Thalatta! Thalatta!

di Paolo Repetto, 15 novembre 2024

Mare, mare, mare
ma che voglia di arrivare
(da Mare mare di Luca Carboni,
cover dell’Anabasi di Senofonte)

Questo intervento nasce da una circostanza insolita, un estemporaneo reading nel quale si proponevano brani in prosa, poesie e testi di canzoni aventi per oggetto il mare. Per una peregrina associazione d’idee (peregrina perché ero capitato lì per caso e l’argomento non mi intrigava granché) mi è tornato in mente un piccolo saggio letto diversi anni fa, e poi dimenticato (non del tutto, evidentemente): si tratta di Terra e Mare, di Carl Schmitt. Ho citato la circostanza solo per ribadire un concetto cui sono molto affezionato, e cioè che occorre profittare positivamente davvero di tutto, lasciando sempre aperta la porta della conoscenza (o della reminiscenza), perché le cose passano lì davanti, e trovando aperto a volte entrano, anche senza essere esplicitamente invitate.

Ma veniamo a Carl Schmitt. Il personaggio è controverso: era un filosofo del diritto molto vicino, almeno nella fase nascente, al nazismo, del quale ambiva a diventare una sorta di guida spirituale. Diciamo che voleva “legittimare” il nazismo in punta di diritto, assunto decisamente improbo, vista la considerazione che del diritto, in tutte le sue accezioni, individuali o internazionali, i nazisti avevano. La cosa non garbava assolutamente a Himmler e alle sue SS, per cui il filosofo venne progressivamente emarginato, e quasi esiliato in patria, sino a tutto il secondo conflitto mondiale (una sorte molto simile a quella di Ernst Junger, col quale scrisse poi, nel 1953, un libro a quattro mani, Il nodo di Gordio). Schmitt peraltro non si ricredette e non rinnegò mai le sue posizioni originarie, limitandosi a sottolinearne la distanza da quelli che furono poi gli esiti “giuridici” del regime. Nel dopoguerra ha subito il destino di diversi altri suoi colleghi altrettanto e forse più compromessi, primo tra tutti Heidegger, che dopo un periodo di quarantena sono stati riesumati e reinterpretati. La riscoperta è avvenuta soprattutto all’interno di un filone di pensiero filosofico-politico che fa riferimento genericamente alla sinistra, ma che ormai, dopo che la conclamata fine delle appartenenze ha sdoganato tutto, dovremmo definire più propriamente post-moderno (quello per intenderci che va da Toni Negri ad Agamben, a Vattimo, allo stesso Cacciari, e che paradossalmente arriva a comprendere la “nouvelle droite” francese e il suo “maître à penser” Alain de Benoit).

Thalatta! Thalatta 02Terra e mare è stato scritto da Schmitt nel 1942, in un periodo nel quale il giurista, attento a non crearsi ulteriori problemi discettando di politica, si era dedicato piuttosto agli studi storici, e cercava conferme a una sua lettura quasi gnostica della storia: conferme che non aveva difficoltà a trovare, stante l’infuriare del conflitto e la convinzione di essere in presenza di cambiamenti epocali. Lo faceva presumendo per sé una condizione da iniziato, quella di chi va oltre la pura conoscenza dei fatti e delle vicende contingenti, e si spinge fino a riconoscere la trama segreta (che definisce ripetutamente “arcana”) entro la quale gli eventi si inseriscono e vanno letti. Di chi in sostanza cerca una verità esoterica, nascosta e negata anche agli “addetti ai lavori”, agli storici più qualificati. È un’interpretazione che sotto certi aspetti non esiterei a definire “complottista”, e questo è forse il motivo per cui avevo rimosso il testo: non manca tuttavia di offrire spunti di riflessione che, opportunamente depurati, possono rivelarsi fecondi.

Ci torno su dunque prescindendo per quanto possibile dal passato di Schmitt, dalle sue responsabilità e da qualsiasi giudizio sulle implicazioni politiche del suo pensiero: mi interessa solo seguire la sua particolare versione della storia dell’umanità.

Come premessa Schmitt rispolvera, sia pure in chiave metaforica, la teoria presocratica dei quattro elementi naturali, terra, acqua, aria e fuoco, che stanno all’origine della vita e che a suo parere condizionano la storia, quella naturale ma anche quella culturale. Questo a dispetto del fatto che la scienza abbia destituito di ogni fondamento la natura di sostanza semplice dei quattro elementi classici. “Nella nostra riflessione storica – scrive – possiamo attenerci ai quattro elementi, che per noi sono nomi semplici e intuitivi, caratterizzazioni generali che rinviano a differenti grandi possibilità dell’esistenza umana. […] Gli elementi di cui parlerò qui di seguito non sono dunque da intendere come grandezze meramente naturalistiche”.

Ho parlato di chiave metaforica, ma sono convinto che in qualche modo alle “proprietà” degli elementi primordiali Schmitt credesse veramente. Nel senso, almeno, che riteneva fondamentale l’influsso da questi esercitato non solo sui singoli individui, ma su intere comunità, su interi popoli. Che esistessero cioè «popoli “autoctoni” – cioè nati sulla terra – e popoli “autotalassici” – cioè foggiati esclusivamente dal mare, che non hanno mai calcato la terra e per i quali la terraferma non rappresentava altro che il confine della loro esistenza puramente marittima». E il ricorso ad un senso della natura precedente il “disincanto”, la “dissacrazione” del mondo avviata da Platone e Aristotele prima, e proseguita da Galileo, da Copernico e da tutta la scienza moderna poi, è perfettamente funzionale al percorso che il politico-giurista vuole disvelare.

Secondo Schmitt infatti l’antagonismo tra popoli “di terra” e popoli marittimi è il motore della storia delle civiltà, e il senso di questa storia lo si può intravedere analizzando le fasi dell’ostilità radicale tra ordinamenti tellurici e acquei.

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Ora, è evidente che in linea generale l’uomo ha carattere essenzialmente terraneo. È figlio della terra, “cammina e si muove sulla solida terra […] e ciò determina il suo punto di vista, le sue impressioni e il suo modo di vedere il mondo”. Ma possiamo davvero dire “che l’esistenza umana e l’essere umano sono, nella loro essenza, puramente terrestri, e hanno solo la terra come riferimento? In fondo, nelle reminiscenze remote, spesso inconsce degli uomini, l’acqua e il mare rappresentano il misterioso fondamento originario di ogni vita”. Non solo; anche le recenti ricostruzioni evoluzionistiche ci attribuiscono un’origine oceanica, e sopravvivono ancora oggi “uomini-pesce la cui intera esistenza, l’immaginario e la lingua sono riferiti al mare” (cita ad esempio i navigatori polinesiani, i Canachi, ecc …). Questo apre scenari diversi. Ma non bisogna pensare a una determinazione ambientale, “perché – scrive Schmitt – se l’uomo non fosse altro che un essere interamente determinato dal suo ambiente, non vi sarebbe alcuna storia umana intesa come agire umano e deliberazione umana. Invece l’uomo ha la forza di conquistare storicamente la sua esistenza e la sua coscienza […] gode della libertà d’azione, e in determinati momenti storici può scegliere addirittura un elemento quale nuova forma complessiva della sua esistenza storica, decidendosi e organizzandosi per esso attraverso la sua azione e la sua opera”. Come e quando ciò sia avvenuto è appunto quel che Schmitt vuole raccontare.

Thalatta! Thalatta 04L’evidenza di una conflittualità primordiale tra i due ordini Schmitt la trova già nella narrazione biblica, laddove si fa riferimento a più riprese all’epica lotta tra Behemoth, bestia terrestre, e Leviathan, mostro marino. Non insiste poi sui riferimenti che potrebbe rintracciare anche nella mitologia greca, ma passa direttamente alla protostoria, con la vicenda di Creta, civiltà marittima che impone il suo controllo sul Mediterraneo orientale, e alla storia, con Atene che sconfigge soprattutto sul mare la potenza terranea persiana. Per contro Roma, civiltà “terrestre”, trionfa qualche secolo dopo sulla marittima Cartagine (ma solo in virtù di un rapidissimo adeguamento alla nuova “guerra ibrida”, combattuta sia per terra che sul mare). E dopo il crollo dell’Impero d’occidente, è Bisanzio con le sue navi a fungere da freno (ovvero, come dice Schmitt, da katechon) alle forze storiche avversarie. Nel frattempo a nord e nel Mediterraneo sudorientale si affermano altre potenze marinare: i vichinghi e i pirati saraceni. Poco più tardi le crociate saranno guidate da condottieri che sono espressione di una cultura militare e politica tutta terranea, ma a trarne il maggior profitto sarà la potenza marittima veneziana (stranamente Schmitt ignora quella genovese).

Il bilancio complessivo vede però prevalere fino a questo punto la civiltà terranea. Venezia stessa rimane pur sempre una civiltà costiera, che dispone quasi esclusivamente di navi a remi adatte al piccolo cabotaggio: gli scontri navali si risolvono in abbordaggi e nei combattimenti corpo a corpo sulle tolde delle navi, e soprattutto la navigazione non si spinge negli oceani, ma rimane ancorata al Mediterraneo. Esattamente come accadeva ai tempi di Temistocle e di Euribiade.

In sostanza, non cambia la visione del mondo: per tutto il medioevo il mare non rappresenta un elemento “alternativo” sul quale un popolo può basare le proprie fortune. Il vero cambiamento si ha invece nel XV secolo, con le scoperte geografiche, e prima ancora con le innovazioni che le rendono possibili: tra tutte l’adozione di vele orientabili che consentono di navigare anche controvento, ma anche tecniche costruttive che rivestono gli scafi di un fasciame a prova di oceano o che consentono di governare la nave con timoni a ruota, liberando il ponte. Anche sul piano militare la battaglia navale diventa un’altra cosa, grazie al posizionamento di bocche da fuoco a bordo delle imbarcazioni da guerra, per cui gli scontri si svolgono a distanza e non necessitano più di una superficie che simuli la terra.

A consentire il vero slancio verso il mare è dunque la scoperta di un nuovo mondo, che dischiude gli oceani e offre immensi spazi di conquista: e a questa corsa partecipano, in maniera e misura diversa, tutti i paesi europei, anche se sarà poi solo l’Inghilterra a raccogliere fino in fondo la sfida del mare.

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Cronologicamente Schmitt riconosce una priorità agli olandesi, attribuendo con una certa forzatura alla loro cantieristica la svolta tecnica decisiva (e nella sua ottica questa attribuzione appare giustificata). Tributa poi un romantico omaggio agli uomini che giovandosi di tali innovazioni portano le nuove tecnologie, le nuove ambizioni e il conseguente nuovo punto di vista in ogni angolo del mondo: i pirati, i corsari e i balenieri. Può sembrare una divagazione bizzarra, ma ha anch’essa un suo perché. I balenieri sono per Schmitt, lettore appassionato di Moby Dick, gli eroici scopritori di acque e terre sconosciute, che affrontavano il Leviatano coi loro arpioni nei mari freddi del nord, si fondevano con l’elemento marino e ne conoscevano gli abissi. “Era un combattimento mortale fra due esseri viventi che, senza essere pesci nel senso zoologico, si muovevano entrambi nell’elemento del mare”, nel quale si creava “un intimo legame di amicizia-ostilità tra il cacciatore e la sua preda”.

Quanto ai pirati e ai corsari di tutte le nazioni, sottolinea che tanto gli ugonotti francesi che i puritani inglesi e i calvinisti olandesi, tra i quali soprattutto per due secoli furono arruolati gli “scorridori” dei mari, professavano lo stesso credo protestante e avevano un comune nemico politico, ossia la Spagna, la potenza mondiale cattolica. Ora, il protestantesimo, e massime il calvinismo con la sua idea di predestinazione, ha una vocazione individualista-universalista che trascende lo spazio della comunità, istituendo un rapporto diretto tra il singolo e Dio. Ciò significa che sul singolo ricade una maggiore responsabilità, ma anche che questa ultima è connessa a una maggiore libertà, a una reale possibilità di scegliere il proprio destino (e qui Schmitt pesca più o meno direttamente da Max Weber). Tutto questo produce una serie di risvolti economici, politici e giuridici che vedremo.

Insomma: per Schmitt i popoli cattolici hanno un rapporto con la terra assai più intenso rispetto a quelli protestanti, che sono invece aperti al mare e all’industria. In questo senso, come l’etica protestante ha sospinto lo spirito capitalistico, analogamente può dirsi che l’élite protestante, motivata dalla forte presunzione di una propria “superiorità” morale e spirituale, ha fornito il supporto ideologico e le energie umane alla scelta per il mare.

Esiste anche una connessione significativa tra elemento marittimo e capitalismo. Quest’ultimo nasce dall’arricchimento derivante dal “capitalismo di rapina”. Gli inglesi divengono ricchi navigatori anche in virtù delle grassazioni dei loro corsari, e l’Inghilterra decide infine per il mare, per il capitalismo, per la “deterritorialità” e la “destatualità”, per l’universalismo, non solo ereditando la tradizione marittima e le imprese oceaniche di tutti gli altri popoli europei, ma saccheggiandone le ricchezze necessariamente affidate al trasporto via mare.

Fin qui, come si è visto, lo spunto usato da Schmitt per reinterpretare la storia universale non è affatto originale. Fa riferimento a Hegel, che nei Lineamenti di filosofia del diritto naturale e scienze della terra rigettava il determinismo ambientale proposto ad esempio da Montesquieu (per il quale i diversi caratteri degli uomini e dei popoli sono legati agli influssi del clima e della conformazione del suolo), e considerava invece fondamentale l’opposizione terra-mare per accedere a un livello di interpretazione storico-filosofica più alto e universale. Hegel scriveva ad esempio: «Come per il principio della vita familiare è condizione la terra, cioè il “fondo” e il “terreno› stabile”, così per l’industria l’elemento naturale che la anima verso l’esterno è il “mare”. Nella brama di guadagno, esponendo al pericolo il guadagno stesso, l’industria si eleva a un tempo al di sopra di esso, e soppianta il radicarsi nella zolla e nella cerchia limitata della vita civile, i suoi godimenti e desideri, con l’elemento della fluidità, del pericolo e del naufragio. In tal modo, inoltre, attraverso questo superiore mezzo di collegamento, l’industria ingloba delle terre lontane all’interno del traffico commerciale – cioè di un rapporto giuridico che introduce il contratto –, e in questo traffico rinviene al tempo stesso il massimo mezzo di civilizzazione. Qui il commercio riceve il proprio significato cosmostorico».

L’originalità di Schmitt sta dunque solo nella valutazione che dà di questo processo storico e del suo temporaneo esito, che non è altrettanto positiva di quella di Hegel, e apre comunque altri scenari. Va considerato, tra parentesi, che per entrambi i filosofi tedeschi la vicenda inglese è emblematica, ma mentre Hegel parla di un’Inghilterra all’epoca sua alleata della Prussia, e per molti aspetti riferimento alto di civiltà, Schmitt la vede invece come la potenza nemica per eccellenza del suo Reich. Non parla di “perfida Albione”, ma insomma, non mostra nemmeno una calda simpatia. D’altro canto, qui le simpatie c’entrano poco: deve trattarla per quello che rappresenta nel quadro dialettico che sta tratteggiando.

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Con l’Inghilterra infatti siamo per Schmitt di fronte a un caso unico. La sua peculiarità, la sua unicità consistono nel fatto che “l’Inghilterra compì una trasformazione elementare in un momento storico e in un modo del tutto differenti da quelli delle precedenti potenze marittime, trasferendo cioè veramente la sua esistenza dalla terra all’elemento del mare. Essa così non vinse soltanto molte battaglie navali e molte guerre […], ma anche […] una rivoluzione di immensa portata, una rivoluzione spaziale”.

Analogamente a quanto già fatto nei confronti degli elementi, qui Schmitt si svincola dalle concezioni della spazialità proprie delle scienze naturalistiche. La concezione dello spazio, scrive, muta a seconda dell’osservatore, delle sue esperienze, della sua vita: un contadino, un marinaio o un aviatore hanno evidentemente dello spazio esperienze ben diverse. Anche in questo caso, nulla di particolarmente originale: Jules Michelet, ad esempio, aveva già trattato ampiamente questo tema un secolo prima, ne La mer. Ma per il giurista tedesco le differenze di sguardo sono ancora più grandi e profonde quando si tratta nel complesso di popoli diversi e di diverse epoche della storia dell’umanità. Lo spazio viene infatti costruito e costantemente ridefinito dallo sprigionarsi delle energie storiche. Cambia a seconda dei parametri che si adottano per misurarlo, dei tempi necessari per percorrerlo e dei modi in cui lo si fa. A dimostrazione porta gli esempi di grandi rivoluzioni spaziali avvenute nell’antichità. Quella di Alessandro il Grande, che violò le porte dell’oriente e mise a contatto ravvicinato delle culture prima contrapposte. Quella di Giulio Cesare, che conquistò la Gallia e la Britannia dilatando uno spazio politico che un secolo dopo copriva tutte le coste meridionali del Mediterraneo e arrivava a settentrione all’Atlantico. Quella determinata dalla comparsa sulla scena mondiale dell’Islam, che costrinse per secoli l’Europa a rinchiudersi in se stessa e in un rapporto quasi esclusivo con l’economia (e la cultura) della terra. Quella infine prodotta dalle crociate, a partire dal XII secolo, che riaprì i traffici commerciali e culturali col Vicino Oriente, avviando così nuovi traffici commerciali, e indusse una volta ancora un cambiamento nel concetto di spazio.

Nulla di tutto ciò è tuttavia paragonabile, per Schmitt, a quanto avviene nei secoli XVI e XVII. Non si tratta più soltanto di un adeguamento “quantitativo” nella percezione della spazialità, ma di una vera e propria rivoluzione spaziale, con tutto quello che comporta sotto il profilo culturale. La scoperta di mondi nuovi al di là dell’oceano fornisce la definitiva conferma della sfericità del globo terrestre e prelude anche alla rivoluzione copernicana, all’eliocentrismo, alla definizione delle orbite terrestri, all’idea di un universo infinito, alla formulazione della legge di gravità. Anzi, secondo Schmitt l’ordine andrebbe invertito: è proprio il rivoluzionamento del concetto di spazio ad aver consentito la scoperta di un nuovo continente e di nuovi oceani, piuttosto che il contrario. Altri prima di Colombo avevano toccato le coste americane, ma senza che questo originasse la coscienza di una “scoperta”. La scoperta implica infatti energie spirituali e consapevolezza storica superiori rispetto a ciò che viene scoperto: “Occorre una trasformazione dei concetti di spazio che abbracci tutti i livelli e gli ambiti dell’esistenza umana”.

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Qui Schmitt approda al campo di ricerca che gli è più congeniale. Questo rivoluzionamento del concetto di spazio cambia lo stato giuridico (il nomos) delle terre scoperte (e di chi le abita), che vengono conquistate, spartite e sfruttate dai popoli europei schiavizzando o addirittura eliminando le popolazioni indigene. Lo fanno invocando quali giustificazioni giuridiche la diffusione del cristianesimo prima e la civilizzazione di genti barbare dopo: “Da tali giustificazioni nacque un diritto internazionale cristiano-europeo, ossia una comunità dei popoli cristiani d’Europa contrapposti al resto del mondo. Questi popoli costituirono una famiglia delle nazioni, un ordinamento interstatale” che prevedeva un diritto internazionale dal quale i popoli non cristiani erano esclusi, o rappresentavano al più un oggetto. “L’epoca delle scoperte può essere definita altrettanto bene – e forse in modo ancora più esatto – come l’epoca della conquista di terra da parte dell’Europa”.

Il nuovo diritto non è dunque più quello della medioevale res publica cristiana. I popoli che hanno aderito alla riforma non riconoscono la spartizione (la raya) tracciata dall’autorità papale, e portano avanti una ridefinizione del nomos, del diritto terrestre e marittimo, che culmina in quello che diverrà lo jus publicum europaeum, il nuovo diritto internazionale, dettato dalla potenza inglese in quanto dominatrice dei mari.

Insomma, gli europei considerano i territori d’oltreoceano come terra aperta alla conquista, nella quale non valgono le stesse regole e le stesse autorità valide nel vecchio continente. Questi territori sono intesi, si potrebbe dire, più come una continuazione del mare che come un’appendice del suolo europeo, e in quanto tali consentono libero corso alle ambizioni dei nuovi soggetti politici che si affacciano alla ribalta della storia.

Sto semplificando molto, ma la sostanza dell’analisi di Schmitt è questa. Il disconoscimento dei poteri ai quali faceva riferimento la normativa precedente, il papato e l’impero, determina una crisi di legittimità. L’idea di una casa comune cristiana, sulla quale bene o male tutto il medioevo si era retto, si dissolve, e ciò innesca situazioni di conflitto che sono diverse nelle cause, nei modi e negli esiti da quelle del mondo antico e medioevale. Dapprima almeno ufficialmente questi conflitti mantengono un carattere di scontro religioso (la guerra dei trent’anni, ad esempio), ma assumono poi via via le valenze di guerre civili.

Ora, per comporre queste conflittualità cruente e indiscriminate (l’hobbesiano bellum omnium contra omnes) si afferma sempre più lo Stato “moderno”, che regolamenta gli scontri e definisce la linea amico/nemico, sulla base però di una inimicizia orientata all’appropriazione territoriale. La politica dello stato è una politica di potenza, e funziona giocoforza a detrimento di altre entità statali-territoriali, perché la potenza, nella prospettiva continentale. si misura essenzialmente nella quantità di territorio controllato. Regolamentare gli scontri non significa dunque liquidarli. Significa “formalizzarli”, dettare regole per la loro conduzione (ad esempio, una guerra si inizia con una dichiarazione di guerra e si chiude con un armistizio), per quanto possibile senza coinvolgere i civili e facendo un uso moderato della violenza: in pratica al nemico viene riconosciuto uno status giuridico, ne vengono considerate, anche se non accettate, le ragioni. Tutto questo naturalmente in linea teorica, perché poi la dicotomia amico/nemico può essere estesa fino all’annientamento fisico dell’avversario. È comunque evidente che queste regole valgono solo fino a quando l’elemento di riferimento rimane la terra, sulla quale hanno senso dei confini e le distinzioni che questi impongono. La violenza viene dunque limitata nel Vecchio Continente, ma può esplodere senza vincoli sul mare e nei territori extraeuropei.

Ecco che si chiarisce allora il ruolo dei pirati e dei corsari di cui sopra. Hanno aperto un fronte nuovo, i primi scorrazzando per i mari come nemici di tutti, hostes humani generis, i secondi facendolo come “imprenditori privati”, autorizzati da lettere di corsa rilasciate dai loro governi ad arrembare le navi nemiche. Gli uni e gli altri hanno annunciato la grande trasformazione, anticipando il nuovo equilibrio tra elementi e tra continenti.

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In sostanza: il mare – che appare infinito, illimitato e sempre uguale a se stesso – a differenza della terra rimane libero per la pesca, la navigazione pacifica e la belligeranza. Rimanda in fondo allo stato di natura. La guerra che si combatte su di esso è guerra indiscriminata di preda e di distruzione, coinvolge tutto il naviglio battente bandiera nemica e persino le navi di paesi neutrali che commercino col nemico. La guerra terrestre mirava invece alla conquista di territorio e dunque a preservarne la popolazione, le risorse e l’ordine pubblico. Anche un’occupazione temporanea tendeva pur sempre alla conservazione dell’ordine sociale e dell’ordinamento giuridico vigente, se in linea con lo standard europeo.

La trasformazione agisce ancor più in profondità. Come abbiamo già visto sottolineare da Hegel, l’opzione per un’espansione marittima si è rivelata assolutamente funzionale alla rivoluzione industriale. Le innovazioni tecniche hanno senz’altro facilitato anche gli spostamenti via terra, ma per la traversata e la conquista dei mari sono addirittura cruciali. Il controllo e il dominio progressivo dell’elemento marino si sono immediatamente legati al progresso dell’equipaggiamento tecnico, che ha diminuito i rischi, sollecitato l’azzardo e alimentato la fiducia in una libertà senza limiti. Tradotto in concreto, questi stimoli e le risposte che hanno dettato hanno costituito il volano per le scoperte industriali che tra Settecento e Ottocento hanno valso all’Inghilterra il primato tecnologico ed economico.

L’epoca del libero commercio fu anche l’epoca del libero dispiegarsi della superiorità industriale ed economica dell’Inghilterra. Libero mare e libero mercato mondiale si unirono in una idea di libertà di cui solo l’Inghilterra poteva essere il latore e il custode”. Un’idea di libertà che si traduceva anche nell’aspettativa (non solo da parte degli inglesi, ma di tutto il mondo in via di industrializzazione), legata al rapido incremento della ricchezza, di un Paradiso terrestre millenario.

E tuttavia, durante la fase quasi bisecolare di dominio sul mondo, un dominio che sembrava definitivo, la rivoluzione industriale stava producendo anche una rivoluzione rispetto all’essenza stessa dell’isola e una mutazione antropologica della sua gente: “Da grande pesce il Leviatano si trasformò in macchina […]. La macchina mutò il rapporto dell’uomo con il mare. La temeraria specie di uomini che fino a quel momento aveva fatto la grandezza della potenza marittima perse il suo antico significato. […] Tra l’elemento del mare e l’esistenza dell’uomo si frappose un dispositivo meccanico”.

Secondo Schmitt altro è misurarsi col mare in un corpo a corpo, altro è invece un dominio meccanizzato, dovuto alla tecnologia navale sviluppata. “L’esistenza puramente marittima – il segreto della potenza mondiale britannica – era stata colpita nella sua essenza […]. Il mare rimase un forgiatore di uomini, ma l’azione di quella spinta che aveva trasformato un popolo di pastori in corsari diminuì, e a poco a poco cessò”.

E così, già all’alba del ventesimo secolo lo spazio d’azione delle grandi potenze si era talmente ampliato da non consentire più un predominio marittimo britannico. Si affacciavano sulla scena altri concorrenti, aventi alle spalle un potenziale industriale ben maggiore (gli Stati Uniti, ad esempio, ma anche la stessa Germania). Soprattutto però si stavano aprendo le altre due dimensioni, quella dell’aria con l’invenzione degli aeroplani e le applicazioni dell’elettricità, e quella del fuoco con i motori a combustione e con le bombe deflagranti e detonanti.

Sugli sviluppi futuri Schmitt è molto prudente. Non dimentichiamo che scrive in Germania, nel bel mezzo del conflitto più spaventoso che l’umanità abbia mai conosciuto, mentre la Luftwaffe è appena uscita sostanzialmente sconfitta dalla battaglia aerea d’Inghilterra e l’Operazione Barbarossa ha bruciato oltre mezzo milione di veicoli e milioni di uomini sul fronte russo. Sono avvenimenti che confermano da un lato e smentiscono dall’altro le sue idee sul dominio dell’aria e della potenza di fuoco. Mentre già intravede il fallimento del progetto tedesco di espansione territoriale sul continente, gli riesce difficile immaginare un nuovo assetto dell’ordine mondiale.

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Si limita quindi a constatare che il nuovo stadio della rivoluzione spaziale ha già prodotto un ulteriore mutamento del concetto di spazio. “Oggi non concepiamo più lo spazio come una mera dimensione in profondità, vuota di qualsiasi contenuto pensabile. Lo spazio è diventato per noi il campo di forze dell’energia, dell’attività e del lavoro dell’uomo.” Il che, scritto ottanta anni fa, mostra una notevole capacità di preveggenza, se consideriamo che il fattore produttivo principale oggi è il lavoro immateriale, il traffico di informazioni che avviene appunto attraverso lo spazio aereo.

Inoltre “rispetto all’epoca dei velieri per l’uomo il mondo del mare è mutato elementarmente. Oggi, in tempo di pace, qualsiasi armatore può sapere giorno per giorno e ora per ora in quale preciso punto dell’oceano si trova la sua nave in mare aperto. Ma, se le cose stanno così, viene a cadere anche quella separazione di terra e mare su cui si fondava il legame durato sinora tra dominio marittimo e dominio mondiale”.

Insomma: “Cresce, inarrestabile e irresistibile, il bisogno di un nuovo nomos del nostro pianeta. Lo invocano le nuove relazioni dell’uomo con i vecchi e i nuovi elementi, e lo impongono le mutate dimensioni dell’esistenza umana”. In tutto questo “molti vedono solo un disordine privo di senso, laddove in realtà un nuovo senso sta lottando per il suo ordinamento”.

Che il mutamento si sia verificato, e che sia stato radicale quanto e forse molto più di quello del XVI secolo, è indubbio. Che un nuovo senso si sia affermato, è già più discutibile: o almeno, si è senz’altro affermato, ma sarebbe assai difficile anche per Schmitt riconoscerlo. Direi che se gli antesignani dobbiamo coglierli, invece che nei corsari, nei filibustieri della finanza e nei pirati informatici, allora il futuro si annuncia davvero fosco.

Dovremmo cominciare a prendere in considerazione un quinto “elemento”, ignoto ai filosofi antichi: un virus spirituale malefico e istupidente, capace di convogliare ogni umana volontà di potenza in una voluttà di suicidio di tutta la specie.

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La cosa buffa, o preoccupante, a seconda di come la si vuol vedere, è che in realtà non intendevo fare l’esegesi della Weltanschauung di Schmitt. Spero lo si sia capito, perché altrimenti dovrei vergognarmi del risultato. Non rientrava nel mio progetto iniziale e nemmeno è nelle mie forze. Oltretutto, Schmitt non è affatto tra i miei autori di riferimento. È capitato però che, rileggendo Terra e Mare, mi sia reso conto di aver completamente trascurato in un precedente scritto sulla rivoluzione industriale inglese (Perché l’Inghilterra?) l’aspetto di cui vi si parla: che non sarà determinante quanto lo vorrebbe Schmitt, ma è comunque tutt’altro che trascurabile. Volevo dunque fare parziale ammenda di questa lacuna e nel contempo offrire un po’ di informazione a chi non conoscesse il libro. Ma soprattutto volevo giustificare alcune considerazioni che il reading prima e la rilettura di Terra e Mare poi hanno indotto.

Devo ammettere però che l’argomento mi ha preso la mano e a quel punto le mie considerazioni, che non riguardavano la storia del mondo, ma alcuni particolari aspetti del carattere, del mio e di quello di popoli che un poco conosco, sono passate in second’ordine. Mi limito dunque ad accennarle, ripromettendomi magari di tornarci su in altra occasione. Basterà questo comunque a rendere evidente che non sono in grado di abbandonarmi a una riflessione senza filtrarla attraverso le esperienze letterarie. È così, non posso farci nulla.

Sul mio rapporto col mare

Amo nuotare, ovunque, ma tanto più in mare. Dal momento che lo faccio quasi sempre in Liguria, quando mi spingo un po’ più al largo approfitto per abbandonarmi a galleggiare a morto, rivolto indietro a considerare l’arco dei primi contrafforti appenninici che chiudono lo sguardo a poche centinaia di metri, a volte a poche decine, dalla riva. Confronto quella barriera naturale con l’immagine che ho davanti, un orizzonte piatto e aperto e invitante, che una suggestione culturale mi fa percepire persino leggermente incurvato. E mi chiedo spesso da cosa sono maggiormente attratto. Da un lato c’è la sicurezza della terraferma, tanto più di una riva difesa alle spalle da una recinzione orografica che crea identità territoriale, racchiude un mondo che conosco e che mi è famigliare, anche se tecnicamente ne vivo al di fuori. Anzi, questa distanza mi porta a percepirne forse ancora meglio il particolare carattere aspramente “terrigno”. Dal lato opposto si apre la possibilità di fuga verso altri mondi, quali che siano, dove non valgono le stesse regole, le stesse consuetudini, lo stesso “nomos” direbbe Schmitt, che vale sulla mia terra. La possibilità di essere “un uomo libero, un orgoglioso nuotatore che fendeva l’acqua in cerca di un nuovo destino”, come Il Clandestino di Conrad. Ancora oggi, quando l’età mi ha tolto ogni voglia di sperimentare il nuovo e il diverso, e sempre più volentieri mi rifugio nella sicurezza del consueto, mi capita di rivolgermi la stessa domanda: magari ad una distanza sempre minore dalla riva, per cui la risposta parrebbe già implicita: ma ancora sto a chiedermi se il mio sia stato, al netto di esiti tutt’altro che clamorosi, uno spirito avventuroso o uno tranquillo, talassico o terraneo.

Se provo a interrogare le scienze naturali o quelle psicologiche ricevo risposte contraddittorie, almeno rispetto alle mie esperienze. Per la biologia il contatto e la vicinanza con l’acqua aumentano il rilascio di dopamina e serotonina, le sostanze chimiche collegate alla felicità. Per lo psicologo l’acqua non solo simboleggia la vita, ma anche la rinascita. Il movimento del mare e la sua immensità hanno un effetto quasi ipnotico, che genera una sensazione di tranquillità e benessere che ci permette di rigenerarci. In effetti, anche in molte religioni il mare viene considerato simbolo di purificazione. Per la psicanalisi poi il mare è una delle immagini più frequenti dell’inconscio, di quello personale come di quello collettivo. E via di questo passo.

Devo avere un metabolismo un po’ bizzarro, perché le sensazioni che il mare mi trasmette sono diverse. Su di me l’effetto è adrenalinico, non certo di tranquillità, ma di voglia di solcarlo, di penetrarlo. Non resisto cinque minuti sulla spiaggia, devo entrare in acqua e spingermi al largo. Byron descrive perfettamente questa pulsione ne Il pellegrinaggio del giovane Aroldo:

E io ti ho amato, Oceano,
e la gioia dei miei svaghi giovanili,
era di farmi trasportare dalle onde
come la tua schiuma;
fin da ragazzo mi sbizzarrivo con i tuoi flutti,
una vera delizia per me.
E se il mare freddo faceva paura agli altri,
a me dava gioia,
Perché ero come un figlio suo,
E mi fidavo delle sue onde, lontane e vicine,
E giuravo sul suo nome, come ora.

(e tra l’altro l’ha anche tradotta in vere imprese natatorie, come la traversata dei Dardanelli, ripetuta un secolo e mezzo dopo, a settant’anni, da Patrick Leigh Fermor, e da Charles Sprawson. Io, molto più modestamente, mi spostavo da Quarto a Bogliasco)

In gioventù ho anche navigato, sia pure per un breve periodo, e non su una nave da crociera ma imbarcato come mozzo (all’epoca la dizione, non so se ancora politicamente corretta, era “piccolo di camera”) su una petroliera: ebbene, la sensazione era la stessa: la voglia di andare avanti, di vedere altro mare. Non si trattava certo di una sfida, il natante su cui viaggiavo non era una barchetta a vela ma un mastodonte più che sicuro. Era piuttosto la strana sensazione di stare immerso in qualcosa che visto da riva, come scrive Michelet,” soprattutto quando c’è calma piatta e le onde si frangono tranquille e regolari sulla rena, ti trasmette il senso dell’instancabile eternità”, dalla quale non puoi che essere escluso: mentre visto da dentro, quando lo percorri, non appare più come quell’entità infinita ed eterna che ti respinge e ti annichilisce, ricordandoti la tua diversità. Ho anche constatato di non soffrire affatto il rollio o il beccheggio delle onde, neppure quando in mezzo a una tempesta erano particolarmente accentuati. Ancora dal giovane Aroldo:

Sull’acqua ancora una volta. Malgrado tutto sull’acqua!
E le onde sotto di me scalpitano come un destriero
Che conosce il suo cavaliere. Sia benvenuto il loro mugghiare!
Ovunque mi portino mi guidino rapide!

A quanto pare ho nelle vene un po’ di sangue inglese.

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… e sul mio rapporto con l’Inghilterra

Qui mi soccorre la lettura di Terra e Mare. Ho sempre nutrito una grande ammirazione per lo spirito inglese, a dispetto di quanto ne dice mia figlia, che vive sull’isola, ne è cittadina, ma non ha dei suoi connazionali una grande opinione. La mia ammirazione ha una matrice letteraria, senz’altro, perché la letteratura inglese è quella cui ho maggiormente attinto sin da ragazzo e che ha alimentato alla grande la mia fame giovanile di viaggi e di avventura. Il riferimento obbligato in questo caso è naturalmente Stevenson. “Per un ragazzo di dodici anni traversare la Manica è come cambiare cielo; per un uomo di ventiquattro traversare l’Atlantico significa appena un lieve cambiamento di alimentazione. Ma io ero ormai uscito fuori dall’ombra dell’Impero Romano, che ci ha dominato dalla culla con le rovine dei suoi monumenti, le cui leggi e la cui letteratura ci assediano da ogni parte, piene di divieti e di costrizioni.” Schmitt avrebbe visto in queste parole una conferma della sua analisi.

Naturalmente parlo dell’Inghilterra di ieri, o perlomeno dell’immagine di sé che quel paese fino a ieri riusciva a trasmettere. Mi son fatto l’idea (e quando mi faccio un’idea rimane ben radicata) che quello inglese sia un popolo che ha saputo mediare tra la volontà di fuga e di rottura e l’attaccamento alla terra e alle convenzioni. Ha attraversato gli oceani non per dimenticare la sua isola, ma per espanderla, per portarne un pezzo altrove, e magari per rigenerarla. Credo anche che il suo rapporto col mare sia stato in gran parte determinato dalle condizioni di temperatura e di violenza di quest’ultimo. Il mare inglese, lo dico per esperienza diretta, non è fatto per starci ammollo ma per essere affrontato: le sue onde, le sue correnti e le sue maree vanno conosciute e rispettate. Conrad ne era consapevole, tanto da scrivere che “Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza”. Ma questo non implica un rifiuto, anzi: “Scoprii quanto ero uomo di mare, nel cuore, nella mente e, per così dire, nel corpo: un uomo esclusivamente di mare e di navi; il mare, l’unico mondo che contasse, e le navi, un banco di prova di virilità, di carattere, di coraggio, di fedeltà e d’amore”. Anche qui mi riconosco.

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Infine: sui popoli di terra e su quelli di mare

Ricordo che mentre leggevo Il Mare di Michelet mi erano tornati in mente proprio i versi di Byron. Mi erano tornati in mente perché l’incipit del libro di Michelet trasmette un’immagine ben diversa: “Un coraggioso marinaio olandese, fermo e freddamente osservatore, che trascorre la sua vita in mare, dice francamente che la prima impressione che si riceve è la paura. L’acqua, per tutti gli esseri terrestri, è l’elemento non respirabile, l’elemento dell’asfissia. Barriera fatale, eterna, che separa irrimediabilmente i due mondi”.

E continua su questo tono, sottolineando come “Gli orientali vedono solo l’abisso amaro, la notte dell’abisso. In tutte le lingue antiche, dall’India all’Irlanda, il nome del mare ha come sinonimo o analogo il deserto e la notte. […] La massa immensa in estensione, enorme in profondità, che copre la maggior parte del globo, sembra un mondo di tenebre. Questo è soprattutto ciò che colse e intimidì i primi uomini […]”.

Quanto al rapporto con l’acqua marina, è l’esatto contrario di quello di Byron: “L’acqua del mare non ci rassicura in alcun modo con la sua trasparenza. Non è la simpatica ninfa delle sorgenti, delle limpide fontane. È opaca e pesante; colpisce forte. Chiunque vi si avventuri si sente fortemente spinto in alto. È vero che aiuta il nuotatore, ma lo controlla; e questi si sente come un bambino debole, cullato da una mano potente, che potrebbe facilmente spezzarlo”.

Il libro è poi in realtà tutto un peana ai doni del mare, ai benefici per la salute e per l’economia, ecc …. Ma con un rispetto che non è quello di Conrad. Intanto “Le piccole libertà audaci che ci prendiamo sulla superficie dell’elemento indomabile, la nostra audacia nell’incontrare questo profondo sconosciuto, sono poche, e non possono fare nulla per il giusto orgoglio che il mare mantiene, in realtà, chiuso, impenetrabile”.

Del resto anche Hegel aveva già affermato che “Il coraggio di fronte al mare deve essere insieme astuzia, perché ha a che fare con ciò che è astuto, con l’elemento più malsicuro e mendace. Questo infinito piano è assolutamente morbido, non resiste affatto ad alcuna pressione, neanche al soffio: ha l’aria infinitamente innocente, remissiva, amabile, carezzevole, ed è appunto questa cedevolezza che cambia il mare nel più pericoloso e formidabile elemento”.

Insomma, si direbbe che i popoli continentali, anche quelli che hanno avuto dei cantori del mare come Victor Hugo, Jules Verne o Pierre Loti, e sono bagnati su tre lati, col mare non abbiano mai conquistato la stessa confidenza degli inglesi. Questo vale tanto per i francesi (quando soggiorna in Bretagna e in Normandia, Michelet constata che i pescatori sono tutti ugonotti) e per gli spagnoli (i loro più grandi navigatori, Colombo e Magellano, arrivano da fuori) che per gli italiani: un po’ meno per i portoghesi e per gli olandesi. Per Hegel, e anche per Schmitt, in quanto tedeschi la cosa è già più comprensibile (ma ad Hegel non piacevano nemmeno le montagne, non piaceva nulla che non fosse immediatamente ric0onducibile sotto il dominio della ragione). Per quanto concerne gli italiani, popolo di santi, poeti e navigatori, in fondo questi ultimi si sono storicamente formati sulle acque relativamente più tranquille del Mediterraneo. Dei santi conviene tacere, ma anche i nostri poeti non mostrano una particolare dimestichezza con l’elemento marino. Quando raramente ne parlano, come Montale in Maestrale, lo fanno dalla riva, avendo di fronte un mare placido:

S’è rifatta la calma
nell’aria: tra gli scogli parlotta la maretta.
Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma
a pena svetta.
Una carezza disfiora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s’infrange e ancora
il cammino ripiglia.

La domanda a questo punto torna ad essere: gli inglesi sono diventati un popolo talassico per forza di cose, dal momento che vivevano su un’isola (ma allora i sardi? o gli abitanti dei Caraibi), o per una scelta spirituale, come in fondo afferma Schmitt e come già argomentava Michelet? (“La razza inglese – scrive quest’ultimo – ha riacquistato una forza straordinaria e un’attività estrema. Il suo rinnovamento lo deve prima al suo grande business (niente di sano come il movimento), poi, va detto, anche al cambiamento delle sue abitudini. Adottò un’altra dieta, un’altra educazione, un’altra medicina; tutti volevano essere forti per agire, commerciare, vincere.”)

Ma soprattutto: non è che il rapporto col mare agisca sui singoli individui come fa a livello delle popolazioni, e che anche là dove non è la causa sia quanto meno l’indizio di una precisa scelta esistenziale? Non c’è alcun giudizio di valore dietro questa domanda. Solo verrei capire se anch’io, sotto sotto, sono un calvinista.

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La breve bibliografia qui suggerita raccoglie sia i libri ai quali ho fatto diretto riferimento nel pezzo, sia alcuni di quelli che, senza comparire, lo hanno ispirato.

George Byron, Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, Kessinger 2010
Joseph Conrad, La linea d’ombra, Rizzoli 2008
Joseph Conrad, Il Clandestino, De Agostini 1982
Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani 2006
Victor Hugo, I lavoratori del mare, Mursia 2016
Raffaele La Capria, Ferito a morte, Bompiani 1961
Pierre Loti, Pescatore d’Islanda, Nutrimenti 2010
Jules Michelet, Il Mare, Elliot 2019
Eugenio Montale, Ossi di Seppia, Mondadori 1951
Vittorio G. Rossi, Oceano, Mondadori 1957
Vittorio G. Rossi, Terra e acqua, Mursia 1988
Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi 2002
Senofonte, Anabasi, Rizzoli 2008
Stenio Solinas, Percorsi d’acqua, Ponte alle Grazie 2004
Charles Sprawson, L’ombra del massaggiatore nero, Adelphi 1995
Robert L. Stevenson, Nei Mari del Sud, Editori Riuniti 2002
Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari, Einaudi 2018

P.S. Una curiosità linguistica. Il mare è designato esclusivamente da un sostantivo maschile solo in italiano e in islandese. In inglese, in francese, in olandese, persino nel greco antico è al femminile, in spagnolo lo stesso termine può essere declinato in entrambi i generi. Vorrà dire qualcosa?

Nikolaj K. Roerich. Le cattedrali di pietra

di Paolo Repetto, 14 aprile 2024 – dall’Album “Nikolaj K. Roerich. Le cattedrali di pietra

Nikolaj Konstantinovič Roerich Le cattedrali di pietra copertinaLa cultura russa della prima metà del Novecento ha sfornato palate di personaggi bizzarri e controversi, ma questo è davvero singolare. La figura di Nikolaj Konstantinovic Roerich, nato a San Pietroburgo nel 1874, è talmente sfaccettata da non poter essere incasellata in alcuna definizione. Era un pittore, un archeologo e un esploratore, ma anche un appassionato di religioni orientali e di studi cabalistici, e si reinventò da ultimo maestro del pensiero, fondando una filosofia esoterica (la Agni Yoga) che pescava dalla teosofia di Elena Blavatskij, dal cristianesimo ortodosso, dal buddismo, dall’induismo, dallo sciamanesimo nonché dal burkhanesimo (una religione diffusa nella regione russo-asiatica degli Altai). Ancora oggi questa filosofia ha i suoi bravi seguaci, soprattutto nella Russia asiatica, ma sparsi anche un po’ in tutto il mondo. Per converso, Roerich è considerato da molti solo un ciarlatano, e si sospetta addirittura che abbia agito come spia del regime staliniano.
Le cattedrali di pietra 02Andiamo però con ordine. Roerich coltiva precocemente i suoi interessi artisti e filosofici, e soprattutto frequenta sin da giovanissimo gli ambienti culturali all’avanguardia. Collabora come scenografo e costumista alle messe in scena di Sergej Diaghilev, il creatore del balletto russo, e firma con Stravinsky la scenografia del balletto della “Sagra della Primavera”.
La grande svolta nella sua vita avviene però nel 1901, quando sposa Elena Ivanova Shaposhnikova. Da lei, che già ha tradotto in russo le opere della Blavatskij e scritto sui fondamenti del buddismo, riceve la spinta verso gli interessi esoterici. Al termine del primo conflitto mondiale i due danno inizio a una serie di viaggi diretti dapprima verso occidente, in Svezia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, poi decisamente a oriente, in India, nel Turkestan cinese, negli Altai, in Mongolia e in Tibet. Visitano anche la Manciuria cinese, raggiungendo poi Shanghai e Pechino e spingendosi fino a Tokyo.
I loro viaggi nell’Asia centrale, in un’area che negli stessi anni vede in azione Sven Hedin e gli archeologi dell’Ahnenerbe himmleriana, si traducono presto in vere e proprie esplorazioni. Oggetto della ricerca è il mitico paradiso buddista di Shambala. Di qui dovrà partire la rigenerazione dell’Umanità, una nuova era guidata da una figura femminile, Urusvati (nella quale non è difficile riconoscere la stessa Elena Ivanovna), che insegnerà all’umanità l’amore per la natura e la sintonia con le energie emanate dalla terra. L’armamentario per una filosofia di vita precorritrice della New Age c’è tutto, compreso il vegetarianesimo e il culto delle vette “sacre”.

Le cattedrali di pietra 03

Il pensiero di Roerich è stato indubbiamente condizionato, e in maniera pesante, dall’influenza della moglie. Di suo, lui ha saputo tradurlo da un lato in visibilità e successo, e in qualche modo in una sorta di lasciapassare, dall’altro in ispirazione per la sua pittura. Verso la fine degli anni Trenta ha lanciato un “Patto Roerich”, una sorta di “Croce Rossa della cultura”, sancito alla Casa Bianca alla presenza di Roosevelt, che aveva come scopo la protezione dai danni della guerra di monumenti, chiese, biblioteche, istituzioni culturali di ogni tipo. Nel frattempo ha continuato a girovagare per la Russia e per il mondo senza subire restrizioni dalla polizia politica staliniana, e sempre godendo di notevole disponibilità economica. Di qui i sospetti su una sua possibile attività spionistica al servizio del regime.
A noi interessa però eminentemente la sua opera. A prima vista è difficile che questa ci conquisti. Sembra anzi presentare diversi limiti: un segno pesantemente calligrafico, quasi esasperato nella semplificazione dei tratti e dei contorni; un cromatismo monocorde, vincolato alla successione disciplinata delle sfumature; il ripetersi degli stessi soggetti, colti da un’angolazione quasi simile. Come ad essere in presenza di un lavoro diligente, piuttosto che ispirato. Ma subito dopo la percezione cambia: si capisce che quelli che possono sembrare difetti di “manico” o di “maniera” sono in realtà l’esito di una “sublimazione”, mirata a creare una dimensione metafisica, nella quale il peso dei massi rocciosi, dei grandi volumi montani inscritti in ideali solidi geometrici, che pure è sottolineato proprio dalla semplificazione del segno, non ci grava addosso, è solidità, è base sulla quale poggiare i piedi e la vita.
E allora ne siamo attratti: da quelle vette (ma anche dagli edifici religiosi, dagli scorci di villaggi) ci arriva un richiamo, e la loro distanza non ci esclude.
Che poi Roerich fosse o meno un ciarlatano, o un fanatico religioso, o addirittura un agente dell’NKVD, e che le sue opere vengano riprodotte oggi sui cuscini o nelle tappezzerie, poco importa. Ci ha lasciato l’idea di un mondo nel quale, forse, l’utopia era ancora possibile.

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Breve excursus dell’esoterismo europeo

di Fabrizio Rinaldi, 30 giugno 1991

Viaggiare verso il mistero non significa conoscerlo,
ma custodirlo come mistero, assumerlo come tale.

Pietro Chiodi

Introduzione

A dispetto del continuo progresso nelle conoscenze scientifiche e dell’opinione razionalizzatrice della scuola e della cultura di massa la nostra società continua a registrare un persistente, anzi crescente interesse per l’occulto.

In questo mondo di oscuri riti ed enigmatici personaggi l’uomo comune cerca una risposta ai quesiti esistenziali che lo affliggono.

Dato che la scienza ufficiale, la filosofia e la religione non offrono risposte immediate, concrete e soddisfacenti a queste domande, l’essere umano cade spesso nelle trappole di fantomatiche sette che con l’inganno abbindolano i loro adepti facendo credere loro di godere della possibilità di accedere a poteri o a saperi misteriosi e riservati a pochi eletti.

Solamente in Italia esistono più di seicento sette ufficialmente dichiarate che praticano i più svariati culti esoterici, con gli scopi e le origini più disparati.

È indubbiamente difficile individuare tra queste quelle che possono essere classificate come associazioni religiose o sapienzali e non società a fine di lucro, ma certamente ne esistono alcune che si prefiggono il solo scopo di aiutare l’uomo nell’affrontare serenamente la vita avvalendosi delle proprie facoltà, anche se spesso vengono potenziate da antichi riti, magari celebrati in lingua sconosciuta.

Servendomi dell’aiuto di conoscitori della materia e dalla lettura di libri sull’argomento (uno di quelli che più mi hanno stimolato all’approfondimento è senza dubbio Il pendolo di Foucault di Umberto Eco), ho cercato, basandomi soprattutto sulle origini delle sette, di individuare i più importanti ordini occulti che hanno caratterizzato la storia di questo millennio e finalizzati al proseguimento di una qualche forma di conoscenza, e non a spillare denaro agli sciocchi.

I Templari

Gli odierni Templari vantano una presunta discendenza dall’ordine religioso­militare del Tempio di Gerusalemme, comunemente denominato Templari.

Erano appunto dei monaci con spada al fianco, una novità assoluta nell’organizzazione della Chiesa.

L’Ordine venne fondato da un nobile cavaliere chiamato Hugo de Payer e da altri otto compagni nel 1118 con l’approvazione del re di Gerusalemme Baldovino II, che assegnò loro anche una parte del suo castello, costruito secondo la leggenda sulle rovine del tempio di Salomone.

La loro regola si basava essenzialmente sulla povertà, castità e obbedienza. Non possedevano nulla tranne il loro mantello bianco, con sopra ricamata una croce rossa a braccia uguali, e la loro spada; anche il cavallo doveva essere diviso con un compagno, questo è testimoniato anche dal loro primo sigillo sul quale erano impressi due Templari in sella ad un solo cavallo, segno di povertà e fratellanza.

Oltre alla regola suddetta c’era quella di difendere con la spada coloro che si accingevano a visitare i Luoghi Santi della Palestina.

Essi non dovevano obbedienza a nessuno tranne al papa in persona, e divennero pertanto in Terra Santa una specie di stato autonomo senza territorio.

L’ordine ebbe uno sviluppo sorprendente; solo alla metà del 1100 erano più di millecinquecento, con immensi possedimenti e un patrimonio in oro e pietre preziose superiore a cinquemila miliardi di lire attuali.

Questa enorme ricchezza era spiegata dalle donazioni di coloro che entravano a far parte dell’Ordine e di coloro che, in cambio di protezione, offrivano ai Cavalieri del Tempio ingenti somme. Questi non potevano in nessun modo utilizzare tale tesoro, ma praticavano il prestito; divennero così abilissimi banchieri prestando somme enormi ai sovrani dell’Europa con tassi d’interesse modesti.

Non si occupavano soltanto di denaro ma, grazie ai continui contatti con la cultura giudaica e islamica, i Templari diffusero in tutta l’Europa nuove idee filosofiche e nuove scienze: tra queste anche quelle occulte derivanti dalle dottrine degli Esseni, dei Terapeuti e degli Gnostici, le cui origini si perdono nel tempo. L’Ordine del Tempio però procurava grossi problemi a quasi tutti i sovrani europei proprio per la sua influenza economica e politica, che rendeva l’Europa quasi dipendente dai Templari.

In particolare questa situazione non piaceva a Filippo IV il Bello, di Francia, anche per il fatto che i Templari avevano finito per divenire proprietari di una vasta zona meridionale della Francia (la Linguadoca), creando uno stato templare in pratica indipendente.

Ciò spronò il sovrano a trovare il modo per liberarsi di loro e ad impossessarsi delle immense ricchezze dell’Ordine.

Egli però non aveva nessuna autorità sui Templari, e quindi dovette assicurarsi la collaborazione del pontefice, al quale l’Ordine doveva obbedienza, anche se questa era diventata in realtà solo teorica, dato che anche il Vaticano aveva debiti con i Cavalieri del Tempio.

Fu così che papa Clemente V, in combutta con Filippo IV, scomunicò l’Ordine per eresia.

All’alba di venerdì 13 ottobre 1307 quasi tutti i Templari in Francia vennero arrestati e i loro beni confiscati; ma i grandi tesori che anche il re aveva visto tempo prima non vennero mai trovati, e la sorte del favoloso “tesoro dei Templari” rimane ancora oggi un mistero.

È da ricordare che tutti i Cavalieri che vennero catturati si arresero passivamente; inoltre esistono prove certe della fuga di un gruppo di Templari incaricati di far sparire il tesoro del Tempio e tutti i documenti segreti.

Molti membri dell’Ordine arrestati furono processati, molti vennero sottoposti a torture e alcuni di loro cedettero confessando tutto ciò di cui la Santa Inquisizione li aveva accusati (insultare il nome di Cristo, ripudiare la croce, adorare un diavolo chiamato Baphomet considerandolo immagine del vero Dio, praticare l’omosessualità), ma altri resistettero e furono coerenti nelle loro idee anche sotto la tortura, come il Gran Maestro dell’Ordine Jacques de Molay al quale questo coraggio non impedì di essere condannato al rogo.

Tutto questo non significa che i Templari fossero scomparsi completamente perché negli altri stati riuscirono a sopravvivere trasformandosi in una società occulta, costretta alla latitanza in quanto accusata di eresia.

L’ultimo atto storico documentato della storia dell’Ordine è il supplizio dell’ultimo Gran Maestro nel marzo del 1314.

Jacques de Molay maledisse i suoi persecutori e promise al popolo che entro l’anno sarebbero morti. Un mese dopo papa Clemente V morì, sembra per un attacco di dissenteria. A novembre morì anche Filippo IV cadendo da cavallo.

La maledizione non finì lì, era destinata a gettare un’ombra tenebrosa sull’intera stirpe reale francese: nel 1789, quando la testa di Luigi XVI cadde sotto la lama della ghigliottina, uno sconosciuto balzò sul palco, immerse la mano nel sangue del re, lo spruzzò sulla folla circostante e gridò: “Jacques de Molay, sei vendicato!”.

Alcuni Templari riuscirono a sfuggire agli artigli dell’Inquisizione e si rifugiarono in Scozia dove il potere secolare del papato era molto minore.

Dal Trecento in poi nacquero numerosi ordini che si proclamavano discendenti dei Templari, ma nessuno riuscì a produrre prove convincenti della propria autenticità.

I Rosacroce

Su cosa siano i Rosacroce esistono due correnti di pensiero: una fondamentalista e l’altra storiografica.

La prima corrente raccoglie coloro che accettano l’esistenza di una Confraternita fondata nel 1408 da Cristian Rosenckreutz, un cavaliere che aveva compiuto lunghi viaggi in Arabia, Turchia e Egitto, acquisendo conoscenze occulte nell’ambito dell’alchimia.

Tornato in Europa egli si ritirò a vita eremitica, trasmettendo la sua dottrina segreta a soli tre discepoli, i quali perpetuarono il suo insegnamento per non più di otto adepti.

Questi ultimi all’inizio del Seicento decisero che era arrivato il momento per diffondere il pensiero del fondatore.

Infatti vennero pubblicati tra il 1614 e il 1623 una serie di “Manifesti” che sarebbero diventati la base ideologica della setta, di questi ricordiamo: Fama Fraternitatis, ConfessioFraternitatis e Nozze Chimiche con Cristian Rosenckreutz.

Nel primo manifesto è narrata la vita del fondatore della setta, del suo pensiero e degli obiettivi che si prefisse l’Ordine rosacrociano. Nel ConfessioFraternitatis viene ripreso il messaggio della Fama con maggior forza descrivendo nei minimi particolari la vita di Rosenckreutz e promettendo la riforma del mondo con il rovesciamento della tirannia papale.

L’insegnamento della Confraternita si rifaceva al pensiero gnostico, il quale concepiva l’universo come un insieme di spirito e materia, e sosteneva l’ipotesi dell’esistenza di un essere divino supremo, eterno e inconoscibile.

Secondo l’opinione rosacrociana lo spirito umano è un frammento di questo “Superiore Sconosciuto” che si è distaccato diventando prigioniero della materia. Il mondo materiale non è opera del Dio supremo ma di una divinità minore.

I fini che si prefiggono i Rosacroce sono quelli di guarire i malati e di diffondere e acquisire nuove conoscenze.

Dalla metà del Seicento la Confraternita è ritornata a tramare e a diffondersi segretamente. Da allora si sono diffuse numerose sette che si ispiravano al pensiero di Rosenckreutz.

L’altra corrente sull’Ordine è quella storiografica, che respinge la tesi fondamentalista perché ritiene non esistente alcuna prova sulla effettiva presenza della Confraternita del Quattrocento fondata da Rosenckreutz, né tanto meno sulla derivazione esoterica dei Rosacroce; anzi, lo scrittore Valentin Andreae riconobbe nel 1618 che si era trattato di uno scherzo, di una burla agli intellettuali della sua epoca nel tentativo di creare un nuovo mito letterario.

Che il fondatore sia o non sia veramente vissuto non sembra essere un problema, dato che il successo che la Confraternita ha avuto, al punto da divenire un simbolo attorno al quale nascono varie correnti di pensiero che si rifanno agli ideali rosacrociani. Il movimento infatti s’innesta e spesso si confonde con associazioni affini di carattere politico-culturale, in un intreccio di non facile comprensione. Spesso coloro che si identificano come appartenenti alla Confraternita dei Rosacroce erano accusati di praticare la stregoneria o la magia nera, o di diffondere l’eresia; di conseguenza spesso si rifugiavano in stati dove la Chiesa era meno influente. Nacquero così in Inghilterra e in Olanda dei gruppi di stampo rosacrociano, come la Gran Loggia di Londra e la Libera Muratoria.

Lo scopo che ha avuto la Confraternita nella storia prescindendo dalla sua reale esistenza, è senza dubbio quello di aver costituito l’elemento catalizzante delle speranze e dei sogni di molti intellettuali del Seicento, che cercarono in essa l’ideale di fratellanza e di razionalità che poi sarebbero stati caratteri centrali dell’illuminismo.

Probabilmente la setta rispondeva ad una esigenza nuova, creata dalla nascita di stati organizzati che stavano dividendo quei popoli che durante il Medioevo avevano fatto parte dell’ecumene cristiano. Non a caso che a diverse riprese, con l’umanesimo prima e con l’illuminismo poi, sia partito dal mondo della cultura l’appello al cosmopolitismo e al superamento delle divisioni nazionali: tutto questo è nato proprio con la formazione degli stati nazionali e con il nuovo regime di guerra e di sospetto costante tra i popoli che essi comportavano.

I Rosacroce in fondo chiedevano proprio, come gli umanisti e come gli illuministi, che la cultura servisse prima di tutto a colmare i fossati che si stavano aprendo tra i popoli.

La Massoneria

Le origini più probabili risalgono alle corporazioni medioevali dei costruttori di cattedrali, alle associazioni artigiane che conservavano gelosamente i segreti del mestiere impegnando gli adepti, con riti e giuramenti solenni, alla loro scrupolosa osservanza e all’aiuto reciproco.

Fra le più antiche e meglio organizzate associazioni c’era la corporazione dei muratori che godeva di grande fama in tutta l’Europa del Medioevo. Essa sopravvisse attraverso i secoli, soprattutto in Inghilterra, dove entrarono a farne parte nobili e intellettuali attratti dai principi di fratellanza.

Vi aderirono anche nuclei esoterici, formati da alchimisti e appartenenti ai Rosacroce, i quali potevano trovare nella fratellanza una copertura e un comodo mezzo per fare riunioni e diffondere all’interno della Libera Muratoria (nome originale della Massoneria) la loro dottrina.

Col tempo queste corporazioni per il mantenimento dell’insegnamento dei maestri artigiani si trasformarono in organizzazioni esoteriche.

Nel 1717 in Inghilterra quattro di queste sette si fusero insieme dando vita alla Gran Loggia di Londra, abbandonarono definitivamente ogni carattere di associazioni di mestiere e divennero una società segreta.

Nella Massoneria, fin dalle origini, esistevano due correnti di idee: quella razionalista, ispirata ad un cristianesimo aperto e al deismo newtoniano, e quello spiritualista, la quale avrebbe trasformato le logge in circoli esoterici e alchemici.

Agli inizi del Settecento la Libera Muratoria si sviluppò in tutta l’Europa e grazie alla colonizzazione degli altri continenti si diffuse anche in India, in Africa e in America, dove ne fecero parte personaggi come George Washington e Benjamin Franklin.

Ma nel diffondersi abbandonò la razionale struttura inglese, trasformandosi in Massoneria scozzese, che si vantava della propria antichità e del possesso di verità spirituali e esoteriche appartenenti ai Templari.

Nacquero così diversi gruppi fondati da personaggi altrettanto misteriosi, che presero il nome delle loro presunte origini, ad esempio Massoneria Templare e Illuminati di Avignone.

Il Settecento fu il secolo in cui si sviluppò maggiormente la Massoneria, perché in questa si identificavano gli ideali razionali e progressisti dell’illuminismo. Molti personaggi famosi furono affascinati dalla cultura massonica. Basti ricordare nella letteratura Goethe nell’opera I dolori del giovane Werther, e nella musica Mozart nel Flauto magico e nella Musica funebre massonica.

In Italia e in genere nei paesi cattolici, la Massoneria dovette affrontare dure accuse, seguite da scomuniche della Chiesa che però non impedirono la sua diffusione, cui aderirono molti intellettuali come Goldoni e Alfieri nel Settecento, Verga e Carducci nell’Ottocento.

Dato il suo ampio proselito in tutta l’Europa, la Massoneria divenne un veicolo per l’espansione delle idee illuministe, tra cui l’atteggiamento anticlericale, che la portò ad essere accusata ingiustamente di aver fatto scoppiare la Rivoluzione Francese.

In Italia durante il Risorgimento molti appartenenti alla Carboneria e alle altre società segrete che si impegnavano nella lotta per l’indipendenza e la libertà, erano affiliati anche alla Libera Muratoria. Negli anni prossimi all’unità molti politici appartenenti al movimento democratico italiano appartenevano alla Massoneria, come Crispi e Garibaldi.

Con l’atteggiamento più tollerante attuato dalla Chiesa in questo secolo si andò attenuando il carattere battagliero massonico, sostituito da una reciproca comprensione e avvicinamento fra il mondo massone e quello cattolico. D’altra parte a partire della seconda metà dell’Ottocento le ideologie si sono divise adeguandosi alle necessità dei luoghi in cui erano esercitate.

Oggi la Massoneria mantiene le antiche divisioni in sette, fra le quali ricordiamo la Massoneria del Rito Scozzese Antico e Accettato.

Il numero degli aderenti alla Massoneria è stimato intorno a cinque milioni di adepti.

Il Priorato di Sion

L’argomento che sto per affrontare risulterà estremamente complesso nell’esposizione in quanto nel ricercare notizie le difficoltà incontrate sono state molte.

Ciò che manca sono precisamente gli “indizi” più concreti, quali ad esempio l’ufficialità dell’organizzazione, la localizzazione della stessa e i mezzi di contatto tra l’eventuale “partecipante” e la società stessa.

Più volte questi elementi vengono affermati e smentiti, quasi a testimoniare ulteriormente quanta poca chiarezza si abbia nei confronti del Priorato.

La sua esistenza è un fatto storicamente dato per accertato da studiosi che la identificano come società segreta tuttora praticante e con origini risalenti ai Templari; questi si sarebbero separati dal Priorato nel 1188.

Il presunto compito di questa setta è quello di preservare per il futuro la stirpe di Gesù. Infatti attraverso particolari studi si è giunti a fare un’ipotesi sconcertante e rivoluzionaria (se effettivamente provata) secondo cui il Salvatore non morì sulla croce (al suo posto ci andò Simone di Cirene), fuggì con Maddalena nel sud della Francia, con lei si sposò ed ebbe dei figli, i quali fondarono la stirpe di Gesù. In seguito questa si fuse con la famiglia dei Merovingi, ancora oggi protetta dal Priorato, che non appena se ne dia occasione proclamerà la propria sovranità.

Purtroppo il Priorato venne spesso associato con i famosi Protocolli di Sion, comparsi all’inizio di questo secolo e nei quali si sosteneva l’ipotesi che gli Ebrei tramassero un complotto mondiale per il dominio dell’intero mondo. I Protocolli successivamente si mostrarono invece un falso perverso e insidioso; nonostante ciò sono ancora oggi in circolazione come strumento di propaganda antisemita.

I Protocolli presentano un programma di dominazione totale basato sull’anarchia e sull’uso della Massoneria, per infiltrarsi ed assumere il controllo delle istituzioni sociali, politiche ed economiche.

Per il carattere sconcertante, ma allo stesso tempo spaventoso, vennero utilizzati dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, e poi anche dopo, per avere un motivo in più nello sterminio degli Ebrei.

Il Priorato è ufficialmente registrato in un giornale francese nel quale è pubblicato anche il carattere fondamentale degli adepti: “Il Priorato di Sion ha come scopi la perpetuazione dell’ordine tradizionalista della cavalleria, il suo insegnamento iniziatico e la mutua assistenza morale e materiale tra i suoi membri, in ogni circostanza”.

Una delle cose più sconcertanti di ciò che circonda il Priorato è la possibile appartenenza ad esso come Gran Maestri di personaggi che con l’esoterismo apparentemente non hanno avuto a che fare, come Leonardo da Vinci, Valentin Andreae, Robert Boyle, Isaac Newton, Victor Hugo e Claude Debussy. Però figurano anche uomini ignoti ai più, che magari hanno avuto una vita tutt’altro che adeguate al ruolo di Gran Maestro. Sembra che esista un solo filo conduttore tra tutti, da ricercare nel fatto che erano legati per parentela di sangue o per associazioni personali alla famiglia dei Merovingi.

Inoltre tutti avevano avuto rapporti con vari ordini o società segrete, nutrivano simpatia per il pensiero esoterico e in quasi tutti i casi c’erano stati stretti contatti fra ogni Gran Maestro, il suo predecessore e il suo successore.

La figura del Gran Maestro è quella di un re-sacerdote che “regna ma non governa”.

Nel corso della storia, la Chiesa ha sempre tentato di offuscare le prove sull’esistenza della stirpe di Gesù (successivamente ricondotta al Santo Graal), che sono invece presenti ad esempio in alcuni brani dei Vangeli e in altri documenti da sempre volutamente dimenticati.

Se veramente oggi esistesse un discendente diretto o indiretto di Gesù e se questo potesse essere provato, tramite ad esempio i misteriosi documenti scomparsi durante la disfatta dei Templari, questi soppianterebbero il potere del papa e diverrebbe egli il nuovo sovrano assoluto della cristianità. Forse non solo di questa.

Infatti, se Gesù venisse riconosciuto come un profeta mortale (pari a Maometto e a Buddha), un re-sacerdote, legittimo sovrano della stirpe di David, verrebbe riconosciuto come re anche dai Mussulmani e dagli Ebrei, riconciliando così queste tre principali religioni, guide dell’intera storia umana: cristianesimo, giudaismo e islamismo.

Il Priorato ha da sempre operato per creare un Sacro Romano Impero innovato, una sorta di Stati Uniti d’Europa alla pari delle grandi potenze come gli USA e l’URSS, fondati però su basi spirituali e non su teorie ideologiche.

Questa federazione di stati sarebbero governati da un membro della famiglia dei Merovingi. Questi non occuperebbe soltanto il trono del potere politico, ma anche quello di San Pietro.

Il compito di amministrare la potestà sarebbe affidato al Priorato di Sion assumendo la funzione di un Parlamento Europeo.

Questo fine che si prefigge la setta sembra essere una possibile soluzione al generale malcontento che attualmente regna nella nostra società, da ricercarsi in una disillusione, sull’insoddisfazione verso il sistema che regola il nostro vivere quotidiano, ma soprattutto nella mancanza di qualcosa in cui credere sinceramente.

La riunificazione degli stati appartenenti all’Europa sembra vicina; resta da attuare un rinnovamento religioso verso il quale indirizzare i nostri ideali morali.

Rimane soltanto un dubbio: l’unità politica e religiosa è opera, anche solo indiretta, del Priorato di Sion oppure è una naturale esigenza che l’uomo ha?

Gesù non è stato crocifisso, ed è per questo che i Templari rinnegano il crocifisso. La leggenda di Giuseppe d’Arimatea copre una verità più profonda: Gesù, non il Graal, sbarca in Francia presso i cabalisti in Provenza. Gesù è la metafora del Re del Mondo, del fondatore reale dei Rosacroce. E con chi si è sposato a Cana? Ma perché erano le nozze di Gesù, nozze di cui non si poteva parlare perché erano con una peccatrice pubblica, Maria Maddalena. Ecco perché da allora tutti gli illuminati da Simon Mago a Postel, vanno a cercare il principio dell’eterno femminino in un bordello. Pertanto Gesù è il fondatore della stirpe reale di Francia.
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Bompiani 1988

Bibliografia

Alexandrian, Sarane – Storia della filosofia occulta – Mondadori 1984

Arnold, Paul – Storia dei Rosacroce – Bompiani 1990

Baigent, Michael &Leigh, Richard &Lincoln, Henry – Il Santo Graal ­ Mondadori 1982

Bordonove, Georges – I Templari – Sugarco 1989

Eco, Umberto – Il Pendolo di Foucault – Bompiani 1989

Francovic, Carlo – voce Massoneria – Enciclopedia Europea Garzanti – vol. 7 Milano 1980

Introvigne, Massimo – Le sette cristiane – Mondadori 1989

Nardini, Bruno – Misteri e dottrine segrete – Convivio 1988

Palmi, Enrico &Bonvicini, Eugenio – Templari e Rosacroce – Atanòr 1988

Trocchi, Cecilia – Magia ed esoterismo in Italia – Mondadori 1990

Post scriptum

Queste pagine le scrissi trent’anni fa, ma paiono calzare benissimo anche in questo momento in cui sembra prevalere il desiderio di trovare trame oscure a cui attribuire ogni colpa possibile.