Il re del mondo (Franco Battiato)

di) Vittorio Righini, 17 maggio 2025

E il mio maestro mi insegnò com’è difficile
trovare l’alba dentro l’imbrunire

Nella lontana estate del 1980, il 2 agosto, partii in auto con due cari amici di buon mattino da Acqui Terme, destinazione Brindisi, per imbarcarci sul traghetto che collegava la cittadina pugliese a Igoumenitsa e poi Corfù. Passammo inconsapevoli sulla tangenziale di Bologna più o meno alla stessa ora in cui scoppiò la bomba alla Stazione. Non ascoltavamo quasi mai la radio, preferivamo le musicassette registrate da noi, a quei tempi si usavano ancora le MC.

All’imbarco a Brindisi la gente ci parlò di quanto era successo. Lo sgomento fu tanto, anche se non avevamo capito la dimensione della strage, e le informazioni a caldo erano poco dettagliate.

Noi si partiva per una vacanza di un mese intero, con quattro lire in tasca e mille idee in testa, per cui non ci rendemmo veramente conto della gravità dell’accaduto fino al nostro ritorno in Italia.

Il mio amico Dracmo (lo chiamavamo così perché era il più dotato, dal punto di vista economico, oltre che proprietario della comoda Alfasud blu che ci scorrazzava a destra e a manca) aveva registrato molte MC e garantiva musica per tutto il mese. Sentimmo per la prima volta il lato A de L’era del Cinghiale Bianco, di Franco Battiato (da ora in avanti FB). Che belle canzoni!

(FB avrebbe definito questo album musica classica per poveri, e per me resta il punto più alto della sua carriera). Il problema era che Dracmo si era dimenticato di registrare, dall’ellepì originale, anche il lato B, il più bello, con in primis Il Re del Mondo, capolavoro assoluto, Stranizza d’Amuri, in dialetto siciliano, e la formidabile Pasqua Etiope, cantata come un requiem e imperlata dal migliore assolo di oboe abbia mai sentito (mi è ignoto il musicista; Fabio Zuffanti, autorevole autore di libri su FB, mi scrisse che era un Maestro di Conservatorio milanese, ma il nome non è certo; ci sono un oboe e un’arpa, entrambi non sono accreditati e resta la mia curiosità).

Noi continuammo a sentire solo la prima facciata, oltre alle MC di altri autori che, fortunatamente, Dracmo aveva registrato su entrambi i lati. Alla fine FB ci venne perfino un po’ a nausea, sempre i soliti quattro brani. Belli, però, molto belli, di quelli che ti ronzano in testa a lungo, ancora oggi quando li risento. La prima cosa che feci, al mio ritorno a casa, fu di recarmi nel solito negozio di vinili e comprarmi in LP L’era del Cinghiale Bianco, per scoprire il Lato B, ancora più bello forse per averlo tanto desiderato. Avrei strangolato Dracmo, a quel tempo, senza provare rimorso.

Esaurito il “nanetto” personale, mi accingo a scrivere di un musicista che non fu solo musicista, ma tante altre cose, e a scrivere dell’uomo, oltre che della sua musica.

FB nel 1979 lasciò (interruppe, o modificò, questo lo vedremo dopo) la musica di sperimentazione e l’elettronica, perché decise di voler piacere a tutto il pubblico, non solo a una parte di esso. Nacquero successi memorabili, canzoni pop anche, prima con Patriots poi soprattutto con La Voce del Padrone, che vendette oltre un milione di copie in Italia, il primo album di un autore italiano a raggiungere quel traguardo, al primo posto in classifica nell’estate del 1982.

Ma in quegli anni seguivo di più la musica straniera col prog, il pop, il rock, l’elettronica, la sperimentazione, il jazz, e le canzoni di Battiato mi suonavano un po’ troppo … canzonette.

Avevo recuperato i suoi primi album sperimentali ed elettronici come Sulle Corde di Aries, Fetus, Pollution, che mi erano graditi ma li ascoltavo con un certo colpevole ritardo, perché nei primi anni ‘80 c’erano molte cose interessanti ed evolute fuori dall’Italia. Eppure, FB nel 1978 si aggiudicò il Premio Stockhausen di musica contemporanea del Festival pianistico di Brescia e Bergamo, a dimostrazione del talento dimostrato nella sperimentazione.

Lo vidi poi dal vivo con un gruppo di eccellenti musicisti negli anni Novanta, e fu un bellissimo concerto, e altre volte ancora, anni dopo, sempre accompagnato da gruppi musicali.

Non posso dire la stessa cosa invece di una serata in un teatro ad Alessandria, credo nel 2004. Cantava accompagnato da un quartetto d’archi; era seduto su una cassapanca sulla quale era steso un tappeto (persiano, suppongo). Sembrava di leggere una Selezione del Reader’s Digest: una marea di brani tutti intorno ai 2 minuti, accennati e via; dopo mezz’ora così, arrivati al Re del Mondo, (durata originale 5’33”), qui condensato in un paio di minuti, me ne sono andato incazzato in mezzo a una platea estasiata che intonava in coro i motivi delle sue canzoni, neanche fossero “sorcini” a un concerto di Renato Zero. Nessuno è perfetto.

Quello che non immaginavo e che ho scoperto dopo è che la sua musica, ad anni di distanza, mi avrebbe affascinato, compresa quella all’apparenza facile e commerciale. Lo compresi soprattutto dopo la sua morte, che avvenne nella primavera del 2021, nella sua Villa Grazia (o anche casa Battiato), a Milo (CT), alle pendici del Mongibello, l’Etna insomma. Molti anni addietro Vincenzo Mollica, noto critico musicale, gli aveva chiesto cosa avrebbe voluto lasciare di sé ai posteri, e lui rispose “un suono”. Io aggiungo anche il suo tono di voce, unico, inimitabile.

FB era nato nella primavera del 1945 a Giarre e Riposto (CT), dall’antico nome di Ionia, poco distante da Milo. Nato Francesco, tramutò il suo nome in Franco nel 1967, su suggerimento dell’amico e mentore Giorgio Gaber. La storia dice che Gaber e Caterina Caselli dovevano presentare lui e Francesco Guccini al pubblico italiano nel programma televisivo Diamoci del Tu, e per non fare confusione nei nomi, accorciarono quello del giovane siciliano.

La sua morte, incidentalmente, ha risvegliato in me la curiosità su molti suoi lavori che non avevo mai ascoltato prima, e così ho cominciato a raccogliere i CD che mi mancavano, oltre a rispolverare i vecchi vinili già in mio possesso. All’inizio con un po’ di scetticismo, io, testardo musicofilo xenofilo, poi però sempre più convinto. Non sto certo qui a scrivere cosa mi piace di più e cosa di meno, quelli sono gusti, ma, ripeto, provo a raccontarvi l’uomo.

Aveva un grande rispetto per gli altri; era inclusivo, accettava tutto e tutti; e se si lamentava di qualcosa o di qualcuno, era solo per una questione di gusto personale. Non litigava con nessuno, e nessuno litigava con lui. Ogni scambio di pareri, soprattutto in ambito lavorativo, procedeva sempre nel dialogo, e generalmente finiva a tavola. Al tempo stesso raccontano, intorno a lui, che se dicevi qualcosa che lui culturalmente non condivideva, te lo smontava ed era difficile contraddirlo, perché in genere aveva ragione. E sul palco esigeva il massimo della professionalità.

Non aveva enorme interesse per il denaro, ma se ne aveva bisogno si dava da fare; quando vide, prima de L’era del Cinghiale Bianco, che di Fetus e Pollution non si campava, decise (dichiarandolo apertamente) che era giunto il momento di fare canzoni che accontentassero il pubblico, e al tempo stesso rendessero qualcosa (oltre un milione di copie vendute di La Voce del Padrone).

Inoltre, più volte dichiarò di non allontanarsi troppo dal suo periodo elettronico-sperimentale, ma a fare la differenza dai primi album fu l’utilizzo di una costante sezione ritmica che rese più fruibile al pubblico il tessuto sonoro. Da ascoltatore quale sono, non posso che plaudire questo concetto.

Lavorava, senza problemi, ma all’ora del pranzo o della cena non voleva sentire ragioni: a tavola, da solo o in trenta, purché si mangiasse bene; era uno dei suoi piccoli piaceri nella vita. In una bella intervista, Gavin Harrison, (attuale co-batterista nei King Crimson) dice che si ritrovò in uno studio di Parigi per registrare L’imboscata, e chiese a FB come doveva affrontare un determinato brano. Lui gli rispose: suona con tono violento, e lui così fece. Quando finì il brano cercò FB per chiedergli cosa ne pensava di quella interpretazione, ma lui non c’era, era andato a pranzo. Allora Harrison chiese al tecnico del suono: ma per quanto tempo ha ascoltato la mia interpretazione? mah, rispose l’altro, forse dieci secondi. Harrison si rese conto che FB ormai lo conosceva da anni e si fidava, così lo raggiunse a pranzo e si fecero quattro risate.

Non rifiutava mai un saluto, una stretta di mano, una risposta gentile; ha concesso moltissime interviste, fortunatamente, che ci consentono oggi di conoscere meglio il personaggio.

Assorbiva l’influenza araba nella sua cultura di matrice sicula; studiò approfonditamente l’arabo, cantando anche brani in quella lingua; fece un concerto a Baghdad, poi a Tunisi e in Libano; si fece influenzare dalle sonorità medio orientali e ne trasse i migliori benefici per i suoi album.

Era un poliglotta: cantava appunto in arabo, in spagnolo, inglese, tedesco, anche per onorare gli ospiti ai suoi concerti all’estero. E in siciliano, ovviamente. E sono sempre stato incantato dal tono della sua voce. Racconta un amico di FB in una intervista un dettaglio che adoro: la madre dell’amico, sicula, diceva della voce di FB: “canta calmo, sodato”, e sodato in siciliano significa sereno. Quel tono, che proviene da dentro, e fa vibrare il senso delle parole.

All’inizio degli anni ‘90 in lui subentrò l’interesse per la pittura. La sua produzione è di circa 80 dipinti, con tecnica ad olio, prevalentemente. E ha utilizzato tre sue opere per le copertine di Fleurs, Ferro Battuto e Come un cammello su una grondaia, oltre a illustrare il libretto dell’opera Gilgamesh. I suoi primi quadri sono firmati con lo pseudonimo di Suphan Barzani, e ha esposto in varie mostre in Italia e in Svezia. Oggi i suoi quadri sono introvabili, ma, per fare un esempio, una litografia numerata in 100 esemplari l’ho trovata in vendita a oltre 2500 euro sul web. Nella pittura FB praticava una forma di autoanalisi: essendosi convinto di non essere in grado di dipingere, voleva capire il perché di questa inadeguatezza e l’unico modo era provarci con la massima dedizione fino ad ottenere un risultato decoroso. Una forma di pittura che sa di antico, lontano dai canoni moderni, e, specialmente nella forma dei visi ritratti, a mio modesto parere, con caratteristiche della pittura iconica ortodossa. E questi ritratti erano una introspezione dell’anima, seguendo i prìncipi della fisiognomica: analizzare nei volti l’anima del personaggio.

FB, insieme al vecchio amico (dai tempi della leva militare a Udine) Juri Camisasca e a Saro Consetino, giovane musicista, si recarono al Monte Athos, e dopo molte difficoltà e privazioni (di tipo alimentare), furono accolti nel Monastero di Simonos Petras e restarono estasiati alla visione delle rarissime icone così come dall’atmosfera spirituale del luogo (e da buoni pasti, finalmente).

In seguito ritornò al Monte Athos, lui, definito uomo sedentario ma con la valigia sempre pronta.

Associo in qualcosa il suo pensiero a quello di Brian Eno, uno dei miei autori preferiti: entrambi, pur piangendo un’era in cui c’è troppa omologazione e globalizzazione non sempre positiva in ogni forma di cultura, riconoscono l’utilità dei mezzi tecnologici, che aprono a infiniti nuovi mondi musicali spesso inesplorati. (Soprattutto nel campo dei sintetizzatori elettronici, perché sia Eno che FB provavano le novità non appena messe in commercio, ed entrambi erano in grado di padroneggiarle con abilità in poco tempo, creando suoni innovativi).

Estraeva il meglio da chi collaborava con lui: Alice, ad esempio, con la quale lavorerà per molti anni, e per la quale nutriva una profonda amicizia. Le concesse di pubblicare, tra gli altri, Gioielli Rubati, un album in studio con solo brani di FB splendidamente reinterpretati dalla raffinata e mistica voce della cantante. E si incontrarono spesso ai concerti, dove Alice veniva spesso invitata sul palco a proporre un cammeo con l’artista siciliano.

La canzone Un’estate al Mare, scritta da FB e Giusto Pio, lancia la straordinaria voce di Giuni Russo nella top ten italiana, dove resta ben tre mesi; una canzone semplice, ma interpretata in modo magistrale, e non sarà l’ultima per la cantante siciliana prematuramente scomparsa. La capacità incredibile della voce della Russo permetteva interpretazioni straordinarie, quasi da trifonie dei mongoli; basta ricordare Lettera al Governatore della Libia con FB.

Altra bella collaborazione con Anthony Hegarty (conosciuta soprattutto per il gruppo Anthony & the Johnsons), con la quale si esibisce dal vivo, rispolverando l’elettronica e rivisitando alcune canzoni, con un mix davvero originale dal quale poi nasce il bellissimo Del suo veloce volo.

In passato c’erano stati Milva, Giorgio Gaber, Juri Camisasca, Morgan, Lino Capra Vaccina, Carlo Guaitoli, Angelo Privitera, Il Nuovo Quartetto Italiano e altri ancora a condividere il genio di FB.

A proposito di Milva, uno degli aneddoti più belli è il seguente: FB stava curando la produzione dell’ultimo disco della “Pantera di Goro”; il tecnico del suono, Patrizio, la chiamò al telefono per invitarla a venire in studio. Al che lei non riconobbe la voce e rispose: Non conosco nessun Patrizio. FB disse, ridendo: perfetto, abbiamo il titolo del nuovo album di Milva!

Frequentava personaggi interessanti, come Manlio Sgalambro, filosofo, scrittore e poeta che per più di quindici anni collaborò ai testi delle sue canzoni. Giusto Pio, violinista, arrangiatore, direttore d’orchestra, che compose più di cento brani anche lui in un ventennio di collaborazione con FB, e altri ancora, tra cui il grande pianista Antonio Ballista. E vanno ricordati i tanti amici, tra i quali Roberto Calasso, la moglie Fleur Jaeggy, Elisabetta Sgarbi, Enrico Ghezzi, Luca Volpatti.

Al tempo stesso, nonostante tutte le conoscenze e frequentazioni, FB non era mai allineato.

Era distante dai musicisti dell’epoca, e questo suo essere diverso lo allontanava da chi con la musica faceva ideologia. Nel suo mondo, personalissimo, era riuscito ad evadere da tutti i cliché che avvolgevano la canzone. I suoi testi, circondati dall’ironia, parlano di tutto ma poco dell’amore tradizionale, poco di politica, eppure sapeva dare del “rincoglioniti” ai governanti del nostro tempo, senza distinguo e a ragione. Gli album Povera Patria e Inneres Auge, ad esempio, riflettono in alcune canzoni la sua assoluta libertà di pensiero ed espressione non politicizzata.

Ha vissuto il periodo della contestazione giovanile con un certo distacco, non accettava certe forme di inutile violenza dirette verso l’arte, verso la cultura. Diceva “preferisco il ‘68 al ‘69”, come Ionesco, che quando si sporgeva alle finestre di Parigi nei giorni dei cortei, gridava “finirete tutti notai”. Quando inizia la forma organizzata della contestazione politica, FB si tira fuori e si schiera dalla parte dell’arte. Significativa la sua frase “E poi, quando sono nella mia veranda, cosa mi frega della politica?”. Potrà suonare banale, ma solo a chi non ha capito.

Va ricordato che FB ebbe, malauguratamente, una negativa esperienza politica come Assessore al Turismo, Sport e Spettacolo dal novembre 2012 al marzo 2013 per la Regione Sicilia, sotto la supervisione di Rosario Crocetta. Fin da subito rifiutò ogni compenso, lui voleva solo fare qualcosa per la Sicilia, ma questo passo falso durò pochi mesi prima di allontanarsi definitivamente da un’ambiente che non gli competeva, e verso il quale disse “i 5 mesi più inutili della mia vita”.

Riveriva la musica sacra: la sua Messa Arcaica, incisa su disco, ma anche filmata nella Basilica Patriarcale di Assisi nel 1993, diretta da Antonio Ballista, e che si può vedere ed ascoltare gratuitamente sul web, rende l’idea del suo rispetto verso i culti, il rispetto del sacro, e le influenze assorbite dalla conoscenza delle varie religioni. Eppure non aveva un credo dichiaratamente orientato. Si considerava aconfessionale nel non voler essere cattolico, buddista o induista. Ma credente, e il Divino aleggiava sempre nella sua musica e nei suoi testi.

Anche nella lirica si distinse: opere come Il Cavaliere dell’Intelletto, poi La Genesi, con l’Orchestra Sinfonica “Arturo Toscanini” e il Coro del Teatro Regio di Parma. Il Gilgamesh, in due atti e per ultima Il Telesio, dedicata al filosofo e naturalista del XVI sec. Bernardino Telesio. La rappresentazione sul palco di questa ultima opera è in forma oleografica tridimensionale, senza attori reali, veramente sperimentale.

Era un uomo ricco di umorismo, cresciuto nei vicoli della periferia Catanese ed abituato al lazzo e allo sberleffo popolare; era pervaso di una umanità che possiede solo chi ha vissuto insieme agli altri, lontano dallo sfarzo e dalle ricchezze, nella condivisione, nell’inclusione. Sdrammatizzava ogni tensione, ogni momento di rabbia nel suo lavoro con i tecnici del suono, i musicisti, i colleghi, sempre con un sorriso, spesso con una barzelletta e una parola buona. Lo dimostrò a lungo a Milano, quando arrivò nel 1965 senza soldi ma pieno di idee. E ha sempre rispettato Milano per quello che gli ha dato, quando più ne aveva bisogno: idee, ispirazione, contatti.

A tal proposito, bello il dialogo e il rapporto con Fiorello: il conduttore radio–televisivo lo imitava spesso, e FB si rotolava dalle risate, tra i due siciliani c’era complicità e intelligente ironia.

Formidabile, dopo tante imitazioni, una intervista reale tra i due in cui si sente FB rispondere con identica ironia a quel folletto di Fiorello. La si trova sul web e vale davvero la pena sentirla.

Quante immagini ci presenta, che, siamo sinceri, non avevamo mai sentito cantare prima: la paura sulla strada di campagna di schiacciare una lucertola, lo stupore della prima goccia bianca, strano come il rombo degli aerei da caccia un tempo stonasse con le piante al sole sui balconi, e cento altre immagini simili.

Come paragonare i testi di FB a quelli di altri cantanti a lui contemporanei che parlavano solo di amore o politica? Infatti non era schierato, non amava i cantautori politicizzati. In una intervista, dichiarò che non considerava utile la canzone politica, perché semplificare certi temi non aiuta la crescita; la rabbia che deriva dall’ascolto di certe canzoni distoglie da quello che è l’obiettivo principale, che può essere fare arte o semplici canzoni da intrattenimento.

«FB è il più grande, è il musicista che stimo di più. Siamo diversi, ma in questa diversità lui mi assomiglia più di ogni altro artista italiano: è “crossover” a 360 gradi, attraversa i territori musicali più lontani con grande intelligenza e restando sempre se stesso. Per essere coerenti in musica bisogna fare proprio così: smentire sempre se stessi, non avere paura di avventurarsi dove non si è mai stati, dove ci si sente malfermi, dove le proprie certezze crollano».

Lucio Dalla, un altro grandissimo e amatissimo autore italiano, afferma sopra la sua stima per FB in questa breve riflessione. Tra i due grandi della musica italiana l’affetto era sincero e motivato, e Dalla aveva una casa a pochi passi da quella di Battiato, così i contatti erano frequenti.

Interessanti anche i tour degli ultimi anni che coinvolgevano la Royal Philarmonic Orchestra di Londra; musicisti superbi, missaggi perfetti, accostamenti tra archi e sinth che solo FB poteva amalgamare in modo eccelso. Le collaborazioni con musicisti stranieri erano selezionatissime: il già citato Gavin Harrison, Jakko Jakszic, John Giblin, David Rhodes, Simon Tong e altri ancora ne certificano il livello. Così come, dall’anno 2000 in poi, la scelta di registrare in studi diversi, in città diverse. Lui lo motivava col fatto che si sentiva ispirato in modo diverso, assorbiva gli umori di Parigi o Londra e li metteva nella sua musica. I suoi tecnici invece erano contenti perché nel solito studio italiano era un via vai di amici, invitati o autoinvitati, con ricchi cabaret di paste e bignè alle quali FB non sapeva mai dire di no, e che “rubavano” un sacco di tempo al lavoro.

Una delle caratteristiche che prediligo dell’autore è la sua originalità musicale: non c’è nessuno, in Italia e all’estero, che gli somigli nel mondo della canzone; ma è senz’altro di ispirazione per tanti.

Fu autore di numerosi libri, non necessariamente musicali, ma che affrontano soprattutto le domande sui misteri della vita e sulla religione. Non sono libri di facile lettura, ma tra questi ricordo: In fondo sono contento di aver fatto la mia conoscenza, libro abbinato al film Niente è come sembra, in cui si parla del mistero dell’esistenza, e del rapporto tra atei e credenti, e si parla di cinema. Produsse nel 2003 il suo primo film, dal titolo Perduto Amor, che ha caratteristiche autobiografiche ed ottenne un decorosissimo successo. Un secondo film è del 2005, Musikanten, un film particolare, imperniato sulla figura di Beethoven. So poco di questi lavori, e non sono un conoscitore del cinema come lo sono invece della musica moderna, ma Perduto Amor fu molto apprezzato anche da un critico esigente come Enrico Ghezzi, e Musikanten vide la straordinaria interpretazione di Jodorowsky nella parte di Beethoven.

Degno di nota il docufilm La sua figura, dedicato a Giuni Russo del 2007, scomparsa prematuramente nel 2004 a 53 anni, con filmati di concerti ed interviste inedite. Importante anche Auguri Don Gesualdo del 2010, sulla figura dello scrittore siciliano Gesualdo Bufalino.

Alcuni sostengono che la famosa canzone La Cura sia dedicata a lui.

Realizzato da altri ma incentrato sulla figura di FB il docufilm Temporary Road – (una) Vita di Franco Battiato, del 2013 diretto da Giuseppe Pollicelli e Mario Tani. Si tratta di una raccolta di interviste e filmati, anche dietro le quinte dei concerti, che permettono di analizzare la carriera di FB e i legami con la sua ricerca interiore.

Vanno ricordati anche due lavori teatrali: Baby Sitter del 1977, una interpretazione ironica e provocatoria di un certo underground del tempo, e Gli Schopenauer, opera poco conosciuta. Una “piece teatrale sul pessimismo, cioè una contraddizione”, come la definì Manlio Sgalambro.

Tornando ai libri, vanno ricordati Il silenzio e l’ascolto, poi Conversazioni con Panikkar, Jodorowsky, Mandel e Rocchi, poi Attraversando il bardo e infine Lo stato intermedio.

Statua in bronzo di Dalla e Battiato a Milo (CT).

FB ha assorbito l’influenza di Gurdjeff sul suo essere, ma prima aveva già imparato a meditare; la sua conoscenza delle culture orientali gli permetteva di sentire necessaria, ogni giorno, una breve o lunga pausa di meditazione, per raccogliere il pensiero, per calmare l’animo, per riprendere più ispirato. Era un’abitudine che praticava da decenni, in genere nel tardo pomeriggio, e nessuno gliela avrebbe tolta fino alla fine dei suoi giorni. Penso fosse un tipo di meditazione personale, sviluppata col tempo e l’esperienza, e adattata al proprio respiro. Certo, il Sufismo gli era di grande ispirazione; all’interno della religione islamica, è una forma mistica la quale, attraverso l’ascetismo, la contemplazione e la meditazione, rende il credo religioso più profondo e intimo, e non limitato, come in molti casi dell’Islam moderno, al semplice e pedissequo rispetto delle leggi coraniche. In sostanza, il Sufismo potrebbe essere un antidoto contro l’integralismo, e penso che ce ne sarebbe bisogno ai nostri tempi.

La famosa canzone I Treni di Tozeur abbraccia il Sufismo; Tozeur è la prima vecchia oasi in Tunisia, dove il Sufismo era nato e aveva proliferato. Il pensiero di Gurdjeff, che non è poi così lontano dal Sufismo, si adatta all’Occidente, e FB lo fa immediatamente suo.

Un vecchio detto in campo musicale (e non solo) è: “don’t meet your heroes”; a volte, un musicista, un attore, uno scrittore idolatrato, quando lo si incontra finalmente di persona lascia a desiderare, delude caratterialmente. Gente strana, piena di sé o chiusa in se stessa, problematica in alcuni casi; oppure si tratta di una situazione inopportuna, e il nostro eroe è insofferente.

L’ho provato di persona con un musicista inglese da me idolatrato, una grande delusione, ma FB lo avrei incontrato davvero molto volentieri, e ne avrei sicuramente tratto beneficio.

Ci furono occasioni in cui si presentò l’improvvisazione, e non si ritrasse. Ad esempio, nella basilica di Monreale, con il suo bellissimo organo. Un enorme organo a più piani con le sue altissime canne che si perdono in alto tra le volte barocche e i marmi lucenti. Ma nessuno poteva toccare lo strumento, era vietatissimo dalla Curia. Allora, con la faccia di bronzo che FB sapeva tirar fuori al momento opportuno e la collaborazione di un amico fedele, si presentò al custode in veste di musicista americano espatriato dalla Sicilia da tempo. Usando un improbabile accento ameri-siculo, scongiurò il guardiano di fargli provare l’organo. Si accordarono per il pomeriggio successivo di una caldissima estate Palermitana. FB e l’amico portarono un tecnico, con un registratore Revoxa bobine, ma il giorno dopo, nella calura del primo pomeriggio, dopo solo venti minuti di sconvolgimento di tasti e canne urlanti, svegliarono un qualche prelato o vescovo sonnecchiante, che intimò al custode di far cessare lo scempio. Ad onore di Franco, a infamia del prelato. L’avessero lasciato fare, oggi avremmo interamente quel nastro.

Una delle sue canzoni più belle, e più famose, è certamente La Cura; questo brano nasce come un singolo, e poi viene inserito nell’album L’Imboscata del 1996, ripetutamente eseguito sul palco e nelle successive incisioni dal vivo. Scritta con Manlio Sgalambro, viene definita la più bella canzone d’amore degli ultimi anni ma, a mio parere (e non solo mio), l’amore descritto non è certo quello tradizionale. Ad ascoltare con attenzione, il testo sembra dedicato allo stesso musicista, perché ciò di cui ci si “cura” nel testo, è ciò di più gradito a FB. Ognuno è libero di dare a questa bella canzone (ma non la più bella di FB) l’interpretazione che preferisce.

Verso la fine della sua carriera, si dedicò a un piacere personale, un vecchio desiderio: cantare le canzoni di altri autori a lui gradite, in modo personale. Nacquero così i tre album Fleurs, in cui FB porge, col suo elegante modo e tono, un omaggio agli autori da lui cantati. Non sono lavori da me particolarmente amati, preferisco ascoltare i brani creati da lui, ma sono solo gusti.

Nel 2013 concluse il suo più grande progetto cinematografico, un film su Händel, che riteneva immenso musicista e libero genio, dal titolo Händel. Viaggio nel regno del ritorno. Un kolossal, già pronto e con un cast prestigioso. Come da sue abitudini, prima di realizzarne la regia studiò 3 anni la musica di Händel, leggendo 94 libri sul musicista. Il film non è mai uscito, nessuna casa cinematografica ha accettato la sfida, e questo per FB è rimasto il sogno nel cassetto.

Juri Camisasca, forse l’amicizia spirituale occidentale più intensa nella vita di FB (Camisasca fu musicista, poi per otto anni monaco benedettino poi di nuovo musicista), in una bellissima intervista, racconta che a suo parere negli ultimi anni l’amico si era avvicinato all’orizzonte culturale della Chiesa cattolica, ma solo nella sua essenza mistica. Aveva a lungo seguito e amato la cultura tibetana e l’aveva apprezzata nella sua forma così differente, frequentando monaci tibetani in Toscana, viaggiando in India, Nepal e Tibet, fino ad arrivare all’incontro col Dalai Lama.

Ma negli ultimi tempi non era più, come in passato, un convinto aconfessionale, un sincretista, un areligioso, ma approcciava al mondo dello spirito secondo i canoni dell’apofatismo. Non parlava mai di Dio perché il mondo dello spirito, il mondo divino non si può esprimere a parole. E il significato della parola “mistico”, da lui molto amata, spiegava il concetto: mistykos in greco significa misterioso, e deriva damyein che significa tacere.

Inoltre, FB fin da giovane ha molto meditato sul tema della morte, vista come una nuova apertura a possibilità infinite nel mondo dello Spirito, ci si è preparato a lungo e non l’ha mai temuta come un pericolo, ma come una nuova forma di creatività. E ha descritto questi concetti in un docufilm dal titolo Attraversando il Bardo. Sguardi sull’Aldilà.

E come tacere la grande passione di FB per i libri, come tutti noi. Al punto, nel 1985, di accettare la proposta di Henry Thomasson (allievo di Gurdjeff, e in seguito maestro di quell’insegnamento) e Francesco Messina (fotografo, grafico e musicista) di collaborare per provare a introdurre in Italia libri importanti. È cosa nota che alcuni capolavori sono arrivati in lingua italiana con secoli di ritardo (su tutti Siddhartha, scritto nel 1922 e pubblicato in Italia per la prima volta nel 1975 da Adelphi). I tre idearono la casa editrice L’Ottava, distribuita da Longanesi, cominciando con due titoli mai tradotti di Gurdjeff, poi altri 12 titoli rari. Non erano libri per tutti, e non erano destinati a tutti, ma colmavano delle lacune editoriali importanti nel panorama italiano.

Infine la Sicilia. Era il suo embrione. Lui ringraziava Milano, per quello che aveva imparato, per quello che negli anni giovanili gli aveva dato. E rispettava tutti i luoghi in cui era stato, a cantare o studiare, per tutti aveva un commento gentile. Ma negli ultimi anni era tornato ad abbeverarsi alla fonte. Il clima di Milo, la vista sul Mongibello e sul mare in lontananza, le antiche abitudini, la mitezza del clima pedemontano e la vicinanza di una città Mediterranea, di lontanissima influenza orientale. La cucina di casa. La veranda in giardino. Le lucertole che attraversano la strada …

Insomma, questo uomo che cominciò con le canzonette, poi passò all’elettronica, poi tornò alle canzoni elaborate, alla musica sacra, alla Lirica, e poi ancora alle canzoni, il cinema, i libri, ha operato un mare di cambiamenti dettati dal desiderio di innovazione, personale e musicale, sempre ricco di geniali illuminazioni e destinato a durare nel tempo.

Alla fine di queste quattro semplici righe, posso dire che, grazie a Francesco, detto Franco, qualche volta anche io ho trovato l’alba dentro l’imbrunire, e di questo gli sono immensamente grato.

Minima bibliografia suggerita

Per un primo approdo, Franco Battiato. Camminando con le aquile – David Nieri. Un libro semplice e breve ma che permette di avere una prima apprezzabile visione.

Anche il valido omaggio che la rivista a fumetti Linus del suo amico Igort fece a FB nell’estate del 2021 con un numero speciale è meritevole di attenzione, soprattutto per una bella intervista (sebbene interrotta e mai completata) che il musicista rilasciò a Elisabetta Sgarbi nel 2012.

Per un’analisi profonda, anche fotografica, attraverso le interviste a colleghi, collaboratori e amici, L’alba dentro l’imbrunire – a cura di Francesco Messina e Stefano Senardi. È il lavoro più completo e esaustivo si possa leggere, perché è proprio grazie a chi ha conosciuto, vissuto, collaborato e gioito e scherzato con Franco che si ricavano le informazioni più vere del grande autore siciliano.

Per la discografia, Franco Battiato: Tutti i dischi e tutte le canzoni, dal 1965 al 2019 – Fabio Zuffanti. Questa è una enciclopedica descrizione di tutta la produzione di FB, utile – anche – ai completisti.

Discografia suggerita

La vastità e la varietà della produzione di FB rende problematico stendere questa lista. Proverò a indicare le mie preferenze, per quel che valgono, tacendo molti altri lavori di mio gradimento.

Il periodo iniziale, elettronica e sperimentazione:
–     Fetus – 1972
–     Pollution – 1973

Periodo dal1979 alla fine degli anni ‘80:
–     L’era del Cinghiale Bianco – 1979
–     La Voce del Padrone – 1981
–     Orizzonti Perduti – 1983
–     Mondi Lontanissimi – 1985
–     Fisiognomica – 1988

Dagli anni ‘90 ad oggi:
–     Come un Cammello in una Grondaia – 1991
–     Caffè de la Paix – 1993
–     L’Imboscata – 1996
–     Ferro Battuto – 2001
–     Il Vuoto – 2007
–     Inneres Auge – 2009
–     Joe Patti Experimental Group – 2014

Dal vivo e raccolte:
–     Giubbe Rosse – 1989
–     Del Suo Veloce Volo – 2014
–     Anthology: Le Nostre Anime – 3 CD – 2015

Opere:
–     Gilgamesh – 1992
–     Messa Arcaica – 1994

Alzek Misheff e il compito di Enea

Come se fosse

di Paolo Repetto, 22 maggio 2020

Chi scrive su questo sito (anche chi – come il sottoscritto – scrive decisamente troppo, soprattutto in questi ultimi tempi: tra gli effetti collaterali del Covid-19 va annoverata anche la logorrea) non lo fa per potersi rileggere ogni tanto e congratularsi con se stesso. Il sito non è la vetrina delle nostre vanità o la palestra delle nostre velleità. Se così fosse, avremmo ceffato di gran lunga la ribalta (se preferite, la “location”). È invece, o almeno vorremmo che fosse, l’agorà virtuale nella quale sperimentare e testimoniare la possibilità di incontri e relazioni e scambi spontanei e intelligenti: il luogo insomma di quel famoso “come se” che ciascuno interpreta un po’ a suo modo, ma che in sostanza è la società, o la comunità, nella quale ci piacerebbe vivere. Il divertimento, è innegabile, sta già nel tentativo di immaginarla, questa società: se così non fosse, avremmo chiuso da un pezzo. Ma è più che naturale che a motivarci sia sempre stata anche la speranza di trovare degli interlocutori, qualcuno che leggendoci si senta a sua volta motivato a esprimersi, a concordare con le nostre idee o a discuterle, che è poi la stessa cosa, a proporre uno sguardo diverso sulle stesse cose o lo stesso sguardo su cose diverse: che ci induca comunque a riflettere e a non sederci sulle nostre convinzioni.
A tale speranza, lo ammettiamo, ha sempre fatto da contraltare il timore di una deriva scomposta, come quella paventata qui di seguito da Carlo Prosperi, dello scadimento nella chiacchera, o peggio, nella rissa becera che sembra l’inevitabile esito finale di tutti i blog. Per questo motivo, e anche per le difficoltà tecniche di controllare uno spazio totalmente aperto, non abbiamo fatto del sito un libero pascolo: e in questo modo siamo intenzionati a continuare a gestirlo. Ma, e questo è un altro effetto, in questo caso virtuoso, del virus, abbiamo potuto registrare, proprio nel periodo più nero della crisi e in mezzo alla chiacchera dilagante, voci nuove e intelligenti che ci hanno eletti come interlocutori. Continuiamo quindi a darvene conto, a proporle come esempi di quel dialogo franco e corretto che sta alla base di ogni civile convivenza e, non poniamoci limiti, di ogni vera amicizia. La speranza, a dispetto dei tempi, ha alzato il livello delle sue aspettative: quella attuale è che il dialogo continui e si allarghi a voci sempre nuove. La più recente è quella appunto di Carlo, che non ha bisogno di presentazioni: si presenta egregiamente da solo con questa sua missiva e con le penetranti riflessioni svolte a margine di una mostra orfana, per sua fortuna, di Sgarbi.


Stupirsi di tutto

di Carlo Prosperi, 27 aprile 2020

Carissimo, ho ricevuto quest’oggi il tuo graditissimo messaggio, con il ricco corredo dei tuoi scritti, sempre acuti e liberi (per quanto possano dirsi liberi i nostri punti di vista, sempre ancorati a un retroterra – esistenziale, culturale, sentimentale, ideale, ecc. – che, più o meno consciamente, li ispira – stavo per dire: li nutre – e li condiziona), piacevoli e quasi sempre interessanti. Io non sono un patito del web, anzi, per quel poco, pochissimo di esperienza che ne ho, lo trovo una sentina in cui si annidano i moderni spettri heideggeriani della “chiacchiera”, della “curiositas” e dell’“equivoco”. Preferisco frequentare i miei classici, i miei maestri. O gli amici che – come te – apprezzo per il loro spirito critico, non fazioso, non sentenzioso, non apodittico, bensì problematico, aperto al dubbio: che fanno pensare. Condivido molte, moltissime delle considerazioni che la lunga quarantena ti ha suggerito (in particolare, la risposta a Baricco, del quale non ho la tua stima, a cominciare dallo scrittore, che trovo melenso. Tu stesso, del resto, finisci per… demolirlo. Ciò detto, si può imparare da chiunque ed io, come Gramsci, – si licet -, mi vanto di saper “cavare il sangue anche dalle rape”). Qualcosa del genere ho fatto anch’io nella mia quotidiana corrispondenza con i miei amici (ma non ne serbo copia o memoria) o negli “appunti di lettura” che da un paio di anni – visto la fallacia della memoria – mi sono messo a tenere (cose molto personali: una specie di diario che prende spunto dai libri, dai saggi, dai romanzi e dalle poesie che leggo). So bene che Machiavelli, prima di “entrare nelle antique corti degli antiqui uomini”, si intratteneva e “s’ingaglioffava” all’osteria di San Casciano con quelli che lui definiva “pidocchi”: il web ne potrebbe essere un moderno surrogato, utile per saggiare e conoscere le diverse maniere e le diverse fantasie della fauna umana. Ma la vita è così breve che preferisco, oggi, evitare di perdere tempo con grafomani, mitomani ed esibizionisti di vario genere, con i loro turpiloqui e le loro sgangherate opinioni. Mi basta e, ahimè, mi avanza la mia biblioteca. Credimi: il mio non è elitario disprezzo; tanto più che le mie origini, di cui sono orgoglioso e di cui mai mi dimentico, sono più umili delle loro. Né, per quanto mi sia impegnato, presumo di averne capito – della vita, del mondo, della realtà – più di loro. Anzi, mi riconosco nell’auto-epitaffio di Xavier de Maistre, che ti cito: Ci gît, sous cette terre grise / Xavier, qui de tout s’étonnait; / demandant d’où venait la bise / et pourquoi Jupiter tonnait. / Il étudia maint grimoire, / il lut du matin jusqu’au soir / e but enfin à l’onde noir / tout surpris de ne rien savoir.* Che è poi saggezza socratica. Dai tuoi scritti, di cui spero, quando che sia, di avere da te un esemplare a stampa, mi vengono molti stimoli e mi sono sorpreso di avervi trovato citato Lawrence Durrell, di cui vado in questi giorni rileggendo il celebre “quartetto di Alessandria” (avevo comperato i libri al tempo del Liceo, ma non ne avevo allora apprezzato la genialità, forse non li avevo nemmeno capiti, a giudicare da qualche postilla a margine dell’epoca). È uno scrittore sontuoso e perspicace, di una finezza, psicologica e verbale, che oggi è merce rara. Leggere mi aiuta a vincere il senso di claustrofobia che a volte mi prende. Trovo assurde certe prescrizioni governative: mi dici, fermo restando l’invito a mantenere le distanze e magari a portare la mascherina in pubblico, che senso ha vietare di andare a passeggiare nei boschi, nei prati, a coltivare l’orticello fuori mano (nel nostro caso a Rivalta), a dare il verderame alle viti, a curare il giardino? Che senso ha la quotidiana imbonitura che ci propinano, ossessivamente, dalla tv? E la retorica arcobaleno, stupida e offensiva, di slogan come “Andrà tutto bene”, quando le morti di coronavirus si moltiplicano intorno a noi? “Andrà tutto a bagasce”, mi vien da rispondere. E la giornaliera minestra di menestrelli e di strimpellatori – questa è per loro la cultura – che ci dispensano? Per non parlare delle commissioni, dei comitati, delle “task-force” di tecnici e di esperti di cui si è circondato il governo per non assumersi le sue responsabilità e rimandare “sine die” o comunque prendere e centellinare senza la debita tempestività le proprie decisioni? Quanto agli esperti, mi sai dire donde viene la loro esperienza, se è vero – come è vero – che questa pandemia è un fenomeno inedito, mai prima sperimentato? Lo studiassero, in silenzio e con attenzione, prima di discettare su di esso, di cui tutto, o quasi, ignorano; prima di sparare stupidaggini come hanno fatto, tra i tanti, Stefano Montanari e Maria Rita Gismondo. E Colao? Sarà pur bravo, ma quali competenze ha sull’argomento? Non sarebbe il caso, visto l’andazzo dell’economia, di cominciare a risparmiare, invece di elargire propine a dubbi esperti? Qui poco c’entrano le competenze, molto il buon senso. Sulla tecnologia, da sempre ancipite, la penso come te; sulla scienza, che non ci dà certezze, ma procede per congetture e confutazioni, la penso come Popper. Condivido con te che sia una pia illusione quella di confidare in un miglioramento dell’umanità, in un cambiamento di mentalità e di stile quale esito di questa crisi: temo che, a parte l’impoverimento generale, non vedremo grandi metamorfosi e nemmeno significative resipiscenze. Tra un po’ saremo solo più feroci di prima… Ma non voglio tediarti oltre. Ti mando un articolo, che uscirà sul prossimo numero de “L’Ancora”, in cui potrai, fra le righe, vedere come la penso su vari temi che ti hanno ispirato. Un abbraccio, fraterno ma virtuale (di questi tempi non si sa mai), e a presto.

Qui giace, sotto questa terra grigia, / Xavier, che di tutto si stupiva; / chiedendosi da dove arrivasse la tramontana / e perché Giove tuonava. / Studiò ogni libro sapienziale, / lesse da mattina a sera / e arrivò infine all’onda nera / sorpreso di non sapere ancora nulla.

Alzek Misheff e il compito di Enea

di Carlo Prosperi

Al vedere i 9 interni di Palazzo Thea di recente realizzati da Alzek Misheff in verderame e matita, siamo rimasti ammirati sia della sapienza tonale sia dell’impaginatura che dà respiro agli ambienti e nello stesso tempo ne sa rilevare le strutture architettoniche e la stratificazione storico-culturale. La dimora aristocratica sopravvive alle generazioni che tuttavia le imprimono il loro sigillo e ne preservano l’aura. È lo specchio della Tradizione, che non è un fossile, ma un lascito di valori da declinare in sintonia coi tempi, un patrimonio che dal passato si protende dinamicamente verso il futuro, garantendo una continuità e prospettando un senso, contro la marea montante del nichilismo. In un rifiuto tanto dell’idolatria quanto dell’amnesia del passato, visto e vissuto come sprone di emulazione, come esempio da attualizzare: in vista di egregie cose o, come si suol dire, ad maiora.
Crediamo che non si comprenda appieno l’intenzione dell’artista se non si tiene conto dei tempi che stiamo vivendo. E della sua stessa parabola evolutiva, dall’avanguardismo più spinto alla ragionata riscoperta della tradizione, che ha il carattere di una palinodia. Dovessimo ricorrere a un’immagine esemplare, per farci capire, non sapremmo trovare di meglio che evocare quella di Enea in fuga da Troia, immortalata da pittori come Raffaello e Federico Barocci, da scultori come Bernini e Chia. Enea che regge sulle spalle il padre Anchise e mena per mano il figlioletto Ascanio è simbolo di una pietas sempre più rara. Dietro di sé l’eroe troiano lascia una città devastata, in fiamme, davanti a sé ha un futuro quanto mai aleatorio, ma sa che per dare un futuro al figlio deve farsi carico del passato: del padre e dei Penati che egli reca con sé.
Si dice che il poeta Giorgio Caproni traesse ispirazione per il suo poema Il passaggio di Enea da un gruppo statuario di Francesco Baratta da lui casualmente intraveduto nel 1948 a Genova, tra le macerie della città bombardata. Quella scultura lo colpì, perché rifletteva la drammatica incertezza del tempo, sospeso tra le rovine di un passato che rischiava di andare perduto per sempre e l’angoscia di un futuro estremamente fragile e precario. Enea cerca insomma di salvare il salvabile e, tutto preso dal senso del dovere, si avvia, anche a costo di smarrire la moglie (l’amore), verso un imbarco, nella speranza di trovare «un altro suolo». Ecco, ci sembra che Misheff rappresenti al meglio lo spirito di Enea, che lo incarni anzi, rinnovandolo, alla luce dell’attualità.
Il suo discorso muove da una aperta critica alla modernità e a quella sua (in)versione in negativo, se fosse possibile, che è la post-modernità. Se il moderno aveva negato la Tradizione, il postmoderno – che è la negazione della negazione – inizia quando la modernità ha distrutto tutti gli aspetti premoderni. La postmodernità – a dire di Aleksandr Dugin, “un futuro che è già presente” – è l’apocalisse della civiltà, “una forma di satanismo e di nichilismo in cui proliferano il politicamente corretto, l’ideologia gender, il femminismo e il post-umanesimo”. La modernità è fiorita sull’oblio dei padri, prima rinnegati e poi uccisi. In nome di quelle “magnifiche sorti e progressive” già irrise da Leopardi: in nome cioè di una forsennata volontà di potenza, di un progresso senza limiti e senza misura.
Walter Benjamin ne ha dato una impeccabile illustrazione: «C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera».
Ebbene, nonostante queste e altre sinistre premonizioni, si è fatto finta di niente, si è continuato in una sfida faustiana che ha portato a due guerre mondiali, a immani carneficine. Illusi dalla tecnologia trionfante e convinti di essere finalmente padroni del proprio destino, gli uomini hanno prima brindato alla “morte di Dio” e poi si sono votati al “vitello d’oro”, idolatrando il Mercato, il consumismo, la moda. La moda è lo specchio fedele della modernità che si autodivora, che di continuo deve rinnegarsi per sussistere, un’immagine di quella che Hegel giustamente chiamava “cattiva infinità”. L’assurdità di una economia basata sul circolo vizioso produzione-consumo è la stessa del cane che si morde la coda.
Nel deserto dei valori – ma già siamo nella post-modernità – l’unico valore superstite è quello della merce: il valore di scambio. Il mercato mondiale è stato prospettato come preludio alla pace universale, superamento dei confini, cancellazione delle barriere. Si è così avviato un processo di globalizzazione finanziaria, economica, tecnologica e culturale che ha portato alla disgregazione delle comunità tradizionali, alla rottura dei legami sociali familiarmente consolidati, a quella “confusion de le persone” che per Dante è sempre “principio […] del mal de la cittade”. Dimenticando che, quando la natura dei legami sociali è percepita come estranea, gli uomini si sentono inibiti alla piena realizzazione di sé. Già Isaiah Berlin aveva intuito l’astrattezza e l’artificialità, soprattutto in ambito morale, degli appelli all’universalità. Specialmente quando presuppongono la cancellazione dell’identità. O ad essa preludono.
La modernità ha sradicato gli individui dalle comunità di appartenenza, ammassandoli nei falansteri urbani, riducendoli a numeri, a tessere anonime di un mosaico informe, privandoli dell’anima. Ci si è così dimenticati dell’ammonimento di Bergson, che già agli albori del ’900 auspicava proprio “un supplemento d’anima” quale antidoto alla umana perdita d’identità nell’epoca dominata dal progresso tecnologico. Ci si è illusi che bastasse il benessere a riempire il vuoto esistenziale, ignorando che non di solo pane vive l’uomo. “Dategli, all’uomo, – diceva Dostoevskij – tutte le soddisfazioni economiche in modo tale che non abbia alcuna preoccupazione che dormire, mandar giù brioches e darsi da fare per prolungare la storia universale, riempitelo di tutti i beni della terra, e immergetelo nella felicità fino alla radice dei capelli: alla superficie di questa felicità, come su quella dell’acqua, scoppieranno delle piccole bolle”. È appunto quello che sta avvenendo.
Nella tracotanza con cui l’uomo ha preteso di sostituirsi a Dio c’è alcunché di luciferino. Si pensi alle odierne megalopoli, a quegli avveniristici grattacieli che stanno fiorendo, spesso per volontà di nuovi satrapi, come suadenti fleurs du mal, frammezzo allo squallore che li circonda, da New York a Dubai, da Baku a Shangai, da Astana a Bangkok. Si pensi al Bosco Verticale progettato dallo Studio Boeri nel Centro direzionale di Milano, ai margini del quartiere Isola. Siamo di fronte a nuove torri di Babele, a sfide che suonano oltraggio: al buon senso prima ancora che a Dio. Un certo capitalismo ha sradicato l’uomo dalla Natura, ne ha esaltato il carattere prometeico, ma questa hybris preannuncia e prepara – come ben sapevano i Greci – la catastrofe.
Via via che “la gabbia d’acciaio” della modernità si è imposta, con lo sviluppo della scienza e della tecnica, con il distacco dalla terra, con l’esodo dalla campagna, con l’affermazione delle varie rivoluzioni industriali (e post-industriali) che si sono susseguite, lo sradicamento degli individui si è intensificato. L’urbanesimo ha fatto il resto. Una diaspora di atomi ha fatto seguito al declino delle comunità. Gli individui, così sradicati, sono stati ridotti a numeri, a codici, a esseri anonimi, senza qualità. Dove sono finiti – si chiedeva Garcia Lorca in Poeta en Nueva York – gli oliveti, il mare, le campagne dorate, le conchiglie?
L’aurora di New York possiede / quattro colonne di fango / e un uragano di colombi neri / che sguazzano nell’acqua imputridita. // L’aurora di New York geme / su per le immense scalinate / cercando in mezzo agli spigoli / nardi di angoscia disegnata. / L’aurora arriva e nessuno l’accoglie nella bocca / perché là non c’è domani né speranza possibile. / Talvolta le monete fitte in sciami furiosi / traforano e divorano bambini abbandonati. // I primi ad affacciarsi comprendono nelle ossa / che non avranno l’eden né gli amori sfogliati; / sanno che vanno al fango di numeri e di leggi, / a giochi privi d’arte, a sudori infruttuosi. / La luce è seppellita da catene e frastuoni / in impudica sfida di scienza senza radici. / Nei quartieri c’è gente che barcolla d’insonnia / come appena scampata da un naufragio di sangue”.
È di qui – crediamo – che bisogna partire per comprendere l’ultimo Misheff e i suoi interni domestici. Questi nascono infatti contemporaneamente e in dialettica antitesi ad altre sue opere dedicate a folle oceaniche angosciate sullo sfondo di città-simbolo (New York, Parigi, Milano), in attesa o in procinto di essere travolte da uno tsunami devastante, da un turbine vorticoso. Folle solitarie, senza identità, sullo sfondo di città alveari, di città formicai, delle quali solo Caino poteva essere il fondatore. In queste opere di Misheff si avverte l’eco di un dramma collettivo che trova analogie nell’Ansia e nell’Urlo di Edward Münch, nelle “maschere” di James Ensor, in altre opere d’area simbolistico-espressionistica. L’espressionismo – dal latino exprimere – riflette infatti sull’esterno uno stato d’animo generalmente perturbato e commosso, così che a dominare è sempre un senso di marcata solitudine, anche quando ad essere raffigurata è una moltitudine di persone. Il simbolismo mira invece a imprimere carattere esemplare, di universalità, a quanto vi può essere di (auto)biografico o di aneddotico in un’opera. Ed è a questo, appunto, che mira Misheff, con tecnica peraltro affatto personale, nei suoi ultimi lavori nati all’ombra del flagello biblico del coronavirus.

    

Nell’insieme e mutatis mutandis, gli interni, austeri e maestosi ad un tempo, di Palazzo Thea ci ricordano le Antichità romane di Piranesi, la cui grandiosità dà l’idea dell’imponenza di una civiltà, di fronte alla quale gli uomini d’oggi tendono a scomparire o, se non altro, a passare in secondo piano. Perché è vero che, forti della potenza che si sprigiona dalla tecnica, abbiamo l’impressione di essere superiori ai nostri padri, di spingere il nostro sguardo più lontano e più a fondo di loro, ma non ci accorgiamo che questo non è merito nostro: ciò in realtà avviene – come aveva intuito l’acume di San Bernardo – perché, pur essendo noi dei nani, poggiamo sulle spalle di giganti. Non è un caso che per designare gli antenati i Latini usassero il termine di maiores. «Chi fuor li maggior tui?» chiede Farinata a Dante nel decimo canto dell’Inferno. È una domanda, questa, che anche noi dovremmo porci più spesso, magari solo per verificare se ne siamo degni eredi.
In tempi di clausura e – per alcuni, ahimè – di claustrofobia, la casa, oltre che ricettacolo di affetti e di memorie, può anche riassumere connotazioni sacrali. Non a caso il latino, con il termine aedes – da cui i nostri “edile”, “edilizia”, “edificio”, etc. – designava tanto la casa quanto il tempio. Ambedue spazi “augusti”. E d’altra parte che altro è il duomo, se non la domus dei Latini, nel senso di domus Dei, di “casa di Dio”? La casa è anche un asilo, dal greco asylon, “luogo inviolabile, dove non vige il diritto di cattura”: nido, quindi, e rifugio. Ma, per esser davvero tale, dev’essere ospitale, piena di attrattive, ingentilita dall’arte. Luogo d’intimità e di sublimità, dove le sister arts – la pittura, l’architettura, la musica, la scultura, la poesia e la letteratura (qui evocate dai libri, dalla libreria) – sono pronte ad accogliere, a consolare, a intrattenere, a prefigurare un “mondo nuovo e una terra nuova”, più umana perché meno obliosa del senso della misura, del limite, del giusto mezzo. La funzione, insomma, che nel Decameron del Boccaccio, durante la terribile “peste nera”, è demandata al racconto. La casa come buen retiro, come angulus da cui guardare al formicaio del mondo. Odi profanum volgus et arceo [“Odio il volgo profano e me ne tengo a distanza”], diceva infatti il grande Orazio, che dell’angulus fu sommo cantore.

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John Piper. Ricolorare l’Inghilterra

di Paolo Repetto, 20 maggio 2020 – vedi l’Album

John Piper Ricolorare l’Inghilterra copertinaJohn Piper va rubricato tra gli artisti “poliedrici”. Questo termine viene in genere usato in due accezioni, una positiva, ad indicare chi in qualunque ambito artistico si cimenti ottiene risultati eccezionali, tipo Michelangelo, e una invece piuttosto “riduttiva”, ad indicare chi sa fare un po’ di tutto, ma senza eccellere in nulla. L’accezione mia è ancora un’altra: comprende chi ha moltissimi interessi, e produce in ogni campo risultati interessanti.
Piper, che ha attraversato tutto il “secolo breve” (1903 – 1992), di occasioni stimolanti ne ha avute in abbondanza, e non se n’è lasciato sfuggire una. È stato protagonista del rinnovamento della scena artistica inglese tra le due guerre, entrando a far parte del movimento dei “Sette più cinque” e fondando la rivista d’arte Axis, ha collaborato coi servizi segreti durante il secondo conflitto mondiale, diventando ufficialmente “artista di guerra”, ha censito “graficamente” negli anni cinquanta e sessanta ciò che rimaneva del patrimonio architettonico di dieci secoli di storia inglese. Tutto questo mentre si occupava fattivamente di scenografia teatrale, di pittura su ceramica, di vetrate colorate, di murales, di fotografia e di tutto ciò che in qualche maniera avesse attinenza con l’espressione artistica, e compilava guide delle regioni inglesi che illustrava poi coi suoi disegni.

Nel frattempo transitava dall’astrattismo della giovinezza al naturalismo della maturità, per approdare poi ad un segno fortemente connotato sia graficamente che nelle tonalità cromatiche. Anche se rimane difficile identificare un stile che davvero lo rappresenti, la sua mano è immediatamente riconoscibile.
Quello che a noi maggiormente interessa è il Piper pittore di paesaggi e di edifici, chiese, castelli, manieri. Le sue opere potrebbero benissimo illustrare un libro di Sebald, se non fossero così vivacemente cromatiche. Ma la cosa stupefacente è che anche nell’esplosione dei colori le sue immagini sono tutte velate di malinconia. La sua è un’Inghilterra che non vedremo più.

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Johann Wilhelm Schirmer. Istantanee dal passato

di Paolo Repetto, 18 maggio 2020 – vedi l’Album

Johann Wilhelm Schirmer Istantanee dal passato copertinaDiversamente dagli altri artisti che siamo soliti presentare, Johann Wilhelm Schirmer (1807 – 1863) non era né un genio né un disadattato o un alienato mentale. Non ha lasciato opere che facciano gridare al capolavoro, che stupiscano, che aprano all’espressione artistica nuove strade. Era un onesto, scolastico, pittore di transizione: che non significa però modesto. La sua vita stessa e la sua carriera sono in tal senso esemplari. Figlio d’arte, passò dagli studi all’Accademia all‘insegnamento nella stessa, intervallato solo dai viaggi di prammatica in diversi paesi europei, compresa naturalmente l’Italia. Nulla di strano o di eclatante. Eppure, dopo quasi due secoli i suoi paesaggi procurano ancora piacevoli suggestioni, anche se i nostri palati sono ormai educati a sapori diversi. Sono gradevoli, non stancano, si abbinano senza sforzo ad ambienti eterogenei. Rientrano in una concezione “decorativa” che all’arte è sempre stata propria, a dispetto di tutte le valenze eversive e rivoluzionarie delle quali quest’ultima è stata caricata. Ma soprattutto, documentano in maniera molto eloquente il passaggio dal primo romanticismo, quello di Caspar David Friedrich, mistico e tenebroso, ad una visione più pacificata e neutrale della natura e del mondo.

Un’epoca la si capisce meglio attraverso ciò che appaga il suo gusto, ciò di cui ama circondarsi, che da mille testimonianze dei suoi artisti di punta. A differenza dei suoi contemporanei inglesi, come Turner o come Constable, per intenderci, Schirmer dipinge paesaggi incontaminati e tranquilli, nei quali la presenza umana ha scarsissimo rilievo: e non sono scenari filtrati dalla nostalgia, perché è ancora ciò che nella Germania del suo tempo si poteva vedere. La memoria, il rimpianto, saranno introdotti solo dai suoi allievi. Schirmer fu infatti un ottimo maestro, e lo dimostra il fatto che abbia trasmesso la stessa padronanza tecnica ad allievi completamente diversi come Arnold Böcklin, e Oswald Achenbach, che ne fecero tesoro e la usarono poi per esprimersi in direzioni opposte.

Ci sembra giusto rendere omaggio, ogni tanto, alla professionalità: chi fa bene il proprio lavoro partecipa comunque alla costruzione di un mondo migliore. Schirmer il suo contributo lo ha dato: e a un paesaggio dei suoi, di piccolo formato, nel mio studio riserverei un posto d’onore.

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Nino Costa. Colore garibaldino

di Paolo Repetto, 25 aprile 2020 – vedi l’Album

Nino Costa Colore garibaldino copertinaGiovanni “Nino” Costa è forse il meno conosciuto e il più sottovalutato dei macchiaioli. Ma forse non è nemmeno un macchiaiolo. La sua formazione ha avuto da subito un respiro internazionale, per la frequentazione prima, in patria, di artisti stranieri (il gruppo dei Nazareni, George Mason e Frederick Leighto, attraverso i quali conosce le idee di Ruskin, Emile David e Arnold Böcklin che lo introducono al simbolismo) e poi, durante i frequenti viaggi all’estero, degli ambienti culturali più avanzati delle capitali culturali dell’Europa di metà Ottocento. A Londra frequenta Burne-Jones e i Preraffaelliti, a Parigi conosce Corot, Théophile Gautier, Baudelaire e i simbolisti. Nel frattempo combatte nel 1849 con Garibaldi per la difesa della Repubblica romana, vagabonda per quasi due anni per mezza Italia in compagnia del pittore statunitense Elihu Vedder, va a dipingere la campagna inglese con l’amico Mason. Tornerà ad imbracciare le armi nel 1870, per la presa di Roma, alla quale partecipa in prima fila.

Costa in Italia non incontra un grande successo, e non certo è aiutato a ritagliarselo dal carattere ribelle e intransigente. Ha una serie di convincimenti, relativi sia alla tecnica della pittura dal vero che alla scelta dei soggetti, dei momenti particolarmente poetici della natura da cogliere, e del carattere simbolico da imprimere loro, e a quelli non deroga. Al contrario, e per le stesse ragioni, è invece molto apprezzato in Inghilterra, e tutte le sue opere migliori sono ospitate oggi dalle gallerie inglesi.

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Elihu Vedder. La natura è una foresta di simboli

di Paolo Repetto, 25 aprile 2020 – vedi l’Album

Elihu Vedder La natura è una foresta di simboli copertinaBohemien e viaggiatore squattrinato fino a cinquant’anni, pittore e illustratore di successo dopo, Elihu Vedder (New York 1836 – Roma 1923) assomma nella sua pittura tutte le possibili contaminazioni e contraddizioni del secondo Ottocento: decadentismo, simbolismo, esotismo. Trascorre l’infanzia a Cuba, si forma artisticamente a New York e poi a Parigi, a vent’anni gira mezza Italia senza un soldo, torna in America e sbarca il lunario disegnando immagini per le prime inserzioni pubblicitarie. Nel frattempo dipinge le sue opere più visionarie, quelle che meglio lo rappresentano e per le quali è ricordato. Quando finalmente il suo talento è riconosciuto si trasferisce nuovamente in Italia, facendo base prima a Roma e stabilendosi poi definitivamente a Capri (questa volta in una villa da lui stesso progettata). Ormai però il momento magico della creatività tormentata è finito: nell’ultima parte della sua vita è un creativo inserito nel sistema: disegna per Tiffany, affresca la sala di lettura della Biblioteca del Congresso a Washington. Nelle sue peregrinazioni ha incontrato e conosciuto Whitman e Melville negli Stati Uniti, Gustave Moreau a Parigi, i macchiaioli in Italia, i Preraffaelliti in Inghilterra. È affascinato dalla pittura Rinascimentale e approda ad un suo singolarissimo ed eclettico simbolismo.

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Charles Marion Russell. L’uomo del Montana

di Paolo Repetto, 22 marzo 2020 – vedi l’Album

Charles Marion Russell L’uomo del MontanaRussell, assieme a Remington, è il West. Lo hanno inventato loro, o comunque lo hanno fatto conoscere in tutto il mondo, ricamando su una realtà che di spunti ne offriva a bizzeffe. Il resto lo ha fatto John Ford.

Russel non ha semplicemente viaggiato nel West: lo ha amato sin da bambino, attraverso le narrazioni di mercanti e vagabondi e sulle pagine delle dime novel, ci ha lavorato a partire da sedici anni, come allevatore di pecore, come cacciatore e come cow boy, ha vissuto tra gli indiani, ci è rimasto fino alla morte. E una volta scoperta la sua vera vocazione il West lo ha poi ritratto in più di duemila dipinti e in numerosi racconti, dando il tocco decisivo all’ultima, e unica, grande epopea della modernità.

I suoi quadri li abbiamo già visti tutti: magari non direttamente, ma senz’altro attraverso gli adattamenti e le citazioni che ne sono stati fatti nei fumetti e nel cinema. La mia generazione è cresciuta, in genere senza saperlo, nutrendosi per interposta balia con l’arte di Russel. E quell’arte oggi non c’è alcun motivo di rinnegarla, o di declassarla a pittura “di genere”. Semmai va rivendicata come costruttrice di sogni, in un mondo sempre più disincantato. Non importa che Russel sia diventato col tempo un artista “istituzionale” (un suo murale fregia il Campidoglio della capitale del Montana), che gli sia stato dedicato un apposito museo e che le sue opere scaldino il mercato (un dipinto della maturità, Piegans, è stato venduto per sei milioni di dollari): i suoi indiani, i suoi cow boys, i suoi cavalli e le sue terre selvagge ormai ci appartengono. Il suo vero museo è il nostro immaginario.

Russell è coetaneo di Wölfli, sono nati a neanche un mese di distanza (il 29 febbraio lo svizzero, il 19 marzo del 1864 Russell), ma in parti molto diverse del mondo. È  interessante, e senz’altro anche istruttivo, fare un confronto tra le loro opere e i loro destini. Per questo presentiamo in contemporanea i due Album.

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Adolf Wölfli. Implosioni

di Paolo Repetto, 22 marzo 2020 – vedi l’Album

Adolf Wölfli Implosioni copertinaFiglio di un alcolizzato cronico, è abbandonato a sei anni (con altri sei fratelli e la madre) nella miseria più nera. Viene affidato a una famiglia contadina, che non gli fa mancare la fatica, la fame e i maltrattamenti. Cresce come un animale e comincia a insidiare, in maniera anche violenta, la virtù delle ragazze del luogo: tanto da finire a più riprese in prigione e infine, nel 1895, definitivamente in manicomio. Vi rimarrà per trentacinque, e ne uscirà solo dopo la morte.

La vita di Adolf Wölfli sarebbe tutta qui, una vicenda simile a quella di tanti altri poveri disgraziati come lui. Non fosse che nella reclusione manicomiale Adolf trova una via di sfogo alla sfrenatezza del suo carattere: impara a dipingere, a scrivere e persino a suonare e a comporre musica. Fa naturalmente tutte queste cose a modo suo: dipinge muri, porte, tutte le superfici disponibili dell’ospedale, realizza più di mille disegni e dipinti, scrive un’autobiografia che alla fine consterà di più di venticinquemila pagine (e che intitola significativamente La leggenda di sant’Adolfo), litiga e passa spesso alle vie di fatto con tutti gli altri internati, che non vogliono riconoscere la sua grandezza artistica. Finché il suo caso non diventa oggetto di studi psichiatrici specifici (se ne occupa persino Freud). Solo diversi anni dopo la sua morte però l’originalità della sua opera comincia ad incuriosire anche il mondo artistico, a partire da Breton e dai surrealisti. A farlo definitivamente riscoprire, inserendolo nella corrente dell’“Art Brut”, è nell’immediato dopoguerra il pittore francese Jean Dubuffet.

Forse non è il caso di commentare le sue opere. Non so in che movimento o tendenza possano essere inquadrate, ma senz’altro sono ben più che inquietanti. Ogni artista ha le sue ossessioni, Ligabue le sue tigri, Cezanne il saint Victoire: ma di norma il raccontarle per immagini è un modo per scaricarle, per esorcizzarle. Qui siamo di fronte all’effetto contrario: qui le ossessioni si concentrano, sono maniacalmente e calligraficamente sviluppate, non si liberano ma si accumulano e si pigiano l’una sull’altra. Provate ad osservare una di queste immagini per qualche minuto e vi accorgerete che non siete in grado di reggerla: il peso di una vita come quella di Adolf, costretto nelle greche e nelle cornici e compresso nelle scritture e nei righi musicali, per quanto poi il risultato sia morbosamente affascinante, risulta insopportabile. È troppo.

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Guido Boggiani. La raccolta dei sogni al Paraguay

di Paolo Repetto, 20 marzo 2020 – vedi l’Album

Il pittore

Guido Boggiani La raccolta dei sogni al Paraguay copertinaIl successo a vent’anni è una bella fregatura: hai davanti un’intera vita di lotta per conservarlo o per rinverdirlo, oppure per farlo dimenticare. Molti non reggono; qualcuno provvede da solo a entrare nel novero dei “cari agli Dei”, qualcuno c’è iscritto dalla sorte, i più finiscono per autodistruggersi o per trascinarsi in una patetica parodia di se stessi. Ma c’è anche un’altra soluzione, in verità poco praticata: quella di infischiarsene, prendere su e mollare tutto. L’esempio che corre subito alla mente è quello di Rimbaud: smette di scrivere poesie e va a vendere armi in Africa. Se dovessimo citarne un secondo, però, saremmo in difficoltà: e invece lo abbiamo in casa. Si tratta di Guido Boggiani, prima pittore, pianista, poeta, poi esploratore, trafficante, etnologo, linguista.

  Il caso Boggiani è da manuale. Guido nasce sul Lago Maggiore, in uno dei più bei luoghi d’Italia, nell’anno dell’unità, in una famiglia benestante e colta: grande appassionato d’arte il padre, scienziato il nonno materno. Vive un’infanzia dorata e si ritrova adolescente di successo, ricco e bello, ottimo pianista, poeta, brillante conversatore. E in possesso di un vero talento artistico nella pittura. Si diploma in soli due anni all’Accademia di Brera e diventa l’allievo prediletto di Filippo Carcano. A vent’anni espone a Milano con successo e a ventidue vince il premio “Principe Umberto” con La raccolta delle castagne. È acclamato socio onorario dell’Accademia e viene salutato come la grande promessa nel futuro della pittura italiana. Per sprovincializzarsi si trasferisce a Roma e qui entra nel giro intellettuale di D’Annunzio, di Edoardo Scarfoglio e della rivista Cronaca Bizantina. Presta lo studio al poeta per le sue avventure galanti, bazzica la corte, partecipa alle feste della nobiltà porporata. Ce n’è abbastanza per farne un idiota o un trombone, un fatuo o un disadattato. E invece …

Boggiani pittore lascia un’ottantina di tele sparse tra musei, gallerie e colle-zioni private. Uno di questi quadri, “La raccolta delle castagne”, fu pagato nel 1883 seimila lire, una quotazione per l’epoca (e per il mercato italiano) altissima. Eppure oggi Boggiani è ricordato (si fa per dire) più come studioso che come artista. Per quel che vale la mia opinione, credo sia giusto: vedendo i suoi quadri, i pochi che ho potuto ammirare dal vivo, si ricava l’impressione di un pittore molto bravo, ma che ha già detto tutto quello doveva dire. E si tratta di opere dipinte tra i venti e i venticinque anni. Credo che lo stesso Boggiani, proprio per la sua sensibilità, fosse cosciente di percorrere una via senza sbocchi. I suoi contemporanei si chiamavano Cezanne, Van Gogh, Segantini. Lui stava facendo un buon lavoro, dava al pubblico quello che il pubblico voleva, e ne veniva ripagato col successo: ma sentiva di non avere nelle sue corde la scintilla per dire qualcosa di nuovo e di originale. Rischiava di diventare un onesto e quotato artigiano della tavolozza, condannato ad una pittura da repertorio per i tinelli buoni di ambienti gozzaniani, almeno fino a che i gusti non fossero cambiati. A Boggiani il successo non poteva bastare.

L’etnologo e il fotografo

Invece nel 1887 è preso da “una invincibile smania di vedere mondo nuovo e gente nuova, nuove terre e nuovi orizzonti”. Non ci pensa su due volte. Si imbarca per il Sudamerica. Nel 1888 è quindi nell’alto Paraguay, una regione che a dispetto di quasi quattro secoli di dominazione spagnola (o forse proprio per questo) è ancora praticamente inesplorata e sconosciuta. L’intento è quello di organizzare delle spedizioni etnografiche fra le tribù indigene dell’interno, alcune delle quali non hanno mai conosciuta, per loro fortuna, la civiltà occidentale. Boggiani non è uno scienziato: non possiede la preparazione botanica, zoologica e geologica dell’esploratore-naturalista tipo dell’Ottocento, modello Humboldt o Darwin. Ma qualcosa sa, e il resto lo impara poco alla volta, direttamente sul campo, mostrando soprattutto una grande sensibilità e attitudine per la ricerca etnologica e linguistica. Studia i costumi, le tradizioni, gli idiomi degli indigeni; apprezza da artista la qualità e l’estetica dei loro prodotti artigianali, ed è affascinato soprattutto dalla fantasia delle decorazioni corporee; compila dei glossari delle lingue indiane e scrive relazioni etnografiche da inviare alle maggiori riviste di geografia; butta giù un sacco di schizzi e disegni, che magari inizialmente erano pensati in funzione della pittura, ma che costituiscono invece ancora oggi, di per sé, un importantissimo repertorio documentario.

Il 24 ottobre lascia, insieme all’amico paraguayano Felix Gregorio Gavilàn e a soli quattro indiani, la fattoria di Los Mèdanos, ultimo avamposto della civiltà. Da allora scompare nel nulla.

Dopo otto mesi senza notizie i suoi amici di Asunción decidono di inviare una spedizione di ricerca, capitanata dallo spagnolo José Fernandez Cancio. Cancio trova labili tracce del passaggio di Boggiani, resti di fuochi, capanne di rami, perfino una scarpa e due cavalli abbandonati. La ricerca prosegue però molto lentamente, tra i problemi di approvvigionamento idrico creati dalla stagione secca e le diserzioni degli indigeni assunti come guide. Finalmente, dopo quattro mesi, arriva in un villaggio Ciamacoco dove il mistero si svela. Vengono rinvenuti i corpi di Boggiani e del suo compagno, dai quali sono state staccate le teste; viene recuperata la macchina fotografica con una serie di lastre rovinate, insieme ad altri oggetti appartenuti all’esploratore e che adesso sono esibiti come ornamento da diversi abitanti della tolderia. Viene anche individuato un colpevole, un indio di nome Luciano. Boggiani insomma non sarebbe stato ucciso dai crudelissimi Ayoréo, che non ha fatto nemmeno in tempo ad incontrare: è stato fatto fuori a randellate da indios “domesticati”, per una banalissima questione d’onore. Questa è almeno la versione ufficiale data dall’indio Luciano, che dichiara di aver  ucciso l’esploratore, sorprendendolo nel sonno, per vendicare la sua relazione con la moglie di un amico assente. La realtà vera probabilmente è un’altra, e cioè che tutto il villaggio, comprese le guide indigene, abbia partecipato all’aggressione, un po’ per la paura dei contatti ravvicinati con i Moros che Boggiani insiste a cercare, un po’ per spartirsi i pochi beni dei due bianchi: ma questo non lo sapremo mai, perché Luciano dopo essere stato incarcerato e condannato riesce a fuggire dal carcere e non verrà mai più rintracciato.

La tragica ironia della sorte vuole che Boggiani, artista sensibile, esploratore ardimentoso, etnologo sul campo, estimatore degli indigeni e, tra le altre cose, omosessuale, venga ufficialmente ucciso da uno dei suoi pacifici Ciamacoco per aver corteggiato un’indigena.

Le prime notizie sulla vita di Guido Boggiani le ho rinvenute in un libro di  Alberto Viviani, Guido Boggiani, edito dalla Paravia in una vecchia e benemerita collana dedicata a  “I grandi viaggi di esplorazione”. Le ho poi approfondite sul volume curato da Maurizio Leigheb ed edito nel 1986 dalla regione Piemonte: Guido Boggiani. Pittore, esploratore, etnografo, che riporta anche alcune bellissime riproduzioni dei dipinti, degli schizzi e dei materiali etnografici e una bibliografia accurata degli articoli e studi dedicasti al pittore. I “Viaggi di un artista nell’America meridionale” sono rintracciabili solo in alcune biblioteche specializzate, le opere etnografiche neppure in quelle.

per sguardistorti:

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Andreas Achenbach. Dal Romanticismo al Realismo

di Paolo Repetto, 20 marzo 2020 – vedi l’Album

Andreas Achenbach Dal Romanticismo al Realismo copertinaDa buon giovane romantico (comincia a dipingere seriamente a dodici anni), Andreas Achembach gira mezza Europa (dalla Russia all’Italia, dai Paesi Bassi alla Scandinavia) e assorbe un po’ dovunque, prima di sottrarsi all’idealismo imperante e trovare una dimensione propria. Non è un rivoluzionario dell’arte (e quindi non è particolarmente famoso), ma è senz’altro un riformatore. Praticamente è il fondatore del realismo pittorico tedesco. Ora, il realismo non richiede, almeno in apparenza, un grande investimento spirituale, soprattutto se rivolto alla pittura paesaggistica: ma impone una profonda sensibilità per forme e colori, un forte e personalissimo temperamento per le scelte dei soggetti e degli angoli prospettici entro i quali inquadrarli, una eccezionale padronanza tecnica per trasferirli sulla tela. Altrimenti si cade nel manierismo della pittura da salotto. Achenbach queste doti le possiede tutte, come dimostrano le splendide immagini che vi offriamo.

Andreas Achembach è nato a Kassel nel 1815 ed è morto nel 1910, lasciandosi alle spalle una carriera pittorica durata più di ottant’anni, ricca di riconoscimenti e fecondissima di opere. Per la massima parte queste sono conservate nei maggiori musei tedeschi (la Nationalgalerie di Berlino, la Neue Pinakothek di Monaco e le gallerie di Dresda, Darmstadt, Colonia, Düsseldorf, Lipsia e Amburgo). In Italia, presso la Galleria d’Arte Moderna di Milano si possono ammirare Marina agitata sotto un cielo burrascoso (1853) e Tramonto dopo un temporale a Porto Venere nel golfo della Spezia (1857).

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