Occidente senza pensiero

di Giuseppe Rinaldi, 13 luglio 2025

Pubblichiamo il saggio più recente di Beppe Rinaldi, già comparso nei giorni scorsi sia sul blog personale, Finestre rotte, sia su Città futura on line. Lo pubblichiamo perché riteniamo meriti, come tutti gli altri scritti di Rinaldi che abbiamo ripresi e quelli che vi invitiamo a leggere direttamente sul suo sito, la maggiore visibilità possibile. È difficile di questi tempi trovare analisi altrettanto puntuali ed esaurienti dell’attualità politica e delle derive del pensiero contemporaneo, e siamo quindi ben felici di poterle ospitare. Paolo Repetto

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1. Il titolo di questo saggio[1] fa riferimento a un recente libretto di Aldo Schiavone nel quale egli descrive e denuncia un ormai consumato degrado della vita intellettuale e morale dell’Occidente e, dunque, anche e soprattutto del primo Occidente, cioè dell’Europa. La nozione di un Occidente senza pensiero costituisce una sintesi assai evocativa di una situazione di vuoto culturale che si sarebbe instaurata, sulle sponde atlantiche, pressappoco con l’affievolirsi delle cosiddette ideologie, proprio quelle ideologie peraltro già in crisi che avevano avuto il loro ultimo momento di gloria nell’ambito della Guerra fredda.

2. Sulla cosiddetta fine delle ideologie sono state ormai scritte intere biblioteche[2]. Daniel Bell, già alla metà del secolo scorso, parlava di una «exhaustion of political ideas». Su questa “fine”, e su altre “fini”, la baldanzosa corrente filosofica postmodernista ha campato di rendita per alcuni decenni. Qualcuno ha anche provato a ipotizzare una fine della storia. Con la fine delle ideologie, comunque si valuti l’evento, ci si poteva attendere il luminoso inizio di una nuova prospettiva culturale, scevra di ideologismi, realistica, con i piedi ben piantati in terra, capace di guidarci con sicurezza nell’affrontare le difficili sfide che abbiamo di fronte. Invece, a quanto pare, l’ipotesi più probabile è che sia subentrato il vuoto. Un vuoto che non si può soltanto più considerare come un momentaneo smarrimento, una crisi di crescita. Si tratta piuttosto di un vuoto che si appresta a diventare un vuoto permanente, visto che il Muro è caduto nel 1989, quasi quarant’anni fa, 36 per la precisione.

3. Cosa vuol dire che siamo rimasti “senza pensiero”? È proprio vero? Perché non ce ne eravamo accorti prima? O non si tratta forse dell’ennesima moda denigrativa dell’Occidente, tanto popolare nella cultura woke e recentemente denunciata, ad esempio, da Federico Rampini[3]? Le assenze sono decisamente più difficili da rilevare delle presenze. I vuoti non parlano, non protestano, non hanno effetti causali diretti. Per cui occorre un certo tempo perché vengano identificati, perché venga loro attribuito uno status, per così dire, ontologico. Non è facile – soprattutto nel dominio culturale – rendersi conto del fatto che ci manca qualcosa. Che siamo sull’orlo di un buco nero. A parere di chi scrive l’avvertimento acuto della assenza di un pensiero dell’Occidente (e dell’Europa) si è avuto piuttosto tardi, in concomitanza con una serie di fenomeni che avrebbero dovuto avere una interpretazione univoca e una risposta altrettanto univoca da parte dell’Occidente. E invece non l’hanno avuta. Fenomeni come: 1) l’aggressione russa all’Ucraina; 2) la diffusione stessa della cultura woke entro e fuori degli USA; 3) la Brexit che in sostanza ha costituito una scissione dell’Unione Europea; 4) la prima vittoria di Donald Trump alle elezioni nel 2017, l’assalto al Campidoglio e la sua seconda elezione nel 2024; 5) l’aggressione di Hamas nei confronti di Israele e la reazione sproporzionata dello “Stato degli ebrei” nei confronti del territorio di Gaza; 6) lo svuotamento dell’ONU e dei Tribunali internazionali (a seguito delle guerre di Ucraina e di Gaza); 7) in generale, poi, la estrema lentezza e riluttanza con cui si sta realizzando la unificazione europea. Se si vuol essere un poco più drastici, il blocco ormai pluridecennale del processo di unificazione europea. Se ne potrebbero citare altri.

Questi meri fatti hanno diviso profondamente il mondo della politica, gli intellettuali e l’opinione pubblica europea e hanno mostrato come, da tempo ormai, fosse diventato impossibile l’impiego di criteri comuni di interpretazione, di fronte a questioni che pure sono di enorme importanza, che pure toccano profondamente i valori e i principi fondamentali. Se di fronte a fatti di questa portata non hai una risposta tendenzialmente univoca, vuol dire che non sai tanto bene chi sei, che non hai propriamente un’identità. È lecito domandarsi se non ci sia un limite nella disomogeneità di pensiero che possa essere sopportato da una società, in termini di coesione e di funzionamento. Una società che peraltro è impegnata in un programma di unificazione politica.

4. Se si guarda alla fase storica precedente, quella della Guerra fredda, avevamo mezzo mondo mobilitato per la costruzione del socialismo, in qualcuna delle sue molteplici varianti (alcune delle quali davvero discutibili). Un altro mezzo mondo era alacremente impegnato nella costruzione delle società democratiche aperte e per resistere alla minaccia del socialismo o comunismo reale. Un “Terzo mondo” era poi impegnato nella costruzione di nuovi Stati nazione, per liberare i diversi Paesi dal colonialismo e dallo sfruttamento straniero. Non si può certo dire che mancassero ideologie, valori e finalità. Non mancava dunque il pensiero. Certo, c’erano dei conflitti e alcuni “pensieri” erano del tutto sbagliati, ma questo è il rischio che si corre sempre quando si è impegnati a fare la storia in qualche modo.

Con l’implosione dell’Unione Sovietica e con la fine della Guerra fredda, l’Occidente, che poteva considerarsi come il virtuale vincitore della lunga contesa, è invece entrato in una sorta di stato comatoso, in una sconcertante assenza di progettualità e di prospettive, in una stupida concentrazione sugli egoismi nazionali e sui particolarismi. Sono diventati così visibili, in un certo senso, i due Occidenti, uno dalla statualità muscolare e l’altro dalla statualità evanescente. L’Occidente europeo evanescente ha delegato all’altro, agli USA, una serie importante di responsabilità[4] collettive e questi – oggi possiamo affermarlo con totale certezza – si sono dimostrati assolutamente incapaci, assolutamente non all’altezza del compito. Con una “assenza di pensiero” forse ancora più plateale di quella diffusa in Europa. Basta nominare, uno in fila all’altro, i recenti Presidenti americani. Ve li trascrivo qui di seguito per comodità. Richard Nixon (1969-1974), Gerald Ford (1974-1977), Jimmy Carter (1977-1981), Ronald Reagan (1981-1989), George H. W. Bush (1989-1993), Bill Clinton (1993-2001), George W. Bush (2001-2009), Barack Obama (2009-2017), Donald Trump (2017-2021), Joe Biden (2021-2025) e Donald Trump (2025-). Messi così, uno in fila all’altro, che impressione vi fanno? Riuscite a identificare una qualche linea di pensiero?

5. Gli ultimi quarant’anni della nostra storia, nel primo e nel secondo Occidente, ci mettono drammaticamente di fronte a questo vuoto di prospettiva, vuoto di politica, vuoto di cultura, vuoto, appunto, di pensiero. Un vuoto che si sta facendo sempre più evidente nella misura in cui i problemi, abbandonati a se stessi, urgono per una soluzione e si incancreniscono sempre più. Nel proseguimento di questo saggio – che non va propriamente inteso come una recensione – prenderò in considerazione soprattutto la parte introduttiva e la parte conclusiva del libro di Schiavone, al solo scopo di meglio caratterizzare questo fenomeno, oggi per me divenuto evidentissimo, di un Occidente senza pensiero.

6. Così esordisce Schiavone nel suo libretto: «Nel quadro delle conoscenze e dei saperi che alimentano la vita pubblica delle nostre società […] si è aperto da qualche tempo, nell’indifferenza generale, un vuoto inquietante. Prodottosi quasi di colpo, ha per causa un fatto senza precedenti, con conseguenze che si stanno rivelando via via più disastrose: la scomparsa dalla scena d’Europa del grande pensiero sull’umano: filosofia, teoria politica, scienze storiche e sociali»[5].

Va notata qui l’espressione “pensiero sull’umano”, una terminologia di cui sembra si sia persa decisamente l’abitudine. Vorrei ricordare che anche le atroci lacerazioni del Novecento vertevano comunque, bene o male, intorno a un qualche “pensiero sull’umano”. L’amaro tribunale della storia ha alfine decretato qualcosa di abbastanza preciso, intorno all’umano e al disumano. Qualcosa abbiamo dovuto forzatamente imparare. Oggi, per contro, l’umano e il disumano sono mescolati in una poltiglia inestricabile: Hamas, Trump, Putin, Netanyahu, cui possiamo aggiungere, fuori Occidente, gli ayatollah, i talebani e diverse varietà di islamisti. Ma anche Xi e Kim Jong-un. Eppure ci siamo così abituati che invocare l’umano oggi suscita senz’altro, presso il pubblico, ilarità e compassione.

Schiavone qui giustamente denuncia il progressivo venir meno della cultura umanistica nell’attuale contesto europeo, e più ampiamente nel contesto di quello che suole definirsi come Occidente. È implicito nel suo discorso che la cultura umanistica costituisca ancora una componente fondamentale nella definizione degli orientamenti di una società. Possiamo aggiungere che non assistiamo soltanto a un venir meno della prospettiva umanistica e alla proliferazione del cinico disincantato, stiamo assistendo a una promozione sfacciata dell’antiumanismo, in una varietà di forme che hanno sempre più successo o che comunque, invece di una condanna, suscitano solo benevola indifferenza[6]. Difendere l’umanismo oggi significa spesso fare la parte dell’anima bella che sogna i bei tempi andati. Significa essere malamente apostrofati dai truci realisti della politica che oggi abbondano più che mai. Questa tendenza antiumanistica si accompagna costantemente con lo screditamento della modernità, lo screditamento della tradizione stessa dell’Occidente e con l’implicito e conseguente screditamento della democrazia.

7. Schiavone chiama direttamente in causa le humanities: filosofia, teoria politica, scienze storiche e sociali. Altre volte cita le discipline giuridiche, l’etica, l’economia. Chi scrive si è occupato di filosofia e scienze umane fin da quando era sui banchi di scuola. Ebbene, la filosofia occidentale, nella sua versione continentale, sta attraversando una crisi epocale dalla quale difficilmente riuscirà a riprendersi. Ho trattato ampiamente di questo argomento nel mio recente saggio Esiste la filosofia continentale?[7] L’aspetto interessante della questione è il fatto che, a partire dagli anni Settanta la filosofia continentale europea, soprattutto tedesca e francese (la french theory), ha completamente colonizzato le facoltà umanistiche americane, gettando le basi di quella cultura del piagnisteo politically correct, che si svilupperà poi nel movimento stay woke. In altri termini, stiamo importando in forma peggiorativa, come vuoto di pensiero, quello che abbiamo esportato oltre atlantico qualche decennio fa.

Per le scienze sociali è avvenuto un processo inverso. Le scienze sociali americane del primo Novecento, che avevano studiato per prime la nuova società di massa, sono state esportate in Europa, dove hanno avuto una diffusione straordinaria e hanno contribuito alla conoscenza e all’ammodernamento delle società europee, almeno quelle al di qua del Muro. Per decenni le scienze sociali nord americane furono le sole capaci di fare una dura concorrenza all’ortodossia marxista, che pretendeva il monopolio della conoscenza sociale. Esse diedero notevoli contributi ai processi di riforma delle società europee postbelliche. Negli anni Novanta tuttavia le scienze sociali americane caddero vittima dei social studies, del piagnisteo politically correct e lo stesso accadde, di converso in Europa. Con l’avvento del neo liberismo (la Tatcher sosteneva che “la società non esiste”) e con l’abbandono dei grandi progetti di riforma, le scienze sociali cominciarono a perdere qualsiasi ruolo e centralità. Contribuendo così a quel vuoto di pensiero di cui stiamo discutendo.

8. Una delle manifestazioni più tangibili di questo vuoto inquietante è – per Schiavone – la progressiva scomparsa dei Maestri. «Una volta c’erano tra noi i Maestri. Non in un’età ormai lontana, ma appena qualche decennio fa, ancora nel tardo Novecento. Guide da cui non si poteva prescindere e con cui ci siamo a lungo confrontati, fin quasi al passaggio del secolo. Spesso discussi e criticati, e non soltanto seguiti e imitati, ma comunque riconosciuti in grado di misurarsi con le grandi personalità del passato, e di aprire, attraverso quel dialogo, vie inesplorate per affrontare i problemi del presente nella continuità di una tradizione: quella stessa della modernità»[8].

La collocazione cronologica posta da Schiavone, “appena qualche decennio fa”, dell’avvento del vuoto di pensiero, è all’incirca quella che ho segnalato nella mia introduzione. Va poi ricordato che intellettuali e modernità hanno costituito, per secoli, un binomio inseparabile. Gli intellettuali, pur con molte contraddizioni, hanno costantemente svolto il ruolo di coscienza critica della modernità. Anche i conflitti del Novecento sono stati elaborati e consumati nell’ambito di un aspro dibattito intellettuale intorno alla modernità, o a quel che ne restava.

Ma è ora subentrata la postmodernità, la reazione contro la modernità che ha finito per scindere il ruolo stesso degli intellettuali nei confronti della società e della storia. Intellettuali e modernità sono due categorie che hanno subìto, negli scorsi decenni, un attacco violentissimo. Proprio ad opera della postmodernità che, in virtù di questo vandalismo di principio, ha mostrato alla fine la propria vacuità e inconsistenza. Senza l’apporto della modernità, senza il ruolo degli intellettuali, abbiamo perso progressivamente la capacità di pensare al nostro passato, al nostro presente, al nostro destino. Abbiamo rinunciato a domandarci chi siamo, donde veniamo, dove andiamo. Con chi ci accompagniamo.

9. Schiavone usa alcune pagine per elencare una nutrita schiera dei grandi Maestri cui faceva riferimento in apertura. «Era insomma la grande cultura formatasi nel cuore del ventesimo secolo che continuava a svolgere il proprio ruolo, e finiva con l’illuminare un’intera civiltà. […] Di comparabile a tanta ricchezza, oggi non rimane più nulla: ed è così che il buio è sceso senza preavviso sul cuore dell’Occidente. I primi risultati sono sotto gli occhi di tutti: un’America irriconoscibile, e un’Europa che tace o balbetta»[9].

Si noti che l’elenco dei Maestri citati, che qui non riporto e discuto per brevità, comprende posizioni culturali anche assai diverse e talvolta incompatibili. In omaggio dunque alla natura sempre conflittuale del pensiero. Per quel che riguarda invece il buio che ha colto il secondo Occidente, ci dovremmo soffermare a lungo sulla cultura woke, che è insieme causa e conseguenza della sparizione dei grandi Maestri e del rifiuto della modernità. Luca Ricolfi nel suo saggio sul Follemente corretto[10] ha esaurientemente descritto il fenomeno e ne ha tracciate alcune linee interpretative. Il politically correct e la cultura woke, con tutti i loro annessi e connessi, hanno gravemente minato la libertà di pensiero, uno dei principi cardine dell’Occidente.

10. Tuttavia Schiavone mette anche l’accento sul deterioramento qualitativo della produzione culturale. Ciò ovviamente mette in causa i meccanismi stessi della produzione e riproduzione dei saperi umanistici. Afferma Schiavone che: «[…] se si considerasse l’elenco dei docenti di una qualunque importante Facoltà umanistica in Francia, in Germania, in Italia qual era quaranta o cinquanta anni fa, e lo si mettesse a confronto con coloro che vi insegnano oggi, sarebbe arduo sottrarsi all’impressione di una distanza crescente e incolmabile, se appena si avesse una cognizione non superficiale delle materie prese in esame: filosofiche, storiche, giuridiche, sociologiche»[11].

Va osservato, da parte nostra, che l’appiattimento qualitativo riguarda non solo l’offerta culturale, ma anche il lato della domanda. Le capacità medie conseguite dagli studenti nelle nostre scuole sono in caduta libera. Lo stesso vale per le capacità medie dei cittadini di svolgere efficacemente i doveri loro prescritti dalla Costituzione. Anche su questo appiattimento ormai esiste una letteratura ampia e ben documentata.

11. Ciò vale perfino – ci permettiamo di aggiungere – nel campo dell’intelligenza. Secondo gli studiosi dell’effetto Flynn, nei Paesi occidentali anche l’intelligenza media avrebbe cessato di crescere. L’Effetto Flynn[12] era quel fenomeno, ben conosciuto dagli psicologi, per cui le prestazioni nei test di intelligenza tendevano a crescere col passare del tempo (3 punti ogni decennio). Questo fenomeno era stato rilevato sulla base dell’accumulo dei dati conseguenti alla pratica sistematica della somministrazione dei test di intelligenza diffusa in varie nazioni e istituzioni. Dall’inizio del nuovo secolo sono comparsi diversi studi che testimoniano di un arresto del fenomeno di crescita dei punteggi medi nei test di intelligenza. O, addirittura, sembrano avallare la presenza generalizzata di un effetto Flynn rovesciato. Col passare del tempo, le prestazioni individuali nei test di intelligenza non solo avrebbero cessato di crescere ma addirittura tenderebbero a diminuire. La cosa è tuttora controversa sul piano statistico, ma decisamente allarmante, se collegata ad altri sintomi di degrado del livello culturale medio delle nuove generazioni.

12. Eppure viviamo in un’epoca formidabile di progresso tecnico scientifico. Abbiamo fotografato i buchi neri, abbiamo scoperto il bosone di Higgs e intercettato le onde gravitazionali. L’intelligenza artificiale contribuisce a migliorare la nostra vita in un’enorme quantità di settori. Schiavone precisa che, a suo giudizio, il vuoto di pensiero incombente concerne proprio il contesto delle humanities, visto che, per quel che riguarda le scienze della natura, non pare proprio esserci alcuna crisi alle porte. Non abbiamo dunque a che fare con disturbi funzionali di base, visto che nel campo scientifico hard il prodotto è rimasto per ora del tutto competitivo. Abbiamo proprio a che fare col vuoto di pensiero sull’umano. Un autentico smarrimento. Come un gigante dotato di un’enorme muscolatura, ma col cervello di un moscerino.

Schiavone confronta l’epoca della prima Rivoluzione industriale, quando il passaggio d’epoca fu caratterizzato da un intenso lavorio culturale allo scopo di comprendere le trasformazioni che stavano avvenendo, con l’epoca nostra, un’epoca di grandi trasformazioni che avvengono in una totale mancanza di comprensione. «Ma questa volta dov’è il pensiero – filosofico, economico, sociale, politico, giuridico, etico: in una parola, l’indagine sulle società e sull’umano in trasformazione e sui loro nuovi caratteri – che dovrebbe fare da guida al passaggio d’epoca, orientandone direzione e conseguenze, come è accaduto con le grandi rivoluzioni della modernità?»[13]. Stiamo, in altri termini, vivendo una grande trasformazione con gli occhi completamente bendati.

13. Insiste Schiavone: «Quello che manca è in particolare una cultura – storica, filosofica, sociale – che si ponga il problema di una lettura d’insieme dei processi che si stanno sviluppando nel mondo, dei loro caratteri e delle loro tendenze, e che offra soluzioni innovative alla politica. Un pensiero che analizzi da vicino, con capacità teorica adeguata, il salto di qualità avvenuto nella struttura dell’economia capitalistica in seguito alla rivoluzione tecnologica, con il definitivo tramonto della centralità storica del lavoro umano produttivo di beni materiali – il lavoro della classe operaia. Un passaggio, quest’ultimo, che ha posto fine a un intero tratto della modernità, ha provocato il crollo dei regimi comunisti, e ha portato alla nascita di uno specifico meccanismo unico di tecnica e di economia per la prima volta senza alternative nell’intero pianeta – sul quale tuttavia sappiamo pochissimo dal punto di vista della sua teoria e della sua critica»[14].

Qui torna uno dei problemi su cui Schiavone aveva già insistito, in passato, e cioè «il definitivo tramonto della centralità storica del lavoro umano produttivo di beni materiali». Si tratta di un motivo ben presente nel suo Sinistra! Un manifesto del 2023[15]. La presenza del conflitto di classe aveva caratterizzato i due secoli precedenti della modernità e aveva monopolizzato i dibattiti intorno alla configurazione della società. Intorno alla società giusta. Ora quella centralità storica non c’è più e ciò imporrebbe lo sviluppo di un nuovo pensiero intorno al futuro stesso delle società occidentali. Un manifesto, appunto, per una nuova sinistra[16]. Ma la sinistra europea appare ammutolita e in difficoltà. Non parliamo poi dei Democratici americani. Sia le destre tradizionali, sia le sinistre, che bene o male avevano entrambe una qualche solida visione della società e della storia, sono oggi soppiantate dal non pensiero dei populismi organizzati, spesso inestricabilmente rossobruni, nazicomunisti nei loro fondamenti. A ogni consultazione elettorale questi registrano incrementi preoccupanti di consensi.

14. Così Schiavone sintetizza la situazione: «L’Occidente è rimasto in tal modo orfano della sua stessa intelligenza: che lo ha lasciato all’improvviso completamente solo, a metà strada di un cammino incompiuto. E ne è rimasta orfana in particolare la politica, sia progressista sia conservatrice. Una specie di nuovo “tradimento dei chierici”, consumato quando mettere in campo nuovo pensiero sarebbe stato indispensabile per concepire e realizzare scenari adeguati alle peculiarità della nuova realtà capitalistica e al suo rapporto con la tecnica e con la politica»[17]. In questi passi si evoca il tradimento dei chierici, uno smarrimento cioè della funzione intellettuale, un inchino del mondo della cultura a interessi totalmente estranei. Il riferimento ovviamente va a Julien Benda (1867-1956) e al suo noto Tradimento dei chierici (1927)[18]. E il tradimento dei chierici ha avuto effetti esiziali sulla politica: «E invece proprio nel momento cruciale del salto, il circuito delle conoscenze si è interrotto. E la politica è diventata cieca, senza concetti e categorie in grado di leggere oltre la superficie dei processi che ci coinvolgono, nei caratteri e nelle tendenze di lunga durata del mutamento»[19].

La debolezza della politica è senz’altro un effetto della debolezza del pensiero. Il problema è che, in un simile quadro, pare davvero impossibile che la politica riesca a porre un qualche rimedio alla stessa debolezza del pensiero. L’immagine che se ne trae è quella di un Occidente sempre più invischiato in un circolo vizioso autolesionistico. Invece di politica e cultura, come in Norberto Bobbio, avremo sempre più politica senza cultura.

15. Non seguiremo da vicino i vari capitoli nei quali Schiavone approfondisce la propria analisi. Dove si affrontano questioni come il degrado della politica, la globalizzazione, l’impatto delle nuove tecnologie, i problemi della democrazia, la situazione americana. Le conclusioni di Schiavone si aprono con un’affermazione davvero impegnativa: «Solo una rivoluzione intellettuale e morale dell’intera cultura europea di portata eguale alla trasformazione che stiamo vivendo potrà essere in grado di indirizzare per il meglio il cambiamento in cui siamo immersi. Perché lo ripetiamo: la tecnica dona potenza, non assicura salvezza. Stabilisce la direzione e l’irreversibilità del cammino, contribuendo a fissare la forma dell’umano attraverso l’aumento del suo controllo sulle proprie condizioni materiali di esistenza; non garantisce il buon esito dell’intero viaggio»[20].

La tecnica ci rende sempre più forti ma non può darci alcuna indicazione su come usare proficuamente questa stessa forza. Mentre i vari corifei della sinistra in senso lato invocano il disarmo, oppure gli ennesimi provvedimenti di tutela a favore di questi o quelli – quelli che non arrivano alla fine del mese – oppure ancora evocano il diritto alla rivolta e il ritorno alla lotta di classe, ebbene Schiavone va contro corrente e avverte che è necessaria principalmente una «rivoluzione intellettuale e morale», due rivoluzioni con cui nell’immediato «non si mangia». Due rivoluzioni senza cui non sapremmo neanche quale sia la meta verso cui andare. Non ci mancano i mezzi, ci mancano i fini. O forse ne abbiamo di troppi, e di confusi. Il che è come non averne neanche uno.

16. Sarebbe allora da fare una riflessione profonda intorno al significato di queste parole. Cosa significa «rivoluzione intellettuale e morale»? In estrema sintesi, così interpreto io, l’Occidente senza pensiero ha coltivato – ancora una volta – la fiducia nei meccanismi automatici. Come quando aveva creduto alle leggi marxiane della storia. Oggi si tratta della fiducia nelle leggi automatiche dei mercati, nella iniziativa individuale e nella concorrenza, nello slogan «Enrichissez vous!», nella fiducia del gocciolamento del benessere verso tutti gli strati della società. L’Occidente senza pensiero ha fatto di tutto per ridurre ai minimi termini lo Stato e le istituzioni, per dare mano libera alla vandalica deregulation. È stata questa una comune ubriacatura che ha coinvolto sia la destra sia la sinistra. Destre e sinistre che la capacità di pensare l’avevano forse persa da tempo. Così ci siamo ritrovati immersi nel populismo e stiamo così mettendo a repentaglio le stesse istituzioni democratiche. L’Occidente europeo ha pensato che bastasse «laissez faire, laissez passer». Che bastasse stare a guardare, e tutto si sarebbe aggiustato da sé.

17. Ora, a quanto pare, la storia ci sta presentando il conto, e non sappiamo cosa fare. Il fatto è che – di questo dobbiamo davvero convincerci – la società va pensata. La società è fatta proprio per essere pensata. Soprattutto le società altamente complesse come le nostre. Per le quali occorre un pensiero di pari complessità. Invece abbiamo creduto alle semplificazioni. Da noi, per stare a casa nostra, abbiamo creduto al pensiero semplice di Berlusconi, di Bossi, di Renzi, di Grillo, di Meloni, di Salvini. Mi spiace molto dirlo, ma anche quello di Schlein e di Landini, di fronte ai problemi che abbiamo davanti, è puro pensiero semplice[21].

In Europa, pensare di continuare a sopravvivere come uno Stato senza Stato (che non unifichi in sé le fondamentali prerogative di uno Stato) è puro pensiero semplice, come quello dei pacifinti che vogliono la pace e la sicurezza, non vogliono la NATO e non vogliono spendere una lira per comperare le cartucce. Pensiero semplice anche quello dei governi europei che vorrebbero, a fasi alterne, una politica estera di grande potenza, senza però cedere alcun potere a un Ministro degli esteri europeo di un Governo europeo. Purtroppo siamo guidati dal pensiero semplice e gli elettori, divenuti semplici anch’essi, non sembrano neanche più persuasi di dover andare ogni tanto a votare. Non vanno più a votare non perché siano delusi dalla politica ma perché sono divenuti incapaci di un qualsiasi pensiero effettivamente politico. Ricordo che gli esponenti del secondo partito di opposizione italiano andavano in parlamento agitando l’apriscatole. Non solo intellettuali senza pensiero dunque, ma anche elettori senza pensiero.

18. Già, ma allora, come possiamo fare per recuperare un pensiero alto, degno dell’Europa e dell’Occidente migliore? Davvero all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte? Schiavone si pone il problema, ma qui mi permetto di dubitare alquanto sulla fattibilità della sua proposta. Dice: «[…] almeno in Europa, per rimettere in moto la macchina del pensiero serve una scossa esterna al mondo delle idee, tanto forte da rendere possibile la ripresa del cammino interrotto. Un impulso che può venire soltanto dalla politica: da una politica che sappia spezzare con la forza di una decisione il vuoto di idee che la circonda. E questa non può consistere in altro se non in un passo avanti decisivo verso l’unificazione del continente»[22].

Qui Schiavone incorre purtroppo in una qualche circolarità di pensiero, visto che, nella introduzione ha sostenuto che proprio il vuoto di pensiero confina la politica alla mera amministrazione. Come farà una politica priva di pensiero a trovare da sé la forza di una decisione? Personalmente una risposta ce l’ho, ed è una risposta poco piacevole. Solo una colossale esternalità negativa, una grave catastrofe, potrà costringere i nostri maestri del pensiero semplice a prendere decisioni forti. A prendere finalmente le ovvie decisioni indispensabili. Non resta che sperare nella catastrofe.

19. Così l’Occidente si è cacciato in un circolo vizioso che lo condanna a rendimenti sempre più bassi. A continuare a rimandare e ad attendere, come se avessimo davanti un tempo infinito. Certo, è comodo fare l’ammuina. Schiavone avverte che: «Progresso tecnico e scadimento morale e sociale possono coesistere, entro certi limiti. Con la conseguente deriva verso un mondo in cui l’anomia sarà diventata la regola di un suprematismo capitalistico – tecnologico fuori controllo: segnato dal dominio di minoranze più o meno ristrette – arroccate nei privilegi derivanti dalla loro posizione rispetto al dispositivo tecnoeconomico globale – su moltitudini uniformate dalla comune sconfitta e dal patimento condiviso della sopraffazione»[23]. L’Amministrazione Trump è oggi un perfetto esempio di coesistenza di progresso tecnico e scadimento morale, intellettuale e sociale. Questo è forse il destino che ci aspetta.

Rincarando la dose, secondo Schiavone oggi ci troviamo in: «Una congiuntura in cui la capacità del pensiero sull’umano di padroneggiare e di orientare verso paradigmi di razionalità fondati sul bene comune quel potere di trasformazione del reale che stiamo acquisendo con tanta velocità appare drammaticamente ridotta, se non addirittura azzerata. Se non riusciremo a riequilibrare in corsa questo scompenso; se una parte di quella che chiamiamo la nostra civiltà continuerà a rimanere indietro rispetto all’altra, il prolungarsi del ritardo renderà realistiche ipotesi di futuro nelle quali l’aver cancellato la comune identità dell’umano diverrà il principale carattere di una costituzione materiale del pianeta fondata esclusivamente sulla discriminazione e sul dispotismo»[24].

Val la pena di aggiungere che non sarà certo demandando alla intelligenza artificiale la soluzione delle maggiori questioni – come qualcuno auspicherebbe – che risolveremo il nostro deficit di pensiero. Un imbecille con l’AI diventa un imbecille al quadrato. C’è già chi pensa di infilare l’intelligenza artificiale nelle scuole, così avremo finalmente il pensiero semplificato a disposizione di tutti, paziente, autorevole, efficiente e del tutto incontrollabile. Non sono tra gli scettici oppositori della AI, sono piuttosto tra gli scettici che dubitano della nostra capacità di controllare la AI, cui ci stiamo affidando con tanta disinvoltura e dabbenaggine. Anche qui è in gioco il vuoto del pensiero. Chi pensiero non ha, non può darselo artificialmente.

20. Schiavone manifesta tuttavia, nonostante tutto, un certo ottimismo: «[…] nonostante tutti gli ostacoli che si frappongono, credo che in questo frangente sia proprio dall’Europa che possa partire il primo e più forte segnale di risveglio; che sia da qui che si possa riannodare il filo spezzato del nostro pensiero»[25]. Schiavone entra qui nel merito di alcuni punti di forza restanti su cui l’Europa potrebbe basarsi per dare il via a una ripresa. In effetti, dopo il declino ormai palese e profondo della democrazia americana, del secondo Occidente, non resta che riporre qualche speranza nel primo Occidente. Effettivamente se il patrimonio di pensiero dell’Occidente non è rimasto da qualche parte in Europa, può allora esser tranquillamente dichiarato in via di estinzione. Basti pensare al trattamento inferto da Trump alle università americane per rendersi conto che da quelle parti non verrà più fuori alcunché, per un bel po’. Bisogna riconoscere che Alexandr Dugin, al di là del suo tono profetico ed esaltato, nei suoi scritti è andato vicino a una diagnosi ben precisa della capitolazione dell’Occidente di fronte all’Euroasiatismo. In un suo scritto[26] di qualche anno fa aveva individuato proprio in Trump il capofila inconsapevole della reazione dei popoli del Mondo contro l’Occidente, irrimediabilmente corrotto e pervertito.

Comprendiamo che Schiavone, nel suo ruolo di pubblico intellettuale, si sforzi di mostrare un volto tutto sommato ottimistico. Comprendiamo come si sia sentito in dovere di considerare la partita del pensiero dell’Occidente ancora come aperta. Di mostrare una strada praticabile per uscire dalla crisi. Di considerare come ancora non del tutto perduto il nostro patrimonio di pensiero, la nostra scala di valori e le nostre istituzioni. In questo senso, il suo saggio è un appello. Purtroppo la sua diagnosi è perfetta, ma una eventuale prognosi positiva è invece dipendente da una miriade di condizioni che, se considerate da vicino, non possono che risultare altamente improbabili.

21. Il lettore, compulsando attentamente il testo di Schiavone, potrà farsi un’idea di quanto realistiche siano le possibilità di successo di un programma di rinascita del pensiero europeo da lui intravisto e propugnato. Personalmente, siamo alquanto più pessimisti e il vuoto di pensiero dell’Occidente oggi ci sembra ormai decisamente irreparabile. Più che di un improbabile programma di rinascita, oggi ci pare quanto mai necessario un programma di resistenza. Un appello disperato che chiami alla resistenza le poche forze del pensiero d’Occidente sopravvissute, e non ancora del tutto stravolte. Una resistenza, appunto, intellettuale e morale. Una resistenza destinata tuttavia a diventare sempre più clandestina, sempre più confinata nei bantustan o nelle riserve indiane. Il trattamento inferto da Trump alle università americane è di una chiarezza esemplare. Una resistenza nella lucida consapevolezza che la guerra è stata ormai perduta, che i barbari sono alle porte e che domineranno per secoli. Si tratta allora di mettere da parte e conservare i codici, ricopiare e commentare i testi, trasmettere la tradizione, tenere acceso il lumicino in attesa di un’improbabile nuova alba. Proprio come i monaci irlandesi nei secoli bui della decadenza europea.

Opere citate

1960 Bell, Daniel, The End of Ideology. On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, Harvard University Press, Cambridge. Tr. it.: La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi, SugarCo Edizioni, Milano, 1991.

1958 Benda, Julien, La trahison des clercs, Editions Grasset, Paris. [1927]

2021 Dugin, Alexandr, Contro il Grande reset. Manifesto del Grande risveglio, AGA Editrice.

2022 Rampini, Federico, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Mondadori, Milano.

2024 Rampini, Federico, Grazie Occidente!, Mondadori, Milano.

2024 Ricolfi, Luca, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, Milano.

2023 Schiavone, Aldo, Sinistra! Un manifesto, Einaudi, Torino.

2025 Schiavone, Aldo, Occidente senza pensiero, Il Mulino, Bologna.


[1] Nella scrittura di questo saggio non ho fatto uso alcuno di strumenti di intelligenza artificiale.

[2] La prima occorrenza della questione risale al 1960. Si veda Bell 1960.

[3] Cfr. Rampini 2022 e Rampini 2024.

[4] Tra queste responsabilità, attribuite di fatto dall’Europa agli USA, abbiamo la difesa (attraverso la NATO), il governo monetario e del commercio internazionale, la politica internazionale, il controllo degli Stati canaglia, il governo delle crisi internazionali derivanti da alcuni Paesi ex comunisti e dall’insorgente fondamentalismo islamico, compresa anche la lotta al terrorismo. Possiamo aggiungere la responsabilità della salvaguardia e della promozione delle organizzazioni internazionali. A uno sguardo retrospettivo, gli USA hanno fallito in tutti questi compiti. Marcatamente, in politica internazionale hanno fallito sulla questione israelo-palestinese, hanno fallito in Iraq e in Afghanistan. Solo per elencare le crisi più importanti. Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, gli USA hanno dato un notevole contributo al loro indebolimento.

[5] Cfr. Schiavone 2025: 15.

[6] Fanno parte dell’antiumanismo, a nostro parere, anche il transumanismo e il postumanismo nelle loro varie e confuse manifestazioni.

[7] Si veda Finestre rotte: Esiste la filosofia continentale?

[8] Cfr. Schiavone 2025: 16.

[9] Cfr. Schiavone 2025: 19.

[10] Cfr. Ricolfi 2024.

[11] Cfr. Schiavone 2025: 20.

[12] Dal nome dello psicologo neozelandese James Robert Flynn (1934-2020).

[13] Cfr. Schiavone 2025: 25.

[14] Cfr. Schiavone 2025: 26-27.

[15] Cfr. Schiavone 2023.

[16] In un mio saggio precedente ho analizzato dettagliatamente il Manifesto di Schiavone. Per chi fosse interessato, si veda Finestre rotte: Prolegomeni a una nuova sinistra.

[17] Cfr. Schiavone 2025: 30.

[18] Cfr. Benda 1958.

[19] Cfr. Schiavone 2025: 30.

[20] Cfr. Schiavone 2025: 123.

[21] Mi permetto qui di richiamare la mia recente analisi sui Referendum del giugno 2025: Finestre rotte: Referendum 2025.

[22] Cfr. Schiavone 2025: 123.

[23] Cfr. Schiavone 2025: 124.

[24] Cfr. Schiavone 2025: 124.

[25] Cfr. Schiavone 2025: 124-125.

[26] Cfr. Dugin 2021.

Piovono sauri!

di Paolo Repetto, 11 gennaio 2021

Di complotti e di complottismo si è parlato anche recentemente su questo sito, forse persino troppo. Verrebbe davvero voglia di seguire il consiglio del tizio che ha scritto: “Implicando che siano così pericolose da meritarsi una censura, i censori danno una patina di serietà a idee che sono, diciamocelo, veramente, veramente idiote”. Il che è più che giusto, non fosse che queste idee sono cerini accesi buttati su chiazze sempre più larghe di idiozia stagnante. Se vogliamo dunque dare al sito una minima ragione d’esistere, questa ha da essere nella lotta contro la stupidità, nel buttare a nostra volta acqua su queste chiazze. Fino ad ora lo abbiamo fatto però in maniera episodica, cercando di capire se un atteggiamento così idiota avesse una qualche matrice biologica, o limitandoci a liquidarlo con sufficienza, come uno dei tanti segnali della degenerazione cerebrale in atto. Siamo probabilmente fuorviati da quella ambigua formula che si chiama “libertà di pensiero”, della quale in genere sottolineiamo il primo termine a completo discapito del secondo, e alla quale guarda caso si richiamano soprattutto i sostenitori delle teorie complottiste. “Penso che la gente debba avere il diritto di credere, di leggere e di avere accesso a tutte le informazioni, per formarsi una propria opinione su cosa pensare. Se qualcosa non ha senso, e se qualcosa non accade, verrà mostrato come insensato sotto le luci dell’arena pubblica”, dice uno dei più famosi tra costoro, giocando furbescamente sulla indeterminatezza del concetto di “informazione”.

Io penso invece sia opportuno, a questo punto, proporre uno schema di lettura di questo tipo di “informazione” il più chiaro possibile, per non continuare poi a tornare sull’argomento, e per non assecondare un gioco che vorremmo interrompere. Sono consapevole del rischio che corro, perché è materia viscida, che ti si attacca da tutte le parti, ed ha un effetto tossico. Ma penso non si possano maneggiare queste cose senza sporcarsi le mani, e che queste ultime vadano lavate solo dopo averci provato. L’intento è di offrire un piccolo manuale di sopravvivenza per cervelli passabilmente sani, che aiuti a tagliare corto di fronte alle palesi professioni di idiozia delle quali siamo quotidianamente spettatori e ad applicare nei loro confronti una inflessibile tolleranza zero. Essere amanti del dialogo è in teoria una cosa molto bella, ma dialogare con degli imbecilli è solo una inutile e pericolosa perdita di tempo. Provo dunque a chiudere il cerchio ponendomi quattro o cinque semplici domande e cercando, per quanto possibile, di dare altrettanto semplici risposte.

Per chiarezza, preciso che userò i termini “complottista” o “cospirazionista” per indicare i fautori delle teorie del complotto, e “cospiratore”, “congiurato” o “complottante” per i presunti partecipanti al complotto.

Intanto: di cosa stiamo parlando?

Prima di affrontare l’argomento in maniera, se mi si passa il termine, “sistematica”, vorrei dire qualcosa sulla reale portata e sulla qualità del problema, che temo ancora ci sfuggano. Il modo migliore per farlo è chiamare al banco, come persona informata dei fatti, quello che è stato definito “il più influente degli autori cospirazionisti” Si tratta di David Vaughan Icke, personaggio a dir poco bizzarro, e decisamente inquietante. Icke è il testimone perfetto, perché è riuscito a operare la sintesi di tutte le teorie complottiste (cosa tutt’altro che facile), e ad ottenere un risultato molto superiore alla semplice somma degli addendi. Mi è persino difficile tentare di riassumere le sue teorie, che sono state sviluppate (e aggiornate e corrette costantemente) in almeno una quindicina di libri, oltre la metà dei quali tradotti anche in Italia, a partire dal più famoso, “E la verità vi renderà liberi”. Non perché siano complesse, ma perché sono talmente demenziali da provocarmi un rigetto mentale e fisico. Ci provo comunque.

Facciamo parlare prima di tutto lui, attraverso la quarta di copertina del suo capolavoro: “L’autore espone la storia reale che sta dietro gli eventi globali che modellano il futuro dell’esistenza umana e del mondo che noi lasceremo ai nostri figli. Coraggiosamente, solleva il velo su una sorprendente rete di manipolazioni interconnesse che rivelano come le poche e stesse persone, società segrete e organizzazioni controllano la direzione quotidiana delle nostre vite. Questi poteri occulti progettano le guerre, le rivoluzioni violente, gli attentati terroristici e gli assassinii politici. Essi controllano il mercato mondiale delle droghe pesanti e la macchina dell’indottrinamento dei media. Ogni evento globale negativo può attribuirsi alla stessa Élite Globale. Alcuni dei nomi delle persone in essa coinvolte sono veramente molto conosciuti. Mai prima d’ora questa rete, i suoi aderenti e i suoi metodi, sono stati svelati in un modo così dettagliato e devastante”.

Sul devastante sono d’accordo, se si riferisce all’effetto prodotto su cervelli già in rottamazione. Secondo Icke l’universo è solo un ologramma cosmico, una immensa simulazione, una matrice quantica (cfr. Matrix) controllata da un gruppo segreto di “rettiliani”, riuniti nella Fratellanza di Babilonia, o del Serpente. I rettiliani sono esseri alti due metri e tredici (sic), provenienti da un altro sistema stellare, Alpha Draconis: le loro fattezze sono quelle di enormi lucertoloni, ma sulla terra assumono sembiante umano (cfr. L’invasione degli ultracorpi): o meglio, ci appaiono umani perché sono in grado di alterare le nostre percezioni. Sono rettiliani i personaggi più influenti della politica e dell’economia mondiale, nonché tutta una serie di vip dello spettacolo e della cultura. Tra loro, oltre ai reali d’Inghilterra, ci sono George Bush, Bill Clinton, Obama e naturalmente i Rothschild e i Rockefeller, e c’è persino Bob Hope (ora, posso capire Bush, qualche sospetto che non fosse del tutto umano lo avevo anch’io, ma Bob Hope mi sfugge. Quando Icks lo ha inserito nella lista andava per i cento anni. Forse i suoi film lo avevano annoiato da piccolo). Non sono aggiornato sugli ultimissimi sviluppi, ma immagino siano entrati nel novero anche l’altra Clinton, la Merkel, George Soros, Bill Gates, Madonna e Lady Gaga. In realtà non tutti i coinvolti nella cospirazione sono propriamente rettiliani: c’è una vasta area di fiancheggiatori, umani plagiati o schiavizzati dai dominatori.

I rettiliani si nutrono di sangue (preferibilmente fresco, quello dei bambini) e si dedicano a violenze carnali e a varie forme di abuso sui minorenni, compreso il prelievo di organi. Il loro scopo è naturalmente quello di dominare il mondo, esercitando il controllo attraverso le pratiche più disparate, che vanno dai riti satanici all’ingegneria sociale, dalle biotecnologie al controllo del clima. La faccenda ha avuto inizio almeno tre secoli fa, a partire dagli Illuminati di Baviera (ma volendo si trovano indizi molto più remoti). Tutte le rivoluzioni, da quella francese a quella russa e oltre, tutte le guerre, comprese la prima e la seconda mondiale, l’Olocausto, gli attentati, gli attacchi terroristici dell’11 settembre, fino agli tsunami e alla pandemia di COVID, sono eventi causati dal governo segreto. Naturalmente dietro ci sono gli ebrei, secondo i dettami dei Protocolli dei Savi di Sion: questo a dispetto di tutte le smentite di Icke, che ci tiene a precisare di non avercela con gli ebrei come popolo o razza, ma di considerare gli ebrei membri della classe dirigente non ebrei, ma lucertole.

Potrei continuare, ma mi sembra più che sufficiente. Giuro che non ho inventato nulla: si possono trovare notizie su Icke in qualsiasi motore di ricerca. D’altra parte, se lo avessi inventato, non mi sarei spinto così in là: non ho una fantasia così turbata, l’avrei senz’altro creato un po’ più sobrio. Tuttavia, non possiamo chiudere la faccenda con un sorrisetto, e limitarci a pensare che questi sono i frutti dell’apertura dei manicomi. Siamo di fronte ad un tizio che ha scritto decine di libri (e li ha anche venduti), che ha a disposizione diversi canali comunicativi, che è invitato in mezzo mondo a tener conferenze, persino in qualche università. Non so quanto Icke sia un mentecatto autentico e quanto ci marci, visto che la cosa rende benissimo: sta di fatto che milioni di altri mentecatti (questi sì, accertati) lo seguono e che decine di altri milioni, pur considerandolo un po’ strambo, ritengono che in fondo il succo delle sue rivelazioni risponda a verità.

La dimensione vera del problema è questa, ed è inutile obiettare che si tratta di una fenomenologia estrema: è invece un possibile, forse probabile, punto di approdo della deriva generale in corso. D’altro canto, non è casuale che nell’elenco dei rettiliani non compaia il nome di Donald Trump. Certo, capisco che sarebbe difficile associarlo ad un qualsivoglia “progetto intelligente”, e lui stesso d’altronde in più di un’occasione ha strizzato l’occhio ai complottisti, sia pure per mero opportunismo elettorale, perché dubito creda in qualcos’altro che in se stesso: ma il fatto davvero rilevante e allarmante è che una metà degli americani si identifica in lui, e lo vede come un baluardo contro il complotto. Parlo di centinaia di milioni di persone, e penso che la situazione non sia molto diversa in altre parti del mondo. Credo che Icke andrebbe preso, oltre che a calci, anche un po’ più sul serio.

Ho voluto chiarire questo punto perché davanti all’assurdo la tentazione di lasciar perdere è forte, ed in effetti mi sembra essere l’unica cosa che stiamo facendo. Ma l’assurdo non lo si combatte così: per quanto possibile è necessario conoscerlo, capire quali logiche non euclidee lo governano: non per vincerlo, ma almeno per difenderci.

Per questo, proseguo con le domande.

Esistono i complotti?

Certo che esistono. Parafrasando Anders, si potrebbe dire che “la storia è una tabella dei complotti”. Non si parla d’altro: da Catilina a Bruto, dagli Illuminati di Baviera fino alle congiure contro Hitler, ecc. Un libro attualmente in circolazione, Le cento grandi congiure, elenca appunto solo le più famose (e reali), magari facendo anche un po’ di confusione tra complotti veri e propri e omicidi premeditati in cerchie familiari.

Il “genere” letterario in realtà lo aveva inaugurato cinque secoli fa Machiavelli, inserendo nel terzo libro dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio una sezione intitolata appunto “Delle congiure”, che è stata in seguito spesso estrapolata e letta come un trattatello a parte. Machiavelli non usa mai, né qui né in altri riferimenti al tema, che si trovano copiosi nelle sue opere, il termine “complotto” (è stato introdotto solo un paio di secoli dopo); ma chiarisce subito cosa debba intendersi propriamente per congiura, rifacendosi alla etimologia latina (cum-iurare): è un atto collettivo, basato in genere, come dice il nome stesso, su un giuramento, da non confondersi con l’azione individuale o col tirannicidio classico (“Uno non si può dire che sia congiura, ma è una ferma disposizione nata in uno uomo di ammazzare il principe”). Il suo mini-trattato consente comunque di cogliere le differenze rispetto all’idea di complotto di cui qui mi occupo, differenze che spiegano il perché le origini di quest’ultima debbano essere fatte risalire a tempi a noi più vicini.

Quando discute sugli aspetti tecnici, sulle condizioni necessarie per portare a buon fine una congiura, Machiavelli si sofferma soprattutto sulle difficoltà e sui rischi. Il rischio è legato alla possibilità di tradimento, tanto maggiore quanto più è estesa la rete dei partecipanti al complotto, ma anche all’evenienza che il segreto venga infranto per semplice imprudenza (“De’ fidati se ne potrebbe trovare uno o due; ma come tu ti distendi in molti, è impossibile gli truovi”) o per l’incapacità degli uomini di stare zitti. Quindi, la cosa migliore sarebbe che il progetto eversivo fosse conosciuto solo da pochissimi fidati, per non dare il tempo di essere denunciati e per non lasciare tracce compromettenti delle proprie intenzioni. Regole sacrosante, che comunque secondo Machiavelli non garantiscono la riuscita, tanti sono gli altri fattori imponderabili. “Per esperienza si vede molte essere state le congiure e poche avere avuto buono fine.

Ma come si è passati da una tipologia di congiura che possiamo definire “storica” all’idea di un complotto “sovrastorico”, di portata mondiale? Non è un caso che il termine complotto compaia solo nel XVIII secolo, e in Francia. Senza voler essere troppo sottili, sia che lo si voglia derivato dal latino complicare (avvolgere assieme), o dal francese comble (mucchio di persone), suggerisce non tanto il coinvolgimento spontaneo della congiura, sancito da giuramento e sentito dall’interno, ma piuttosto l’immagine percepita dall’esterno di una ammucchiata tenuta assieme da un progetto, in questo caso eversivo.

In effetti il tentativo di ampliare i perimetri delle congiure prende avvio nel Settecento, con gli Illuminati di Baviera e con Babeuf, per diventare poi norma nel XIX, con le varie carbonerie, le società mazziniane e altre conventicole più o meno segrete. Naturalmente i rischi paventati da Machiavelli si rivelano reali, perché nessuna di queste congiure ha esito positivo. A dispetto di ciò, contestualmente ai complotti crescono anche i complottisti. Un capostipite può essere indicato nell’abate Augustin Barruel , che scrisse i Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme, una sorta di Bibbia nel settore, che fa nascere la Rivoluzione Francese da una cospirazione massonica e illuministica, la quale a sua volta avrebbe dato origine al giacobinismo. Tra gli scopi, oltre a quelli di abbattere la monarchia e di soffocare il cristianesimo, Barruel identifica l’obiettivo più ampio nel sovvertimento dell’intero ordine sociale (la “cospirazione anarchica”). Con Barruel viaggiamo ancora nel campo dei complotti reali, che l’abate documenta con dovizie di prove e collegamenti: ma al tempo stesso comincia a delinearsi il quadro di un sovra-complotto che sta alle spalle ed è il mandante di tutti gli altri. Stiamo entrando nel complottismo moderno.

Un secolo dopo la transizione è praticamente conclusa. Agli inizi del Novecento l’esoterista Rudolf Steiner denuncia l’esistenza di un complotto per controllare la politica mondiale e ne identifica i tratti e i protagonisti principali. Ad operare sono confraternite occulte, di matrice anglo-americana, che vogliono imporre una sorta di imperialismo economico planetario, attraverso il quale arrivare poi al predominio culturale e spirituale sull’umanità. È un vero regno del male, che per attuare le proprie strategie ricorre anche a pratiche esoteriche e stregonesche, ed è in grado di scatenare eventi come la prima guerra mondiale e la rivoluzione russa. Come si vede, Icke non inventa nulla, introduce solo i lucertoloni. Il dato più significativo è però che dalla constatazione di complotti volti alla conquista del potere si è passati alla supposizione di un complotto per la sua conservazione e il suo consolidamento. Vedremo dopo come mai ciò avviene.

Quindi, mentre quando parlava di congiure Machiavelli si riferiva a piani che avevano obiettivi immediati e ristretti e che dovevano essere elaborati nella massima segretezza, queste due condizioni sono disattese dal “complottismo” attuale. Questo perché:

  1. non esistono “i complotti”, ma “un unico complotto”, gigantesco e globale, che ha per scopo non il rovesciamento o la conquista del potere (a complottare sono quelli che il potere già lo detengono) ma l’asservimento totale dell’umanità.
  2. Non c’è nulla di meno segreto e invisibile di questo complotto, visto che tutti ne parlano. Per Icke ad esempio esiste una matrioska di organizzazioni segrete, ma al tempo stesso sono conosciuti a tutti i loro componenti, il loro modus operandi, i loro scopi. Io stesso mi sono sentito rispondere da un conoscente, cui avevo chiesto dove avesse trovato le prove del complotto pandemico: “Basta cercare su Internet!”
  3. C’è poi il fatto che Machiavelli, avendo in mente soprattutto le vicende fiorentine, non pensava che dalle congiure potesse nascere un nuovo ordine politico, ma piuttosto una sempre maggiore disgregazione sociale e una costante instabilità. Mentre i complottisti ritengono che l’operazione di dominio e asservimento sia finalizzata a creare un nuovo modello sociale (anche se è piuttosto difficile capire quale)
  4. Coloro stessi che sono coinvolti nella grande congiura sembrano fare nulla per dissimulare le loro intenzioni. Ci troveremmo quindi di fronte ad una operazione di altro tipo, che per le sue stesse dimensioni non può fare conto sulla segretezza, ma sulla digeribilità, o quantomeno sulla ineluttabilità, del disegno che si prefigge. Manca l’elemento della sorpresa, sostituito invece da quello dell’assuefazione.

Il complottismo oggi in voga ha dunque ben poco a che vedere con i complotti tradizionali, anche se la sua narrazione si serve ancora di formule archetipiche, di modelli radicatisi nella cultura popolare attraverso la tradizione mitologica e quella religiosa. Ciò che denuncia è qualcosa di assolutamente inedito. È un disegno incredibilmente articolato e pervasivo, mirante ad assicurare il controllo totale ad una ristretta élite. E la novità della denuncia non è solo nel ricorso a scenari resi immaginabili solo dalla fantascienza, ma nella velocità e nell’ampiezza del contagio su scala planetaria, e nella assoluta impossibilità di contrastarne la diffusione attraverso il richiamo alla razionalità. Il “fatalismo” rassegnato col quale veniva accettato un tempo qualsiasi accadimento, fosse di carattere naturale o di origine umana (e la ribellione contro il quale è in sostanza il motore della nostra storia), non ha lasciato il posto come auspicavano gli illuministi ad una coscienza razionale, e quindi alla rivendicazione di diritti e di spiegazioni sensate, ma ad una indiscriminata ricerca di colpevoli. Di fronte a più possibilità di spiegazione, il complottista moderno sceglierà sempre e comunque, indipendentemente dalla verosimiglianza e dalla verificabilità, quella che gli consenta di identificare un responsabile.

Ricapitolando. I complotti esistono, sono sempre esistiti ed esisteranno in futuro. Ma quello di cui i complottisti oggi parlano è in realtà un’altra cosa, frutto di una psicosi collettiva, che porta a legare assieme avvenimenti, pratiche e situazioni che non hanno tra loro alcun legame: oppure ad attribuire a una precisa volontà e a un “disegno perversamente intelligente” ciò che accade spesso al di fuori di qualsiasi intenzionalità o piano preordinato.

Cerco di andare un po’ più nel dettaglio.

Chi guida il “grande complotto mondiale”?

Nei complotti tradizionali il responsabile veniva immancabilmente scoperto: in caso di riuscita, subito dopo il passaggio all’azione, in caso di fallimento, poco prima. Erano più persone, in genere non molte, che avevano agito, o cercavano di agire, con un piano comune e con uno scopo ben preciso (di solito, rovesciare un potere esistente e sostituirsi ad esso).

La caratteristica del “grande complotto mondiale” è invece una sorta di “spersonalizzazione” dei suoi autori, a dispetto del fatto che si faccia largo uso di nomi e cognomi. Intanto, perché coinvolge un numero enorme di congiurati, che partecipano a titolo diverso, senza neppure conoscersi tra loro, uniti sostanzialmente solo dallo stesso fine: ragion per cui è difficile distinguere gli uni dagli altri (tanto più poi se le loro immagini fisiche sono solo travestimenti dei rettiliani).

In secondo luogo perché il sospetto si allarga a intere classi politiche, categorie economiche, etnie, ecc. Investe cioè quelle che sono genericamente indicate come le élites. Nella fantasia complottista i banchieri, gli ebrei, le burocrazie delle istituzioni sovranazionali, come quelle europee, recitano la parte che un tempo era riservata ai Templari, agli Assassini o ai rosacrociani, con la differenza che quelli erano gruppi misteriosi ma circoscritti, mentre quello delle élites è un contenitore aperto, nel quale si può ficcare di volta in volta chiunque sia sospetto di esercitare un qualche potere.

In terzo luogo perché nelle teorie complottiste vengono ricondotti a responsabilità personali, o di gruppo, anche degli eventi di natura oggettiva. La responsabilità può essere attribuita direttamente, come nel caso di crisi economiche o vicende belliche, o ricadere per vie indirette, come in occasione di disastri naturali. Ad esempio, di fronte ad un terremoto, il meno prevedibile dei fenomeni, può riguardare le mancate allerte, o l’assenza di politiche preventive (edilizia antisismica), o i ritardi nei soccorsi: tutte cose di per sé reali, legate a inadeguatezza degli apparati, a corruzione dei sistemi di controllo, al menefreghismo istituzionale, quindi a responsabilità effettive e specifiche: che qui vengono però lette nel quadro di un superiore disegno di destabilizzazione sociale. Allo stesso modo l’inquinamento, sia quello atmosferico che quello di superfice, non viene spiegato dai complottisti con l’incapacità politica prestare attenzione al problema, di coglierne la gravità e, meno che mai, di risolverlo, ma come il prodotto di una precisa volontà di crearlo. Il risultato per il pianeta è lo stesso, ma la possibilità di affrontarlo seriamente cambia parecchio.

In questo modo infatti le responsabilità di qualsiasi catastrofe, anche laddove ce ne siano, vengono de-personalizzate, allontanate fino a farle svanire in una nebbia diffusa, e attribuite a forze e ad attori non definiti ma accreditati comunque di un enorme potere.

Nella versione moderna, quindi, a complottare è l’“establishment”, quello che nella immagine tradizionale doveva invece difendersi dai complotti. L’inversione dei ruoli avviene perché stavolta l’attacco non è portato all’Ordine storico, quello che appunto ha espresso le élites di potere, ma ad un supposto Ordine naturale, che comprende tutto ciò che attiene alla dimensione dei valori: la natura, la tradizione, la patria, la biologia, la morale comunitaria, la religione ecc.

Come agisce?

Le strategie attribuite ai complottanti coprono tutto l’intero spettro delle stupidaggini possibili, e non è il caso di spenderci troppo tempo. Mi limito quindi ad accennare alle più diffuse.

Da sempre la forma più subdola e più vile di attacco è considerata il veneficio. Nella letteratura sulle congiure gli avvelenamenti occupano un posto di primo piano: e d’altro canto, ne sono caduti realmente vittime re e imperatori (da Claudio a Commodo, ad Alboino, ecc.), una lunga serie di papi (l’ultimo sarebbe Giovanni Paolo I), traditori e trafficanti (da Pisciotta a Sindona), e persino artisti come Mozart. E questi sono solo pochi esempi di una consuetudine cospiratoria diffusissima.

Quelli che mandano in fibrillazione i complottisti sono però gli avvelenamenti collettivi, e nella fattispecie le congiure batteriologiche. Anche qui c’è solo da scegliere, perché è un plot classico, che si presenta magari meno frequentemente nella realtà ma nell’immaginario disturbato incontra invece un grande successo. A fare da protagoniste sono due tipi di minaccia: quella relativa all’avvelenamento vero e proprio, che di norma avviene attraverso le acque (le campagne francesi insorsero nel 1789 anche per la convinzione che gli aristocratici e i cittadini tramassero per avvelenare i contadini; ma anche oggi una buona percentuale degli americani crede che il governo aggiunga fluoruro all’acqua potabile per scopi “sinistri”), e quella di una offensiva batteriologica (imputata agli ebrei ai tempi della Peste Nera e poi ribadita a più riprese; attribuita agli “untori” nel seicento, ai cinesi oggi, ecc…)

Per i complottisti odierni però l’obiettivo non sarebbe, come imputato agli ebrei nel Trecento, la strage per vendetta, e la motivazione la pura malignità. Quando non si arriva a negarne l’esistenza (vedi, di seguito, Agamben & co), le pandemie sono considerate un’arma creata in laboratorio per medicalizzare l’umanità e renderla sempre più dipendente dal sistema. Questo valeva ieri per l’AIDS e vale tanto più oggi per il Covid. I vaccini e in genere tutti farmaci di contrasto sarebbero in questo progetto uno strumento di ricatto per ottenere il consenso ad una limitazione progressiva delle libertà fondamentali. Secondo una versione meno sofisticata del complotto, a gestire il tutto sarebbe invece l’industria farmaceutica, che dalle situazioni pandemiche ricava utili immensi e trae un enorme potere di condizionamento. Secondo poi quella più fantasiosa, si arriva anche oltre: i vaccini, e quindi tutta la faccenda che ad essi ha portato non sono che il tramite per l’inoculazione di microchips che garantiranno (a chi? ma a Bill Gates, naturalmente) il totale controllo sugli umani.

Non fossero sufficienti le pandemie, il complotto si sta portando avanti nel lavoro attraverso le “scie chimiche”, quelle irrorate nei cieli per contaminare la popolazione e favorire una manipolazione biologica. Per intanto, la manipolazione viaggia già a gonfie vele per altro tramite, attraverso l’immissione nella dieta alimentare di organismi geneticamente modificati. Insomma, da qualsiasi parte ci si giri, i lupi cattivi ci braccano.

Com’è allora che solo pochi (!) se ne rendono conto? Perché l’avvelenamento riguarda, prima ancora che i corpi, i cervelli. Passa attraverso le false credenze, che non sono solo le informazioni manipolate, la disinformazione sistematica (gli esempi più clamorosi della quale riguarderebbero l’attacco organizzato dall’interno alle Torri Gemelle, lo sbarco simulato sulla luna, il silenzio delle autorità sui contatti con gli Ufo, ecc…), ma le attese create da un battage quotidiano che induce la coazione al consumo, l’idolatria del denaro, la sudditanza al Capitale, l’etica unica della produttività.

L’aspetto più paradossale di questa fiera della stupidità è che testimonia di un disagio reale, e non solo di quello mentale (che pure esiste, eccome!): ma tale disagio, anziché essere affrontato con l’impegno a informarsi veramente, ad andare alle cause reali, a responsabilizzarsi singolarmente di fronte a ciò che si avverte o si scopre, viene affrontato scegliendo la via più semplice, quella che scarica nell’immediato e sul vicino ciò che ha cause remote. O peggio, si arriva a rifiutare, in nome di una demenziale coerenza con lo stereotipo complottista adottato, l’esistenza degli unici complotti genocidi storicamente comprovati. Col risultato che nel caso più documentato che esista, quello del progetto di sterminio degli ebrei, gli stessi creatori di congiure sono tra i primi negazionisti.

E a cosa mira?

Ma come mai l’establishment, che è sempre stato dalla parte opposta della barricata, si prende oggi la briga di sovvertire l’ordine esistente? Le motivazioni che gli sono imputate dai complottisti possono essere riassunte in tre livelli di obiettivo, da leggersi in ordine crescente di complessità: per soddisfare una sete insensata di ricchezza, per assicurarsi un dominio totale e definitivo sulle risorse del mondo, per attuare una trasformazione anche biologica del genere umano, al fine di renderlo completamente soggetto. Sembra di rivedere i tre livelli di consapevolezza degli scopi nei quali erano organizzati i Fidadelfi di Filippo Buonarroti.

Evidenziare l’obiettivo di primo livello non è difficile: è immediatamente visibile per chiunque, complottista o no. L’allargarsi della forbice della ricchezza è un dato oggettivo, perfettamente coerente con la logica del sistema capitalistico: e su questa c’è poco da indagare, la conosciamo sin troppo bene, e andrebbe semmai combattuta sulla base di questa evidenza. Il complottismo la legge invece piuttosto come una manifestazione di egoismi individuali sfrenati, e ciò da un lato consente di dare un nome e un volto ai congiurati, ma dall’altro riduce tutto il problema a uno scontro tra chi ha e chi no, per cui i volti e i nomi diventano intercambiabili, perdono senso e servono solo a catalizzare un risentimento astioso e semplificatorio, a offrire un bersaglio di facciata immediato. Suppone, tra l’altro, che all’interno delle élites non vi siano rivalità o tradimenti, che qualora ci siano si tratti solo di recite ad uso delle masse, e che tutti agiscano in realtà di concerto per lo scopo comune, che a questo punto non può essere che l’impoverimento progressivo della grande maggioranza degli umani.

Questa semplificazione legittima l’idea che il problema sia costituito dalla malvagità di poche persone accomunate da un patto infame, anziché da un modello produttivo e da uno stile di vita che ci coinvolgono tutti come protagonisti, e non semplicemente come vittime. E offre a ciascuno un alibi per non assumersi responsabilità rispetto all’esistente e per non sentirsi tenuto a vere scelte alternative rispetto al futuro.

Il “disvelamento” del primo obiettivo è quello che consente al complottismo un reclutamento di massa: l’idea che è sottesa alla denuncia, quella di una redistribuzione della ricchezza, sorride a tutti, almeno fino a quando i termini di confronto sono solo coloro che possiedono di più. Ma chi ha sviluppato una qualche “coscienza” politica, gli attivisti o i semplici simpatizzanti di movimenti di dissidenza (disobbedienti, eco-integralisti, animalisti, naturisti, ecc…) lo considera solo un primo passo per accedere al secondo livello di consapevolezza, quello relativo al piano sciagurato di sfruttamento e “snaturamento” del globo. Anche in questo caso le evidenze a supporto di un presunto progetto “globale” non mancano, è sufficiente volerle interpretare come tali. Deforestazione, inquinamento, cementificazione, pervicace insistenza sulle energie non rinnovabili, sono tutti attacchi alla natura che possono essere ascritti ad un difetto intrinseco al sistema, ad una tecnologia che si è autonomizzata, ad un modello produttivo che si è avvitato su se stesso in una costante coazione alla crescita: ma questo tipo di consapevolezza mette ancora una volta di fronte alla necessità di operare scelte individuali e collettive drastiche. Se invece leggiamo tutti questi fenomeni come facenti parte di un piano diabolico, ecco che portando allo scoperto i suoi esecutori si ha in tasca una soluzione che ci assolve da ogni responsabilità.

Chi svelerà il complotto?

Lo sguardo d’assieme sul terzo livello appartiene invece necessariamente a coloro che dispongono di conoscenze superiori. Che possono essere di due tipi. Da un lato stanno i profeti come Icke, che sostiene di aver ricevuto attraverso una medium la rivelazione di essere un guaritore mandato a sanare la Terra abusata dallo sfruttamento (da notare che Icke per un certo periodo è stato il portavoce ufficiale del partito britannico dei Verdi), che tutto il mondo è controllato da un governo segreto, finanziato naturalmente dai Rothschild e dai Rockefeller, e che l’attività dei cospiratori è volta a manipolare geneticamente e psicologicamente l’umanità. Negli anni più recenti, incoraggiati dal suo successo e dalla capacità pervasiva dei nuovissimi media, i suoi cloni si sono naturalmente moltiplicati, introducendo nel complotto ogni possibile variante esoterica, dal Sacro Graal all’Albero della Vita. E hanno anche iniziato a farsi concorrenza, accusandosi reciprocamente di essere dei falsi messia al servizio del complotto, per cui la cosa sta scadendo persino sotto il livello della farsa. Esemplare è il percorso di Michael Tsarion: nei suoi scritti, tra Olarchia versus Gerarchia e l’origine del nome Davide – che fa derivare da DiViDers, Coloro che separano – inserisce Il Dominio degli Psicopatici (un caso di resipiscienza?). Oggi è tacciato di essere uno dei fondatori del Nuovo Ordine Mondiale.

Dall’altro lato (ed è qui che volevo arrivare) troviamo uno stuolo di fiancheggiatori del fenomeno, che magari hanno qualche dubbio sui rettiliani, ma senz’altro non sono meno convinti della cospirazione globale. Sono gli esponenti del complottismo “colto”, reclutati in quella fascia dell’intellighentjia che persegue come propria missione (e in genere come lasciapassare per una maggiore visibilità) il rifiuto radicale della “modernità”, con tutti i suoi portati, dalla tecnologia alla democrazia rappresentativa. Naturalmente, trattandosi di intellettuali, denunciano il complotto prendendo le distanze dagli aspetti più grotteschi del complottismo, fingendo di prenderle anche dalle tentazioni antisemite, gettando lì il seme del dubbio e ritraendosi davanti alle sue conseguenze. Lo stile è questo: “Il Grande Complotto, si può esserne (quasi) certi, non esiste; non c’è alcuna Tavola (né rotonda, né di altre forme geometriche) attorno alla quale seggano Superiori Sconosciuti. Ma disegni e programmi formulati per seguire interessi particolari di lobbies e di corporations da personaggi e da gruppi che contano al di fuori e al di sopra della legalità interna e internazionale: questi sì, ce ne sono parecchi; per quanto si cerchi in tutti i modi al livello di mass media di non farne trapelare esistenza ed attività”. Nel caso specifico a scrivere è Franco Cardini, ma il modello è diffuso. Se scrivo: “[…] non esiste, si può esserne (quasi) certi […]” è come dicessi: “non ci metterei la mano sul fuoco”. E se aggiungo poi “disegni e programmi per seguire interessi particolari”, sull’esistenza dei quali nessuno certamente ha dubbi, tramati però da «[…] personaggi e gruppi che contano al di fuori e al di sopra, ecc… e dei quali “non trapela l’esistenza”», chi “vuol capire” non ha bisogno d’altro.

Oppure si può essere ancora più espliciti (sempre Cardini, parlando del governo degli Stati Uniti): “Di quale potere sovrano esso è rappresentante, di quale sovrana volontà esso è l’esecutore, al di là delle forme giuridiche preposte a legittimarlo? È sua la detenzione del potere imperiale? Oppure dietro ad esso come dietro ad altre forze, attualmente in presenza nel mondo, si cela un impero invisibile che in realtà è irresponsabile – nel senso etimologico del termine: che cioè non è responsabile, non deve rispondere delle sue azioni perché nessuno è in grado di chiamarlo a risponderne – dinanzi ai suoi sudditi, che neppure sanno (o, almeno, non con chiarezza) di esser tali?”. Non parla di rettiliani, ma dei loro avatar terrestri si.

Il dubbio sull’esistenza del grande complotto scompare del tutto quando, come fa ad esempio Giorgio Agamben, si riesce ad andare oltre la cortina di fumo della informazione asservita al potere e si leggono correttamente le trame. Intanto: “Chi ha familiarità con le ricerche degli storici, sa bene come le vicende che essi ricostruiscono e raccontano sono necessariamente il frutto di piani e azioni molto spesso concertati da individui, gruppi e fazioni che perseguono con ogni mezzo i loro scopi”. E direi che fin qui ci arriva anche chi ha una familiarità con gli studi storici inferiore alla sua. Ma è dopo che la cosa si fa interessante: «Per quel che riguarda la pandemia, non è certo giunta inaspettata. l’Organizzazione Mondiale della Sanità già nel 2005, in occasione dell’influenza aviaria, aveva suggerito uno scenario come quello presente, proponendolo ai governi come un modo di assicurarsi l’incondizionato sostegno dei cittadini. Bill Gates, che è il principale finanziatore di quell’organizzazione, ha fatto in più occasioni conoscere le sue idee sui rischi di una pandemia, che, nelle sue previsioni, avrebbe provocato milioni di morti e contro la quale occorreva prepararsi. Così nel 2019, il centro americano Johns-Hopkins, in una ricerca finanziata dalla Bill and Melinda Gates Foundation, ha organizzato un esercizio di simulazione della pandemia di coronavirus, chiamata “Evento 201”, riunendo esperti ed epidemiologi, per preparare una risposta coordinata in caso di comparsa di un nuovo virus». Chiunque direbbe: Caspita! Ci avevano avvertiti. Agamben invece vede più lontano: lo scenario suggerito era un’occasione offerta (da Bill Gates, guarda caso) ai governi per assicurarsi il sostegno incondizionato, la rinuncia ad ogni libertà, da parte dei cittadini. Il complottismo colto non è necessariamente anche intelligente, e non soprattutto non spreca il suo tempo a leggere un libro come Spillover, nel quale un giornalista non filosofo spiega per filo e per segno la terribile ma chiarissima meccanica delle moderne pandemie.

Al contrario, quella svelata dal complottismo colto è una consapevole strategia, l’uso strumentale della sicurezza sanitaria per imporre (in maniera soft) una illegale e disumana limitazione delle libertà personali e corporali. Si spiega allora perché le pandemie vengano “inventate”, o addirittura create ad hoc. Quando la posta in gioco è il controllo “totale”, ogni mezzo è buono.

I Maestri del sospetto

A monte e a supporto di queste rivelazioni c’è tutto un filone di pensiero, anzi, i filoni sono più di uno, riconducibili comunque essenzialmente a due nomi: Michel Foucault e Carl Schmitt. Quelli che Agamben tiene a far sapere di aver letto. Il primo per il concetto di “biopolitica”, il secondo per quello dello “stato di eccezione”. I due stanno apparentemente agli antipodi: in realtà sono complementari, l’uno è lo specchio rovesciato dell’altro. Provo a sintetizzare i concetti principali di cui sono portatori.

Per Foucault è avvenuto nel XIX secolo un cambiamento fondamentale nella fenomenologia e nell’esercizio del potere. In precedenza il potere “sovrano”, da chiunque fosse esercitato, si fondava sulla facoltà di dare la morte. A partire dalla nascita del capitalismo il suo ruolo si è invece rapidamente trasformato, e oggi si fonda sulla capacità di garantire la vita, ovvero la salute dei corpi: non certo per ragioni “umanitarie”, semplicemente perché quei corpi sono funzionali alla produttività e lo sono soltanto se sani e docili. Per poter esercitare questa funzione il potere è quindi intervenuto in maniera sempre più invasiva nel privato dei corpi, imponendo obblighi (ad esempio le vaccinazioni, a partire da quella contro il vaiolo) e divieti (ad esempio, quello del fumo). Nel contempo:

  • ha creato organismi di inquadramento (esercito e scuole) e strutture di contenimento (ospedali, manicomi, luoghi di detenzione, campi di concentramento);
  • ha istituito forme di protezione: sistemi di previdenza, assicurazioni, pensioni. Il moderno welfare nascerebbe al solo scopo di creare sempre maggiore dipendenza;
  • ha favorito il sotterraneo filtrare di una visione diversa del corpo, attraverso l’igienismo, la cura di sé, i modelli proposti da mode, media e pubblicità. Ciò che induce anche una disposizione sempre più forte verso l’eugenetica;
  • ha creato nuove scienze come la sociologia e la psicologia, funzionali a definire la norma, e strumenti come la demografia e la statistica, per individuare i parametri ottimali;
  • ha sostituito l’imposizione delle leggi con l’adeguamento più o meno forzato alle norme, definendo un concetto di normalità, e di conseguenza di patologia e devianza;
  • ha infine spostato l’accento sul concetto di popolazione come corpo compatto governato da leggi precise. Questo significa che anche il “potere di morte”, (che non è affatto scomparso, anche se appare meno arbitrario), viene esercitato non più in nome e in difesa di un sovrano che è tale per diritto di sangue, ma in nome di un “corpo compatto” collettivo, che è la nazione. Nelle guerre moderne si è mandati a morire per garantire la vita.

In sostanza, per Foucault la società contemporanea è guidata da un governo che è “razionale”, nel senso che promette il massimo benessere per tutti (tanto da includere il diritto alla felicità nelle costituzioni. Beninteso, per tutti coloro che rientrano nei parametri della norma), ma è anche più dispotico del vecchio dispotismo assoluto, perché maschera il suo potere dietro la razionalità: vuole obbedienza, ma un’obbedienza convinta della bontà di quanto è richiesto. Opporre resistenza a un potere di questo tipo è quasi impossibile: si sottrae allo scontro e agisce in maniera avvolgente. Se segui le sue indicazioni, puoi godere delle sue garanzie. In caso contrario, sei fuori.

Quanto a Schmitt, ha provveduto ad anticipare la visione paventata da Foucault, proponendola però in una accezione positiva, inquadrata negli schemi del diritto. Ha cioè definito l’armamentario giuridico che avrebbe dovuto supportare la trasformazione politica e sociale. Definendo lo Stato come “un’istanza assoluta secolarizzata”, Schmitt teorizzava il modello politico verso il quale l’occidente si stava avviando nella prima metà del secolo scorso (ovvero quello fascista e nazista). A distanza di un secolo dalla formulazione schmittiana, e a seguito della sconfitta dei totalitarismi di varia matrice ad est e ad ovest, nonché della rapida obsolescenza dello Stato-nazione, questo modello sta prendendo oggi le sembianze di un sovra-stato, di un governo unico mondiale, nel quale, a livello globale, sotto le etichette di liberaldemocrazia o di socialdemocrazia si realizzano l’uguaglianza formale e l’uniformità sostanziale. Questa uniformità si ottiene attraverso l’esclusione o l’annientamento di qualsiasi elemento estraneo. Se ai tempi di Schmitt questi elementi erano identificabili su base etnica, politica o razziale, e venivano fisicamente liquidati senza tante storie, oggi i criteri di identificazione e le modalità della eliminazione sono cambiati, si basano sulla definizione di “normalità” e di attività/passività e sulle forme automatiche di inclusione/esclusione che ne conseguono. Ma lo schema rimane lo stesso.

L’aspetto più interessante della formulazione di Schmitt è che molto realisticamente fa rilevare come la normalità, nei rapporti politici e sociali, non sia l’ordine, ma l’assenza di ordine. Ovvero, se la politica è il tentativo di conciliare l’ideale e il reale, questo tentativo non riesce mai compiutamente. Qualcosa interviene sempre a rompere gli equilibri, si danno continue contingenze che frantumano l’ordine e di fronte ad esse quest’ultimo si rivela impotente. Si crea cioè quello che Schmitt definisce lo “stato di eccezione”. È necessario allora che intervenga qualcosa (Schmitt lo chiama: “un ponte”) in grado di unire idealità e realtà. Il ponte è un’azione che risolve la crisi e ricrea l’ordine, non attraverso una composizione razionale, ma sortendo dal nulla: questa azione è la decisione, e la decisione comporta l’esistenza di un forte potere decisionale. A sua volta però la decisione non contiene al suo interno un saldo fondamento, un’idea stabile: per cui la situazione di crisi è destinata a ripetersi. Lo stato di eccezione diventa quindi la normalità.

L’odierno ritorno di fiamma per Schmitt è pieno di ambiguità. Sembra che riferirsi a lui sia ormai d’obbligo, tanto a destra come a sinistra. Ma l’impressione è che venga praticato più che altro per saccheggiarne immagini-concetto dal forte impatto semantico. E quella dello “stato d’eccezione” è senz’altro la più abusata, perché si presta perfettamente a definire una politica che gioca sulle costanti emergenze. In pratica, poi, si fa di Schmitt l’uso che Foscolo faceva del Machiavelli: “quel grande,/ che temprando lo scettro a’ regnatori,/gli allor ne sfronda, ed alle genti svela/di che lacrime grondi e di che sangue”. Sarebbe colui che ha meglio messo in chiaro, senza i bavagli del moralmente corretto, quali siano i reali meccanismi e i prevedibili esiti dell’azione politica del potere nel mondo contemporaneo. Che lo abbia fatta per dare loro legittimità sembra aver perso ogni importanza.

De rebus iuxta mea principia (ovvero: Come la penso io)

Allora. Dovrebbe esserci materia sufficiente per tirare un po’ di fila. Che non significa in realtà dare risposte, ma cercare almeno di mettere a fuoco quello che c’è davvero dietro le domande.

Premetto con molta presunzione che al quadro disegnato da Foucault ero arrivato anch’io, già diversi anni fa, molto prima di conoscere “La volontà di sapere” o “Sorvegliare e punire”. Non si tratta di millantare precocità o acutezze particolari, penso che lo stesso percorso abbiano fatto molti altri prima di me, era sufficiente aver letto Orwell e Huxley e persino Bradbury, e magari anche qualcosa della scuola di Francoforte. Voglio semplicemente dire che tale processo è abbastanza visibile, se appena si ha la volontà di analizzare la storia, anziché di rimuoverla.

Mentre scrivevo queste pagine ho fatto scorrere mentalmente il film della domesticazione dell’umanità. Proiettato ad una velocità accelerata permette di vedere comparire prima e serrarsi poi l’enorme rete di contenimento che la storia le ha steso sopra. E di scorgere sullo sfondo, dietro guerre e imperi e rivoluzioni che durano lo spazio di pochi fotogrammi, un percorso sempre più riconoscibile. Questo percorso racconta la dissoluzione degli antichi legami con la terra, a partire dai naturalisti ionici, ma prima ancora, dagli estensori della versione originale della Bibbia: lo scioglimento progressivo dei vincoli con i gruppi primitivi di appartenenza, la tribù, il clan, testimoniato già dai tragici greci; e il processo di atomizzazione sociale innescato moltissimi anni fa con la famiglia mononucleare, proseguito con la disgregazione della comunità agli inizi dell’età moderna, portato avanti in quella contemporanea sino alla banalizzazione degli ultimi valori superstiti (le “amicizie” sui social, ad esempio, le famiglie falsamente allargate, ecc…).

Tutte queste cose mi hanno affollato il cervello, ma in una sequenza abbastanza chiara e facilmente interpretabile. Mi sono reso conto che la frase di Matteo: “Chiunque ha lasciato case o fratelli o sorelle o padre o madre o moglie o figli o campi per il mio nome, riceverà il centuplo ed erediterà la vita eterna” (19, 29) non era destinata ai discepoli, o a coloro che avrebbero scelto di sacrificare tutto alla loro realizzazione spirituale. È il messaggio che ha continuato ad essere ripetuto nel mondo occidentale, e trasmesso poi da questo anche agli altri mondi, per secoli, variamente declinato e travestito, ma sempre quello: la salvezza, il senso, li trovate altrove: possono essere di volta in volta la patria, il progresso, la scienza, il partito, la rivoluzione. Lasciate ogni cosa e affidatevi a me. Abbracciate un Ordine che supplirà a tutto ciò che avete lasciato alle spalle, per darvi le cure materiali (salute, sopravvivenza economica) o morali (sicurezza, appartenenze, amicizie, sentimenti) di cui avete bisogno. Tutto in offerta speciale.

C’è differenza tra questa immagine e quella dipinta da Foucault (e condivisa da Cardini e da Agamben)? Quanto al soggetto, a quel che si vede, direi proprio di no. Ciò che sta accadendo, che è accaduto, è esattamente quanto raccontato anche da loro. Salvo il fatto che io parlo di cose che “accadono”, loro di cose che “vengono fatte accadere”. La differenza è in quel che non si vede. E che vorrei spiegare meglio.

  • Come premettevo, il percorso di “domesticazione” totalizzante dell’umanità sul quale i complottisti pretendono di aver alzato il velo, smascherando chissà quali trame, è in realtà manifesto da quel dì, e non erano necessarie le rivelazioni dei medium o dei Maestri per prenderne coscienza. La novità sta piuttosto nell’idea che sia stato consapevolmente guidato da un gruppo ristretto di potere: nella convinzione cioè che un processo storico di tale portata possa essere in qualche modo tenuto sotto controllo dalla volontà umana. È la secolarizzazione di quello che un tempo era considerato un attributo della volontà divina.
    Eppure, di questo percorso sono state date, prima ancora che diventasse una corsa all’accelerazione perenne, e che intraprendesse una direzione senza ritorno, delle letture estremamente lucide (da Vico, per citarne uno), senza tirare in ballo alcun complotto o alcun disegno. Il problema è che tali letture rimandavano a scelte, se così possiamo definire quelle che in realtà sono state le condizioni e le conseguenze della speciazione umane, talmente remote da non poter più essere rimesse in discussione (sempre che ciò fosse originariamente possibile, ripeto. È stata una scelta il passaggio all’agricoltura e alla stanzialità?): e quindi ponevano il problema di governare quello che Schmitt definisce un costante “stato di emergenza”.
    Lo stato di emergenza non è proprio della modernità, è proprio della nostra specie, è già testimoniato dall’accensione del primo fuoco e dalla scheggiatura della prima pietra, e risulta oggi solo più visibile perché di una emergenza esponenzialmente accelerata si tratta. Non siamo usciti dall’Eden tre o quattro secoli fa, ma quando siamo scesi dagli alberi. Ci siamo difesi dalla natura con la tecnica, ad un certo punto abbiamo trasformato un’arma di difesa in un’arma d’attacco, oggi non siamo più in grado di tenerla sotto controllo, quella che era una protesi si è autonomizzata, può addirittura fare a meno del supporto e si autoalimenta. Questa la storia. Il fatto poi che qualcuno riesca ad inserirsi in questo processo, a lucrarci sopra, non significa che lo stia governando, che ne detti i ritmi e la direzione. Al più cavalca le onde, non le suscita. In questo film siamo tutti attori, e si può esserne protagonisti in maniere diverse, o magari recitare solo da comparse: ma nessuno ha in mano la regia.
    Ipotizzare una rete occulta per spiegare quello che sta succedendo, scovare dei responsabili per qualcosa che nasce dalla nostra natura di organismi inadatti, e che le è intrinseco, vuol dire avere la memoria corta, e non porta ad alcuna comprensione, meno che mai a una qualsivoglia soluzione.
  • Questo significa che possiamo fare nulla per evitarci il destino di futuri lemming? No, significa che possiamo farci poco, ma anche che quel poco dovremmo farlo nella maniera più intelligente possibile: non raccontandoci favole con orchi e streghe cattive, ma sfruttando in positivo il dono prometeico della tecnica, che purtroppo ha anche un risvolto pericolosamente tossico. Anche la radice di manioca è tossica, eppure sbucciata e cotta costituisce la maggior risorsa alimentare per gran parte delle popolazioni del terzo mondo. La natura ci ha dato quella risorsa, ma non lo stomaco adatto a digerirla. La cultura la rende assimilabile. Che si fa? Si rinuncia? Per nutrirci poi di cosa?
    Fuor di metafora, il dibattito sul complottismo non fa che riportare in primo piano l’annoso problema della “razionalizzazione” del mondo e della nostra sopravvivenza in un ambiente che a quanto pare non ci contemplava (siamo “la specie inaspettata”). Torna il tema della “separazione”, che ricorre in tutte le mitologie ed è ripreso anche della filosofia (a partire almeno da Platone). In questo racconto in origine c’è l’Eden, c’è un ordine naturale che la comparsa della nostra specie viene a sconvolgere. C’è l’armonico equilibrio della natura, e ci siamo noi che lo violiamo introducendo la conflittuale disarmonia della storia.
    Ora, si tratta di stabilire se da quel paradiso siamo usciti o ne siamo stati cacciati (e prima ancora, che tipo di paradiso fosse quello: a quanto sembra, per i nostri progenitori più lontani non era esattamente un luogo di delizie: ma forse quelli di cui abbiamo traccia ne erano già fuori). Nel primo caso, la nostra cultura è il frutto di un naturale adattamento di sopravvivenza: nel secondo, è la mela avvelenata che una volontà maligna ci ha fatto assaggiare. Nel primo caso, dobbiamo prendere atto del presente (e quindi anche dei suoi guasti) per garantirci un futuro: nel secondo dobbiamo tornare al passato per rimediare all’errore commesso. Non fosse che la volontà maligna è ancora lì, vigile, e complotta per non consentirci di sanare la frattura.
    Quanto infatti allo “stato di eccezione” di cui parla Schmitt, ciò che i complottisti “colti” imputano ai poteri forti è di avere appreso sin troppo bene la lezione schmittiana e di averne fatto uno strumento per poter tenere più agevolmente sotto costante ricatto l’umanità intera. E il caso della pandemia ne sarebbe solo l’esempio ultimo e più eclatante. Ora, io credo che ciò che non viene inteso sia che noi viviamo realmente in un costante stato di eccezione, che la velocità e l’entità stessa delle trasformazioni in atto lo impone, e ne fa davvero la normalità. Che è quindi un difetto di sistema, non uno stratagemma di guida.

  • Tutto questo per dire che dietro il complottismo c’è il rifiuto della storia (salvo poi inventarne una tagliata su misura – l’invenzione della tradizione – per poter recriminare sulla sua scomparsa). E non parlo di una storia “necessaria”, di hegeliana memoria, di uno Spirito assoluto che si manifesta contestualmente alla propria realizzazione: parlo di quella storia il cui senso ci sfugge, perché forse non ne ha, che procede incurante delle grandezze e delle miserie umane e macina tutte assieme speranze e illusioni, che di tutte queste cose si nutre e ne fa la somma algebrica, ma poi la compara a quanto la natura (e di questa natura fa parte anche quella “umana”, in qualsiasi modo la si voglia intendere) e il caso ci concedono.
    Ho infatti sempre pensato che in tutti i possibili disegni intervenga pesantemente lo zampino del caso. In controtendenza rispetto alle mode attuali, sono rimasto un estimatore di Guicciardini: “Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infirmitá, di caso, di violenzia ed in modi infiniti, è sottoposta la vita dell’uomo; quante cose bisogna concorrino nello anno a volere che la ricolta sia buona; non è cosa di che io mi maravigli piú, che vedere uno uomo vecchio, uno anno fertile”. (Ricordi, 161)
    Il che non significa che siamo totalmente nelle mani di un Fato, comunque lo voglia intendere, o appunto del caso, ma che è già molto difficile tenere le fila di una singola esistenza o di un progetto apparentemente semplice come la coltivazione di un campo: figuriamoci quelle del mondo intero. Soprattutto considerando che in un’ottica naturalistica noi siamo degli intrusi: un prodotto venuto male.
    Nel pensiero dei complottisti vedo invece una grave presunzione antropocentrica, come se gli uomini potessero dirigere anche tutto ciò che è loro esterno, tutto ciò che attiene alla natura. Io sono solidale con Leopardi e Camus. La natura non ci ama, non perché sia matrigna, ma perché se anche pensasse, se anche avesse un disegno, noi saremmo solo una impercettibile macchiolina sul margine del foglio.
  • Dubito inoltre, e continuo a farlo a dispetto della bioingegneria e delle possibilità che sembra aprire, che sia controllabile anche la natura interna dell’uomo, la cosiddetta “natura umana”. La riflessione post-moderna si avvoltola nel paradosso per cui da un lato rivendica una libertà individuale illimitata e dall’altro considera poi invece gli uomini come se rispondessero ad un modello unico. Le differenze tra le varie confessioni del post-modernismo si basano solo sul considerare la “natura umana” positiva o negativa, più plastica o meno, ma pur sempre supponendo che esista e che sia la stessa per tutti. Cosa che non è, o almeno è vera solo in parte, perché il processo culturale ha scombinato i meccanismi evolutivi. Tutti gli animali possono essere più o meno intelligenti: solo gli umani possono essere stupidi.
    In tal senso, il ritornello populista (ma lo sento ripetere in continuazione anche da Cacciari) per cui “la gente non è stupida” è una solenne stupidaggine. Ed è anche contradditorio: postula che sia in atto una manipolazione delle coscienze a livello globale, operata da un gruppo ristretto di furbi a spese di una massa di allocchi, ma dice che gli allocchi non sono tali, perché capiscono benissimo che li stanno fregando. Ora, io credo invece che oggi più che mai sia verificata la legge enunciata da Carlo Maria Cipolla, per cui sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione (si pensi alle decine e decine di milioni di americani – metà della popolazione – che hanno votato Trump e che domani sarebbero pronti probabilmente a votare Icke). Ma se è giusto il parametro identificativo annesso, per cui Una persona stupida è quella che causa un danno a un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita, non è nemmeno necessario spostarsi oltreoceano. È sufficiente uscire di casa e vedere come sono ridotti muri e marciapiedi delle nostre città.
    Cipolla aveva già preventivamente e indirettamente risposto ad Agamben: la vera lobby, più potente delle maggiori organizzazioni criminali o dei più influenti gruppi finanziari o cartelli industriali, che agisce senza alcuna organizzazione ma è sempre straordinariamente coordinata ed efficace, è quella degli idioti: e lo fa senza bisogno di celarsi dietro il segreto, alla luce del sole. La “gente” è stupida. Che poi lo sia perché con l’accelerazione impressa dalla modernità ha perso il contatto, non tiene il passo ed è indotta quindi a comportamenti apparentemente difensivi di rifiuto, di sospetto ecc.. è un altro discorso. Il dato di fatto è che dietro il rifiuto e il sospetto, quando si manifestano nei termini di un complottismo generalizzato, c’è ignoranza, c’è pigrizia mentale, c’è presunzione, e troppo spesso c’è anche un’arrogante malafede.
  • Tutti i complottisti, e tutto il sottobosco post-modernista, populista e new age nel quale fioriscono, sembrano vagheggiare il ritorno ad un mitico “mondo di prima” (anche se non si capisce bene a “prima quando”, quanto indietro occorrerebbe tornare). Avendo avuto la ventura di conoscere, almeno per un certo periodo della mia esistenza, quel mondo (a differenza di coloro che lo rimpiangono), so quanto la coercizione morale fosse presente anche in quel tipo di società, e come una “norma” fosse già in essa ben presente. Sono anche cosciente delle differenze, di quanto la presenza del potere fosse meno pervasiva e condizionante: ma ciò non toglie che il condizionamento, attraverso altre forme, fosse pesante. È possibile che io sia inconsciamente condizionato molto più di mio nonno: di certo però, fossi nato anch’io nel 1890, difficilmente avrei scritto queste cose. Ho potuto fare scelte che a lui non sarebbero state consentite, ma che soprattutto non sarebbe nemmeno arrivato ad affrontare, o a concepire.
    Qualcosa da eccepire ho anche sulla profezia di Foucault, secondo la quale le categorie escluse dalla “normalità” sono destinate ad una brutta fine. Vedi gli omosessuali, i “disturbati”, ecc. Per affermarlo si basa sul fatto che sono stati pensati nel corso degli ultimi tre secoli luoghi di concentramento e di esclusione per tali categorie, ma soprattutto che sono state formulate teorie razziste (il razzismo biologico), che offrono uno strumento alla biopolitica. Certamente, il razzismo non solo esclude di fatto una parte della popolazione, ma crea per estensione un timore di contagio, la paura che la parte “legittima” possa essere infettata dalla non-normalità. E di qui all’eugenetica il passo è breve.
    Sul fatto però che il razzismo biologico sia una “creazione” rientrante nel grande complotto della modernità, ho molti dubbi. Riesco a spiegarlo benissimo come un espediente per giustificare la schiavitù, da un lato, e come una reazione molto “naturale” al fatto che in un mondo globalizzato le varie etnie si incontrano e si mescolano sempre più, dall’altro. E anche altri aspetti di questa deriva sembrano essere smentiti: non mi pare ad esempio che il processo di esclusione si sia intensificato nei confronti dell’omosessualità. Direi piuttosto il contrario. A meno che nel suo riconoscimento sociale non si voglia vedere un’altra astuzia della congiura della ragione, mirante a risolvere il problema della sovrappopolazione.
  • Il problema è proprio questo: siamo davvero troppi, in rapporto al pianeta che ci ospita. C’è un dato (peraltro controverso) proposto dal biologo Edward O. Wilson, per cui la massa degli umani sarebbe un decimo di quella delle formiche: mentre il peso, inteso come sfruttamento delle risorse, che esercitano sulla terra è comunque migliaia di volte superiore. Ciò accade perché siamo padroni della tecnica, ma la tecnica è a sua volta ciò che ci definisce come umani. E che oggi, dopo averci consentito di crescere e moltiplicarci, rende una gran parte di noi obsoleti. Quindi siamo in esubero, sia come prodotti naturali che come prodotti culturali.
    Possiamo anche credere di essere chiamati a scegliere una via d’uscita, se vogliamo pensare che ancora esista: ma di fatto la scelta è già imposta. E non dai poteri forti, ma dalla natura stessa. Piuttosto, questa scelta può essere fatta in maniera ordinata, anche se non indolore, con le mascherine e i sedativi che il sistema sarà in grado di procurare ed imporre, oppure lasciando libero campo ai virus e alle pandemie, che arrivano da soli, non hanno bisogno di essere creati e diffusi artificialmente. E laddove non bastasse, potranno supplire i conflitti, quelli politici e quelli sociali, che si profilano già minacciosi (guerre per l’acqua, migrazioni, ecc…)

Certo, di fronte a tutto questo l’idea di un grande complotto appare comunque consolatoria. Se tutto accade perché qualcuno trama, è sufficiente smascherarne e impedirne le trame perché il problema sia risolto. Ma se a tramare sono tutti, per non raccontarsi la verità, allora nemmeno vale la pena risolverlo.

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Acufeni?

di Paolo Repetto, 25 novembre 2020

L’acufene non è una malattia, è un sintomo, come la febbre:
aspecifico. Può essere generato da diverse situazioni.
http://www.fondazioneveronesi.it

I domiciliari da Covid hanno almeno un lato positivo, che non è quello ottimisticamente pronosticato da molti all’inizio di tutta la faccenda, la favola delle ritrovate gioie del focolare domestico e del rinnovato rapporto tra genitori e figli o tra i coniugi (mai viste tante violenze tra le mura di casa come in questo periodo). No, sta molto più semplicemente nella forzata possibilità di perdere ogni tanto qualche ora in vagabondaggi nelle nebbie del web, e di misurare uno stato febbrile mentale collettivo che solo in parte è indotto dalla paura ossessiva e maligna ingenerata dal Covid; anzi, quest’ultima lo rende solo più immediatamente visibile.

Quando parlo di lato positivo non intendo quindi piacevole o divertente (oggi al “positivo” si associano ben altri significati); al contrario, è una esplorazione angosciante, ma che ci costringe quanto meno a prendere atto di una realtà che a dispetto del suo manifestarsi principalmente sul web è tutt’altro che virtuale. Non c’è alcuna scoperta, non rivelo niente di nuovo: è una realtà che tutti bene o male già conosciamo, e che all’occasione non manchiamo di deprecare. Ma poi la rimuoviamo immediatamente, con un moto di fastidio più che di preoccupazione, come fosse qualcosa che in fondo riguarda solo gli altri, per tanti che questi altri siano. È lo stesso atteggiamento, per intenderci, che manteniamo nei confronti dell’inquinamento ambientale: assistiamo alla crescita esponenziale del degrado, mutazioni climatiche repentine, ghiacciai che si sciolgono, acque che si acidificano o si plastificano, regioni enormi che si desertificano, come fossimo in trance, pensando tra noi e noi “non sono comunque io quello che può fare qualcosa”.

Ora, credo che fare il punto ogni tanto su questi fenomeni, che sono tra l’altro intimamente connessi, possa servire se non altro a scuoterci per un attimo dalla nostra apatia, a liquidare gli alibi che ci costruiamo e a metterci di fronte alle nostre singole responsabilità. Ciascuno potrà poi decidere se mutare qualcosa del suo comportamento, e nel caso, se farlo individualmente o cercare di agire in concerto con altri: ma se anche non deciderà nulla, non potrà almeno trincerarsi, davanti allo sguardo smarrito delle generazioni future, ma prima ancora di fronte a se stesso, dietro la scusante del “non sapevo, non mi rendevo conto”.

Dunque, parlavo di “febbre mentale”. Era un eufemismo, naturalmente. Quello di cui vado a scrivere è né più né meno che idiozia, cretinismo, stupidità, scegliete voi il termine. Ne ho già trattato ampiamente altrove (cfr. ad esempio Il mondo nelle mani degli stolti), direi addirittura che non ho fatto altro, ma sempre in termini molto generali, teorici, oppure stigmatizzando fenomeni singoli, quasi in forma di un divertissement preoccupato ma in fondo distaccato. Vorrei invece scendere un po’ più in profondità, perché anche il cretinismo, malgrado questo sembri un ossimoro, ha una sua ancestrale profondità, ha delle radici non solo sociali ma anche biologiche, e non va preso sottogamba, come un fenomeno di risulta, un effetto collaterale e solo un po’ fastidioso dell’evoluzione.  

Tra i collaboratori a questo sito c’è per fortuna chi ha conoscenze specifiche ben più ampie delle mie, e in futuri interventi proverà a spiegare in termini scientifici le origini e le motivazioni di questo tipo di comportamento.

Io per ora mi limito invece a produrre alcune pezze documentali ben precise, che ho pescato qua e là nel web. Le riporto seguendo un ordine “verticale” di rilevanza apparentemente decrescente, che induce un altro ordine “orizzontale” di collocazione, come si diceva una volta, da destra a sinistra. Posso garantire che sono frutto tutte della stessa escursione. Il percorso lungo il quale le ho attinte non era affatto preordinato, ma non può nemmeno essere considerato del tutto casuale: cercavo altro, ma se mi sono imbattuto in queste perle è appunto perché non c’è ambito al quale il cretinismo non si sia prepotentemente affacciato.

Sono notizie, ahimé, per nulla divertenti, che parlano di un istupidimento dilagante, trionfante, pericolosissimo, che andrà a toccare e già sta toccando le nostre vite in misura ben maggiore di quanto questa umana degenerazione abbia mai storicamente fatto. Sono il primo ad ammettere (e a scrivere) che da sempre, da Adamo in poi, sono state profetizzate da parte di ogni generazione sventure e apocalissi per quelle a venire: ma è pur vero che queste ultime nella maggior parte dei casi, almeno per i gruppi direttamente interessati, si sono poi verificate. E oggi però, di fronte ad un cretinismo che dispone di armi ben più potenti e incontra difese cerebrali disattivate dal bombardamento mediatico, il rischio si è davvero allargato a tutta l’umanità. È peraltro assodato che a fronte di questo tipo di contagio non si crea immunità di gregge: si crea solo il gregge.

Propongo queste cose nude e crude, così come le ho lette (citando anche la provenienza). Penso che ogni commento sia superfluo. Le lascio dunque alla vostra (spero sgomenta) riflessione, anche se già so che non potrò trattenermi dal tornarci sopra. Non sarebbe male se per una volta lo facesse anche qualcun altro.

QAnon, la teoria più amata dai complottisti americani
(Julia Carrie Wong, The Guardian, Regno Unito, 28 agosto 2020)

Per Donald Trump sono “persone che amano il nostro paese”. Per l’Fbi è una potenziale minaccia terroristica interna. E per chiunque altro abbia usato Facebook negli ultimi mesi potrebbe essere semplicemente un amico o un familiare che ha mostrato preoccupanti segnali d’interesse per il traffico di bambini messo in piedi da una “congrega” di devoti a satana o per teorie del complotto su Bill Gates e sul covid-19.

QAnon è una teoria del complotto basata sul nulla, cresciuta su internet e diventata popolare negli Stati Uniti ad agosto. Per anni i suoi adepti sono rimasti ai margini delle comunità di destra online, ma negli ultimi mesi – mentre negli Stati Uniti si diffondevano i disordini sociali e l’insicurezza dovuta alla pandemia – hanno trovato molta visibilità […].

Secondo questa teoria il mondo è governato da una congrega di celebrità di Hollywood, miliardari e democratici satanisti. Queste persone avrebbero messo in piedi un traffico di bambini e stanno cercando di allungarsi la vita usando un composto chimico preso dal sangue dei bambini vittime di abusi. I sostenitori di QAnon credono che Donald Trump stia conducendo una battaglia segreta contro questa congrega e i suoi collaboratori dello “stato profondo”, per rendere noti questi malfattori e mandarli tutti nella prigione della base statunitense di Guantanamo, a Cuba. Il presidente (che ha un ruolo fondamentale nella narrazione falsa di QAnon) si è naturalmente rifiutato di prendere le distanze: anzi, ha elogiato i sostenitori di QAnon, definendoli dei patrioti.

Esistono molte trame nella narrazione di QAnon, tutte improbabili e infondate: quella secondo cui John Kennedy, presidente assassinato nel 1963, sia in realtà ancora vivo; un’altra che accusa la famiglia Rothschild di controllare tutte le banche; oppure quella secondo cui i bambini rapiti sono venduti attraverso il sito web del rivenditore di mobili Wayfair (non è vero, ovviamente). Hillary Clinton, Barack Obama, George Soros, Bill Gates, Tom Hanks, Oprah Winfrey, la modella Chrissy Teigen e papa Francesco sono solo alcune delle persone che i sostenitori di QAnon hanno scelto come i cattivi di questa realtà alternativa.

Se tutto questo suona familiare, è perché ne abbiamo già sentito parlare. QAnon ha le sue radici in teorie del complotto esistenti, in altre relativamente nuove, e altre ancora vecchie di un millennio.

L’antecedente più recente è il cosiddetto Pizzagate, la teoria del complotto che si è diffusa durante la campagna presidenziale del 2016, quando siti d’informazione e influencer di destra hanno promosso l’idea infondata che i riferimenti al cibo e a una famosa pizzeria di Washington apparsi nelle email rubate del direttore della campagna di Clinton, John Podesta, fossero in realtà un codice cifrato che si riferiva a un traffico di bambini. Gli attacchi online hanno scatenato violenza reale contro il ristorante e i suoi dipendenti, culminati nel dicembre 2016 in una sparatoria per mano di un uomo convinto che nel locale ci fossero bambini da salvare.

Ma QAnon affonda le sue radici anche in teorie del complotto antisemite molto più antiche. L’idea di una congrega onnipotente che comanda il mondo viene direttamente dal Protocollo dei savi di Sion, un documento falso in cui viene descritto un piano segreto degli ebrei per controllare il mondo, e che è stato usato per tutto il Novecento per giustificare l’antisemitismo. Un’altra affermazione falsa dei seguaci di QAnon – l’idea che i membri della congrega estraggano dal sangue dei bambini l’adrenocromo, un composto chimico, e lo ingeriscano per allungarsi la vita – è una variante moderna di un’idea antisemitica calunniosa e vecchia di secoli relativa al sangue.

(L’articolo prosegue raccontando come è cominciata tutta questa vicenda, come funzionano le piattaforme di diffusione e a chi arrivano: “I più importanti gruppi Facebook dedicati a QAnon avevano circa duecentomila membri prima che la piattaforma li mettesse al bando, a metà agosto. Quando Twitter ha preso provvedimenti simili contro gli account QAnon a luglio, la misura ha colpito circa 150mila account […] In generale QAnon sembra essere popolare soprattutto tra gli elettori repubblicani più anziani e tra i cristiani evangelici.”,

quali strategie usano: “realizzare ‘documentari’ infarciti di disinformazione, prendere il controllo di hashtag popolari online per trasformarli in strumenti per diffondere le teorie QAnon; partecipare a comizi di Trump esibendo cartelli con su scritto Q; candidarsi alle elezioni. Una dimostrazione dell’efficacia di queste tattiche è arrivata quest’estate con la campagna #SaveTheChildren o #SaveOurChildren. Questo hashtag all’apparenza innocuo, usato in passato da ONG che lottano contro la violenza sui bambini, è stato inondato di argomenti dal forte contenuto emotivo da parte di seguaci di QAnon, con riferimenti alla più ampia narrativa del movimento”,

quanta  influenza stanno esercitando: “Media matters for America, associazione che monitora i mezzi d’informazione, ha compilato una lista di 77 candidati a seggi al congresso degli Stati Uniti che hanno dichiarato di sostenere QAnon. Una di loro, Marjorie Taylor Greene della Georgia, ha vinto le primarie repubblicane e a novembre con ogni probabilità entrerà al Congresso.”

Chi è Attila Hildmann, lo chef vegano dietro gli sfregi al museo di Berlino
(da  http://www.scattidigusto.it, 22 ottobre 2020)

Attila Hildmann, 39 anni, già star vegana dei masterchef tedeschi, è il principale indiziato per l’attacco che ha danneggiato 70 opere in tre musei di Berlino. Lo scorso 3 ottobre, qualcuno ha spruzzato una sostanza oleosa su decine di capolavori conservati nei musei. Sono stati macchiati e rovinati per sempre sarcofagi egizi, sculture, immagini di divinità greche e quadri dell’Ottocento.

Ieri, la Bild e altri mezzi d’informazione tedeschi hanno adombrato sospetti proprio su Hildmann, ricostruendo l’incredibile parabola che ha cambiato la vita del cuoco berlinese di origini turche. L’ex telechef è passato dal ruolo di amato vip dei fornelli mediatici, con una seconda carriera ben avviata da autore di bestseller culinari, a essere una bandiera dell’ultradestra.

Da quando preferisce agli show per la tv (anche americana) le piazze, da dove tenta, a suo dire, di aprire gli occhi a tutti i poveri stolti alle prese con l’epidemia globale, lo chef xenofobo, complottista, nonché negazionista del Covid-19, si è trasformato in un propagandista della spazzatura complottista sul Coronavirus. È stato lui a diffondere ai 100 mila follower del suo canale Telegram, il messaggio secondo cui il Pergamon Musem non sarebbe stato chiuso per la pandemia. Il vero motivo sarebbe la presenza all’interno del museo del “Trono di Satana”, essendo di fatto il Pergamom il “centro dei satanisti e dei criminali del Coronavirus”.

Martedì Attila Hildmann ha condiviso un link sui social che rimandava a un articolo sull’attacco ai musei. Il suo commento? “Fatto! È il trono di Baal (Satana)”.

Avevano fatto scalpore nel settembre scorso i messaggi pubblicati dal cuoco vegano ancora una volta sul suo canale Telegram. Protagonista la Cancelliera tedesca Angela Merkel, che in realtà sarebbe ebrea e a capo di “un regime sionista” che all’interno del Pergamom Museum consuma “sacrifici umani”.

Ted Huges, il poeta nella black list della British Library
(da http://www.leggo.it 22 novembre 2020)

Il celebre poeta Ted Hughes è stato aggiunto a un dossier che lo collega alla schiavitù e al colonialismo dalla British Library. Il poeta, nato in una famiglia di umili origini nello Yorkshire, è risultato essere un discendente di Nicholas Ferrar, che era coinvolto nella tratta degli schiavi circa 300 anni prima della nascita di Hughes.

Ferrar, nato nel 1592, e la sua famiglia erano “profondamente coinvolti” con la London Virginia Company, che cercava di stabilire colonie nel Nord America. La ricerca, ha riferito The Telegraph, è stata condotta per trovare prove di “connessioni con la schiavitù, profitti dalla schiavitù o dal colonialismo”.

Hughes è nato nel 1930 nel villaggio di Mytholmroyd nel West Yorkshire, dove suo padre ha lavorato come falegname prima di gestire un’edicola e una tabaccheria. Ha frequentato l’Università di Cambridge con una borsa di studio, e lì ha incontrato la sua futura moglie Sylvia Plath.

Quello di Hughes, che morì nel 1998, non è l’unico nome illustre della letteratura inglese identificato dalla British Library come beneficiario dei proventi della schiavitù attraverso parenti lontani: nella lista ci sono anche Lord Byron, Oscar Wilde e George Orwell. Tra gli intenti dell’istituzione, diventare “attivamente antirazzisti” fornendo un contesto alla memoria di personaggi storici sulla scia del movimento Black Lives Matter.

Ma il tenue legame tra Hughes e Ferrar, al quale è imparentato per parte di madre, ha suscitato l’ira tra gli esperti del grande scrittore. Il suo biografo, Sir Jonathan Bate, ha dichiarato: «È ridicolo incastrare Hughes con un legame con la tratta degli schiavi. E non è un modo utile per pensare agli scrittori. Perché diavolo giudichi la qualità del lavoro di un artista sulla base di antenati lontani?». Bate ha aggiunto che Ferrar era meglio conosciuto come sacerdote e studioso che ha fondato la comunità religiosa Little Gidding.

Il poeta romantico Lord Byron è stato aggiunto a questa lista perché il suo bisnonno era un commerciante che possedeva una tenuta a Grenada. Suo zio, attraverso il matrimonio, possedeva anche una piantagione a St Kitts.

Oscar Wilde è stato incluso a causa dell’interesse di suo zio per la tratta degli schiavi, anche se la ricerca ha rilevato che non c’erano prove che l’acclamato scrittore irlandese abbia ereditato alcun denaro attraverso la pratica.

George Orwell, che era nato Eric Blair in India, aveva un bisnonno che era un ricco proprietario di schiavi in Giamaica. Ma la Orwell Society ha specificato che il denaro era già scomparso tempo prima che Orwell nascesse.

Cosa ha detto J.K. Rowling sulle persone transgender e le donne
(www.ilpost.it 11 giugno 2020)

Mercoledì sera J.K. Rowling, notissima autrice dei libri su Harry Potter, ha pubblicato un lungo post sul suo sito per rispondere alle critiche e alle accuse di transfobia ricevute dopo alcuni suoi recenti commenti sull’identità di genere e su quello che lei definisce il “nuovo attivismo trans”, e per spiegare perché si è espressa pubblicamente su questi temi.

«Non mi piegherò di fronte a un movimento che ritengo stia facendo danni dimostrabili nel tentativo di erodere il concetto di “donna” come classe politica e biologica, offrendo protezione ai molestatori come pochi nella storia».

Ha inoltre rivelato di aver subito violenze domestiche e abusi sessuali durante il suo primo matrimonio, citando questa esperienza – insieme al suo passato di insegnante e alla sua convinzione dell’importanza della libertà di parola – come una delle ragioni a sostegno delle sue idee rispetto all’identità di genere e ai diritti delle persone trans.

Negli ultimi anni, Rowling ha più volte espresso opinioni controverse sul concetto di sesso e di identità di genere e sui diritti delle persone trans. Nel suo post ha commentato e cercato di spiegare le volte in cui era successo e ha fatto riferimento più approfonditamente all’episodio più recente, avvenuto lo scorso weekend. Sabato scorso Rowling aveva ironizzato sull’utilizzo dell’espressione “persone che hanno le mestruazioni” nel titolo di un articolo del sito Devex, che usava l’espressione per includere esplicitamente persone trans e non binarie: «Sono sicura che esistesse una parola per queste persone» ha scritto Rowling, «Aiutatemi… Danne? Done? Dumne?».

Il commento implicava una corrispondenza automatica tra le persone che hanno le mestruazioni e le donne: negando così la possibilità che esistano persone che le hanno ma non si identificano come donne (alcuni uomini trans, o persone che non si identificano in alcun genere, ad esempio), e ha generato critiche e discussioni.

Domenica Rowling ha risposto con tre nuovi tweet, affermando di «conoscere e sostenere persone transgender», ma opponendosi a «cancellare il concetto di “sesso”».

Anche questi tweet hanno ricevuto molte critiche e risposte, anche da famosi attori e attrici che avevano lavorato a film tratti dalla sua saga. Lunedì, ad esempio, l’attore Daniel Radcliffe – interprete del personaggio di Harry Potter nella serie di film tratti dai libri di Rowling – ha pubblicato una lettera in cui prendeva le distanze dalle parole di Rowling, evitando di attaccarla personalmente, e in cui esprimeva solidarietà verso le persone transgender e la volontà di “diventare un migliore alleato” (come vengono definite le persone che non appartengono alla comunità LGBTQIA+, ma condividono e sostengono le sue ragioni). Commenti simili sono stati fatti anche dagli attori Eddie Redmayne ed Emma Watson.

L’identità sessuale, oggi, viene definita in base a tre parametri: sesso, genere e orientamento sessuale. Il primo corrisponde al corpo sessuato (maschio-femmina), il secondo al senso di sé (al sentimento di appartenenza, all’identificarsi come uomo o donna a seconda di ciò che il mondo intorno riconosce come proprio dell’uomo e della donna), mentre il terzo riguarda la direzione dei propri desideri (eterosessuali-omosessuali-bisessuali, e altre categorie).

Il sistema sesso-genere-orientamento sessuale (usato oggi in tutto il mondo dalla maggior parte degli psichiatri, degli psicologi, dei sessuologi e dei sistemi giuridici) è però solo una griglia interpretativa e imperfetta della realtà, basata su rigide alternative binarie: la realtà stessa è ben più complessa e ricca di esperienze in cui i tre parametri non sono necessariamente “coerenti” tra loro. Un articolo del National Geographic riporta le esperienze di alcune persone che non rientrano perfettamente nella binarità, alcune dal punto di vista biologico, altre psicologico, più spesso un misto dei due.

La posizione di Rowling rifiuta queste posizioni e si può riassumere come segue: secondo lei esistono due sessi (maschio e femmina), che dipendono da fattori anatomici e fisici (come le mestruazioni); secondo lei, però, l’inclusione nella categoria di “donna” richiesta dalle donne trans rischierebbe di danneggiare le persone biologicamente donne.

(A scanso di equivoci, non sono un fan di Harry Potter, ma alla signora Rowling vanno naturalmente in questo caso tutta la mia stima e la mia solidarietà. Non aveva necessità di tirare in ballo gli abusi per giustificare la sua posizione. Decisamente meno, lo confesso, apprezzo l’opportunismo ipocrita di Daniel Radcliffe.

Mi si potrà inoltre obiettare che la rilevanza, in termini di pericolosità, tra i primi due casi e gli altri due che ho riportato sia molto diversa. Non ne sarei così convinto.)

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