Alla ricerca del sottobosco digitale (e open source)

meditazioni fra micelio e algoritmo

di Fabrizio Rinaldi, 1° maggio 2025

Dal bordo del dirupo collettivo nel quale l’umanità sembra stia precipitando, tra inni di guerra e dilaganti populismi, negazionismi, fascismi, sovranismi e tutti gli altri peggiori “-ismi” possibili, guardo oltre per cercare di aggrapparmi a qualcosa – mentre già la terra mi frana sotto i piedi –, di scorgere un qualche segnale di speranza.

Vorrei andare oltre le mitragliate trumpiane di decreti a cui non si riesce a star dietro, oltre l’inettitudine servile meloniana, oltre il riarmo intimidatorio dilagante che somiglia all’adolescenziale gara a chi ce l’ha più lungo, oltre i conflitti che somigliano sempre più a stermini e oltre anche la non nuova, ma sempre più pervasiva, droga che euforizza i giovani (e non solo): i mirabolanti prodigi dell’intelligenza artificiale.

ChatGPT e simili si rincorrono per superarsi a vicenda, masticando dati e sputando sullo schermo testi, immagini, video e stringhe di programmazione per compiacere le nostre sempre più bacate menti nell’ottenere da popò di tecnologia cose come questa

Sì, neppure io ho saputo resistere alla tentazione di vedere i Viandanti Beppe, Paolo, Cristina e Antonio trasformati in anime nello stile di Miyazaki, il creatore di Lupin. Nelle ultime settimane Sam Altman, il guru di ChatGPT, ha dichiarato che i loro elaboratori d’immagini “stanno fondendo” per creare imitazioni di cartoni animati e action figure di pupazzetti che ci somigliano. La tecnologia più avanzata degli ultimi decenni viene utilizzata per nutrire il nostro narcisismo.

Forse allora è meglio cercare altrove le intelligenze, perché quella umana sembra destinata ad esser soppiantata prima del previsto; non dal meteorite o dai cambiamenti climatici, ma dall’imbecillità dilagante che ci circonda.

Se ci liberassimo della nostra presunzione antropocentrica e osservassimo ciò che accade sotto i nostri piedi mentre passeggiamo in un bosco, ci renderemmo conto che lì avviene qualcosa di più sofisticato di quanto può fare un qualsiasi chatbot. Adottando la giusta lentezza, non possiamo fare a meno di notare come la vita sia pervasa di strategie, adattamenti e forme di “sapienza” che sono intrinsecamente più avanzate di quelle umane e digitali.

Tra gli scienziati che sono riusciti a diventare social senza sembrare ridicoli, c’è il botanico Stefano Mancuso. Da anni sostiene una tesi che per molti suona ancora come un’eresia: le piante pensano. O almeno, fanno qualcosa di molto simile, ma in verde, senza sinapsi, senza Google e, soprattutto, senza doversi collegare alla presa elettrica.

Mancuso ci invita a smontare il vecchio cliché secondo cui i vegetali sarebbero passivi, immutati, immobili e destinati a farsi mangiare, calpestare o dimenticare nei vasi. Le piante, ci dice, non subiscono il mondo, ma lo leggono, lo decifrano e lo modificano. Non hanno un cervello, ma sono un sistema di intelligenza distribuita. Un po’ come quella digitale, solo che loro lo fanno da tempi immemori, senza data center e senza sosta, con una complessità appena scalfita dal sapere umano, in una perenne evoluzione ed espansione. Se non è intelligenza questa…

Senza la competenza specifica di Mancuso, ma con una sana curiosità e qualche giga di sarcasmo, provo a giocare con il confronto non fra uomo e macchina (rimando questo esercizio ai romanzi distopici come Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick), ma tra l’intelligenza vegetale e quella artificiale. Una partita che, avverto subito, finisce con una vittoria schiacciante del regno vegetale, ma sicuramente ci sono delle affinità. E non sono poche, né di piccola entità.

Sorprende che si parli tanto delle magnificenze del silicio, mentre raramente ci soffermiamo sui prodigi clorofilliani. Anzi no: nel computo dell’idiozia umana, il totale torna.

Una pianta non ha occhi né orecchie nell’accezione comune, eppure è costantemente immersa in un mare di informazioni ambientali: la direzione della luce, la temperatura, l’umidità, le vibrazioni sismiche, la presenza di acqua e di specifiche sostanze chimiche. Ricevendo ed elaborando questi segnali, non solo percepisce gli stimoli, ma li interpreta, modificando la sua crescita, la fioritura o la produzione di sostanze difensive.

Mi viene da pensare che, analogamente, anche un sistema di intelligenza artificiale si nutre dei dati (immagini, suoni, testi) che forniamo come input. Le AI generative, mentre consumano energia pari a quella di intere città, analizzano queste informazioni e prendono decisioni in un processo non dissimile, nella sua finalità adattiva, alla risposta di un vegetale al suo ambiente.

Le piante però vivono, si riproducono, interagiscono, consolidano il terreno e fanno qualcosa di essenziale per la nostra sopravvivenza: producono ossigeno. La macchina può batterci a scacchi, gestire il traffico degli aerei e dei treni, scrivere poesie, ma la betulla è poesia vivente e, nel frattempo, ci regala l’aria che respiriamo senza nemmeno vantarsene.

I vegetali dimostrano una sorprendente capacità di adattarsi all’ambiente in cui si trovano. Per esempio, un albero esposto a un vento costante svilupperà un tronco più robusto, plasmato nella direzione dell’aria; in un terreno povero estenderà invece le sue radici più in profondità per cercare nutrienti. Questa abilità nell’“imparare” dalle sfide ambientali ricorda i modelli di machine learning dell’intelligenza artificiale, che migliorano le loro prestazioni accumulando sempre più dati e attraverso la logica dei feedback. Proprio come le radici si ramificano per scovare acqua, gli algoritmi scovano soluzioni sempre più complesse per ottimizzare i risultati.

Se una pianta non si adatta, scompare; allo stesso modo, se una macchina non fa altrettanto, sommergerà il malcapitato per mesi con pubblicità di creme per il viso come è capitato a me, anche se non le ho mai usate e non ho intenzione di farlo.

Le piante dialogano fra loro senza usare le parole – un’invenzione piuttosto recente e limitata ad una sola specie –, ma rilasciano sostanze che si muovono attraverso l’atmosfera e il sottosuolo per interagire con quelle vicine (e non), magari avvertendole della presenza di un bruco che rosicchia le foglie o dell’avanzare di un incendio.

Sottoterra le radici intrecciano simbiosi con i funghi, dando vita al Wood Wide Web, una rete micorrizica talmente sofisticata che al confronto il digitale Word Wide Web sembra una Fiat Duna dell’87 col motore ingolfato. Altro che connessione 5G: il micelio non solo collega individui diversi (alberi, arbusti, erbe e qualche strambo con la smania di abbracciare tronchi e “sentire la loro energia”), ma smista nutrimenti e segnali in modo capillare, a basso consumo e senza interruzioni. Il tutto senza router, senza elettricità, e – soprattutto – senza abbonamento.

È, quindi, una connessione vibrante, che si adatta ed evolve in un sistema dove il benessere dell’individuo si intreccia con quello della comunità, in un contesto di cooperazione attenta nel dosaggio millesimale delle risorse. Un’ecologia delle relazioni che smonta qualsiasi idea di “sopravvivenza del più forte”.

Mentre le querce si scambiano messaggi criptati attraverso i funghi, noi ci ritroviamo a compulsare prompt da dare in pasto alle intelligenze digitali; queste elaborano soluzioni attingendo dai nostri dati, replicano le nostre manie con una precisione inquietante e producono risultati che riflettono i nostri limiti. Più che un’intelligenza collettiva, sembrano spesso un concentrato delle nostre idiosincrasie.

Il mondo vegetale, a differenza nostra, non si limita a imitare: si adatta e vive davvero. L’idea che le piante possano essere dotate di forme di intelligenza diffusa, consapevolezza ambientale e sofisticati adattamenti comunicativi dovrebbe farci riflettere sulla nostra concezione di benessere reciproco. Dovrebbe, ma non accade; anzi, mentre il bosco ci offre un esempio di mutualismo, noi approviamo leggi che riportano in auge il carbone e le trivelle (vedi le ultime sparate di Trump), convinti che la natura debba essere ottusamente dominata.

In questa farsa, l’unica cosa davvero artificiale sembra essere il nostro rapporto con il mondo naturale: abbiamo perso quella connessione, non quella a banda larga, ma quella biologica, relazionale e intima con ciò che ci circonda, che i nostri avi avevano, nonostante la loro visione limitata all’orto dietro casa. Mentre noi produciamo anidride carbonica e ci lamentiamo delle continue inondazioni, le piante continuano a scambiarsi zuccheri, produrre ossigeno e – a modo loro – ridere di noi, tra un fruscio di foglie e l’altro.

I veri maestri dell’economia circolare sono i vegetali: da milioni di anni, praticano un comunismo discreto ed efficace, basato su scambi mutualistici e alleanze fotochimiche complesse. E tutto questo senza mai aver ricevuto un premio Nobel in economia. Le semplici simbiosi mutualistiche, come le micorrize tra i funghi e le radici delle piante, metterebbero in crisi qualsiasi ideologia neoliberista.

Non c’è competizione, non c’è profitto, nessuna offerta pubblica; solo scambio reciproco e redistribuzione di risorse, supporto e cura sistemica. E tutto avviene senza regolamenti, amministratori delegati strapagati, sindacati e scioperi: un mutualismo che funziona perché nessuno cerca di fregare l’altro. È una sapienza collettiva che sa reagire a stimoli per mantenere un equilibrio di risorse a beneficio di tutti.

La fotosintesi clorofilliana, poi, è una forma di autosufficienza energetica che farebbe impallidire qualsiasi pannello fotovoltaico: energia solare trasformata in zuccheri condivisi all’interno della comunità, senza tasse sul sole e senza copyright sui cloroplasti.

Nel bosco, il capitale non si misura in PIL o followers, ma nella capacità di sostenersi vicendevolmente. Certo, a scapito di altri, ma in un’ottica di evoluzione e non di semplice prevaricazione. È un sistema in cui lo scarto di uno diventa il nutrimento di un altro, non una guerra commerciale a colpi di dazi. Tutto si regge su una rete di assistenza lenta e silenziosa. Nessuno urla, nessuno cerca di primeggiare. Eppure, tutto funziona. Altro che utopia: il comunismo vegetale è una realtà praticata ogni giorno, da milioni di anni, nei boschi, nei prati e nel terreno. E resiste, nonostante la nostra compulsiva tendenza a cementificare, a capitozzare gli alberi lungo le strade e poi lamentarci quando cadono.

La biochimica vegetale è un intricato sistema di segnali complessi, feedback ambientali, algoritmi naturali che elaborano stimoli e rispondono con movimenti, secrezioni, adattamenti. Sotto i nostri piedi c’è un sistema che processa dati, reagisce, si adatta e lo fa meglio di molte aziende che gestiscono i dati che noi regaliamo loro.

Mentre noi stanziamo risorse immense e prosciughiamo quelle naturali affinché degli algoritmi risolvano problemi più o meno complessi, nel verde la rivoluzione finalizzata al problem solving ambientale è in atto da milioni di anni ed è clorofilliana.

Le piante non si lamentano mai quando subiscono dei torti, che siano tagli indiscriminati, schianti, parassiti o animali che le danneggiano. Eppure, non vanno in burnout e, soprattutto, non chiamano l’avvocato. Semplicemente si adattano, cicatrizzano, deviano le risorse altrove e continuano a crescere, finché possono. Sono testarde ed efficaci.

Questa resilienza vegetale non è romantica, ma semplice – e tuttavia intrinsecamente complessa – strategia biologica evoluta, collaudata e ottimizzata nel tempo per non sprecare nemmeno una goccia di linfa. L’albero sa che non tutto può essere salvato, ma molto può essere rigenerato. E lo fa senza conferenze stampa sul nulla.

Curiosamente, proprio questa logica di perseveranza nonostante qualche inciampo sta alla base della progettazione delle attuali intelligenze artificiali: sono pensate per resistere ai guasti, per continuare a processare informazioni anche se un nodo si interrompe o un sensore va in panne. Vanno avanti senza filosofeggiare sul significato della vita (a meno che dei dementi umani non lo chiedano). Ricalcolano, correggono, procedono, proprio come fa un ciliegio quando la galaverna spezza un suo ramo: fa di tutto per farlo fiorire un’ultima volta prima che i tessuti conduttori di linfa si chiudano.

Se la capacità umana di affrontare e superare ostacoli si esaurisce dopo tre messaggi senza risposta, la natura – sia vegetale che digitale – ci mostra che il danno non segna la fine, ma è solo un’interruzione temporanea nella connessione. Come per l’esempio del ciliegio, se un sistema informatico va in crash – a patto che sia progettato bene – ha le risorse per rimettersi in carreggiata e ripartire. Noi umani ci troviamo in mezzo: tra piante e codice: potremmo davvero imparare qualcosa da entrambi. Senza clamore, senza app, senza guru della performance.

Mentre noi alziamo gli occhi al cielo ogni qual volta dobbiamo aggiornare l’antivirus o il sistema operativo (col terrore di perdere qualcosa), il faggio ha bisogno di intere stagioni per decidere se valga la pena sporgersi verso la luce o aspettare che il compagno di bosco lo faccia lui o schiatti.

Questo per dire che la risposta vegetale non è lineare e soprattutto non è schizofrenica: si iscrive in un tempo biologico, ciclico, stagionale, paragonabile a secoli rispetto a quello umano e ad ere rispetto a quello digitale. Tuttavia gli algoritmi complessi (quelli seri, non quelli che ti scrivono il tema su Foscolo in due secondi) che governano le machine learning, consentendo un apprendimento da dati, hanno anch’essi bisogno di un lasso temporale piuttosto lungo, fatto di tentativi, errori e altre azioni correttive affinché possano esprimere delle soluzioni più elaborate e finalizzate alla risoluzione cercata.

Basta guardare i primi video dei robot umanoidi: quei goffi golem elettronici che cadevano come ubriachi ogni volta che provavano a fare un passo, e poi confrontarli con le versioni attuali, in grado di correre, saltare, cucinare e pure interfacciarsi con noi per interpretare la nostra psiche.

Forse allora, prima di aggiornare compulsivamente la nostra tecnologia, dovremmo aggiornarci alla pazienza del creato. O almeno prenderci il tempo di uno sguardo differente, prima di condannare il progresso.

In conclusione, le piante — sì, proprio quelle che ignoriamo fino al giorno in cui ci accorgiamo che le peonie sul terrazzo, dietro il cesto della rumenta, sono morte — se osservate con un minimo di attenzione, rivelano una sorprendente intelligenza distribuita, articolata in molteplici forme. Nessun cloud, eppure elaborano segnali, apprendono dai traumi, comunicano con i vicini (senza bisogno della chat “Vicini inopportuni” su WhatsApp), risolvono problemi e, soprattutto, resistono nonostante noi. Tutti aspetti che, da qualche tempo, anche l’intelligenza artificiale tenta goffamente di imitare.

La prossima volta che un chatbot ci risponde con il consueto “Mi dispiace, non ho capito la domanda”, potremmo provare a fare come le piante: aspettare, osservare, metabolizzare. Non per buonismo biofilo, ma per pura sopravvivenza cognitiva.

Forse il problema è proprio lì: continuiamo a progettare intelligenze che vogliono somigliarci, quando sarebbe molto più sensato prendere ispirazione da un sistema che vive, si adatta e non va in tilt quando perde la connessione. Dovremmo progettare un’intelligenza che ragioni per scambio e non per dominio; che risponda attraverso una rete diffusa di stimoli percettivi, non come un assistente esasperato.

Insomma, se volessimo immaginare la prossima mente artificiale, potremmo cercare ispirazione nel regno vegetale: non fondata sulla logica binaria del sì/no, ma su quella fotosintetica del trasforma e condividi; un sistema che non miri alla profilazione, ma alla simbiosi tra individui. Le sue reti non si limiterebbero ad individuare convergenze mediane da compulsare in facili risposte assolutorie, ma favorirebbero l’intreccio di relazioni tra elementi differenti, capaci di redistribuire la consapevolezza come nutrimento. Sarebbero connessioni che si rafforzano nella cooperazione, che elaborano segnali lenti ma profondi, e che, riconoscono il valore dell’attesa — come si aspetta il cambio di stagione —, offrendo soluzioni davvero adeguate al bisogno.

Non per diventare alberi – anche se a volte non sarebbe male –, ma per smettere di comportarci come piante in vaso dimenticate sul balcone: convinti di sapere tutto, mentre ci secca pure la terra.

Alle domande ansiogene e prestazionali dell’esemplare umano frustrato, questo chatbot vegetale risponderebbe senza fretta, affinché il sapiens provi prima a cercare lui la risposta. A differenza dei colleghi virtuali attuali che mirano a rifilare al malcapitato un corso intensivo di yoga tantrico alla modica cifra di 1000 euro, l’intelligenza vegetale sintetica porrebbe delle domande del tipo: quanto sole hai preso oggi? Oppure: hai intrecciato qualche relazione significativa durante la tua giornata?

Mi auguro infine che questa intelligenza possa avere una caratteristica che quella artificiale ancora ha difficoltà a riprodurre, creare e cogliere: l’ironia. Potrebbe farsi una grassa risata quando capirà che l’essere umano, nel suo sforzo di dominare tutto, si è dimenticato come si vive dentro un sistema, e non al di sopra di esso. In fondo, se dobbiamo essere superati, che almeno sia da un’intelligenza con una giusta dose di sarcasmo e che pensi con le radici e non i piedi.

P.S.: Se un giorno un’intelligenza artificiale risponderà ad un tuo quesito urgente, dicendo: Mi sto orientando verso la luce, torna tra un mese, non infuriarti, è solo l’inizio di qualcosa di realmente pensante a cui ho già dato un nome e un logo e che sto “addestrando” …

Collezione di licheni bottone

Fuori dalle nuvole

di Stefano Gandolfi, 19 ottobre 2024

Pubblichiamo il commento di Stefano alle perplessità espresse da Nicola e Paolo a proposito dell’Intelligenza Artificiale (cfr. Nella nuvola). Dal momento che Stefano risponde puntualmente, paragrafo per paragrafo, a queste perplessità, per non appesantire troppo il testo ripubblicando il nostro pezzo rimandiamo di volta in volta il lettore alle singole parti oggetto della riflessione, indicandone l’incipit e la frase finale.

Buon giorno Viandanti. Provo sempre un po’ di disagio a confrontarmi con dei maestri della dissacrazione quali siete. Mi sento totalmente inadeguato, ma cercherò di fare come quando, studente liceale, sceglievo sempre il tema di attualità per sopperire alle lacune in tutti gli altri settori specifici … Tu sai bene, Paolo, quanto io ami esprimermi anche (non solo) per “provocazioni”, non fini a se stesse, ma nella speranza di stimolare un dibattito.

Vediamo se mi riesce …

Mi sono imbattuto […] neppure le briciole saranno del tutto gratis, perché serviranno soprattutto a farci prendere gusto a quel pane, a rendercelo indispensabile e a indurci a farne un elemento essenziale della nostra dieta. A pagamento, naturalmente.”

Beh, nessun dubbio e nessuna illusione, e questo vale per qualsiasi ambito. Da medico posso parlare ad esempio della sanità. Ci stiamo avviando ai modelli privatistici, in Italia abbiamo ancora una discreta riserva di servizi pubblici, che per ancora molti anni garantiranno prestazioni imprescindibili, ma sempre più con affanno, lentezza, minore qualità e disagi nelle prenotazioni, liste d’attesa, rapporti umani con il personale sanitario. Tutto ciò si tradurrà in quanto già si verifica adesso, la qualità la paghi e quando lo fai (se lo puoi fare) tocchi con mano la differenza; sapete bene come in più di una occasione io ho dovuto sperimentare di persona questo percorso. Se pagheremo per la salute, perché scandalizzarsi se dovremo pagare per la cultura? Per lo meno ci sarà la ben magra consolazione che, se nella salute un errore lo paghi anche con la vita, nella cultura tutt’al più pagherai con disinformazioni, fake news, abbrutimento della già pessima cultura di base della popolazione, ma forse la pelle riusciamo ancora a salvarla …

Per questo ritengo […] al più possa essere opposta una consapevolezza, che non può essere che individuale, di come funziona tutta la faccenda. O meglio ancora: di come ha sempre funzionato.

Individuale: giusto. E qui mi (vi) faccio una domanda retorica: a quanti potrà interessare come funziona? tranne ovviamente a noi (si dice sempre: esclusi i presenti) e a quei sempre più sparuti e in minoranza intellettuali, storici, giornalisti, semplici cittadini che abbiano ancora la forza di porsi il problema della veridicità delle fonti? che vogliano ancora combattere per difendere una verità che già adesso, oggettivamente, e non solo in tempi recenti, è sempre più difficile da cercare e conservare preziosamente?

Mi permetto una digressione (prof., fuori tema? rischiamo): sapreste dirmi, in pochi secondi, quanti e quali dei grandi avvenimenti degli ultimi 100 anni, 50 anni, 30 anni, 2 anni, possano con assoluta certezza e obiettività essere ascritti ad una verità vera, inconfutabile, indiscutibile? non parlo dei fatti in sé, ma della interpretazione storica, politica, etica, antropologica, religiosa ecc. che di quei fatti sia doveroso esprimere? A me viene in mente la Shoah, con buona pace dei negazionisti, dopodiché si attraversa un terreno minato: conflitto Russia-Ucraina, conflitto Israele-Palestina, tutto ciò che hanno fatto gli U.S.A. dalla fine della seconda guerra mondiale in avanti, la assoluta impossibilità di sapere chi ha fatto uccidere Kennedy e chi sono stati i mandanti delle efferate stragi in Italia (Ustica ecc.), il nuovo ordine mondiale che sconvolgerà e modificherà radicalmente tutte le categorie etiche da parte delle nuove potenze dominanti (Cina e non solo, pensiamo anche a Modi e all’India, ai paesi arabi del golfo), le furiose polemiche sul Climate Change (anche, e in primis, da parte di scienziati che dicono tutto ed il suo contrario, anche in buona fede intendiamoci, non solo per ovvi interessi economici e di corruzione), il problema dell’inquinamento e dell’intossicazione e avvelenamento collettivo dell’umanità che, analogamente, fa litigare furiosamente tutti perché se lo si accettasse bisognerebbe accettare anche di parlare di decrescita e di un cambiamento radicale dello stile di vita di tutta l’umanità? non mi dilungo, è solo per fare degli esempi, ma il succo della questione che pongo è: al di là che possa interessare, e a quanti, ma che possibilità ci sono, ben prima dell’avvento dell’I.A., di mettere una linea di confine netta e inconfutabile fra verità e interpretazione? In questo mio lungo paragrafo di sproloqui tocco anche considerazioni valide per i passi successivi.

Ma non basta […] Rimane allora il dubbio che possano un giorno tornare utili i cinquanta e passa tomi della vecchia Treccani che Paolo ha messo al sicuro nel Capanno.

Sugli aspetti tecnici della conservazione dei dati non mi preoccuperei più di tanto, anche perché qui non si tratta più di semplice “cultura” di roba per intellettuali di élite, ma di dati assolutamente indispensabili per la sopravvivenza dell’umanità, quindi sarei disposto a scommettere che, quando il gioco si farà serio, si spenderanno cifre folli per riuscire a gestire e conservare con sicurezza tutto quanto, ivi compreso anche l’attacco degli hacker; basta che i “buoni” li paghino un dollaro di più dei cattivi e questi, come già succede abitualmente, si mettono al servizio della “parte giusta”.

La preoccupazione maggiore e più attuale […] ogni innovazione tecnologica da un lato ha ampliato la cerchia degli utenti sui quali la cultura “addomesticata” poteva esercitare influenza, ma dall’altro ha progressivamente eroso a chi la deteneva ampi margini di controllo.

Anche qui il problema può essere valutato in due direzioni uguali ed opposte: intanto, come considerazione terra-terra, nessuno può negare come oggi chiunque possa avere accesso ad una quantità mostruosamente più grande di dati di quanti ne avessimo noi da giovani, ovunque, anche nei posti più poveri, arretrati e remoti del pianeta, un ragazzo ha un cellulare in mano con una connessione, noi lo abbiamo sperimentato in Bolivia a 4500 metri di altitudine, in Nepal, in tutta l’Africa. Poi, che uso uno faccio dei dati, è un altro discorso, qui entra in gioco anche il libero arbitrio del genere umano, nessuno può essere obbligato a usare la connessione per leggere i classici, magari gli interessa solo sapere i risultati di campionati di calcio, dell’NBA o quant’altro, e non dobbiamo correre il rischio del giudizio snobistico ed elitario su quali siano i temi su cui uno si documenta …

Le nuove tecnologie fanno intuire invece un controllo molto più soft […] provvederà il sistema stesso pilotando sapientemente all’interno del bailamme le nostre aspettative, a liquidare o a banalizzare sul nascere ogni tentazione di eresia o di autonomia di pensiero.”

Qui purtroppo, sul tema del controllo, temo che non ci sia molto dire, ma non sull’I.A. in senso stretto, ma su qualunque modalità di informazione, di comunicazione, di relazioni umane che siano sviluppate, succedute nel corso della storia: da sempre chi detiene il potere, politico, economico, religioso, culturale esercita o tenta di farlo, il controllo sulla popolazione che governa, in modo più o meno democratico, in modo più o meno subdolo e feroce, ma sempre con l’obiettivo di tenere sotto controllo le opinioni pubbliche e tutti coloro che possono influenzarle. Tramite i testi religiosi, i testi di storia da usare nelle scuole, i programmi televisivi, insomma l’“egemonia culturale” di cui si discute bilateralmente e appassionatamente nel nostro paese anche oggi. Lancio sul piatto però un’altra provocazione: perché i regimi totalitari come la Cina limitano enormemente l’accesso alla rete? non sarà che poi nessuno, nemmeno i dittatori più spietati, hanno/avranno la possibilità tecnica e politica di limitare l’accesso ai dati? Ne sono letteralmente terrorizzati, il che starebbe a significare non tanto che possano manipolarli a loro piacimento, bensì, al contrario, siano consapevoli che non possono opporsi allo “tsunami” del flusso di dati in rete. Questo potrebbe ribaltare, o se non altro modificare, la preoccupazione sul controllo dei dati e delle informazioni.

Seconda considerazione scientifica: La mente umana, nel senso anatomico-funzionale del cervello, è un organo nobile enormemente plasmabile, modificabile nei suoi circuiti neuronali, nelle sue singole aree di funzionalità, nelle sue connessioni interemisferiche, nel suo sviluppo plastico principalmente nell’infanzia-adolescenza ma anche nei decenni successivi, se adeguatamente “allenato” e sollecitato. I millennial, rispetto ai boomer, possiedono, già, da questo punto di vista, peculiarità da “digitali nativi” ormai universalmente accettate e documentate a livello neurobiologico. Le connessioni con devices esterni, al momento oggetto di scrittori di fantascienza, non penso siano molto lontane da applicazioni pratiche con scenari a seconda dei punti di vista, minacciosamente distopici, inquietanti oppure di progresso ed evoluzione inimmaginabili. Potremmo ipotizzare che in un futuro nemmeno troppo remoto le menti umane potranno competere o comunque confrontarsi alla pari con I.A.? Arrivare ad un punto tale in cui non avrà più senso chiedersi chi modifichi cosa o viceversa, perché il cambiamento, il rimodellamento, sarà un flusso continuo, bidirezionale senza un conduttore che prevale sull’altro? Un potenziamento in cui la parte umana potrà esprimere sempre più potentemente la sua componente psichica, emotiva, imprevedibile, intuitiva e geniale grazie alla quale potrà adeguarsi al potentissimo incremento tecnologico e informatico di I.A.? Un gioco alla pari? Poi, la domanda delle domande, sono d’accordo, è: chi potrà usufruire di tutto questo? sempre i soliti ricconi l’élite che comanda il mondo senza che se ne conoscano i nomi e i volti, oppure saranno accessibili a tutti? E chi li distribuirà alla popolazione? l’OMS, l’ONU, un comitato di Premi Nobel per la Medicina, Fisica, Biochimica oppure personaggi come Elon Musk? Ma anche in questo caso il problema si pone e si porrà per tutto: per il cibo, per l’acqua, per i farmaci, per l’aria che respiriamo, arriveremo a pagare l’acqua e l’ossigeno? In tal caso temo che l’I.A sia se non l’ultimo, comunque il meno urgente dei problemi …

L’idea poi che le leggi, le regole sulle quali si basa la nostra convivenza, possano essere affidate ad un cloud ci inquieta […] E infine, comunque la si metta, anziché agevolare il recupero o il potenziamento di quella intelligenza naturale che tanto sembra oggi difettare, c’è il rischio concreto che ne sanciscano la definitiva atrofizzazione.

A conti fatti, non sembriamo messi troppo bene.

Sì, non troppo bene, ma, ripeto, per molti altri motivi fra i quali l’I.A. non necessariamente potrebbe essere il motivo peggiore … l’intelligenza naturale non si atrofizzerà, più probabilmente si trasformerà in qualcosa che difficilmente oggi possiamo immaginare. Sarà meglio? peggio? chi può dirlo? Dipenderà, come sembra, da quanto questo cambiamento sarà “democratico” piuttosto che elitario, da come verrà gestito e da chi, e non ultimo da cosa l’essere umano vorrà fare di questi nuovi strumenti … e sulla affidabilità e fiducia nel genere umano, Paolo ce lo insegna, non c’è molto da stare allegri “a prescindere”, come direbbe Totò!

Mi viene in mente un malsano pensiero, che cercherò di ricacciare indietro, o magari ne potremo parlare poi (tu Paolo sai già dove vado a parare …), ovvero la considerazione che, diventando vecchi, diventiamo tutti chi più chi meno più pessimisti, più negativi, più categorici, più nostalgici dei bei tempi passati, più severi nel giudizio sulle nuove generazioni, più intolleranti, meno in grado di adeguarci al nuovo, al mondo presente e futuro e più spaventati, inquietati e disturbati dalle nuove tecnologie … non esiste nessuno, nella storia dell’umanità, che ad un certo punto ben preciso della propria vita, all’incirca fra i 55-60-65 anni ed oltre, non individui in quel preciso momento il punto di svolta dell’universo, in cui tutto ineluttabilmente volge al peggio, un punto preciso in cui fino a prima le cose erano migliori e da subito dopo diventeranno irreversibilmente peggiori … potrebbe essere che questo c’entri qualcosa ??

P.S. ma Leonardo da Vinci avrebbe avuto paura dell’I.A ??

Nelle nuvole

di Nicola Parodi e Paolo Repetto, 17 ottobre 2024

Ci siamo imbattuti ultimamente in una serie di articoli nei quali si ventila che i maggiori siti di Intelligenza Artificiale (AI) stiano accordandosi per assoggettare a pagamento tutti i servizi che erogheranno. La cosa non ci ha indignati, ma ci ha stupiti. Non ci ha indignati perché non avevamo mai avuto il minimo dubbio che sarebbe finita così, e ci ha invece stupiti perché questi articoli trattavano la cosa come un’allarmante “eventualità”.

Ma quale eventualità! Ci sembra tutto così chiaro. Nessuno investe milioni o miliardi di dollari, di euro o di yen che si voglia per offrire un servizio a tutta la comunità umana. Al più potranno essere distribuite gratuitamente un po’ di briciole, quel che rimane sul tavolo dopo essersi spartiti le fette. E neppure le briciole saranno del tutto gratis, perché serviranno soprattutto a farci prendere gusto a quel pane, a rendercelo indispensabile e a indurci a farne un elemento essenziale della nostra dieta. A pagamento, naturalmente.

Per questo riteniamo che tutto il fiorire ultimo di G7 e di convegni e di predicozzi papali sul futuro dell’AI e sulla sua regolamentazione sia solo un teatrino più o meno consapevole di essere tale. Pensiamo che in effetti strumenti di difesa efficaci contro l’abuso e la strumentalizzazione non ce ne siano, e che al più possa essere opposta una consapevolezza, che non può essere che individuale, di come funziona tutta la faccenda. O meglio ancora: di come ha sempre funzionato.

Proviamo a riassumere, senza naturalmente la pretesa di riscrivere la storia dell’uso degli strumenti “intelligenti”, ma solo per buttare lì qualche spunto di riflessione non supinamente ortodosso e non aprioristicamente eterodosso.

Dunque. Con l’invenzione di “segni impressi manualmente su un substrato” gli umani sono stati svincolati dalla necessità di archiviare nella memoria parole, cose e fatti. Volendo possono essere considerate come substrato originario anche le pareti delle caverne, ma convenzionalmente l’origine della scrittura vera e propria è fissata all’uso di tavolette di argilla, sostituite poi attraverso innovazioni successive da papiri, pergamene o carta. E già lì il problema si poneva, come dimostra l’avversione, o quantomeno la diffidenza, di Platone per la parola scritta. Le ragioni addotte da Platone riguardavano l’appiattimento del discorso che la scrittura automaticamente produce, la sua neutralizzazione, in quanto si azzerano tutte le sfumature che il tono di voce o le espressioni facciali o la postura fisica consentono più o meno volutamente a chi parla di introdurvi, e a chi ascolta di coglierle, ma soprattutto la sostanziale passività che è indotta in chi ne fruisce.

C’era però anche un altro problema, ma questo Platone non se lo poneva, stante la sua concezione di un sapere “elitario”. Le innovazioni tecnologiche hanno permesso di “imprimere i segni” in maniera via via più veloce e meno costosa, e da ultimo anche automatizzata, con la conseguente moltiplicazione dei libri o di altri strumenti di trasmissione del sapere o quantomeno dell’informazione, e quindi hanno aperto l’accesso a quest’ultima ad una platea sempre più vasta. Ma sia per quanto ha riguardato per quattro o cinque millenni la trasmissione scritta che per quanto concerne oggi quella audio-visiva, la platea ha continuato ad essere sostanzialmente passiva (e più che mai lo è diventata di fronte ai media introdotti negli ultimi due secoli): si è nutrita quindi di saperi e di informazioni gestiti e selezionati e distribuiti di volta in volta dai diversi poteri (politici, religiosi, economici, ecc.). Per questo diciamo che la non solo possibile ma più che probabile monopolizzazione dell’AI, e non solo a fini economici ma anche di condizionamento sociale, non rappresenta affatto una novità. È sempre andata così. Con buona pace anche di noi sostenitori della intrinseca positività dell’innovazione tecnologica, dobbiamo ammettere che l’accesso ad un uso “attivo” delle tecnologie che supportano l’informazione e la trasmissione del sapere è consentito ai “non addetti ai lavori” solo quando queste ultime diventano obsolete. Oggi chiunque è in grado di prodursi a costi bassissimi un libro, o di girare un film o di aprirsi uno spazio in rete, ma questo libro o questo film o questo spazio, se non sono inseriti in un meccanismo di mercato che ne condiziona già in partenza la libertà espressiva, finiscono in un mare magnum nel quale non hanno la minima visibilità o rilevanza.

Vediamo comunque cosa ci aspetta. I “segni” cui ci si affiderà per il futuro, pur avendo ancora una loro effimera fisicità, sono “impressi” su un substrato e con tecniche tali per cui possono essere “visti e letti”, ma non lasciano una traccia “fisica” concreta. Vale a dire: questa roba c’è, può essere vista e letta, è rintracciabile velocemente e con facilità, ma in realtà non sappiamo affatto dov’è, con che criteri viene archiviata, e da chi, e a quale scopo. Si, certo, sappiamo che questo lavoro lo fanno i grandi gestori dei big data, ma abbiamo la minima idea di chi ci sia davvero dietro, dei traffici, delle guerre commerciali, degli accordi e degli scambi che si operano ben al di sopra delle nostre teste?

Ma non basta. Un’altra preoccupazione immediata riguarda la resistenza del supporto della fisicità dei dati. Con la progressiva sparizione degli archivi delle burocrazie reali, dei templi e delle biblioteche nei quali i dati erano conservati su supporti fisici, stiamo affidandoci sempre più alla “nuvola”. Con quali garanzie? Un’eruzione solare o una tempesta magnetica particolarmente forte o, senza scomodare la natura, una guerra dissennata combattuta nell’etere, potrebbero riportarci all’età della pietra? Il problema è reale, è già ampiamente discusso, ma noi tendiamo ad autoconvincerci che la tecnologia sarà comunque in grado di rimediare a questi rischi. In fondo, ci diciamo, i supporti vecchio stile hanno permesso una conservazione dei dati aldilà di quanto potevano immaginare i nostri avi: al giorno d’oggi tecnologie d’avanguardia consentono di leggere cosa c’era scritto sulle pergamene prima che venissero raschiate per essere riutilizzate, o addirittura di leggere i papiri ritrovati ad Ercolano. Ma parliamo pur sempre di supporti concreti sui quali lavorare: l’etere è un’altra cosa, e ci si chiede come sarebbe possibile rintracciarvi dati eventualmente dispersi.

Perché ci sono poi anche altri rischi: l’accensione della carta richiede una temperatura tra i 200 gradi e i 350 circa, a seconda dello spessore, e solo un malaugurato incidente o una “milizia del fuoco” come quella di Fahrenheit 451 possono provocarla, mentre il funzionamento dei megaserver nei quali stipiamo oggi le conoscenze necessita di temperature costanti tra i 30 e i 40 gradi. Con i mutamenti climatici in corso sarà sempre più difficile garantirle. Può sembrare una forzatura, ma in realtà abbiamo già modo di constatare quotidianamente come i più sofisticati sistemi di previsione, di prevenzione e di protezione vadano in tilt ad ogni stormir di foglia o ad ogni attacco degli hackers. È vero, anche la biblioteca di Alessandria, così come molte altre, è andata a fuoco, e una infinità di opere del passato è andata perduta: ma lo sappiamo perché di queste opere è rimasta comunque memoria, qualcuno ce ne ha comunque parlato, mentre ciò che finisce nella nuvola difficilmente ridiscenderà sulla terra come pioggia a fecondare i cervelli: è più probabile che si vaporizzi nel nulla. Rimane allora il dubbio che possano un giorno tornare utili i cinquanta e passa tomi della vecchia Treccani che Paolo ha messo al sicuro nel Capanno.

La preoccupazione maggiore e più attuale concerne però, come si diceva sopra, il rischio dell’appropriazione indebita del sapere da parte di società private fornitrici di servizi di AI. La cultura attuale è un frutto collettivo, prodotto dall’umanità durante tutta la sua storia, anche se con una accelerazione esponenziale negli ultimi millenni. Le varie società private utilizzeranno questo patrimonio dell’umanità per fare profitti, e potranno decidere quale conoscenza può essere fatta circolare o quale è meglio tenere riservata per i loro fini, politici o economici che siano. Un po’ come accadeva nella biblioteca dell’abbazia ne Il nome della rosa. Permettendoci di interrogare i loro sistemi ci daranno poi un’illusoria ed effimera sensazione di essere colti, mentre in realtà saremo solo consumatori di un prodotto culturale pre-confezionato e incartato, di uno spettacolo cui assistere passivamente.

Ripetiamo: è sempre stato così, il sapere e l’informazione trasmessi sono sempre stati trattati e normalizzati in funzione di chi ne deteneva il possesso (si pensi solo al lavoro di “ripulitura” dei testi sacri operato dalle varie chiese – per non parlare di quello della loro “creazione”), e da sempre ci sono individui o gruppi (medici, ingegneri, insegnanti ecc.) che usano le conoscenze prodotte dall’umanità per ricavarne un reddito. Quelle conoscenze sono però frutto di impegno e fatiche personali che hanno portato all’acquisizione di competenze necessarie alla società, che vanno riconosciute e remunerate al pari di quelle di qualunque altro lavoratore, e sono comunque a disposizione di tutti e non riservate ai membri di qualche setta (o azienda). Le modalità stesse della loro detenzione, poi, della conservazione e della circolazione, le hanno rese passibili (almeno negli ultimi secoli, ma in fondo da sempre) di essere confrontate, riviste, confutate: oseremmo dire che ogni innovazione tecnologica da un lato ha ampliato la cerchia degli utenti sui quali la cultura “addomesticata” poteva esercitare influenza, ma dall’altro ha progressivamente eroso a chi la deteneva ampi margini di controllo.

Le nuove tecnologie fanno intuire invece un controllo molto più soft e molto più subdolo: non ci sarà bisogno di alcuna censura, di alcuna proibizione conclamata: provvederà il sistema stesso, offrendo in apparenza possibilità illimitate, ma pilotando sapientemente all’interno del bailamme le nostre aspettative, a liquidare o a banalizzare sul nascere ogni tentazione di eresia o di autonomia di pensiero.

L’idea poi che le leggi, le regole sulle quali si basa la nostra convivenza, possano essere affidate ad un cloud ci inquieta: ricorda un po’ troppo epoche nelle quali le leggi erano garantite dagli Dei, e interpreti della volontà degli Dei erano i sacerdoti, almeno fino a quando non cominciarono ad essere scolpite sulla pietra, da Hammurabi a Mosè alle dodici tavole. La cultura del diritto, della quale tanto si parla, soprattutto a sproposito, nasce proprio da lì, da quelle pietre. Altro che nuvole.

Non vorremmo essere fraintesi. Non stiamo invocando un ritorno all’età della pietra: semmai proprio il contrario. Stiamo dicendo che il modello produttivo, e di conseguenza quello sociale, che abbiamo adottato suppone forme di organizzazione sempre più complesse, che a loro volta richiedono quantità di competenze impossibili da padroneggiare da un singolo. E che laddove la programmazione non possa essere eseguita e gestita dallo stato, cosa che oggi sta accadendo quasi ovunque perché le potenze che guidano il gioco sono ormai transnazionali, subentrano società private che possono investire enormi capitali: e che questi capitali, proprio perché enormi, si sottraggono al controllo di quei cittadini che attraverso lo stato dovrebbero esercitarlo. Alla faccia della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza.

Anche questo in qualche modo è già accaduto, sin dalla notte dei tempi storici: la nascita delle città, ad esempio, ha certo liquidato le libertà di cui godevano i cacciatori-raccoglitori del paleoliotico: ma ha anche prodotto degli anticorpi, dapprima marginali, poi sempre più robusti, che hanno conferito alla libertà e alla dignità individuale altri significati (e se siamo qui oggi a parlarne e a porci il problema lo dobbiamo a questa evoluzione culturale). La domanda è se questi anticorpi, davanti alla pervasività che si prospetta totalizzante dell’intelligenza artificiale e al monopolio culturale che questa ambisce ad esercitare, sapranno ancora reagire, escogitare strategie di difesa. Anche in questa direzione i dubbi sono più che giustificati.

Insomma. Se agiranno in regime di “proprietà privata”, le aziende che fanno ricerca nel settore dell’AI, che già si guardano bene dal divulgare i risultati di queste ricerche ma si affrettano piuttosto a tradurli in utili, a trasformarli in un “prodotto” (che come tale ha come destinazione naturale un mercato e come scopo un profitto), metteranno in vendita qualcosa che non appartiene loro, che è un capitale comune maturato dall’umanità. Non solo: lo faranno esercitando una discrezionalità totale, promuovendo o oscurando i dati in loro esclusivo possesso a seconda degli interessi in gioco. E infine, comunque la si metta, anziché agevolare il recupero o il potenziamento di quella intelligenza naturale che tanto sembra oggi difettare, c’è il rischio concreto che ne sanciscano la definitiva atrofizzazione.

A conti fatti, non sembriamo messi troppo bene.

Postilla. L’Enciclopedia Treccani di cui sopra mi è stata regalata da una conoscente una decina d’anni orsono, forse proprio per fare posto al digitale. Consta dei trentasei volumi dell’edizione originaria, pubblicati tra il 1929 e il 1937, più altri quattordici di Appendici aggiornate sino al 1992 e uno di apertura sul nuovo millennio. È insomma come quelle che di recente, a partire dall’era Covid, avete visto alle spalle di molti dei partecipanti da remoto ai talk televisivi. La mia è ospitata nel Capanno dei Viandanti (che peraltro non ne fanno granché uso), perché in casa occuperebbe almeno la metà di una parete, mentre già attualmente non rimane spazio nemmeno per una rivista. Non apparirà mai in tivù non perché è esiliata al Capanno, ma perché io non frequento i talk.

Ci torno su invece perché offre a mio giudizio un esempio particolarmente ambiguo di trasmissione di “cultura” intesa come “prodotto finito”, summa dei dati e dei saperi. Questo “prodotto culturale” viene infatti riproposto in tempi diversi nella stessa confezione, anche se gli ingredienti e le ricette sono spesso completamente differenti. Non è questa la sede, ma sarebbe interessante analizzare le correzioni, le variazioni o le cancellazioni conosciute nell’arco di mezzo secolo da alcune “voci” particolarmente significative (ad esempio, dalla voce: razza).

Ora, certamente la cultura è un continuo processo conoscitivo, ed è quindi normale che i dati si aggiornino e i punti di vista mutino: ma è inquietante constatare come l’involucro abbia conservato, e trasmesso al contenuto, sempre la stessa autorevolezza (e sua la presenza come convitato di carta nei salotti televisivi mira proprio a questo). È inquietante perché di un’identica proprietà sembra godere oggi ogni confezione digitale, e senza nemmeno che vengano a incrinarla gli Aggiornamenti.

Per il momento mi limito a sottolineare come sulla Treccani queste voci fossero comunque affidate a specialisti, che si presumeva avessero una preparazione specifica, e che firmavano i lemmi (per cui era possibile con poco sforzo determinare le loro coordinate), mentre le odierne enciclopedie digitali, prima tra tutte Wikipedia (della quale peraltro mi avvalgo), hanno alle spalle collaborazioni volontarie e anonime: ciò significa che quando va bene queste collaborazioni soffrono di dilettantismo, di scarsa accuratezza nella verifica delle fonti, di datazioni o attribuzioni errate, ecc… mentre quando va male nascono da un preciso intento di interpretazione e strumentalizzazione ideologica (intere aree storiografiche, ad esempio quella relativa al fascismo, sono state prontamente colonizzate da una storiografia di destra decisamente d’accatto: ma questo vale anche purtroppo per la sinistra). Ebbene, sul web tutte queste voci hanno pari dignità, e stanti i criteri quantitativi coi quali l’algoritmo ne decreta la rilevanza (in sostanza, il numero di accessi), e quindi l’ordine di comparsa sullo schermo, è evidente che tale “rilevanza” non potrà che crescere nel tempo.

Questo ci riporta direttamente all’intelligenza artificiale e alle prospettive che apre. L’interrogativo che ricorre con maggiore frequenza nelle discussioni sull’argomento riguarda la possibilità o meno dell’AI di riprodurre esattamente, e di potenziare, tutti i meccanismi e le funzioni intellettive del cervello umano: quindi non solo di eguagliare, ma di superare le capacità della nostra mente. La risposta che io mi davo sino a ieri era che esiste anche una intelligenza del corpo, che passa per i nostri sensi prima ancora che per la mente, e che non può essere clonata da una macchina. Oggi non ne sono più tanto sicuro, e comunque non importa, perché credo invece che sia malposta la domanda. Penso infatti che quello in corso non sia un processo di adeguamento dell’intelligenza artificiale a quella umana ma, al contrario, di adeguamento dell’intelligenza umana a quella artificiale. Tutti i nostri comportamenti, in effetti, e non solo quelli mentali ma anche quelli fisici, sono già sin da ora, quando di AI si parla ancora come di un progetto allo stato nascente, fortemente condizionati da protesi, da strumentazioni, da modalità di comunicazione e di spostamento che riconfigurano lo spazio e il tempo, dilatano e sterilizzano i rapporti, dettano le priorità, rimodellano le aspettative. Io stesso, che siedo in questo momento davanti a un computer, sto scrivendo in una modalità che da un lato sembra offrirmi possibilità infinite di ripensamento, di correzione, di controllo lessicale, di approfondimento, di verifiche e di ricerche in tempo reale, senza alzarmi dalla sedia, ma dall’altro mi induce una pigra dipendenza, mi asseconda se mi conformo ai suoi protocolli di scrittura e silenziosamente indirizza e influenza ciò che scrivo.

Insomma, sono io ad abituarmi a pensare come la macchina, e non viceversa. (P. R.).

Buoni propositi

di Paolo Repetto, 31 dicembre 2021

Sono le otto del mattino del 31 dicembre e ho deciso di accettate la sfida. La sfida è con me stesso, e consiste nel riuscire a buttar giù entro le prossime dodici ore un elenco di possibili temi di discussione con i quali festeggiare (insomma) la dipartita di questo ennesimo anno funesto. È una cosa da fare entro le venti per consentire a Fabrizio di postare il tutto sul sito, ed entro oggi perché immagino una serata in tono minore (o maggiore, a seconda dei punti di vista) per un sacco di gente, soprattutto per gli amici che non godranno della mia compagnia: un capodanno trascorso mestamente in casa, col rischio di intossicazione alcoolica o televisiva. Ho quindi in mente come destinatarie di questo messaggio riunioni amicali o familiari ristrette, di quelle in cui lo spazio per la comunicazione di eventi quotidiani positivi o negativi (accoppiamenti/separazioni, promozioni/problemi sul lavoro, ecc. ) o di gossip ordinario è molto ridotto, perché si sa già tutto di tutti, mentre è per una volta un po’ più ampio quello temporale per affrontare argomenti di stampo diverso. Ma potrebbe anche essere il caso di un capodanno solitario, o di coppia, e in questo caso l’interlocutore potrebbe diventare magari il computer (sono un po’ scettico sul livello del dibattito domestico, a prescindere dall’oggetto dibattuto).

I temi che propongo alla discussione non sono in effetti quelli scelti di solito per riempire l’attesa di un’ora tanto simbolica. Ma anche gli argomenti apparentemente meno distensivi possono essere trattati con un filo di leggerezza, come si conviene alla specifica occasione: ad esempio, riflettendo sul fatto che nelle varie parti del globo quell’ora è diversa, che in Australia quando noi facciamo fare il botto allo spumante si accingono al primo pranzo dell’anno nuovo, mentre a New York escono dal lavoro dell’ultimo giorno di quello vecchio. E che per altri ancora, più della metà dell’umanità, il capodanno arriva in un altro giorno (quello ortodosso, ad esempio, il 14 gennaio) o addirittura in un altro mese (quello cinese il 1 febbraio). Il che sarebbe già più che sufficiente a togliere ogni sacralità e legittimità al nostro festeggiamento, e a farci laicamente decidere di andare a letto (col che il problema di riempire l’attesa non si porrebbe).

Buoni propositi 02Mettiamo però che per qualche loro ragione, fosse anche solo per abitudine, il gruppetto, la coppia o il singolo decidano di tirare dritto e approdare alla mezzanotte. Non possono rimanere con forchetta e coltello in mano dalla cena all’ora x, almeno qui in Piemonte, dove il pasto serale inizia alle 20. Bisogna mettere sul tavolo, oltre ai ravioli, alle lenticchie, ai panettoni e alle bevande, anche qualcos’altro. E non è necessario farlo in maniera ufficiale, dichiarando il tema della serata e inducendo subito tutti a lasciar cadere le braccia e le posate. Si può buttare l’amo con leggerezza, innescandovi un banale riferimento o una battuta: che so, la nascita di un nipote o il rifiuto sempre più diffuso di responsabilità familiari da parte dei figli potrebbe aprire la strada a un dibattito sulla sovrappopolazione; una considerazione sul tipo di fauna che monopolizza i programmi televisivi potrebbe far scivolare verso la questione gender, ecc. L’importante è che poi la discussione e le argomentazioni rimangano su un piano di assoluta levità: ovvero, non scadano nel litigio o nella volgarità, e l’occasione non venga sfruttata per tenere conferenze o impartire lezioni.

Confesso però che quello dell’attesa “impegnata” è solo un escamotage. Non sono così sadico da voler rovinare a qualcuno la serata. Il vero scopo di questo elenco non è quello di nobilitare “culturalmente” la vigilia. L’ho pensato come un’agenda da trasmettere al prossimo anno: una serie di punti che vorrei vedere trattati nell’immediato futuro sul sito, con tutta la serietà possibile, che significa con ragionevolezza e con un po’ di cognizione di causa. La sfida in questo caso non è al tempo, ma agli amici e a tutti i frequentatori del nostro sito. Esistono senza dubbio innumerevoli altri argomenti di altrettanta rilevanza, ma quelli che troverete elencati già bastano ed avanzano per giustificare l’attività di riflessione di un intero anno, e anche di quelli successivi, se verranno. Ed è evidente che nessuno ha la presunzione di dare risposte o scovare formule che salvino il mondo o ne correggano anche in infinitesima parte le storture: semplicemente, si tratta di viverci, in questo mondo, per quel poco di tempo che ci è dato, in maniera per quanto possibile consapevole e dignitosa. Di provarci, almeno.

Col che, bando alle chiacchiere e passiamo a considerare questi possibili argomenti. Non li elenco secondo un qualche criterio di rilevanza, ma semplicemente in ordine di apparizione (alla mia mente)

Buoni propositi 031. L’intelligenza artificiale, ad esempio. Viene per prima perché è lo stimolo che ha fatto scattare tutta questa operazione. Ne ragionavo ieri con Nico, e mi è rimasto in testa. Non è, come dicevo sopra, uno degli argomenti di cui si parla normalmente a tavola, soprattutto in questo periodo, nel quale la pandemia ha fatto uscire semmai allo scoperto un grave deficit di intelligenza naturale. Ma il motivo vero per cui non se ne parla è che le competenze in proposito sono decisamente poco diffuse. Preferiamo lasciare che se ne occupino i matematici, gli informatici e i cognitivisti.

Eppure, con l’intelligenza artificiale già conviviamo da un pezzo. È applicata in campo medico, nel controllo della finanza, nella traduzione e nell’elaborazione di testi. Abbiamo a che farci quotidianamente guidando le automobili di ultima generazione, segnatamente quelle elettriche, e stanno arrivando quelle a guida totalmente autonoma. Oppure, nella comunicazione, interloquiamo costantemente con assistenti telefonici automatici, mentre oltreoceano troviamo addirittura quotidiani già diretti da un software. Il fatto è che, a differenza di quanto accade per i mutamenti climatici, questa presenza non la notiamo granché, ad essa ci stiamo rapidamente assuefacendo. Ma non è nemmeno questo il nocciolo del problema. La domanda è: sarà in grado l’intelligenza artificiale di superare quella umana? E se si, quali possono essere le conseguenze? Io naturalmente qualche idea ce l’ho, e la butto lì come innesco alla riflessione. L’intelligenza artificiale è in grado di viaggiare, nell’elaborazione dei dati e nella formulazione delle risposte, a una velocità infinitamente superiore a quella del cervello umano. Il suo vantaggio è questo. Il suo handicap, paradossalmente, è invece costituito dal fatto che non può sbagliare, almeno in relazione alle cose per le quali è programmata. E noi sappiamo che le conquiste umane, l’evoluzione stessa, si basano sulla possibilità di errore: ogni mutazione biologica è frutto di un errore di duplicazione cromosomica, ogni grande scoperta è frutto di uno scarto da quella che appariva la giusta strada. Quindi: l’intelligenza artificiale, per complessa che sia, non dovrebbe arrivare a superare quella umana. Ma senz’altro può mettere fuori gioco quest’ultima, proprio in ragione della velocità. Abbiamo sempre più bisogno di questa velocità, ma a questo punto l’intelligenza artificiale è diventata autoreferenziale ed è essa stessa a indurre questo bisogno, lasciandoci sempre più indietro. Già si stanno creando le condizioni per le quali non riusciremo più a tenerla a bada. Inoltre, proprio perché organizzata in modo da non contemplare l’errore, l’intelligenza artificiale sviluppa e impone una logica tutta sua, lineare, con la quale interpreta un mondo che lineare non è affatto, che è invece dominato da forze che sfuggono a qualsiasi riduzione ad algoritmo, e abitato da uomini che agiscono in maniera tutt’altro che logica e prevedibile. L’unica cosa che possiamo ragionevolmente prevedere è che, comunque la si metta, non ne verrà fuori nulla di buono.

Buoni propositi 042. Altro argomento poco affrontato all’ora di cena, ma anche in tutte le altre, è quello del sovrappopolamento del pianeta, In questo caso a indurci a glissare sono diversi fattori. Intanto la convinzione che si tratti di un fenomeno ineluttabile, rispetto al quale non c’è politica o scelta che tenga, e che sarà semmai la natura stessa presto o tardi a farsene carico. Poi il disagio, un fastidio da un lato e quasi un senso di colpa dall’altro, che proviamo nel renderci conto come in realtà dalle nostre parti sia in atto già da un pezzo un decremento demografico, mentre altrove, nelle aree che un tempo erano definite sottosviluppate e che in gran parte sono effettivamente tali ancora oggi, la direzione si inverte. Di oggettivo ci sono solo alcuni dati: ci stiamo approssimando agli otto miliardi, e a questo ritmo il prossimo capodanno li avremo superati, perché la popolazione mondiale è cresciuta nell’ultimo anno di oltre ottantun milioni: negli ultimi trentacinque anni è rimasta pressoché stabile in Europa, è più che raddoppiata in Africa, è aumentata di oltre il cinquanta per cento in Asia e in America Latina, e del quaranta per cento nell’America del nord. In Italia il saldo demografico è negativo da dieci anni, il che significa che la popolazione è calata sotto i sessanta milioni, dopo averli abbondantemente superati: quello naturale, il rapporto cioè tra nati e morti, è stato lo scorso anno quasi di uno a due, le nascite sono state la metà dei decessi. Sulle cause di questi differenti fenomeni non mi dilungo, dovrebbero essere appunto il sale della discussione.

Lo stesso vale per le proiezioni: quelle più catastrofiche parlano di una popolazione mondiale che toccherà i dodici miliardi alla fine di questo secolo, altre più ottimistiche si fermano a quasi nove miliardi, prevedendo un picco verso la metà e un calo considerevole nell’ultimo quarto. Ma anche questa seconda prospettiva non modifica significativamente la portata del problema, perché il peso della popolazione è già oggi insopportabile per il globo, e considerando anche lo stato attuale di sfruttamento delle risorse, a partire dall’acqua, la stima di quello ottimale per ripristinare un equilibrio non va oltre i tre miliardi. E non basta appellarsi ad una distribuzione più equa delle risorse: comunque divisa, la torta rimane quella.

Bene, tutte queste cifre spiegano il perché del nostro senso di impotenza e il modo in cui la crescita si differenzia spiega invece il perché del nostro disagio. In sostanza: il decremento demografico in teoria ci va bene, solo vorremmo che si verificasse anche nelle altre parti del mondo. Ma il decremento comporta anche un invecchiamento medio della popolazione, quindi sempre meno lavorativi attivi in grado di garantire il benessere di quelli inattivi. Il che rimanda immediatamente al tema dell’immigrazione. In Italia, ad esempio, abbiamo bisogno di importare forza-lavoro, ma in questo modo importiamo anche culture non sempre compatibili con la nostra (con buona pace dei multiculturalisti): per garantire la sopravvivenza di quest’ultima (sempre che lo si ritenga necessario, e anche su questo le opinioni sono molto diverse) dovremmo invece favorire una politica di incentivazione delle nascite, sul tipo di quelle adottate nei paesi del nord Europa. Contravvenendo però in tal modo a quello che la natura suggerisce. Insomma, un gran pasticcio, del quale siamo decisamente poco consapevoli e meno ancora informati.

Buoni propositi 053. Si parla molto, invece, anche troppo, di identità di genere, e l’impressione è che lo si faccia sempre in termini sbagliati, o quantomeno ambigui. In realtà se ne sente parlare quasi esclusivamente da chi questa identità la vive come un problema, ciò che di per sé sarebbe più che giusto, o da chi l’ha ridotta allo stato “liquido” oggi tanto di moda, e questo invece ci irrita. A disturbarci sono prima di tutto i modi e i luoghi della discussione, l’esasperazione isterica e i salotti televisivi, la sua resa totale alla spettacolarizzazione. Nemmeno questo è dunque un argomento conviviale, sia pure per tavolate ristrette, perché affrontarlo ci mette in difficoltà: da un lato c’è sempre il rischio di urtare la sensibilità di qualcuno direttamente o indirettamente interessato, dall’altro abbiamo timore di essere fraintesi, oppure proviamo la sensazione di tradire la nostra vocazione “di sinistra”, progressista, che dovrebbe vederci disponibili alle più ampie aperture. Finisce così che quando capita di sbatterci contro liquidiamo la faccenda o assumendo posizioni ideologizzanti o trincerandoci sarcasticamente dietro banali battute.

Questo accade perché ancora una volta un problema reale, quello di educare alla parità e al rispetto delle differenze e a considerare le diversità un valore, è stato estremizzato sino all’affermazione dell’inesistenza di differenze tra i sessi biologici, dalla quale discenderebbe la possibilità di variare a piacimento la propria identità sessuale. Leggevo ieri che in Danimarca dall’anno entrante l“appartenenza” sarà anche ufficialmente quella “percepita” dal soggetto, sarà cioè sufficiente dichiararla per cambiare il proprio stato anagrafico. Le ricadute di carattere sociale, giuridico e psicologico sono difficili da immaginare, e infatti sino ad oggi l’esercizio è stato proprio quello di provare a immaginarle, troppo spesso però, anzi, quasi sempre, fermandosi al livello della barzelletta o del paradosso. Anche se personalmente non ritengo che al problema si debba dare una priorità assoluta (contrariamente a quanto abbiamo visto accadere con la legge Zan, che ha provocato addirittura tumulti in parlamento, mentre all’atto della discussione e dell’approvazione di una legge sull’eutanasia Montecitorio era deserto), forse varrebbe la pena di cominciare a trattarlo con un po’ di serietà, lasciando da parte ogni “politicamente corretta” ipocrisia.

Buoni propositi 064. In questo gioco delle ipocrisie la “sinistra”, o quel che ne resta, o quel che ancora si autoetichetta tale, senza dubbio primeggia. Non avendo uno straccio di idea, di progetto, di visione del presente e tanto meno del futuro, vive di continui apparentamenti, insegue movimenti e campagne d’opinione specifiche, cerca di stare al passo con un mondo in trasformazione ma non ha chiara nemmeno la direzione in cui muoversi. La miopia relativa al presente e al futuro nasce dalla rimozione del passato. Voglio dire che la sinistra, quella eterodossa non meno di quella tradizionale, non ha mai fatto una pulizia reale nella propria storia: nel secondo caso l’ha semplicemente messa in soffitta pensando di potersi riconvertire (in cosa?) senza pagare alcun dazio, nel primo continua a trastullarsi con scampoli di nostalgie o con cause abbracciate senza alcuno spirito critico, per avere una qualche bandiera, uno slogan, una kefiah da esporre, e un nemico su cui scaricare i mali del mondo. Mi piacerebbe poter sognare una “rifondazione” della sinistra a partire da alcune basilari prese d’atto, ad esempio quella relativa all’inesistenza di una “natura umana” positiva (alla Rousseau, per intenderci) e alla “naturalezza” invece delle soluzioni culturali escogitate dall’uomo per garantirsi la sopravvivenza, con tutto quel che nel bene e nel male ne è conseguito: ma sembra proprio si continui a viaggiare nella direzione opposta. Anzi, a marciare sul posto. L’antisemitismo sinistrorso riemergente e la riscoperta di un’antropologia ideologizzata (i pacifici cacciatori-raccoglitori del paleolitico, le società libere dei nomadi) sono lì a confermarmelo.

Questo si, è un argomento da tavolata, anche di fine anno. Lo è stato, almeno, ai vecchi tempi prepandemici (gli anni ormai sembrano secoli), quando le tavolate si facevano e parlare di sinistra sembrava avere ancora un senso. Potrebbe essere l’occasione per riprendere in piccolo l’abitudine, e il senso reinventarlo. Mi riferisco naturalmente non alla serata, ma all’anno che verrà, anche se nulla vieta di anticipare un po’ i tempi. Ma in questo caso va fatta attenzione al menù: la discussione sulla sinistra si concilia bene solo col cotechino.

Buoni propositi 075. Il cotechino rappresenta un piccolo tassello di conservazione della memoria. Rimanda al maiale, alla sua importanza nell’economia e nella dieta contadina, ai significati positivi che in quella alimentazione rivestivano i cibi molto grassi e alle simbologie ad essi connesse. Questo della conservazione della memoria è un altro tema particolarmente consono alla serata. In fondo si celebra un rituale tradizionale di rinnovamento, che sia pure in tempi diversi è presente presso tutti i popoli della terra.

Due letture recenti mi hanno indotto, attraverso sollecitazioni molto differenti, a soffermarmi proprio su questo tema. Nel saggio La memoria del futuro Alexander Stille analizza i modi in cui, nel vorticoso avvicendarsi dei mutamenti tecnologici, il nostro rapporto con il passato si sta trasformando. Questo rapporto dipende da come il passato lo registriamo, lo fissiamo, ed è naturalmente molto diverso farlo attraverso la tradizione orale, con la scrittura o con le tecnologie informatiche. Ciò può sembrare lapalissiano, ma la cosa si fa interessante quando consideriamo ad esempio la differente idea di conservazione presente nelle culture architettoniche del legno rispetto a quelle della pietra. I giapponesi, per citare un caso, ricostruiscono ritualmente ogni vent’anni tale e quale un tempio scintoista realizzato nel VII secolo d.C., e affidano la patente di antichità piuttosto all’idea che alla sua espressione concreta. Allo stesso modo in Cina prevale la cultura della copia: dal momento che la maggior parte dei dipinti cinesi erano eseguiti su carta, l’opera degli artisti maggiori ci è stata tramandata nei secoli attraverso la realizzazione di copie. Al contrario, in Occidente hanno prevalso tecniche come l’affresco, la pittura a olio e, in campo architettonico, le costruzioni in pietra. Ha prevalso la cultura dell’“autenticità” materiale.

Buoni propositi 08Ora, questo ha qualcosa a che vedere con le lenticchie e tutto il resto? In un certo senso si, e mi riferisco soprattutto alle modalità conservative orientali, dal momento che quelle che chiamiamo tradizioni son in realtà delle copie, nel nostro caso nemmeno tanto fedeli, di costumi antichi. Ma quel che trovo interessante non sono tanto i modi quanto i moventi alla conservazione. Voglio dire: ha senso tenere in vita queste testimonianze del passato, quando poi nella realtà, al di là di un interesse puramente affettivo o nostalgico (quando va bene), esse non ci parlano più?

Me lo chiedevo proprio ieri, dopo che gli effetti collaterali di una ricerca sul web mi avevano condotto ad un sito che ospitava storie a fumetti complete, tratte dal Vittorioso dei primi anni Cinquanta. Le ho scaricate tutte, di alcune avevo un vago ricordo, altre le ho scoperte per la prima volta, ed emanavano lo stesso fascino che mi aveva ammaliato quando le leggevo a sette o otto anni. Mi è parso di aver ritrovato un tesoro, ma appena l’entusiasmo ha cominciato a scemare ho realizzato che quel tesoro non era più spendibile, era tutto in valuta fuori corso, non avrei potuto trasmetterlo nemmeno a mio nipote.

A questo volevo arrivare. Il cotechino ci sta benissimo, e così i ravioli, o le lasagne, o qualsiasi altro piatto legato al rituale celebrativo. Ma manca l’ingrediente principale, non dico la fame, perché non l’ho mai conosciuta, ma almeno l’eccezionalità del menù, quella che creava e giustificava l’attesa. Vale lo stesso per la storia. Non c’è più fame di storia, perché la storia era un propulsore per l’avvenire, e oggi non c’è più avvenire. Quella che consumiamo è storia ripulita, precotta, offerta in confezioni plastificate, che si può congelare e scongelare a piacere. Spesso non nemmeno tale, è soltanto “memoria”, che oggi tira molto di più. Soprattutto ci viene servita in mezzo a innumerevoli altri piatti altrettanto appetitosi, e i gusti si perdono e si confondono. Qual è allora la vera ragione per la quale ci ostiniamo nell’opera di “conservazione”?

Mi sembra a questo punto che il menù sia già sin troppo ricco: può riuscire pesante. Ma volendo si potrebbero introdurre delle varianti: i temi cui attingere non mancano, soprattutto se si scende ai piatti poveri, e vanno dallo stato pietoso dell’informazione alla rinnovata fenomenologia della stupidità, dal breve risveglio ambientalista allo stordimento culturale ed emozionale da pandemia.

Manca solo il dessert, e quello lo offro io, assieme alla promessa (alla minaccia?) che su questi temi tornerò.

Buoni propositi 09Dunque. Due settimane fa sono andato a prendere mia figlia Chiara che sbarcava a Linate. Tra ritardi e controlli sanitari rafforzati ho atteso più di un’ora davanti al varco d’uscita, cosa che si verifica ogni volta e che tutto sommato non mi spiace più di tanto, perché mi consente una panoramica spesso assai divertente sul mondo dei traveller’s. Stavolta però a guastarmi il piacere c’erano sei cani, che giustamente per tutto il tempo dell’attesa hanno fatto cagnara, con sommo compiacimento dei loro padroni, che al contrario dei cani hanno subito fraternizzato. Non mi era mai capitato prima, credevo anzi che fosse loro interdetto l’accesso. Non solo, ma quando finalmente i passeggeri sono sbarcati, all’apparire dal varco il loro grido di gioia era rivolto non a genitori o fratelli o fidanzati, ma ai cani, e così anche il primo abbraccio. Ora, io mi chiedo, e vi chiedo: tutto questo, vorrà dire qualcosa?

Avete un anno per pensarci. Oppure, se pensare vi costa troppa fatica, prendetevi un cane.

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L’origine del progresso

di Paolo Repetto, 8 marzo 2021

Come anticipavo ne “Gli orfani del progresso”, allego quella che avrebbe dovuto essere la parte introduttiva di uno studio piuttosto ambizioso sull’argomento, concepito una quarantina d’anni fa a margine di una serie di conferenze e poi mai decollato, proprio per l’eccesso di ambizione. Del progetto sono rimasti solo questa introduzione, l’unica parte in qualche misura sviluppata, e un cumulo di appunti nei quali farei oggi una gran fatica ad orientarmi. Ripropongo questo scritto, sia pure incompleto e ancora a livello di bozza, perché strettamente inerente il tema trattato sopra, e perché trovo ancora pienamente condivisibili le considerazioni sviluppate all’epoca.

****

Le magnifiche sorti e progressive

Origini, apogeo e declino dell’idea di progresso

La nostra Zivilization è caratterizzata dalla parola “progresso”. Il progresso è la sua forma, non una delle sue proprietà, quella di progredire. Essa è tipicamente costruttiva. La sua proprietà consiste nell’erigere una struttura sempre più complessa.
Ludwig Wittgenstein

 

Premessa

Tra tutte le civiltà, quella occidentale è la sola a coltivare le nozioni di una libertà individuale e di un progresso morale direttamente connessi, secondo la sua etica, al continuo perfezionamento delle tecniche di manipolazione e di dominio della natura. Proprio da queste nozioni l’Occidente ha tratto la sua potenza e la giustificazione della sua conquista del mondo, realizzata talvolta con la violenza e sempre, comunque, con la negazione di tutti i valori diversi dai propri che ha incontrato sulla sua strada.” (Gilles Lapouge)

La civiltà occidentale pone dunque il problema della sua unicità. È il problema che mi sono prefisso di affrontare in questa nuova serie di conversazioni e che cercherò di presentare da svariate angolazioni. Quella indicata da Lapouge costituisce il tema dell’incontro odierno. In sostanza porrò la questione in questi termini: qual è l’origine del movimento interno che anima l’occidente e lo spinge a modellare il mondo a sua immagine?

Io ritengo che le origini dell’ideologia che ha segnato la differenza della civiltà occidentale, e che noi riassumiamo nella nozione di “progresso”, vadano rintracciate in entrambe le culture delle quali essa è debitrice, quella giudaico-cristiana e quella classica. Credo anche che il fattore chiave per la nascita e l’affermazione di tale idea risieda in una particolare intuizione del tempo. Sono convinto infine che questa concezione, e il quadro complessivo di valori da essa determinato, pur essendo maturati nel corso di almeno due millenni, si siano affermati soltanto negli ultimi tre secoli.

So di non dire nulla di nuovo: c’è una fittissima bibliografia a dimostrare che queste tesi sono ormai acquisite. Ma temo si tratti di un’acquisizione in realtà ben poco diffusa al di fuori dell’ambito filosofico, o diffusa ad un livello solo superficiale. Nel corso della conversazione odierna cercherò dunque di giustificare nella maniera più chiara e più semplice, compatibilmente con l’argomento, i miei assunti, delineando brevemente la parabola dell’idea di progresso, rintracciando le matrici di quest’ultima, cogliendone l’apogeo e cercando di individuare le ragioni del suo recente declino. L’intento è quello di evidenziare un percorso intellegibile e conseguente dalla prospettiva soteriologica, cioè dall’attesa di salvezza, alla volontà di realizzazione qui ed ora della stessa, e di mostrare come una particolare concezione del tempo abbia condizionato negli ultimi tre secoli tutti gli atteggiamenti politici ed economici, etici e sociali, pubblici e privati dell’occidente.

Nel farlo utilizzerò un approccio che definirei attinente la “storia delle idee”, qualcosa per intenderci che non ambisce né alla dignità filosofica né al rigore scientifico, ma procede per quelli che Carlo Ginsburg ha definito “paradigmi indiziari”: questo dovrebbe ad un tempo giustificarne le modalità e delimitarne le finalità.

È possibile, con un approccio di questo genere, non esprimere giudizi di valore sul tema in oggetto, ovvero sulla nozione di progresso? Non lo so, ma vorrei provare a farlo, limitandomi ad indagare come essa nasce e dove conduce. Se qualche giudizio apparirà implicito, vorrà dire che non sarò stato sufficientemente bravo a trattare la nozione di progresso come una delle tante, al pari di quella di provvidenza, di fato, ecc…, che hanno caratterizzato e differenziato le diverse civiltà.

0.

Dal momento che il tema di questa conversazione riprende e sviluppa quello del seminario precedente (Da Pico a Bacone. Le origini umanistiche della mentalità scientifica), è forse opportuno riassumere per sommi capi le conclusioni cui ero già pervenuto. In quella sede mi ero concentrato sui cambiamenti che avevano interessato la mentalità occidentale tra il XV e il XVI secolo, preparando la strada alla rivoluzione scientifica. Avevo sostenuto la tesi che il mutamento dell’attitudine gnoseologica non è semplicemente la conseguenza delle innovazioni economiche e sociali maturate nel corso di tutto il medioevo, ma piuttosto una precondizione, che accoglie e sintetizza questi fattori in un grande movimento di trasformazione. Avevo inoltre affermato che questa trasformazione non prescinde dal pensiero religioso della cristianità, ma ne porta alle estreme conseguenze taluni aspetti mistici e messianici, trasferendo sulla terra quell’aspettativa di salvezza che in precedenza era rivolta al cielo. Mi ero soprattutto soffermato sulle modalità di conoscenza della natura, sulla posizione che viene assunta nei confronti del mondo materiale, posizione che irradia peraltro le sue conseguenze sulle concezioni artistiche, letterarie, politiche, oltre che scientifiche. In sostanza, avevo colto nell’attitudine giudaico-cristiana, che riprende e fa propri taluni aspetti della filosofia greca, l’origine di una diversa concezione della natura, e nel suo affermarsi progressivo verso la fine del medioevo la condizione per il passaggio alla nuova mentalità.

Il quadro che avevo cercato di delineare era pressappoco il seguente:

  • Il presupposto teorico per l’avvento della rivoluzione scientifica è in sostanza il passaggio dall’aristotelismo medioevale al platonismo umanistico. L’aristotelismo è teoria della conoscenza come esperienza: si conosce quello che si esperisce attraverso la sensazione, e la conoscenza è una somma di dati sensoriali. Si disvela il mondo nella sua variabilità infinita, nella sua disomogeneità, e il tutto è tenuto assieme da un contenitore superiore, che è l’imperscrutabile volontà divina. Non ci sono leggi, in questo senso, non c’è serialità; al più c’è una ripetizione (i cicli naturali), che è mossa però da norme esterne, superiori, e non da un principio interiore.

Il platonismo è invece possibilità di conoscenza dei principi generali (l’eidòn). Il mondo delle idee è il mondo delle forme soggiacenti all’apparente disordine di superficie, è l’ordine nascosto in funzione del quale si manifestano i fenomeni. Nella sua accezione umanistica, che è filtrata attraverso il neo-platonismo e contaminata con l’ermetismo e la qabbalah, quest’ordine non è semplicemente un pallido riflesso della trascendenza, di quello ideale, ma è immanente alla natura e al mondo. In più, il platonismo umanistico è fortemente ibridato anche con l’aristotelismo, del quale conserva la validità dell’apparato sensoriale di raccolta dei dati. Quello che cambia è lo schema entro il quale sistemarli, e conseguentemente la finalità stessa della raccolta (ovvero, l’atteggiamento performante).

  • Una volta accettata l’idea dell’esistenza di quest’ordine – il che avviene anche in conseguenza dello spostamento dell’osservazione dalla terra al cielo (la rivoluzione astronomica) – la tentazione di decifrarlo procede automatica. Penetrare i misteri della natura, invece di limitarsi a descriverne i comportamenti fenomenici, è già spirito scientifico. Questo spirito si manifesta dapprima nel tentativo di cogliere la forza vitale, attiva, che muove dall’interno il creato (Telesio e i filosofi della natura). Dio è già allontanato, non è più presente costantemente, ma è inteso come un creatore che ha dotato la propria creazione di forza autonoma, e alcuni degli esseri creati della capacità di riflettere sugli accadimenti (naturali e storici), di ricondurli ad un piano o ad un disegno e infine di assumere il controllo del piano stesso (dalla magia, nella quale il controllo si attua con strumenti naturali, alla scienza, nella quale invece il controllo è esercitato attraverso strumenti “artificiali”).
  • Questa direzione, quella che vuole penetrare l’essenza per mettersi in sintonia totale con la natura, è quella percorsa lungo tutto il ‘500, fino a Giordano Bruno, dalla “magia naturalis”. In pratica si tratta di trovare le leggi intime della composizione e del divenire delle cose per accordarsi pienamente ad esse. Da Bacone in poi, invece, prevale un’altra direzione, anch’essa originata dal platonismo, che mira ad elaborare criteri funzionali di lettura dei fenomeni (le “leggi” scientifiche), quindi a creare parametri convenzionali, artificiali, che consentano di introdurre (e non di rinvenire) un ordine nel caos del reale.

In altre parole: assumendo quella che nel platonismo era considerata la forma perfetta di conoscenza (o la conoscenza delle forme perfette), quella matematica, si cerca di ricondurre a termini matematici la possibilità di conoscenza del mondo (ordine, pondere et mensura). Solo una conoscenza matematizzata, nella quale le cose siano numeri e grandezze e i fenomeni siano combinazioni di queste, ovvero operazioni, può diventare previsionale, e quindi operativa. Questo tipo di conoscenza si attua col passaggio dalla esperienza diretta della natura all’esperimento, cioè all’accadimento artificialmente riprodotto in laboratorio, in presenza di condizioni ambientali (spazio-tempo in primis) che rendono possibile la comparabilità. Le differenze di comportamento dei fenomeni debbono essere valutate sulla base di uno standard che non è intrinseco ai fenomeni stessi, ma è dettato convenzionalmente da chi li studia e li riproduce sulla base delle sue possibilità, delle intenzionalità di ricerca, della ricaduta pratica alla quale si punta. Dalla scienza naturale si passa quindi alla scienza sperimentale, che si dota di un metodo (Cartesio), di una strumentazione e soprattutto di un progetto (cioè di una direzione, di un senso).

Il passaggio cruciale si attua appunto con Galileo e Cartesio. Il primo impone definitivamente la lettura matematizzata e quantitativa della natura (“provando e riprovando”: la verità scaturisce dalla possibilità di ripetere infinite volte l’esperienza standardizzata in laboratorio), anche se ancora ritiene che le leggi siano intrinseche alla natura; il secondo fornisce letteralmente, rendendo la geometria suscettibile di analisi mediante l’algebra, le coordinate per una lettura matematica degli oggetti.

Perché prevale questo atteggiamento, rispetto ad esempio a quello di un Bruno, o di un Campanella? Perché di fronte alla liquidazione di tutte le certezze geografiche, astronomiche, religiose e politiche prodotta dal Cinquecento, e alla necessità di affrontare un mondo che si rivela del tutto ignoto, che non appare di per sé razionale e non è fatto di numeri e di misure, l’uomo prova paura. La summa di questo nuovo atteggiamento si attuerà poi nella fisica di Newton, che reggerà fino alla critica kantiana. Solo Kant chiarirà che “l’intelletto non attinge le sue leggi dalla natura, ma le prescrive a questa”.

In questo contesto compariva più volte, sia pure sullo sfondo, l’idea di progresso; prendeva forma cioè la coscienza, dapprima sfocata e poi, a partire da Bacone, sempre più nitida, del potenziale di miglioramento spirituale e materiale di cui l’umanità disponeva e dell’anelito ad una redenzione terrena che la animava. Si trattava però di una nozione confusa, ancora debitrice per la gran parte delle aspettative escatologiche, e dalla quale era assente la dimensione entro cui soltanto può esplicarsi l’idealità del progresso, quella storica. Quella della fede nel progresso è dunque una vicenda nuova, che ha se vogliamo un sacco di precursori ma che va letta a partire da un momento ben preciso, nel quale diventa decisiva. Il che ci impone di chiarire cosa implica questa nozione, prima di andare a indagare da dove nasce e come si sviluppa.

 

1.

L’idea del progresso umano nasce da un’interpretazione storica del passato – cioè dalla sua lettura secondo uno schema di continuità – che viene proiettata ad individuare una tendenza del futuro, e contemporaneamente dall’assunzione di questo futuro come campo non predeterminato, ma aperto. Si basa sul convincimento che gli uomini avanzino gradualmente verso una direzione definita, e che tale direzione sia desiderabile per tutti; e ne deduce che questa avanzata continuerà indefinitamente. Ciò implica da un lato che un giorno si perverrà ad una felicità generale, meta che giustificherà tutto il processo della civiltà, e dall’altro che questo processo è il risultato necessario della natura psichica e sociale dell’uomo, e non di una volontà superiore, trascendente o immanente (altrimenti l’idea di Progresso scivolerebbe in quella di Provvidenza).

Questa idea non è presente nella cultura occidentale delle età classica e medioevale, e nemmeno compare automaticamente con l’avvento della rivoluzione scientifica. Essa si afferma in verità piuttosto tardi, non prima del XVIII° secolo. Designa un movimento i cui caratteri sono la linearità e l’irreversibilità, e questo concetto è in contrasto con i modelli ciclici dei processi naturali, sociali e individuali che informavano il pensiero degli antichi. Proprio da questi modelli prendiamo ora l’avvio.

 

Immaginiamo l’umanità agli albori dell’epoca storica, nella fase del passaggio dall’economia nomade di caccia e raccolta a quella stanziale agricola. Ogni gruppo, ogni area abitata conosce una qualche forma di cultura religiosa, magari fortemente caratterizzata dalla situazione ambientale, ma apparentata alle altre dal fatto di rispondere ad un bisogno primordiale e connaturato. Intendo dire che questo bisogno può nascere dalle esperienze più diverse, ad esempio da suggestioni visionarie, da momenti di delirio, ecc … : ma fondamentalmente è connesso ad una “rivelazione originaria”, nel senso della predisposizione ad attribuire una “intenzionalità” agli oggetti, animati o inanimati. L’intenzionalità suppone un’anima, uno spirito: quindi comporta il riconoscimento di una “interiorità” anche agli altri (e, in una prima fase, alle cose). Questa intenzionalità è applicata alla coscienza, sia pure indistinta, della morte, e si esprimeva in prima istanza soprattutto attraverso il culto degli antenati.

C’è un termine, la parola “mana”, che designa questo atteggiamento unificante dell’uomo di fronte all’universo, un universo che lo comprende. Il mana è una struttura della coscienza, che lo spinge ad agire intuitivamente come se gli oggetti circostanti fossero pieni di impulsi verso di lui. Questa primordiale struttura della coscienza può produrre due atteggiamenti, quello magico e quello religioso. Il primo tende ad utilizzare le forze impersonali della natura, il secondo a personalizzare queste forze. I due atteggiamenti naturalmente coesistono, hanno origine da un fondo comune, ma a seconda del loro prevalere conducono in direzioni diverse. L’atteggiamento magico conduce, prima ancora di tradursi in scientifico, all’ateismo: l’altro, naturalmente, alle fasi successive dell’evoluzione religiosa.

La prima fase può dunque essere definita mitica. L’uomo attribuisce alle cose delle intenzioni che cerca di sfruttare a proprio vantaggio: non si pone razionalmente problemi del perché e del percome, semplicemente vive immerso nel mito, non fa distinzione tra sacro e profano.

Dopo questa fase, subentra l’autocoscienza: questo porta a separare, e conseguentemente ad analizzare, ciò che prima era vissuto come una totalità indistinta: si comincia ad opporre sé al mondo, il sacro al profano, il mito vissuto a quello pensato. Il risveglio della coscienza determina una separazione dal mondo della natura. La coscienza separa, è la divisione primordiale. Il sé e il mondo cessano di essere ovvi, e questo induce un bisogno di affermazione esplicita e di stima.

La concettualizzazione del mito ne fa una realtà autonoma, strutturata dall’intelligenza. Il mito diventa un oggetto simbolico, riorganizzato in un complesso di scritture sacre. Questa separazione, la dissoluzione dello stato mitico primordiale, crea nell’uomo angoscia e inquietudine, la percezione di una frattura col proprio ambiente. La religione è un tentativo di colmare il vuoto che si è aperto, di ritrovare grazie al sacro l’età dell’oro, il paradiso terrestre. Il mito religioso e teologico stabilisce un legame con il sacro: crea un modello esemplare per tutte le azioni umane rilevanti, consentendo la loro conformità al volere divino. Il mito fonda l’archetipo dei rituali religiosi, mediante i quali il tempo e la frattura originaria sono cancellati. La ripetizione ha per conseguenza l’abolizione del tempo profano e la proiezione dell’uomo in un tempo magico religioso che non ha nulla a che vedere con la durata propriamente detta, ma costituisce l’eterno presente del tempo mitico. La ricomposizione di questa frattura, la ricerca dell’unità perduta, daranno origine a due nuovi atteggiamenti, quello religioso e quello scientifico. Al fondo di entrambi c’è l’intervento dell’intelligenza, della ragione: e questa finisce per ridurre sempre più lo spazio della rivelazione, quando da strumento ausiliario diventa quello principale. La spiegazione razionale finisce per demolire i miti della fede. Inoltre, quanto più il mito religioso viene interiorizzato, e la religiosità diventa questione personale, tanto più il “sacro” viene frantumato, diventa sentimento interiore.

Il problema che ora ci si pone è pertanto: perché solo, o almeno precipuamente, in occidente ha prevalso l’atteggiamento di superamento dello stadio religioso?

In Occidente si danno due momenti chiave di questo superamento. Uno è legato alla cultura ebraica, l’altro a quella greca. Le spiegazioni di questa diversità sono molteplici, ma seguendo Martin Bernal si può arrivare ad una matrice unica. L’atteggiamento sarebbe fondamentalmente lo stesso, e avrebbe origine nella cultura semitica, salvo poi svilupparsi diversamente nei diversi contesti.

 

Le società antiche (che chiameremo tradizionali) erano strutturate sulla base di archetipi mitici (l’età dell’oro, il paradiso terrestre, ecc…), nel senso che facevano ascendere a modelli primordiali la giustificazione delle loro strutture sociali e istituzionali. Vivevano lo scarto tra la realtà e il mito come conseguenza di una colpa o di una profanazione, ed erano costantemente tese ad un riavvicinamento alla perfezione delle origini, prolungando ritualmente il momento primordiale della fondazione. Ciò significava rimanere disperatamente ancorate al presente e rivolte al passato, nel ricordo del tempo in cui l’uomo viveva in comunione con l’invisibile, integrato nell’universo (l’età dell’oro): ma a dispetto della ripetizione dei riti di consacrazione esse non potevano vedere che alterata nel tempo la loro purezza, ovvero la loro fedeltà al mito. Con ogni forza pertanto volevano evitare quei cambiamenti che, allontanandole dalla perfezione mitica, rischiavano di accentuare maggiormente lo squilibrio nato dalla rottura del grande interdetto, quello che noi chiamiamo peccato originale.

Di fronte a situazioni nuove le società tradizionali reagivano quindi con tutta una serie di meccanismi compensatori, destinati a salvaguardare il loro equilibrio. Ogni società rimaneva uguale a se stessa così a lungo da poter mantenere negli individui che la componevano la coscienza diffusa di partecipare della sua immortalità, anche integrando al patrimonio comune le nuove acquisizioni. Nei suoi rapporti con la società l’individuo era come una delle tessere che compongono un mosaico, il colore, la forma e la posizione delle quali non possono spiegarsi se non in funzione dell’insieme. Il risveglio della coscienza individuale, del libero arbitrio era impossibile in un ambiente sociale che condizionava l’individuo dalla nascita e gli insegnava a confondere le leggi e i costumi con una “necessità”.

 

Nelle civiltà pre-cristiane insomma, e segnatamente in quelle orientali, i popoli erano più testimoni che attori degli avvenimenti che si producevano nel tempo. Vivevano in una sorta di incantesimo, nel quale ogni anno riproduceva quello precedente e il tempo girava su stesso, riproponendo le sue feste, i suoi massacri, il suo eterno ritorno. Questo ordine universale non andava turbato e il corso delle cose non doveva essere ostacolato, perché ogni intervento non poteva originare altro che male. Dal momento che gli eventi erano governati da una loro intima legge, risultava vano per l’uomo perseguire qualsiasi fine. Come afferma Eliade[1], nella vita del genere umano i popoli si sono per lo più aggrappati all’idea del ciclo temporale, nel quale il passato è futuro, non esiste una vera storia e l’umanità si dispone a rinascere e a rigenerarsi.

In tutta l’antichità l’idea di una decadenza successiva all’età dell’oro iniziale[2] – e quella, ad essa strettamente collegata, di un ritorno ciclico – hanno dunque impedito lo sviluppo di una autentica nozione di progresso. Ciò vale sia per la versione “cosmologica” dell’Eterno Ritorno, quella che prevede una distruzione e ripetizione puntuale di tutto il ciclo (più diffusa nella mentalità orientale, e sostenuta, nel mondo occidentale, soprattutto dai pitagorici), sia per quella “storica”, che prospetta invece una palingenesi, intesa come aetas assolutamente nuova, novum saeculum, quindi non ripetizione ma rigenerazione. In entrambi i casi l’umanità non ha alcun ruolo nel determinare gli eventi. È sovrana la legge di natura.

La rottura di questo incanto paralizzante avviene ad opera di due diversi popoli, che per motivi e in modi differenti danno una svolta all’attitudine nei confronti della conoscenza. I loro modelli di pensiero si sviluppano dapprima separatamente, ma vengono poi a convergere nella sintesi romano-cristiana, dando vita a quella cultura e a quella civiltà che definiamo “occidentale”.

Uno di questi popoli è naturalmente quello greco. Per ragioni politico-economiche (la strutturazione territoriale in piccole unità, nelle quali si afferma la prima forma di democrazia), ma anche in virtù di una particolare concezione religiosa (una religione naturalistica, nella quale la divinità non è altro che una proiezione dell’uomo – per cui non è insondabile, e per arrivare ad essa non è necessario negare se stessi) l’idea greca di sapienza, di conoscenza non è in linea con quella puramente contemplativa delle culture tradizionali. È già un’idea di ricerca, fondata su un sapere in divenire (ricerca del sapere, philosophia, appunto) che non ammette verità rivelate ed immutabili, ma è al perenne inseguimento della verità delle cose al di là delle apparenze. Ed è un sapere aperto a tutti, non patrimonio delle caste sacerdotali privilegiate e non trasmesso per via iniziatica.

Gli indizi di una “differenza” greca sono svariati, e sono già percepibili nella narrazione del primo scontro tra la civiltà occidentale e quella orientale, quello descritto nell’Iliade, riferito peraltro ad un’epoca nella quale le democrazie erano ancora ben lontane dall’affermarsi. In quel contesto il modello di potere orientale è rappresentato da Priamo. Un potere apparentemente assoluto, in realtà nullo. Priamo è solo la voce di un oracolo, non decide ma registra, enuncia una volontà superiore, il disegno del Fato: e in pratica assiste impotente alla rovina del suo popolo. Un oracolo non si rivolge al futuro, discopre solo ciò che è presente, che è già deciso. Agamennone prende invece delle decisioni, le sue azioni non sono già decise, dipendono dalla volontà e dagli umori, suoi ma anche e soprattutto dell’assemblea. Sarà perché combattono in trasferta, lontani dai loro luoghi sacri, e quindi dai vincoli e dai rituali della tradizione, ma i Greci sono liberi, e le loro sono scelte vere. In qualunque momento possono prendere decisioni diverse per quello successivo, e il fatto che si diano diverse possibilità è testimoniato proprio dalle dispute che si accendono ogni volta che è necessario decidere.

L’agire o il pensare al di fuori dei luoghi sacri tradizionali sembra decisivo per l’emergere di una diversità ellenica. Come agiscono liberamente i guerrieri di Omero, pensano liberamente i filosofi ionici o gli eleati. Il pensiero filosofico greco nasce lontano dalla Grecia, in uomini che si sono laicizzati, hanno messo il mare tra sé e i luoghi delle epifanie del sacro, si sono sottratti ai recinti magici della tradizione e della ritualità, venendo a contatto con altri modelli di pensiero e altre tradizioni e sviluppando nei confronti di queste uno spirito critico e scettico che non tarda ad intaccare anche le loro credenze mitiche.

Ma ci sono anche altre possibili letture del tema del distacco. Ad esempio, secondo Karl Jaspers l’occidente non si è sempre necessariamente inteso come centro, ma piuttosto come parte, come appendice staccatasi dalla matrice asiatica attraverso una diaspora lacerante (le migrazioni indoeuropee? gli echi di questa concezione si trovano comunque in effetti già in Platone, e successivamente soprattutto nella collocazione orientale di terre felici ed edeniche). L’antitesi oriente-occidente sarebbe pertanto costitutiva della cultura europea: la pretesa di quest’ultima di riplasmare il mondo con la sua opera avrebbe radice nel senso di mancanza e di incompletezza.

Altri segni di questa diversità vengono ancora dalla concezione politica. Mentre nella società tradizionale l’ordine politico risulta perfettamente adeguato all’ordine cosmico, in quella greca le cose vanno diversamente. Non è soltanto lo strutturarsi delle varie città in forme istituzionali diverse a dircelo. C’è proprio un atteggiamento di fondo, che ritroviamo ad esempio nella elaborazione di progetti urbanistici ideali, nei quali la città (e in questo caso essa si identifica con lo stato) è calcolata dagli uomini per gli uomini. Nella cultura tradizionale le città erano segni disseminati dagli dei sulla terra per celebrare la propria signoria e trasmettere in linguaggio cifrato i loro disegni. Ora, sostituendo alla architettura fatale della tradizione l’ordine governato della città ortogonale, si pronuncia un giudizio sull’universo ordito dagli dei. In pratica si dice che questo universo è piuttosto mal concepito, e che l’uomo deve metterci mano per migliorarlo. Il creatore viene così relegato nei suoi lontani domini, e la dimora degli uomini rimane competenza di questi ultimi.

La cultura greca viene dunque ad infrangere un ordine mentale che, pur nelle differenze e nella varietà dei costumi e delle credenze, era sostanzialmente simile per tutti (o quasi, come vedremo) i popoli dell’antichità. E questo è indubitabile. Ma la mentalità nuova che i Greci portano non è ancora permeata dell’idea alla quale stiamo dando la caccia, della nozione di progresso.

Presso i greci infatti il progresso rappresentava una mera categoria relazionale (prokopè, termine che compare nel IV secolo a.C.). L’idea del progredire (prokoptein) indicava un mutamento correlato a settori determinati, fossero essi la scienza, la tecnica o anche lo sviluppo etico del singolo. Di conseguenza la dinamica progressiva si ritrovava incapsulata entro contesti specifici, oppure rivestiva un carattere puramente comparativo-descrittivo, ma non stava in nessun caso ad indicare un processo storico a carattere generale. Analogamente, progressio e progressus hanno sempre avuto presso i latini un’accezione materiale e non innovativa: indicavano il semplice fatto del procedere.

La verità è che nel mondo classico manca uno dei presupposti fondamentali per la nascita di un’idea di progresso: quello della constatazione di una effettiva messe di innovazioni. Si intuisce, a partire già da Eschilo e da Euripide, che in tempi remoti si viveva nella barbarie: ma permane, dominante, l’idea di un regresso dall’età dell’oro. Sia Democrito che Epicuro immaginavano che ciascun mondo dell’universo con i suoi abitanti si evolvesse, decadesse e si riformasse ancora. Il progresso cosmico, considerato nella sua globalità, si riduceva quindi ad una oscillazione attorno ad un punto fisso, senza presentare alcuna evoluzione cumulativa. Lo stesso Platone parla di ere della durata di 72000 anni, nel corso delle quali fino a metà si conserva l’ordine originario, poi subentrano la decadenza e la degenerazione. Anche la riflessione filosofica, almeno nel senso ampio nel quale oggi noi la intendiamo, è quindi, se non impedita, decisamente limitata. I filosofi dell’antichità potevano al più tentare di modellare, di fronte alla crisi, o addirittura alla distruzione delle strutture tradizionali, nuove strutture più stabili, meglio protette contro i pericoli esterni o contro la corruzione interna, ma sempre di “quelle” specifiche strutture si trattava. In Platone, in Aristotele, non c’è mai l’idea di un ordine che possa essere esteso all’ecumene intero, di un percorso possibile per tutta l’umanità futura. Entrambi, poi, sono contrari ad ogni deviazione da un ordinamento politico costituito, intesa sempre come una degenerazione, e quindi all’idea di un perfezionamento sempre in fieri.

 

Ciò che soprattutto inibisce lo sviluppo di una visione progressiva è la concezione del tempo. Nell’epoca premoderrna il computo del tempo è fortemente determinato da ciò che si vuole che il tempo significhi. I parametri vengono fissati in funzione delle esperienze acquisite, del vissuto presente e delle aspettative per il futuro. L’attenzione ruota attorno agli aspetti qualitativi del tempo, di conseguenza alla durata, piuttosto che a quelli quantitativi, cioè alla misurabilità. Quello che importa determinare sono le ere, e non il valore dei nanosecondi.

Le prime misurazioni del tempo sono certamente collegate alla necessità di prevedere la comparsa della pioggia o del sole, o il regime periodico dei fiumi, per controllare e assicurare il rinnovo delle riserve alimentari, per organizzare la continuità dei mezzi di sussistenza della comunità. Le primissime società racchiudono perciò il tempo in norme rigorose, fissate da vari miti e dalle esigenze dell’agricoltura e dell’allevamento.

Platone afferma che dare un nome al tempo, suddividerlo e contarne le parti significa per l’uomo tentare di tradurre l’eternità nella propria caducità. E’ quanto già pensavano i Parmenidei (i paradossi di Zenone di Elea). Nel Timeo distingue tra l’Essere e il divenire. Il mondo dell’Essere è un mondo reale, apprensibile dall’intelligenza mediante ragionamento perché è sempre allo stesso modo, mentre il mondo del Divenire (il regno del Tempo) è opinabile dall’opinione mediante la sensazione irrazionale, “perché si nasce e si muore, e non è mai veramente”. Dal cosmo l’uomo deduce una sequenza di segni, la cui realtà originaria e indivisa supera la sua capacità di comprensione. Allontanando il tempo nella direzione doppiamente inaccessibile dei simboli religiosi e matematici Platone crea un modello che in Occidente ispirerà le élites religiose e politiche sino alla modernità.

Nemmeno Aristotele si discosta da questa concezione. La sfera celeste è quella in cui regnano la necessità, la legge, il numero, la regolarità. In quella sublunare gli eventi sono assurdi e il futuro è imprevedibile, regnano il caos e la libertà, o almeno leggi così nascoste, numerose e contraddittorie che non si riesce a venirne a capo. Liquida quindi il problema affermando che il tempo è eterno e circolare, e tutte le cose sono disseminate lungo la sua circonferenza[3].

 

Il mondo latino eredita integralmente le concezioni elleniche, filtrate magari attraverso l’epicureismo e lo stoicismo. Sia in Lucrezio che in Seneca c’è la coscienza di un aumento delle conoscenze rispetto alle epoche precedenti, e magari l’aspettativa di ulteriori innovazioni; ma tutto questo ha un senso solo per la conoscenza in sé, per i filosofi, e non per l’umanità nel suo complesso. E comunque è sempre presente l’idea del collasso finale. “I nostri figli non vedranno mai nulla di nuovo, così come i nostri padri non videro mai nient’altro che ciò che vediamo noi stessi.” (Marco Aurelio)

Lo stesso avviene per il pensiero cristiano antico, anche se una innovazione è costituita dall’introduzione in Sant’Agostino (De civitate Dei) del procursus, concetto in contrasto con la teoria classica del ritorno ciclico. Quest’ultima non è però contestata sul terreno cosmologico, quanto piuttosto da un punto di vista teologico-morale, in quanto l’idea di una decadenza e di una rigenerazione che si ripetono all’infinito sottrae all’uomo la dimensione della speranza in una felicità finale. Agostino si oppone però al calcolo del tempo, ovvero alla fusione di tempo e numero. È tra i primi a porsi il problema della percezione psicologica del tempo, ma diffida della sua matematizzazione (e di tutto ciò che concerne la matematica, che gli appare come un tentativo sacrilego di attingere alla perfezione divina): ciò a dispetto, o meglio a riprova, di una concezione dell’opera divina come ordinata secondo numero, misura e peso.

Con Boezio e Cassiodoro abbiamo invece una celebrazione della matematica come fondamento della conoscenza: per il primo la natura originaria delle cose è modellata secondo numeri ragionevoli, per il secondo l’uomo si distingue dagli animali proprio per la capacità di “calculi intelligere quantitate”.

In realtà per tutto l’alto medioevo il problema che viene posto è quello del “computus”, cioè del calcolo del tempo, e non della misurazione. Quest’ultima si era sempre fatta con gli horologia (solari di giorno e ad acqua di notte), ed aveva interessato la sfera pratica, non quella teorica. Ma il dibattito che si sviluppa lungo tutto questo periodo finisce per coinvolgere anche la misurazione. Gregorio Magno, ad esempio, accomuna l’uno e l’altro in un’unica condanna, sulle orme di Agostino.

Con Agostino siamo però già andati troppo oltre. Occorre risalire all’indietro, per individuare l’altra sorgente dalla quale scaturiscono le premesse per la teoria del progresso. E l’altra fonte, l’altra cultura che rompe decisamente con la tradizione è quella giudaica. Il pensiero occidentale nasce anche e soprattutto con la marcia di Israele verso la terra promessa e con l’attesa della venuta di un messia. Nasce apparentemente da una contraddizione, perché il popolo che maggiormente contribuisce alla definizione di una modernità è un popolo nomade, che discende almeno moralmente da Abele, il pastore, e che è costantemente in conflitto con gli agricoltori discendenti di Caino, cioè con le popolazioni stanziali che lo circondano. Il paradosso sta in questo: mentre le popolazioni nomadi operano nella dimensione dello spazio, il quale non oppone alcuna limitazione e apre possibilità sempre nuove, i sedentari, costretti nello spazio di un dominio strettamente limitato, per quanto ampio sia, sviluppano la loro attività in un continuum temporale che appare loro indefinito: in altre parole, progettano e costruiscono per un futuro. I primi, inoltre, si rapportano prevalentemente al regno animale, anch’esso nomade, mentre i sedentari hanno come oggetto della loro attività i due regni fissi, quello vegetale e quello minerale (e quindi le loro attività sono, prevalentemente, la costruzione e la metallurgia). Storicamente, i sedentari assorbono i nomadi: nel corso delle età il tempo inghiotte lo spazio, affermando in tal modo la sua natura di “divoratore” (il mito di Kronos) e di uccisore (Caino, che compie sacrifici vegetali, uccide Abele, sacrificatore di animali). Ma questo avviene solo sul piano materiale: su quello spirituale, invece, la situazione si capovolge. I sedentari sono infatti portati ad adottare dei simboli visuali, a edificare strutture e a forgiare, plasmare, dipingere, scolpire opere durevoli, immagini fatte di sostanze diverse, le quali si riconducono però più o meno direttamente allo schematismo geometrico, origine e fondamento di ogni struttura spaziale.

I secondi invece, a cui le immagini sono vietate (cfr. ebraismo e islamismo), così come è vietato tutto ciò che tenderebbe a radicarli in un luogo determinato, si costituiscono dei simboli sonori, i soli che siano compatibili con il loro stato di migrazione continua. Paradossalmente, fra le facoltà sensibili la vista è in rapporto con lo spazio, e l’udito con il tempo: gli elementi del simbolo visuale si esprimono in simultaneità, quelli del simbolo sonoro in successione. Si opera in tal senso un rovesciamento delle relazioni in campo simbolico. I sedentari danno vita alle arti plastiche (architettura, scultura, pittura), cioè alle arti delle forme che si dispongono nello spazio: i nomadi danno vita alle arti fonetiche (musica e poesia), cioè alle arti delle forme che si sviluppano nel tempo. L’esilio perenne, l’erranza secolare verso la terra promessa fanno cadere per il popolo ebraico la necessità di quel tracciato magico, consacrato dall’opera edificatoria e dai simboli visivi, che reintegra l’uomo nell’universo e lo imprigiona nei riti, mentre lo conducono a dare valore sacrale alla parola, al verbo, e alla sua trascrizione. Può suonare singolare un’affermazione del genere, riferita ad uno dei popoli che pare maggiormente attaccato ad un suolo particolare e alla celebrazione del rituale: ma in verità quello ebraico non è il popolo di una terra, bensì di un libro: porta con sé, nei suoi rotoli della Legge, la sua sacralità, e dovunque esso è, lì è terra d’Israele.

Allo stesso modo il nomadismo, l’originaria vocazione pastorale degli Ebrei, è anche alla base dell’adozione da parte di questi ultimi di un primordiale sistema lunare di divisione del tempo: il calendario ebraico, strutturato in base ai bisogni dei pastori, era (ed è tuttora) fondato sul mutevole aspetto della luna nelle sue fasi, mentre quello egizio era indirizzato ai lavori dei contadini, e quindi orientato sulla presunta orbita del sole nel corso delle stagioni.

Il giudaismo porta con sé anche la certezza della salvezza finale per la promessa di Dio, l’attesa dell’avvento del Messia alla fine dei tempi. Questo pensiero, questa speranza non può che distruggere ciò che è volto al passato, o anche semplicemente ancorato al presente. La promessa di un Messia rompe l’incanto dell’eterno ritorno: il messia annunciato è un dio storico, l’evento atteso si annuncia come unico, irripetibile, definitivo. Crea una tensione, un’aspettativa di cambiamento volta al futuro. Il tempo diventa attesa dell’imminente e del possibile, al mondo viene assegnato uno scopo. E nel distendersi della curva dei secoli, come essa si scopre un fine, si inventa anche un’origine. Diventa una linea, una direzione. Gli avvenimenti non si sciolgono più gli uni negli altri, ma si dispongono come tasselli di un edificio. La Bibbia non è stata letta per secoli dagli ebrei come mito di creazione del mondo, ma come un manifesto rivoluzionario pieno di profezie considerate come altrettante allusioni a tutti i periodi di crisi, a tutti gli esili, a tutte le cattività. Degli uomini – a milioni – hanno creduto e credono ancora di vivere la fine dei tempi annunciata dai profeti, salutando ogni tribolazione come un segno precursore degli ultimi giorni, l’anticamera insanguinata dell’età novella: il regno dei giusti.

Dato che il tempo non è più ciclico ma a senso unico e irreversibile, è ora possibile la storia personale e una vita individuale può avere il suo valore. L’essere umano in quanto pedina sta cedendo impercettibilmente il passo a una più esaltata visione di ciò che l’essere umano è. Le conversioni al monoteismo saranno individuali, ed è questo che disgrega le strutture tradizionali.

In tutta la narrazione biblica è presente una dimensione che manca nelle narrazioni mitologiche degli altri popoli: quella della tentazione. Dio mette alla prova costantemente la capacità di scegliere dell’uomo. Si comincia con Adamo, si prosegue con Caino, si arriva ad Abramo. Nella vicenda di Abramo il rapporto con la divinità diventa davvero la storia di un rapporto interpersonale. Questo nasce prima di tutto dal senso spiccato della propria personalità che Abramo possiede. Ragiona come un individuo, non come la tessera di un mosaico. Nell’episodio di Isacco Dio dà e prende al di là di ogni ragione e di ogni giustificazione. Poiché le sue ragioni non sono interpretabili e i suoi pensieri non sono prevedibili, tutto e niente è possibile. Quindi la fede prende il posto della generalizzata prevedibilità del mondo antico, con la possibilità di autentico successo o di autentico fallimento: cioè, è un autentico viaggio il cui esito deve ancora darsi.

 

Un altro tema distintivo che caratterizza entrambe le culture alle quali ho fatto riferimento è quello dell’autorità. Per motivi e in modi diversi l’autorità politica viene distinta da greci ed ebrei da quella religiosa. Nel secondo caso non esiste nemmeno, a dispetto del monoteismo, una vera autorità religiosa, ma solo un criterio di autorevolezza: e questo anche all’epoca dell’esistenza di uno stato ebraico. La storia ha poi fatto si che il problema non si ponesse, e che gli ebrei mantenessero sempre un rapporto decisamente ambiguo con le diverse forme di autorità alle quali erano di volta in volta e di luogo in luogo soggetti: e tuttavia è unica la loro capacità di mantenere un’unità religiosa in assenza di una autorità riconosciuta. O forse tutto questo è frutto del particolare modo di accostare la verità religiosa, e cioè dell’approccio individuale e non mediato, o quasi, al contrario di quello cristiano che è mediato da una autorità o rappresentanza, che si arroga l’interpretazione ortodossa dei testi.

Per quanto concerne la cultura greca, qui è proprio la religiosità stessa, il politeismo piuttosto tiepido a non consentire l’instaurazione di una autorità religiosa e la commistione di autorità politica e autorità religiosa.

L’accento sulla individualità ha dunque questa duplice matrice. Non a caso poi passa attraverso la riforma protestante (ciascuno è sacerdote di se stesso), che nasce anche dai nuovi studi filologici del verbo testamentario incentivati dalla diffusione del qabbalismo (Reuchlin). Il rapporto non sacrale, ed anzi antitetico, degli ebrei con l’autorità è il terreno sul quale può svilupparsi una concezione convenzionalistica della stessa, l’idea del patto sociale e del diritto individuale che salvaguarda il singolo nei confronti di un potere accettato solo come formale.

Anche la concezione del tempo è naturalmente influenzata da questo rapporto con l’autorità. Valorizzando il significato e l’azione individuale, si è portati a leggere e privilegiare il tempo personale nei confronti di quello collettivo, a cercare di dar senso e di riempire di significati il proprio vissuto: significati che si traducono in esperienze nuove, invece che in ripetizioni, in azioni che distinguono, invece che in rituali che accomunano, in creazioni ed opere che rimangono, che forzano la natura e introducono la novità. (…..)

 

[1] Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, 1999

[2] Viene espressa ad esempio nel mito platonico di Er, nella Repubblica, ma anche nel Timeo

[3] Aristotele, Fisica, IV

 

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Una dose di pensiero divergente

di Fabrizio Rinaldi, 30 aprile 2018

I “coccodrilli” si scrivono in attesa che qualche grossa personalità del circuito culturale o mediatico si decida a schiattare. In genere vi si assemblano episodi e aneddoti più o meno rilevanti della vita del morituro, ma soprattutto sviolinate, così da essere pronti per la pubblicazione un istante dopo la morte.
Questo evidentemente non è un coccodrillo. Innanzitutto il protagonista sta benissimo, e poi si tiene volentieri lontano dagli “eventi” e dal cicaleccio intellettuale che impazza sulle riviste e sui teleschermi e non ci tiene alle sviolinate. Preferisce una vita ritirata in un paesino sperduto nell’appennino, evitando inutili protagonismi, razionando con parsimonia i contatti umani, per lasciar spazio al lavoro delle braccia nel suo frutteto e del pensiero nella sua testa, zeppi entrambi di sterpaglie da estirpare, governare e contenere.
Questo scritto vuol essere dunque solo un augurio di lunga vita ad un amico che ha incrociato le strade di molti pellegrini del pensiero, accompagnandoli lungo i più diversi sentieri, da quello scolastico a quelli che portano al Tobbio, passando magari per le mostre di pittori sconosciuti – non a lui! – o per i libri di autori ignorati o dimenticati.
L’altro giorno sono andato a trovarlo. Era al Capanno, intento a piazzare i pali per un pergolato su cui dovrebbe crescere la vite canadese e a riutilizzare vecchie travi per farne le panchine su cui siederà, all’ombra, a chiacchierare con i selezionati amici che andranno a trovarlo.
La “C” maiuscola il Capanno l’ha conquistata di diritto perché, dopo sua la costruzione in solitaria da parte del protagonista, è diventato un luogo ove da anni si consumano pranzi frugali, si conciliano il cibo, la parola e il giusto silenzio, si beve del buon vino e si tenta di fare chiarezza nelle idee e nelle azioni.
Il Capanno è un “gompa”, un “buen ritiro”: lì è possibile disciplinare il moto perpetuo e disordinato delle idee con la lenta concretezza imposta dalla terra, alla quale, per avere dei frutti, è necessario inchinarsi.
La stessa perseveranza che mette nelle faccende manuali Paolo la impiega per governare le idee che gli fioriscono nella mente: è tutto un lavorio di ragionamenti, di approfondimenti e di riflessioni che richiedono poi un impegno certosino di sforbiciatura e limatura, per arrivare a quel pensiero ordinato che vuole traspaia dalle sue parole. Forse quando termina di scrivere uno dei suoi “Quaderni dei Viandanti” prova la stessa sensazione che avrà assaporato suo nonno in vigna, dopo una giornata nei campi, quando stanco ma appagato per il lavoro meticoloso e accurato si sedeva sotto una vite e si fumava una sigaretta, soddisfatto anche dell’aspetto estetico di ciò che aveva realizzato.
Nell’ora che ho trascorso con lui mi ha snocciolato tutta una serie di nuovi progetti, passando dal pergolato al pezzo che vorrebbe scrivere su Leopardi e l’Islanda, dal tetto da sistemare alle considerazioni sul cibo e la scrittura, un piano di lavoro che terrebbe occupato chiunque per i prossimi dieci anni. Non importa quando troverà il tempo per dedicarsi a tutte queste cose, magari alcune le tralascerà per buttarsi su altri progetti: non ha fretta e non deve dimostrare nulla, sa che non è necessario e sarebbe superfluo.
Non smette invece, e credo non lo farà mai, di individuare sempre nuovi lavori – manuali o intellettuali, su un piano di pari dignità – che gli consentano di continuare il suo viaggio e di soddisfare la sua curiosità, mai appagata e rivolta in tutte le direzioni. Si tratti di libri (scovati in qualche mercatino) su esploratori che nessuno ricorda più, o di possibili migliorie da realizzare attorno al Capanno, oppure d’inseguire autori, ai più sconosciuti, che lo stimolino a pensare, a Paolo preme la continua ricerca di ciò che non conosce. E vuole anche renderne partecipi gli altri.
La complessità del percorso e i ragionamenti che lo scandiscono si traducono negli scritti in nitidezza di concetto, in chiarezza di parole e in un’inappuntabile logica. Chi legge viene accompagnato per mano a capire dove si vuol arrivare.
Non so se tra i suoi progetti ci sia pure quello di scrivere poesie (probabilmente no). Ma forse tutto ciò che ha scritto (e scriverà) è un unico testo poetico: ragionamenti, scelte e ripensamenti sono armonizzati in versi liberi di filosofia e di biologia, raccolti in odi che cantano la storia comune come pure la Storia con la maiuscola, racchiusi in sonetti che raccontano viaggi nell’immaginario.
E a proposito: durante il nostro ultimo incontro ha accennato ad un viaggio che intende fare ripercorrendo l’Appennino fino ad arrivare in Sicilia. Non è stato necessario accennare a “La leggenda dei monti naviganti” di Paolo Rumiz, perché era del tutto superfluo. Magari ne rifarà solamente un pezzo, e farà un viaggio sicuramente differente, alla maniera del Viandante, ma con lo stesso spirito che mosse Rumiz quando percorse la colonna vertebrale dell’Italia: scoprire paesi e climax in via d’estinzione.
Sono certo che pure a lui sia venuto in mente quel libro quando ha iniziato a progettare quel viaggio, ma non ho ritenuto necessario accennare esplicitamente al quel volume. La comprensione tra due persone che reciprocamente si stimano non ha bisogno di parole. Il non detto vale più di ciò che è esplicitato.
Coloro che hanno la sua fiducia sono vicini ai suoi valori e al suo modo di concepire un’esistenza dignitosa e moralmente accettabile. Sono a volte su linee temporali differenti – anche molto –, ma hanno un vissuto, un’impostazione di pensiero simile ai suoi. Paolo ha scelto queste persone per coltivare assieme a loro il sistema di valori da cui sono nati i Viandanti delle Nebbie.
Nel farlo non ha cercato proseliti, ma ha aiutato gli altri a ragionare con la propria testa. Non gli interessa convincere, ma confrontarsi, e ciò è possibile solo con un pensiero divergente rispetto al suo.
Credo che le visite a Paolo siano ormai quasi un rito. Se ne sente il bisogno dopo un po’ di privazione, per avere la personale dose di LSD di pensiero. Da ogni incontro sgorga una valanga di idee costruttive, e cambia la percezione dell’agire quotidiano. Si fa un pieno di stimoli che possono tradursi in altri scritti dei Viandanti, o semplicemente ti permettono una visione differente della realtà.
Le dosi di Paolo creano dipendenza? Sì, perché alimentano la voglia di un pensiero divergente. E questo è un bisogno che in molti sentiamo, una necessità quasi vitale per sfuggire all’omologazione.
Se ne potrebbe fare a meno? Certo, prima o poi avverrà. Ma rimarrà chi ha vissuto con lui questo tempo, e le cose che ha scritto alimenteranno ancora altre discussioni, magari in generazioni nuove, nei figli e nei nipoti dei Viandanti di oggi.
Sono sicuro che se Paolo potesse raccoglierli sotto il pergolato del Capanno riuscirebbe ad imporre anche a loro di essere seri, di ragionare con la propria testa, e magari a chiarire loro un po’ le idee, come di frequente succede oggi a noi.

Collezione di licheni bottone

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