Esuli, infiltrati e vita di bohème

Stefano Oberti e i fuorusciti parigini

di Paolo Repetto, 23 maggio 2025

La memoria crea talvolta connessioni inattese e singolari. Anzi, per la precisione non le crea, ma le scopre, perché erano già lì ad aspettarci nella realtà, in quella storica o in quella naturale. Accende solo la luce. Accade che ci occupiamo di una vicenda, di un ambiente, di un personaggio, e poco a poco esce dall’ombra tutto ciò che sta attorno, si allarga il nostro campo visivo, si schiudono nuove curiosità.

A me è capitato proprio recentemente, mentre scrivevo il pezzo su Andrea Caffi. Fantasticavo come al solito su come sarebbe stato conoscerlo, quando all’improvviso ho realizzato che se Caffi non avrei potuto incontrarlo comunque, non fosse altro per ragioni anagrafiche, ho conosciuto però qualcuno che probabilmente l’aveva incrociato, dal momento che entrambi avevano vissuto come fuorusciti a Parigi negli anni Trenta e avevano frequentato più o meno gli stessi circoli antifascisti. Non ho testimonianze certe di una loro frequentazione diretta, ma le probabilità che ci sia stata mi paiono altissime.

Ora, il motivo che mi ha spinto a scrivere queste righe non è il compiacimento per la possibilità di essere collegato a Caffi da una catena molto corta di relazioni: è invece la curiosità destata dagli sviluppi e dagli esiti diversi di due storie che almeno nella condizione iniziale presentano molte somiglianze. A dimostrazione del fatto che l’ambiente agisce sino a un certo punto, ma è poi l’indole a fare la differenza.

È andata così. Nell’autunno-inverno tra il ‘68 e il ‘69 mi fermai a Genova, dove, oltre a seguire (molto saltuariamente) i corsi universitari e vivere gli ultimi fuochi della contestazione studentesca, avevo trovato un’occupazione part time presso un mobiliere (non in ufficio, camallavo frigoriferi e lavatrici). Alloggiavo in una camera in subaffitto in Castelletto, uno dei quartieri più eleganti della città, scovata da un compagno che aveva un’altra camera nello stesso alloggio. Il costo era irrisorio. Scoprimmo più tardi che potevamo permettercela perché il tizio che ci ospitava non pagava a sua volta l’affitto alla proprietaria.

Il tizio era un signore anziano, alto e corpulento, segnato in viso da diverse cicatrici, simpatico ma decisamente fuori dagli schemi. Si chiamava Stefano Oberti (“dottor” Oberti puntualizzava lui), e vantava un passato interessante. Era infatti stato esule in Francia per più di un decennio, dalla fine degli anni Venti, per sfuggire alla persecuzione dei fascisti. Tra le amicizie che raccontava di avere lì contratto spiccavano quelle col nipote di Nitti e con Rosselli (il futuro Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, lo aveva già conosciuto prima), ma in pratica non era possibile citare qualcuno di quel giro col quale non vantasse confidenza. Sospettavamo che buona parte del suo racconto fossero millanterie, ma al tempo stesso eravamo divertiti dalle stravaganze e dall’assurdità del personaggio. Girava per casa quasi sempre inguainato in un capo unico maglia-mutandoni di lana, di quelli che Terence Hill indossa in Trinità, abbottonato davanti e con lo sportelletto sul fondoschiena, che gli dava una silhouette da orso Yogi. Ad un certo punto ho persino cominciato a invidiargli quella tenuta, perché il riscaldamento era sempre spento.

Oberti seguiva e ci segnalava tutti gli eventi culturali e politici della città, compresi quelli cui non era invitato, ma nei quali riusciva ad infiltrarsi invariabilmente tra gli organizzatori o tra gli ospiti d’onore. Una sera ci chiese di accompagnarlo ad una conferenza alla Terrazza Martini, il luogo più elegante di Genova, in cima ad un grattacielo dal quale si vedeva tutta il golfo. Lo stipammo sulla 500 del mio socio, con l’auto che dalla parte in cui era seduto lui raschiava quasi l’asfalto, e dovemmo anche arrischiare l’ascensore per salire i Trenta piani che portavano alla terrazza. Arrivammo naturalmente a conferenza già iniziata, ma non fu un problema, perché guidati dall’addome perentorio di Oberti ci dirigemmo immediatamente al buffet, imbandito su un lato del salone. Ci fu un mormorio di disapprovazione, che distrasse e irritò anche il conferenziere, ma a quanto pare l’argomento proposto non era granché, perché di lì a breve gli astanti cominciarono ad alzarsi, uno o due alla volta, e a raggiungerci ai tavoli. Avevano visto come noi, e soprattutto Oberti, stavamo spazzolando salatini e beveraggi. Credo sia stata la conferenza più breve di tutta la stagione.

Qualche serata la trascorremmo anche a discorrere di politica col nostro locatore, ma non riuscivamo a cavarne molto, perché lui era impallato con la massoneria e con una statua che avrebbe dovuto essere eretta a Mazzini nel cimitero di Staglieno (dove già peraltro le spoglie del patriota erano raccolte in un mausoleo scavato nella roccia). Ci dettagliava anche sulle annose schermaglie di potere che caratterizzano da sempre gli ambienti massonici, e tanto più quelli di provincia, sui voltafaccia e i tradimenti e su quanto fossero infidi i suoi rivali. Ma l’impegno maggiore era rivolto in quel periodo a raccogliere fondi per il monumento, e a lamentarsi della tirchieria dei genovesi, che a quanto pare non si rivelavano particolarmente entusiasti dell’iniziativa. (All’epoca noi non avevamo dubbi che non se ne sarebbe fatto nulla, ma come vedremo ho dovuto poi ricredermi).

Della sua vita di fuoruscito, oltre ad elencare le conoscenze, non raccontò praticamente nulla: sembrava gli fosse rimasta solo una fortissima ammirazione per le donne francesi (confermata nell’autobiografico Esilio a Parigi, dove almeno tre capitoli sono dedicati alle sue presunte conquiste e alla frequentazione di un postribolo d’alto bordo) e aveva maturato una vera passione per Marie Laforet. Una sera dovemmo scarrozzarlo fino al cinema di una delegazione periferica dove proiettavano Delitto in pieno sole: per tutta la durata del film la Laforet recita in bikini, e in qualche scena anche senza. Ne uscì entusiasta.

Una cosa comunque devo riconoscergliela. Quando gli proposi di assistere assieme a me al Cinema Centrale, la sala più “di sinistra” della Genova dell’epoca, alla proiezione di Ottobre di Eisenstein, mi rispose, anticipando di molto Fantozzi, che non solo era una boiata pazzesca, ma travisava anche rozzamente la verità storica. Non ci misi molto ad arrivare alle stesse conclusioni, ma gli avessi dato ascolto mi sarei risparmiato almeno il penoso dibattito che seguì la proiezione.

Alla fine di marzo purtroppo dovetti lasciare la camera, la campagna aveva bisogno di me. Tornai a Genova solo per dare una manciata di esami a giugno, e non rividi mai più Oberti. Il mio coinquilino mi raccontò poi di altre scorribande in cui era stato coinvolto, ma anche lui l’autunno successivo dovette cambiare sistemazione.

L’impressione che entrambi avevamo maturato era quella di un personaggio simpaticissimo, ma decisamente mitomane e inaffidabile. Infatti mi sorprese, ma non mi meravigliò più di tanto, trovare alla fine degli anni Ottanta il suo nome in capo ad una lista elettorale della Lega Nord. Mi confermò l’immagine di un uomo pronto a cavalcare qualsiasi cavallo, pur di stare in sella, e l’idea che il fuoriuscitismo non raccogliesse soltanto idealisti come Gobetti, Caffi, Chiaromonte, Rosselli e Berneri, ma anche diversi opportunisti e qualche sballato, per tacere del gran numero di infiltrati dalla polizia politica del regime.

Per questo, nel raccontare Caffi mi è tornato immediatamente in mente Oberti. E per questo ho voluto indagare un po’ più a fondo il personaggio, ricavandone una storia sorprendente.

Ciò che ho sin qui raccontato attiene alla mia personalissima memoria. È tutto ciò che posso dire dell’uomo Oberti come io l’ho conosciuto quasi sessant’anni fa, o almeno tutto ciò che mi era parso significativo.

Quanto segue appartiene invece alla Storia, non solo alla sua, ma a quella di un particolare fenomeno in un particolare momento. L’ho desunto confrontando diverse fonti, tutte quelle cui mi è stato possibile attingere, e penso che quanto ne viene fuori si avvicini accettabilmente alla verità dei fatti.

Infine, l’ultima parte di questo scritto ospita delle riflessioni di carattere generale, che niente hanno a che vedere con una valutazione o un giudizio storico. Dalle letture e dalle ricerche che ho fatto sono nate delle impressioni, che non riguardano solo il personaggio Oberti, e che propongo in funzione interlocutoria, sperando che il discorso non si chiuda qui.

****

Stefano Oberti nasce a Genova nel 1903. Il padre, Zaccaria, è un massone, repubblicano convinto e anticlericale, imprenditore di un certo successo ma sin da giovanissimo portato a cacciarsi nei guai per le sue idee politiche libertarie (anche lui sarà costretto, dopo l’avvento del fascismo, ad emigrare in Francia, dove rimarrà poi sino alla morte).

Stefano si distingue invece in gioventù soprattutto per le passioni sportive, il canottaggio e il calcio: quest’ultimo lo fa entrare in contatto con Sandro Pertini, presidente della compagine universitaria genovese. Non tarda però a seguire le orme del padre e ad essere iscritto nella lista nera dalle autorità del nuovo regime. Come studente di legge fonda infatti l’Unione goliardica italiana per la libertà, che osteggia la riforma Gentile, e ad un convegno internazionale delle federazioni universitarie tenutosi a Varsavia, nel 1924, attacca decisamente gli altri esponenti della delegazione italiana, già allineati col fascismo. La sua attività politica si intensifica dopo il delitto Matteotti, sino a che, una notte del gennaio 1925, viene aggredito da un gruppo di squadristi che lo bastonano fino a sfigurargli il volto. Nell’immediato non vuole demordere, ma quando alla fine dell’estate successiva gli è ritirato il passaporto capisce che è venuto il momento di cambiare aria ed emigra clandestinamente in Francia.

«A Parigi arrivai a fine settembre 1925. Ben consigliato sul da farsi, presi alloggio in un albergo del Quartiere Latino […]. Presentai domanda alle Autorità francesi per ottenere asilo politico e m’iscrissi all’ “Alliance Française” per perfezionare il mio francese. La Sûreté Nationale fece le sue indagini e tutto risultò a mio favore. […] Poi andai ad abitare […] sulla riva destra della Senna, oltre Passy, presso una signora francese che ospitava un altro studente straniero. Questa signora aveva due figlie […]. Esse mi furono di grande utilità, insegnandomi come dovevo comportarmi con le famiglie parigine, molto restie a legarsi con gli stranieri. […] A noi italiani, tutto sommato, il trapianto in Francia è stato facilitato dalla presenza di una forte comunità di connazionali e dalla benevolenza del Governo francese. Io avevo amici fedeli […]. Un anno dopo fui raggiunto in esilio da mio padre. […] Facevamo colazione assieme e con noi c’erano italiani come il figlio del presidente Nitti, […], francesi e spie italiane di cui ingoiavo la presenza assieme alla pastasciutta e ai sughi all’italiana che cucinavano per noi

Fa a tempo ad incontrare Gobetti poco prima della morte di quest’ultimo e stringe amicizia con l’avvocato siciliano Teocrito Di Giorgio, personaggio che ricomparirà nella sua vita a più riprese: con la gran parte degli altri esuli, invece, e con le diverse formazioni in cui sono raggruppati, entra quasi subito in conflitto. In un libello sollecitamente pubblicato (Episodi della lotta antifascista) ci va giù particolarmente duro: “Qualche mezza dozzina di persone che pretendono di costituire e monopolizzare il fuoruscitismo ufficiale a Parigi sono un’accozzaglia acefala di esseri privi di senso storico, di coraggio personale molto discutibile, di scarsa volontà e iniziativa e quasi totalmente sprovvisti di quello spirito di indipendenza e di sacrificio richiesto dalla grandiosità della lotta”. Al tempo stesso li accusa di offrire dell’Italia all’estero “l’immagine di un Paese immerso nel terrore da un manipolo di bravi […] ciò che significava divenire ancora una volta lo zimbello dell’Europa”.

I suoi atteggiamenti a volte assurdamente intransigenti, spesso sconcertanti, e comunque sempre confusi e dettati da smania di protagonismo, creano non poco imbarazzo nell’ambiente dei fuorusciti; in qualche occasione però tornano utili e sono sfruttati strumentalmente dalle diverse fazioni dell’antifascismo parigino in funzione delle rivalità che più o meno scopertamente allignano (ad esempio, quella tra i togliattiani e tutte le altre). Di fatto comunque Oberti finisce sempre più isolato, se si escludono tre o quattro “seguaci” che gli si associano per calcolo o per spirito gregario, e di conseguenza diventa sempre più insofferente della sua vita di esule e rancoroso nei confronti dei compagni.

Anche sopravvivere materialmente, in questo isolamento, non è facile, a dispetto delle conoscenze di cui può avvalersi tramite il padre. Per un certo periodo sbarca il lunario grazie al denaro che quest’ultimo gli invia dall’Italia. Quando poi questo viene meno comincia a passare per una serie di occupazioni le più diverse, comunque sempre molto precarie: operaio alla Renault, agente di commercio, corrispondente estero, persino comparsa alla Comédie Française . Non è particolarmente portato per il lavoro, mentre è invece attivissimo nella polemica e nelle iniziative di organizzazione: dà vita a gruppi scissionisti all’interno della Concentrazione antifascista, cerca contatti a destra e a sinistra, pubblica opuscoli come Notre bataille dans les Universités et à l’Etranger, avec versions espagnole et italienne. Fino ai primi anni Trenta continua comunque a ruotare nell’ambito dell’organizzazione, e per qualche tempo è in rapporto anche col gruppo di Giustizia e Libertà.

La situazione internazionale sta però evolvendo. Il governo francese comincia a cercare approcci con il fascismo, che nel frattempo ha ammorbidito i toni e le rivendicazioni. Cresce, di qua e di là delle Alpi, il timore per una possibile salita al potere di Hitler, e vengono opportunamente rispolverate le affinità culturali e i possibili interessi comuni. Anche all’interno del mondo dei fuoriusciti le idee non sono chiare: la maggioranza chiaramente è contraria, ma c’è anche chi vede di buon occhio un riavvicinamento pacifico tra i due paesi.

Di questa posizione si fa immediatamente alfiere Oberti, che su iniziativa personale, senza consultare nessuno, si reca ad esporre direttamente al console italiano di Parigi la concordanza d’intenti del suo sparuto gruppo di seguaci con i due governi in riconciliazione, esprimendosi a nome di tutto l’antifascismo. La notizia si diffonde con la pubblicazione di un’intervista rilasciata al quotidiano La République, e la cosa scatena le ire dei dirigenti in esilio, che si affrettano a sconfessare Oberti e lo espellono dal raggruppamento. Ciò non gli impedirà comunque, nel giugno 1933, in occasione dei funerali di Claudio Treves, di sfilare nella processione silenziosa che segue il feretro, al fianco di Emilio Lussu, di Carlo Rosselli, di Raffaele Rossetti e di Camillo Berneri, e accanto a personalità di spicco della sinistra francese.

Nel frattempo però Oberti ha già intrapreso una nuova strada. È stato chiamato da Alberto Giannini, altro bizzarro e sfuggente personaggio e fuoruscito “pentito”, a collaborare alla rivista satirica Il Merlo. Giannini aveva dovuto rifugiarsi in Francia per aver pesantemente satireggiato col suo giornale Il becco giallo il regime fascista, e ha continuato per un certo periodo a farlo riprendendo la pubblicazione oltralpe e introducendola clandestinamente in Italia: ma ad un certo punto i finanziamenti elargiti dai fuorusciti hanno cominciato ad assottigliarsi ed è venuto meno anche il rapporto di fiducia che lo legava a Carlo Rosselli. Fonda allora una nuova testata, finanziata stavolta dal regime stesso, e finisce sul libro paga dell’OVRA, il servizio segreto mussoliniano. Come racconta Gaetano Salvemini parlando del gruppo dei fuoriusciti a Parigi: “Alberto Giannini era il più faceto della compagnia, finché non passò, nel 1934, dalla sera alla mattina, armi e bagagli, nel campo dei fascisti, il più svergognato caso di voltafaccia che io abbia mai visto”.

Non risulta che anche Oberti sia diventato a pieno titolo un informatore, ma senz’altro non gli par vero scrivere articoli denigratori contro esponenti del gruppo che lo ha cacciato, e più in particolare contro quelli del partito socialista in esilio.

Intanto sta già muovendosi per regolarizzare la propria situazione di emigrato presso il Consolato italiano. Tenuto ormai forzatamente fuori dalla politica, da Parigi si trasferisce a Nancy, e si butta assieme al padre in un tentativo di rientrare nell’imprenditoria, che si rivela fallimentare.

A questo punto non gli rimane che rientrare in Italia, approfittando di una serie di condoni e della prescrizione dei reati per i quali era stato condannato in contumacia (la renitenza alla leva e l’espatrio clandestino). Decide per questa soluzione alla fine del 1938, e se la cava a buon mercato, con soli due mesi di effettiva reclusione. Nel maggio del 1940, all’entrata in guerra dell’Italia, è nuovamente un uomo libero.

Nei primi anni del conflitto Oberti risiede a Milano, dove, a quanto lui stesso afferma, svolge un’attività di intermediazione industriale (della quale peraltro non si ha alcun riscontro). L’occasione di tornare alla ribalta gliela offrono paradossalmente la caduta di Mussolini e la successiva nascita della repubblica sociale italiana nel settembre del 1943. Agli inizi dell’anno successivo rivolge al ministro della Cultura Popolare del regime collaborazionista una serie di richieste dal tono perentorio, com’è nel suo stile, proponendosi come custode dell’autentica tradizione mazziniana contro l’opera di oscuramento e di travisamento compiuta dalla monarchia sabauda. È assecondato in questo tentativo delirante da vecchi compari anch’essi ex transfughi, come l’avvocato Di Giorgio, e addirittura da ex acerrimi nemici, come Gian Gaetano Cabella, fascista della prima ora, direttore de Il popolo di Alessandria (una delle più feroci gazzette dei fasci repubblichini), specializzato in falsi (nel 1948 sarà arrestato per aver pubblicato un falso testamento di Mussolini: ma pubblicherà anche un romanzo, Dieci anni a Parigi, ispirato probabilmente proprio alle vicende di Oberti).

Per quanto confuse e velleitarie le sue richieste (il trasferimento di tutto l’archivio mazziniano da Genova in Alessandria, per sottrarlo al pericolo di bombardamenti, e l’apertura di un Istituto di Studi Mazziniani in quest’ultima città, con lui e i suoi sodali naturalmente a dirigerlo) sono in linea con il tentativo del nuovo regime di prendere le distanze dalla monarchia e di dare una legittimità e una continuità storica alla repubblica pescando nel Risorgimento, e trovano udienza. Insomma, si ripete la storia, anche se cambiano gli interlocutori, che ora sono le autorità repubblichine: Oberti è percepito chiaramente anche da queste ultime come uno spostato (nelle informative dell’OVRA sul suo periodo parigino era definito il “ragazzo semipazzo”), tanto più che ormai va a briglia sciolta e affastella un mare di proposte farneticanti per pubblicazioni (una storia d’Italia illustrata per ragazzi), per cerimonie ufficiali celebrative e rievocative (l’inaugurazione di una lapide alla cittadella di Alessandria, dove era stato imprigionato Andrea Vochieri, con tanto di divi del cinema fascista che officiano in costume), per lavori teatrali, sempre su tematiche patriottiche (una storia d’Italia raccontata per quadri scenici). Eppure alle sue stravaganti iniziative si interessano, e le appoggiano e le finanziano, persino un paio di ministri di Salò, oltre alle autorità locali (anch’esse evidentemente in gran confusione). Questo mentre nei dintorni di Genova e di Alessandria il grande rastrellamento nazifascista di primavera porta alla strage della Benedicta e all’arresto e alla deportazione di centinaia di giovani.

Tanto fervore si spegne però nell’estate del ‘44, dopo che un bombardamento su Alessandria ha coinvolto anche la sede del neonato istituto mazziniano. Oberti si eclissa. Di cosa combini da quel momento non ho trovato notizia negli archivi, ma è certo che non collabora con le bande partigiane genovesi, come invece lui stesso sostiene. Riesce poi evidentemente ad attraversare indenne il periodo post-liberazione, così che nel giro di qualche anno torna sulla scena.

Sul dopoguerra e su come la sfanga nei quaranta e passa anni successivi, a parte la breve parentesi di “convivenza” di cui ho raccontato, so soltanto quel che ho potuto trovare spulciando qualche periodico e qualche quotidiano. Frammenti che sono comunque indicativi e mi confermano quel che già all’epoca avevo intuito del personaggio.

Naturalmente Oberti è sempre in rotta con qualcuno. Dal periodico Il pensiero mazziniano (Anno VI, N. 6, 10 Giugno 1951) veniamo a sapere che “A proposito del comunicato inserito nel numero scorso in cronaca da Genova, ove è citato il dott. Stefano Oberti, questi ci scrive per contestare che l’espulsione sua dalla Sezione di Genova dell’A.M.I. (Associazione Mazziniana Italiana) sia stata allargata all’indegnità morale, oltre a quella politica)”. Sarei curioso di sapere a cosa alludeva l’indegnità morale, ma avendo potuto apprezzare da vicino la sua disinvoltura economica l’allargamento dell’accusa non mi stupisce affatto.

Quindici anni dopo la stessa fonte ci fa capire però che il nostro è stato riaccolto, tanto che «Il 7 settembre, a Parigi, l’amico Stefano Oberti di Genova ha deposto sulla tomba di Piero Gobetti un fascio di garofani rossi di Liguria: sui nastri tricolori era la scritta: “A Piero Gobetti e ai duemila combattenti antifascisti morti in esilio”. Si sono voluti ricordare, nel ventennale della Repubblica, quanti all’estero, a fianco dei repubblicani spagnoli e dei resistenti francesi, si sacrificarono per la libertà» (Il pensiero mazziniano, Anno XXI, N. 8-9, 25 settembre 1966. L’iniziativa è commentata anche su La Stampa dell’8 settembre 1966, pag. 7: Commemorati gli esuli italiani morti in Francia durante il fascismo.)

Sempre La Stampa, nella sua edizione serale (Stampa Sera, 20 luglio 1970, pag. 2: Roma deve darci le spoglie di Mameli), qualche anno dopo ci informa che Oberti ha chiesto il trasferimento della salma di Mameli da Roma al Pantheon di tutti gli esuli invitti dell’umanità costruito a Staglieno. E lo ha fatto in qualità di presidente del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio difensori della libertà dei popoli.

Nella stessa veste l’ho trovato menzionato in GRECIA (mensile di informazione della resistenza greca, Anno II, N. 10-11, ottobre 1970, Nel Pantheon degli esuli) in occasione dell’autoimmolazione dello studente Costas Georgakis. «Il nome di Costantino Georgakis è stato inciso nel Pantheon di tutti gli esuli invitti dell’Umanità al Cimitero di Staglieno. La decisione stata comunicata dal presidente del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio difensori della libertà dei popoli, dott. Stefano Oberti, alla fidanzata di Kostas, con una lettera inviata alla Casa dello Studente. Nella lettera tra l’altro, si legge: “Oggi, dopo avér attraversato quasi mezzo secolo di cedimenti e conosciuto tanti traditori, testimonio che Costas Georgakis fu un eroe, perché volle sacrificare soltanto se stesso, sottraendo ogni altra persona a lui cara agli aguzzini di oggi, di domani e di sempre. Lenito il Suo dolore, Ella ritroverà la pace dei giusti; quella che Costas Georgakis ha certamente ritrovata, morendo in esilio senza compromessi con coloro che umiliano oggi la patria di Eschilo, di Socrate e di Platone, ponendola al servizio dell’imperialismo straniero. Se può esserLe di un piccolo conforto, sappia prima di ogni altro, che, per decisione del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio combattendo per la libertà dei popoli, il nome di Costas Georgakis sarà inciso nel Panthéon di tutti gli ‘esuli invitti dell’Umanità, nel cimitero monumentale di Staglieno in Genova, accanto a quello del drammaturgo greco Eschilo, del poeta inglese George Byron e del patriota interalleato italiano Santorre Annibale di Santarosa, morti per la libertà della Grecia”».

È sempre lui. L’enfasi retorica, gli accostamenti peregrini e l’autocelebrazione recriminatoria sono tipicamente suoi. E a quanto pare è anche riuscito a realizzare, nel 1970, il Panthéon di tutti gli esuli invitti dell’Umanità. Segno che qualcuno ha continuato a dargli fiducia. Tanto da riproporlo, dopo quasi altri vent’anni, come capolista in una competizione elettorale.

Contavo di trovare qualche ulteriore notizia nello scritto autobiografico Esilio a Parigi, redatto quando Oberti aveva ormai superato l’ottantina, ma tutto ciò che ne ho ricavato è l’accenno del prefatore a un eccezionale impegno del nostro per la causa del divorzio. Per il resto è una somma piuttosto confusa di ricordi, tra i quali primeggiano quelli dei sughi e delle pastasciutte, o di avventure galanti piuttosto improbabili. Unica notazione interessante: ha lavorato alle officine Renault quasi contemporaneamente a Simone Weil, ma ne ha tratto un’impressione ben più positiva. In compenso, ci ha resistito ancor meno. C’era da aspettarselo.

****

Non mi sono soffermato così a lungo su questa vicenda per il suo intreccio con la mia aneddotica personale, o per quella malintesa voglia di un protagonismo tutto di riflesso che sembra essere diventata l’unica modalità di autorealizzazione (l’io c’ero, o l’io l’ho conosciuto, i selfie al funerale del papa o sui luoghi di un incidente o di un delitto, ecc.). L’ho raccontata, come dicevo sopra, perché mi sembra aprire ad alcune considerazioni di carattere più generale.

Il tema immediato cui mi rimanda è quello della memoria, e più specificamente quello della “memoria condivisa”. La memoria non coincide con la Storia (intesa etimologicamente, come narrazione dei fatti), anche se ne è uno strumento indispensabile. È una lettura della Storia alla luce di esperienze personali o collettive, vissute o tramandate, comunque sempre parziali, vuoi nei contenuti, vuoi nel punto di vista. Anche la Storia non ci racconta la verità, sappiamo che generalmente la scrivono i vincitori, ma il suo carattere di “disciplina” impone confronti e riscontri che dovrebbero, col tempo, farci approssimare almeno a grandi linee a quanto è veramente accaduto. Insomma, la Storia ci dovrebbe informare di quanto è successo, la memoria ci dice come è stato vissuto quel che è successo.

Ciò rende decisamente improbabile pensare di arrivare un giorno ad una “memoria condivisa”, mentre avrebbe un senso puntare a scrivere una “Storia” il più possibile condivisa. Quanto alla prima, è più probabile che si arrivi ad una sua perdita, che già incombe con la scomparsa degli ultimi protagonisti o degli ultimi depositari dei loro racconti. Per cui, anziché condivisa credo diverrà una memoria confusa, una nebbia entro la quale tutti i gatti saranno grigi e all’interno della quale ciascuno potrà pescare ciò che più gli conviene, e farsene bandiera (come accade oggi, ma come è accaduto anche per tutta la seconda metà del Novecento).

Il problema dunque sta a monte, proprio nel fatto che si insiste sulla memoria, che per forza di cose è partigiana, e non ci si sforza di ricostruire un po’ più fedelmente la storia. Il che vale allo stesso modo per tutte le parti in causa, ivi compresa la sinistra, così che gli argomenti che potrebbero risultare più scabrosi, che andrebbero ad intaccare alcuni miti sui quali si sono costruite le narrazioni e le rivendicazioni politiche dei diversi schieramenti, vengono accuratamente evitati.

Quanto detto sopra è perfettamente applicabile alla storia del fuoriuscitismo italiano. Dopo il libro di Aldo Garosci (Storia dei fuorusciti, Laterza, 1953) scritto settant’anni fa da uno storico più che serio e onesto, ma coinvolto direttamente nella vicenda e uscitone da pochissimi anni, sembra che a nessuno importi di riprenderla, nemmeno infedelmente. Il libro non è mai più stato ristampato, è rarissimo ed è un miracolo se te lo lasciano consultare nelle biblioteche, sempre che lo si trovi. Non a caso, l’argomento trova poco o zero spazio nei programmi di divulgazione storica che vanno per la maggiore in tivù, i vari Barbero e Cazzullo, ma anche Mieli, Augias and co. Non mi è mai capitato, ad esempio, di sentir rievocare il maggio barcellonese del ‘36 e l’uccisione di Berneri. C’è un tabù che ostacola la ricostruzione “critica” dell’opposizione al fascismo: del tipo, gioca coi fanti, ma lascia stare i santi.

Il risultato di non fare mai seriamente i conti col proprio passato, con la propria storia, è quello di lasciare aperta la strada alla rilettura, naturalmente altrettanto poco obiettiva, che ne daranno gli avversari. La motivazione sottintesa (anche quando in realtà ne esistono altre meno nobili) è che non si vogliono concedere armi alla polemica revisionista: ma il non dire tutta la verità, il coprire le macchie confidando che il tempo le cancelli, non è solo fuorviante, è altresì il miglior regalo che si possa fare a quest’ultima. Perché allunga l’ombra del dubbio anche su ciò che è ormai assodato e incontestabile. È accaduto con i vari punti oscuri della Resistenza stessa, con lo stalinismo togliattiano, persino con il Sessantotto. E tanto più questo vale per ciò di cui mi sto oggi occupando. Sono trascorsi novant’anni, ma sembra non ci sia stato verso di imparare la lezione.

Lo dimostra anche un altro fatto. Alla vicenda dei fuorusciti in Francia la nostra letteratura non ha prestato la minima attenzione. Ci sono alcuni libri di memorie, anche notevoli, alcuni diari, qualche saggio, ma non c’è un’opera letteraria che abbia offerto, ai giovani e ai meno giovani, l’opportunità di incuriosirsi per questa pagina di storia. A vent’anni avevo già letto le descrizioni degli espatriati (volontari) americani, da Hemingway a Miller, o di quelli (forzati) russi come Herzen, o alcune cose di Benjamin, ma non avrei potuto trovare alcun italiano che raccontasse queste cose. E temo che chi ne avrebbe avuto magari le capacità si sia astenuto per timore (fondato, stante l’egemonia che per tutta la seconda metà del secolo la sinistra, ortodossa e non, ha esercitato sulla cultura storica) di apparire sacrilego e di essere immediatamente colpito dall’ostracismo.

Prima di proseguire penso dunque mi convenga ricordare sinteticamente in quale reale scenario si sono svolte le vicende che ho scelto di raccontare (quella di Caffi e quella di Oberti, ma già ne avevo parlato nella storia di Berneri): non credo sia molto conosciuto.

Dopo l’avvento del fascismo (ma anche prima del ‘22) ha inizio la diaspora degli attivisti e degli intellettuali di sinistra presi di mira dal regime, spesso aggrediti anche fisicamente e comunque impediti a svolgere qualsiasi attività, non solo quella politica. La migrazione verso la Francia procede a ondate, aumenta dopo il delitto Matteotti e conosce un ulteriore incremento dopo che nel 1926 vengono emanate le leggi speciali. A metà degli anni Trenta gli aderenti ai movimenti politici antifascisti ospitati in terra francese possono essere valutati in oltre diecimila, e ad essi va aggiunto un numero almeno doppio di simpatizzanti, reclutati direttamente in loco tra i migranti economici. I più attivi e i più organizzati in questo senso sono i comunisti, che lavorano soprattutto attraverso l’UPI (Unione Popolare Italiana) e dispongono anche di un organo di stampa.

Socialisti riformisti e massimalisti, repubblicani, liberali, mazziniani, massoni, ecc… confluiscono invece nella Concentrazione d’azione antifascista, all’interno della quale però ciascun gruppo mantiene la propria autonomia e ampia libertà di azione. Come a dire che poi ciascuno fa un po’ come gli pare.

Gli esuli purtroppo si portano appresso le rivalità che già avevano caratterizzato la sinistra in patria nell’immediato dopoguerra. Lo schieramento antifascista rimane quindi costantemente diviso, sia per divergenze di ordine ideologico, sia per il contrasto di tipo generazionale. Tanto che la maggioranza degli oppositori preferirà il silenzio alla militanza attiva. E le contrapposizioni sono anche accese, risentendo delle continue oscillazioni provocate a metà degli anni Trenta dal mutare delle direttive politiche di Stalin: così che quando si passa dal tacciare di social-fascismo le componenti che non orbitano attorno al bolscevismo ad incoraggiare la costituzione dei “fronti popolari”, e i comunisti entrano a far parte della Concentrazione antifascista, la convivenza si rivela da subito problematica. Ancor più lo sarà verso la fine del decennio, dopo la negativa esperienza spagnola e di fronte ai voltafaccia dell’URSS nei confronti della Germania nazista.

Quale sia l’atmosfera nell’ambiente dei fuorusciti italiani in Francia tra la metà degli anni Venti e la Seconda guerra mondiale lo si evince bene, forse ancor meglio che dal saggio già citato di Garosci, dalle Memorie di un fuoruscito (Feltrinelli, 1960) di Gaetano Salvemini. Rispetto ai compagni d’esilio Salvemini era senza dubbio un privilegiato, visto che i suoi lavori storico-giuridici gli avevano già procurata un notorietà internazionale che gli permetteva di trascorrere molto tempo all’estero, ad esempio negli Stati Uniti e in Inghilterra, con incarichi di insegnamento nelle più prestigiose università o per giri di conferenze; mentre il suo passato di intransigente antifascista della prima ora gli garantiva credibilità e autorevolezza presso tutti i diversi gruppi. Questa condizione gli consentiva d’altro canto un punto di vista più equilibrato rispetto a quello di coloro che al di là dell’antifascismo propugnavano poi specifiche soluzioni politiche o ideologiche (primi tra tutti naturalmente i comunisti, che infatti lo avversarono costantemente).

La sua posizione è perfettamente espressa nel documento di presentazione di Giustizia e Libertà che redasse nel 1932 (ma l’organizzazione era già nata nel 1929). «Giustizie e Libertà è un’organizzazione di lotta rivoluzionaria antifascista in Italia, e raggruppa a questo scopo in Italia gli uomini di tutti i partiti di sinistra, e gli uomini fuori partito, purché di idee democratiche e repubblicane, che sono disposti a mettere a rischio la vita per la lotta rivoluzionaria contro la dittatura fascista […] Questi uomini, che in tutti i partiti e fuori di tutti i partiti formano una esigua minoranza – una vera e propria “compagnia della morte” che si batte nelle trincee più avanzate e più pericolose, non debbono rimanere in gruppi indipendenti. Debbono coordinare i loro sforzi contro il nemico comune. Debbono tenersi affiatati gli uni agli altri. Non hanno tempo e non vogliono discutere quel che sarà l’Italia dopo che la dittatura fascista sarà abbattuta.»

Quanto poco questo intento fosse comune lo si vide proprio in occasione dei diversi atteggiamenti assunti rispetto ai fronti popolari che si avvicendarono nell’Europa occidentale negli anni Trenta. L’interesse di partito veniva sempre anteposto a quello della causa comune.

Ma c’è dell’altro, ed è questo che tengo a mettere in luce. Sempre Salvemini, nelle sue memorie scrive: “La mia persuasione era – ed è tuttora – che su tre cospiratori uno è una spia; il secondo è uno scioccone, che per vanità di parere bene informato, racconta alla spia quanto sa sul terzo; e il terzo e il secondo vanno in galera, grazie al primo. D’altra parte il terzo, se non fa niente per paura dello scioccone e della spia, non andrà in galera, ma non farà niente, cioè lascerà padrone delle acque il nemico”. Ragion per cui: “bisogna correre il rischio di andare in galera, e alla fine andarci. Cioè bisogna obbedire alla legge del proprio temperamento, quanto al resto, sarà quel sarà”.

Cosa ci sta dunque dicendo Salvemini? Innanzitutto che prima di accapigliarsi su quel che sarà il futuro sarebbe bene affrontare il più possibile uniti, e provare a sconfiggere, l’avversario presente. Cosa che a leggere un resoconto sull’atteggiamento dei fuorusciti antifascisti nei due anni precedenti lo scoppio del conflitto c’è da mettersi le mani nei capelli (cfr. Leonardo Rapone, I fuorusciti antifascisti, la Seconda Guerra Mondiale e la Francia). Divisi sino all’ultimo momento e ostinatamente decisi a farsi la guerra, come i capponi di Renzo.

Poi, che anche prescindendo dalle divisioni e dalle contrapposizioni politiche occorre tenere conto di quelle che sono le differenze umane. Che cioè non sono tutti eroi e sinceri paladini della libertà coloro che bazzicano l’opposizione, e che la bontà di una causa e l’eccezionalità della condizione di espatriati politici non è da sola una garanzia di genuinità. Dice cioè ciò che sappiamo tutti (o che dovremmo sapere): le situazioni vanno affrontate con realismo, se vogliamo darci almeno una possibilità di uscirne vincitori. E realismo non significava, nella particolare situazione in cui Salvemini si trovava ad operare, cinismo o spregiudicatezza, ma massima prudenza, discrezione, parsimonia nell’accordare fiducia. Invece “In Parigi nessuno credé necessario preoccuparsi […]. L’ambiente formicolava di spie, ma anche di persone che non capivano la necessità di tenersi in guardia dalle spie”. Persone che alla fine hanno obbedito “alla legge del proprio temperamento”, hanno cioè scelto di correre coerentemente il rischio, ma troppo spesso questa scelta l’hanno pagata cara

Realismo perciò significa anche, se applicato alla rilettura storica di quella vicenda, mettere in evidenza questa debolezza, l’autolesionismo derivante dai facili e malriposti entusiasmi che hanno da sempre caratterizzato la storia della sinistra. Se si rimuovono queste cose per non scalfire l’immagine di eroi e martiri ormai incorniciati in santini (oggi magari in poster), se si imbelletta la realtà per farla coincidere con le proprie ideologie e strategie, si ottiene l’effetto opposto: i valori etici della resistenza ad ogni forma di totalitarismo vengono affidati al mito, così come i suoi protagonisti, e questo significa imbalsamarli in una dimensione che non ha più alcuna valenza di esemplarità, perché troppo lontana dalla realtà.

Prendiamo il caso di Camillo Berneri, che è quello che conosco meglio. Se qualcosa ho amato nella sua personalità, insieme alla schiettezza e al coraggio, è la capacità di prendere atto dei tanti errori commessi per eccessiva fiducia nella lealtà altrui, senza comunque arretrare di un passo nell’impegno. Al tempo stesso però non posso negare che, al netto della fulgida testimonianza di eroismo, la lezione più importante da trarsi dalla sua vicenda sia quella dell’inutilità, oltre che dell’inopportunità, delle azioni “dimostrative” mirate (come recitava ancora il terrorismo degli anni di piombo) a “colpire il cuore dello Stato”. Si può tenere il suo ritratto nello studio, come faccio io, si può opporre la sua lucidità e coerenza, nonché tutta la complessità del pensiero anarchico, all’imbecillità, all’ignoranza e alla riduzione in slogan omeopatici che ne fanno i sedicenti anarco-rivoluzionari odierni, ma si deve avere ben chiaro che su un piano prosaicamente pratico tutto quell’eroismo non ha sortito granché.

Lo stesso realismo andrebbe poi impiegato nella narrazione dell’acquiescenza di quasi tutto il popolo italiano al regime, quella che era già denunciata, prima ancora che la guerra avesse termine, da un altro giovanissimo fuoruscito (questo in Svizzera): «Va anzitutto definito quello che si intende precisamente col termine «fascista» per colpirlo e eliminarlo inesorabilmente come realtà – insieme al vocabolo “antifascista” (troppo generico ormai e ambiguo) – dalla vita italiana. Non è mai esistita una dottrina fascista; sono invece esistiti (e esistono tuttora, ben lungi dal tramontare) una mentalità e un costume fascisti: irridenti – sul piano politico – alle nozioni di libertà, di democrazia, di dignità civile (cose degne dello “stupido diciannovesimo secolo” per gli “uomini nuovi”), e – sul piano morale – alle forme del vivere onesto, prudente, vigilato (“vecchio gioco” per chi voleva forzare gli altri a “vivere pericolosamente”). […] Da allora l’abdicazione è venuta crescendo, la responsabilità allargandosi per cerchi concentrici a masse sempre più vaste fino ad abbracciare la quasi totalità del popolo italiano. La complicità – tolta qualche voce clamorosa – è stata fatta di silenzio e d’assenso». (Ariberto. Mignoli, Epurazione, su Giovane Italia, 10 aprile 1945, n. 5).

Vent’anni prima queste cose le aveva già scritte anche Andrea Caffi, che sull’anelito degli italiani alla libertà (e alla verità) nutriva giustamente i suoi dubbi. E infatti: ancora oggi noi sappiamo tutto su I volenterosi carnefici di Hitler, e quanto alla complicità collettiva del popolo tedesco ci chiediamo se sia vero che “La Germania si che ha fatto i conti col nazismo”, ma su un sincero esame di coscienza nostro ci andiamo cauti. Tanto cauti che a furia di autocompiacerci per l’immagine artificiosa di una gente italica disposta comunque al buono e al bello stiamo già arrivando alla riabilitazione del regime.

C’entra tutto questo con le vicende parallele eppure divergenti (per cui non si incontrerebbero neppure all’infinito) di Caffi e di Oberti? C’entra eccome, perché l’accostamento riguarda solo la condivisione della condizione di fuorusciti, mentre il modo in cui questa condizione è stata vissuta dai due e quello in cui è stata recepita da coloro che l’hanno condivisa con loro mettono a fuoco piuttosto il contrasto.

Senz’altro entrambi viaggiavano in asincrono rispetto ai loro compagni di sventura: ma mentre a questa differenza di ritmo il primo cercava di ovviare con una presenza ferma e tuttavia discreta, non invasiva, anzi piuttosto elitaria, che lo faceva apprezzare da tutti coloro che lo conoscevano, l’altro la differenza la rimarcava costantemente, autoproclamandosi unico genuino custode dei valori dell’antifascismo ed entrando immediatamente in conflitto con tutti. La differenza non concerneva però solo i modi della partecipazione, il primo sempre sottotraccia, nell’ombra, il secondo amante delle celebrazioni, dei rituali, del centro della scena; riguardava anche, e soprattutto, i valori per i quali si battevano. Caffi europeista, cosmopolita, anarchico, Oberti nazionalista sfegatato, cultore del mito della patria e della nazione, legato alle consorterie massoniche, ecc.

Ora, capisco che il parallelo tra i due possa sembrare già in partenza assurdo: in effetti, pur con tutta la divertita simpatia che all’epoca della coabitazione Oberti mi ispirava, mi rendo conto che sto mettendo a confronto due livelli di umanità incomparabili. Caffi era un puro, con tutto ciò che di affascinante, ma anche in qualche misura di escludente, questa disposizione comporta. E infatti si è tenuto, ed è poi stato volutamente confinato, a margine, perché la sua intransigente purezza fissava dei parametri troppo alti. Oberti era un mitomane squinternato, e d’altro canto lui stesso confidava che “i ferri del chirurgo penetratimi mediante incisioni all’interno delle fosse nasali mi hanno scosso la cassa cranica”. Non so quanto i suoi squilibri fossero stati determinati o acuiti dalla bastonatura, sono propenso a pensare che non fosse del tutto in quadra nemmeno prima. Anche se, a scanso di equivoci, rimango convinto che pure in mezzo a tutte le sue palesi contraddizioni Oberti fosse sempre sinceramente convinto della legittimità e bontà del proprio operato (il che poi in molti casi è ancora più grave, ed è un problema comune a tanti apparentemente più coerenti di lui). Ma, ripeto, non è tanto il personaggio in sé ad intrigarmi quanto piuttosto il fatto che per settant’anni qualcuno abbia potuto continuare a prenderlo sul serio.

Li ho accomunati solo perché mi sembrano incarnare significativamente gli estremi dell’ampio spettro di modalità nelle quali la condizione dell’esule, e nella fattispecie dell’esule antifascista, poteva essere declinata. E perché giustificano le domande che Garosci si poneva a caldo nella presentazione del suo tempestivo studio: “Chi sono stati i fuorusciti? Come hanno influito sul destino dell’Italia? Si può porre un problema generale dei fuorusciti, oppure si danno problemi e soluzioni diverse per diversi periodi e personalità?” Domande cui la ricerca storica, della quale Garosci auspicava che la sua Storia fosse solo un punto di partenza, non ha in realtà ancora dato risposte soddisfacenti.

Quanto poi al motivo per cui due vicende e due personaggi ciascuno a suo modo così singolari sono finiti nell’oblio, potrebbe sembrare legato al fatto che in definitiva entrambi, sul piano pratico, hanno combinato poco o nulla. Ma questo, se vogliamo essere sinceri, vale in fondo anche per tutti gli altri loro compagni d’esilio. Io credo invece che il motivo stia per l’uno nel non aver lasciato eredi “istituzionali”, partiti, movimenti, congreghe, che avessero interesse a coltivarne la memoria, magari anche strumentalizzandola; per l’altro in una rimozione mirata a spazzare la polvere sotto il tappeto. Rispetto al quadro che della resistenza degli esiliati si voleva dare, uno ne era fuori, l’altro è stato coperto dal bordo esterno della cornice. A volte la “menzogna utile”. contro la quale si battevano tra i fuorusciti soprattutto Caffi e Chiaromonte, non ha nemmeno bisogno delle “post-verità”, può servirsi altrettanto proficuamente dei silenzi. Nel caso dei miei due protagonisti, poi, l’esclusione dalla memoria e l’assenza di una lettura distintiva non solo dà luogo ad una palese ingiustizia, ma tace una realtà, e quindi non insegna nulla.

Qui volevo arrivare. Ho forzato questo confronto, senza la pretesa di dare il minimo contributo alla ricostruzione della verità storica, semplicemente per offrire un esempio di come la melassa acritica e celebrativa finisca per appiattire o addirittura azzerare i valori, e di quanto sarebbe invece necessario operare delle distinzioni proprio per ristabilire e riaffermare la pregnanza di questi ultimi.

Al di là dei risultati concreti, infatti, rimane comunque l’importanza della testimonianza etica, in positivo o in negativo, che può essere lasciata in eredità, e che tanto più in questi tempi di carestia morale andrebbe recuperata. Proprio per questo il loglio andrebbe separato dal grano, con una ricostruzione documentata di chi ha fatto davvero cosa, e di come, e del perché. Quanto ai nostri, senza scendere ulteriormente nel dettaglio, è evidente che se Caffi apparteneva al novero ristretto di coloro che vivono sentendosi sempre in debito, Oberti è il prototipo, al di là della sua ‘stranezza’, di chi si sente sempre in credito. E tutta la vicenda racconta di come anche nei gruppi più selezionati, addirittura nei gruppi in cui la selezione la fa la sventura, questi ultimi esistono, e non sono pochi, e nella gran parte dei casi sopravvivono e hanno modo di raccontarla alla loro maniera.

Mentre i primi, come testimonia Primo Levi ne I sommersi e i salvati, le rare volte in cui scampano provano quasi rimorso per non avere seguito la sorte di chi è rimasto sul terreno.

vignetta di Mauro Biani, 2024

Riferimenti bibliografici

Per le notizie relative alla vita e alle attività di Oberti sia in Francia che Italia sono debitore soprattutto degli studi (e delle indicazioni) di:
Donato D’Urso, Quando la pietà era morta. Aspetti della guerra civile 1943-1945, Bastogi libri, 2015
Donato D’Urso, Stefano Oberti, in Tuttostoria.net, 29/03/2015

Altre informazioni le ho attinte in:
Emanuela Miniati, La migration antifasciste de la Ligurie à la France dans l’entre-deux-guerres: familles et subjectivité à travers les sources privées (Tesi di dottorato in Storia contemporanea discussa presso Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, Anno accademico 2014-2015)
Emanuela Miniati, Antifascisti liguri in Francia. Caratteristiche e percorsi del fuoriuscissimo regionale, in Percorsi Storici, 1 (2013)

Trattazioni più generali sulla migrazione antifascista in Francia sono in:
M. Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA, Torino. 1999
Aldo Garosci, Storia dei fuorusciti, Laterza, 1953
Leonardo Rapone, I fuorusciti antifascisti, la Seconda Guerra Mondiale e la Francia, in Persée pubbl. dell’École Française de Rome 1986 n. 94 (fa parte del numero tematico: Les Italiens en France de 1914 à 1940)
Gaetano Salvemini, Memorie di un fuoruscito, Feltrinelli, 1960
Fedele Santi, Storia della Concentrazione antifascista, 1927-1934, Feltrinelli, 1976
Fedele Santi, I Repubblicani in esilio nella lotta contro il fascismo (1926-1940), Le Monnier, 1983
Simonetta Tombaccini, Storia dei fuorusciti italiani in Francia, Mursia, 2022

Degli scritti di Oberti ho potuto consultare solo
Esilio a Parigi. 1922-1943 Il ventennio fascista raccontato da un fuoruscito, Lanterna, 1984

Non Ho rintracciato Mazzini perseguitato dai Savoia (Alessandria, 1944), né Episodi della lotta antifascista, mentre presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza, Archivi di Giustizia e Libertà è consultabile Notre bataille dans les Universités et à l’Etranger, avec versions espagnole et italienne (Parigi, 1927?)

51 vedute del Monte Tobbio

iconografia e storia di una montagna sacra
catalogo essenziale di una mostra per amanti della natura, della montagna e della fatica

in ricordo di Piero Jannon

51 vedute del Monte Tobbio copertina

Introduzione

Perché una mostra dedicata al monte Tobbio?

Percorsi

Dati essenziali

Visibilità

Montagne sacre

Escursioni letterarie

Appunti di geologia sul Monte Tobbio e dintorni

Gli ambienti

La realtà attuale

Fauna

Flora

Qualche proposta per camminare

Il vento del Tobbio

Il piccolo santuario sul Tobbio  in onore della B.V. di Caravaggio

I registri, ossia, la scrittura del viandante

Tutti insieme, appassionatamente

La corsa 1971 – 1980

Bibliografia

Ringraziamenti

02 Tobbio Disegno da lontano

Introduzione

C’è qualcosa di nascosto. Va e trovalo.
Va, e cerca dietro le montagne.
C’è qualcosa di smarrito dietro le montagne.
È smarrito, e ti aspetta. Vai.
RUDYARD KIPLING

Questo catalogo è stato realizzato, con diciassette anni di ritardo, da Paolo Repetto e da Fabrizio Rinaldi. La mostra sul Tobbio venne ideata dai Viandanti delle Nebbie nella primavera del 1996, e fu allestita per la prima volta nel dicembre dello stesso anno presso la sala espositiva della Biblioteca di Ovada, in Piazza Cereseto. Era costituita da trentacinque tabelloni (di dimensioni 1 x 0,70) a sfondo nero. Al primo allestimento ne seguirono altri tre, a Lerma, a Novi Ligure e a Campo Ligure.

Nel Catalogo compaiono alcune immagini che non erano presenti nei tabelloni originali, in sostituzione di altre che sono andate perdute. Il riferimento “colto” della titolazione è naturalmente alle 101 vedute del monte Fuji, la splendida serie pittorica di Hokusai. Eravamo perfettamente consapevoli allora della distanza negli esiti, ma siamo ancora oggi convinti della prossimità negli intenti e nello spirito.

Le fotografie sono state scattate tutte dai Viandanti, da quelli ufficiali e da quelli in pectore. Anche i disegni, con l’eccezione di un paio di illustrazioni relative alla fauna, sono opera nostra. Sono state inserite inoltre alcune riproduzioni di dipinti che hanno per soggetto proprio il Tobbio: un piccolo assaggio di un’auspicabile futura mostra sul tema.

Per correttezza segnaliamo che già nei primi anni Novanta era stata organizzata quasi clandestinamente in Alessandria una rassegna pittorica dedicata al Tobbio (non un excursus iconografico sul tema, ma una sorta di estemporanea a tema, interpretata secondo le tecniche più diverse) Sino a qualche tempo fa, e segnatamente all’epoca della nostra iniziativa, non ne eravamo al corrente. Di quella rassegna non esiste un catalogo, ma dopo aver visionato alcuni dei materiali rimasti dobbiamo confessare che non ci sembra una gran perdita.

Infine, una dedica. Mentre la mostra era dedicata ad Andrea Longhetti, unica vittima per quanto ne sappiamo della passione per il Tobbio, questo catalogo è intitolato a Piero Jannon, proprio colui che ritrovò il corpo del giovane Andrea e che della passione per il Tobbio è stato e rimarrà l’interprete più genuino.

Perché una mostra dedicata al monte Tobbio?

La domanda suonerà superflua per chi il monte lo ha già salito, una o innumerevoli volte: o anche solo per chi è stato affascinato, nelle occasioni e dalle angolazioni più svariate, dall’inconfondibilità del suo profilo. Ma una spiegazione è dovuta a coloro che non hanno provato né l’una né l’altra emozione. Il Tobbio è diverso, è speciale: e intento della mostra, attraverso l’insistenza sulla sua immagine, è di celebrare una diversità da sempre avvertita, che ha rivestito di un’aura di sacralità e di leggenda una vetta accessibile e modesta.

L’eccezionalità del Tobbio è connessa ad un particolare rapporto tra la sua morfologia e la sua collocazione. La conformazione vagamente piramidale e l’escursione altimetrica tra le pendici e la vetta gli conferiscono un’estesa visibilità, pur in mezzo ad altre formazioni di altitudine pari o addirittura superiore. E questo nitido stagliarsi, sulla direttrice ideale che raccorda il mare alla pianura dell’oltregiogo, lo ha eletto a riferimento geografico, meteorologico e simbolico per eccellenza per le popolazioni di entrambi i versanti dell’appennino.

Incursioni nell immaginario2 Tobbio

AVVERTENZA: Il presente catalogo raccoglie integralmente i contributi e le documentazioni scritte che accompagnano la mostra in oggetto. L’iconografia è ripresa invece solo parzialmente, per le oggettive difficoltà tecniche.

Percorsi

Tobbio Paolo

Lo sviluppo perimetrale della mostra propone, a grandi linee, due diversi itinerari, che possono essere percorsi in parallelo o attuando costanti intersezioni. Il primo ci accompagna in una escursione iconografica a trecentosessanta gradi attorno al Tobbio, colto nei differenti abiti stagionali e meteorologici, e prosegue poi con un ribaltamento del punto di osservazione, trasferito sulla vetta stessa. Il secondo abbozza un excursus storico-scientifico sulle caratteristiche geologiche e naturalistiche del monte, e sul “culto” ad esso tributato. Ciascun pannello offre pertanto una sequenza di immagini corredate di riflessioni generali sul rapporto con la montagna o specifiche su quello col Tobbio, ed una sezione scientifico-documentaria, sviluppata orizzontalmente lungo l’intera mostra.

Noi ci permettiamo un paio di suggerimenti extra. Intanto, quello di percorrere questi itinerari non con il fardello di pignolerie fotografiche, naturalistiche, alpinistiche o che altro, ma in assetto leggero, per ritrovare quella fusione tra reale e fantastico che costituisce la particolare magia di ogni ascensione al Tobbio. Ma, soprattutto, quello di regalarsi un’appendice esterna alla mostra, guadagnando l’altura più vicina e godendosi, se la visibilità lo permette, il soggetto dal vero; o meglio ancora, facendo una puntatina in vetta, per ripercorrere queste immagini dopo aver rotto il fiato, col ritmo giusto per la salita.

Dati essenziali

Coordinate: 8° 48’ 00’’ Long. Est; 44° 35’ 30’’ Lat. Nord
Altitudine: mt. 1092 s.l.m.
Area complessiva: Km2 4.9
Ampiezza massima:   Nord – Sud (Eremiti – Nespolo) Km 3.1
Ovest – Est (Gorzente – P. Daiola) Km 1.8
Escursione altimetrica:        Dagli Eremiti (Nord) m. 533
Dalla Casc. Nespolo m. 587
Toponimo:        molto incerto. È possibile una derivazione dall’antico ligure (tribù dei Mentovini) togisonus (luogo impervio), da cui anticamente Toggio.

Visibilità

Caratteristica precipua del Tobbio è senz’altro la visibilità. Il suo profilo si distingue nettamente, provenendo da nord-est, sin dalle piane o dalle basse colline del pavese. Verso settentrione la sua visibilità non incontra ostacoli lungo tutta la larga fascia pianeggiante che arriva sino al gruppo del Rosa e alle Lepontine, da Ivrea al lago di Como. Da occidente è riconoscibile dai rilievi di tutto l’arco alpino, sino alle Marittime. Meno visibile risulta dal versante appenninico, tra sud-sud-ovest e sud-sud-est, dove il suo dominio trova un limite prossimo nella cresta del Figne, e si frange contro l’altitudine superiore della corona della Val Borbera. In condizioni di eccezionale limpidezza, però, anche chi bordeggi lungo la costa ligure può coglierlo, in uno scorcio ristretto, allineato a nord sulla direttrice del santuario della Guardia.

Appennino - Sergio Fava
Appennino (Sergio Fava)

Montagne sacre

La sacralità di una montagna non è proporzionale alle sue dimensioni, alla sua altitudine o alla sua inaccessibilità, ma piuttosto al significato che essa riveste per le popolazioni che vivono alla sua ombra o nel raggio della sua visibilità, o per gli individui che la salgono.

In questo senso, fatte le debite proporzioni e, soprattutto, assunto il termine con la dovuta “ironia”, la sacralità del Tobbio non ha nulla da invidiare a quella del Kailas o del Meru. E il difetto di esotismo è pienamente compensato dalla paterna confidenza, mista al senso di rispetto, che spira dai suoi costoni, e che ci infonde, ad ogni risalita, una rinnovata serenità.

Escursioni letterarie

Cosa si vede dalla vetta del Tobbio
“Sulla vetta, finalmente, se le nebbie o neri nuvoloni non ti fanno eventuale impedimento, il tuo occhio […] vede lontano lontano, e può contemplare un panorama vario e grandioso, dalla porpora dorata di uno splendido sorger di sole, o di un tranquillo tramonto, alla gradevole vista delle lontane e vaste pianure dell’Alessandrino e Tortonese, nonché delle ridenti colline di Torino, dell’Astigiano, del Monferrato […].

Taccio dei contrafforti dell’Antola, del Penna, della Polcevera; taccio del colle di Masone, della Bocchetta, dei Giovi, che se partitamente non si scorgono, di leggieri però col pensiero si abbracciano nella loro posizione geografica. Taccio del magnifico lago delle Lavezze, che ti fa illusione bella e grandiosa del mare. Taccio del vasto panorama delle Alpi lontane, che ora si levano al cielo in guglie acute come quella del Monviso e monte Bianco, ora si rompono in giogaie […], ora torreggiano come immense piramidi di ghiaccio, ora si disegnano in rupi merlate, in creste capricciose che le nevi intatte adornano di argentea corona. E cento e mille altre cose taccio che non potranno nascondersi ad ogni sguardo scrutatore, degna ricompensa della fatica sopportata per arrivare alla vetta.”
Sac. ERNESTO PITTO

04 Paolo viandante 100

Sì, tutto ci appare sommamente meraviglioso, quando per la prima volta lo abbracciamo con lo sguardo dall’alto del Brocken; da ogni lato il nostro spirito riceve nuove impressioni che, varie fino a contraddirsi, si combinano nella nostra anima in un sentimento grande, ancora confuso, ancora non compreso. Se riusciamo a coglierlo in un concetto, allora abbiamo capito qual è il carattere del monte.
HEINRICH HEINE

05 Tobbio da Campi della marca100

Una faticosa arrampicata simboleggia in primo luogo l’ascesi e la finale liberazione. Di fatto un’arrampicata strappa alle ugge, disperde le ossessioni, infrange il comune regime dalla mente. In cima si arriva emendati e si presterà quindi ascolto ad un succedersi di eventi tutto particolare: giochi di nebbie e schiarite; terse apparizioni del sole, della luna, delle stelle fiammeggianti; corse di sizze e nuvolaglie; paesaggi sottostanti che la prospettiva dall’alto sembra stia per capovolgere e far ruotare e infine, intime al punto che la mente se ne sente aggirata, vertigini che ghermiscono le viscere improvvisamente allo svelarsi di uno strapiombo. Momenti di fraseggio che le parole non saprebbero riferire.
ELEMIRE ZOLLA

Siamo stati ingannati dalle nuvole
Furenti nella fatica della salita
Nessun mare che brilli oltre i crinali
Di sassi che ignorano ormai ogni canto
di pernici e di altri miti lontani.

Ho portato con me le poche cose
Essenziali nella fatica in cui
Volontario mi affretto ad immolare
L’avanzo di questo giorno urbano
Urbanizzato, meglio, da cento vizi
Inutili come, lo so, sarà questa salita.

Di là guarderò i miei mille pezzi
Sparsi nella collina e nelle pianure
Uniti dal filo di un tempo sconosciuto.

Da sempre e per sempre.
EGIDIO GOLA

 Quando gli fu chiesto perché voleva scalare il monte Everest, George Mallory diede un’inconsueta risposta, che è diventata la più famosa e citata motivazione per scalare le montagne: “perché è lì”.
EDWIN BERNBAUM

09 Tobbio Sagoma

Il Tobbio è lì, lo vedo mentre leggo, mentre lavoro, persino quando riposo. Lo cerco tornando dalle vacanze estive; si distingue anche da lontano. Dal paese dove son nato appare, forse per la distanza, maestoso, con un grumo nero in vetta: non da moltissimo ho saputo che è la chiesa – rifugio.
Mi ci sono avvicinato lentamente, a tappe; sono, quasi, le tappe della mia vita. Ora lo conosco, da vicino; e mi piace, è un bel monte: fa parte delle cose buone, come le formidabili sudate per salire e per discendere, sempre all’inseguimento di qualcuno o qualcosa che sta davanti, come gli intensi, stratificati ricordi a lui legati. Ricordi …
Una sera d’autunno, nebbiosa e fredda, superammo l’ultimo costone; tra brandelli di nebbia la chiesa appariva e scompariva; dappresso due o tre ombre di muovevano. Ci avvicinammo; erano tre ragazzi; uno di loro, legato ad uno strano farfallone, un parapendio, prese silenziosamente la rincorsa sul costone e si lanciò nel vuoto …
O quella volta che, dopo una stentata nevicata, eravamo convinti di essere i primi a calpestare la neve, e non un’orma umana o divina appariva intorno alla chiesa. Eppure all’interno, la stufa accesa, un essere angelico sorridente, atletico, ci accolse …
Un monte di ricordi.
FRANCO VALLOSIO

Soprattutto, non perdete la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata … ma stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati … Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene.
SØREN KIERKEEGAARD

21 Tobbio Chiesetta tra neve e nubi

È un generale impulso che tutti gli uomini provano, benché non tutti lo notino, che sulle alte montagne, là dove l’aria è pura e sottile, si sente maggior facilità nella respirazione, maggiore leggerezza nel corpo, maggior serenità nello spirito; i piaceri vi sono meno ardenti, le passioni più moderate. Le meditazioni vi assumono non so qual carattere grande e sublime, proporzionato agli oggetti che ci colpiscono, e non so quale tranquilla voluttà che nulla ha di acre e di sensuale. Sembra che elevandosi al disopra delle abitazioni degli uomini, si lascino tutti i sentimenti bassi e terreni, e che man mano ci si avvicina alle regioni eteree l’anima assuma qualche cosa della loro purezza inalterabile.
JEAN JACQUES ROUSSEAU

Percorrendo la Direttissima, ad un certo punto ci si trova di fronte ad una cresta ripida, superata la quale la pendenza diminuisce, addolcendosi sino alla vetta del Tobbio; sicuramente questo è il tratto più impervio del sentiero. Mentre arranco sbuffando, un unico pensiero mi ronza in testa: vorrei che fosse già visibile il campanile. Continuo a camminare, un passo dietro l’altro: vorrei vederlo ORA, subito.
Questo desiderio di vedere ciò per cui fatichiamo, riguarda in questo caso la montagna e la vetta: ma non è raro che si riferisca ad altri ostacoli, ben più ardui, nei quali troppo spesso ci imbattiamo: alcuni la chiamano sindrome del “Sole nero”. È un male che morde dentro, un malessere dell’anima che non lascia tregua, per il quale non esiste cura se non la volontà di uscirne: ma il rischio di riammalarsi è sempre lì, basta niente per ricascarci. Mi piacerebbe sapere cosa sto affrontando, distinguerlo, guardarlo negli occhi.
Camminare, così come leggere, non offre la soluzione, ma è almeno un modo per non precipitare. Percorrere sentieri più o meno impervi ci aiuta a non farci sopraffare dalla pigrizia, ci induce a fissare delle mete.
Leggendo, poi, ci si rende conto che altri stanno soffrendo le nostre stesse angosce, che altri provano le stesse emozioni. È una consolazione relativa, anche amara, ma ci fa sentire meno soli.
Dall’anticima vedo finalmente stagliarsi il profilo del rifugio; ma è solo un attimo, il tempo di una folata di vento che alza la nube. Quando ci si porta dentro questo male oscuro, a volte la si intravvede appena la meta; poi torna la nebbia.
FABRIZIO RINALDI

cropped-07-tobbio-chiesetta.jpg

Le montagne dimorano sempre in pace e sempre camminano. Esaminate attentamente questa qualità delle montagne … Se dubitate della qualità camminatrice delle montagne, non conoscerete il vostro stesso camminare … Non sono né senzienti né insenzienti le verdi montagne, voi non siete né senzienti né insenzienti. A questo punto non potete dubitare che le montagne camminino.
DOGEN

08 Tobbio Nebbie

Ho capito che salire il Tobbio stava diventando per me un atto rituale quando ho cominciato ad amare la discesa. Lo confesso, ormai salgo al Tobbio soprattutto in funzione del piacere di tornare a valle. Scendo appagato, con la coscienza di chi ha compiuto il suo dovere e può vivere più serenamente quel che resta del giorno, o della settimana. Mi piace calarmi dalle nuvole, recuperare ai piedi l’asfalto, agli occhi ed alla mente gli orizzonti angusti della quotidianità. Mi piace perché scendo ogni volta dal Tobbio con una rinnovata carica di genuina intolleranza, di quella sana cattiveria che rimane l’unico antidoto per sopravvivere ai miasmi e ai tafani dell’imbecillità stagnante a fondovalle.
PAOLO REPETTO

Per la sua natura primordiale, per la sua elementarità, per la sua lontananza da tutto ciò che è piccolo mondo, dai pensieri e sentimenti dell’uomo moderno addomesticato e razionalizzato, la montagna invita anche spiritualmente ad un ritorno alle origini, ad un raccoglimento, alla realizzazione in sé di qualcosa che rifletta la semplicità, la grandezza, la forza pura e l’intangibilità del mondo delle vette gelate e lucenti. Che quasi ogni antica tradizione abbia conosciuto il simbolismo della montagna, concependo le altezze montane come la sede o di forze divine ed olimpiche, o di eroi e di uomini trasfigurati, questa è la conferma per il potere evocatorio or ora attribuito alla montagna.
JULIUS EVOLA

19 Tobbio sagoma e nebbie

Ecco, sono ai piedi del monte; metto in moto il mio corpo e comincio a salire. Passo dopo passo, respiro dopo respiro, pensiero dopo pensiero salgo. Aumentando la frequenza dei passi aumenta la frequenza dei respiri e diminuisce la frequenza dei pensieri: non è anche per questo che ascendo il monte? Aumentando ulteriormente il ritmo, corpo e mente si plasmano in funzione della roccia, diventano funzionali ad essa; il pensiero scompare.
Arrivo in vetta; rifiato. Il pensiero, come accade ad un ruscello in un fenomeno carsico, ricompare, sgorgando dai meandri più reconditi della mente dove si era rifugiato, più puro e più forte.
GIUSEPPE SCHEPIS

Non so come dovrei esprimermi perché ho quasi l’impressione che i pensieri s’arricchissero di grandezza, di sublimità, armonizzandosi con quanto l’occhio scorgeva vagando, quasi respirando una sicura gioia tranquilla, lontana da qualsiasi passione, da ogni sensualità.
È come se d’un tratto ci si sollevasse al di sopra delle dimore dei mortali, abbandonando ogni volgare sentimento terreno; è come se l’anima, avvicinandosi alle regioni eteree, assorbisse dalla loro sempre immutabile purezza. Un sentimento austero s’impadronisce di noi, senza mutarsi in malinconia; un sentimento di pace tuttavia alieno da ogni molle rilassatezza ci pervade e siamo felici di esistere, felici di pensare, felici di sentire. La veemenza delle passioni si smorza, perdono quel loro affilato aculeo che le rende dolorose, lasciando nel cuore una tenue e piacevole commozione. In tal modo le passioni, che altrimenti sono fonte di pena per l’uomo, si trasformano in fonte di felicità.
JEAN JACQUES ROUSSEAU

10 Tobbio tra la nebbia

Ci sono montagne nascoste nelle gemme; ci sono montagne nascoste nelle paludi e montagne nascoste nel cielo; ci sono montagne nascoste nelle montagne. C’è un’infinità di montagne nascoste nel nascosto.
DOGEN

Immaginate una bella giornata d’agosto. Due amici che decidono di salire sul Tobbio. Di questi, uno non c’è mai stato e l’altro è orgoglioso di accompagnarcelo, perché questo è il suo monte. Immaginate nessuno sul monte, non solo, neanche un alito di vento (ce ne vuole per immaginarlo!) I due siedono di faccia al sole di mezzogiorno. Parlano della vita, seduti sulla pietra calda. Sono nudi, la pelle arrostita dal sole, gli occhi socchiusi. E parlano, parlano. Potrebbe durare così mille anni. Il tono sarebbe sempre lo stesso, quello che hanno i sognatori.
Ora stanno lì, immobili, come fossero di pietra. Due uomini di pietra. Una leggenda boliviana narra che Dio, la montagna, creò i primi uomini così. Poi, perché non si sgretolassero come sabbia al vento, diede loro anche un cuore, un tenero cuore di pietra. Per alcuni istanti i due amici lo sentono palpitare nei crepacci segreti del monte, e vorrebbero tornare al tempo in cui dentro ogni uomo c’era una montagna. Scendono, i due amici, e i loro passi rimbombano giù nella valle, come ad annunciare un messaggio. Ma all’improvviso si fermano e si guardano in faccia, dubbiosi: chi potrà mai credere alla loro storia? Da troppo tempo gli umani non hanno più teneri cuori di pietra.
GIAN LUIGI REPETTO

Riflessioni sul monte Tobbio 01

E dovete camminare come il cammello, l’unico animale, così si dice, che rumina mentre cammina. Un viaggiatore una volta chiese alla domestica di Wordsworth di mostrargli lo studio del suo padrone, e lei rispose: “Questa è la biblioteca, ma il suo studio è là fuori, oltre la porta”. 
HENRY DAVID THOREAU

Nelle circostanze difficili della vita, vi parrà di essere ad una difficile salita. Un istante di viltà, di imprevidenza perde tutto. Il coraggio, la previdenza, la costanza, la lealtà può farvi vincere ogni cosa. Vi accorgerete allora del grande valor morale educativo dell’alpinismo.
Non vi accade mai che un pensiero non nobile venisse ad oscurarvi l’animo sopra una vetta alpina. Non vi hanno ivi che generose aspirazioni verso il buono, la virtù, la grandezza. Io non so se un quadro di grande artista, lo scritto di un sapiente, il discorso di un eloquente oratore possa produrre nell’animo umano impressioni così profonde e così elevate quanto lo spettacolo della natura sulle vette.
QUINTINO SELLA

11 Tobbio alba neve

Per il fatto che montagne si stagliano contro il cielo e l’ambiente circostante, richiamando l’attenzione sulle loro eccelse sommità, le visioni tendono a radunarsi e a modificarsi intorno a loro come le nubi intorno alle vette. Essendo l’aspetto più imponente del paesaggio naturale, quello che ci è possibile vedere e cogliere come un tutto unico, si prestano a giustapposizioni con immagini di unità e di completezza che in numerose tradizioni sono associate al concetto del sacro.
EDWIN BERNBAUM

[…] la luna stava nuda nei cieli, ad altezza
immensa sopra la mia testa, e sulla sponda
mi trovai di un grande mare di nebbia,

che, mite e silenzioso, giaceva ai miei piedi.
Cento colline alzavano i dorsi oscuri
per tutto il quieto oceano; più oltre,
molto più oltre, i vapori balzavano,
con forme di capi, lingue, promontori,
entro il mare, il mare vero […]

WILLIAM WORDSWORTH

Il seguire un percorso dal principio alla fine dà una speciale soddisfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come struttura narrativa) […]. La necessità di comprendere in un’immagine la dimensione del tempo insieme a quella dello spazio è all’origine della cartografia. Tempo come storia del passato […] tempo al futuro: come presenza di ostacoli che s’incontreranno nel viaggio, e qui il tempo atmosferico si salda al tempo cronologico […]. La cartografia insomma, anche se statica, presuppone una idea narrativa, è concepita in funzione di un itinerario, è Odissea.
ITALO CALVINO

Luna piena. Aria fredda che brucia la pelle, e anche sotto.
Per poter salire senza accendere le torce ci spostiamo sul versante opposto agli Eremiti. Lo spettacolo rimarrà nella nostra memoria per un bel po’. La luce lunare fa risaltare particolari che altrimenti non percepiremmo. Ogni albero, ogni pietra, ogni canalone della montagna hanno una forma distinguibile e delineabile. Tutto viene percepito dai nostri occhi come una singolarità, non come un “complesso”.
A Giuseppe tornano in mente versi del “Canto notturno”. Un posticino nello zaino della nostra immaginazione Leopardi lo occupa sempre.
“Sorgi, la sera, e vai,
contemplando i deserti […]”
Paolo ci invita a fermarci, e al silenzio; stiamo camminando, anzi fluttuando in un sogno latteo. Il paesaggio che ci circonda avrebbe mandato in delirio qualsiasi poeta o pittore romantico.
Mi ritrovo a recitare silenziosamente la preghiera che i fedeli pronunciano mentre salgono al monte Fuji: “Sii pura … Conserva il tuo splendore, o montagna!”. E mentre proseguo mi abbandono al sogno, e lo popolo degli esseri fantastici che abitano la montagna: un unicorno mi passa accanto, talmente veloce che quasi mi fa cadere. Dalla cresta di una roccia un lupo bianco mi fissa con i suoi occhi luccicanti, poi ulula alla luna. Un brivido mi percorre la schiena.
Mi risvegliano le parole di Paolo: dalla vetta indica le luci a valle. Anche la realtà della pianura può essere bellissima, vista da quassù.
FABRIZIO RINALDI

14 Tobbio e Figne

Mi pongo questo problema. Il Tobbio, e la montagna in genere, la letteratura, e la cultura in genere, sono dunque solo dei compensativi, falsi scopi rispetto ad un’esistenza che si rivela man mano più vuota ed arida? Me lo pongo proprio mentre sto salendo al Tobbio, con calma, e discuto di letteratura con Franco. La risposta che mi do è che probabilmente le cose stanno così.
Pur tuttavia, dice Franco … (Franco non dice mai “pur tuttavia”, ma è come lo dicesse sempre). Dopo un altro paio di tornanti conveniamo che un senso tutto questo ce l’ha comunque, perché consente di trascorrere il tempo, riempiendolo bene o male, anziché lasciarlo passare, subendolo (patior). Trans-currere, correre attraverso, usato come transitivo, implica che mentre scalo, cammino, leggo, sono io ad agire, magari per interposta persona, o per spazi evocati: è un ex-sistere, sottrarsi all’immobilità omologante dell’essere, e non un ad-sistere, e meno ancora un recitare nello spettacolo. Non sono dunque tutti assimilabili i comportamenti dell’uomo: perché alcuni, quelli “attivi”, producono una consapevolezza (o ne sono frutto, il che è lo stesso) che si traduce in buona disposizione sociale, comprensione, ecc.: gli altri producono solo antagonismo e asocialità.
PAOLO REPETTO

Paolo e il Tobbio

È vero, siamo dei crociati miserabili, e lo sono anche quei camminatori che, ai giorni nostri, non affrontano imprese tenaci e di lunga durata. Le nostre spedizioni non sono altro che gite, e ci ritroviamo, la sera, accanto al vecchio focolare da cui siamo partiti. Per metà del cammino non facciamo che tornare sui nostri passi. Dovremmo avanzare, anche sul percorso più breve, con imperituro spirito di avventura, come se non dovessimo mai far ritorno.
HENRY DAVID THOREAU

19 Tobbio sagoma e nebbie

Scorrendo vecchie fotografie mi accorgo di una costante che ritorna, in primo piano, sullo sfondo, come un piccolo particolare: è il monte, il monte Tobbio a farla da padrone in quelle immagini incorniciate.
Molti volti lì impressionati sono ormai scoloriti nei miei ricordi, molte persone sono approdate su altri versanti, hanno raggiunto nuove vette. Chissà se sono tutte migliori di questa. Ma il Tobbio è sempre lì, sempre quello: immobile sacra collina dove ad ogni angolo credi (e speri) di incontrare un vecchio sciamano o un sacro portale aperto sul vuoto. Ed è salendo in questo vuoto che ritrovi te stesso e ritrovi anche gli altri, quelli “scoloriti”.
Forse perché – ma è solo un’idea – il Tobbio, come il cuore, conserva le orme di chi è passato anche una volta sola sui suoi sentieri. E a noi spetta (solo) il compito di ritrovarle e di saperle leggere, le orme. Troppo facile – ed inutile – sarebbe a questo scopo incamminarsi in pianura …
ANTONIO CAMMAROTA

16 Tobbio tra gli alberi

[…] Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave,
e quanto uom più va su, e men fa male.
Però quand’ella ti parrà soave
tanto, che il su andar ti fia leggiero,
come a seconda giuso andar per nave,
allor sarai al fin d’esto sentiero:
quivi di riposar l’affanno aspetta […]
DANTE (Purgatorio, 4)

Segnali di fumo 06 Tobbio nella nebbia

Resta un filo di fiato ferito
dove il passo è pensiero
tra il profilo del cuore
e lo sguardo che s’ impietra
e salendo per l’erta
che altera il sangue ineguale
lasci le parole, finalmente,
e il di più, e il chi e il quale,
come se fosse niente.
MARCELLO FURIANI

Comincio a camminare cercando di non impantanarmi nelle pozzanghere. Gli amici scelgono di salire per la Diretta. Come un mulo rassegnato li seguo, ma in un attimo le gambe diventano rigide, le ginocchia sembrano esplodere. Il fiato prima mi manca, poi si trasforma bruciandomi i polmoni.
No, io mollo, chi me lo fa fare? Torno giù, al bar, a bere, con gli altri, i sedentari, magari a sparlare di chi ama le assurde faticate.
Ma questi salgono senza lamenti, anzi, si scambiano battute. È una sfida, con loro, con il mondo, con me stesso.
Immagino d’essere qui, cinquant’anni fa, braccato dagli uomini in nero.
Lentamente il fiato si spezza, le gambe si fanno elastiche. Comincio persino a guardare oltre a dove poso i piedi. L’Inferno ha lasciato il posto al Purgatorio. Cammino riflettendo, faccio mille propositi. Dovrei cambiare vita, smetterla di sputtanarmi. Cerco nella nebbia della mia mente altre possibilità, immagino diverse situazioni. Gli occhi s’allargano negli orizzonti che mi trovo davanti, convincendomi che posso scalare anche altre cime.
In vista della Chiesetta, l’aria pare disegnarmi un paio d’ali. Le gambe scappano dai calzoni, ho voglia di correre.
Mi guardo attorno, respiro da ogni poro della pelle, mentre il cielo mi entra negli occhi … eccomi in Paradiso.
MAURO OLIVIERI

21 Tobbio Chiesetta tra neve e nubi

… E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fungendo al viver mio!
GIACOMO LEOPARDI

Insomma, se non riuscite a capire che vi è qualcosa nell’uomo che raccoglie la sfida lanciata da quella montagna e va ad affrontarla, che la lotta è la lotta della vita stessa verso l’alto, sempre più in alto, allora non capirete mai perché ci andiamo. Quello che otteniamo da un’avventura come questa è soltanto gioia pura. E la gioia, in fin dei conti, è il fine della vita. Non viviamo per mangiare e per far soldi. Mangiamo e facciamo soldi per godere della vita. Ed è questo il significato della vita ed è per questo che è fatta la vita.
GEORGE MALLORY

Il Tobbio è misura degli spazi dell’immaginario, diaframma tra i mondi nei quali sono cresciuto. Da ragazzino vivevo a Genova e il Tobbio era il luogo oltre il quale c’erano la campagna, i giochi sulla ghiaia con i cugini, le pentole fumanti della nonna. A sedici anni mi sono trasferito in cascina, ed era il Tobbio a nascondere la città con le sue luci, i “caruggi” strettissimi, l’università, le ragazze. Era allora la materializza­zione di uno spazio mentale capace di dividere le due realtà che, per diversi motivi, fuggivo ed anelavo confusamente, con un’incertezza determinata forse da quelle nuvole che così spesso annebbiano, con la cima del monte, anche i miei pensieri.
GIACOMO GOLA

Ho sempre pensato che una montagna non possa che essere splendidamente indifferente: ho sempre guardato alle credenze locali come a superstizioni da rispettare, e ho sempre cercato di fuggire alla tentazione di attribuire facoltà umane ad una montagna. Ma questa volta comincio a rendermi conto che nel rapporto fisico con una montagna molto dipendeva dalla disponibilità mentale.
PETER BOARDMAN

Salire la Montagna da soli procura sicuramente emozioni differenti dal farlo in compagnia. Anzitutto bisogna vincere la paura di non farcela che coglie coloro che, come me, non sono particolarmente allenati. Il Tobbio è una montagna imprevedibile, come ogni monte che si rispetti a volte ci spiazza con i suoi cambiamenti repentini. I sentieri che lo salgono sono impervi, impervi come quelli della vita. E l’amor proprio, l’orgoglio, quei fattori “propulsivi” che quando si sale con altri ci fanno tener duro, per non essere i primi a cedere, non servono a nulla. La decisione di mollare o proseguire spetta unicamente alla nostra volontà e testardaggine. La forza per vincere queste paure, gli stimoli per andare avanti quando le gambe tremano, si possono trovare solamente dentro, attingendo magari alla fantasia, immaginando avventure più o meno verosimili. Si può fingere di scalare montagne ardue e immense: oppure sfidare la tramontana come fosse un vento gelido del Polo Nord. O ancora, quando il sole cocente secca le labbra, possiamo trasferirci nel deserto cinese di Takla Makan.
Fantasie, che ci spingono avanti … avanti fino alla cima. Fino a guadagnare il “tetto del mondo”. (Insomma…!)
FABRIZIO RINALDI

Nelle montagne troverete il coraggio per sfidare i pericoli, ma vi imparerete pure la prudenza e la previdenza onde superarli con incolumità. Uomini impavidi vi farete, locché non vuol dire imprudenti ed imprevidenti. Ha gran valore un uomo che sa esporre la propria vita, e pure esponendola sa circondarsi di tutte le ragionevoli cautele.
QUINTINO SELLA

22 Tobbio Chiesa cielo azzurro e nubi

[…] la luna stava nuda nei cieli, ad altezza
immensa sopra la mia testa, e sulla sponda
mi trovai di un grande mare di nebbia,
che, mite e silenzioso, giaceva ai miei piedi.
Cento colline alzavano i dorsi oscuri
per tutto il quieto oceano; più oltre,
molto più oltre, i vapori balzavano,
con forme di capi, lingue, promontori,
entro il mare, il mare vero […]
WILLIAM WORDSWORTH

 Fluttuando al di sopra nelle nubi, materializzandosi fuori dalla nebbia, le montagne sembrano appartenere a un mondo totalmente differente da quello che conosciamo, facendoci percepire il sacro come l’assolutamente diverso.
EDWIN BERNBAUM

07 Tobbio Chiesetta

Le cose più degne di ammirazione sono quelle che non si possono esprimere, i ricordi indimenticabili non fanno esprimere epitaffi …”, così scriveva Herman Melville nel 1850, ripensando ai viaggi negli oceani effettuati per “scacciare la tristezza e regolare la circolazione”!
Quante volte, nella mente non estranea alla “dimensione sognante”, l’ansia di trasmettere emozioni vissute sulla propria pelle si risolve in un inutile affanno! Il pensiero sembra restare sospeso, come in un lampo magico che trascende parole scritte o dette. È questo il segnale più vivo, che dà la misura dei momenti magici. Come quelli che porti dentro da quando, come un vecchio mohicano incallito, lasci dietro le spalle percorsi frenetici e folli, costretti fra troppi “artifici” inutili e finti, per inseguire il richiamo antico e saggio che conduce alla “tua” Vetta. L’allusione iniziale apparirà, così, un po’ meno paradossale: in fondo, sono parole di chi ha saputo trovare il proprio “rifugio” personale – non importa poi tanto se fra gli orizzonti dei mari o fra i sassi di valichi e pendii. O, forse, volersi riprendere il giusto ritmo del tempo e dello spazio appartiene ormai soltanto al sogno? (il sogno è a due passi … ed esiste un linguaggio – proprio dei sogni che va al di là delle parole).
ENZO CAPELLO

La Montagna insegna il silenzio, la castità della parola e dell’espressione. Disabitua dalla chiacchiera, dalla parola inutile, dalle inutili, esuberanti effusioni. Essa semplifica ed interiorizza. Il segno, l’allusione sono qui più eloquenti di un lungo discorso.
JULIUS EVOLA

Fabrizio Bruzzone - Il Tobbio 100x105
Il Tobbio (Fabrizio Bruzzone)

Trovammo in una valletta del monte un vecchio pastore, che cercò di dissuaderci dal salire, narrandoci che cinquant’anni fa, preso dal medesimo nostro ardore giovanile, egli era salito sulla cima, e non ne aveva riportato che delusione e fatica … Mentre egli così si scalmanava, in noi – com’è nei giovani, restii ad ogni consiglio – cresceva per quel divieto il desiderio.
FRANCESCO PETRARCA

Salendo il Tobbio si ha una diversa percezione delle durate. Il tempo dell’ascesa e del ritorno non lo si quantifica nelle consuete ore d’auto, ma in inusuali ore di cammino. Così come leggere, camminare aiuta a prendere coscienza di una diversa scansione ed estensione temporale.
In un mondo nel quale è possibile sapere se in Cina, in questo preciso istante, fa caldo o freddo, il Tobbio esce dal computo. Lì il tempo si misura in passi, in soste per guardarsi attorno. Bisogna avere l’umiltà di rallentare la corsa. Chi sale sul Monte sa che trascorrerà del tempo prima che egli torni in valle, e questo tempo lo trascorrerà camminando, trascinato avanti solamente dalla sua volontà.
FABRIZIO RINALDI

Tobbio nelle nebbie da Grillano 01_11 _2012 01 3

Io sono un viandante, uno scalatore, disse egli al proprio cuore; io non amo le pianure e, a quanto pare, non posso starmene a lungo tranquillo.
E qualunque destino o esperienza mi tocchi, – in essi sarà sempre un peregrinare e un salire sulle montagne: alla fine non si esperimenta che se stessi.
FRIEDRICH NIETZSCHE

Secondo un mio vecchio chiodo l’alpinismo è cultura, è attività perfetta dell’uomo, dove l’uomo è uguale a Dio, perché è l’unica dove conoscere e fare sono una cosa sola.
MASSIMO MILA

Le montagne, l’aspetto eccelso e il più spettacolare del paesaggio naturale, possiedono lo straordinario potere di evocare il sacro. L’etereo sorgere di una cresta nella foschia, lo scintillio del chiarore lunare su una parete di ghiaccio, un bagliore dorato su una vetta lontana: questi istanti di trascendente bellezza possono rivelarci che il mondo in cui viviamo è un luogo di misteri e splendori inimmaginabili. Nella furiosa schermaglia degli elementi naturali che turbinano intorno alle loro vette – tuoni, folgori, venti e nubi – le montagne sono anche la personificazione di possenti forze ben al di fuori del nostro controllo, sono le espressioni fisiche di una realtà che ci può sopraffare con sentimenti di meraviglia e timore.
EDWIN BERNBAUM

Tobbio con nuvole

Se appartenessimo a culture diverse, lontane nello spazio e nel tempo, non avremmo osato violarne la cima: l’avremmo considerata sacra, abitata da divinità inaccessibili. Purtroppo (o per fortuna) il nostro atteggiamento dissacratorio nei confronti della natura, erede del cristianesimo e di Voltaire, fa sì che non esista più alcuna vetta vergine, alcun fazzoletto di terra sacro e inviolabile.
Proprio per questo, spenta ormai ogni sete di conquista e di record, possiamo riscoprire nell’ascesa al Tobbio, ai tanti Tobbio che esistono sulla terra, una dimensione diversa, più vera; possiamo cercare quella catarsi che il nostro tempo ci nega, e insieme ci impone.
Sono soprattutto i percorsi inventati sul momento, lungo le rughe del Tobbio, a farci scoprire dimensioni sempre nuove. Tra le asperità, le polle d’acqua sgorgano dal sottosuolo come da un impossibile fenomeno carsico, diventando talvolta tramite di involontari riti di purificazione. Poi, giunti alla vetta, è il vento ad accoglierci e a penetrarci: quel vento che, se ci volgiamo a sud, porta l’odore di salso che arriva dal mare.
FABIO MARCHELLI

I monti stanno immobili: ma noi, dove ci fermeremo?
FRIEDRICH HÖLDERLIN

Sali sulla montagna e cogline i doni. La pace della natura fluirà in te come il sole si infiltra tra gli alberi. Il vento ti infonderà tutta la sua freschezza, e la tempesta la sua energia, mentre gli assilli si staccheranno da te come foglie d’autunno.
JOHN MUYR

Basta un colle, una vetta, una costa. Che fosse un luogo solitario e che i tuoi occhi risalendolo si fermassero in cielo. L’incredibile spicco delle cose nell’aria oggi ancora tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati nel cielo, fossero dei fin dall’inizio.
CESARE PAVESE

Il Tobbio è un illusionista. Il suo fascino consiste nel far credere ciò che non è. La sua massa rocciosa, un po’ discosta dai “fratelli” dell’Appennino Ligure, illude sulla sua altezza. I suoi dirupi sono un miraggio di Alpi, la Chiesetta alla sua sommità poi da il tocco finale … In questi giochi d’immagini, non si finisce mai di conoscerlo.
DIEGO CARTASSEGNA

Il Tobbio - Francesco Pendibene
Il Tobbio (Francesco Pendibene)

 Il potere di una simile montagna è così grande eppure così sottile che gli uomini se ne sentono istintivamente attratti, da vicino e da lontano, come dalla forza di un’invisibile calamita; e saranno disposti a sopportare difficoltà e privazioni nel loro inesplicabile anelito di avvicinare il centro di quel sacro potere. Nessuno ha conferito tale sacralità a quella montagna, eppure tutti gliela riconoscono; nessuno deve difenderne la rivendicazione in quanto non c’è nessuno che ne dubiti; nessuno deve organizzarne il culto, perché chiunque si sente sopraffatto dalla mera presenza di una simile montagna e non è in grado di esprimere i propri sentimenti altro che con la venerazione.
GOVINDA

A chi ama cercare funghi, andare per more o semplicemente passeggiare per i nostri boschi, è sicuramente già capitato di smarrirsi, di perdere l’orientamento, anche per un solo istante.
In tale occasione ha alzato gli occhi dai suoi passi e ha cercato all’orizzonte l’inconfondibile profilo del Tobbio. È un gesto istintivo, non cerchiamo il Figne, il Tugello, la Colma, ma il Tobbio, proprio perché costituisce da sempre “il” punto di riferimento, perché sovrasta gli altri per imponenza e riconoscibilità. È lo Uluru dell’ovadese (Uluru è la definizione aborigena dell’Ayers Rock, in Australia, immenso monolite che i nativi considerano il tramite tra il mondo dei sogni e quello degli uomini).
Fin da bambini, quando col padre o col nonno ci si avventurava nei boschi, e invece di cercare funghi e raccogliere castagne, ci si perdeva nella scoperta dell’orizzonte, abbiamo fatto conoscenza con la Montagna, prima ancora che qualcuno ce ne dicesse il nome.
FABRIZIO RINALDI

Il Tobbio - Anselmo Carrea
Il Tobbio (Anselmo Carrea)


Appunti di geologia sul Monte Tobbio e dintorni

Vediamo di capire quali sono gli eventi geologici che nel corso di milioni e milioni di anni hanno interessato la zona su cui sorge oggi il Monte Tobbio.
La zona del Parco delle Capanne di Marcarolo, benché geograficamente sia inserita per intero nell’Appennino Ligure, geologicamente si trova nella zona di contatto tra le Alpi e l’Appennino. Proprio in quest’area, infatti, passa la linea Sestri-Voltaggio, che separa complessi rocciosi di tipo alpino, di cui il Tobbio fa parte, da rocce appartenenti alla zona appenninica. Il Monte Tobbio appartiene alla formazione alpina del Gruppo di Voltri, e più precisamente al gruppo Erro-Tobbio, che di questa formazione fa parte.
All’inizio del Triassico (225 milioni di anni fa), nella zona più o meno corrispondente alle attuali Liguria e Piemonte si estendeva un mare relativamente poco profondo, che si stava lentamente ampliando e approfondendo; favorite dalla profondità modesta delle acque e dal clima caldo di quel periodo si svilupparono scogliere analoghe a quelle delle attuali barriere coralline. Il graduale e progressivo sprofondamento dei bacini marini era dovuto alla separazione dell’antica crosta continentale in due blocchi divergenti che si muovevano in direzione opposta.
La separazione e l’allontanamento dei due blocchi, causati dai movimenti del Mantello (lo strato più denso, sul quale “galleggiano” le rocce più leggere della Crosta Continentale), era accompagnata dalla risalita di rocce profonde e di magmi dovuti a processi di fusione del mantello stesso. Le rocce che risalivano come frammenti solidi del mantello sono di natura prevalentemente lherzolitica, di cui troviamo esempi sul nostro Monte Tobbio.
Queste masse rocciose erano giunte a formare il pavimento di quello che era ormai un vero e proprio oceano, la cui larghezza massima al passaggio Giurassico-Cretaceo (150-120 milioni di anni fa) è stimata di circa 250-500 km. Possiamo immaginare una situazione simile a quella che si sta verificando nelle zone del Mar Rosso, che prelude all’apertura di un bacino oceanico.
All’inizio del Cretaceo superiore (160 milioni di anni) i blocchi continentali che si erano precedentemente separati invertirono la direzione del loro spostamento ed iniziarono un movimento che li avrebbe portati a collidere. Sotto l’azione compressiva dei blocchi continentali la crosta oceanica subì uno sprofondamento che la fece scorrere sotto la crosta continentale (subduzione). Durante lo sprofondamento le rocce subirono un lento progressivo riscaldamento (fino oltre 450° C), accompagnato da un rapido aumento della pressione (circa 10 Kbar, pari ad una profondità di 30 Km); le rocce vennero inoltre deformate dalle energiche spinte conseguenti al movimento dei blocchi. Con il procedere delle fasi orogenetiche anche le rocce subdotte a grandi profondità vennero coinvolte nelle fasi di ripiegamento e sollevamento che portarono alla formazione delle catene alpine, di cui il Gruppo di Voltri fa parte.
L’unità Erro-Tobbio risulta quindi costituita quasi esclusivamente da peridotiti tettoniche. Le rocce peridotitiche di questa unità sono non di rado profondamente serpentinizzate ed interessate da eventi deformativi. Sul Monte Tobbio e nei suoi dintorni possiamo trovare esempi di queste rocce sotto forma di lherzoliti.
A partire dall’Eocene superiore (circa 40 milioni di anni) le rocce coinvolte nelle complesse vicende tettoniche e metamorfiche sopra descritte affiorarono a costituire terre emerse.
Con l’Oligocene inferiore (circa 35 milioni di anni) il mare iniziò ad avanzare sulle terre emerse per formare un bacino che corrispondeva in gran parte all’attuale versante padano, mentre verso l’attuale versante tirrenico predominavano le terre emerse.
Quindi, immaginando ipoteticamente di trovarci sulla cima del Tobbio circa 30 milioni di anni fa, con lo sguardo rivolto verso Nord, dove oggi vediamo la pianura avremmo ammirato il mare.
Gli eventi tettonici sopra descritti hanno generato le rocce che oggi costituiscono il Tobbio. Queste rocce, avendo subito intensi processi deformativi, risultano intensamente fratturate, e tale frantumazione la possiamo sperimentare quando, accingendoci a brevi arrampicate sulle sue asperità, ci troviamo spesso di fronte al venir meno di appigli che poco prima avevamo creduto sicuri.
Fabio Marchelli

Tobbio aaa

Gli ambienti

Le nostre montagne e le nostre valli dovevano apparire, al viaggiatore che le avesse attraversate secoli orsono, magari in epoca pre-romana, certamente molto diverse da come noi, oggi, le vediamo. Cerchiamo di immaginare una vastissima foresta che ricopra gran parte dell’Europa, un bosco immenso che colleghi il Mare del Nord con le tiepide acque del Mediterraneo, non conoscendo altri ostacoli al di fuori di quelle zone – al di sopra di una certa altitudine – in cui le condizioni ambientali fossero troppo difficili per permettere la vita degli alberi. Niente città, solo minuscoli villaggi di poche case, campi coltivati più simili a piccoli orti che alle estese coltivazioni cui oggi siamo abituati. Un viandante che fosse passato nei pressi del Monte Tobbio, avrebbe dovuto attraversare l’esteso bosco di rovere che ne ricopriva le pendici, sfumando a faggio solo nelle zone più alte e ad esposizione più fresca del monte, e ad altre essenze – orniello, ciliegio, olmo, farnia – man mano che ci si avvicinava alla pianura: forse avrebbe ricevuto ospitalità presso qualche cascina, probabilmente avrebbe incontrato il lupo, l’orso, la lontra, la lince o il cervo. Tale situazione non si è protratta a lungo. In ragione dell’aumento della popolazione umana, è stato giocoforza nel corso dei secoli cercare nuovi spazi da colonizzare, ove aprire radure, coltivare, costruire villaggi, permettere il pascolo agli animali domestici. Il bosco assunse al contempo un’importanza fondamentale: da esso l’uomo ricavava nutrimento, legname per costruire le case, per riscaldarsi, strame per il bestiame. L’introduzione del castagno, avvenuta presumibilmente in età romana, rappresentò un momento cruciale, divenendo ben presto tale pianta il fulcro stesso dell’economia rurale. Più tardi le esigenze di Genova, potenza navale che veniva proprio in queste zone a rifornirsi di legname per costruire la propria flotta, e delle nascenti attività protoindustriali – ferriere e vetrerie – dei fondovalle, contribuirono non poco all’impoverimento definitivo della risorsa “bosco” locale.
All’inizio del XX secolo questi luoghi appaiono profondamente diversi da come li avevamo conosciuti all’inizio del nostro viaggio. Ampi pascoli e zone brulle si sono sostituiti alla foresta ed il bosco, ove è riuscito a sopravvivere, è ridotto ad un insieme deperiente di alberi ceduati per fornire legna da ardere, spesso tagliati ad intervalli troppo brevi. La minaccia del dissesto idrogeologico, più che mai concreta, suggerisce di tentare di ricostruire la copertura boschiva perduta: ecco iniziare le opere di rimboschimento, che, a partire dai primi anni del secolo, ricoprono intere pendici dei monti con specie del tutto estranee alla nostra realtà, quali il pino nero ed il pino marittimo.
Il resto è storia dei nostri giorni: tutti abbiamo sentito parlare di spopolamento dei monti, di abbandono delle attività agricole; del dissesto idrogeologico del nostro territorio abbiamo invece menzione solo in occasione di qualche alluvione…

Tobbio da Moglioni - Fabri

La realtà attuale

Come già sottolineato, gli ambienti che il monte sa offrire al suo visitatore appaiono profondamente segnati dall’impronta dell’uomo. La cessazione – ormai da qualche decina di anni – di ogni attività antropica permette peraltro la continua evoluzione degli ecosistemi che, spontaneamente, tendono a rinaturalizzarsi, a divenire cioè ecologicamente stabili, con un processo che dura diverse decine di anni.
Il principale fautore di tali trasformazioni è il cosiddetto “bosco pioniero”, formato cioè da alcune specie di alberi ed arbusti che, per primi, in virtù delle proprie ristrette esigenze ecologiche, riescono ad occupare un terreno. Ricordiamo, tra tali specie, il sorbo montano (Sorbus aria), per queste zone di estrema importanza e diffusione e la frangola (Frangula alnus).
Tale bosco costituisce il presupposto per l’insediamento di un’altra formazione, detta “climax”, che risulta la più stabile ed equilibrata in rapporto alle potenzialità del sito. Essa è, di fatto, un ecosistema in grado di perpetuarsi e continuamente rigenerarsi all’infinito, caratterizzato, in genere, da un’elevata biodiversità, da un gran numero cioè di specie animali e vegetali, tra le quali assume predominanza, per queste zone, la già citata rovere (Quercus petraea). Relativamente al Monte Tobbio, tale essenza ne ricopre le pendici occidentali, ove è presente in boschi un tempo ceduati ed ora non più tagliati, ove, di fatto, è in via di conversione naturale alla fustaia.
Inoltriamoci ora nella pineta che ricopre la porzione orientale del versante nord del monte. Come ricorderemo, l’origine di tale bosco è artificiale, essendo il frutto di rimboschimenti effettuati in prevalenza con essenze – pino marittimo (Pinus pinaster) e pino nero (Pinus nigra) – da noi estranee. Non mancheremo di notare come tale formazione forestale, apparentemente in buone condizioni, in realtà non riesca a riprodursi, a dar vita ed avvenire cioè ad un numero sufficiente di nuove piantine che possano rimpiazzare quelle mature, man mano che queste moriranno. Comprenderemo facilmente che tale bosco non può avere avvenire e che il suo destino è, da qui a qualche decina di anni, segnato; ammiriamo però l’avanzata del bosco pioniero, che, in talune zone, tende ad occupare gli spazi disponibili.
Così come per la pineta, anche l’origine delle zone aperte che ammantano le pendici più alte del monte, è da far risalire alla mano dell’uomo. Nel passato, la necessità di terreni ove far pascolare il bestiame e di legname ha portato infatti alla creazione di radure e pascoli sempre più ampi. Ora non più pascolati, tali terreni tendono ad essere invasi da essenze pioniere, costituite in una prima fase da rose e rovi, poi da arbusti più consistenti, sorbo, frangola, spinocervino. Se lasciata a se stessa, tale evoluzione porterà, anche se in tempi piuttosto lunghi, alla ricostituzione del bosco climax, cioè della fustaia di rovere.
Di grandissima importanza fu, in passato, la presenza del castagno (Castanea sativa), il quale rappresentò per il sapere contadino una fonte inesauribile di risorse: castagne, legname, fogliame, tutto era utilizzato dai nostri avi. Tale essenza era governata prevalentemente a fustaia, costituita da alberi innestati con varietà di gran pregio alimentare, che raggiungevano negli anni dimensioni monumentali. Alcune epidemie funginee cui possiamo attribuire vere e proprie stragi, ridussero nel corso del nostro secolo in modo drastico le estensioni a castagno da frutto e consigliarono la conversione degli alberi al ceduo, più resistente alle malattie. Questa storia può essere facilmente letta nella zona circostante le cascine Nespolo e Tobbio, ove ai resti di antichi castagni da frutto, ora simili a familiari fantasmi, si affiancano estese zone a ceduo, di futuro davvero incerto.

Tobbio Fauna 1

Fauna

27 Biancone

Tra gli animali che vivono in montagna, i grossi mammiferi come il capriolo, la volpe ed il cinghiale, per sfuggire alla persecuzione che da secoli l’uomo esercita nei loro confronti, si sono adattati ad una vita seminotturna. Per questo motivo, quando si fanno delle camminate, si potranno trovare impronte lasciate sul terreno, giacigli di riposo e resti di pasti, ma difficilmente si avrà la fortuna di incontrare una di queste specie selvatiche. Gli uccelli, invece, possono essere osservati con più facilità, e spesso, grazie al canto, possono essere individuati anche dai meno esperti. Si è pensato allora di presentare quelle specie che, con un po’ di attenzione, si possono con buone probabilità incontrare durante un’ascesa al Tobbio.
Il prispolone (Anthus trivialis) è un piccolo uccelletto dalle dimensioni di un passero, che trova l’ambiente di elezione nelle zone aperte con alberi radi. Ha un piumaggio marrone chiaro sul dorso e biancastro punteggiato nelle parti inferiori. Il nido viene costruito sul terreno intrecciando sottili erbe. Passa l’inverno al di là del Mediterraneo e torna in Europa per nidificare a primavera inoltrata. Il suo arrivo è segnalato dalle manifestazioni amorose che compie sin dai primi giorni. Canta prima dalla cima di un albero per qualche secondo, poi si alza in volo di alcuni metri, sempre cantando, ed infine si lascia cadere verso il terreno con le ali e la coda spiegate a mò di paracadute, emettendo dei ripetuti fischi acuti “… fiu … fiu … fiu …”.
La cincia dal ciuffo (Parus cristatus) è un grazioso uccello di piccole dimensioni che deve il suo nome alle caratteristiche penne rialzate del capo. Ha un mantello grigio-marrone sul dorso e più chiaro nelle parti inferiori. È legata in modo particolare ai pini, ed a seguito dei rimboschimenti che sono stati fatti sull’Appennino con questa essenza arborea, ha ampliato il suo areale anche al di fuori dell’arco alpino. Non essendo migratrice può essere osservata anche in inverno. È gregaria e nidifica sui rami degli alberi nei quali può essere individuata grazie al richiamo che emette in modo ripetitivo “… crrr … crr …”.
Il luì bianco (Phylloscopus bonellii) è un piccolissimo uccello del peso di pochi grammi e dal caratteristico ventre che alla luce diretta del sole appare chiarissimo. Nelle giornate di maggio può essere osservato mentre è intento a cantare dalla cima di un pino.
Il codirossone (Monticola saxatilis) è un coloratissimo uccello delle dimensioni di un merlo. Per evitare i rigori dell’inverno migra in Africa, al pari della gran parte dell’avifauna che nidifica nell’Appennino. È ormai diventato molto raro e il Tobbio è uno degli ultimi suoi rifugi. Il maschio ha una livrea rosso-blu molto intensa. Vive nelle zone rocciose nelle quali, sul terreno, depone il nido. Ha un canto flautato molto particolare, simile a quello dell’affine passero solitario.
La tottavilla (Lullula arborea) è una specie strettamente imparentata con l’allodola con la quale può essere confusa, essendo di aspetto molto simile e condividendo con essa gli stessi ambienti aperti. Il canto, costituito da una cascata di melodiose frasi “… lulu … lulu …”, permette di distinguerla con certezza. Viene emesso durante i voli che compie al di sopra del territorio di nidificazione, e a volte canta da tanto in alto da non consentire all’occhio umano di individuarla.
Il biancone (Circætus gallicus) è un grosso uccello da preda (l’apertura alare della femmina può arrivare fino a 180 cm.), specializzato nella cattura dei rettili, ed in particolar modo, dei serpenti. Pratica una particolare tecnica di caccia detta “spirito santo”, che consiste nel perlustrare da una posizione immobile a mezz’aria, il terreno sottostante. Da marzo a settembre, i versanti aperti del Tobbio, sono spesso frequentati da questo eccezionale predatore che giunge dall’Africa dove trascorre l’inverno.
Il gheppio (Falco tinnunculus) è un piccolo falco (spesso viene indicato col nome di falchetto comune) che non supera gli 80 cm. di apertura alare. Come il biancone è un rapace, anche se non così specializzato. Si ciba infatti di piccoli mammiferi ed insetti che cattura sul terreno. Nidifica nelle zone rocciose in una cavità. È molto frequente durante tutto l’anno.

Flora

29 Astro alpino

Il Monte Tobbio è uno dei luoghi del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo ove, per ragioni legate alla natura delle rocce e dei suoli (quindi del tipo di substrato sul quale si trovano a dover crescere i vegetali) e delle particolari condizioni climatiche che lo interessano, si sono da tempo concentrate le attenzioni di quei botanici che hanno fatto di queste zone appenniniche il loro campo di studi. Una trattazione sistematica delle specie vegetali che s’inerpicano sulle falde di questa massiccia piramide montuosa risulterebbe, tuttavia, alquanto noiosa e specialistica, risolvendosi in un lungo elenco floristico. Si è scelto perciò di illustrare le caratteristiche di alcune specie fiorifere particolarmente belle e facilmente visibili all’escursionista che si avventurasse per questi sentieri, munito di macchina fotografica per catturarne l’immagine o semplicemente animato dal desiderio di godere di scorci “fioriti” di grande impatto emotivo.
Le specie descritte sono tutelate dalla L.R. n. 32 del 2 novembre 1982, che ne vieta la raccolta, la detenzione ed il danneggiamento, e godono anche del regime di protezione che interessa tutte le specie vegetali, senza eccezioni, derivante dall’istituzione del Parco (L.R. n.52 del 31 agosto 1979). Al di là degli aspetti normativi, tuttavia, sembra quasi superfluo ricordare che il semplice rispetto per gli ambienti naturali che si visitano e per i viventi che li popolano dovrebbe già costituire un freno sufficientemente forte alla raccolta di erbe e fiori. Forse un piccolo, innocente mazzolino, può non apparire come un danno, ma bisogna sempre pensare che non siamo soli e provare a moltiplicare il mazzolino per il numero dei visitatori (e sono tanti!) che potrebbero essere tentati di imitarci.
L’astro alpino (Aster alpinus L.) è una pianta perenne erbacea, appartenente alla famiglia delle Composite, alta 6-15 cm, che caratterizza con la sua fioritura assai vistosa i pascoli alpini e le zone sassose montane. I fusti sono striscianti e legnosi, terminanti in rosetta, gli scapi (i “gambi” del fiore) ascendenti sono leggermente pelosi, così come, ma più fittamente, sono pelose le foglie basali, di forma lanceolata-spatolata. Ogni scapo porta un fiore chiamato, in termini botanici, capolino e costituente, in realtà, un’infiorescenza, cioè un insieme di più fiori. In questo caso si parla di fiori ligulati (a forma di linguetta dentata all’estremità), disposti esternamente e di colore violetto, e di fiori tubulosi (a forma di piccolo tubicino), di colore giallo-aranciato, disposti al centro del capolino, a formare una sorta di morbido cuscinetto dorato. Ne risulta un singolare contrasto di colori. Di particolare pregio, dal punto di vista estetico, risultano individui dallo scapo ramificato, con 2-5 capolini, nei quali il botanico Brügger credette di identificare una nuova specie; si tratta, in realtà, dell’effetto della variabilità casuale nella morfologia di una stessa specie, così come tra gli esseri umani, ad esempio, variano il colore dei capelli o la statura.
Sul Monte Tobbio si verifica una condizione molto particolare, comune anche ad altre piante di ambito alpino che vegetano nel territorio del Parco: l’abbassamento della quota minima alla quale è possibile rinvenire esemplari di questa specie, dai 1.500 m. mediamente riscontrati in Italia agli 800 m.
La dafne o cneoro (Daphne cneorum L.) è chiamata anche Dafne odorosa, a cagione dell’intenso e dolcissimo profumo che emanano i suoi piccoli fiori, avvertibile anche ad alcuni metri di distanza dalla pianta. Questo è il motivo per il quale, purtroppo, questo grazioso arbusto è stato oggetto di intense raccolte a scopo commerciale e della sua progressiva rarefazione, che ne ha motivato l’inclusione nella lista delle specie a protezione assoluta. La famiglia alla quale questa specie appartiene, quella delle Timeleacee, è caratterizzata dal fatto che i suoi fiori vengono impollinati esclusivamente ad opera delle farfalle. Si presenta come un arbusto dal portamento strisciante, alto 10-20 cm, con getti giovani resi vellutati da una morbida peluria e getti vecchi dalla corteccia bruna. Le foglie sono lineari, a forma di spatola, con una nervatura centrale molto evidente, coriacee; i fiori, profumatissimi, sono di colore rosso-porporino e crescono riuniti in fascetti di 8-12. La diffusione di questa specie riguarda le pinete ed i pendii aridi delle zone montuose dell’Italia settentrionale, molto raramente la si rinviene anche in pianura. Come serpentinofita preferenziale (cioè come specie ben adattata ai substrati costituiti da rocce serpentinose) risulta perfettamente “a suo agio” sui ripidi ed erosi pendii del Monte Tobbio.

Tobbio 1974 (pastello su carta) di Pietro Jannon 06_09 _2013 09 bis
Il Tobbio (Piero Jannon)

Qualche proposta per camminare

La sommità del Monte Tobbio è raggiungibile percorrendo 4 diversi itinerari, tutti a carattere escursionistico. Solo alcuni degli itinerari proposti sono stati segnalati a cura del F.I.E. con segnavia geometrici di colore giallo; nel corso del 1996, il Parco Naturale si farà carico del completamento della segnaletica. Ricordiamo ancora la possibilità di acquistare la cartina 1:25.000 ed il libro “Il Parco Naturale Capanne di Marcarolo”, editi dallo S.C.I. di Genova.

… dal Valico Eremiti

Due percorsi tra quelli presentati partono dal Valico Eremiti, posto alla quota di m. 559 s.l.m. ed importante crocevia tra la valle del Rio Eremiti, che scende verso il Gorzente e quella del Rio Morsone, che invece va ad immettersi nel Lemme, nei pressi di Voltaggio. Al valico è presente una piccola Chiesetta edificata nel XIX secolo e vi è limitata possibilità di parcheggio (occorre spesso, nelle giornate affollate, posteggiare lungo la strada).
La località è raggiungibile, con auto privata, da:

  • Voltaggio, seguendo la S.P.166 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 5,2 da Voltaggio);
  • Bosio, seguendo dapprima la S.P.170 in direzione Mornese/Lerma ed arrivati al bivio, immettendosi sulla S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 11,1 da Bosio);
  • Lerma, seguendo la S.P. 170 in direzione Bosio e, oltrepassata Mornese, imboccando la S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 16,0 da Lerma);
  • Capanne di Marcarolo, seguendo la S.P. 165 in direzione Bosio (Km 10,8 da Capanne di M.).

Itinerario A1: Valico Eremiti / P.sso Dagliola
Segnavia: al momento inesistente, in futuro tratto e 2 punti
Quota partenza: Valico Eremiti, m. 559 s.l.m.
Quota arrivo: P.sso Dagliola, m. 856 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 297 m.
Principali toponimi toccati: Valico Eremiti, Passo della Dagliola
Caratteristiche: itinerario molto frequentato; si svolge su mulattiera piuttosto rovinata dall’erosione, a pendenza sempre modesta. È sicuramente consigliabile per gli scorci paesaggistici sulle valli circostanti e sulla pianura alessandrina; dal passo è consigliabile proseguire, con il sentiero percorso dagli itinerari A2 ed L1, fino alla cima del Monte Tobbio.
Descrizione dell’itinerario: da località Valico Eremiti, si segue la vecchia pista forestale, ora mulattiera, che parte a sinistra della Chiesetta; dopo il primo tornante, il sentiero si unisce, per un tratto di 50 m. circa, con l’itinerario A2, con relativo segnavia. Tralasciato il percorso A2, che prosegue sulla destra, si continua lungo il sen­tiero, a tratti decisamente sconnesso, che si inerpica, con larghi tornanti, sul versante settentrionale del Monte Tobbio sino ad incrociare l’itinerario L1 proveniente da Voltaggio (m. 740 s.l.m. – 0 h 25’ dalla partenza) con il quale si unisce.
Ancora qualche tratto in salita e, con un ultimo lungo traverso, si perviene al Passo della Dagliola (m. 856 s.l.m. – 0 h 45’ dalla partenza), ampia insellatura erbosa tra la valle del Rio Lavezze ed i bacini del Rio Vergone / Gorzente.
Discesa: La discesa può avvenire lungo l’itinerario A1 di salita (0 h 40’ dal passo al Valico Eremiti), oppure, dalla cima del Tobbio, lungo l’itinerario A2

Itinerario A2: Valico Eremiti / Monte Tobbio
Segnavia: cerchio sbarrato giallo
Quota partenza: Valico Eremiti, m. 559 s.l.m.
Quota arrivo: Monte Tobbio, m. 1092 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 533 m.
Principali toponimi toccati: Valico Eremiti, Monte Tobbio
Caratteristiche: l’itinerario si svolge sull’ampio e severo versante settentrionale del Monte Tobbio attraversando, sempre con larghi tornanti, dapprima l’estesa pineta a pino nero e marittimo ed in seguito aspre zone di prateria intervallate da balze rocciose.
Descrizione dell’itinerario: dalla cappelletta del Valico Eremiti, seguire il sentiero di destra (guardando la costruzione) il quale, dopo un amplissimo tornante, va a congiungersi per un tratto di circa 50 m. con l’itinerario A1. Tralasciatolo sulla sinistra, il sentiero si inerpica sul versante nord del monte, attraversando la pineta. Verso gli 800 m. di quota la vegetazione arborea tende a cedere il passo ai pascoli ed alle zone rocciose che rendono, in questo tratto, l’ambiente quanto mai suggestivo. Con un ultimo traverso verso est, l’itinerario si congiunge alfine con il sentiero percorso dall’itinerario L1, che congiunge il Passo della Dagliola con la cima del Tobbio (m. 985 s.l.m. – 1 h 20’ dalla partenza). Seguendolo si perviene, con ancora qualche tornante, sulla cima del monte (m. 1092 s.l.m. – 1 h 35’ dalla partenza).
Discesa: si può discendere lungo il medesimo itinerario (1 h 10’ dalla cima alla cappelletta del Valico Eremiti), oppure seguire l’itinerario L1 fino al Passo della Dagliola e, da qui, scendere per l’itinerario A1.

La Direttissima
La via più breve alla vetta, non segnalata ma decisamente segnata dalla costante frequentazione, cavalca il costolone che si diparte da nord-nord est, e che può essere guadagnato salendo in verticale dalla cappelletta degli Eremiti. È la via preferita da chi sale in assetto sportivo (tempi di percorrenza da 35’ a 50’), ma anche, decisamente, la più dura.

… dal Ponte Nespolo

Un altro interessante itinerario si diparte dal Ponte Nespolo, posto sulla S.P. 165 al suo incrocio con il torrente Gorzente, ad una quota di m. 488 s.l.m. Luogo estremamente frequentato durante il periodo estivo dai numerosi bagnanti, ritrova la propria dimensione “naturale” da metà settembre fino a giugno. Nelle immediate vicinanze non sono disponibili parcheggi: occorre pertanto posteggiare lungo la strada (facendo attenzione ai divieti di sosta presenti) oppure usufruire dei parcheggi posti in prossimità della Casc. Merigo, ad una distanza di Km 1,9. La località è raggiungibile, con auto privata, da:

  • Voltaggio, seguendo dapprima la S.P. 166 fino al Valico Eremiti, poi la S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 10,1 da Voltaggio);
  • Bosio, seguendo la S.P. 170 in direzione Mornese/Lerma, poi immettendosi sulla S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo; oltrepassare il Valico Eremiti e, con una lunga serie di curve, pervenire alla località (Km 16 da Bosio);
  • Lerma, seguendo la S.P. 170 in direzione Bosio e, oltrepassata Mornese, immettendosi sulla S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo, in comune con il percorso da Bosio (Km 20,9 da Lerma);
  • Capanne di Marcarolo, seguendo la S.P. 165 in direzione Bosio (Km 5,9 da Capanne di M.).

Itinerario B1: Ponte Nespolo / Casc. Nespolo / P.sso Dagliola
Segnavia: 2 rombi pieni gialli
Quota partenza: Ponte Nespolo, m. 507 s.l.m.
Quota arrivo: Passo della Dagliola, m. 856 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 351 m.
Principali toponimi toccati: Ponte Nespolo, Casc. Nespolo, Casc. Tobbio, Passo della Dagliola
Caratteristiche: itinerario completamente esposto a meridione, dunque sconsigliabile nel periodo estivo. Se percorso in inverno, esso risulta al contrario gradevolissimo. Dal passo è consigliabile proseguire, con il sentiero percorso dagli itinerari A2 ed L1, fino alla cima del Monte Tobbio.
Descrizione dell’itinerario: da Ponte Nespolo traversare il Gorzente e risalire lungo la S.P. 165; percorse poche decine di metri dal ponte, girare sulla destra per accedere alla piccola area attrezzata. Traversata l’area, salire lungo il costolone del monte, accedendo allo sterrato che conduce alla Casc. Nespolo (m. 625 s.l.m. – 0 h 30’ dalla partenza). Passare a sinistra della cascina, ammirando i suggestivi resti dei castagni secolari, e, arrivati ad un bivio, tralasciare il sentiero che si inoltra in piano, per inerpicarsi a sinistra nel casta-gneto. Arrivati ai resti della Casc. Tobbio (m. 685 s.l.m. – 0 h 40’ dalla partenza), la si lascia sulla destra e si esce poco dopo dal bosco. Da qui, la vista si apre improvvisamente sull’alta Valle del Gorzente e sul Monte Figne. Con percorso in leggera salita, traversare lungamente il versante sud-est del Monte Tobbio e pervenire, infine, al Passo della Dagliola (m. 856 s.l.m. – 1 h 15’ dalla partenza).
Discesa: dal passo, riprendere l’itinerario si salita che, in 1h 05’ riporta al Ponte Nespolo.

… da Voltaggio

L’ultima delle proposte parte da Voltaggio, importante centro della Val Lemme, posto ad una quota di m. 353 s.l.m. e raggiungibile sia con auto privata, che con mezzi pubblici, con partenze da Novi Ligure o Busalla, entrambe servite da linee ferroviarie.
Il punto di partenza dell’itinerario è posto in Piazza Garibaldi.

Itinerario L1: Voltaggio / Monte Tobbio
Segnavia: triangolo pieno giallo
Quota partenza: Voltaggio, m. 353 s.l.m.
Quota arrivo: Monte Tobbio, m. 1092 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 739 m.
Principali toponimi toccati: Voltaggio, Bric Brughé, Costa Cravara, Passo della Dagliola, Monte Tobbio
Caratteristiche: percorso particolare, che si diparte dalla piazza di Voltaggio per inoltrarsi, man mano, in zone meno affollate e sempre più selvagge. Molto belli, nella parte alta dell’itinerario, gli scorci che si godono sui valloni del Rio Lavezze e del Rio Morsone.
Descrizione dell’itinerario: da Piazza Garibaldi seguire in direzione sud per circa 350 m. Via S. Giambattista de Rossi e Via C. Anfosso, sino a raggiungere la Chiesetta, in corrispondenza di Piazza De Ferrari. Davanti alla Chiesetta, svoltare a destra e proseguire sulla stradina asfaltata fino a Villino Stagno: qui a destra si imbocca il sen­tiero, all’inizio alquanto ripido. Dopo poche decine di metri si perviene ad un bivio e si segue il sentiero che, sulla destra, va ad attraversare il bosco misto, con pendenza costante. Si raggiunge in breve una strada sterrata sulla quale è collocato un percorso ginnico (m. 445 s.l.m. – 20’ dalla partenza), che segue la strada in costante salita, per un tratto costeggiando una recinzione. Trascurata una prima diramazione sulla sinistra, si prosegue dritti e, ora con tratti in piano, si attraversa il versante settentrionale del Bric Brughé. Sulla sinistra, una radura indica il luogo ove è sita Cascina. Colletta, ora abbandonata; qui ha termine la strada sterrata e si dipartono due sen­tieri (m. 580 s.l.m. – 45’ dalla partenza). Trascurare quello sulla destra e continuare diritti, seguendo il tracciato che riprende ora a salire, mantenendosi sul versante meridionale della costa, pochi metri sotto la cresta. Un breve tratto in piano permette di raggiungere il confine del Parco (m. 635 s.l.m. – 1 h dalla partenza), lungo il quale si proseguirà ora per un buon tratto. Una breve discesa permette di avvicinarsi al Pulpito del Diavolo, caratteristica formazione rocciosa davvero severa. Sempre continuando a costeggiare il confine del Parco, il sentiero corre lungo la Costa Cravara, mantenendosi perlopiù sul suo versante settentrionale, alternando tratti in salita ad altri pressoché piani. Ancora un tratto sul filo dell’ampia cresta e si giunge al punto di unione con l’itinerario A1, proveniente dal Valico Eremiti (m. 740 s.l.m. – 1 h 35’ dalla partenza); lungo questo si prosegue fino al Passo della Dagliola, che si raggiunge con ancora qualche tratto in salita (m. 856 s.l.m. – 1 h 55’ dalla partenza). Dall’insellatura del passo l’itinerario prosegue effettuando un lungo traverso in direzione nord, fino a raggiungere il punto di unione con il sentiero A2. Da qui, ancora qualche ampio tornante permette di raggiungere la sommità del Monte Tobbio (m. 1092 s.l.m. – 2 h 30’ dalla partenza).
Discesa: il ritorno segue il percorso di salita, in circa 2 ore.
I Guardiaparco Giacomo Gola, Giampaolo Palladino, Cristina Rossi

Il vento del Tobbio

Alessio Franzone è il partigiano “Arrigo”, ma anche – e nello stesso tempo – il cacciatore, il gran camminatore, colui che ha ben presente in sé, per esperienza diretta, la puntuale geografia del territorio dell’Oltregiogo su cui va organizzandosi, all’indomani dell’8 settembre 1943, il movimento di Liberazione. È così che il libro di Arrigo ci restituisce, accanto a una serie di importanti avvenimenti legati alla lotta partigiana, il quadro di un ambiente che egli ama e conosce come pochi altri. Con lui si percorrono fiumi e ruscelli, boschi e sentieri pieni di vita e di bellezza.
Ciò che forse risulta straordinario per un libro di memorie della Resistenza è che l’orrore di quegli accadimenti, inevitabili e presenti in tutte le pagine, non riesce tuttavia a prevalere sul forte senso di vita e speranza che Arrigo probabilmente trae, anche nei momenti più drammatici, dal profondo rapporto con questi monti.
Gli eventi della lotta partigiana che hanno per teatro l’area circostante al Tobbio sono tristemente noti. La Benedicta con i suoi giovani trucidati dai nazisti e i molti deportati è la tragica testimonianza del prezzo pagato alla lotta di Liberazione.
Una eco angosciosa di quei giorni si reperisce tra le carte che riguardano la Cappelletta del Tobbio. Colpisce l’espressione usata in una lettera della Curia genovese al parroco di Voltaggio, per riferirsi al drammatico evento appena compiuto. La data è quella del 17 aprile 1944, pochissimi giorni dopo la strage: “… in seguito agli ultimi avvenimenti dato lo stato miserando della cappella [si dispone] […] che la festa, solita a farsi nella Cappella del Monte Tobbio, sia quest’anno sospesa”.
Eugenia Fera e Massimo Angelini

Claudio Balostro, giovane scrittore nativo di Arquata Scrivia. La sua memoria non è più quella del testimone diretto ma è filtrata dalle immagini dei parenti più prossimi. Uno zio, “lo zio G.”, è un sopravvissuto della Benedicta il cui nome di battaglia è proprio quello di “Tobbio”: «Rimanemmo lì a combattere, fino alla fine. Mi chiesero un nome di battaglia, perché venivo dal Tobbio dissi quello. Mi piacque, perché è grande e asciutto, duro e ardente d’estate, bianco e soffice di neve d’inverno. Dissi quello e c’è ancora in giro chi mi chiama così», da Lo strano dell’idea di cavalli, romanzo inedito.
Alessio Franzone

Il piccolo santuario sul Tobbio in onore della B.V. di Caravaggio

Così recita il titolo dell’opuscolo stampato nel 1917 in “San Pier D’Arena”, presso la scuola tipografica Don Bosco, a cura del sacerdote Ernesto Pitto, già Prevosto di San Remigio di Parodi e membro dell’amministrazione dello stesso santuario.
Il volumetto è stato ristampato in anastatica nel 1988 dall’Associazione “Amici del Tobbio”, in occasione dei centodieci anni di ricorrenza della “prima idea di erigere un tempio mariano sull’alto e impervio monte”.
Il Pitto è noto autore di diversi volumi dedicati alla storia dei santuari liguri, compilati secondo un modello di storiografia didascalica tardo-ottocentesca, in cui la storia diventa pretesto per celebrare la devozione di coloro che si sono adoperati per l’erezione dei santuari e per stimolare i fedeli a continuare a mantenere in vita l’opera dei predecessori.

4 settembre 1899: inaugurazione della Cappella sul Tobbio in onore della N.S. di Caravaggio

Secondo l’autore, l’idea del santuario del Tobbio ha origine nel 1878 quando un sacerdote di Mornese, don Rocco Mazzarello, in occasione di una visita a Spessa Parodi (attuale comune di Bosio) propone l’impresa ad alcuni conoscenti, senza però riceverne la sperata adesione.

Solo diciotto anni, dopo la medesima proposta, ripetuta ancora da don Mazzarello nello stesso luogo, riceve la fattiva adesione di “Lombardo Giovanni della villa di Spessa di condizione contadino” che proprio nel 1896 comincia a raccogliere fondi per la realizzazione dell’impresa.

In undici mesi di lavoro veniva ultimata la strada carrabile aperta per collegare la località Eremiti alla cima del Tobbio: “trovati operai fra i quali molti gratuitamente […] e non furono soltanto i buoni figli di S. Pietro e Marziano (Parrocchia di Spessa Parodi) a prestare l’opera loro gratuita, ma anche parecchi delle Capanne e di Voltaggio”.
Nel 1897 cominciano i lavori per la costruzione della cappella inaugurata il 4 settembre 1899, il giorno seguente il trasporto della statua di N. S. di Caravaggio a cui sarà dedicata: “… malgrado il cattivo tempo si fece festa per tre giorni consecutivi con un crescendo consolante di divoti pellegrini, e con entusiasmo indescrivibile”.

Cappella con attiguo rifugio, di cui ora rimangono solo i riduri

La cappella sarà “soggetta alla giurisdizione del M. R. Parroco pro-tempore dei SS. Pietro e Marziano di Spessa Parodi”, ma verrà amministrata dall’arciprete di Gavi, dai parroci di Voltaggio e di Capanne di Marcarolo, dal prevosto di S. Remigio di Parodi e del “Sig. Lombardo Giovanni di Spessa Parodi”. Nel 1909 si decide di ingrandire l’edificio della cappella poiché essa “risultò subito insufficiente al bisogno perché numerosi erano i pellegrini che nella solennità si portavano sull’alta vetta, ma pochi tutto al più una cinquantina potevano stare nella Cappella [che ora] […] è capace di contenere oltre trecento persone, è provvista di sacrestia, è fiancheggiata da un robusto campanile […] insomma parmi che nulla manchi da poter essere chiamato: un piccolo santuario”.
Da allora, ogni, anno, sulla vetta del Tobbio vengono celebrati – prima con grande “concorso di popolo”, adesso meno solennemente – il 26 maggio, ricorrenza dell’apparizione di N. S. di Caravaggio e il 4 settembre, giorno dell’inaugurazione della cappella.
L’edificio conoscerà vicende alterne e più volte, a partire dai primi anni Trenta, si dovrà provvedere a opere di restauro eseguito con l’intervento della Curia e, soprattutto, il volontario contributo dei fedeli. Grazie agli assidui interventi dei volontari, la cappella oggi è ancora agibile, è invece scomparso il rifugio costruito agli inizi del secolo nelle sue vicinanze e ancora aperto agli inizi degli anni Quaranta.

I registri, ossia, la scrittura del viandante

Immaginare una salita e quanto ci si porta appresso: la fatica dei muscoli, la sete, la fame, il caldo il freddo, le zanzare, i fiori, l’amore lasciato a casa o perduto, gli amici attorno a sé, l’uomo o la donna da conquistare, l’amico da stupire, il bimbo da trasportare a spalle, la sfida con i propri anni o la malattia, la gara con se stessi, la rabbia, la gioia, Dio nel cuore o da bestemmiare oppure, semplicemente, solo il proprio nome. Tutto questo e ancora molto altro viene trasportato da chi sale al Tobbio e riversato nei quaderni che si presentano a chi arriva sulla vetta come un grande orecchio in cui depositare il proprio fardello per poi liberi, finalmente, ridiscenderne un po’ più leggeri.
Vero zibaldone di umani sentimenti e di stili narrativi, genere non riducibile alla corrente tipologia letteraria, i quaderni restituiscono a chi li scorre una straordinaria mescolanza di generazioni, classi sociali di appartenenza, quindi di gusti, passioni – stili insomma – diversamente inconciliabili tra loro e tuttavia per una volta uniti in maniera forte (non fosse altro per il pezzo di carta che li contiene) dalla comune condivisione di un’esperienza – unica per ciascuno questo è certo – ma anche universale perché a tutti gratuitamente si propone la stessa strada, perché tutti si partecipa di un’unica volontà di ascesa.
Portofranco di letterati e illetterati, di guastatori e costruttori, di moralisti e goliardi, di folli e di saggi, il quaderno posto sulla cima del Tobbio potrebbe anche se parzialmente essere accostato agli scritti carnascialeschi, là dove il mondo finalmente si rovescia e il principe, per un momento, può diventare bifolco e il bifolco re. Luogo liberatorio, dunque, come appunto si addice a ogni intento di ascesi.
Ma i quaderni ci propongono anche molto altro come, per esempio, lo scambio di messaggi malinconici tra amici che in essi ormai soltanto si rincontrano; il diario di bordo che annota le condizioni climatiche attraverso cui gli esperti di montagna e di mare non mancano di ostentare la conoscenza della qualità dei venti e della loro forza; sfoghi di amanti delusi o inappagati, di mogli e mariti che per evitare risse famigliari sono venuti di corsa in cima al Tobbio a placare gli istinti più violenti. C’è chi non scrive ma disegna. I bimbi, in genere, amano segnalare la loro età e il sesso: “siamo tre femmine e due maschi …”, le suore ringraziano Dio per il creato, altri non esitano, poche righe sotto, quasi senza soluzione di continuità, di bestemmiarlo come se, provocati all’argomento dalle lodi precedenti, si ricordassero che anche loro ogni tanto pensano a Dio. Anche questo, più in generale, è un aspetto ricorrente nei quaderni: spesso accade che un argomento, specie se provocatorio, di­venti per persone diverse comune occasione di considerazioni e divagazioni, una sorta di filo rosso che ritroviamo per più pagine, segno eloquente che la provocazione ha raggiunto il segno.
I quaderni reperiti cominciano nel maggio 1985. Anni non privi di vuoti lasciati dalle pagine strappate forse per la necessità assoluta di accendere un fuoco, forse per puro vandalismo o forse per il più comprensibile gesto di chi ha trovato in esse l’ultima traccia di un amico o un parente poi prematuramente scomparso.

Tutti insieme, appassionatamente

Dopo la fatica della salita, bere e mangiare, scherzare, giocare a carte, conoscere chi è arrivato prima o poco dopo è corollario quasi inevitabile di ogni gita che abbia escluso la scelta della “solitaria” assoluta.
I registri del Tobbio abbondano di minuziose descrizioni di menù, più o meno raffinati, di citazioni dei vini consumati, di lazzi giochi ed elenchi più o meno reverenti di partecipanti, ma tutti, allo stesso modo, desiderosi di comunicare il benessere provato nello stare assieme.
Le processioni che portavano al Tobbio i fedeli a celebrare due volte all’anno le solennità del piccolo santuario si chiudevano con un’allegra mangiata. Per l’occasione il parroco di Voltaggio, alla fine degli anni Venti, chiedeva la dispensa alla Curia di Genova per poter permettere il consumo di cibi di grasso, nonostante il consueto divieto dei giorni solenni, anche a ragione del notevole sforzo fisico chiesto ai partecipanti.
Oggi, le occasioni di convivialità ritrovano al Tobbio diverse espressioni: al Tobbio per Capodanno, per Natale, per il primo maggio, per celebrare i compleanni (magari anche quello del nonno), ma c’è anche chi al Tobbio sale per sposarsi. Due i matrimoni fino ad oggi celebrati lassù. Il primo nel giugno del 1970 di due sposi dell’Alta Val Lemme, il secondo, vent’anni dopo nel 1992, di due giovani di Ovada.
Ritrovarsi insieme dopo la comune fatica, condividere la soddisfazione di aver raggiunto la meta, guardare per un momento al mondo dall’alto, e il piacere di stare insieme sono gli ingredienti forti che garantiscono ai partecipanti delle feste sul Tobbio la felice scoperta della gioia davvero non sempre facilmente raggiunta dai convivi di fondovalle.

La corsa 1971 – 1980

Ma al Tobbio non si va solo per passeggiare e chiacchierare amabilmente con gli amici. Al Tobbio si va anche di corsa e non necessariamente per placare umori iracondi.
La polisportiva di Voltaggio ha organizzato per dieci anni, sempre nel mese di settembre, un’appassionante gara aperta ad atleti e a semplici amatori e, a partire dal 1976, riservata ai soli soci FIDAL. Nelle primissime edizioni essa proponeva un percorso di circa otto chilometri, allungato poi nell’edizione del 1977 a dieci, con un dislivello di 766 metri. Sempre a partire dal 1977 la manifestazione assume carattere nazionale e da allora è stata dichiarata prova selettiva di campionato italiano di corsa in montagna.
L’organizzazione, curata dalla Polisportiva di Voltaggio, ha raccolto per anni l’adesione del volontariato giovanile del paese e ha ricevuto l’aiuto del CAI sezioni di Ovada e Novi Ligure: nel solo 1979 circa novanta persone. Segnalare il percorso con le bandierine, allestire e gestire i diversi punti di servizio, questi ed altri sono gli oneri assunti dai volontari, nonostante le condizioni climatiche spesso, considerata la stagione, affatto clementi. Uno dei responsabili evocava tra le situazioni particolarmente stressanti ma non prive di divertimento che caratterizzavano il lavoro, la “corsa dei volontari” che dovevano provvedere a destinare sulla cima del Tobbio le tute tolte dagli atleti pochi minuti prima del via, precedendo, è ovvio, il loro arrivo. Le tute venivano trasportate a gran velocità in auto fino alla località Eremiti dalla quale, sempre di corsa, si procedeva a piedi, con le tute nello zaino, fino alla vetta. Il 1980 è l’ultimo anno della corsa del Tobbio. Dal 1981 infatti non si corre più verso la montagna ma gli atleti si cimentano in una prova di corsa individuale podistica, il “circuito di Voltaggio”, che prevede 11.480 chilometri di corsa attorno al paese. E il Tobbio resta ancora a guardare …
Eugenia Fera e Massimo Angelini

Bibliografia

Anche il Tobbio vanta una sua, pur modesta, bibliografia. Gli sono stati dedicati libri, opuscoli, articoli vari. Si fregia addirittura di un omaggio in tedesco, redatto da un gruppo di giovani escursionisti teutonici. Abbiamo raccolto solo il materiale più facilmente rintracciabile, ma vorremmo fosse questa l’occasione per aggiornamenti e integrazioni. Se conoscete pubblicazioni o articoli inerenti in qualche modo il Tobbio, segnalatele nel “libro di vetta”: ve ne siamo anticipatamente grati.

Libri e opuscoli:

  • FRANZONE ALESSIO – Vento del Tobbio – Genova, 1952
  • PITTO Sac. ERNESTO – Il Piccolo Santuario sul “Tobbio” – Sampierdarena, Don Bosco, 1917
  • VV. – Pfingstfahrt Im Regen Monte Tobbio 1992 – Gengenbach, 1992

Articoli:

  • BASSIGNANA ENRICO – Un sentiero sul Tobbio – su TUTTO CITTÀ’ 95 – Alessandria e Provincia – STET 1995, Torino
  • CARREGA MARIO – Il Monte Tobbio e la sua flora – su IL NATURALISTA, giugno 1989, Museo Civico di Storia Naturale – Stazzano
  • LEARDI ERNESTO – Lontani ricordi, istanze recenti a proposito della chiesa-rifugio sita sul Monte Tobbio – su ALPENNINO n.3/1994, Casale Monferrato
  • MASSONE ENRICO – Sul Tobbio con vista sul mare – su PIEMONTE PARCHI 25, settembre/ottobre 1988 – Torino
  • MASSONE ENRICO – È il Tobbio il misterioso monte sul quale sorgeva l’abbazia del Nome della Rosa – su LA PROVINCIA DI ALESSANDRIA, 1 tri. 1989 – Alessandria

Non riteniamo inutile, infine, un rimando alle opere concernenti la montagna alle quali si è attinto nella scelta delle citazioni:

  • BELTRAMI VANNI – Breviario per nomadi – Biblioteca del Vascello, Roma 1995
  • BERNBAUM EDWIN – Le montagne sacre del mondo – Leonardo, Milano 1991
  • BOARDMAN PETER – Montagne sacre – dall’Oglio, Milano 1983
  • DAUMAL RENÉ – Il monte analogo – Adelphi, Milano 1968
  • EVOLA JULIUS – Meditazioni delle vette – Ed. Del Tridente, La Spezia 1974
  • GOETHE W.G. – Viaggio in Italia – Rizzoli, Milano 1991
  • HEINE H. – Il viaggio nello Harz – Marsilio, Milano 1994
  • MILA MASSIMO – Scritti di montagna – Einaudi, Torino 1992
  • MOTTI GIAN PIERO – La storia dell’alpinismo – Vivalda, Torino 1994
  • THOREAU H.D. – Camminare – Mondadori, Milano, 1991
  • ZOLLA ELEMIRE – Lo stupore infantile – Adelphi, Milano 1994

Ringraziamenti

Hanno ideato e concretamente realizzato la mostra i Viandanti Delle Nebbie. Hanno collaborato: Eugenia Fera e Massimo Angelini del Centro di Documentazione della Storia e della Cultura Locale; CRISTINA ROSSI, GIACOMO GOLA e GIANPAOLO PALLADINO del Parco Naturale Capanne di Marcarolo.

Non potendo elencare tutti gli appassionati che hanno contribuito alla realizzazione, riteniamo di dover far giungere loro il nostro ringraziamento attraverso le organizzazioni e i gruppi di riferimento, dal CAI di Ovada agli Amici del Tobbio. Un grazie particolare lo dobbiamo però a Pietro Jannon, autore della maggior parte delle immagini utilizzate, e praticante indefesso del culto del Tobbio. Vorremmo infine che in questo omaggio al monte fosse implicito un tributo alla memoria di Andrea Longhetti, che dell’amore per il Tobbio è rimasto tragicamente vittima.