Risvegli

di Paolo Repetto, 29 luglio 2023

Nelle Vite dei maggiori filosofi Diogene Laerzio racconta di un giovane cretese, Epimenide, che fu mandato un giorno dal padre in campagna a cercare una pecora dispersa. Dopo aver girovagato a lungo il ragazzo, sfinito per il caldo e la fatica, si addormentò in una caverna, per risvegliarsi solo cinquantasette anni dopo. Devo dire che Diogene Laerzio non è particolarmente attendibile, tirava un po’ all’enfasi sensazionalistica, e che altri che hanno scritto di Epimenide prima di lui, come lo stesso Platone e poi Plutarco, non fanno cenno a questo episodio, mentre colui che fu probabilmente la sua fonte, lo storico-geografo Pausania, parla di “soli” quarant’anni. Anche nelle trasposizioni moderne della leggenda (Goethe ne Il risveglio di Epimenide e Washington Irving ne La leggenda di Rip Van Winkle) le cifre sono discrepanti: cinquant’anni di sonno per il primo, venti per il secondo: ma c’è una spiegazione, e la vedremo.

La sostanza della storia è comunque che, a prescindere dalla durata del riposino, al suo risveglio Epimenide trovò il mondo molto cambiato, quasi irriconoscibile (e si parla di sei o sette secoli prima di Cristo). A quanto pare già in gioventù il bell’addormentato era un tipo poco convenzionale (ad esempio, portava i capelli lunghi, contro l’uso dei tempi) ed è naturale che al momento in cui rientrò dal mondo dei sogni la sua eccentricità apparisse ancora più marcata. Ma nelle società antiche la stranezza, se da un lato era vista con sospetto, dall’altro veniva letta come spia di facoltà speciali, in questo caso divinatorie. Epimenide cominciò dunque ad essere chiamato in tutta l’Ellade per fornire consulenze su situazioni difficili. Lo interpellarono anche gli ateniesi, prostrati da un’annosa pestilenza, e il nostro risolvette in quattro e quattr’otto il loro problema, identificandone le cause; poi se ne andò, schivo di onori e rifiutando oltretutto qualsiasi compenso (era davvero un eccentrico). Pare invece che, come sempre accade, non fosse particolarmente apprezzato dai suoi compatrioti, dei quali infatti diceva: “Cretesi, cattive bestie, ventri pigri, mentitori sempre” (questa invettiva gli è attribuita da Paolo di Tarso). Di qui il famoso paradosso del mentitore, per cui, essendo lui cretese, se tutti i cretesi mentono nemmeno lui è credibile, e le sue accuse sono infondate.

Ma non è questo che mi interessa. Mi interessano invece la capacità divinatorie, perché interrogato sull’origine dei suoi poteri Epimenide si scherniva asserendo di non vaticinare rivolgendo lo sguardo al futuro, ma sulla base della conoscenza del passato. Mi pare un’affermazione tutt’altro che scontata, degna nel caso specifico di una riflessione più approfondita: credo infatti che il filosofo-vate non volesse affermare semplicemente che pensare al passato è fondamentale per capire il presente e orientare il nostro futuro, cosa abbastanza ovvia (anche se oggi non lo è affatto). Intendeva dire, sulla base della sua straordinaria esperienza, che chi per qualche motivo è rimasto più strettamente vincolato al passato, o non ha vissuto direttamente i cambiamenti, quando se li trova di fronte è in grado di apprezzarne la reale portata, si rende conto più nitidamente della di-stanza intercorsa. È in fondo ciò che accade a noi tutti, che non avvertiamo i mutamenti che avvengono in noi stessi e nelle persone con le quali abbiamo maggiore consuetudine, mentre li constatiamo sgomenti in coloro che abbiamo perso di vista per venti o più anni.

La cosa mi coinvolge perché in qualche modo un’esperienza simile a quella di Epimenide la sto vivendo anch’io. Provo sempre più spesso la sensazione di risvegliarmi da un lungo letargo e di trovarmi di fronte ad una realtà nella quale non mi raccapezzo. Ne avrei tutti i motivi, perché nel frattempo la trasformazione del mondo ha conosciuto un’accelerazione esponenziale. I cambiamenti che mi sorprendono in realtà io li ho vissuti da dentro, sono passati sulla mia pelle, sul mio corpo, sulle mie speranze e aspirazioni (lasciando anche cicatrici evidenti): eppure, sarà senz’altro per effetto dell’età e del rimbambimento senile, che induce anche patologiche nostalgie, il mondo nel quale mi risveglio ad ogni notizia di telegiornale, ma anche ad ogni esperienza di quotidiana banalità, non lo riconosco, non mi piace, mi respinge (il che potrebbe in fondo essere un bene, perché avrò meno rimpianti al momento di lasciarlo). Insomma, l’impressione è di essermi addormentato sessant’anni fa pieno di certezze e di speranze e di risvegliarmi oggi pieno di dubbi e di delusioni.

Per esemplificare questa sensazione ricorro ad alcune notazioni che ho appuntato in una giornata tipo della scorsa settimana. Non tengo un diario, ma assicuro che è andata proprio così, non sto inventando nulla.

Dopo aver tentato invano di chiudere gli occhi per più di un paio d’ore consecutive, e troppo stanco per leggere, mi piazzo ad un un’ora antelucana davanti al televisore, lasciando scorrere distrattamente le immagini mute e sperando nel loro effetto soporifero. Ad un certo punto però mi imbatto in un vecchio film-documentario, di quelli in voga nei tardi anni cinquanta, che giocavano maliziosamente col pretesto del cinema-verità per offrire agli spettatori immagini che all’epoca apparivano pruriginose. Si tratta di Europa di notte, di Alessandro Blasetti, che quella moda l’ha inaugurata. Mi sono perso tutta la parte “spettacolare”, ma mi godo invece lo spezzone finale, quello davvero documentale, che mostra in bianco e nero una Roma percorsa ai primi chiarori dell’alba dalla cinepresa, a raccontare un lento risveglio dopo i bagordi notturni: una Roma semideserta (per le strade ci sono solo i netturbini e distributori dei pacchi dei giornali alle edicole), grigia ma pulitissima (è quella dei film tardo-neorealistici, tipo Poveri ma belli – quella sporca comincerà ad apparire solo tre anni dopo, con Accattone).

Il caso (?) vuole che uno dei servizi del telegiornale trasmesso immediatamente dopo sia dedicato proprio all’immondizia che sta sommergendo ormai da decenni la capitale. Roba da chiedersi come abbia fatto una città che un tempo dominava il mondo – e già all’epoca era abitata da più di un milione di persone – a ridursi ad un tale letamaio. E non c’è in giro un Epimenide da consultare (se ci fosse se ne andrebbe via di corsa), o meglio, ne vengono consultati una miriade, ma si limitano a intascare il compenso. Soprattutto non c’è l’ombra di netturbini (anche se a ruolo paga ne risultano duemilaquattrocento).

Con la prima sigaretta arriva anche la prima riflessione: allora la mia non è solo una percezione distorta, falsata dalla nostalgia: il mondo che ho conosciuto prima di addormentarmi era molto più pulito, nelle città come nelle campagne, lungo le strade di montagna come sul greto dei fiumi. Come ho già raccontato altrove, nelle campagne non si producevano rifiuti: tutto veniva riutilizzato, legno e carta per le stufe, l’organico per gli animali o come fertilizzante, la plastica non esisteva e le bottiglie di vetro erano preziose, i mobili, gli abiti e persino la biancheria passavano di padre in figlio. Persino le cicche venivano disfatte per recuperare il tabacco. Lungo le strade che salivano al paese e nelle vie interne le cunette erbose erano rasate ogni tre o quattro giorni, a ciascun cantoniere competeva la manutenzione di un tratto e c’era una vera e propria gara a chi lo teneva più in ordine. Anche nelle città funzionava una raccolta minuziosa. A Genova, dove ho trascorso nell’infanzia brevi periodi presso una zia portinaia, lo smaltimento dei rifiuti era quasi un rito, i netturbini erano implacabili con chi non rispettava i tempi e i luoghi del conferimento. Certo, la mia è una visione di superficie, ma almeno la superficie era pulita.

Risvegli 02

Mentre attendo che il caffè gorgogli nella moka il telegiornale prosegue. Un automobilista ubriaco, tra l’altro già privato un sacco di volte della patente, ha sterminato una famiglia che passeggiava tranquillamente a bordo strada. Gli omicidi stradali danno ormai vita ad una rubrica quotidiana, come i femminicidi e le previsioni meteo. Quando mi sono assopito, sessant’anni fa, naturalmente queste cose non accadevano. Mi si obietterà che circolavano forse un cinquantesimo delle auto odierne, ma la realtà è che c’erano anche molti meno ubriachi, alla faccia delle statistiche che vengono sbandierate ad ogni occasione, e quelli che c’erano in genere potevano fare del male solo a se stessi. Durante tutta l’adolescenza e la giovinezza non ricordo comunque di aver mai visto un mio coetaneo sbronzo. C’era sì qualche adulto o qualche anziano che alzava il gomito, ma al massimo capitava di trovarlo steso in una cunetta, dove aveva trascorso la notte dentro la neve, protetto dall’antigelo che circolava nel suo corpo. Oggi, a quanto mi arriva, lo sballo e la sbornia sono diventate abitudini giovanili, riti di passaggio che tendono a protrarsi poi all’infinito, e hanno anche cancellato le differenze di genere.

Al contrario di quanto faccio al solito, dopo il caffè non spengo il televisore. Una sindrome masochistica mi spinge a seguire anche le notizie internazionali. A meno di duemilacinquecento chilometri da noi, distanza che un aereo di linea percorre in tre ore, è in corso una guerra. Dopo quasi un anno e mezzo di carneficina, della quale non conosciamo nemmeno approssimativamente i costi reali, in vite umane, in sofferenze e in distruzioni, siamo a constatare che la cosa potrebbe durare all’infinito, così come evolvere all’improvviso in un disastro globale. Ci siamo già assuefatti, e le notizie dal fronte arrivano ormai di spalla, dopo le polemiche sulla Santanché e su La Russa.

Risvegli 03

Nessuno dei miei coetanei, nati a immediato ridosso dell’ultimo grande conflitto, avrebbe mai immaginato sessant’anni fa una cosa del genere. Si parlava di guerra fredda, è vero, veniva evocato ad ogni piè sospinto lo spauracchio nucleare, ma almeno dalle nostre parti (intendo in Italia, e penso anche al resto d’Europa) nessuno ci ha mai creduto veramente. A differenza che negli Stati Uniti, le aziende produttrici di rifugi antiatomici da noi hanno chiuso velocemente i battenti, e i pochi che sono stati venduti erano più intesi ad esibire uno status che a garantire una improbabile sicurezza.

Questo non significa che le guerre non ci fossero, che non fossero sanguinose e che non ne avessimo notizia. Sapevamo dell’Algeria, del Congo, del Biafra, del Vietnam e di tutti gli altri conflitti in corso in ogni angolo del mondo. Ma almeno li percepivamo come gli ultimi sussulti di un imperialismo in agonia, speravamo che avrebbero chiuso definitivamente la vergogna dello sfruttamento coloniale e aperto ad un mondo più giusto. Non è certamente il caso di quest’ultimo scontro: ed è indubbiamente assai più concreto il rischio di una deriva nucleare, anche se lo si esorcizza parlando di “atomiche tattiche”. Sembra che il mondo si sia rassegnato alla ineluttabilità di questo esito.

Di fronte a tutto ciò appare ancora più colpevole e scandalosa l’impotenza dell’Europa. All’epoca l’Unione Europea era ancora in fasce, esisteva solo per determinati settori economici, ma davvero si credeva che avrebbe potuto evolvere in una realtà politica. Magari eravamo tutti molto più ingenui, e non solo noi ragazzi, ma a volere questa unione era una classe politica che aveva vissuti gli orrori della guerra ed era determinata a non consentire che si ripetessero. Se potesse assistere allo spettacolo offerto dalle istituzioni politiche europee odierne inorridirebbe.

In appendice alle immagini della guerra arrivano quelle degli sbarchi dei migranti dall’Africa e dall’Asia. Nella sola giornata di ieri se ne sono contati settecento, e si sospetta che almeno un centinaio siano scomparsi nelle acque dello Ionio. Non riesco a seguire le polemiche e le dichiarazioni su accoglienza, respingimenti e ricollocazioni: un teatrino nauseante. Da neo-risvegliato mi colpiscono invece la natura e la dimensione del fenomeno. Mi ero assopito più mezzo secolo fa nella convinzione che la grande novità del terzo millennio sarebbe stata costituita da un terzo mondo finalmente libero e indipendente, capace di giocare un ruolo da protagonista: non mi aspettavo certo che la cosa prendesse questa tragica piega. Anche se non sono mai stato facile agli entusiasmi “rivoluzionari” del terzomondismo (voglio dire, niente Cuba, niente libretto rosso, niente Angola, ecc…), se guardo alla situazione geopolitica mondiale con gli occhi di allora non posso che rimanere allibito. È accaduto tutto il contrario di quanto speravo: il colonialismo ha cambiato pelle e ha trovato nuovi interpreti (la Cina, la Russia, gli stati arabi del golfo, …), le classi dirigenti indigene, in Africa come in Asia come nell’America Latina, hanno dato di sé pessima prova, dimostrandosi tutte egualmente incapaci e corrotte, quale che ne fosse l’estrazione o l’ideologia di riferimento, l’ONU è un baraccone privo di qualsiasi credibilità e potere, mentre tutte le agenzie specializzate che ha partorito, come l’UNESCO, la FAO e compagnia cantante sono diventate delle greppie inefficienti alle quali si nutre un numero scandaloso di funzionari, reclutati per lo più nei paesi “in via di sviluppo” e affamatissimi. Certo, hanno concorso gli stravolgimenti climatici, la desertificazione, lo sfruttamento criminale delle risorse operato dalle potenze neocoloniali: ma quello che balza agli occhi è ad esempio il fallimento di ogni progetto di “negritudine”, quello che aveva ispirato i primi anni dell’indipendenza africana. Altro che terzomondismo: e infatti, persino il termine è sparito dal vocabolario politico (così come “negritudine”, che da bandiera è diventata un insulto), e l’eredità è stata raccolta dall’azione “caritatevole” delle organizzazioni non governative, che anche quando sono in buona fede sembrano travasare l’acqua dell’oceano con un cucchiaio.

Risvegli 04

Le previsioni del tempo completano il quadro. Mezza Europa è prostrata da temperature torride, una buona parte è devastata da roghi che mandano in cenere il poco che rimane del patrimonio boschivo, mentre l’altra mezza è bombardata da fenomeni atmosferici estremi, trombe d’aria, bombe d’acqua, grandinate. Questo accadeva senz’altro anche sessant’anni fa, e seicento, e seimila: ma si trattava di situazioni eccezionali, ed erano percepite come tali. Oggi rappresentano la nuova “normalità” meteorologica, al di là dei titoli strillati sui quotidiani e del sensazionalismo isterico dei notiziari televisivi: una “normalità” percepita attraverso lo stravolgimento mediatico, nel quale all’afa e alla grandine si aggiungono le inconcludenti polemiche tra catastrofisti e negazionisti (che, è sin troppo scontato dirlo, lasciano il tempo che trovano). La chiusa finale, prima del diluvio pubblicitario, reca almeno una nota comica, ma di una comicità desolante, priva di qualsiasi umorismo: sono i consigli dispensati degli esperti, che tutti seri in volto e qualche volta supportati dall’autorevolezza di una divisa suggeriscono di bere molta acqua e di stare all’ombra, o nel caso opposto di rimanere in casa durante i nubifragi e non cercare riparo sotto gli alberi.

È ora di spegnere e di staccarsi dal divano. Una passeggiata solitaria mi porta al Capanno, dove trascorrerò il resto della mattinata trafficando e leggendo. Ma lungo il percorso mi guardo attorno. Sessant’anni fa questa passeggiata la ripetevo quattro volte il giorno, con un passo decisamente diverso, oppure in bicicletta. L’ultima casa del paese era in fondo al viale, dopo partivano i vigneti. Non c’era un metro di incolto, e a vista d’occhio i filari coprivano le colline più prossime ma anche quelle al di là del fiume. Dalla tonalità di verde delle foglie potevi capire dove maturavano il dolcetto, la barbera, il moscato. Oggi la macchia ha riconquistato tutti i declivi. Nella Valle del Fabbro non c’è più una sola vite, l’unico fazzoletto di coltivo è costituito dal mio frutteto, anch’esso purtroppo in via di inselvatichirsi. Per certi versi può apparire un angolo paradisiaco, ma è il paradiso dei rovi, e anche se egoisticamente me lo godo non può non trasmettermi la sensazione triste dell’abbandono.

Per la lettura mi rifugio in alcuni fascicoli de Le vie del mondo, risalenti agli anni in cui mi sono addormentato. Ho conferma di ciò che scrivevo sopra quanto alle aspettative su un mondo più libero, più giusto, più pacifico. E noto anche come non ci sia traccia di razzismo nella descrizione di paesi e di popoli lontani, appena emersi dal limbo della storia: c’è solo una gran curiosità, checché ne dicano gli odierni cancellazionisti, per i costumi, per le tradizioni, per le prospettive future che ciascuna di queste culture potrà perseguire senza negarsi. L’occidente non ha atteso i cultori della memoria particolaristica per farsi un esame di coscienza, come ben sa qualsiasi appassionato del western classico: nel cinema degli anni Cinquanta dietro ogni rivolta o scorreria o massacro operato dagli indiani c’erano la mano o le mene di mascalzoni bianchi.

Nel pomeriggio cerco consolazione dal Tour de France. Un tempo, nel dormiveglia di fine secolo scorso, andavo a seguirne dal vivo qualche tappa alpina. E prima della metà degli anni Sessanta lo vivevo attraverso le radiocronache. Ho tifato e ho urlato anch’io, ma quella che vedo oggi è una mandria di idioti assiepati lungo le salite, che intralciano con bandiere e cartelli la fatica dei corridori, corrono al loro fianco mezzi nudi per scattarsi un selfie, rischiando ad ogni passo di buttarli a terra, o si parano davanti alle moto bardati da cerebrolesi per strappare un attimo di visibilità internazionale. Non mi si venga a dire che è sempre stato così, che anche Bartali e Nencini erano stati ostacolati: si tratta di cose ben diverse. Là c’era di mezzo uno sciovinismo esasperato, stupido ma ingenuo: qui vediamo invece manifestarsi platealmente gli effetti del rincretinimento mediatico, della spettacolarizzazione di tutto, e in primis della stupidità. Lo sciovinismo, il tifo, sono degenerazioni della sportività: questa è invece degenerazione assoluta, una crescente tabe antropologica.

Non riesco neppure ad attendere l’arrivo della tappa, sono disgustato. Esco a fare un giro per strada. Il paese sembra un villaggio fantasma. Non un’anima, neppure un cane o un gatto (oggi vivono in casa), e non certo per via del Tour. È già l’ora nella quale dalle porte delle case che si affacciano in via Benedicta o dai vicoli che ne dipartono uscivano sedie e sgabelli, e zie e nonne e mamme si riunivano in capannelli lungo la strada, dandosi sulla voce da un gruppo all’altro, commentando ogni passaggio e facendo la tara ad ogni acquirente che uscisse dai negozi aperti sullo stradone. Oggi i capannelli non ci sono più, in compenso malgrado il divieto ci sono auto posteggiate lungo tutta la via, e non ci sono più nemmeno i negozi (erano dodici, oggi ne rimane uno). Se muore qualcuno paradossalmente se ne ha notizia solo il giorno dopo, dai manifesti affissi nella bacheca, se qualcuno è malato o finisce all’ospedale lo si viene a sapere quando ricompare, per i pettegolezzi ci si può rivolgere solo all’agenzia informale che opera davanti al bar, ma con gravi ritardi e scarsi dettagli. Insomma: non c’è più alcun controllo sociale, e questo in un paese di meno di mille abitanti. Figuriamoci in città. L’unico controllo è quello che passa attraverso gli iphone, ma è tutta un’altra faccenda.

In tre quarti d’ora, misurando il passo e cercando di cogliere i minimi indizi di cambiamento, di interventi edilizi, di restauro dei muri e degli infissi, dei segni di vita insomma, faccio il giro completo del paese. Incrocio quattro persone, e non ne conosco nemmeno una. Più della metà degli attuali abitanti è arrivata recentemente da fuori, attratta dai costi stracciati delle case – che nonostante ciò rimangono invendute per anni.

Alla metà del secolo scorso, quando i residenti erano quasi il doppio, li conoscevo benissimo tutti, sapevo dove abitavano, che attività svolgevano, che carattere avevano, se fossero affidabili o meno. Oggi mi sento uno straniero nella terra nativa. Continuo a non chiudere a chiave la porta la notte, ma in realtà non sono più così serenamente fiducioso.

Risvegli 05

Scende finalmente la sera, e con essa torna purtroppo anche l’incubo dell’insonnia. Una volta era costume tirar tardi in cortile, dove confluivano vicini, dirimpettai e passanti occasionali: ma dopo la morte dei miei genitori la consuetudine si è rapidamente persa.

La televisione naturalmente non aiuta, i film sono gli stessi già trasmessi cinquanta volte, persino i western sono inguardabili, ridotti a uno spezzatino in un mare di pubblicità, i talk show sono un oltraggio costante al pudore intellettuale. Non restano che i libri, ma anche la dondolo a quest’ora è scomoda, e a letto ogni posizione di lettura è immediatamente stancante. Spengo la luce, chiudo gli occhi e mi concentro.

Realizzo che per tutta la giornata ho comunque fatto uso senza pensarci affatto di strumenti (il computer, il cellulare, il forno a microonde, ecc …) dei quali sessant’anni fa nemmeno avrei sospettato l’avvento, e di altri dei quali non avevo la disponibilità (auto, telefono, televisione, …). Che ho mangiato cibi conservati in confezioni di plastica, e lo stesso vale per le bevande. E che tutto sommato, a dispetto della consapevolezza negativa, ho anche pensato secondo gli schemi conseguenti a tutto questo modo di vita. Solo ora mi rendo conto di quanti bisogni artificialmente indotti ho cumulato, di quanto ne sono diventato dipendente. Mi vien da pensare di essermi mosso per tutto questo tempo come un sonnambulo. Di fatto, mi piaccia o meno, mi sono adeguato a tutti i cambiamenti, a tutte le novità. Non dico di averli digeriti o capiti tutti, ma quantomeno ci ho convissuto. E nemmeno ho scordato come il mondo preletargico non fosse propriamente un Eden. Diciamo che ho vissuto in uno stato di coma vigile, e che forse sono meno convinto di quanto credo di volerne davvero uscire.

Comunque ci provo. Può essere che stavolta mi addormenti, per risvegliarmi sessant’anni addietro. Non con sessant’anni di meno, non è questo a interessarmi. Eden o no, ciò che rivoglio, almeno per un attimo, è quel mondo.

P.S. Ho accennato inizialmente alle discrepanze sulla durata del sonno di Epimenide (alias Rip Van Vinkle) che si trova nelle versioni moderne della leggenda. Me ne do questa spiegazione. Goethe scrive Il risveglio di Epimenide nel 1814. Dietro l’opera c’è una motivazione politica autogiustificatoria. L’autore cerca di spiegare il suo cinquantennale silenzio di fronte agli straordinari accadimenti dell’ultimo secolo, rivoluzioni americana e francese comprese, e soprattutto rispetto a quelli che hanno profondamente toccato la vita della Germania. Sembra voler dire che il suo non è stato un atteggiamento di fuga e di non compromissione con la realtà, ma di osservazione della realtà dall’alto di una speciale consapevolezza indotta dal sapere artistico. E infatti, dopo tanti sconvolgimenti, le cose sono tornate al loro posto (Napoleone è appena stato sconfitto), l’ordine è stato ristabilito. Al contrario Irwing, che scrive il Rip van Winkle pochi anni dopo (1819) in Inghilterra, ma lo ambienta in America, constata che in vent’anni le cose sono cambiate moltissimo, sia sul piano politico che su quello economico e sociale. Si è addormentato in una colonia inglese e si risveglia negli Stati Uniti, rischiando addirittura di essere linciato quando in perfetta buona fede dichiara la propria lealtà alla corona britannica. Ma soprattutto prende atto di una rivoluzione ancora più importante, quella industriale, che viaggia sulle ferrovie e sui battelli a vapore, e del fatto che le trasformazioni sono destinate a diventare sempre più veloci. Nessuno attribuisce a Rip facoltà divinatorie, ma molti credono alla sua storia e invidiano la sua esperienza, non fosse altro per il fatto che gli ha consentito di sfuggire alla tirannia della moglie. In sostanza, secondo Irwing, due decenni sono sufficienti a cambiarti la vita e a trasformare il mondo.

Direi che alla luce degli ultimi due secoli abbia visto ben più lontano di Goethe.

Risvegli 06

Essere obiettivo

di Fabrizio Rinaldi, 30 aprile 2018

In fotografia la creazione è un breve istante, un tiro, una risposta, quella di portare l’apparecchio lungo la linea di mira dell’occhio, catturare quello che ci aveva sorpresi nella piccola scatola a buon mercato afferrandolo al volo, senza artifici e senza sbavature. Si fa della pittura ogni volta che si prende una fotografia.
HENRI CARTIER-BRESSON, L’immaginario dal vero, Abscondita 2005

Il racconto nell’album fotografico

C’era sempre una presenza discreta nelle gite, nelle feste e nelle ricorrenze: una macchina fotografica al collo di mio padre. Negli anni Settanta lo ricordo sempre con quella reflex mentre scattava foto ai familiari.
Autodidatta, come me, aveva una vera passione per quella piccola scatoletta: inquadrava, scattava e portava a svilupparne il rullino dal fotografo. …

Fotografia e utopia (di Paolo Repetto)

Il pezzo di Fabrizio sulla fotografia ha casualmente incrociato lungo il mio percorso di letture un breve saggio di Pietro Bellasi comparso trentacinque anni fa su Prometeo (rivista che ancora esiste, o almeno esisteva sino ad un paio d’anni fa) …

La fotografia immemore

Dobbiamo muoverci e pensare ad una velocità sempre maggiore: questo ci chiedono i ritmi imposti dalla modernità. In realtà la nostra mente non è evolutivamente preparata alla brusca accelerazione impressa negli ultimi cento anni, pochissimi se paragonati all’intero arco della storia antropica …

Che i digitali diventino analogici

I bambini ospitati a turni settimanali nella struttura educativa dove lavoro vivono un altro modo di fare scuola. Sperimentano attività e fanno esperienze (le escursioni naturalistiche, ad esempio) che non sono previste nel contesto scolastico abituale …

Riconosciute assenze

L’applicazione della tecnologia digitale alle macchine fotografiche e l’uso diffuso di software di fotoritocco hanno semplificato il gesto del fotografare fino a generare una polluzione incontrollata di immagini, per lo più ordinarie, che ci sorbiamo nostro malgrado e che rispondono a un artificioso bisogno indotto dalla modernità: quello della “spettacolarizzazione di sé” e della condivisione in rete della propria squallida quotidianità…

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Attenzione!

Il racconto nell’album fotografico

di Fabrizio Rinaldi, 19 gennaio 2018

C’era sempre una presenza discreta nelle gite, nelle feste e nelle ricorrenze: una macchina fotografica al collo di mio padre. Negli anni Settanta lo ricordo sempre con quella reflex mentre scattava foto ai familiari.

Autodidatta, come me, aveva una vera passione per quella piccola scatoletta: inquadrava, scattava e portava a svilupparne il rullino dal fotografo. L’occasione diventava ancor più piacevole in quanto poteva imparare qualche trucco in più da un ex collega che, dopo un passato in fabbrica, si era improvvisato a stampare foto.

Gli scatti erano vincolati dal numero di foto che un rullino poteva contenere: prima 12, poi 24 ed infine 36. Era un numero finito, e ogni operazione costava, sia in termini di tempo, dalla carica della macchina all’attesa della stampa, sia economicamente: quindi si usava lo strumento con parsimonia. Di un evento (come ad esempio una comunione) si portava a sviluppare al massimo un rullino, 36 foto.

Il ritiro del materiale sviluppato avveniva giorni dopo. Nel frattempo si vivevano altre esperienze, che smorzavano gli entusiasmi dell’attimo dello scatto. La valutazione delle immagini era di conseguenza più fredda, meno viziata da sentimentalismi, a volte addirittura caustica. A casa si procedeva poi alla selezione delle immagini migliori (o di quelle meno peggio), alla datazione e la sistemazione negli album fotografici.

Quegli album, prima dell’era digitale, hanno narrato lo scorrere degli anni della mia famiglia: una storia semplice, senza fronzoli e senza traumi particolari, sicuramente concreta; insomma, come molte altre.

Il piacere – anche tattile – che c’è nello sfogliare quei raccoglitori con foto che ingialliscono non lo si ritrova quando si fanno scorrere le immagini su uno schermo, dove si riconoscono solo volti invecchiati.

Si fissavano in quelle pagine degli istanti, magari non essenziali (battesimi, compleanni, gite, matrimoni, momenti sereni insomma): ma almeno quelli erano fermati in una modalità materiale e non su un supporto aleatorio come può essere una cartella informatica. Quelle immagini concrete raccontavano storie personali e intime, il cui senso era ristretto alla cerchia familiare. Non ne avrebbero avuto alcuno se fossero diventate di pubblico dominio.

Sedersi sul divano, o attorno ad un tavolo, a guardare e riguardare le foto di noi bambini, dei genitori giovani o delle gite al fiume e al mare, e rievocare aneddoti e personaggi, era un vero e proprio rito, esclusivamente familiare. Si evitava di tirare fuori gli album quando c’erano ospiti, per non incorrere nell’imbarazzo di vedere volti annoiati di persone per le quali quelle immagini non significavano nulla. A casa mia non vi sarebbe accaduto di imbattervi in quei “protagonisti dell’assoluto” che propinano le loro raccolte di foto, adeguandole via via alle diverse modalità, prima l’album cartaceo, poi la sequenza di diapositive, oggi la visualizzazione virtuale. Non avreste desiderato cominciare a starnutire violentemente per indurre il torturatore a richiudere terrorizzato gli album. Non avreste visto nemmeno le copertine.

Mio padre continua ancora oggi a scattare, utilizzando una scatoletta digitale, con la stessa passione di un tempo nell’immortalare le gite con mamma, nel fissare i paesaggi e ciò che lo emoziona – magari le nipoti –; quello che non fa più è mandare in stampa le foto e sistemarle negli album. Come lui, tutti noi rimandiamo la stampa e l’organizzazione delle immagini a quando avremo tempo, cioè a mai più, salvando gli scatti fatti in cartelle digitali, sul computer o sul cellulare, e scordandocene fino a che finiranno per essere cancellati o per diventare illeggibili.

Ma cosa va messo in un album?

L’archetipo del fotografare è congelare l’istante intrinsecamente connesso all’epoca in cui l’immagine è stata fatta, quindi nel soggetto fotografato è riconoscibile anche lo scorrere del tempo stesso.

Susan Sontag in Sotto il segno di Saturno scriveva: “ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della mutabilità e della vulnerabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo”.

Stampare una fotografia significa darle un futuro che prescinderà da altri supporti tecnologici: quando è stampata la foto rimane, e salvo eventi catastrofici (incendi, alluvioni, eredi indifferenti, ecc …) si conserva per parecchio. Solo così i pronipoti potranno sapere che volti avevano i loro avi.

Personalmente, grazie a scatole da scarpe piene di vecchie fotografie dei nonni, sono riuscito ad associare ai nomi i volti dei membri della mia famiglia, a partire dalla fine dell’Ottocento. La cosa non interesserà il popolo digitale: infatti non mi sogno minimamente di condividere quegli scatti (tranne quelli che corredano questo articolo), se non con parenti stretti. Interessa invece a me, come semplice ricerca personale. Non credo che la stessa cosa sarebbe possibile ai miei pronipoti, se le foto che scatto venissero conservate solo in formato digitale. Vi sarà già capitato di ritrovare immagini in “pcx”, un formato che già oggi è praticamente illeggibile, oppure di ingrandire fotografie scattate alcuni anni fa che risultano sgranate e non stampabili. Per questo non me la sento di affidare gli scatti a me più cari al “cloud”, a chiavette o a dischi rigidi, rischiando di perdere intere generazioni di foto.

In Blade Runner (quello del 1982) i replicanti avevano ricordi di altri fissati in fotografie. Conservavano quei supporti fisici come simulacri, perché rappresentavano il legame con un passato, con una storia personale che, anche se non era la loro, dava in qualche modo un valore alla loro stessa esistenza: la coscienza di sé passa attraverso un processo di osservazione dell’altro.

Oggi le nostre piccole storie non sono quasi mai documentate fisicamente, ma solo digitalmente, con algoritmi che tra qualche anno non saranno più interpretabili. Come i replicanti, anche noi saremo senza una storia e senza un passato. Faremo nostre le fotografie e le storie di altri?

La mia non è nostalgia per un retaggio del passato, ma la constatazione che stiamo affidando la memoria visiva a macchine che invecchiano più velocemente del prodotto che creano.  Se l’intento è l’oblio, siamo sulla buona strada, ma se volessimo preservare almeno una parte dei ricordi, sarà necessario dar loro una concretezza fisica. Il software non basta, è necessario l’hardware.

Quando la foto racconta?

La fotografia ha sempre due protagonisti, non uno: c’è il soggetto fotografato, che sia un volto, un paesaggio o un oggetto, e c’è chi sta dietro la macchina fotografica, e vuol dare all’immagine un senso e spera che quel senso rimanga impresso nel risultato finale.

Per prima cosa quindi chi fotografa deve scegliere di “vedere”: decidere cioè cosa inquadrare nell’obiettivo. Deve individuare un soggetto e scegliere da quale angolazione, in quale prospettiva coglierlo. Può farlo sulla scorta di un progetto, di un’idea che ha in mente, oppure l’idea può essergli suggerita direttamente da qualcosa che attrae il suo occhio e la sua attenzione. Così facendo già ha in mente, sia pure a volte in maniera confusa, cosa e come vuole fotografare. Questa consapevolezza è in genere ciò che fa la differenza fra uno scatto insignificante ed uno che resta nel tempo. Tutto lì.

A volte però il progetto nasce a posteriori, a cose già fatte, davanti a foto che accostate sembrano suggerire un percorso. In questo caso a valere è la capacità di cogliere la suggestione evocata da certe immagini: questa rappresenta lo spartiacque tra il mettere assieme una mera accozzaglia di scatti – per lo più selfie narcisisti – e il raccontare una piccola storia.

Il risultato “tecnico” della foto può dare certamente soddisfazione, ma ai fini della “narrazione” a volte è poco rilevante. Una fotografia è riconosciuta come “artistica” non per la perfezione degli aspetti formali, ma in relazione alla sua attualità sociale: non conosco esempi di foto che, per quanto belle, siano state avvalorate come “opere d’arte” anni dopo la loro realizzazione. Forse c’è solo il caso di Vivian Maier, ma credo ci sia dietro una grossa operazione di mercato. È difficile che possa accadere ciò che è invece avvenuto per molti pittori, come Van Gogh, che sono entrati nel pantheon degli artisti riconosciuti solamente anni dopo l’effettiva realizzazione dei quadri, addirittura dopo la morte. La fotografia è forse l’unica espressione artistica strettamente connessa al momento dello scatto, alla realtà che documenta e alle attrezzature per realizzarla.

Il supporto digitale ci sta però disabituando alla fatica di attribuire senso alle cose, nello specifico alle foto che realizziamo. Non siamo più abituati ad attendere, o creare, l’occasione per lo scatto; stiamo perdendo la capacità di scegliere tra le centinaia di scatti quelli davvero significativi da mandare in stampa.

Questo perché in una frazione di secondo possiamo scattare una raffica di foto. Ho usato il termine “raffica”, ed è ciò che facciamo: spariamo fotografie non con un archibugio ad avancarica (quindi facendo attenzione a non sprecare colpi) come faceva mio padre con la sua macchina analogica, ma con un revolver automatico, senza riflettere su ciò che inquadriamo. Fatta una foto, o meglio una serie, si passa a quelle successive, senza soffermarci su quale senso abbiamo dato alle immagini scattate.

È opportuno interrogarci anche sul tipo di immagini che immagazziniamo come ricordi della nostra vita. Siamo nell’epoca del sorriso: se inquadrati da un congegno fotografico (reflex, smarthphone o altro), tutti sorridono, scordando che quel ghigno quasi mai autentico è destinato a rimanere così congelato per l’eternità. La modernità è destinata a essere ricordata sempre sorridente? I greci e i romani avranno riso pure loro, ma le testimonianze iconiche che sono arrivate fino a noi, per lo più, non li rappresentano così. Ve li immaginate i bronzi di Riace immortalati mentre sorridenti si fanno un selfie?

Quale condivisione è sincera?

Sembra che ogni evento, o l’esistenza stessa, siano accreditati come reali solamente quando risultano fissati in immagini o in parole scritte, e questa raffigurazione deve essere anche condivisa con altri, altrimenti semplicemente il fatto non avviene o la persona non esiste. Per confermare una circostanza è imprescindibile comunicarla, anche se ai destinanti non dovrebbe importare molto di un fenomeno strettamente personale quali sono, nella fattispecie, le fotografie familiari.

Invece sono in moltissimi coloro che pubblicano su Facebook o altri social le foto di feste di compleanno, le pietanze che stanno per essere divorate, i volti dei figli o i musi di cani e gatti. In realtà non “raccontano” nulla, ma anche quel nulla ha da essere avvalorato attraverso la visione, l’approvazione e la condivisione di persone che stanno per lo più al di fuori della cerchia familiare. L’immagine deve ricevere dei “like” per soddisfare il nostro bisogno di lasciar traccia, al di là del senso che ha: non importa ciò che dico e sono, solo che per un attimo si sappia che esisto.

L’etimologia della parola “condividere” indica una propensione a “spartire, dividere insieme con altri” un bene proprio. E allora quella parola va cancellata dal dizionario del web. Quali “beni” si condividono, quando si documenta ogni stupidaggine? E qual è il confine di “altri”: la famiglia, gli amici, la popolazione terrestre? L’opportunità di far visionare immagini private a perfetti sconosciuti è addirittura un controsenso, quando non si traduce in un rischio. Non può essere una soluzione sperare che la sovrabbondanza di immagini crei alla lunga assuefazione, disinteresse o addirittura rigetto. È opportuno chiederci per tempo se è davvero questo che vogliamo.

Condividere significa anche dividere: ma cosa si fraziona con gli altri, che cosa sottraiamo a noi stessi? Susan Sontag scriveva in Sulla fotografia: “Una società capitalistica esige una cultura basata sulle immagini. Ha bisogno di fornire quantità enormi di svago per stimolare gli acquisti e anestetizzare le ferite di classe, di razza e di sesso. E ha bisogno di raccogliere quantità illimitate d’informazioni, per meglio sfruttare le risorse naturali, aumentare la produttività, mantenere l’ordine, fare la guerra e dar lavoro ai burocrati”. Ciò che condividiamo sono la nostra personalissima vita privata, i ricordi più intimi e le nostre convinzioni sociali e politiche. In pratica: siamo merce in mano a sciacalli.

Possibile che a nessuno venga da starnutire, nel vedere l’ennesima foto di un bambino sorridente?

Collezione di licheni bottone

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