vogliono somigliarci, quando sarebbe molto più sensato prendere ispirazione da un sistema che vive, si adatta e non va in tilt quando perde la connessione. Dovremmo progettare un’intelligenza che ragioni per scambio e non per dominio; che risponda attraverso una rete diffusa di stimoli percettivi, non come un assistente esasperato.

Insomma, se volessimo immaginare la prossima mente artificiale, potremmo cercare ispirazione nel regno vegetale: non fondata sulla logica binaria del sì/no, ma su quella fotosintetica del trasforma e condividi; un sistema che non miri alla profilazione, ma alla simbiosi tra individui. Le sue reti non si limiterebbero ad individuare convergenze mediane da compulsare in facili risposte assolutorie, ma favorirebbero l’intreccio di relazioni tra elementi differenti, capaci di redistribuire la consapevolezza come nutrimento. Sarebbero connessioni che si rafforzano nella cooperazione, che elaborano segnali lenti ma profondi, e che, riconoscono il valore dell’attesa — come si aspetta il cambio di stagione —, offrendo soluzioni davvero adeguate al bisogno.

Non per diventare alberi – anche se a volte non sarebbe male –, ma per smettere di comportarci come piante in vaso dimenticate sul balcone: convinti di sapere tutto, mentre ci secca pure la terra.

Alle domande ansiogene e prestazionali dell’esemplare umano frustrato, questo chatbot vegetale risponderebbe senza fretta, affinché il sapiens provi prima a cercare lui la risposta. A differenza dei colleghi virtuali attuali che mirano a rifilare al malcapitato un corso intensivo di yoga tantrico alla modica cifra di 1000 euro, l’intelligenza vegetale sintetica porrebbe delle domande del tipo: quanto sole hai preso oggi? Oppure: hai intrecciato qualche relazione significativa durante la tua giornata?

Mi auguro infine che questa intelligenza possa avere una caratteristica che quella artificiale ancora ha difficoltà a riprodurre, creare e cogliere: l’ironia. Potrebbe farsi una grassa risata quando capirà che l’essere umano, nel suo sforzo di dominare tutto, si è dimenticato come si vive dentro un sistema, e non al di sopra di esso. In fondo, se dobbiamo essere superati, che almeno sia da un’intelligenza con una giusta dose di sarcasmo e che pensi con le radici e non i piedi.

P.S.: Se un giorno un’intelligenza artificiale risponderà ad un tuo quesito urgente, dicendo: Mi sto orientando verso la luce, torna tra un mese, non infuriarti, è solo l’inizio di qualcosa di realmente pensante a cui ho già dato un nome e un logo e che sto “addestrando” …

Collezione di licheni bottone

Prolegomeni a una nuova sinistra

Una breve nota sull’immaginario della sinistra

Breve nota sull'immaginario della sinistra 01Per una volta siamo di parola. Ecco infatti il secondo intervento di Beppe Rinaldi, promesso un paio di settimane fa

Rinaldi prende spunto nel testo che segue da un piccolo saggio di Aldo Schiavone (Sinistra!, edito da Einaudi nel 2023), per guidarci in una riflessione sullo stato attuale del pensiero di sinistra e sulle sue future prospettive. In effetti ne abbiamo un gran bisogno, sia di riflettere con un po’ di calma che di poter contare su un pensiero di sinistra libero da residuati ideologici. L’argomento non è affatto nuovo per il sito dei Viandanti: direi anzi che in modi e in misure diversi, esplicitamente o sottotraccia, ricorre in tutti gli scritti ospitati, anche in quelli che parrebbero andar per lucciole. La differenza sta nel fatto che in questa occasione è affrontato con la sistematicità analitica e con la lucidità critica di cui solo uno studioso di lungo corso come Rinaldi può essere capace. Sul salto di livello che qui si opera può essere illuminante il confronto con un paio di tentativi miei di fare un’operazione di questo genere, uno già lontano nel tempo (L’ultimo in basso, a sinistra, 1999) e l’altro più recente (Tre manifesti sul futuro dell’umanità, 2021). Tra l’altro, già in quest’ultimo l’occasione era offerta da un precedente testo di Schiavone, “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, nel quale venivano anticipate quasi tutte le tesi poi riprese in Sinistra!. Ciò non significa che il pensiero dello storico campano del diritto sia diventato per i Viandanti un riferimento obbligato: significa invece che Schiavone, al contrario dei “grandi maestri” cui guarda con acritica reverenza lo pseudo-anticonformismo postmoderno, ha il coraggio di affrontare senza troppi giri di parole o ingorghi di citazioni il tema dell’essenza e dell’esistenza di una sinistra. Lo fa a modo suo, magari entusiasmandosi troppo per prospettive difficilmente condivisibili, ma almeno parla chiaro e va dritto al cuore dei problemi, invogliando così anche animi stanchi come i nostri a discuterlo (e a mettersi in discussione). Ma tutto questo lo troverete appunto nella serratissima analisi che Beppe Rinaldi va a proporvi.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 02Due parole vanno invece ancora spese sull’iconografia inserita dalla redazione a corredo del testo. Le immagini scelte non sono un espediente per alleggerire la densità di quest’ultimo (intesa come peso specifico delle argomentazioni e non certo come caratteristica dello stile) e neppure vogliono ridursi a un puro e semplice reliquiario iconografico: sono state inserite ritenendo che abbiano una qualche attinenza con lo scritto, in quanto, sia pure sommariamente, raccontano le trasformazioni di un’idea, della concezione stessa di “sinistra” e delle modalità di appartenenza a questa categoria politica. La trasformazione può infatti essere letta anche attraverso l’evoluzione (o l’involuzione, a seconda dei punti di vista) dei manifesti che celebrano ricorrenze o avvenimenti significativi del calendario liturgico della sinistra, in particolare di quelli relativi alla festa del Primo Maggio. Naturalmente le chiavi di lettura possono essere svariate: quella che molto schematicamente proponiamo ha solo un valore esemplificativo.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 05Al netto dei mutamenti del gusto intervenuti nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, che attraverso le successive correnti artistiche hanno naturalmente influenzato anche l’illustrazione politica, ci sono in questi manifesti altre evidenze, non prettamente estetiche, relative ai contenuti piuttosto che allo stile, che balzano immediatamente agli occhi.

In quelli risalenti all’ultimo decennio dell’Ottocento e ai primi del secolo successivo, ad esempio, la sinistra è personificata in immagini quasi esclusivamente femminili: sono allegorie botticelliane, adattate ai canoni dell’Arts and Crafts di William Morris prima e a quelli dell’Art Nouveau dopo. L’atmosfera e le posture leggere delle giovinette, che sembrano sempre pronte a librarsi in volo (quando già non stanno volando) riflettono in fondo le ottimistiche speranze della Belle Époque in un crescente benessere. A tutto questo non è naturalmente sotteso alcun riconoscimento particolare del ruolo della donna nella realizzazione di una futura società egualitaria. Sono solo rappresentazioni simboliche: e tuttavia quella che trasmettono è l’idea di una possibile transizione armonica. L’immagine femminile non ha nulla di mi naccioso, al contrario, si fa garante di un futuro di bellezza. E i seni generosamente esposti al vento, oltre a sfidare il farisaico moralismo borghese, promettono abbondanza e libertà. 

Breve nota sull'immaginario della sinistra 03Al volgere del secolo cominciano a comparire invece sui manifesti delle figure maschili, di solito in pose statuarie, o immagini di coppie o di gruppi. Dall’idealizzazione allegorica si plana verso una rappresentazione “realistica”, sia pure virata in chiave epica. Cambia anche l’atmosfera. La guerra mondiale ha fatto strage delle vecchie speranze, mentre la rivoluzione bolscevica ne alimenta di nuove, almeno in apparenza più concrete. L’iconografia sovietica è esemplare in questo senso. Un trionfo di solidità e concretezza. Quella italiana invece per tutto il ventennio semplicemente scompare. Nel frattempo si impongono sempre più i loghi, che caratterizzano un modello comunicativo mirante più a creare una immediatezza identitaria che a infondere emozioni: l’immancabile falce e martello, il pugno chiuso, e poi trattori, strumenti di lavoro, paesaggi industriali di taglio futurista.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 06Nel secondo dopoguerra all’iniziale “realismo” di ispirazione sovietica (ma anche hollywoodiana) succede, soprattutto in Italia, un “razionalismo” di chiara matrice architettonica, che punta sulle geometrie dei volumi e allude al titanico impegno della ricostruzione. Ma non sono solo le immagini a perdere levità. Alla loro maggiore pesantezza corrisponde quella dell’atmosfera sociale (lo dicono esplicitamente gli slogan: non di una festa si tratta, ma di una lotta): non è più tempo di famiglie felici e di serenità, ma di guerra fredda, di contrapposizione dura. In quest’ultima direzione muovono a partire dagli anni sessanta i manifesti della sinistra sindacalizzata e radicalizzata, pre e post-sessantottina, mentre quella storica e partitica tende a mettere la sordina al conflitto (è l’epoca del centro-sinistra e poi del compromesso storico) optando per simboli rassicuranti: la rosa in luogo della falce e martello, campi e officine sempre più stilizzati. Nei decenni successivi anche il lavoro cede gradualmente la scena ad altri temi: l’ambiente, la questione di genere, l’informatizzazione, l’integrazione. Questo mentre si completa l’auto-intestazione della ricorrenza da parte dei sindacati e dei partiti, o addirittura delle loro guide storiche.

Breve nota sull'immaginario della sinistra 04Col nuovo secolo i manifesti praticamente scompaiono. L’informazione e la celebrazione passano ora attraverso i nuovi media. Scompaiono anche, assieme ai cortei e ai comizi, le ultime occasioni per sentirsi bene o male accomunati da una idealità e da una lotta. Lasciano il posto a un’idea di festa di tutt’altro tipo: non si marcia nei cortei, non ci si aduna pei comizi, ma si balla, si urla e ci si sballa ciascuno per proprio conto al concertone. Ricordandosi ogni tanto di alzare il pugno chiuso o di scandire gli slogan lanciati dal palco.

L’immaginario della sinistra ha un gran bisogno di essere non solo rinnovato, ma addirittura rifondato, se vuol tornare a librarsi in qualche modo oltre la desolante realtà del presente: e a questo scopo diventano indispensabili le preliminari disincrostazioni, le ripuliture dalla zavorra ideologica operate da Beppe Rinaldi. Buona lettura, dunque. 

di Paolo Repetto, 15 novembre 2023

Prolegomeni a una nuova sinistra 39

Prolegomeni a una nuova sinistra

di Giuseppe Rinaldi, pubblicato su Finestre rotte il 6 marzo 2023

Prolegomeni a una nuova sinistra 021. Il recente libriccino di Aldo Schiavone[1], presentato niente meno che come manifesto, nonostante le riserve che può avere suscitato[2], ha una sua importanza, perché ha il merito di mettere sul tavolo una serie di problemi di cui la sinistra italiana ha completamente smarrito il senso. Osserva infatti l’Autore che: «La sinistra non discute da decenni dei suoi principî: e questo l’ha messa in uno stato di confusione totale. È ora di venirne a capo»[3]. Siamo perfettamente d’accordo. Tanto per chiarire come stanno le cose nello specifico, l’Autore aggiunge che: «[…] lo scadimento dipende non poco dalla rinuncia quasi unanime degli intellettuali, dopo la fine delle battaglie ideologiche del secolo scorso, a esercitare una funzione pubblica di stimolo, di conoscenza, di critica e di suggerimento, e dal loro ritrarsi – pur se spesso non senza qualche ragione – dalla frequentazione della vita pubblica, o di quel che ne resta»[4]. Ci sentiamo di aggiungere che i nuovi politicanti della sinistra hanno volentieri congedato gli intellettuali per restare essi stessi i soli depositari dei futili giochi tra gli improbabili leader dalla scadenza incerta, seppur sempre più ravvicinata. Sul rapporto sempre più evanescente tra la politica e gli intellettuali nel nostro Paese si veda il recente saggio di Giorgio Caravale[5].

Prolegomeni a una nuova sinistra 01Al di là dei meriti del manifesto di Schiavone, esso è senz’altro utile almeno per fissare i punti essenziali che dovrebbero essere oggetto di un dibattito che si prospetta come piuttosto urgente. Ad esempio, nelle recenti mozioni dei candidati per la Segreteria del PD si è vista in opera la tendenza, in voga da un po’, a compilare lunghi elenchi di obiettivi, lunghe liste della spesa, senza dare alcuno spazio alle considerazioni teoriche. In questo saggio discuteremo passo a passo le argomentazioni principali di Schiavone. Anche se dopo le recenti vicende elettorali della sinistra (compreso l’ultimo Congresso del PD) dubitiamo seriamente che in giro ci sia qualcuno che abbia ancora voglia di discutere di simili questioni. Il saggio che il lettore si appresta a leggere è sicuramente pesante e noioso, per la quantità delle questioni sollevate e anche a causa del numero elevato di citazioni. Non sono qui per divertire, e poi le strade più facili sembra non abbiano poi tanto funzionato.

Prolegomeni a una nuova sinistra 032. Diverse pagine del saggio di Schiavone sono spese per mettere in evidenza il fatto, con cui concordo perfettamente, che la sinistra in Italia ha smesso di pensare: «L’aspetto che più salta agli occhi nella condizione in cui si trova la sinistra nel nostro Paese è il vuoto d’idee che la circonda»[6]. Questa situazione, secondo Schiavone, sarebbe dovuta principalmente a due eventi di lunga durata che hanno cambiato completamente la prospettiva della sinistra. Anzitutto la caduta del comunismo. In secondo luogo l’avvento delle nuove tecnologie. Si tratta oltretutto di fenomeni collegati tra loro. Una nota teoria sostiene, infatti, che l’implosione dell’Unione Sovietica sia avvenuta soprattutto per l’incapacità del sistema autoritario real-comunista di convivere con la diffusione di massa delle nuove tecnologie che include la libertà di produzione e circolazione dell’informazione. Perché andare così indietro nel tempo? Semplicemente perché per almeno un secolo e mezzo il concetto di sinistra è stato coniugato col socialismo e il comunismo. Un passato che è stato semplicemente rimosso, con il quale la “sinistra” deve ancora fare i conti.

Più ancora in profondità, la crisi della sinistra odierna sarebbe dovuta – secondo Schiavone – a un mutamento profondo nella prospettiva della eguaglianza. La sinistra che oggi è in crisi veniva da una storia plurisecolare (dopo la rivoluzione industriale) dove il motivo conduttore era il conflitto tra capitale e lavoro. Se si preferisce usare il linguaggio sociologico, possiamo parlare di lotta di classe. Gli eguali sfruttati e coalizzati avrebbero combattuto la fonte stessa dello sfruttamento e della diseguaglianza e avrebbero instaurato una società di eguali. Con ciò emancipando l’intera umanità. L’aspetto rilevante della questione è il fatto inconfutabile che l’obiettivo della eguaglianza che veniva perseguito era direttamente connesso a questo specifico conflitto. Afferma Schiavone che: «Da allora in poi, dovunque, in ogni partito della sinistra, lavoro ed eguaglianza sarebbero apparsi quasi come sinonimi: il binomio dell’avvenire socialista. La forza del lavoro sarebbe stata anche la forza dell’eguaglianza. Il problema era solo di trasformare la spinta socializzante e uniformatrice della classe operaia in regola generale dell’intera società»[7]. Il ragionamento stringente di Schiavone – ricorrente in tutto il saggio – è che il venir meno progressivo del modello tradizionale del lavoro industriale abbia intaccato l’obiettivo fondamentale dell’eguaglianza che si davano tutte le sinistre. La crisi generalizzata della sinistra sarebbe dunque la crisi di un modello epocale di eguaglianza. Ci sarebbe proprio questo dietro la perdita, di cui tanto si parla, del rapporto tra la sinistra e il suo popolo.

Prolegomeni a una nuova sinistra 043. Si tratta allora di fare i conti fino in fondo con quella matrice culturale che aveva istituito quel legame. La sinistra degli ultimi due secoli – quella che Hobsbawm chiama seconda sinistra[8], è stata caratterizzata, in un modo o nell’altro dalla prospettiva marxista. Anche nelle versioni meno rivoluzionarie e più riformiste. Afferma Schiavone che: «Oggi sappiamo che il pensiero di Marx conteneva errori irrimediabili: fra i più decisivi, una sottovalutazione grave dell’importanza della politica in generale, e della democrazia liberale in particolare, e della loro capacità di retroagire sulle strutture economiche e di modificarle, sia pure solo entro certi limiti. Errori che avrebbero aperto la strada a tragedie su cui ora è inutile tornare»[9]. Tragedie che tuttavia dovremmo avere ben presenti, nel momento in cui ci accingiamo a discutere di una nuova sinistra.

Prolegomeni a una nuova sinistra 07aGli errori irrimediabili di Marx non sono ancora divenuti argomento di pubblico dibattito. E continuano ad agire nella nostra storia quotidiana. Alcune delle società post comuniste costituiscono oggi una gravissima minaccia per il Mondo intero. Insomma, l’assetto delle società capitalistiche e della universale lotta di classe era considerato come un assetto permanente ed eterno, un dato di fatto divenuto visione tradizionale del mondo. L’impianto marxiano era divenuto una specie di scolastica ritualistica che ha tarpato il pensiero e che ha reso la sinistra incapace di comprendere i cambiamenti del Mondo. La scolastica marxiana e marxista – grazie anche agli apparenti successi del socialismo reale – è stata mantenuta stoicamente contro tutte le evidenze e poi è stata abbandonata di colpo, alla fine della Guerra fredda, senza alcuna analisi. Spiega Schiavone che: «Nel nostro Paese, sin dalla Liberazione, il marxismo avrebbe costituito l’intelaiatura culturale e ideale dei due maggiori partiti della sinistra: una scelta difesa con ostinazione dal più forte di essi – il Pci – sino alla fine; per essere poi abbandonata di colpo, guardandosi bene dal pronunciare una sola parola. Un comportamento che non saprei dire se più politicamente disastroso o moralmente vergognoso. E tutto questo senza che nessuno – o quasi – degli intellettuali che pure si erano completamente riconosciuti in quella dottrina sentisse il bisogno di intervenire. La vittoria della destra – di questa destra – è cominciata allora: da quell’incredibile silenzio»[10].

Prolegomeni a una nuova sinistra 054. La caratteristica fondamentale dell’intero periodo della seconda sinistra[11] fu dunque – Secondo Schiavone – l’identificazione del lavoro con l’eguaglianza. Che doveva dare luogo non solo a una eguaglianza formale ma anche a una eguaglianza sostanziale. Il socialismo o comunismo reale era concepito come la terra dell’eguaglianza sostanziale. La fine dell’Unione sovietica significò non solo la fine del socialismo, ma anche la fine del connubio tra lavoro ed eguaglianza sostanziale. In altri termini, significò la fine dell’età del lavoro. Ciò non significherà evidentemente la fine effettiva del lavoro, inteso come attività e funzione sociale, bensì la fine del lavorismo, cioè della ideologia del lavoro. Se vogliamo, la fine della identificazione stretta tra il cittadino e il lavoratore. Una traccia di questa identificazione, peraltro del tutto priva di effetti di sostanza, resta nell’art. 1 della nostra Costituzione.

Secondo Schiavone: «Quel che stava accadendo era, semplicemente, che la trasformazione in atto aveva fatto sparire il contesto sociale e culturale in cui avevano vissuto sino ad allora i partiti progressisti in Occidente: e niente potrà mai restituircelo. Perché con l’età del lavoro finiva anche l’età della lotta di classe, che era connessa a un modo di strutturarsi delle società occidentali che oggi quasi non esiste più. Un epilogo che la sinistra non ha ancora assorbito e metabolizzato, e che riempie tuttora di sé il nostro tempo: la cui importanza, sebbene le conseguenze non smettano di colpirci e di disorientarci, non è stata ancora colta né dal punto di vista storico, né da quello concettuale, della teoria, se non da qualche isolato, grande sociologo. I giovani in particolare non se ne rendono conto, a meno che non gli venga precisamente spiegato, anche se – senza esserne consapevoli – ne vivono sulla propria pelle le conseguenze: tanto i più felici tra loro come i più sfortunati. Ed è sotto le macerie di questo mondo che giace il corpo della sinistra, non solo in Italia, ma più o meno in tutto l’Occidente: a pezzi, per quanto ricoperto di alloro»[12]. Il sociologo cui l’Autore allude nel testo è Alan Touraine.

È vero o non è vero che il mondo sociale della seconda sinistra è finito definitivamente? Se si vuol procedere oltre, con una nuova sinistra, indubbiamente bisogna prenderne atto. La fine dell’identificazione stretta tra cittadino e lavoratore ha costituito per la sinistra un processo lungo e travagliato che – almeno nel nostro Paese – non sembra neanche del tutto terminato[13]. Soprattutto per il fatto che la sinistra per un paio di secoli aveva parlato soprattutto di lavoratori e nel nostro Paese aveva poca dimestichezza con le nozioni relative al cittadino e alla cittadinanza, cioè con le nozioni relative al pensiero liberale e democratico (quello che, secondo Hobsbawm[14], ha caratterizzato la prima sinistra).

Prolegomeni a una nuova sinistra 065. Le trasformazioni tecnologiche ed economiche hanno dunque portato al tramonto della prospettiva della lotta di classe e alla sparizione della soggettività stessa della classe operaia. Che costituiva il riferimento sociale della sinistra, il cosiddetto popolo della sinistra[15]. La perdita del riferimento sociale fu dunque soprattutto un effetto dei grandi processi storici che non furono adeguatamente compresi e problematizzati. La poca dimestichezza della sinistra con il pensiero democratico rendeva poco appetibile l’idea che si potesse pensare a un partito semplicemente di cittadini. Il rifiuto della democrazia borghese avvenuto col Manifesto di Marx sembrava irreversibile. Cominciò così un inutile viaggio alla ricerca del soggetto trasformatore alternativo. Si fecero numerosi tentativi. Il Terzo mondo e le sue rivoluzioni, gli emarginati, le donne, i poveri, gli immigrati, gli scontenti della globalizzazione, i movimenti monotematici per le grandi cause. Si fecero vani tentativi di ripetere quello stesso schema che risale addirittura al giovane Marx. Trovare cioè un soggetto politico che emancipando se stesso riesca a emancipare l’intera umanità. Inutile dire che il soggetto rivoluzionario alternativo non fu mai trovato. In realtà le sinistre hanno continuato a perdere consensi e quello che era il popolo della sinistra si è spostato sempre più verso la destra.

Schiavone qui ha il merito di dire con chiarezza quale sia oggi – secondo lui – la sola soluzione possibile: «Staccare […] definitivamente l’idea di sinistra da qualunque idea di socialismo, con la quale ogni politica progressista si era più o meno identificata sin dalla nascita: un’idea che aveva ormai il sapore arcaico del ferro, del vapore e del carbone. E, di conseguenza, staccare l’idea di eguaglianza – che, se poggiata su nuove basi, mantiene, eccome, tutta la sua attualità – dall’idea di lavoro (e di socialismo); e la figura del cittadino da quella del lavoratore. Ricongiungere direttamente, in altri termini, sinistra e (nuova) eguaglianza, senza passare attraverso il lavoro e il socialismo: come non è stato mai fatto nella modernità dopo la rivoluzione industriale. Mettere in campo un’idea diversa di sinistra per un’idea inedita di eguaglianza: lontane tutt’e due dal mito della socializzazione attraverso il lavoro, ma capaci di svilupparsi in un mondo ormai invaso dalle differenze e dal moltiplicarsi delle soggettività. E collocate entrambe in uno spazio culturale e strategico frutto di una prospettiva finalmente davvero inclusiva e globale, che solo ora – non prima, come sbagliando si pensava – è possibile permettersi. Andando oltre la catastrofe irreversibile del socialismo, e oltre la fine della centralità del lavoro operaio: della classe operaia come classe generale che liberando sé stessa avrebbe liberato l’intera umanità, secondo la formula bellissima ma piena di inganni delle nostre illusioni di una volta»[16].

Sono parole, in un certo senso liberatorie, che hanno il merito di dare una sana scrollata a tutti coloro che hanno avuto in passato una formazione di sinistra, a tutti coloro che ancora albergano i fantasmi inconsci del sol dell’avvenire. A tutti coloro che ancora subiscono gli effetti deleteri della diseducazione comunista[17].

Prolegomeni a una nuova sinistra 076. Questo però significa – a nostro modesto avviso – tornare a prima della seconda sinistra, alla prima sinistra, quella liberaldemocratica[18]. La prospettiva, detta in soldoni, è quella di riprendere in mano il filone dell’emancipazione del cittadino. L’emancipazione del lavoratore (che sarà comunque sempre degna di rilievo) sarà solo un’implicazione, una conseguenza della prima. Schiavone addirittura interpreta questo nuovo programma come un recupero di una prospettiva umanistica del tutto coerente con lo sviluppo storico della civiltà occidentale. Una prospettiva la cui realizzazione solo ora è divenuta possibile: «È indispensabile avere chiarezza e saper distinguere. L’idea fondante della sinistra, che ne racchiude tutto il cammino ed esprime un principio che sta nell’anima dell’Occidente sin dall’antichità greca, è l’emancipazione dell’umano, di tutto l’umano; non il socialismo: che è stato solo un mezzo per raggiungere quell’obiettivo, ma non il fine, anche se spesso le due cose sono state confuse. E oggi proprio quella meta è diventata realistica come mai prima, grazie all’aumento vertiginoso di potenza che la rivoluzione tecnologica sta mettendo a nostra disposizione: solo che la si sappia usare nel verso giusto. Bisogna perciò andar oltre, con un pensiero in grado per prima cosa di restituirci un’immagine attendibile del mondo, e con una visione capace di guardare lontano: virtù oggi rare, che dobbiamo saper ritrovare. Non ne va solo del futuro della sinistra. Ne va del futuro di tutti»[19].

Insomma, arrovellarsi perché la sinistra abbia perso il consenso dei poveri (o degli emarginati, o di altre fumose categorie sociali) non serve a nulla. I poveri de facto non rappresentano il modello per costruire la nuova società e per emancipare l’umanità. I poveri non sono l’avanguardia nuova. Non sono il modello di umanità cui ci si debba riferire (anche se, ovviamente, rientrano a pieno titolo in un progetto di emancipazione umana). Infatti nella prassi politica comune – lo si vede tutti giorni – sono perfettamente compatibili con le ideologie e le politiche della destra. Poveri, emarginati e lavoratori votano tranquillamente i partiti di destra. Insomma, in estrema sintesi, il poverismo non è il rimedio ai limiti ormai storici del lavorismo.

7. Chiarita la questione di fondo, possiamo accingerci a passare ai temi del secondo capitolo. Un altro nodo fondamentale, nella ricostruzione della sinistra nuova, è quello della politica. Qui abbiamo ravvisato tuttavia un qualche limite nel ragionamento di Schiavone. Un non sequitur rispetto alle sue precedenti argomentazioni. Il vecchio manifesto marxiano, dopo la descrizione delle condizioni materiali del proletariato che contribuivano a costruire la classe in sé, si affannava a spiegare come quelle condizioni materiali stesse avrebbero contribuito ad alimentare la coscienza di classe, la nuova soggettività che avrebbe lottato per quel modello di eguaglianza e di cittadinanza basata sul lavoro. Il capitolo sulla nuova politica Schiavone avrebbe dovuto scriverlo dopo, alla fine, dopo l’individuazione del nuovo modello di eguaglianza da proporre non più ai compagni ma, evidentemente, ai citoyens. (Si veda oltre). Collocato invece in questa posizione, finisce per risultare sconnesso dal ragionamento generale e dunque piuttosto generico.

Prolegomeni a una nuova sinistra 088. Seguiamo comunque le argomentazioni proposte da Schiavone perché hanno comunque qualcosa di interessante da dire rispetto al dibattito attuale. È universalmente riconosciuto che le democrazie occidentali attraversino una crisi della politica. C’è una enorme letteratura in proposito. Schiavone riconduce questa crisi a due questioni principali. La prima è la selezione della classe dirigente e la seconda è quella della partecipazione politica.

La crisi della politica nelle democrazie occidentali sarebbe strettamente connessa alla diffusione del populismo. Purtroppo Schiavone non è il grado di dire, a partire dal suo modello, se il populismo sia la causa o l’effetto della crisi della sinistra tradizionale. Noi propendiamo per sostenere che il populismo sia piuttosto un effetto. Il populismo altro non è se non la ricerca dell’ennesimo soggetto trasformatore, di un nuovo protagonista della storia. Il popolo (termine quanto mai generico) messo al posto del lavoratore. Secondo la nostra analisi, il crollo della sinistra di classe – è successo visibilmente in tutti i Paesi dell’Est Europa – ha portato alla luce l’etno-nazionalismo e il sovranismo. Quello stesso che si è manifestato nella Ex Jugoslavia e che si manifesta oggi in Russia. Il populismo è l’ultimo disastroso esito della ricerca del soggetto sociale rivoluzionario. Com’è noto, il populismo è assai flessibile e può avere versioni sia di destra sia di sinistra. In Italia, dove gli orfani della sinistra di classe sono davvero molti (questo perché avevamo il maggior partito comunista dell’Occidente), li abbiamo avuti entrambi: la classe operaia, dopo la fine della civiltà del lavoro, ha ahimè riempito le file dell’etno-nazionalismo leghista e ha riempito le file del movimentismo del M5S. Poiché la politica era sempre stata identificata con la lotta di classe (soft o hard che fosse) la fine della lotta di classe è stata percepita ipso facto come fine della politica. La sinistra non conosceva altra politica che quella. Di qui il sostantivo e progressivo declino della politica, che ha portato la sinistra nell’attuale situazione di sfacelo.

Prolegomeni a una nuova sinistra 09In ogni caso Schiavone è ben consapevole nell’esigenza di andare oltre il populismo che poi si sostanzia nell’antipolitica e nel rifiuto dello Stato. Nella proposizione di scorciatoie illusorie, risolutrici di tutti i problemi. Afferma Schiavone: «Riportare i cittadini – e i giovani in particolare – alla politica è dunque il primo compito di una sinistra tornata in piedi. Stare a sinistra questo innanzitutto significa, oggi: riconquistare alla politica lo spazio e il consenso perduti, ridarle sovranità, e con quest’ultima restituirle etica e conoscenza. Garantirle finalmente un orizzonte all’altezza dei problemi e delle opportunità che abbiamo di fronte»[20]. Non si può non essere d’accordo. Tuttavia Schiavone non coglie che con la lotta di classe se n’è andato anche un preciso specifico significato della politica, con tutto quel che era compreso: la partecipazione, la militanza, la specifica cultura politica della sinistra, un preciso modello d’impegno e di socialità. Un effettivo ritorno alla politica (di questo si tratta) dovrebbe essere in grado di produrre un equivalente di quel che si è perso. Su basi diverse, certo. Ma deve essere un equivalente.

Secondo Schiavone, la nuova politica dovrebbe essere connessa indissolubilmente con il progetto politico europeo. Per questo si tratta di andare oltre all’idea di nazione (altra nozione novecentesca da superare, per Schiavone, insieme a quella di classe). Qui Schiavone riprende implicitamente il riferimento alla cittadinanza nella forma di una comune cittadinanza europea. Afferma Schiavone: «Credo sia il momento di lanciare l’idea di una Costituente per la nascita di una sinistra d’Europa – da portare tra i cittadini dei diversi Paesi coinvolti e non solo nel Parlamento di Bruxelles: per la formazione di un partito progressista da Madrid a Berlino, da Parigi a Roma, in grado di proporre obiettivi e programmi condivisi, pur nella pluralità delle sue culture e delle sue ispirazioni»[21]. Evidentemente l’Europa non può funzionare come patria nazionale. Non può essere costruita con l’etno-nazionalismo. Per la costruzione di una comune patria europea non nazionale occorre mettere in campo quello che Habermas ha chiamato patriottismo della costituzione. Ne ha parlato a lungo il nostro Rusconi.

Val la pena di aggiungere, da parte nostra, anche l’esigenza improrogabile di un sindacato unitario europeo. Chi scrive ha iniziato la sua prima esperienza sindacale una cinquantina di anni fa, sentendo continuamente pronunciare, in quegli ambienti, la litania della unità sindacale. La divisione delle sigle sindacali poteva avere un senso all’epoca della cinghia di trasmissione tra lotta economica e lotta politica, nel contesto della civiltà del lavoro e della lotta di classe. Ora i residui divisivi di quella stagione continuano a intralciare la lotta economica dei cittadini/ lavoratori. A maggior ragione poi, le organizzazioni sindacali – nate tutte nella stagione della seconda sinistra – dovrebbero essere in prima file nel darsi una struttura europea, poiché i problemi dei cittadini / lavoratori sono sempre più dipendenti dal livello decisionale europeo. Schiavone non ne parla ma penso sarebbe perfettamente d’accordo. Adombra perfino l’esigenza di un coordinamento globale dei progressisti, almeno in Occidente. Si tratterebbe di una continuazione della vecchia idea dell’Internazionale dei lavoratori, che nella sua versione originaria fu più o meno limitata all’Europa ottocentesca. Una democratica Internazionale dei cittadini.

Prolegomeni a una nuova sinistra 109. L’altro problema connesso alla crisi della politica è quello della crisi dei partiti. L’analisi di Schiavone qui mi è parsa ahimè piuttosto sbrigativa e decisamente carente. Mi proverò ad aggiungere qualcosa di appena più sostanzioso. Com’è noto, la tradizione dell’eguaglianza lavorista europea aveva dato origine a un modello di partito di massa (il partito della tradizione socialdemocratica tedesca) che aveva una caratteristica fondamentale: quella di riprodurre nel partito le procedure egualitarie della democrazia formale. Sappiamo bene che quelle strutture non erano perfette, tanto che furono minuziosamente analizzate e criticate[22]. Tuttavia quelle strutture ebbero una loro efficacia e si diffusero tosto anche presso i partiti notabilari, tanto da caratterizzare poi un’intera epoca della politica europea. Restavano fuori da un lato il modello di partito nord americano (una tradizione notevolmente diversa, dove comunque la democrazia era recuperata sul piano dell’investitura diretta del leader/notabile) e dall’altro dai modelli di partito di stampo leninista (dove la democrazia interna era sacrificata in nome della compattezza “militare” dell’organizzazione). È rilevante il fatto che sia il modello socialdemocratico, sia il modello leninista si mostrarono funzionali in un modo o nell’altro al quadro storico della lotta di classe. Si tratta allora di capire se – essendo venuta meno la civiltà del lavoro e della lotta di classe – la sinistra nuova debba anche rinunciare alla sua forma partitica tradizionale, quella di derivazione socialdemocratica (quella leninista la possiamo trascurare poiché non ha passato il test della storia). Si tratta cioè di capire se, modificando i contenuti, la forma organizzativa si può salvare.

Indubbiamente, la crisi dei tre partiti di massa italiani che più di tutti avevano adottato e impersonato il modello organizzativo tedesco (PCI, DC, PSI) ha comportato anche l’insorgenza di una sfiducia verso quel modello. E la ricerca di nuovi modelli sperimentali. L’unico partito nuovo che ha adottato un modello approssimativamente leninista è stata la Lega Nord (oltre a qualche cespuglio di estrema sinistra). Abbiamo avuto poi l’epoca dei partitini personali, le cui regole di democrazia interna lasciavano alquanto a desiderare. Compresi i movimenti personali, che poi hanno sviluppato la deriva populista. Abbiamo nel nostro Paese due casi principali di sperimentalismo di nuove strutture organizzative: il M5S e il PD. Non possiamo qui entrare nel merito, ma col senno di poi si può dire che abbiano fallito entrambi. Lasciando una pesante incertezza su quale sia la forma partito adatta per la sinistra nuova. Il modello partitico/ movimentista del M5S è stato indubbiamente il più ambizioso, essendo fondato sulla pretesa novità del direttismo[23] e sullo strumento organizzativo della rete. Dopo un successo momentaneo, dovuto anche alle doti personali di Beppe Grillo nel gestire le adunate e gli spettacoli di piazza, il modello organizzativo grillino ha mostrato le gravi insufficienze tanto da divenire un partito proprietario, da produrre una sequela di espulsioni/scissioni da partito staliniano, e da mostrare un livello di dibattito politico interno prossimo allo zero. Alla faccia della democrazia diretta! Il PD ha invece scimmiottato il modello della democrazia americana, un modello con forti residui sette-ottocenteschi, una democrazia del leader che ha costantemente confuso il dibattito circa la linea politica con la scelta delle persone attraverso le primarie. Su questo argomento ho avuto modo di produrre una serie di analisi approfondite. Tutte reperibili sul mio blog. Chi abbia voglia di entrare nel merito dei gravi limiti organizzativi del PD odierno può studiare seriamente i due splendidi saggi di Antonio Floridia sull’argomento[24].

Prolegomeni a una nuova sinistra 11In ogni caso, il modello organizzativo del PD ha fallito miseramente, alimentando un sistema correntizio nient’affatto democratico e riducendo il PD stesso ai minimi termini. Gli ultimi ad accorgersene sono proprio quelli del PD. L’ultimo Congresso ha mostrato limiti evidentissimi proprio a livello di democrazia interna e partecipazione, contrapponendo la scelta degli iscritti a quella degli elettori. Al di là della scelta del nuovo segretario, il PD attuale sembra non mostrare alcuna consapevolezza critica circa il fallimento sostanziale del suo modello organizzativo sperimentale originario. Tutte le grandi promesse di cambiamento interno per ora restano sulla carta delle mozioni dei diversi candidati. Staremo a vedere.

Schiavone non entra nel merito della questione della democrazia interna dei partiti – come invece avrebbe dovuto fare, proprio a partire dalla sua impostazione. Secondo l’Autore, veniamo da una stagione di attacco ai partiti e ugualmente da una stagione di tentativi di trovare delle alternative ai partiti. Alternative che sono puntualmente fallite. Dichiara Schiavone: «In realtà, bisogna convincersi che i partiti servono, sono consustanziali alla forma rappresentativa della democrazia, e non se ne può fare a meno. Senza, non c’è politica e non c’è democrazia, almeno nelle forme che oggi conosciamo e che ancora ci appaiono prive di alternative credibili. Il pluralismo delle opinioni, l’articolazione delle differenze, senza delle quali non può formarsi nessuna dialettica democratica che abbia un minimo di affidabilità, richiedono necessariamente la presenza di una mediazione. Che le diversità si solidifichino e prendano consistenza strutturandosi in raggruppamenti politici distinti, in competizione fra loro»[25]. Sembra che Schiavone pensi che i partiti in termini organizzativi siano il male, ma che occorre rassegnarsi perché i partiti servono. Su queste basi non si va molto lontano.

Prolegomeni a una nuova sinistra 12Prosegue nella sua analisi: «Il punto è che il modello che si era delineato in Italia al culmine della «Repubblica dei partiti» – cioè di un partito a trama forte, densa di consistenza burocratica e di apparati territoriali – deve essere oggi rimesso seriamente in discussione senza però che questo significhi in alcun modo rinunciare alla funzione da esso svolta nell’organizzazione della politica. E ci sono molte ragioni per essere convinti che questo tipo di revisione debba riguardare soprattutto la sinistra, e che si debba approfittare della fase costituente di cui comunque non si potrà fare a meno per ridisegnare completamente il profilo del soggetto cui consegnare la rinascita»[26]. Si tratta di una proposta alquanto generica. Schiavone avanza in pratica due proposte: quella del “partito ponte” e quella del “partito laboratorio” che, se non andiamo errati, sono vicine al dibattito portato avanti nel PD da Fabrizio Barca e poi affossato da Renzi. Echi di tutto ciò si sono avuti nelle famose mozioni dei candidati al Congresso del PD. Anche qui, staremo a vedere. Schiavone in generale non sembra prendere sul serio la questione organizzativa, quando invece a nostro giudizio è una delle questioni principali.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1310. Il terzo capitolo del saggio di Schiavone ha per titolo Lo sguardo critico sul presente. Qui l’Autore si occupa dell’avvenuta sparizione della critica dall’orizzonte culturale della sinistra. E cioè anche della rottura della sinistra con gli intellettuali e più in generale con l’attività della produzione culturale. Il posto della critica culturale – questa è una mia aggiunta – è stato scandalosamente preso dall’amministrazione delle cose. Generazioni di grigi amministratori hanno occupato il posto dei politici che un tempo avevano una statura intellettuale, scrivevano saggi impegnativi, dirigevano giornali e case editrici, e soprattutto, sapevano scrivere qualcosa di più dei tweet. Vi è mai capitato di leggere anche solo un articolo scritto di pugno da Bonaccini o dalla Schlein? Ma questi sanno scrivere? O twittano soltanto? Sono loro che scrivono quei libri di autopromozione elettorale che circolano, che nessuno legge e che non resteranno certamente nelle cronache letterarie? Sul divorzio tra intellettuali e politica ho già citato il recente Caravale 2023.

Afferma in proposito Schiavone, riallacciandosi ovviamente alla prospettiva di una critica illuministica: «Non c’è sinistra senza pensiero critico. Non c’è sinistra senza mettere in questione l’ordine del presente. Lo abbiamo a lungo dimenticato. Dobbiamo riportarlo al centro del nostro orizzonte. La sinistra, in Italia e in Europa (per l’America il discorso sarebbe in parte diverso), ha confuso la fine della lotta di classe con la fine di un atteggiamento critico di fronte alla realtà contemporanea. Ha confuso la fine del comunismo con l’obbligo intellettuale, prima ancora che politico, di accettare l’ineluttabilità della disciplina tecnocapitalistica del mondo come oggi si configura. E le sparute minoranze che non lo hanno fatto sono riuscite a opporsi a un simile abbaglio solo nel nome di un impossibile ritorno a ciò che abbiamo perduto. Si sono comportate da orfane del comunismo, ostinate a proporre di nuovo una strada che non esiste più»[27]. Adeguarsi all’esistente o riprodurre la tradizione sono per la sinistra reale solo due facce della stessa medaglia.

Il problema è allora quello di definire in modo nuovo il tipo di critica di cui la sinistra nuova si deve occupare e soprattutto il suo oggetto. Non si può evidentemente tornare al modello della critica marxista al capitalismo. Schiavone indica due principali oggetti intorno ai quali la sinistra dovrebbe recuperare un’attenzione critica rinnovata: la tecnica e il capitalismo. Si potrebbe dire di primo acchito che qui non ci sia nulla di nuovo. In realtà per Schiavone si tratta di mutare radicalmente l’impostazione generale di questa critica. Tecnica e capitalismo – mi permetto di aggiungere – non vanno combattuti con i toni diffusi dei molteplici intellettuali che cantano l’avvento del nichilismo e il declino dell’Occidente[28] – e che si spacciano per sinistra – ma vanno criticati affinché questi possano affermarsi proficuamente nel migliore dei modi, a beneficio di tutti. Alla critica disfattista occorre contrapporre una rinnovata critica progressista. La critica rigorosa non deve necessariamente essere disfattista. Deve essere costruttiva.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1411. Va riconosciuto che Schiavone è uno dei pochi intellettuali italiani postmarxisti che non si è unito all’universale piagnisteo reazionario alla moda contro la tecnica (nonostante alcune sue simpatie foucaultiane che traspaiono anche in questo libretto). Un altro ben noto nel nostro Paese è Maurizio Ferraris.

Dice Schiavone a proposito della tecnica: «La tecnica è potenza. Non è un dato metafisico, non si alimenta di forze incontrollabili. L’idea che essa in quanto tale nasconda una sua malefica oscurità, e che il suo intensificarsi non faccia che allargare questo fondo buio e insondabile, non nasconde una verità originaria da riportare alla luce, ma piuttosto un remoto terrore nutrito dalla nostra specie, connesso alla presa di coscienza delle proprie illimitate capacità. È il timore dell’onnipotenza, ben riflesso nel racconto biblico del peccato originale: del presunto carattere antiumano del troppo sapere, se spinto fino al punto da spezzare la barriera della finitezza. Ma la tecnica è solo storia: dalla prima volta in cui un ramo caduto o spezzato è stato usato come un bastone, fino al funzionamento dell’ultimo acceleratore di particelle. In essa c’è solo la pulsione umana, tutta evolutiva, a padroneggiare ciò che abbiamo intorno e dentro di noi per salvarci dall’ignoto, dal pericolo del non conosciuto. E c’è l’attitudine ad acquisire conoscenza e controllo: una spinta primaria che coincide con la nostra stessa forma biologica. Questione del tutto diversa è invece il suo uso sociale […]»[29].

La tecnica, insomma, non ha nulla di dis-umano. Noi stessi siamo tecnica, come sostiene Ferraris con fondate argomentazioni[30]. Quel che siamo, quel che stiamo diventando, lo dobbiamo alla tecnica. La tecnica comprende in sé eccezionali possibilità di liberazione e di invenzione dell’umano (che dipendono tuttavia dall’uso che ne sapremo fare).

Prolegomeni a una nuova sinistra 15In generale, aggiunge Schiavone sulla tecnica: «Più la tecnica diventa potente, sia pur sempre all’interno di rapporti di produzione capitalistici, maggiore risulta penetrante la sua forza trasformatrice, più rende sicure e stabili le condizioni materiali delle nostre vite (cibo, salute, altri beni di consumo primari), tanto più essa consente alle menti di sentirsi meno dipendenti da costrizioni oggettive, e di allargare le proprie vedute fino a renderle universali. E permette alla nostra etica di non restare prigioniera di vincoli imposti solo dalla limitatezza delle risorse disponibili, e di poter concepire l’interezza dell’umano nella sua unità, senza distinzioni e senza gerarchie: e di dare a questa scoperta la forza di una legge morale, il potere di una regola da non infrangere. Di conquistare alla nostra intelligenza la capacità di scoprire nuove connessioni e nuovi equilibri, e di non confondere pratiche sociali determinate solo dalla storia con principî imposti dalla prescrittività della natura. In altri termini: l’aumento di potenza della tecnica accresce la nostra libertà e la nostra capacità di autodeterminarci. O per essere più precisi: l’incremento di potere della tecnica crea le premesse indispensabili perché l’umano possa liberarsi, fino a concepire sé stesso nella sua totale integrità, e nelle potenzialità infinite racchiuse nelle finitezze delle singole vite che lo esprimono. Non è quindi il progresso tecnologico in quanto tale a diventare direttamente emancipazione. Esso determina solo le condizioni per rendere possibili nuovi dispositivi sociali sempre meno costrittivi, differenti quadri culturali, modelli etici più includenti e tendenzialmente universali. Sono questi cambiamenti a creare più libertà e maggiore emancipazione: le quali a loro volta possono gettare le basi per nuove acquisizioni scientifiche e tecnologiche, e quadri sociali ancora più avanzati a livello globale. Ed è in questo modo, attraverso questo circuito – dove si intrecciavano scienza, tecnica e umanesimo – che l’Occidente, e prima ancora l’Europa, che è stata a lungo la parte tecnologicamente più avanzata del pianeta, sono presto diventati anche il luogo dei diritti e delle libertà: certo molte volte calpestati o negati, ma pur sempre dichiarati come irrinunciabili[31]». Qui Schiavone invoca un radicale cambiamento di prospettiva. La tecnica dunque, con tutte le cautele critiche che si vogliano adottare, accresce la nostra libertà e la nostra capacità di auto determinarci. Altro che nichilismo! Sarà il caso dunque di liberarsi della cultura piagnona dei postmoderni (che sono in gran parte post marxisti), una cultura che è solo una reazione inconsulta di fronte a novità che non si sanno governare.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1612. Lo stesso capovolgimento di prospettiva va fatto sul capitalismo. Per Schiavone si tratta di realizzare una nuova analisi del capitalismo. Il capitalismo è un fenomeno storico e noi stiamo assistendo a un’importante trasformazione del capitalismo. Occorre prendere atto della fine, almeno in Occidente del capitalismo industriale classico, al quale si era contrapposta la vecchia sinistra. Da decenni, dopo uno studio approfondito della letteratura allora disponibile, ci eravamo personalmente convinti che l’analisi marxiana e marxista del capitalismo fosse completamente sbagliata. Già riferita al capitalismo dei tempi suoi. La teoria del valore di Marx non ha alcun fondamento, è solo aristotelismo scolastico. A maggior ragione la sua teoria è inapplicabile al capitalismo odierno. La teoria marxista è oltretutto andata incontro a un’impressionante falsificazione da parte della storia. Le aberrazioni della Cina (tuttora comunista!), la follia criminale di Milošević e di Putin, il delirio di Kim Jong-un. Non dimentichiamo tuttavia anche l’ineffabile Pol-pot che aveva imparato il marxismo a Parigi.

Secondo Schiavone, nella nuova configurazione capitalistica che si prospetta: «[…] lo sfruttamento classico – quello che una volta si chiamava l’estrazione del plusvalore attraverso il pluslavoro, il lavoro cioè erogato ma non retribuito – è riservato solo alle forme di lavoro a più bassa densità tecnologica, dove continua a prevalere l’aspetto puramente quantitativo dell’attività umana. Esso è lavoro ormai senza difesa; diventato economicamente e socialmente marginale, perché attraverso di esso non passa nulla di decisivo per il capitale, e nemmeno per la società nel suo insieme. Mentre quanto più il lavoro incorpora competenze complesse – e oggi accade per fasce sempre più vaste di lavoratori, a diversi livelli – tanto più il suo rapporto con il capitale si fa equilibrato, e la differenza fra i loro redditi tende a diminuire. Perché il valore delle merci dipende ormai dalla tecnologia in esse incorporata, e non più dalla quantità di lavoro vivo necessario a produrle, perciò diminuisce il bisogno di nuovo sfruttamento da parte del capitale (un fenomeno che Marx stesso aveva nebulosamente intuito, senza trarne le dovute conseguenze)»[32].

Si noti che lo Schiavone persiste, nonostante tutto, nell’uso di certo vocabolario marxiano (“lavoro vivo”, …). Segno questo del radicamento dell’apparato concettuale marxiano anche nel nostro linguaggio comune odierno. Anche nel linguaggio “critico”. La critica di Schiavone – se rigorosamente adottata – ha notevoli conseguenze per una nuova sinistra. Si tratta di operare una distinzione, all’interno del capitalismo, tra le persistenze tradizionali del vecchio mondo industriale, che andranno via via superate e il carattere innovativo del capitalismo nell’ambito dei settori più avanzati. Questo significa che la sinistra nuova deve accingersi a convivere nella maniera migliore con il capitalismo, senza pregiudizi e demonizzazioni, criticandone duramente e correggendone gli aspetti deleteri. Questo significa che la nuova sinistra dovrà elaborare una teoria matura intorno alle modalità di rapporto tra Stato e mercato.

Prolegomeni a una nuova sinistra 17Su questo punto Schiavone è oltremodo chiaro: «È chiaro che in questo scenario la creazione di merci materiali a media e bassa densità tecnologica non scompare del tutto; né scompare il lavoro meccanicamente esecutivo: ma entrambi vedranno diminuiti progressivamente i loro addetti, in parte sostituiti da macchine dotate di intelligenza artificiale, in parte delocalizzati in aree geografiche al di fuori dell’Occidente, dove per ora il loro costo è minore. Soprattutto, quei lavori diventano in un certo senso residuali, scaduti rispetto al cuore produttivo del sistema. E poiché non sono collegati a più nulla di decisivo per gli equilibri dell’intera struttura – diversamente da quanto succedeva per il lavoro operaio di una volta, che era invece al centro di tutti i principali processi produttivi di tipo industriale – essi non sono in grado di difendersi da forme anche estreme di sfruttamento, che però non costituiscono più contraddizioni rilevanti rispetto all’insieme del dispositivo economico»[33]. Si tratta allora di distinguere. Indubbiamente ci possono essere dei contraccolpi. Nei settori più arretrati possono comparire addirittura forme di lavoro servile o di schiavitù. I cattivi lavori andranno dunque progressivamente aboliti e sostituiti da lavori più a misura d’uomo. Questo non avverrà automaticamente e dovrà essere posto come obiettivo politico.

Allora: «[…] la sinistra deve ritrovare la forza – intellettuale, prima ancora che politica – di rimettere il capitale sotto la sua lente d’ingrandimento, di sottoporlo nuovamente al proprio esame critico. Non per porre all’ordine del giorno la sua fine, ma per misurarne le azioni e le strategie sul parametro – etico, prima ancora che politico – del bene comune della specie; valutarne l’eventuale distanza, e predisporre quanto necessario perché quella lontananza si riduca il più possibile. Riuscire a opporre cioè la razionalità universale e impersonale dell’umano a quella pur sempre specifica e particolaristica della produzione capitalistica. Questo confronto dovrebbe diventare l’anima della sua politica»[34]. Questo in generale significa che la sinistra deve essere in grado di rigettare il suo attuale piatto pragmatismo, che poi diventa assuefazione, adattamento al mondo così com’è, e sottoporre la propria azione a un indirizzo etico politico che abbia una solida fondazione nella propria visione del mondo, nella propria filosofia, nella propria nuova cultura politica. In altri termini, il capitalismo, l’economia di mercato, va governato e spetta alla nuova politica della sinistra mostrare come questo sia possibile. Rispetto al vecchio marxismo, si tratta di riconoscere una buona volta il primato delle idee, il primato della sovrastruttura, se si adotta il vecchio linguaggio marxiano. Del resto su questa strada Gramsci aveva già fatto notevoli passi avanti. E si tratta di rigettare il machiavellismo, il realismo politico, che quando professato come criterio unico non si ferma al pragmatismo ma scivola inevitabilmente nell’opportunismo e nel qualunquismo.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1813. Nel suo quarto capitolo, Schiavone affronta – in maniera va detto non sempre lineare – una serie di questioni davvero importanti. Senza affrontar le quali la sinistra si confonderebbe immediatamente con un club di gretti individualisti. È tuttavia questo il capitolo più discutibile del manifesto. Il più aperto e certo anche il più meritevole di discussione. Anche perché qui potremo riprendere la questione della cittadinanza.

14. Anzitutto Schiavone affronta una questione particolare, non insormontabile. La questione dell’identità italiana. La questione identitaria è stata posta a lungo negli scorsi decenni, a partire dal dibattito sulla patria e sulla identità nazionale della metà degli anni Novanta[35]. È un dibattito su cui sono intervenuti molti studiosi e intellettuali, tra cui lo stesso Schiavone[36]. Un dibattito che manco a dirlo non ha interessato più di tanto il mondo politico.

Schiavone afferma che: «Tra i molti errori della sinistra c’è di sicuro quello di aver lasciato alla destra il monopolio della rivendicazione identitaria. È un tema che invece si deve riprendere con vigore, esibendone una visione completamente diversa rispetto a quella della destra, ma non meno forte, tutt’altro. L’identità italiana non è un bene acquisito una volta per tutte, che si recupera o si lascia perdere, come si cerca di far credere. Non è qualcosa di scritto nel passato. È un insieme di pensieri, di riconoscimenti e di costruzioni culturali che cambia di continuo, e che ogni generazione ricrea in modo diverso; è un patto di fiducia che si rinnova con la propria storia e con la propria coscienza civile. Ed essa non è alternativa all’identificazione europea, né all’auto percezione – che per fortuna avanza sempre di più – di essere cittadini del mondo, di far parte di una comunità globale. All’Europa e al mondo si aderisce con tanta maggiore consapevolezza, quanto più ci si avverte italiani: anzi, quanto più si sa proteggere e rafforzare questo riconoscimento. Intanto, perché il cosmopolitismo è una nostra antica vocazione, senza la quale, per esempio, il Rinascimento non sarebbe stato quello che è stato»[37].

La sinistra nuova, dunque, ha da essere identitaria ma non sovranista. Ma a mio modesto avviso questa conclusione non basta. Proprio dal dibattito sull’identità italiana mi sentirei di precisare che l’identità di cui abbiamo bisogno non è un’identità di tipo etno-nazionale (cui mira invece consapevolmente la destra), bensì un’identità basata sulla nozione habermasiana della cittadinanza della costituzione. Se si preferisce, del patriottismo della costituzione. Una identità dal carattere fondamentalmente politico e di derivazione illuministica[38]. Si tratta di concetti di una certa complessità che non ho spazio qui per approfondire. I nostri politici medi di sinistra ovviamente nulla sanno di queste distinzioni.

Prolegomeni a una nuova sinistra 1915. Schiavone comunque cerca di sostanziare, anche se non ne parla esplicitamente, i principi di una cittadinanza della costituzione, attraverso la proposta di un patto. Devo qui dire che personalmente non mi piacciono i patti in questi termini. Non è chiaro perché quando si legge qualcosa che assomiglia a un programma politico o a una mozione ci sia sempre qualcuno che propone un patto di qualche sorta. Si vedano le mozioni dei candidati alla Segreteria del PD che sono pieni di patti. Si tratta per lo più di artifici retorici poiché non si precisano mai le circostanze del patto stesso. Non siamo certo in presenza di un patto repubblicano. Schiavone propone (ahimè, anche lui) un patto di carattere politico, basato sulla costruzione europea e sul contrasto alle diseguaglianze. E qui, comunque, con la cittadinanza costituzionale ci stiamo: «L’intero Patto dovrebbe ruotare intorno a due soli punti: solitari e decisivi. Primo: impegno contro le grandi strutture di diseguaglianza attive nella società italiana. Secondo: impegno per fare del nostro Paese il leader di una nuova fase dell’unificazione europea, vista in una prospettiva di sempre più completa integrazione occidentale e planetaria. Formulato in altro modo, e in una sola frase: meno diseguaglianza, ma senza alcun appiattimento, e senza rinunciare ad alcuna differenza; e insieme: un’idea d’Italia con dentro più Sud, più mare, più Europa e più mondo. È tutta qui – in queste sole righe – la sinistra che aspettiamo»[39]. Il grande compito della nuova sinistra dunque dovrebbe essere quello di determinare l’introduzione di nuove forme di eguaglianza, per lo meno a livello europeo, lasciando massima libertà alle differenze. Un compito chirurgico di grande difficoltà.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2016. La questione delle diseguaglianze è ancora dunque fondamentale anche e soprattutto nella costruzione di un programma politico. In questa ultima parte Schiavone si accinge a discutere in profondità il senso nuovo che la nuova sinistra dovrebbe conferire alla questione della eguaglianza. Si tratta cioè – ricordiamolo – di connettere l’eguaglianza non più con il lavoro bensì con la cittadinanza.

Dice Schiavone: «La storia – sia più antica, sia recentissima – ha sedimentato nel nostro Paese grandi strutture di diseguaglianza, che lo rendono estremamente fragile e che stanno compromettendo la sua vita civile e politica, e il funzionamento stesso della democrazia repubblicana. Con questa espressione – strutture di diseguaglianza – intendo l’esistenza, stratificata nel tempo, di complessi apparati di discriminazione, in ognuno dei quali si combinano variamente in un unico meccanismo amministrazione, economia, società, diritto, mentalità. Essi finora sono stati sempre in qualche modo favoriti o coperti dalla politica, e agiscono come vere e proprie macchine del diseguale, moltiplicando i loro effetti su fasce di cittadinanza sempre più ampie. Mi limito a indicarne quattro, a mio giudizio più significativi: la sanità, la scuola, il mercato del lavoro, il sistema-Mezzogiorno preso nel suo insieme: autonomie, burocrazie, intrecci di affari, politica e criminalità che dal Sud si sono estesi all’intera Penisola. Affrontare questi nodi e almeno iniziare a scioglierli sarebbe il segno di un’autentica rivoluzione italiana»[40]. Per questo occorre: «[…] il disegno di un nuovo progetto che sia in grado di costituire il nucleo di un Patto di eguaglianza da proporre al Paese per la salvezza della sua democrazia. Un Patto che sia già un programma politico, stretto non in nome di una classe – che porti cioè dentro di sé il segno dell’esclusione – ma del «comune umano» come soggetto e come valore includente e globale»[41].

17. È proprio la nozione del “comune umano”, che qui compare, a costituire un qualche problema, una potenziale pietra d’inciampo. Schiavone ribadisce che il programma egualitario andrebbe dunque perfezionato e portato avanti «non in nome di una classe». E questo è il rifiuto esplicito della vecchia prospettiva della giustizia socialista, di cui abbiamo già detto. Qui si pone tuttavia il problema di individuare il punto di vista generale che dovrebbe sostenere il nuovo programma egualitario. Nel linguaggio tradizionale del pensiero democratico si parlerebbe forse del bene comune o di una qualche ricetta per individuarlo. Si tratta in altri termini di definire il senso del nuovo egualitarismo. E, nello stesso tempo, anche il suo retroterra sociale universale.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2118. Cominciamo con il richiamare anzitutto perché non va più bene il vecchio modello di eguaglianza. E questo non è difficile. Secondo Schiavone, il vecchio modello di eguaglianza: «È ora di farlo scomparire del tutto: perché crea solo equivoci, e impedisce a chi ancora lo immagina di interpretare e capire davvero il mondo. Per farlo, bisogna guardare da un’altra parte. Bisogna spostare l’idea di eguaglianza dal piano dell’economia dove l’aveva messo lo sviluppo capitalistico di una volta – per non dire del pensiero di Marx – a quello dell’etica e delle coscienze. Un cambiamento non semplice, ma decisivo: prima impossibile, ma che adesso ci possiamo finalmente permettere, proprio perché le basi tecnologiche della società che sta nascendo ce lo consentono. Oggi infatti l’effetto di prossimità che le nuove tecniche permettono di acquisire rispetto a ogni luogo del pianeta – pensiamo alla difesa dell’ambiente come fatto globale, o all’immaginario delle giovani generazioni in tutti i grandi centri urbani – sta rendendo per la prima volta possibile il formarsi di una visione unitaria e totalizzante dell’umano – che ha appunto l’eguaglianza per sua misura – senza più legarla direttamente a un modo di lavorare e di produrre, bensì a una forma complessiva della vita: non l’unica, ma indispensabile. E soprattutto senza cancellare o mettere in discussione le ineliminabili diversità che pure sopravvivono all’interno di quella rappresentazione unificante: né quelle diciamo così naturali, né quelle sociali. E costruire questa nuova veduta – l’eguaglianza come misura dell’umano – non come l’intuizione di una minoranza, ma come l’autorappresentazione di un’intera civiltà»[42].

Quello che Schiavone vuol dire – credo – è che la messa da parte dell’eguaglianza socialista non deve precipitare in un tipo di società sul modello di Mandeville, dove ognuno persegue ferocemente solo e immediatamente il proprio particulare[43]. Uguali in quanto concorrenti. Se in campo economico è ammesso un settore privato, che è il settore dove si producono le differenze più pesanti, nella sinistra si dovrà dare risalto al momento del pubblico e del comune. Il pubblico e il comune deve avere come riferimento l’umano, cioè l’universale, che poi (credo) può essere interpretato come il cittadino universale di questo pianeta. Sarebbe questo presumibilmente il culmine di un lungo e tormentato processo che ha portato alla universalizzazione dei diritti umani, alla universalizzazione condivisa di un nucleo, in continua espansione, di diritti dell’uomo. Tipico dell’oggi tanto esecrato Occidente.

Prolegomeni a una nuova sinistra 22Secondo Schiavone: «Si riconduce così l’eguaglianza – il suo paradigma e il suo fondamento – a un altro riferimento, non più produttivo e sociale, ma morale e cognitivo, in qualche modo antropologico: una svolta senza precedenti, che libera questo concetto da un ancoraggio ormai assolutamente inattuale: quello della socializzazione operaia. E lo lega invece a un diverso modo, storicamente più adeguato e più proprio, di concepire l’indiscutibile universalità dell’umano, che oggi la nuova tecnica e la sua potenza esibiscono sotto gli occhi di tutti con un’evidenza prima impossibile da raggiungere: a quello della sua nuda impersonalità. Si può pensare e costruire cioè – eticamente, politicamente, giuridicamente – la nuova eguaglianza come la forma per eccellenza dell’impersonale umano, e rendere quest’ultimo, attraverso la sua costituzione istituzionale e sociale, il soggetto cui attribuire i diritti (universali) dell’umano: i diritti di un’universale e impersonale cittadinanza, non più connessa a una forma di lavoro, né a un modo di produzione, ma al riconoscimento di una comune identità, spersonalizzata e perciò totalmente inclusiva, l’identità dell’umano, che ha l’eguaglianza come sua unica misura. Un’identità certo consentita dallo sviluppo tecnocapitalistico, ma che tuttavia l’oltrepassa, sporge oltre di esso e della sua logica, e si apre sull’ignoto»[44].

Spiega ulteriormente l’autore: «[…] diventa non solo concepibile, ma estremamente realistica una figura diversa e complementare, che non si identifichi né con l’“io” individuale della vicenda capitalistico – borghese, né con il “noi” della tradizione socialista, ma con l’impersonalità di quell’ “egli”, di quella “non-persona” che, senza identificarsi con alcuno, permette a ciascuno di esistere e di pensare, e di potersi autorappresentare in quanto umano. Perché ognuno di noi sarebbe nulla se non potesse affondare il proprio sguardo negli occhi dell’altro – di ogni altro della terra – e riconoscerlo come parte di un tutto al quale anch’egli stesso appartiene»[45]. In tutto questo ragionamento sull’universale, il concetto che ci è parso più discutibile e bisognoso di qualche approfondimento in termini definitori è quello della impersonalità. Tornerò sull’argomento.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2319. Nel successivo paragrafo Schiavone fa un tentativo di dar corpo concreto a una definizione più precisa. Se abbiamo capito bene, nella nuova prospettiva l’eguaglianza deve venire a patti con le differenze, che rappresentano un bene altrettanto prezioso. Si tratta allora di definire con cura i campi ove deve assolutamente prevalere l’eguaglianza in nome del comune umano impersonale dai campi invece ove è possibile anzi doveroso lasciare spazio alle differenze. Se invece si lasciano le cose come stanno, si ha la produzione delle disuguaglianze e l’avanzamento sistematico del disumano.

Dice Schiavone in proposito: «Le si contrasta invece – quelle strutture [che producono diseguaglianza, ndr] – attraverso un approccio complessivo, che sia in grado di capovolgerle dalle fondamenta, investendo ciascuna di esse con i criteri di una logica sociale mai prima messa alla prova, che comprenda l’inclusione e la differenza, il pareggiamento e la diversità. Costruendo cioè isole di nuova eguaglianza opposte e simmetriche rispetto alle macchine del diseguale: un’eguaglianza non seriale e ripetitiva, ma riferita in maniera puntiforme unicamente all’accesso a beni e servizi molto precisi e determinati. Zone di parità che punteggiano oceani di differenze individuali, anche molto accentuate, che vanno lasciate intatte al proprio posto. E che però si dileguano fino ad annullarsi completamente quando si avvicinano a toccare aspetti per i quali non devono più esistere singole individualità, ma soltanto il «comune umano», nella sua interezza e nella sua impersonale indivisibilità»[46].

Nel riconoscimento delle universali differenze esistono dunque – secondo Schiavone – degli «aspetti per i quali non devono più esistere singole individualità». Qui sta il nocciolo della questione. Ci sembra di capire dunque che l’eguaglianza vada perseguita solo rispetto al “comune umano” e non rispetto ad altre particolarità, che invece vanno utilmente lasciate indisturbate, magari anche valorizzate. L’eguaglianza insomma non è mai assoluta. Occorre sempre dichiarare “Uguali rispetto a cosa?”. Diventa allora essenziale per la sinistra chiarire e concordare quali debbano essere i terreni dell’eguaglianza, i terreni del comune umano. Qui nascono le grandi fonti di disaccordo con cui la nuova sinistra dovrà comunque confrontarsi: le questioni relative ad esempio alla distribuzione, alla pace o alla guerra, ai diritti individuali, alla cittadinanza, alle limitazioni per la salvaguardia ambientale e quant’altro.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2420. Una gran novità, secondo Schiavone, dovrebbe essere la seguente: «Si tratta di un processo che deve avere al suo centro non i singoli soggetti – gli individui – ma gli oggetti, i beni. Non deve localizzarsi all’interno di ciascuno di noi, ma all’esterno; nel tessuto stesso della realtà, sia naturale, sia artificiale: in quelle sue parti condivise dall’umano nel suo insieme. Una sfera, quest’ultima, in continua espansione, grazie ai meccanismi di controllo e di trasformazione che la tecnica introduce non solo nell’ambiente che ci circonda, ma nella nostra stessa conformazione biologica: sulla materialità dei nostri corpi, determinandone il destino»[47]. Un’eguaglianza di tipo distributivo rispetto a certi beni dei quali nessuno, in quanto umano, potrebbe esser privato? Qui siamo nel campo scivoloso e complesso dei diritti umani, quelli che Bobbio considerava in continua espansione, su cui la nuova sinistra dovrà prender posizione. Ben al di là dei miseri elenchi che circolano nei programmi dei candidati. Personalmente andrei cauto nel riservare la questione dell’eguaglianza solo ai beni, agli oggetti. Abbiamo ancora molti problemi di eguaglianza che riguardano i diritti individuali. A meno che non si voglia considerare anche certi diritti individuali come un tipo particolare di beni. Ad esempio il diritto per coppie omosessuali a sposarsi e ad avere dei figli, il diritto alla cittadinanza per i nati in Italia, e così via.

Così sembrerebbe: «Emergerebbero così segmenti di vita regolati da un’eguaglianza che agisce in modo intermittente e discontinuo, legata alla fruizione di alcune precise risorse, e alla protezione di alcuni beni: l’inviolabilità della vita stessa, prima di tutto, nella pienezza della sua esistenza, dall’alimentazione alla salute, alla formazione. L’ecosistema nella sua interezza; l’accesso al digitale e alle tecnologie in grado di modificare lo statuto genetico dell’umano, e così via. Mentre rispetto a tutto il resto rimarrebbero prevalenti quei criteri di differenziazione e di disequilibrio indotti dalla natura, dal genere, dal mercato»[48].

Prolegomeni a una nuova sinistra 25Aggiunge Schiavone, tanto per chiarire: «Negli ultimi anni la riflessione giuridica sui cosiddetti «beni comuni», come quella sui «beni pubblici globali», entrambi patrimonio dell’impersonalità umana che si fa soggetto giuridico e paradigma etico è andata avanti, con risultati significativi. In queste esperienze ci si riferisce a fasce di beni e di servizi sottratti con apposite regole al controllo da parte del capitale, e affidate a un’altra razionalità economica – un’economia dell’universalità umana, l’autentica economia non capitalistica dell’impersonale, produttrice di valori d’uso e non di merci – con una fruibilità garantita in modo eguale, e comunque al di fuori delle discipline di mercato, all’intera cittadinanza»[49].

Prolegomeni a una nuova sinistra 26Possiamo pensare a qualcosa come l’ambiente bene comune. Possiamo pensare forse a qualcosa come il FAI, oppure i beni che l’UNESCO ha dichiarato come patrimonio dell’umanità. Possiamo pensare a certi progetti che girano su internet di mettere a disposizione di tutti gli umani il patrimonio librario universale. Oggi si adombra l’idea di un’intelligenza artificiale con cui chiunque possa interloquire per ottenere informazioni distillate dall’enorme globale infosfera che l’umanità stessa sta costruendo collettivamente. Si può pensare alla messa in comune di brevetti che abbiano una rilevanza “umana” come ad esempio le cure per le malattie oppure le tecnologie per la produzione di energia pulita. Un’espansione, dunque, della sfera del comune umano a discapito del privato proprietario. Alla fine del paragrafo 3 Schiavone fa alcuni esempi ulteriori presi dal campo della discussione sui beni comuni. Dal campo della scuola e della questione del merito e dal campo del lavoro.

Prolegomeni a una nuova sinistra 2721. È chiaro che dietro a tutto ciò compare la questione (che in termini pratici diventa poi decisiva) del rapporto tra la sfera del comune e la sfera del mercato, che rimane comunque capitalistico, per quanto possa essere ben regolato dalla mano pubblica. Schiavone precisa che: «In queste esperienze ci si riferisce a fasce di beni e di servizi sottratti con apposite regole al controllo da parte del capitale, e affidate a un’altra razionalità economica – un’economia dell’universalità umana, l’autentica economia non capitalistica dell’impersonale, produttrice di valori d’uso e non di merci – con una fruibilità garantita in modo eguale, e comunque al di fuori delle discipline di mercato, all’intera cittadinanza. Essa rappresenterà un fattore di riequilibrio tra offerta (capitalistica) e bisogni (dei cittadini)»[50]. Su tutto ciò si può anche concordare. Tuttavia Schiavone dimentica una questione decisiva. Tutto ciò può essere realizzato grazie a un intervento deciso dello Stato. Lo Stato è l’ospite sconosciuto di tutti i dibattiti sul futuro della sinistra. Nell’inconscio della vecchia sinistra c’è un’ambivalenza – disastrosa nei suoi effetti – nei confronti dello Stato (e dell’amministrazione), il quale dovrebbe essere il solutore di tutti i problemi ma del quale fondamentalmente si diffida e che non di rado è considerato un nemico. Se la nuova sinistra dovrà far pace con la tecnica e con il capitalismo, dovrà anche far pace con lo Stato. Per far pace con lo Stato e per rafforzarlo l’unica strada è quella del patriottismo della costituzione. Bisognerà adottare la prospettiva per cui «lo Stato siamo noi». Solo così lo Stato potrà limitare il mercato, offrire le garanzie ai cittadini e impedire i soprusi. Questo esclude la prospettiva della deregulation neoliberista, se non in quei casi in cui la regulation si sia mostrata disfunzionale. Bisognerà riprendere i temi della riforma dello Stato, di cui nessuno si interessa. Come bisognerà riprendere il discorso sulle organizzazioni internazionali.

Prolegomeni a una nuova sinistra 29Anche il mercato del lavoro potrebbe lasciar spazio a un altro tipo di mercato, oggi anticipato dal vasto settore del volontariato, basato sul dono alla comunità: «Mentre in società in cui si lavorerà sempre di meno – in modo sempre più qualificato, ma per periodi sempre più ridotti – si potrebbe prevedere di liberare in modo sistematico una parte del tempo di lavoro dal vincolo del mercato, e di destinarlo, sotto forma di servizio alla comunità, ad attività utili per l’insieme della cittadinanza, scelte da chi le compie in base alle proprie competenze e vocazioni. Questa possibilità è oggi realistica perché può passare attraverso una separazione cruciale, una volta improponibile: quella tra il lavoro in forma di merce – la forza-lavoro venduta e comprata sul mercato – e il lavoro in quanto tale, come impegno e fatica per la realizzazione di sé. Un lavoro, quest’ultimo, sottratto al mercato e alla forma di merce, e consegnato invece alla comunità senza la mediazione del capitale. La distinzione era stata finora impraticabile perché le condizioni tecnologiche non la consentivano: tutto il lavoro doveva finire sul mercato per permettere la sopravvivenza materiale e la dignità sociale di intere classi, di larghissima parte della società. Oggi invece comincia a non essere più così»[51].

Prolegomeni a una nuova sinistra 30La chiave di svolta è ancora una volta la natura storica del lavoro e della figura del lavoratore. Schiavone in prospettiva è convinto che: «La quantità di lavoro da destinare al mercato tenderà sempre più a ridursi, perché una sua parte sempre maggiore sarà sostituita dalla tecnica, e questo renderà disponibile per scopi diversi una quota sempre maggiore di energia psicofisica umana. Si libereranno in tal modo risorse che costituiscono un potenziale enorme, ma che oggi, per effetto di una distorsione culturale, sociale ed economica – forse addirittura antropologica – appaiono solo come eccedenza di forza-lavoro non impiegata, spesso con conseguenze drammatiche per le persone escluse dal circuito produttivo; mentre si tratta di una riserva preziosa, finalmente da poter destinare a compiti diversi, lontani dalla sola riduzione del lavoro umano a forza-lavoro in forma di merce. È un ordine di pensieri che si apre su immensi campi inesplorati, e che forse potrebbe anche dirci qualcosa sulla storicità del capitale, sulla sua non eternità. Ma c’è bisogno di studio e di coraggio intellettuale. La costruzione di un diverso modo di essere eguali non può fare a meno di simili ricognizioni»[52].

Prolegomeni a una nuova sinistra 3122. Dicevamo di una certa fatica teorica da parte di Schiavone, in questo ultimo capitolo. In effetti, le diverse questioni sembrano piuttosto affastellate. Tutte cose assai interessanti che tuttavia faticano a trovare un ordine concettuale ben definito. Qui si può tornare alla questione poco chiara del concetto di impersonalità. Occorrerebbe secondo Schiavone: «[…] distinguere le due forme in cui si realizza l’umano – quella individuale e quella impersonale – riservando per ciascuna di esse diverse funzioni sociali, economiche, politiche. Non è del tutto chiaro cosa intenda Schiavone con la nozione della “non-persona” come forma di auto realizzazione. Quando Schiavone parla di impersonalità si riferisce evidentemente a un superamento della “persona”. Si tratta evidentemente – per quel che abbia mo capito – di una nozione di stampo foucaultiano risalente a Roberto Esposito[53]. Queste parentele e connessioni si possono capire ricorrendo allo studio precedente di Schiavone, incentrato proprio sulla nozione dell’eguaglianza[54]. Non abbiamo però capito quale vantaggio si abbia nell’utilizzo di questo concetto. È – a nostro giudizio – un poco disdicevole che Schiavone, intendendo produrre un manifesto politico abbia deciso, nella sua parte centrale basilare, di legarlo ai sofismi di una discutibile filosofia postmoderna. L’impersonale di Esposito/Schiavone, spogliato del linguaggio della bioetica e della biopolitica postmoderna, assomiglia comunque alquanto, a nostro giudizio, al kantiano cittadino del mondo. Quello che ha dato l’avvio alla tradizione moderna del cosmopolitismo. Più in generale, c’è dietro tutta la tradizione umanistica, dai Greci ai giorni nostri.

Prolegomeni a una nuova sinistra 32Schiavone, nelle sue argomentazioni, riprende in realtà più o meno consapevolmente – con un linguaggio talvolta oscuro – tematiche vecchie e nuove che hanno alimentato analoghi filoni di discorso. In campo antropologico si è sviluppato da tempo una riflessione sulla economia del dono[55]. Esiste poi un’ampia letteratura nazionale e internazionale facilmente reperibile sull’economia dei beni comuni. La riflessione di Schiavone sul cambiamento del significato del lavoro, è abbastanza analoga alla riflessione prodotta recentemente da Maurizio Ferraris intorno alla produzione di valore che ciascuno di noi realizza, senza alcun comando, senza alcuna retribuzione, in rete, in quanto utente delle nuove tecnologie. Lavoro che impropriamente viene appropriato dai monopolisti del web e che invece in certa misura potrebbe essere ridistribuito. Si veda ad esempio Ferraris 2015 e Ferraris 2021. Una tematica analoga a diversi esempi proposti da Schiavone è quella del capitale sociale. Si tratta di un concetto di cui si è discusso assai nell’ambito delle scienze sociali e che ha trovato una varietà di formulazioni ma anche una varietà di applicazioni. Un’altra tematica analoga è quella della cultura civica della democrazia[56] a proposito della quale esiste un filone di ricerca e riflessione che dura da decenni.

Prolegomeni a una nuova sinistra 33Insomma, si tratta di uscire dai confini disciplinari della tradizionale eguaglianza lavorista e socialista per dare luogo a una nuova elaborazione culturale che sappia fondere varie disparate riflessioni che ci sono già e che attendono soltanto di essere opportunamente e rigorosamente concettualizzate. E qui ci sarà senz’altro molto lavoro da fare.

Prolegomeni a una nuova sinistra 3523. Schiavone contribuisce dunque, in questo suo manifesto, a delineare un nuovo quadro culturale per una futura nuova sinistra. O, almeno, a manifestarne fondatamente l’esigenza. Una futura sinistra sganciata dall’ ingombrante eredità socialcomunista, sganciata dal lavorismo, capace finalmente di non demonizzare la tecnica e di mettere il capitalismo al lavoro in nome dell’umano e non contro l’umano. Il riferimento politico di fondo è la cultura della democrazia e la individualità autonoma della tradizione umanistica occidentale che ha prodotto il cittadino della polis come migliore forma di vita. Se non piacciono le proposte di Schiavone, non lo si potrà comunque ignorare, perché quelli da lui individuati sono comunque i problemi che vanno affrontati. Hic Rhodus, hic salta!

Prolegomeni a una nuova sinistra 37Schiavone inoltre evidenzia – senza dirlo esplicitamente ma con le sue considerazioni complessive – un altro errore della sinistra tradizionale. L’errore di avere ridotto la democrazia a democrazia formale. Nell’ambito della prospettiva socialista, la democrazia era impegnata a fornire l’elemento formale, mentre l’elemento sociale e culturale era fornito dal sol dell’avvenire. Ora che il sol dell’avvenire sembra tramontato per sempre insieme alla civiltà del lavoro, è quanto mai urgente dar voce a un nuovo elemento contenutistico della democrazia, un nuovo profondo contenuto sociale e culturale, incentrato intorno a una nuova modalità di concepire l’eguaglianza. È quanto Schiavone ha cercato di fare e quanto dovremo continuare a fare noi tutti se vogliamo mettere in marcia autenticamente la prospettiva di una nuova sinistra democratica.

Prolegomeni a una nuova sinistra 36

Appendice

Le tre, o quattro, sinistre. Poiché si parla qui di sinistra, cosa il cui significato è oggi pressoché smarrito, può essere utile un inquadramento in prospettiva storica dell’oggetto in questione. Per rimanere nel campo della sinistra, secondo Hobsbawm[57], nel corso degli ultimi duecento anni, si sono succedute diverse sinistre. Almeno tre.

La prima sinistra è stata quella liberale. È la sinistra che ha combattuto l’aristocrazia: ai tempi di Luigi XVIII e di Carlo X in Francia i Liberali si contrapponevano agli Ultras. Insomma, la prima sinistra sarebbe quella che ha guidato le rivoluzioni borghesi e, parzialmente, i movimenti di costruzione della nazione, soprattutto in Europa. In prossimità alla sinistra liberale, ma anche in contrapposizione, tra Settecento e Ottocento è nata una sinistra repubblicana e democratica. Col passare del tempo, la sinistra liberale e quella democratica hanno trovato una sintesi ormai stabile nella cosiddetta liberaldemocrazia.

La seconda sinistra è quella che ha visto la contrapposizione tra i primi movimenti sociali popolari e la borghesia (in questo caso la borghesia si è spesso trovata spinta su posizioni di destra. È il caso, ad esempio, di Luigi Bonaparte). La seconda sinistra, si è sviluppata come una sinistra di classe, ha una storia molto lunga che, approssimativamente, dal 1848 giunge fino agli anni ‘70 del Novecento. È stata in gran parte egemonizzata dal pensiero socialista e comunista e dalla forma organizzativa del partito di massa. Ha dato un contributo importante alla costruzione della nazione e alla democratizzazione della nazione, nel senso dell’inclusione del maggior numero. Mediante un intreccio con la prima sinistra ha dato vita alla socialdemocrazia.

La terza sinistra secondo Hobsbawm (che scrive nel 1999) sarebbe una manifestazione recente, legata alla crisi progressiva del conflitto di classe, cioè alla crisi delle socialdemocrazie e alla crisi dei comunismi. È una sinistra che nasce sul terreno della società e della cultura di massa, e si caratterizza per avere una cultura politica composita, per il possesso di forme organizzative leggere e, spesso, per il carattere mono tematico (single issue) delle sue campagne politiche. Sembrerebbe meno interessata alle questioni specificatamente nazionali e più aperta a una prospettiva di tipo universalistico.

Le cose non sono andate proprio come previsto da Hobsbawm. Per questo mi sento di proporre una qualche variazione al suo schema. Dal mio punto di vista la terza sinistra è la sinistra populista, emersa (o riemersa) negli ultimi due decenni. La considerazione del populismo come un tipo di sinistra pone alcuni problemi, poiché il populismo si schiera spesso e volentieri anche a destra. Oggi tuttavia, soprattutto in relazione alla situazione italiana e al caso del M5S il problema non si pone. Possiamo pensare alla sinistra populista come uno sviluppo degenerato derivante dalla crisi della seconda sinistra. E forse da taluni problemi non risolti nell’ambito della prima sinistra.

Accanto a queste tre, abbiamo oggi ampi sviluppi (che Hobsbawm non poteva allora presagire) della sinistra single issue, che qui considereremo allora come una quarta sinistra.

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Opere citate

1963 Almond, Gabriel A. & Verba, Sidney, The Civic Culture. Political Attitudes and Democracy in Five Nations, Princeton University Press, Princeton.

2023 Caravale, Giorgio, Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni, Laterza, Bari.

1997 de Mandeville, Bernard, La favola delle api, ovvero, vizi privati, pubblici benefìci, con un saggio sulla carità e le scuole di carità e un’indagine sulla natura della società, Laterza, Bari. [1724]

2007 Esposito, Roberto, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino.

2015 Ferraris, Maurizio, Mobilitazione totale, Laterza, Bari.

2021 Ferraris, Maurizio, Documanità. Filosofia del mondo nuovo, Laterza, Bari.

2021 Floridia, Antonio, Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel Partito Democratico. Postfazione di Nadia Urbinati, Castelvecchi, Roma. [2019]

2022 Floridia, Antonio, PD. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi, Castelvecchi, Roma.

1996 Galli Della Loggia, Ernesto, La morte della patria, Laterza, Bari.

1999 Hobsbawm, Eric J., Intervista sul nuovo secolo (a cura di Antonio Polito), Laterza, Bari.

1950 Mauss, Marcel, Essai sur le don, Presses Universitaires de France, Paris. Tr. it.: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 1965.

1997 Rusconi, Gian Enrico, Patria e repubblica, Il Mulino, Bologna.

2023 Schiavone, Aldo, Sinistra! Un manifesto, Einaudi, Torino. Epub.

2019 Schiavone, Aldo, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, Einaudi, Torino.

1998 Schiavone, Aldo, Italiani senza Italia, Einaudi, Torino.

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Commenti

Prolegomeni a una nuova sinistra 42Riportiamo i commenti di Marco da Roma, amico di Vittorio, a questo pezzo e la risposta di Paolo.

M.: Grazie, lettura interessante. Sembra un vecchio articolo di Rinascita. Osservo solo che se nell’introduzione si scrive “di poter contare su un pensiero di sinistra libero da residuati ideologici” (che poi è una contraddizione) si aggiunge poi, in palese, questa volta, contraddizione che “la sinistra non discute da decenni dei suoi principî”.

Prolegomeni a una nuova sinistra 43P.: Mah, sono contento che qualcuno legga con tanta acribia le cose che pubblichiamo, ma in verità la contraddizione che rileva non esiste. Infatti i principi sono una cosa (libertà, equità, uguaglianza, ecc …) e le ideologie sono una cosa ben diversa: sono la pretesa di dare dei principi un’interpretazione insindacabile. Ad esempio, la concezione di “eguaglianza” che avevano Lenin e Pol Pot rientrava in una interpretazione ideologica, che contemplava una dittatura del proletariato, del partito o comunque di una “avanguardia rivoluzionaria”, e lasciava ben poco spazio ad altre possibili interpretazioni dello stesso principio. Io parlavo di “residuati ideologici”, appunto, mentre Beppe parla di “discussione sui principi”.

Prolegomeni a una nuova sinistra 41M.: Non si tratta di far le pulci a un testo, peraltro la mia preparazione è puramente giuridica e solo nell’ambito dottrinale, ma, nonostante le ineccepibili precisazioni, resto convinto che vi sia una contraddizione di fondo. Per premessa seguo Aldo Schiavone dal 1975 quando lui era, se ben ricordo, anche impegnato con la scuola di partito. Ovviamente PCI per chiarire a Vittorio. Ma se, e velocemente entro nel merito, si vuol separare il principio di pensiero, non volendo chiamarlo ideologia, dalla sua applicazione reale possiamo essere d’accordo ma a questo punto cosa sono i residui ideologici? Perché si scrive chiaramente che un pensiero di sinistra deve esserne scevro. Libertà, equità e uguaglianza devo sparire da un ragionamento di sinistra o sono dei capisaldi per i quali dobbiamo trovare un principio applicativo? Se così fosse cosa cambia rispetto ad un passato sbagliato? Diventerebbe comunque ideologia. Nulla nel ragionamento del Rinaldi e anche di Schiavone, di cui ho letto il saggio (pensavo di essere il solo) mi illumina in merito. E trovo qui la contraddizione. Aggiungo, infine, che non ho rinvenuto alcuna traccia di una controparte, né una qualsiasi valutazione di quale sia e come si sia evoluto nel tempo il sistema di potere economico/politico/sociale eventualmente da cambiare. Se non marginalmente al punto 12. La chiudo qui e mi scuso. Non sono mai stato un intellettuale, ho solo il difetto di essere un vecchio comunista italiano. Posso sbagliare, anzi sicuramente sbaglio ma se devo sbagliare devo farlo con il Partito. Che non c’è più. Come cantava Guccini … godo molto di più

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Note

[1] Cfr. Schiavone 2022. NB: avendo utilizzato come fonte un testo in formato epub e non avendo gli epub una numerazione fissa delle pagine, le citazioni saranno posizionate per quanto possibile in riferimento all’indice del testo. Questo lavoro si serve in gran parte di un montaggio di citazioni. Poiché le citazioni provengono da libri di Einaudi, ho provveduto a uniformare gli accenti delle citazioni alla regola standard.

[2] Si veda la recensione assai critica di Egidio Zacheo, su questo stesso giornale.

[3] Cfr. Schiavone 2022: “Per cominciare”.

[4] Cfr. Schiavone 2022: “Per cominciare”.

[5] Cfr. Caravale 2023.

[6] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 1.

[7] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.

[8] Nella Appendice, con l’aiuto di Hobsbawm, ricostruisco una tipologia storica della sinistra.

[9] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.

[10] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 2.

[11] Si veda sempre la nostra Appendice.

[12] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.

[13] Ad esempio, la scissione del PD del 2017 ha dato vita a un partito denominato “Articolo 1”, con riferimento palese alla identificazione tra cittadino e lavoratore. Si veda la mia analisi di allora sulla natura di questa formazione politica. Cfr. Finestre rotte: Cosa resterà della scissione del PD?

[14] Si veda in appendice.

[15] L’uso del termine popolo al posto di classe è un pietoso mascheramento per occultare il fatto che la classe – semmai ci sia stata – ora non c’è proprio più.

[16] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.

[17] La diseducazione comunista è quella che – tra l’altro – ha impedito e impedisce tuttora di concepire il cittadino democratico come unico riferimento della politica progressista.

[18] Mi riferisco qui alla catalogazione delle diverse sinistre operata da Hobsbawm (cfr. Hobsbawm 1999). Egli distingue tra una prima, una seconda e una terza sinistra. La prima sinistra è la sinistra liberaldemocratica. La seconda sinistra quella socialista, mentre la terza sinistra è quella che si dovrebbe ancora costruire. Si veda l’appendice.

[19] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 1”, par. 3.

[20] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[21] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[22] Il Riferimento ovvio va agli studi degli elitisti, tra cui Roberto Michels.

[23] La teoria della democrazia diretta.

[24] Cfr. Floridia 2021 e Floridia 2022.

[25] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[26] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 2”, par. 3.

[27] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 1.

[28] Si veda il mio recente intervento, pubblicato su Città Futura, sull’ultimo libro di Diego Fusaro La fine del cristianesimo. Finestre rotte: Note sparse intorno alla fine annunciata della trascendenza.

[29] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 1.

[30] Cfr. Ferraris 2021.

[31] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[32] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[33] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[34] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 3”, par. 3.

[35] Il dibattito in Italia fu introdotto da un saggio di Ernesto Galli della Loggia ed ebbe notevoli contributi successivi. Cfr. Galli della Loggia 1996.

[36] Cfr. Schiavone 1998.

[37] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 1.

[38] Cfr. Rusconi 1997.

[39] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 1.

[40] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[41] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[42] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[43] Cfr. de Mandeville 1997 [1724]

[44] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[45] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 2.

[46] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[47] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[48] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[49] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[50] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[51] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[52] Cfr. Schiavone 2022: “Capitolo 4”, par. 3.

[53] Cfr. Esposito 2007.

[54] Cfr. Schiavone 2019.

[55] Cfr. Il riferimento originario è Mauss 1950.

[56] Questa tradizione di studi è stata iniziata da Almond & Verba 1963. Significativo è lo studio realizzato in Italia dal Politologo Robert Putnam, che ha utilizzato anche la nozione di capitale sociale.

[57] Cfr. Hobsbawm 1999.

Ariette 16.0: Spiace tanto

di Maurizio Castellaro, 12 giugno 2023

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

Al passo del Curlo di Arenzano stavo fisso con gli occhi al cielo per godermi il passaggio dei bianconi, un lungo e lento volo dal Mali all’Europa, passando per Gibilterra, sfruttando le calde correnti ascensionali per ridurre la fatica. Ma forse, nell’occulta regia che regola l’universo, sono i bianconi che ci guardano indifferenti mentre passano sopra di noi, come fanno da milioni di anni, e da quell’altezza Genova per loro è solo una macchia grigia di cemento che sconcia la linea della costa.

Da alcune estati mi estasiavo a spiare i pesci multicolori che vivono a Bogliasco, pascolando le alghe proprio in mezzo ai piedi dei bagnanti ignari, in quell’impalpabile mondo di mezzo fatto di acqualuceariaspuma, che chiamiamo scogliera. Quest’inverno hanno coperto tutto con materiale di risulta per creare tanta bella spiaggia e smuovere l’economia, e io non ho ancora avuto il coraggio di immergermi per contemplare quel sepolcro imbiancato. Erano pesciolini grossi come mignoli e io mi chiedo se da qualche parte, in qualche libro segreto, la loro morte assurda sia stata registrata, e se ci sarà qualcuno che ascolterà le loro mute istanze di giustizia. Cioè, me lo potrei chiedere, se non stessi rileggendo proprio adesso Il dialogo della Natura e di un Islandese dell’immenso Giacomino.

Sto guardando su Rai 5 un film a più mani sul problema ambientale. Come al solito si oscilla tra la colpevolizzazione moraleggiante e la disperazione nichilistica, e come al solito mi vien voglia di cambiar canale.

Spiace tanto, ma a questo giro mi manca l’Arietta.

L’inventore dei capelli a spazzola

di Paolo Repetto, 4 maggio 2020

Se Saturnino Farandola discendeva i fiumi africani in groppa ad un ippopotamo (per di più a vela) qualcuno prima di lui aveva provato a farlo a cavalcioni di un caimano. Solo che non si trattava di un personaggio letterario, ma di un tizio in carne ed ossa. Il tizio si chiamava Charles Waterton: era un aristocratico inglese discendente da una famiglia cattolica di antichissimo lignaggio, un naturalista appassionato, un burlone irriverente, un magnifico atleta (addirittura un free climber ante litteram), oltre che un personaggio incredibilmente stravagante. La metà di questi requisiti sarebbero stati sufficienti a rendermelo interessante, tutti assieme mi hanno entusiasmato.

Tra le stravaganze minori di Waterton c’era quella di portare i capelli tagliati a spazzola, in un’epoca (i primi dell’ottocento) nella quale andavano di moda le teste leonine (vedi Foscolo, Chateaubriand e Beethoven) o il taglio “Roma imperiale” (vedi Napoleone). È stata proprio questa caratteristica a farmelo conoscere. Cercavo sue notizie per un semplice riferimento trovato in nota in un libro su Humboldt, e mi sono imbattuto nel ritratto di un tale con i capelli tagliati esattamente come li porto io, cosa che nella ritrattistica del primo ottocento non avevo mai riscontrato. Mi ha incuriosito, e non c’è voluto poi molto a scoprire che questa era solo l’ultima delle sue eccentricità.

Quando è uscita in edizione italiana la biografia scritta da Julia Blackburn (Cavalcare il coccodrillo, Boringhieri 1993) ho potuto godermi per intero il racconto di un uomo e di una vita eccezionali. E ad essa dunque rinvio, per una conoscenza più approfondita, chi fosse per qualche motivo intrigato dal personaggio. Garantisco che ne vale la pena. Non sono invece mai stati tradotti (e dubito che lo saranno) i diari, le opere scientifiche e il resoconto delle sue avventure nell’America del Sud. Mi limiterò qui ad una sommaria ricostruzione della sua vita e a sottolineare alcuni aspetti particolarmente singolari (in qualche caso molto attuali) del suo modo d’essere e di pensare.

Waterton vantava nella sua ascendenza una schiera incredibile di santi, tra i quali anche Thomas More, oltre a qualche sovrano come Edoardo il confessore. Era un aristocratico dello Yorkshire, la contea della rosa bianca, nato nel 1782 (quindi coetaneo di Hugh Glass, il tizio sopravvissuto ad un incontro ravvicinato con un grizzly e reso famoso da Revenant – tanto per intenderci sulla stoffa di cui era fatta questa gente), cresciuto nella magione avita di Walton Hall, in mezzo ad una natura rigogliosissima e semiselvaggia, e libero di godersela tutta. Sin dalla giovinezza non era uomo da lasciarsi mettere i piedi addosso, anche nel clima ferocemente anticattolico che in quegli anni ancora si respirava in Inghilterra: chi lo incontrava era conquistato dal suo carattere dolcissimo e svagato, ma quando si impuntava Waterton sapeva essere testardo come un mulo e terribilmente schietto: cosa che col tempo gli alienò le simpatie di molti suoi contemporanei.

Si era fatto (e rotto, ripetutamente) le ossa cavalcando alberi e catturando animali nella campagna attorno a casa, e anche nel collegio gesuita cui fu inviato continuò seguire la sua vocazione, tanto da essere investito ufficialmente del ruolo di cacciatore di volpi e di topi. Nei confronti di questi ultimi, ma solo di quelli della specie grigia, a suo dire arrivata in Inghilterra nel 1688, con l’usurpatore protestante Guglielmo d’Orange, e in breve tempo divenuta dominante a spese della specie autoctona nera, nutriva un odio feroce. Li chiamava topi “hannoveriani” e li aveva eletti a simbolo della malvagità assoluta.

A dispetto di quanto si dice della severità delle scuole gesuitiche, Waterton trovò nel college di Stonyhurst, un ambiente libero e stimolante (non è un caso che le scuole gesuitiche migliori e più “progressiste” fossero quelle tollerate, obtorto collo, nei paesi protestanti), cosa che lo indusse a rimanere in contatto per tutta la vita con i suoi vecchi insegnanti e a far loro visita ogni anno, quando era in Inghilterra, per la gioia e il divertimento dei nuovi studenti. Ho trovato anche menzione di alcune sue bravate, come lo scalare una torre vicina all’istituto, che gli sarebbe valsa una dura punizione, ma nella biografia della Blackburn non se ne parla. Le bravate peraltro ci starebbero tutte, come dimostrò la sua vita successiva, ma certamente il rapporto con i padri gesuiti non si incrinò mai.

Nell’Inghilterra “hannoveriana” non era consentito ai cattolici frequentare gli studi universitari, e Charles si trovò prima dei vent’anni a chiedersi cosa avrebbe voluto fare da grande. In realtà il suo futuro era già deciso: come primogenito avrebbe ereditato il titolo e la tenuta di famiglia, ancora notevole a dispetto degli espropri che l’avevano mutilata a partire dallo scisma protestante in poi: ma il giovane non era tipo da rimanere con le mani in mano in attesa della successione. La sua esuberanza e la fame di natura non potevano trovare sfogo nella sola Inghilterra. Nel 1802 si trasferì quindi a Malaga per aiutare un paio di zii che erano lì in affari: ne approfittò per imparare lo spagnolo, viaggiare lungo la costa meridionale e leggere in originale il Don Chisciotte, che lo entusiasmò e rimase il libro della sua vita. L’anno successivo si trovò però in mezzo ad una terribile epidemia di febbre gialla (che solo in quella città uccise oltre la metà degli abitanti), fu contagiato e ne uscì vivo, e una volta ormai immune si prodigò ad aiutare gli ammalati (tra i quali uno degli zii, che morì in poco tempo). Riuscì poi, forzando il blocco di quarantena steso attorno alla città, a fuggire su un veliero svedese e a tornare in Inghilterra.

Vi rimase per poco. Un anno dopo, a 22 anni, si imbarcava nuovamente, e questa volta per varcare l’oceano: la meta era la Guyana britannica, dove si recava in qualità di sovrintendente di una piantagione di cotone acquistata dal padre nei pressi di Georgetown. L’ambiente coloniale lo disgustò immediatamente, a partire dalla vita pigra e annoiata e dal lusso ostentato dei proprietari fino alla condizione miserabile degli schiavi. Evitò quindi accuratamente i circoli e i salotti cittadini, mentre cominciò a girovagare sia all’interno della colonia, sia tra le isole antillane, da Grenada a Barbados. L’unica amicizia vera la maturò con uno strano personaggio, per certi versi non molto dissimile da lui, Charles Edmonstone, uno scozzese che si era ritirato nel mezzo della giungla interna, sposando la figlia di un capo nativo ed evitando i rapporti con gli altri europei, ed era diventato una sorta di protettore e rappresentante degli indigeni. Waterton tornava comunque ad intervalli quasi regolari in Inghilterra, dove aveva un mentore in sir Joseph Banks, fondatore del giardino botanico di Londra ed ex compagno di esplorazioni del leggendario Cook. E proprio sotto lo stimolo di Banks intraprese a partire dal 1812 quattro successive spedizioni esplorative all’interno del continente.

Nel 1812 si inoltrò per quattro mesi nel cuore meridionale della Guiana, sconfinando anche in Brasile, viaggiando nella stagione delle piogge, in parte in canoa e in parte a piedi (anzi, a piedi nudi: questa era un’altra delle sue eccentricità, non sopportava le calzature), senza uno scopo ben definito, se non il constatare l’inesistenza del mitico lago dell’Eldorado: in realtà a muoverlo era il puro piacere di stare a contatto con la natura nel suo stato più primordiale.

Quattro anni dopo ripartì, ancora una volta col viatico di Banks, che gli affidò il compito di raccogliere il maggior numero possibile di semi “di ogni pianta notevole per bellezza o rarità”, da donarsi ai giardini reali di Kews. La spedizione in realtà non decollò mai, un po’ per la confusione e le velleità di Waterton (inizialmente voleva risalire addirittura tutto il Rio delle Amazzoni, proseguire sul Rio Negro e arrivare alle montagne di Cristallo), un po’ per una serie di inconvenienti che lo costrinsero a cambiare più volte i piani. Dopo aver zizzagato a lungo dal Brasile al Suriname e alla Caienna, alla fine si risolse ad accantonare il progetto e a compiere la sua ricerca vagabondando in solitaria per sei mesi tra le paludi e le montagne della Guiana britannica, raccogliendo soprattutto centinaia di esemplari di uccelli che trattava personalmente con un suo specialissimo metodo tassidermico.

Tra la seconda e la terza spedizione si inserì uno stravagante siparietto. Tornato in Europa, Waterton si recò nell’autunno del 1817 a Roma, per una udienza del papa Pio VII. Voleva offrirgli un quadro realistico di come era vissuta la religiosità dagli indigeni, in base alle osservazioni che aveva potuto fare durante la sua permanenza in colonia. Ma imbattutosi, appena arrivato in città, in un vecchio compagno del collegio gesuita, ricadde nello spirito adolescenziale e con il compare si arrampicò sin sulla punta del parafulmine della cupola di san Pietro, dove lasciò infissi un paio di guanti. La bravata non piacque affatto al pontefice, che intimò ai due di andare a rimuovere i guanti e di sparire velocemente dalla circolazione.

Il richiamo della foresta si faceva comunque risentire, e Waterton sarebbe partito già l’anno seguente se non fosse rimasto vittima durante il viaggio di ritorno dall’Italia di un grave incidente, dovuto come al solito ad una delle sue acrobazie, che lo mise a rischio di perdere la funzionalità di un ginocchio. Tornò ad una forma accettabile solo dopo due anni, nel 1820, e stavolta decise di organizzare la nuova spedizione con maggiore criterio. Aveva scelto come base l’azienda ormai in abbandono del suo amico Charles Edmonstone, che era rientrato in Europa. Di qui, con una ridottissima squadra (tre compagni) partiva per incursioni nell’interno, in cerca di esemplari di fauna da imbalsamare col suo particolare metodo. Si era munito di casse apposite per trasportarli poi in Europa, e le riempì tutte.

Proprio in questa occasione compì la prodezza che doveva renderlo popolare. Voleva imbalsamare un caimano, ma un esemplare che per dimensioni non avesse eguali in Europa, e per farlo aveva bisogno di catturare l’animale senza rovinare l’integrità della pelle, quindi di conservarlo vivo fino al ritorno presso la fazenda, dove aveva installato il suo laboratorio tassidermico. Riuscì ad organizzare la cattura, fra lo sbalordimento dei compagni, facendo uscite il caimano dall’acqua, avvicinandoglisi con estrema cautela, balzandogli all’improvviso sul dorso e abbrancandone le zampe anteriori per impedire loro di toccare terra e all’animale di tornare verso il fiume. Dopo una breve cavalcata da rodeo, con il caimano che si torceva da ogni parte e dava violenti colpi di coda, i suoi compagni riuscirono finalmente ad immobilizzare la bestia. Una cosa analoga fece di lì a poco con un boa constrictor lungo quasi cinque metri.

Questa volta rimase nella foresta undici mesi, vivendo alla maniera degli indigeni, ammalandosi e curandosi poi con i loro metodi, e facendo incetta di animali. Quando le casse non furono più in grado di accoglierne altri, si ritenne soddisfatto: “Avevo raccolto alcuni insetti rari, duecentotrenta uccelli, due testuggini di terra, cinque armadilli, due grandi serpenti, un bradipo, un formichiere gigante e un caimano”. Al ritorno però l’impatto con la civiltà e la burocrazia del vecchio continente fu disarmante. Ad accoglierlo non c’era più sir Joseph Banks, morto ormai da qualche anno, e i funzionari di dogana trattennero i suoi esemplari per un sacco di tempo, col rischio di far andare a male i frutti dei suoi sforzi, e gli chiesero anche il pagamento di un pesante dazio. Waterton ne fu particolarmente urtato, e risolse che avrebbe di lì innanzi limitato al massimo i rapporti con la “cricca hannoveriana” che governava il paese, concentrandosi invece nel fare di Walton Hall una sorta di zona franca.

Il quarto viaggio americano fu dunque di natura completamente diversa, a partire già dallo scenario. Questa volta, e siamo nel 1826, la meta fu la neonata repubblica statunitense. Il viaggio nell’America del nord non fu una spedizione esplorativa, ma una sorta di pellegrinaggio. A Waterton era capitata tra le mani una copia di American Ornitology, un’opera straordinaria del naturalista e pittore scozzese Alexander Wilson, che a quasi trent’anni si era trasferito in America con l’intento di censire e descrivere, soprattutto attraverso le immagini, tutti i volatili del continente. Wilson aveva attuato il suo proposito senza poter contare su alcuna sponsorizzazione, si era mantenuto praticando i mestieri più diversi, aveva camminato per migliaia e migliaia di chilometri lungo i fiumi e dentro le foreste dell’est americano. Waterton avvertì, dietro le descrizioni e i disegni, una immediata affinità, e decise di ripercorrere almeno in parte gli itinerari del pittore, morto ormai da più di dieci anni, per condividerne appieno anche le sensazioni. Appena giunto nel nuovo continente si mise quindi in contatto con coloro che erano stati intimi di Wilson, soprattutto con lo zoologo George Ord, che ne aveva completata e valorizzata l’opera. Tra i due si instaurò una strana amicizia, stante la differenza dei caratteri, che proprio perché coltivata poi solo a distanza sarebbe durata tutta la vita.

Waterton percorse parte del cammino fatto da Wilson, non mancò di lasciarsi andare a qualche stranezza, come quella di andare a curarsi una slogatura mettendo la gamba sotto il getto delle cascate del Niagara, (pare impossibile, ma sembra l’abbia fatto davvero), ma soprattutto rimase affascinato dal paese e dalla gente libera e schietta che lo abitava. È interessante in tal senso confrontare le sue impressioni con quelle di Tocqueville, che visitò le stesse zone sette anni dopo, e con quelle di Dickens, che lo fece quasi vent’anni dopo, traendone impressioni ben diverse. Per Waterton paradossalmente era l’immagine di una certa arretratezza a conferire fascino alle terre americane: “Mi sembra rappresentare ciò che deve essere stata l’Inghilterra cinquant’anni fa. Si sente parlare molto raramente di criminalità, e tutto il paese sembra unito e in pace con se stesso”. Anche se non mancava di rilevare che “in queste vaste regioni la natura sta perdendo rapidamente il suo antico aspetto e indossa vesti nuove. La maggior parte degli imponenti alberi da legname sono stati asportati: migliaia di alberi giacciono al suolo esanimi; mentre prati, campi di cereali, villaggi e pascoli sorgono di continuo davanti agli occhi del viaggiatore che percorre i tratti di bosco superstiti”.

Il momento negativo di questo viaggio fu invece costituito dall’incontro con John James Audubon, un altro pittore naturalista impegnato in un’opera simile a quella di Wilson e destinato ad oscurare la fama di quest’ultimo. I due non avevano in effetti, a parte l’interesse per gli uccelli – che si manifestava però in modo opposto: Audubon era un cacciatore quasi feroce – nulla che li accomunasse. Il francese era un uomo di spettacolo, che coltivava accuratamente la propria immagine di scorridore della frontiera: lunga chioma arricciata e ingrassata, abiti in pelle di lupo indossati anche nei ricevimenti eleganti, fucile in spalla o imbracciato in tutti i ritratti. Waterton non era certo il tipo da farsi impressionare da queste cose, ed era parecchio infastidito nel constatare come l’opera di Audubon stesse surclassando quella di Wilson nel gradimento del pubblico. Per questo motivo, negli articoli di scienze naturali che pubblicò in Inghilterra durante gli anni successivi si dedicò con sottile piacere a smontare pezzo per pezzo le osservazioni naturalistiche e i racconti avventurosi di Audubon, facendo intendere in pratica che erano quasi tutte panzane, o cose scopiazzate da altre fonti. Il che naturalmente gli attirò i fulmini degli ammiratori (e degli editori) del francese, che ribaltarono la faccenda: “Mentre il signor Audubon è esposto a pericoli o privazioni, e deve attendersi sostegno e ricompensa solo dal patrocinio del pubblico, il signor Waterton se ne sta tranquillamente insediato nella sua magnifica residenza nella campagna inglese, nel mezzo dei suoi possedimenti ancestrali”. (Magazine of natural History, 1833)

Nulla di più falso, intanto perché Waterton, quanto a pericoli e privazioni sofferti, non era certo secondo a nessuno, meno che mai ad Audubon, e poi perché il nostro se ne stava tutt’altro che tranquillamente insediato nei suoi possedimenti, a vivere di rendita. Nelle pause tra un viaggio e l’altro Waterton aveva infatti già cominciato a risistemare Walton Hall secondo un piano e in vista di un fine ben determinati. Aveva fatto costruire attorno al parco che circondava la magione un muro lungo oltre cinque chilometri e alto in alcuni punti quasi cinque metri, opera che mise a dura prova le sue finanze. Il muro doveva costituire una barriera contro i bracconieri e contro i grossi mammiferi predatori (volpi, tassi), per offrire rifugio ad ogni altra specie avicola o terrestre (comprese gazze, corvi, cornacchie, gheppi, allodole, puzzole e donnole, ed esclusi naturalmente i ratti grigi, a liquidare quali concorrevano in effetti tutte le altre specie). All’interno della recinzione erano bandite trappole e tagliole di ogni tipo, nessun animale poteva essere cacciato e anche gli alberi morti e caduti non dovevano essere rimossi. Per alcuni animali, ad esempio per i ricci, Waterton pagava addirittura una piccola taglia ai contadini che glieli portavano vivi. Versava loro anche una sorta di cauzione annua perché non sparassero agli stormi di oche che si fermavano in zona, soprattutto sulle rive del suo laghetto, durante le migrazioni. Le piante cadute diventavano base per la crescita selvaggia dell’edera o si trasformavano lentamente in fertilizzante, mentre nei tronchi cavi, spesso opportunamente chiusi con piccoli interventi in muratura, trovavano dimora le innumerevoli specie che animavano il suo piccolo e selvaggi paradiso terrestre.

In effetti, aveva creato il primo parco naturalistico al mondo, e continuò poi a difenderlo per tutta la vita. Stanti le devastazioni che la rivoluzione industriale stava producendo in tutta l’Inghilterra, e segnatamente in quella del nord-ovest, Walton Hall divenne una sorta di piccolissima oasi dove si conservava la natura di un tempo. Una battaglia legale contro un fabbricante di sapone che aveva piazzato i suoi impianti ai confini delle terre di Waterton e che con gli scarichi e le emissioni delle sue ciminiere inquinava aria, acque e terreni per un ampio raggio circostante, durò cinque anni, e si risolse con una vittoria più simbolica che reale per Waterton: il saponificio fu spostato più in là, ma venticinque anni dopo, e solo una decina dopo la scomparsa di Waterton, l’intera Walton Hall passò nelle mani del figlio di quel fabbricante, che si affrettò a consumare una postuma vendetta stravolgendo tutto il lavoro del naturalista.

Chi andava a visitare Walton Hall, come fece ad esempio lo stesso Charles Darwin dopo il ritorno dal viaggio con la Beagle (ma conosceva Waterton già da prima), non poteva non essere conquistato dal candore del proprietario e dalla giustezza del suo assunto, anche quando magari ne condivideva solo in parte il radicalismo e il modo di vivere. Tra i visitatori famosi ci fu probabilmente anche Dickens, che senz’altro conobbe Waterton personalmente: ma di questa visita non rimane testimonianza, perché la gran parte dell’epistolario di Waterton è andata perduta in un malaugurato incendio. D’altro canto lo “squire” non sembrava dare molta importanza alle differenze di estrazione o di fama dei visitatori: il parco era gratuitamente aperto a tutti, senza distinzioni, nobili, borghesi e popolani, operai e braccianti, e persino ai pazzi internati in un vicino manicomio. Il proprietario li accoglieva sempre conciato alla stessa maniera, nella sua “divisa da lavoro”, di solito a piedi scalzi, e li trascinava senza tanti convenevoli ad ammirare le meraviglie naturali, gli alberi secolari, gli aironi del lago, ecc… Si esibiva magari anche nei suoi numeri di arrampicata, per andare a prendere un nido, farlo ammirare e riportarlo al suo posto. I pazzi, probabilmente, si sentivano molto a proprio agio.

Poi li conduceva alla magione, dove già nell’ingresso e lungo le scale i visitatori erano accolti dai suoi capolavori di tassidermia, dai suoi inquietanti ibridi, nonché da una vera e propria galleria di quadri, disegni, oggetti e armi primitive, ed erano accompagnati dai suoi racconti e dalle sue spiegazioni. A fare gli onori di casa c’erano anche un pappagallo e un enorme gatto selvatico che Waterton si era portato appresso dalla Guinea, e che provvedeva a scongiurare la presenza degli odiati ratti grigi. Insomma, le visite a Walton Hall tutto dovevano essere, tranne che noiose.

Ma cosa trovavano i visitatori nel feudo di Waterton? Sin dall’ingresso avevano la sensazione di entrare in un altro mondo e in un’altra era. L’arco d’accesso era ridotto ad un rudere ed era interamente ricoperto dall’edera, un paio di torrette diroccate erano state trasformate in rifugi per gli storni o per i rapaci, ai lati del viale era tutta un’esplosione di vegetazione liberamente cresciuta, una sorta di giungla tenuta a bada solo con interventi minimi. La dimora di famiglia sorgeva su un’isoletta naturale, situata all’estremità di un lago di dieci e passa ettari di superficie, dalla forma molto allungata, che tagliava a metà la proprietà. L’isola era collegata alla sponda da un piccolo ponte di ghisa. Sulla terrazza antistante la facciata della casa era piazzato un grosso cannocchiale, che consentiva di esplorare tutta la superfice del lago e di ammirare la fauna avicola stanziale e quella di passaggio. Attorno al lago, che era al centro di una vallata ondulata, correva uno stretto sentiero, ma gli spostamenti erano molto più agevoli muovendosi sull’acqua con una piccola imbarcazione. Aggirandosi per la tenuta il visitatore coglieva immagini che parevano tratte dai paradisi terrestri dipinti da Jan Brueghel, fatti salvi le pecore e i leoni. Gli alberi secolari, le querce e gli olmi, coabitavano con i tassi e gli agrifogli piantati appositamente per favorire la nidificazione. Walton Hall era infatti un paradiso soprattutto per gli uccelli. A metà del secolo, nel suo pieno rigoglio, arrivò ad ospitare dai tre ai cinquemila volatili acquatici nella stagione estiva, e aveva colonie residenti di centinaia di aironi, di corvi, di cornacchie, di gheppi e di rapaci di ogni genere, tutti animali ai quali al di là del muro era data una caccia spietata. Ma c’erano anche i ricci, le donnole, le vipere (“le vipere sono numerosissime dentro le mura del parco, dove le attiro per proteggerle”), insomma, tutti i “nocivi” che altrove venivano sterminati.

Alcuni testimoni raccontano che Waterton si muoveva in mezzo a questo eden primordiale come Adamo prima della cacciata. Gli animali erano così abituati alla sua presenza discreta da accorrere a mangiare dalle sue mani, o da accompagnarlo nelle sue passeggiate. Mentre fuori l’aspetto del territorio stava diventando sempre più irriconoscibile, a Walton Hall il tempo sembrava essersi fermato, e anzi, essere tornato indietro.

Nel frattempo Waterton non si era chiuso al mondo. Non solo riceveva visitatori, ma lui stesso si muoveva frequentemente, magari evitando con cura i convegni e i congressi ufficiali, ma correndo ad esempio a esaminare ogni animale esotico nuovo che approdasse in Inghilterra, in genere come attrazione da fiera (e ne opzionava poi le salme da imbalsamare, sapendo benissimo che non sarebbero sopravvissuti a lungo), oppure studiando in loco le nidificazioni di cormorani e gabbiani nelle scogliere a picco sul mare dello Yorkshire, lungo le quali si calava e risaliva con la tecnica alpinistica della corda doppia.

Per un certo periodo partecipò inoltre con articoli e piccoli saggi, spesso violentemente polemici, al dibattito naturalistico, che già prima dello “scandalo” creato da Darwin era accesissimo (non ho notizia invece di come abbia accolto la teoria evoluzionistica. Da cattolico fervente senz’altro non ne fu entusiasta, ma propendo a credere che all’epoca quella battaglia fosse ormai lontana dai suoi interessi). I suoi interventi erano soprattutto volti a denunciare la distruzione progressiva della fauna e del paesaggio inglese, o a sfatare leggende e credenze sugli animali esotici o sui selvatici di casa. In coerenza con la sua posizione “fissista” si ostinò a negare in qualche caso (come in quello dei gorilla esibiti dall’esploratore Paul du Chaillu) l’esistenza di nuove specie, e arrivò ad architettare, come vedremo, vere e proprie burle per screditare i suoi colleghi naturalisti, finendo invece per minare la propria credibilità: ma rimaneva pur sempre l’uomo che aveva cavalcato un coccodrillo e che prendeva i serpenti per la coda. E su questo faceva sotto sotto leva, soprattutto quando prendeva di mira gli studiosi da tavolino, coloro che presumevano di poter descrivere il mondo senza averlo mai percorso. In questo c’era anche una punta di acredine nei confronti di chi, invece di produrre esperienze sul campo, faceva aggio su quei titoli accademici che a lui erano stati negati. “Gli errori del professor Rennie si possono spiegare solo col fatto che il professore, come tanti altri naturalisti di chiara fama, ha più pratica di manuali che pratica manuale. È da deplorare che non si sia abbastanza sporcato le mani, perché da un tale esercizio i suoi scritti ornitologici avrebbero tratto grande giovamento”.

In un campo poi non ammetteva rivali, quello dello studio dei veleni. Si era portato dall’Amazzonia una notevole quantità di curaro, e non ebbe difficoltà a distribuirlo a tutti gli studiosi che gliene facevano richiesta, a testarne personalmente gli effetti con esperimenti sugli animali e a ipotizzarne possibili usi terapeutici.

La sua militanza polemica si interruppe però a metà degli anni trenta, dopo una violenta diatriba che gli aveva procurato attacchi da ogni parte dell’establishment scientifico e accuse di essere un bugiardo. Per reazione, nello stesso periodo decise di aprire definitivamente il suo parco al pubblico, quasi a tradurre in gesti concreti quella divulgazione di conoscenza naturalistica che sulle riviste gli era contestata. In qualche modo fu un gesto molto elegante di disprezzo nei confronti dei suoi avversari.

A Waterton si poneva però un altro problema. Approdato ormai alla piena maturità non aveva ancora un erede. Quando decise di provvedere sposò, quarantasettenne, una ragazza di trent’anni più giovane, Anne, figlia del suo vecchio amico Charles Edmonstone, della quale era stato anche padrino di battesimo. e nelle cui vene scorreva sangue indiano e scozzese. Per quanto comprensibilmente un po’ intimidita dalla stranezza del personaggio e dalla differenza d’età, sembra che la giovane non abbia affatto sofferto il matrimonio come una costrizione o un sacrificio. Dopo in rientro in patria lei e le sorelle, tutte belle ragazze ma recanti palesemente nei tratti e nel colore della pelle l’impronta del meticciato, avevano vissuto un isolamento dettato dal pregiudizio razziale che le circondava. Walton Hall era in fondo un ambiente a metà strada tra quello in cui erano cresciute e quello col quale si trovavano ora, molto spaesate, a confrontarsi.

Un anno dopo le nozze Anne diede alla luce un figlio, Edmund, ma a poche settimane dal parto morì. Charles non seppe mai darsi pace. Quasi ad espiare una colpa, dopo la morte della moglie scelse di dormire sempre sul pavimento di una vecchia soffitta piena di spifferi, avvolto in un mantello e con un pezzo di legno per cuscino.

La paternità fu forse il più grosso infortunio della sua vita. Il figlio crebbe con le sorelle della madre, che Waterton aveva chiamato a vivere a Walton Hall, ed è presumibile che queste lo viziassero molto. Inoltre il rapporto con un padre del genere, che pure almeno durante la giovinezza gli fu sempre molto accanto, non poteva che essere complicato. Era difficile seguirne le orme, ma lo era altrettanto prenderne serenamente le distanze. Edmund non fece né l’una né l’altra cosa. Divenne una persona inconcludente, avida e perennemente indebitata, che inseguiva le onorificenze quanto il padre le aveva snobbate, e che non essendo in grado di imitarla si vergognava di quella figura così stravagante. Alla fine si ridusse come dicevo a vendere la proprietà, ormai onerata di debiti e di ipoteche, proprio a chi era stato il più caparbio nemico del padre, contravvenendo anche alle clausole testamentarie che quest’ultimo aveva disposto, proprio nella coscienza della debolezza del figlio, e che lasciavano eredi le due cognate (le quali, naturalmente, di fronte alle pretese del nipote cedettero).

L’inclinazione del figlio alla vita scioperata amareggiò molto l’ultima parte della vita di Waterton, ma non ne cambiò affatto le abitudini. Subito dopo la morte della moglie aveva intrapreso una serie di viaggi “turistici” in Europa, con le cognate e con Edmund al seguito, rimanendo spesso lontano da Walton Hall per periodi molto lunghi. Ne approfittò per ampliare le sue competenze naturalistiche e incontrare i suoi corrispondenti scientifici, per verificare i metodi di conservazione degli esemplari adottati nei musei di storia naturale o per battere i mercati degli uccelli, ma anche per rendere omaggio alle espressioni più superstiziose della sua fede, dal miracolo di san Gennaro alle processioni delle salme mummificate per le vie di Palermo. Sceglieva di preferenza le mete dei suoi soggiorni nei paesi cattolici, in Belgio, in Italia o in Austria, nei quali riusciva a trovare tutto entusiasmante, persino le abitudini meno nobili. Dalla metà degli anni quaranta iniziò però a fare vita molto più ritirata, per dedicarsi anima e corpo al suo parco.

Waterton era nel frattempo diventato, nell’immaginario popolare, una sorta di macchietta, una singolare sopravvivenza di un passato pre-industriale, cui si attribuivano le parole e i comportamenti più bizzarri e si concedeva una dubbia attendibilità. E Walton Hall si era trasformato quasi in una meta turistica, della quale il proprietario era una delle attrazioni.

Negli ultimissimi anni della sua esistenza ebbe però almeno una consolazione. Un giorno si recò a trovarlo, arrivando a piedi da Manchester, un sedicenne lavoratore che frequentava studi serali di scienze naturali, e che sarebbe poi diventato uno dei più famosi medici d’Inghilterra (fu anche il medico curante di Darwin). Il giovane si chiamava Norman Moore, e la sua passione per le conoscenze naturalistiche conquistò immediatamente Waterton. A sua volta il ragazzo fu affascinato dall’anziano ma arzillo signore, che lo associò immediatamente alle sue ronde attraverso il parco per visitare e riparare i vari rifugi degli animali o per verificare la presenza di uova nei nidi, oppure alle sue traversate in barca per vedere gli stormi degli uccelli migratori, e persino ai tentativi di imbalsamazione di vari animali, tra i quali un enorme gorilla. Le annotazioni di Moore, nella loro semplicità e innocenza, danno probabilmente l’immagine più vera dei modi e del carattere di Waterton. Quando lo conobbe rilevò che “è un vecchio di media statura. Ha i capelli bianchi, ma i suoi sensi sono più acuti di quelli di un uomo molto più giovane, e non è affatto curvo”. All’epoca Waterton aveva già superato gli ottant’anni. Durante le visite successive (furono otto, e in alcuni casi si prolungarono per diverse settimane) descrisse l’ambiente, la casa, il museo, il parco, ma soprattutto colse momenti come questi: “Siamo andati all’albero cavo presso il bordo dell’acqua. Stavamo per tirarne fuori degli stecchi quando sono volati via due bei gufi bianchi. […] più tardi dai rovi è uscita in volo un’oca canadese. Su un salice vicino al canale dei pesci abbiamo visto una coppia di cince dalla lunga coda. Abbiamo visto anche un picchio bianco e nero, al quale mi sono avvicinato […] abbiamo visto anche alcuni aironi, colombelle, corvi neri, gheppi e diversi altri uccelli” Oppure: “Stamane alle due io e il signor Waterton stavamo sulla scalinata. Scrutavamo in giro per vedere se fosse rimasto qualche uccello acquatico. La luna risplendeva sul ghiaccio, ma a parte l’oca canadese non vedemmo nulla di nulla”. E ancora: “Alle sei e un quarto sono salito alla stanza di Waterton, e l’ho trovato seduto accanto al fuoco che leggeva il Don Chisciotte. Mi ha mostrato un bel fungo a cui stava lavorando e un grosso rospo di Bahia che stava colorando”. Nei giorni di pioggia i due trascorrevano interi pomeriggi a parlare vicino al fuoco, nella grotta naturale in prossimità del lago, seminascosta dagli alberi di tasso, che Waterton aveva fatto adattare a ricovero e a luogo di svago per le comitive.

Le immagini di questo anziano signore e del ragazzo seduti nel cuore della notte sulla scalinata a guardare la luna riflettersi sul ghiaccio, o a parlare per ore accanto al fuoco di alberi, di uccelli e di avventure alla Guiana sono toccanti. È quanto Waterton aveva probabilmente sempre sperato di fare con il figlio, e quanto Moore aveva magari sognato di poter fare con il proprio padre, che invece non conobbe mai. E senza dubbio l’incontro con Waterton fu determinante per i futuri successi del giovane

Moore era a Walton Hall anche al momento della morte dell’anziano amico, e ce ne ha lasciata la cronaca. Durante una escursione Waterton cadde malamente su un ceppo d’albero, ma fu in grado di tornare a casa sulle sue gambe. Era tuttavia consapevole che questa volta non se la sarebbe cavata, come aveva fatto per tutta la vita, con un semplice salasso, e infatti morì la notte successiva, non prima di aver dato con molta calma istruzioni alle cognate e a tutta la servitù, e di aver salutato Norman Moore. Il quale scrisse: “Morì mentre i corvi cominciarono a gracchiare e le rondini a garrire. È morto come aveva sempre previsto: ritto a sedere e lucido fino alla fine”. Era uscito di scena allo modo in cui vi aveva vissuto: dignitosamente, e senza procurare problemi a nessuno.

Proprio la testimonianza fresca ed ingenua di Moore mi autorizza a tentare una sintetica rilettura della figura di Waterton, che ridimensioni un poco la patente di eccentricità della quale fu insignito e per la quale ancora oggi è conosciuto.

Leggendo la biografia della Blackburn, scritta con tutta la simpatia possibile, ma mantenendo una corretta attinenza ai fatti documentati, balza evidente che Waterton era fuori registro persino per gli standard inglesi, che quanto ad originalità sono già di per sé decisamente alti. E in tal senso definirlo bizzarro è persino riduttivo. Eppure questa bizzarria non disturba affatto il quadro. Voglio dire che Waterton riuscì a fare ciò che fece, e non mi riferisco alle sue imprese ma alla costruzione e alla difesa di Walton Hall, proprio in ragione della sua eccentricità. Tutto il resto è contorno. Non che facesse parte di una qualche messinscena: Waterton si comportava come gli sembrava e gli riusciva naturale, e semmai la sua differenza sta nel fatto che non conosceva o non accettava alcun limite dettato dalle convenzioni sociali. Si potrebbe parlare di una forma di infantilismo, anche se l’impressione è che in qualche misura ci marciasse consapevolmente. Era infantile in certi comportamenti e in certe reazioni, ma aveva anche capito che la sua fama ormai consolidata di bizzarro gli consentiva di fare cose che nessun altro nella sua posizione avrebbe osato fare, pena perdere ogni reputazione sociale. Waterton ad un certo punto non aveva nessuna reputazione da perdere: la fama del suo coraggio e della sua incoscienza lo avevano fatto comunque amare dal grande pubblico, e ci si aspettava da lui che fosse coerente. Cosa che non gli era difficile: non doveva interpretare un personaggio, ma solo essere se stesso.

È dunque pensabile che dietro le sue bravate, dalla scalata a san Pietro alle innumerevoli altre di cui la sua vita fu costellata, ci fosse anche una componente di esibizionismo. Ma nel caso di Waterton non credo si possa ridurre tutto ad una infantilistica ostentazione di sé. C’era invece, ad esempio, lo scotto dell’appartenenza ad una minoranza fortemente discriminata, ciò che obbliga ad essere sempre un po’ al di sopra delle righe, per cercare una rivalsa che riequilibri il rapporto: e c’era anche la volontà, legata alla stessa condizione, di cimentarsi costantemente con se stesso per darsi sicurezza. Queste pressioni ambientali e psicologiche, quando trovano la materia prima adatta, finiscono per forgiare caratteri forti e anticonformisti, a volte sin troppo, e non maschere di convenienza. Nel caso di Waterton lo dimostra il fatto che, secondo le testimonianze di coloro che gli furono più vicini, certi comportamenti non li riservava agli ospiti, con i quali anzi cercava di mantenersi il più “normale” possibile, ma li teneva soprattutto quando era libero di dare sfogo alla sua natura. Fino ad ottanta anni suonati continuò ad arrampicare sugli alberi più alti del suo parco per osservare la vita e la salute delle nidiate di uccelli che li affollavano.

Se alla luce di certi suoi exploit Waterton potrebbe sembrare un totale incosciente (in effetti lo era, e anche parecchio), si trattava però di una incoscienza senz’altro genuina, mai esibita per dare spettacolo o per crearsi un personaggio. Era convinto di ciò che faceva, e questo da un lato perché aveva una grossa consapevolezza delle sue risorse fisiche, dall’altro perché era fiducioso nel fatto che gli animali, persino i più feroci, non attaccano se non sono minacciati. Riteneva, evidentemente a ragione, visto che arrivò incolume alla tarda età, di poter stabilire con la natura un rapporto di perfetta parità, senza sentirsi né un dominatore né una vittima. Per questo camminava a piedi nudi nelle foreste, o cacciava il braccio in una cassa contenente una decina di serpenti a sonagli per trasferirli ad uno ad uno in un altro contenitore.

Una identica fiducia, a quanto pare, riusciva a trasmetterla anche ai suoi interlocutori non umani. Ecco come descrive l’incontro con un orango, avvenuto nel 1851, in una fiera inglese. La povera bestia era rinchiusa in una gabbia, e secondo il dottor Hobson, che per un lungo periodo fu un amico di Waterton (ma che dopo una violenta rottura ne scrisse una biografia piena di astio), era furibonda. Waterton evidentemente la vedeva invece tranquilla, tanto che si fece aprire la gabbia ed entrò. “Mentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione […] sarebbe tempo perso mettersi a riferire tutte le cerimonie che si svolsero tra di noi […] gli spettatori che ci attorniavano parevano estremamente divertiti alla solenne pantomima cui assistevano”.

Una scena simile si ripeté un’altra volta con un leopardo: Waterton entrò nella gabbia, e i due rimasero a studiarsi a lungo. Ad un certo punto l’animale si ritirò per distendersi nel suo angolo, con un grande sbadiglio. La stessa fiducia Waterton la concedeva persino alla specie da sempre considerata la nemica più subdola dell’uomo, quella dei rettili velenosi. “Il serpente labari è molto velenoso, ma io mi ci sono spesso avvicinato a meno di due metri senza timore. Ho avuto cura di muovermi con gran delicatezza e cautela, tenendo immobili le braccia, e lui ha sempre consentito che lo osserva a mio bell’agio, senza mostrare la minima intenzione di balzarmi addosso. Pareva che tenesse fissi gli occhi su di me con fare sospettoso, ma questo era tutto”. E a proposito della storia dei serpenti a sonagli, testimoniata dallo stesso dottor Hobson, che ne era stato coprotagonista, scriveva: «Consapevole del fatto che non c’era pericolo a patto che conservassi la mia presenza di spirito, infilai con la massima calma la mano nella cassa e misi con precisione due dita su un lato e su un altro del collo del rettile, in prossimità della testa. Con questo semplice procedimento trasferii tutti i serpenti dalle casse di legno alla mia cassa di vetro. Quei furbacchioni fecero tintinnare per tutto il tempo i loro sonagli, quasi per dirmi: “Non farci del male, o ci ribelleremo”». Va bene l’understatement tipico inglese, in questo caso davvero sottilmente ostentato, ma insomma, si sta parlando di serpenti a sonagli e di un gesto che ci riesce istintivamente repulsivo anche con quelli più innocui.

A questo punto potrebbe apparire contraddittoria la professione di amore per gli animali da parte di Waterton con la sua pratica della tassidermia. Dobbiamo però calarci nel contesto dell’epoca. Waterton si confrontava con una passione per la caccia, particolarmente diffusa in Inghilterra, che si traduceva in stragi insensate e stava portando all’estinzione sul suolo inglese di intere specie. Dietro questo furore distruttivo stava una sorta di rivendicazione sociale: la caccia era rimasta per secoli un privilegio distintivo della nobiltà, ed il suo esercizio era diventato recentemente uno dei simboli del nuovo status che gli acquirenti borghesi delle antiche proprietà nobiliari volevano esibire. Non solo: per i contadini e i piccoli proprietari costituiva una sorta di rivincita nei confronti di un sistema che a lungo aveva protetto la fauna, sia pure in funzione venatoria, a discapito dei raccolti e quasi in dispregio della povertà e della fame diffuse. Per questo motivo veniva praticata indiscriminatamente, a volte col pretesto di eliminare animali nocivi, ma più spesso per un malinteso spirito sportivo, o per puro sadismo revanscista. Nei diari e negli appunti di Waterton ricorrono costantemente le denunce di questa pratica, le annotazioni dei momenti in cui erano stati abbattuti gli ultimi esemplari di particolari specie. “Comitive di cacciatori da ogni angolo del regno visitano Flamborough (la località sulla costa dello Yorkshire nella quale andava ad osservare i nidi arrampicando sulla scogliera) e i dintorni nei mesi estivi, spargendo attorno a se una cupa devastazione. La carneficina non ha nessun utile, gli sventurati uccelli servono semplicemente da bersaglio e vengono in genere abbandonati sul luogo in cui cadono”. Oppure: “Nel 1813 ho visto per l’ultima volta una poiana. Nella primavera di quell’anno se ne andò per non fare più ritorno e, pressappoco nella stessa epoca, il nostro ultimo corvo imperiale fu abbattuto nel suo nido da un mio vicino”. È comprensibile che si fidasse molto più degli animali che degli uomini. Ma, da par suo, non si limitava a deplorare. Intraprese nel suo piccolo anche delle campagne di stampa, che raccolsero consensi e sfociarono più tardi in una parziale modifica delle leggi inglesi sulla caccia.

E la tassidermia? Anche questa va considerata in rapporto all’epoca. L’unico modo per far “toccare con mano” agli europei la fauna esotica, per consentire al grande pubblico di conoscerne le reali fattezze e dimensioni e i colori, al di là delle descrizioni fantasiose dei viaggiatori e delle raffigurazioni in genere molto stilizzate, miranti all’effetto artistico piuttosto che a quello realistico, prodotte dai pittori-naturalisti, era l’esibizione di esemplari imbalsamati o impagliati. Waterton normalmente, in patria, esercitava la sua perizia su animali trovati già morti nel suo parco o sulle salme delle povere bastie importate per essere esibite nelle fiere e negli spettacoli, che avevano una vita molto breve. Così racconta l’ultimo incontro con una femmina di gorilla tenuta segregata in una squallida topaia: «“Addio, povera piccola prigioniera, – le dissi – ho paura che questa nostra fredda e cupa atmosfera abbrevierà i tuoi giorni”. Jenny scosse la testa come per dire: “Non c’è nulla qui che sia fatto per me: la stanza è piccola e surriscaldata; gli abiti che mi costringono a indossare sono del tutto insopportabili, mentre il cibo che mi danno non è quello di cui ero solita cibarmi quando ero sana e libera nelle mie foreste natie”». Il fatto poi che il corpo della povera Jenny lo abbia personalmente imbalsamato non toglie credibilità alla sua sincera compassione e indignazione: rientrava nel ruolo del quale si era investito, quello del naturalista.

Anche nella storia delle “burle” si possono cogliere le particolari e apparentemente ambigue sfumature dell’infantilismo di Waterton. La vicenda ebbe un ruolo importante nella sua vita e va ricordata. Durante il viaggio di ritorno dalla quarta spedizione americana Waterton aveva fatto una capatina nelle regioni meridionali da lui in precedenza esplorate, e ne era ripartito portandosi dietro alcuni esemplari di scimmie urlatrici già trattati col suo metodo tassidermico. Uno degli esemplari era però il frutto di una ingegnosa manipolazione, attraverso la quale con i quarti posteriori di una scimmia erano stati creati il volto e il busto di un essere a metà strada tra l’uomo e gli altri primati. Una sorta di “anello mancante”. Aveva mostrato il risultato già a Georgetown, suscitando l’ilarità dell’intera colonia e mantenendo la cosa nei confini dello scherzo. Ma al ritorno in Inghilterra fu tentato di strafare, e presentò il suo mostro accompagnandolo con una descrizione avventurosa delle modalità della scoperta e con una breve descrizione “scientifica”. L’errore fu quello di inserire questo scherzo in coda al volume dei Wanderings in South America, nel quale aveva raccolto i suoi diari delle esplorazioni, col risultato di far dubitare della veridicità di tutto il resto, che già in alcuni punti rasentava l’incredibile. L’opera stessa andava per molti aspetti contro i canoni della letteratura naturalistica corrente, e di questo Waterton era ben consapevole, ed anzi, ne rivendicava l’originalità: “Il mio unico obiettivo era di esortare il lettore a recarsi ad esplorare quelle remote regioni. Avrei potuto fornire il nome scientifico e quello indiano di tutti gli uccelli e gli altri animali, ma me ne sono guardato accuratamente. Ho dato al mondo un resoconto scientifico originale, buttato giù a matita sera dopo sera, non deturpato da caricature né mistificato da chiose da naturalista di laboratorio”. Il pubblico apprezzò, i suoi colleghi naturalisti molto meno.

Le motivazioni ad una trovata del genere erano diverse. C’era senz’altro da un lato, come molla occasionale, il desiderio di giocare uno scherzo al “consesso dei primari naturalisti del momento”, e di ridicolizzali (in tal senso si inseriva in una tradizione che aveva precedenti illustri, non ultimo quello del fantomatico verme di Spallanzani, e che sarebbe proseguita con falsi clamorosi come quello dell’uomo di Piltdown). Questo perché in fondo Waterton si considerò per tutta la vita, a dispetto della mancanza di titoli e di riconoscimenti accademici, uno scienziato, depositario di conoscenze molto concrete, maturate sul campo: e gli pesava senz’altro, al di là delle sue professioni di indifferenza, di essere escluso da quel “consesso”, o quanto meno che le sue conoscenze non fossero tenute nella dovuta considerazione. A modo suo in effetti uno scienziato lo era, e diede contributi non indifferenti al sapere naturalistico: ma gli mancò quella scoperta, quel guizzo che avrebbe potuto giustificare senza riserve questa sua ambizione, anche perché ostacolato da una profonda ortodossia religiosa, che lo portava a guardare con sospetto ad ogni novità e a non tirare le fila di indizi che magari aveva intuito, ma che spingevano verso direzioni pericolose.

Dall’altro lato c’era la volontà di dimostrare la sua eccezionale bravura come tassidermista (su questo non aveva dubbi: si considerava il miglior tassidermista del mondo, e si arrabbiava moltissimo se qualcuno definiva i suoi esemplari “animali impagliati”), ma anche un gusto particolare, e un po’ macabro, per le figure bizzarre; l’Inclassificato – così aveva nominato la sua creazione più famosa – non fu infatti l’unico esemplare da lui trattato in quel modo.

Io credo tuttavia che alla fine a prevalere, a fargli compiere il passo sbagliato che avrebbe compromesso per sempre la sua credibilità, sia stata la voglia pura e semplice di divertirsi. Qualsiasi calcolo d’altro tipo avrebbe dovuto indurlo infatti a lasciar perdere. Ma forse non era altrettanto bravo nel prevedere le reazioni umane che nel sentire gli umori degli animali.

Tutto sommato, rimango convinto che la vicenda delle burle abbia impresso una svolta positiva alla sua vita. Intuendo che il suo maldestro sberleffo alla comunità scientifica non gli sarebbe stato mai perdonato, Waterton si concentrò su quello che gli piaceva davvero e in cui riusciva meglio, la cura del suo parco. Il che gli consentì di vivere il resto della sua esistenza scalzo, trascurato nel vestire, monastico negli orari e incredibilmente frugale nell’alimentazione, ma soprattutto sincero, e libero di scegliere i suoi interlocutori e di organizzare in perfetta autonomia le proprie giornate. Ciò che, a pensarci bene, non è poco.

Aggiungo, infine, un paio di notazioni molto personali. La prima concerne il suo aspetto. Anche i capelli a spazzola, così come l’abbigliamento trasandato e assolutamente fuori moda, non rappresentavano una ricerca di originalità a tutti i costi, ma rispondevano ad un bisogno di praticità. Le parrucche erano ormai desuete, tranne che nelle conventicole aristocratiche più reazionarie, e le nuove acconciature maschili mal si addicevano a un uomo che amava muoversi in ambienti pieni di insetti e di parassiti di vario genere. Nella camera-soffitta in cui Waterton dormì per più di trent’anni non c’erano specchi: l’unico suo autocompiacimento fisico riguardava la propria straordinaria agilità e la incredibile resistenza fisica. Non voleva piacere agli altri, ma aveva rispetto per se stesso.

Un’altra notazione riguarda il culto di Don Chisciotte, che Moore testimonia essere rimasto vivo sino alla fine. Essendo stato io stesso fin dalla giovinezza un cultore del cavaliere dalla trista figura, non ho potuto che salutare una ulteriore consonanza. Credo che l’amore per l’eroe di Cervantes, intendo l’amore di pelle e di sangue, non quello puramente letterario, la dica lunga su una particolare disposizione nei confronti della vita e sul senso che si vorrebbe darle. Caratterizza una particolare tipologia umana, e Waterton di quella tipologia incarna senz’altro uno degli esemplari più significativi.

Infine, l’unica cosa che nella vita di Waterton non ho trovato è un incontro, o almeno una qualche corrispondenza, con Alexander von Humboldt. Sembra quasi impossibile che i due non si siano mai incrociati. Erano contemporanei, hanno esplorato la stessa area sudamericana pressappoco negli stessi anni, hanno sperimentato gli stessi veleni, hanno continuato entrambi per tutta la vita a vestire contro ogni canone, erano famosi entrambi. Mi aspettavo di trovare qualche menzione l’uno dell’altro, magari anche in negativo. Invece nulla. Non mi resta che sperare nella pubblicazione dell’epistolario completo di Humboldt, annunciata da un pezzo in Germania. Pare che occupi una ventina di volumi, quindi avrò da divertirmi per quel che mi resta da vivere.

Non sarà certamente come cintare Walton Hall, ma la possibilità di chiudere un cerchio entro il quale mi sto aggirando da anni è già un buon motivo per tirare avanti.

Chi volesse leggersi in lingua originale (in italiano non sono mai state tradotte) le opere di Waterton può trovare:
Charles Waterton – Wanderings in South America – CreateSpace Independent Publishing Platform 2015 London
Charles Waterton – Essays on Natural History – Forgotten Books 2012

Per le opere su di lui, naturalmente, e unica, la biografia scritta da:
Julia Blackburn – Cavalcare il coccodrillo – Bollati Boringhieri 1993

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Come (non) si diventa postmoderni

di Paolo Repetto, 2003

Scoprire di essere speciali procura sempre una certa ebbrezza. Ne ho conferma dalla lettura un articolo su Wess Hardin. Era un ragazzo tosto: quando gli misero in mano una pistola, e si rese conto di possedere il dito più veloce del West, divenne euforico, sfidò e fece secchi quarantun avversari prima che lo calmassero a fucilate. Mi viene in mente che anch’io ho provato di recente una sensazione analoga, pur nella diversità delle situazioni. Alla prima lettura di un saggio di Vattimo ho infatti scoperto, non senza un certo compiacimento, la mia peculiarità: sono postmoderno. Ma l’ho presa più bassa di Hardin, anche perché alla fin fine non ho ben capito se essere postmoderno sia un privilegio o una disgrazia. Ho capito però che postmoderni, così come veloci con la pistola, non si diventa: si nasce.

Ho letto dunque Vattimo, e mi sono ritrovato postmoderno. E pensare che ho sempre creduto che il mio fastidio per la modernità e le sue forme venisse da una pre-modernità, dall’essere cioè di gusti e di temperamento un po’ antiquati, e che il mio tempo fosse quanto meno l’Ottocento. Invece ero già oltre, avevo un piede nel ventunesimo secolo. Di lì, probabilmente, il mio equilibrio instabile.

Vediamo di spiegarci. Ne La fine della modernità Vattimo identifica e sintetizza quelli che a suo parere sono gli aspetti costitutivi, le direttrici fondamentali di pensiero che hanno caratterizzato la modernità, e mostra come in questa fine di secolo le idee-madri abbiano lasciato il posto ad una costellazione, meglio ancora ad una vera e propria nebulosa di attitudini interpretative del mondo, della sua storia e del suo significato, tutte altrettanto dignitose e rigorose, ma soprattutto consapevolmente provvisorie.

Gli elementi caratterizzanti la modernità erano, secondo il filosofo torinese:

  • l’interpretazione della storia come processo di emancipazione dell’umanità (dalle leggi di natura, dalla precarietà e dal bisogno, dallo stato ferino)
  • la conseguente identificazione del destino dell’uomo nel dominio sulla natura
  • la valorizzazione del sapere unicamente come strumento di questo dominio (da cui la priorità assoluta accordata ai saperi tecnico-scientifici)
  • la tendenza ad un pensiero unitario e totalizzante (molte certezze, riconducibili ad una sola verità) e ad elaborare visioni onnicomprensive del mondo (da quelle filosofiche – idealismo – a quelle politiche – marxismo, ecc…)
  • la propensione a identificare il nuovo con ciò che è migliore, e il passato con ciò che è superato

A connotare invece il pensiero postmoderno sarebbero:

  • sfiducia nei macro-saperi, la loro sostituzione con saperi deboli e instabili
  • il rifiuto dell’enfasi del nuovo
  • la rinuncia a concepire la storia come un processo universale e necessario
  • il rifiuto di concepire la ragione come ragione tecnico-scientifica
  • la scelta di privilegiare il paradigma della molteplicità rispetto a quello dell’unità

Nei limiti di una sintesi, i punti essenziali dell’analisi di Vattimo sono questi, e mi sembrano cogliere appieno l’essenza del cambiamento di attitudine. Ho considerato dunque gli elementi del primo gruppo, e non ho avuto dubbi: non mi riconoscevo in nessuno. La storia come emancipazione progressiva? Ma emancipazione da che? Tutta la vicenda umana, tutte le culture, tutte le civiltà si sono sviluppate a partire dalla coscienza della morte, e nel segno –  o nel sogno – di un suo superamento (della morte o, almeno, della coscienza di essa). Non ho affatto l’impressione che ce ne siamo liberati: semmai, è vero il contrario. E se anche vogliamo metterla sul piano dei puri bisogni materiali, della pura sopravvivenza fisica, emancipazione di chi? C’è molta differenza tra la vita di un pastore kirghiso o etiope di oggi e quella di quattromila anni fa? Due terzi dell’umanità soffrono la fame, e la sopravvivenza non l’hanno garantita neppure temporaneamente: e il futuro si prospetta solo peggiore.

Quanto al domino sulla natura, basta guardarsi attorno. Deserti che avanzano, effetti serra, buchi nell’ozono, epidemie, alluvioni, terremoti, ecc… Quale dominio? Siamo formiche alla mercé di ogni piede o zampa o asteroide di passaggio, di ogni raffica di vento. Le briglie che ci illudiamo di aver messo alle forze naturali continuano ad allentarsi, ed ogni volta che queste ultime decidono di riprendere il proprio corso i costi risultano più alti. Non è nemmeno necessario sottoscrivere certo integralismo ambientalista – quello per intenderci che contrappone la “civile” consapevolezza ecologica dell’occidentale garantito alla miope disperazione dell’abitante del terzo e del quarto mondo – per rendersi conto che la strategia di domesticazione della natura ha da un pezzo lasciato campo al progetto di una cancellazione e sostituzione di quest’ultima con una natura seconda, pensata e spalmata sul globo a misura del modello produttivo. E questo rimette automaticamente in discussione non solo la priorità, ma lo status stesso dei saperi tecnico-scientifici, la loro intrinsecità ad un disegno di crescita illimitata, che ne condiziona o meglio ne detta i protocolli.

Per quanto concerne il sapere totalizzante, poi, l’impressione è che ogni certezza in più allontani e confonda la percezione di una verità di fondo. Ogni nuova conoscenza è un tassello nella costruzione di un mistero, si tratti di biologia, di astronomia, di storia. E ciò vale in maggior misura da quando hanno iniziato a rivendicare spazio altre voci, altre culture, che propongono modelli e direzioni investigativi e interpretativi diametralmente diversi e insinuano il dubbio anche in quelle verità che consideravamo acquisite. Dopo secoli di cancellazione dei saperi alternativi, di uniformazione dei parametri, di riconduzione ad un modello unitario ed universalistico del conoscere e dell’agire, scientifico o storico o politico che fosse, ci si accorge che per far tornare i conti si stava barando. I rigidi schemi della razionalizzazione si sono rivelati gabbie troppo strette per un mondo così vivace e multiforme.

Per quel che mi riguarda, dunque, modernità zero. Pur senza essere un nostalgico del passato, non ho difficoltà ad ammettere che da ogni novità mi aspetto di norma una perdita, anziché un guadagno. Non ho fiducia nei macro-saperi, non ci penso nemmeno a concepire la storia come processo universale e necessario, non etichetto la razionalità, colgo il molteplice, il diverso, piuttosto che l’unità. Appartengo decisamente nel secondo gruppo, ho concluso: sono, e sono sempre stato, un postmoderno, da prima ancora che i sintomi e il virus della postmodernità fossero identificati.

Oggi, tuttavia, l’articolo su Hardin mi ha induce a strane riflessioni, che nulla hanno a che vedere con la velocità nell’estrarre e nello sparare: mi spinge piuttosto a tornare sul saggio di Vattimo, e riconsiderare la genuinità della mia appartenenza alla condizione postmoderna.

Qualcosa non quadra. In effetti mi era sembrato fin troppo facile trovarmi d’accordo, e dubito sempre, per natura, del troppo facile. Ora ho avuto un po’ di tempo per ruminare quel che ho letto, e decido di scendere più in profondità. Per esempio: è poi così vero che sono contro il pensiero totalizzante? In effetti posso dire che mi nutro di dubbi ( ma forse si era già capito ). Tuttavia alcune certezze le ho. Non riguardano i saperi, ma i doveri. Ho le certezze dei doveri. Sui diritti sono un po’ più lasco. Ad esempio: ho la certezza che se si sottoscrive un patto, una convenzione di qualsiasi genere, occorre essere seri con gli impegni assunti: oppure li si rifiuta in partenza. Non mi piace l’interpretazione all’italiana, che lascia margini per il ripensamento, che giustifica gli aggiustamenti e gli sganciamenti. In sostanza, ritengo che il dubbio sia il lievito del conoscere, ma finisca per essere un tarlo nel sentire. Deve riguardare la disposizione gnoseologica, non l’atteggiamento etico. Tradotto in termini spiccioli, la coscienza di non essere detentori di alcuna verità non ci esime dal tracciare e dal difendere qualche linea essenziale di comportamento.

Questo mi porta anche a ripensare il paradigma della molteplicità. Sono d’accordo sul fatto che ogni cultura abbia una sua dignità e le sue brave radici e ragioni storiche, e che debba essere salvaguardata e capita e rispettata (il che non significa pensare che l’una vale l’altra, e che ciascuno deve tenersi la sua, e buonanotte). Ma ritengo anche che dal momento che le tante culture di questo globo non si fronteggiano più a distanza, ma vengono oggi costantemente a contatto e a confronto, sia più che mai necessaria la stipula di un patto di convivenza. Il problema non è quello di conciliare usi alimentari (mangiare i piselli con la forchetta o col cucchiaio) o modelli di abbigliamento, o altre differenze esteriori, ma quello di far convivere forme e concezioni di vita diverse. Se vado in Inghilterra viaggio sulla sinistra, e non c’è santo che tenga. Stramaledico gli inglesi e la loro spocchia, ma mi adeguo. Così, pur rispettando l’attaccamento di ogni etnia alle proprie tradizioni, il diritto di preservare la propria cultura, le proprie credenze ecc…, ho dei problemi ad accettare che un Sumburu trasferitosi nel mio condominio faccia rullare per tutta la notte il suo tamburo, come giustamente faceva negli altipiani deserti del Kenia per tenere lontane le belve dagli armenti. Al di là dei paradossi, e del fatto che non accetto nemmeno il televisore sparato a tutto volume dal burino nostrano, è lui, nel caso in cui le sue tradizioni confliggano con le mie, a doversi adeguare. Può anche sembrare un atteggiamento supponente e semplicistico, dal momento che per secoli noi occidentali siamo andati a casa d’altri a imporre le nostre regole e i nostri stili di vita, oltre che i nostri interessi: ma non credo che l’ansia di riparare in qualche modo a tutte le soperchierie perpetrate debba farci dimenticare che quel che è accaduto negli ultimi cinque secoli si era già verificato (sia pure in scala minore, ma solo per motivi tecnici) in tutti i tempi e in tutti continenti, da quando gli spazi che separavano i popoli si sono ristretti, e che ogni nuovo vincitore, laddove e per quanto gli è stato possibile, ha imposto le sue leggi. Non è quindi rovesciando le parti che si risolve il problema, e nemmeno abbracciando acriticamente il sogno di una società multiculturale completamente aperta. Sappiamo fin troppo bene dove conduce l’idea del libero mercato. L’unica soluzione che vedo praticabile, almeno in una fase di transizione come l’attuale, è quella della reciprocità: mi adeguo alle regole e agli usi della casa in cui entro, e chiedo che gli altri facciano lo stesso nella mia.

Ciò significa non privilegiare il paradigma della molteplicità? A me pare piuttosto di difenderlo dalle interpretazioni troppo enfatiche, quelle che vogliono conciliare la difesa delle diversità con l’esaltazione del meticciato culturale, e le cui contraddizioni naufragano sulle scogliere della realtà di fatto. È qui che avverto più radicale e, lo confesso, più spiazzante la mia distonia rispetto all’attitudine post-moderna: più che una rinuncia alle idee forti quest’ultima mi sembra una rinuncia tout court ad assumersi la responsabilità di pensare. Io ritengo sia invece il caso di riflettere sulla trasformazione in atto con un po’ più di lucidità, semplicemente risalendo alla valenza originaria del concetto di cultura e partendo dai pochissimi punti fermi che le nostre conoscenze, moderne o post-moderne che siano, ci consentono di individuare.

Noi umani siamo prima di tutto degli animali, sia pure un po’ speciali, e la nostra eccezionalità nasce da una debolezza biologica. Siamo animali non specializzati, biologicamente poco attrezzati, quindi leghiamo la nostra sopravvivenza all’acquisizione di molta “cultura” ambientale. Nasciamo infatti prematuri, prima cioè che il nostro cervello sia pervenuto al completo sviluppo, abbia fissato le strutture comportamentali ereditate attraverso il corredo genetico. Ciò implica che la nostra memoria di base, quella strutturale, rimanga aperta a lungo all’assorbimento di input esterni, ambientali, che agiscono a livello formativo, e non solo informativo. Ci “formiamo” quindi letteralmente, oltre che sulla base del patrimonio cromosomico, anche attraverso l’acquisizione di modelli culturali che sono quelli specifici di un certo spazio e di un certo tempo. Assorbiamo cioè quel kit culturale che ci serve per la risposta ad un ambiente sociale particolare, così come le specializzazioni genetiche (dal colore della pelle al taglio degli occhi, ecc…) sono funzionali all’ambiente naturale. Ora, questo meccanismo ha funzionato fino a ieri in maniera abbastanza semplice (!) ed efficace (lo dimostra il successo umano nella dispersione sulla terra), ma rischia oggi di incepparsi di fronte all’accelerazione esponenziale impressa alle trasformazioni. La “cultura” indispensabile alla sopravvivenza, pur rinnovandosi in un processo costante di aggiornamento rispetto alle ineluttabili mutazioni naturali e storiche, conservava nel passato una sua specificità, sia perché relativa ad un’area limitata, sia perché i cambiamenti erano in genere di piccola entità e diluiti nel tempo. Oggi invece, di fronte a trasformazioni radicali e istantanee, di portata globale, e ad una interazione sempre più ravvicinata con culture diverse, essa risulta costantemente inadeguata, soggetta ad una rapidissima obsolescenza e ad un’uniformazione su standard al tempo stesso depauperanti (perché non consentono più di elaborare risposte specifiche di adattamento) ed eccessivamente complessi. La domanda è questa: il nostro cervello è in grado di assorbire schemi e modelli comportamentali sempre più ipertrofici e, soprattutto, sempre meno agganciati ad un correlativo genetico e ambientale? Ovvero: “stimoli eccessivamente contraddittori, in successione troppo accelerata, in che modo e in che misura possono essere assimilati? Multiculturalità – dobbiamo avere il coraggio di chiedercelo – non significherà in fondo, e prima di tutto per ragioni biologiche (e non etniche, sia chiaro), nessuna cultura?(autocitazione)

E con questo, credo di essermi giocato buona parte delle credenziali di post-moderno. Ma non è finita. Passiamo al rapporto col “nuovo”. Non si tratta, a mio giudizio, soltanto di rifiutarne l’enfatizzazione. Quella che mi sembra caratterizzare la nostra epoca è un’accettazione indiscriminata e passiva della novità, nel bene e nel male, come ci si trovasse sempre di fronte a qualcosa di ineluttabile. Certamente il nuovo è ineluttabile, anzi, la ricerca costante e cosciente dell’innovazione è proprio ciò che caratterizza la condizione umana, che la fa differire da quella degli altri animali e che sostanzia l’evoluzione culturale (anche quella naturale, certamente, altrimenti non ci sarebbe evoluzione: ma in questo caso la novità arriva casualmente, non è cercata). Ma non è detto, proprio perché si tratta del frutto di una azione volontaria e cosciente, nella quale entra in ballo l’opzionalità, che la scelta debba andare sempre e necessariamente in direzione del nuovo. La tendenza post-moderna sembra invece quella ad inglobare, fagocitare tutto, magari a denti alti. Io sono un po’ in ritardo a livello evolutivo, ho una digestione difficile. Mi riesce ad esempio indigesta la celebrazione delle nuove tecnologie multimediali come capisaldi ineliminabili e fondanti, nella nostra era, della democrazia. Ineliminabili, purtroppo, credo lo siano davvero: ma quanto al ruolo di democratizzazione, al potenziale di partecipazione politica e sociale che dovrebbero indurre, nutro qualcosa di più che delle perplessità. Sono fermamente convinto che sortiscano invece l’effetto opposto, quello da un lato di creare una dipendenza sempre più disarmata e acritica nei confronti del potere, e dall’altro di disperdere e zittire in una confusione inverosimile di voci e di segnali e di contatti ogni già debole vagito di dissenso. L’opinione di Vattimo è che occorra impadronirsi delle nuove tecnologie, dei nuovi strumentari informativi e formativi, per impedirne la gestione monopolistica da parte dei poteri forti: e fin qui non posso non essere d’accordo. Ma non lo seguo più quando mostra di credere che il problema stia nell’uso positivo o negativo dei media, e non nella loro intrinseca natura (riproponendo la favoletta della neutralità della scienza e della tecnica), o addirittura che l’evoluzione di questi ultimi sia sfuggita al controllo del totalitarismo pseudo-democratico del capitale, finendo per nutrirgli una serpe in seno. Temo che queste siano solo pie illusioni, nel senso letterale, cioè dettate da una sorta di “pietas” nei confronti dell’umanità e dell’angoscia intrinseca alla sua condizione.

La stessa pietas porta Vattimo a riconsiderare e a rivalutare il ruolo delle religioni, e ad aprire un dialogo con le loro rappresentanze istituzionalizzate. In sostanza, una volta presa ufficialmente coscienza, con Nietzche e con Heidegger, della tragica insignificanza dell’esistenza umana, il pensiero occidentale si è trovato di fronte ad un vuoto di senso che non è in grado di colmare, rispetto al quale non trova risposte che non attengano ad una individualissima e stoica dignità. È chiaro che tali risposte sono riservate a pochi, e che a rigor di logica non si tratta nemmeno di risposte, ma soltanto di rese incondizionate ad una brutale realtà, riscattate talvolta da atteggiamenti lucidamente coraggiosi. Ed è altrettanto evidente che alla stragrande maggioranza dell’umanità non possono essere chiesti questo coraggio e questa lucidità, che nascono solo da una fortunata quanto rara combinazione di attitudine psicologica e di strumenti culturali adeguati. A questo punto, dice Vattimo, ben vengano le religioni: se esiste una coscienza morale diffusa, se valgono dei principi che consentono la convivenza più o meno pacifica degli umani sulla terra, poco importa che gli stessi siano stati indotti attraverso timori o credenze superstiziose e siano tenuti in vita da promesse escatologiche o da minacce di dannazione. Le religioni danno la risposta che gli uomini vogliono sentire, quella che esorcizza la morte, o negandola o caricando in qualche modo di senso la vita: questa risposta li tranquillizza e li dispone ad accettare delle regole, cioè sostanzialmente dei vincoli, delle limitazioni, che stanno alla base della socialità. Non fa una grinza, ed è senz’altro vero che la secolarizzazione, una volta esauriti i palliativi delle grandi ideologie sociali e politiche, sta lasciando emergere i suoi limiti e i suoi rischi; così come è vero che questi ultimi sono aggravati, invece che attenuati, dalla nuova ondata di religiosità “spontanea” che sfugge al controllo delle chiese tradizionali.

Il problema nasce però al momento di trarre da queste constatazioni delle conseguenze. Se parto dal presupposto che la risposta religiosa sia una bugia consolatoria, posso poi intraprendere un dialogo alla pari con chi considero, bene o male, un bugiardo? So che in certi casi gli interlocutori non te li puoi scegliere, e che Vattimo dialoga con i teologi ufficiali perché altrimenti la sua voce non avrebbe alcuna risonanza nell’ecumene religiosa: ma quel che mi chiedo è se questo dialogo sia poi necessario. Anche a voler prescindere dai ruoli di potere, dalle guerre sante, dalle inquisizioni, dal bieco sfruttamento dell’ignoranza superstiziosa, cosa c’è da dirsi, se non che ciascuno deve essere libero di scegliere a chi porre le domande e deve accordare a ciascuna risposta, se non egual credito, una eguale dignità? Il che è l’ultima cosa che ogni confessione religiosa accetta di sentir dire. L’impressione continua ad essere quella di un “integralismo della tolleranza”, che si manifesta in positivo nella difesa programmatica della differenza, della pluralità di voci, del multiculturalismo, ma che a furia di andare “oltre” ogni moderna categorizzazione (destra-sinistra, conservatorismo-progressismo, razionale-irrazionale, ecc..) finisce per patire in negativo l’assenza di riferimenti orientativi.

Ora, io sono molto confuso, e di punti di riferimento ne ho davvero pochi: ma non mi va di spacciare una confusione per una condizione. So di essere confuso proprio perché vorrei avere le idee un po’ più chiare; e questo, a dispetto delle apparenze, non è molto post-moderno. Non lo è nemmeno il fatto che non considero sempre positivo il concetto di tolleranza, o meglio, l’interpretazione corrente che se ne dà. Non mi piace “tollerare”, e meno che mai sono disponibile a farlo con chi non dà prova di reciprocità, così come mal sopporto l’idea di “essere tollerato”. Voglio capire, e pretendo di essere capito. Questo atteggiamento non mi garantisce un grande spazio relazionale nel mondo, ma quello che ho mi basta ed avanza. Non ho bisogno di navigare su Internet e di mettermi in contatto con i Lapponi per scambiare opinioni. Mi manca quasi il tempo per farlo con i vicini di casa, o con chi vive con me, e questo sarebbe davvero più importante. So che un discorso del genere appare semplicistico, che le cose nella vita sono ben più complesse e che non si scansa la complessità fingendo di ignorarla: ma non credo nemmeno che la soluzione sia quella di abituare il nostro stomaco a ingollare di tutto in nome del pluralismo alimentare, o la nostra mente a nutrirsi delle “visioni del mondo” moltiplicate (?) dai media di cui Vattimo è ghiotto.

Cosa rimane allora della mia post-modernità? Ben poco, direi. L’ho impallinata io stesso, e confesso di essermi divertito a farlo. Tra l’altro, mentre scrivevo questo sproloquio avevo di fronte il busto di Leopardi e la foto di Hardin, ed ho avuto per un attimo l’impressione che entrambi mi sorridessero.

 

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