Alla ricerca di un impero

dicembre 2025

di Paolo Repetto, 8 dicembre 2025

Per valutare la qualità della vita in un luogo, sia esso una nazione o una singola città, si sommano e si incrociano diversi criteri, che vanno dal tasso di istruzione a quelli di occupazione o di criminalità, dal reddito pro-capite all’aspettativa di vita, dalla qualità dell’aria e dell’acqua all’efficienza dei trasporti: ma alla fine le graduatorie che ne risultano vedono nelle primissime posizioni sempre gli stessi nomi. Ora, è evidente che queste valutazioni possono essere considerate “oggettive” solo fino ad un certo punto, perché il peso e la rilevanza dei vari parametri dipendono da chi le graduatorie le stila, e qui entrano in gioco un sacco di interessi, (dagli operatori turistici alle compagnie di bandiera, agli enti promozionali, persino alle pressioni politiche, ecc…); ma soprattutto perché sono espresse a partire da un particolare punto di vista (nella fattispecie, quello del modello culturale “occidentale”).

Al netto di tutte le obiezioni “politicamente corrette”, dobbiamo comunque ammettere che offrono un quadro abbastanza realistico della situazione, senz’altro più attendibile di quello che possiamo trarne soggettivamente da visite in genere frettolose (e compiute magari in condizioni non ideali di salute o di compagnia, o disturbate da inconvenienti di varia natura). Anche se poi il quadro di cui conserviamo il ricordo, e che trasmettiamo ad altri nel racconto delle nostre esperienze, è proprio quest’ultimo.

Verrebbe però da chiedersi a chi e a cosa servano queste graduatorie. Io credo rispondano alla sempre crescente necessità del mondo moderno di sterilizzare, amalgamare e ricondurre tutto entro tassonomie matematiche (per ogni singolo fattore di valutazione è assegnato un punteggio, e il risultato è una sommatoria), oggi si direbbe algoritmiche, tali da consentire la pianificazione e il controllo di ogni attività: e naturalmente, per ricaduta, a influenzare ad esempio le nostre scelte di viaggio. Ma non possiamo negare che siano anche specchi nei quali si riflette in definitiva la natura umana più profonda: perché seppure di norma pensiamo di essere attratti da ciò che trasmette emozioni forti, dal “sublime” romantico per intenderci, in realtà quel sublime lo apprezziamo solo come gli spettatori di lucreziana memoria che dalla riva assistono a un naufragio. Non è più tempo di avventurieri, ma di turisti. Per questo finiamo poi per preferire in genere mete “sicure”, che garantiscano un certo livello di ordine, di tranquillità e di razionalità; per questo difficilmente prendiamo in considerazione Haiti o Mogadiscio, che di emozioni ne riservano a bizzeffe; e per questo, tra l’altro, ci indispettiamo e recriminiamo quando ai primi posti nelle graduatorie di merito non troviamo menzionata alcuna città italiana.

Al di là di tutto ciò, comunque, ciascuno di noi, in base al suo carattere e alle sue esperienze, elabora più o meno consapevolmente un suo sistema di valutazione, i cui criteri potranno mutare col trascorrere dell’età e con l’accumulo delle occasioni di incontro e di confronto, oltre che degli acciacchi, ma che sostanzialmente lo accompagnerà per tutta la vita.

Io, ad esempio, sono sempre stato propenso almeno in teoria alle esperienze più tranquille: anche se di fatto più per sbadataggine e superficialità che per averle veramente cercate, ho poi finito per viverne sin troppe del primo tipo. E ho adottato per le mie valutazioni della qualità della vita e dei livelli di civiltà (si, sono politicamente molto scorretto) alcuni peculiarissimi criteri, meno freddi di quelli numerici e in qualche caso altrettanto o più significativi. Sono criteri diciamo così “turistici”, desunti in genere da soggiorni brevi, ma che un’idea di massima la possono dare.

Vediamoli. Se c’è qualcosa che parrebbe non offrire elementi per una gerarchizzazione, questa sono gli aeroporti e in genere tutti i non-luoghi, dagli autogrill ai grandi magazzini. In linea di massima differiscono solo per le dimensioni, e anche se oltre un certo livello la “quantità” diventa necessariamente “qualità” la funzione di transito veloce cui assolvono (a meno di rimanerci intrappolati come Tom Hanks in The Terminal) li rende in qualche modo ai nostri occhi identici. Ma se con gli occhi non seguiamo soltanto le indicazioni per l’uscita o quelle per l’imbarco le cose non stanno proprio così.

Gli aeroporti, ad esempio, sono il tramite per eccellenza e il simbolo stesso della globalizzazione seriale. Eppure anche già al loro interno qualche sfumatura di differenza la si può cogliere, a partire dalla maggiore o minore pulizia delle toilettes, e prima ancora, dalla facilità di reperirle. Quello delle toilettes è un mio chiodo fisso. Il grado di civiltà di un paese lo puoi già intendere alzando gli occhi in qualsiasi via o piazza, ma persino in prossimità di spiagge o scogliere deserte, come accade nel Devon, o nei villaggi più sperduti: se scorgi subito l’indicazione con l’omino e la damina stilizzati il livello è molto alto.

A Vienna poi, perché lì sono sbarcato più recentemente e proprio lì voglio portarvi, nella segnaletica compare anche un terzo pittogramma, quello che indica il terzo sesso (lo riferisco per informazione, non perché abbia a mio giudizio una particolare rilevanza: in realtà non ho capito bene a che serva, le sezioni interne essendo sempre due).

Per raggiungere le toilettes, o subito dopo, ci sono le scale mobili. Un altro modo per percepire al volo la qualità della vita di un luogo è scendere o salire le scale mobili. Capisco che un integralista dell’efficienza fisica possa disdegnarle, ma uno psicologo sociale in pectore come me, soprattutto se parecchio avanti con gli anni, non può farsi di questi problemi: e poi ormai sono molti gli snodi in cui le scale normali nemmeno esistono.

Comunque: arrivando da una giornata trascorsa a Milano, dove avevo rischiato più di una volta di essere travolto da gente che le saliva o scendeva di corsa, neanche avesse la polizia alle calcagna, e sembrava non aver ancora introiettata l’idea che sono quelle a doversi muovere, ho trovato all’aeroporto austriaco (così come poi ovunque nella città) una grande compostezza; nessuno che smaniasse per farsi largo o ti guardasse storto se ingombravi col bagaglio o non ti tenevi rigorosamente appiccicato alla fiancata scorrevole destra. Ne ho immediatamente ricavato l’impressione di una vita meno frenetica, più rilassata e ordinata. Mi sono anche dato una spiegazione del fatto che le scale siano quasi verticali, cosa che in un primo momento mi aveva lasciato perplesso: con quella inclinazione a salirle di corsa ti becchi un infarto, se le scendi a precipizio rischi seriamente di volare di sotto (l’altra spiegazione, più banale, sarebbe che stratificate ad imbuto fino a trenta o cinquanta metri sottoterra occupano molto meno spazio). Mi hanno ricordato l’equivalente inglese delle nostre strade statali e provinciali: piste a doppio scorrimento ma a carreggiata unica, larghe giusto poco più di un’auto e chiuse lateralmente non da cunette ma da muretti a secco, senza alcuna indicazione di limiti di velocità: quelli li impone il buon senso – che sembra funzionare, e si capisce il perché.

Dall’aeroporto le prime scale danno accesso direttamente alle linee ferroviarie, scendendo ancora conducono a quelle della metropolitana. E qui, per le une e per le altre, nuova sorpresa. Non ci sono i tornelli, si accede liberamente a qualsiasi linea. Posso tranquillamente riporre il biglietto acquistato on line. Tutto procede sulla fiducia. La sensazione immediata è che tutti abbiano in tasca, come me, il loro documento di viaggio. Penso comunque che poi, una volta sul treno, ci sarà un controllo. Macché. Non ne ho visto uno in quattro giorni, trascorsi in buona parte a saltare da un vagone all’altro. Anche qui, mi è tornata in mente la scena di quella volta che a Torino, salito su un tram, sono andato immediatamente a obliterare il biglietto. Il click dell’obliteratrice ha richiamato l’attenzione sorpresa e infastidita di tutti gli altri passeggeri: mi guardavano in tralice come fossi un marziano, non con derisione, ma con una malcelata ostilità. Stavo infrangendo una norma consuetudinaria.

Mi chiedo come sia possibile che quella società si regga sulla fiducia, come ci si sia arrivati e se per l’avvenire questo rapporto potrà continuare. Gli austriaci non sono nemmeno luterani o calvinisti, sono cattolici come noi, non si può far risalire alla matrice religiosa il senso del dovere civico: forse li hanno educati a bastonate, o forse semplicemente hanno introiettato un forte senso di responsabilità nei confronti della cosa pubblica perché almeno in passato sono stati bene amministrati. Non credo comunque si tratti di indole, la causa è senz’altro esterna, è culturale, è storica. Probabilmente è la somma di tanti fattori tutti molti lontani dalla mentalità vigente dalle nostre parti, e va al di là della nostra capacità di comprensione.

Intanto, percorrendo sulla linea di superficie il tratto che separa lo scalo aeroportuale da Vienna, sono già immerso nell’Art Nouveau. La rete ferroviaria viennese, oltre ad assicurare un servizio puntuale al secondo, una estrema pulizia e una informazione precisa sulle fermate, costituisce di per sé un’opera architettonica di grande pregio. L’ha curata in ogni dettaglio un architetto “secessionista”, Otto Wagner, che per un ventennio fu sovrintendente alle costruzioni ferroviarie, uniformando nello stile e nei colori stazioni, ponti, ringhiere, tutto ciò insomma che offre un impatto visivo immediato. Può piacere o meno, ma è indubbiamente simbolo della volontà di armonizzare arte e vita quotidiana, di far entrare la prima come elemento costante nella seconda, educando un gusto alla bellezza che deve poi esprimersi in ogni aspetto della quotidianità. Gli integralisti della concezione dell’arte come provocazione non saranno d’accordo, ma per me è una forma alta e dignitosa di resistenza alla pervasione del grigiore e del piattume indotti dalla modernità, senza peraltro sacrificare nulla dell’efficienza.

La ferrovia offre un’anteprima, volutamente pensata e proposta con estrema discrezione, di quel che troverai a breve in città. Non vuole provocare uno shock, ma consentire un pre-riscaldamento delicato, una prima dolce assuefazione al bello diffuso.

Quando accedo alle linee metropolitane ho dunque già inforcato senza accorgermene occhiali diversi. Mi si è abbassata la pressione da viaggio, non stringo più spasmodicamente il manico retrattile del trolley. Appena riemerso dal sottosuolo, poi, con una semplice occhiata buttata in giro durante i quattro passi che mi separavano dall’albergo (perché la copertura offerta dalla rete sotterranea è davvero capillare, non c’è una meta in città che disti più di centocinquanta metri da una stazione), sono confermato nella percezione di un’atmosfera piacevolmente rilassata, desumibile già dalla camminata dei passanti, e ho un primo contatto con spazi verdi diffusi, con strade molto ampie, percorse da un traffico estremamente scorrevole e disciplinato. Tutte cose che concorrono alla sensazione di una estrema “respirabilità”, favorita anche dall’altezza uniforme di costruzioni che si succedono compatte e che non superano mai il quarto o il quinto piano.

Quest’ultima caratteristica soddisfa un’altra mia sindrome particolare: ho bisogno di vedere il cielo senza tenere troppo il naso per aria. Se poi quei palazzi sono anche belli, se mostrano una coerenza architettonica senza stranezze eccessive, se testimoniano una concezione urbanistica che ha resistito alle sirene della iper modernità, si compie la quadratura del cerchio.

Non è la prima volta che visito Vienna, ma l’ultima risale a oltre trent’anni fa, e allora per vari motivi non avevo avuto modo di riflettere su queste cose. C’ero arrivato in macchina, e nei giorni successivi me l’ero percorsa tutta a piedi (all’epoca avevo un’autonomia di quaranta-cinquanta chilometri al giorno, e soprattutto avevo una concezione piuttosto penitenziale del turismo), per cui non avevo mai usato la metropolitana. Le volte precedenti guidavo gite scolastiche, per le quali facevo valere i miei convincimenti odeporici e non avevo nemmeno il tempo di guardarmi attorno o per aria.

Una volta completata la sistemazione logistica mi muovo per un primo approccio esplorativo. So di avere il cielo aperto sopra di me, respiro tranquillo e mi dedico a ciò che mi circonda. Non posso non apprezzare l’eleganza raffinata, mai cafona, dei negozi, la perfetta manutenzione di bellissimi palazzi risalenti a un secolo e mezzo fa, la pulizia di strade e marciapiedi, che non si capisce da chi e quando venga effettuata, la cura delle diffuse aree verdi. Come mi disse una volta Franco Vallosio, reduce da un lungo viaggio in Svizzera: “Vai a sapere quanto sfruttamento c’è dietro tanta pulizia e tanto ordine: ma almeno là l’ordine c’è, mentre da noi c’è solo lo sfruttamento”.

Solo dopo un po’ comincio ad avere la percezione di un’assenza, e mi accorgo che nel panorama manca una componente ormai diffusa in tutte le altre grandi città, da Londra a Parigi e a Milano (ma anche in quelle piccole). Non ci sono in giro homeless. Non ne incontrerò nemmeno nelle escursioni serali. Visti i precedenti (mi riferisco a quanto accadde più di ottant’anni fa) verrebbe da pensar male: ma l’atmosfera non è affatto quella. Non credo li abbiano fatti sparire, penso semplicemente che ci siano luoghi che la notte li ospitano, ma anche di giorno. Questi luoghi esistono anche da noi, e in gran parte d’Europa, ma semplicemente qui funzionano, e chi ne ha bisogno viene convinto con una certa fermezza ad utilizzarli. Può sembrare una concezione che sacrifica al decoro urbano la libertà individuale, da noi senz’altro verrebbe considerata tale, ma in realtà è solo lo smascheramento di un libertarismo peloso, quello per il quale ciascuno può fare ciò che gli pare, dalle nostre parti molto praticato.

Potrei andare avanti per pagine ad elencare i fattori che concorrono alle mie valutazioni, ma credo che quanto ho scritto finora basti a rendere l’idea. In pratica il criterio è molto banale: quando si parla di qualità della vita i numeri non bastano, anche se non guastano: ti dicono quali possibilità sono offerte, non necessariamente quanto e come e con quali esiti vengono colte. Questo è poi affar tuo scoprirlo. E in tal senso nella qualità della vita faccio rientrare anche un altro fattore, difficilmente computabile: la consapevolezza del sostrato storico sul quale si cammina.

Nei pochi giorni che avevo a disposizione ho fatto il pieno di Secessione e di Klimt e di Schiele, ma soprattutto sono riuscito a intravvedere i fantasmi dell’epoca d’oro della città, di quella fetta iniziale del Novecento nella quale Vienna esprimeva, prima come capitale di un impero fondato sulla giustapposizione tra culture diverse, e non sullo scontro, e poi come sopravvissuta nostalgica di tanta grandezza, il meglio della cultura europea: molto più di Parigi, a mio giudizio, perché nella capitale francese erano soprattutto gli stranieri, esuli volontari (come gli anglosassoni) o meno (come italiani, tedeschi o spagnoli), ad esprimerla.

Come per tutti gli altri aspetti, a Vienna anche la vita culturale risulta più discreta. Quando si parla di cultura pre e post primo conflitto mondiale la gran parte delle figure (e dei movimenti) di riferimento nella letteratura (da Karl Kraus, a Schnitzler, a Zweig, a Musil) nella filosofia (da Carnap a Wittgenstein e a Freud), nella musica (da Mahler, a Schönberg, a Berg, a Webern), nelle scienze (da Mach a von Mises, a Gödel), oltre a quelle naturalmente che ho già citate per l’arte, arrivano da lì: ma non sono mai state strombazzate quanto ad esempio il futurismo italiano o il surrealismo francese (provate a chiedere in giro chi conosce la Secessione Viennese, l’Art Nouveau, lo Jugendstil o l’opera architettonica e urbanistica di Otto Wagner) e anche all’epoca non si sono mai esibite in manifesti o manifestazioni spettacolari, ma nella realizzazione di opere. Ancora oggi rimangono essenzialmente patrimonio locale, anche se non mancano di concedersi ogni tanto in prestito allo spaccio dilagante di mostre e convegni e ricorrenze anniversarie.

Qui credo comunque di aver perfettamente capito a cosa si riferiva Benjamin quando parlava di “aura”. Se entri al museo del Belvedere dopo aver attraversato mezza città ti trovi in assoluta continuità con quanto hai visto o percepito sino a quel momento, scendi solo più in profondità. Fuori da quel contesto, dell’opera di Klimt o di Schiele puoi solo ammirare la bellezza esteriore, se ti piace il genere, puoi contemplarla stupito o perplesso, ma non puoi assolutamente comprenderla. E lo stesso vale per i romanzi di Musil e i memoires di Zweig, o per la musica di Mahler e di Berg. Persino la logica di Gödel ha la sua naturale dimora e intelligibilità in quel luogo e in quel tempo.

Più in generale, stante che il contesto storico cui faccio riferimento non va oltre gli anni Trenta del secolo scorso, anche la storia dell’Impero asburgico si distingue per l’essersi mossa quasi in sordina, senza eccessi e senza infamie particolari. In fondo è l’unica istituzione politica dell’Europa occidentale, a parte la Svizzera, a non essersi ritagliata appendici coloniali fuori del continente. Certo, l’Africa e l’Asia degli Asburgo erano nei Balcani, ma il sistema amministrativo consentiva a ben nove diversi popoli soggetti larghe autonomie, e il controllo veniva esercitato con mano leggera. Teniamo presente che nell’ultimo secolo di esistenza l’amministrazione imperiale è stata osteggiata all’interno non da rivendicazioni sociali (non erano tali neppure quelle del 1848) , ma da un montante spirito nazionalistico, quasi sempre alimentato da interessi politici ed economici esterni. In questo senso il modello imperiale asburgico può essere considerato l’ultimo tentativo di tenere assieme almeno una parte di quell’Europa che avrebbe finito nel giro di un trentennio e di due spaventosi conflitti successivi per suicidarsi. Ora, visti i recenti fallimenti degli sforzi per avviare una nuova riunificazione, varrebbe forse la pena di andarsi a rivedere come funzionavano al suo interno le cose, almeno per trarne una qualche ispirazione. Da quello che è il ricordo lasciato in Italia, nelle regioni rimaste sotto il suo diretto dominio fino al 1866, e per quello che è accaduto nei Balcani dopo la disgregazione, direi che ci sarebbe molto da imparare.

Non deve sorprendere allora che prima di rientrare abbia dedicato mezza giornata alla ricerca di una grande carta geopolitica, possibilmente d’epoca, dell’impero austro-ungarico, da affiancare nel mio studio a quella dell’Europa antecedente il 1848. Non l’ho trovata, e quando ho chiesto a un negoziante antiquario particolarmente fornito se dipendesse dal fatto che agli austriaci non interessa il loro passato, mi sono sentito rispondere che, al contrario, come quel tipo di carte gli arrivano spariscono in un baleno. Anche questo significa qualcosa, e non può essere tabellizzato in alcuna graduatoria.

Tirando tutte le somme (in senso figurato, s’intende: ma in fondo anche quelle concrete, delle spese sostenute) si è trattato di una esperienza decisamente positiva. Mi rimane il rimpianto per la carta: nello studio avrebbe ben figurato, e avendola costantemente sotto gli occhi avrei potuto ogni tanto staccare e volare con la mente oltre le Alpi. In Italia mi sarà difficilissimo, se non impossibile, rintracciarne una. Dovrò limitarmi a vedere ogni possibile film ambientato a Vienna, come già faccio per quelli girati in Islanda (ma di questa una bella carta d’antan la possiedo), e gioire ogni volta che mi sembrerà di riconoscere un luogo che ho frequentato, e di poter entrare di soppiatto nell’azione. È l’unico modo, alla mia età, per illudersi di viaggiare ancora da protagonisti.

Prospettive (a/o)ccidentali

di Paolo Repetto, 24 giugno 2024

(Questo testo è stato concepito come introduzione al volume IX delle Opere complete dell’autore, la cui uscita sembra rimandata sine die per analfabetismo digitale dello stesso. Ve lo anticipiamo comunque, in attesa che ritrovi la sua originaria destinazione.)

Nel lessico architettonico la prospettiva accidentale (detta anche angolare) è quella che identifica sulla linea dell’orizzonte due punti di fuga, uno a destra ed uno a sinistra rispetto al punto di vista. Questo avviene quando il piano sul quale si situa l’osservatore non è parallelo all’oggetto osservato, ma angolato. Per intenderci, quando si visualizza e si rappresenta un oggetto non frontalmente, ma di sbieco. È la modalità di rappresentazione che incontriamo con maggior frequenza nel disegno architettonico moderno (ad esempio, negli scorci urbani futuristici di Sant’Elia), perché suggerisce l’idea di una visione “casuale”, di una “istantanea”, e in qualche modo, invece di fissarla, movimenta l’immagine. Per ottenere tale effetto è anche opportuno che la figura risulti sfalsata rispetto al quadro prospettico secondo angoli diseguali (non cioè due angoli di 45°), e che il punto di vista scelto sia quello che offre lo scorcio più “interessante”.

Se questa modalità la si trasferisce su un piano simbolico, ci offre la metafora perfetta del rapporto che è venuto a crearsi nel corso dell’età moderna tra il soggetto osservante e il mondo che lo circonda: e questo vale tanto per il rapporto spaziale (l’uomo e la natura, l’individuo e la società) che per quello temporale (l’uomo e la storia). Vorrei usarla quindi come tale, ma prima cerco di spiegarmi meglio, e per farlo devo fare un passo indietro e partire da lontano.

Accade questo. Nel Quattrocento e nel corso del Rinascimento si compie nelle arti visive quella che viene definita la “rivoluzione prospettica”. Si adotta cioè un punto di vista esterno rispetto all’oggetto da rappresentare: si frappone uno spazio tra soggetto e oggetto, come se l’uomo, che aveva vissuto sino a quel momento “dentro” la natura (e, aggiungerei, dentro una qualsivoglia comunità di specie, tribale, religiosa, militare, ecc …) da un lato sentendosene parte, ma dall’altro rimanendone in balìa, cominciasse a guardare ciò che lo circonda da una finestra, e a staccarsene. La finestra, come avverrà più tardi con l’obiettivo fotografico, “in-quadra” il mondo osservato, definisce la separazione dell’osservatore, e induce quest’ultimo a scegliere un posizionamento (il punto di vista) che renda possibile concentrare la sua attenzione su quanto riveste per lui uno specifico e immediato interesse. La messa a fuoco avviene seguendo delle linee ideali, le cosiddette “linea di fuga”, che non si fermano sull’oggetto, ma si prolungano sino a incontrare in un “punto di fuga” il piano dell’orizzonte. In questo modo si determina una distanza, una separazione dall’oggetto: ma poi si reintegra quest’ultimo in uno spazio “geometrico”, quello che il soggetto gli crea attorno, davanti e dietro. In sostanza si inventa, o si riconosce, una nuova dimensione esterna, quella della profondità, in opposizione alla quale cresce, si evidenzia e si proietta a sua volta quella interna dell’individualità.

Prospettive occidentali 02

L’introduzione della profondità modifica infatti radicalmente il rapporto con tutto ciò che sta fuori. Andate a rivedervi Masaccio, Paolo Uccello e La scuola di Atene di Raffaello e capirete di cosa sto parlando. Mentre lo spazio piano, che era caratteristico della cultura classica e di quella medioevale, consentiva al suo interno una differenziazione eminentemente qualitativa, nella quale valeva un gioco di corrispondenze e di similitudini che prescindevano da ogni computo, quello prospettico ne introduce una quantitativa, sconosciuta agli antichi. In altre parole, il soggetto si “appropria” dell’oggetto inserendolo in una dimensione profonda che consente di rilevare i volumi, lo inscrive in una struttura geometrica, e quindi lo “quantifica”: e si appropria anche dello spazio (non solo di quello fisico, ma anche, ad esempio, di quello politico e relazionale), perché lo ridisegna.

In questo modo l’umanità può controllare un mondo dal cui abbraccio si è divincolata, e “razionalizzarlo”. È come se per millenni avesse ammucchiato mattoni, magari associandoli per grandezza o per colore, e adesso cominciasse a disporli e organizzarli secondo le linee e gli angoli di un progetto ben preciso di edificazione. Non solo: ogni successivo arretramento della linea dell’orizzonte, prodotto dalla proiezione del progetto nel futuro, induce una crescente curiosità nei confronti dell’incognito, sempre meno frenata da paure e superstizioni e sempre più sorretta da nuove potenzialità previsionali. Questa è non a caso l’età delle scoperte geografiche, che abbandona la navigazione a vista e introduce il calcolo delle rotte. La profondità può essere percorsa, comporta possibilità inedite di movimento e di relazioni, e le distanze da coprire sono tradotte in tempi e costi (o vantaggi).

Le implicazioni che discendono a catena da questa modalità di rappresentazione del mondo non riguardano dunque solo la percezione dello spazio. Anche la concezione del tempo è strettamente connessa all’adozione della prospettiva, e anch’essa conosce una dilatazione, sia della profondità storica che della progettualità nei confronti dell’avvenire. Ad un remoto spaziale si associa insomma anche la consapevolezza di un remoto temporale, passato o futuro. L’idea che noi occidentali abbiamo del tempo dipende infatti, oltre che dall’assunzione a modello percettivo del ritmo biologico e della linearità della vita individuale, dal modo in cui ci rappresentiamo lo spazio. Questo lo aveva già capito Aristetele, quando diceva che il tempo è quello “spazio” che intercorre tra il prima e il poi, e in quello spazio si dà il movimento, e quindi il tempo è il “numero”, la misura del movimento.

Malgrado ciò, nel ‘500 l’associazione spazio-tempo non è ancora così immediata: lo dimostrano le fogge nelle quali sono abbigliati, nelle rappresentazioni di vicende dell’antichità classica o della storia testamentaria, i protagonisti, o le architetture rinascimentali entro le quali questi si muovono. Ma la profondità dell’ambientazione, con la possibilità di immaginare al suo interno un movimento delle figure, già di per sé “storicizza” quanto viene mostrato. Per rimanere nell’esemplificazione iconografica, alla fissità atemporale dei vari Cristi crocifissi o delle Madonne in trono succedono le rappresentazioni “drammaticamente” ambientate delle Annunciazioni o del pagamento del tributo. Questo implica, nel caso delle prime, la “storicizzazione” della vicenda evangelica, la costruzione di una biografia del Cristo distesa nel tempo; nel secondo caso la separazione tra ciò che attiene al sacro e quanto ricade nel profano, e al tempo stesso la legittimazione ad esistere di quest’ultimo.

La nuova modalità di conoscenza prodotta dal collocarsi fuori dal quadro identifica insomma in ciò che viene osservato nuovi significati e nuove potenzialità, e li piega ad uno scopo. Impone cioè che si adottino dei criteri di scelta delle direzioni da percorrere e dei progetti da realizzare, e suppone che questi ultimi siano quantificabili in tempi, costi e risultati.

Riassumendo: da un certo periodo in poi il mondo e le azioni che si compiono nei suoi confronti sono visti “in prospettiva”. Le direzioni, i progetti, le aspettative, sono altrettanti atti di volontà di un soggetto che si è separato dall’oggetto della sua conoscenza, negando implicitamente quella organicità indifferenziata di cui in precedenza si sentiva partecipe: le cose non accadono per fatalità o per leggi naturali intrinseche ed immutabili, non scorrono davanti a noi come su uno schermo, o attorno a noi come in una rappresentazione plastica nella quale figuriamo solo come comparse, ma vengono riordinate nella profondità di uno spazio pensato dall’uomo a sua misura, secondo sequenze geometriche e matematiche delle quali ha la regia. All’interno di questo spazio creato dalla prospettiva, che contempla la dimensione della profondità, l’oggetto non risulta più statico, ma diventa passibile di spostamento, e il soggetto acquista facoltà di intervento. Alla fissità della statica subentra il primato della dinamica; lo studio e la riproduzione dei meccanismi del movimento gettano le fondamenta della moderna meccanica. Ora, l’unico modo nel quale si può attraversare lo spazio è il tempo, e lo spazio prospettico matematizzato ha quindi riscontro in una prospettiva temporale nella quale l’uomo comincia a iscrivere il proprio agire, e che sancisce in fondo la vittoria definitiva dell’idea biblico-cristiana della linearità del tempo, introducendo in più quella della fuga in avanti (ovvero, della progressione).

Questo modo di procedere viene definito in un primo momento “iuxta propria principia”, come fosse dettato dai principi stessi naturali, quasi a difenderlo dal sospetto di sacrilegio. In realtà quei principi sono dettati dai modi nei quali la natura è rappresentata, dalla necessità di ricondurre tutto a spiegazioni razionali, anche quando le si cerca col tramite dell’esperienza. In fondo anche Galileo parte dal presupposto che “la natura è un libro scritto da Dio in linguaggio matematico”. Il fatto è che il libro non lo ha scritto né dettato Dio, ma gli uomini, e gli uomini possono leggere solo quello che essi stessi hanno scritto. Non tarderanno ad accorgersene, ma ci vorranno secoli prima che arrivino ad ammetterlo.

Prospettive occidentali 03

Mi accorgo che forse l’ho messa giù troppo pesante, e a questo punto dubito fortemente che la mia sintesi possa risultare chiara: ma ho già trattato l’argomento della “rivoluzione prospettica” in Da Pico a Bacone, e a quel testo rimando. Nell’occasione avevo però badato soprattutto a cogliere le premesse della trasformazione epocale dei modi della percezione, e a documentarne lo straordinario impatto in ogni ambito della conoscenza umanistico-rinascimentale (e, naturalmente, della prassi), fermandomi alle soglie di quella che sarebbe poi stata definita la “modernità”. Proprio quella che invece, sempre in maniera molto sintetica, vorrei provare ad affrontare adesso (anche se, in realtà, ho già sviluppato questa parte in maniera più analitica in un altro testo, La discesa dal Monte Analogo – cfr. il capitolo Razionalizzare il mondo).

La rivoluzione prospettica non va comunque a compimento nel Rinascimento: conosce ulteriori sviluppi, quelli appunto che dovrebbero essere oggetto di queste pagine e che stanno all’origine del nostro attuale “disorientamento”.

Il fatto è che la prospettiva centrale, o frontale, quella adottata per le arti visive nel Rinascimento, dilata indubbiamente lo spazio, ma nella sostanza poi lo richiude, perché fa convergere in un punto preciso (il punto di fuga) le linee di proiezione. Questo è un modo senz’altro efficace per mantenerne il controllo. Un esempio lampante lo possiamo trovare negli sviluppi della conoscenza geografica cui ho già fatto cenno. Le scoperte spostano ripetutamente in avanti la linea dell’orizzonte, aprono sempre nuovi spazi, ma su questi viene immediatamente gettata una rete di linee geometriche che li ingabbiano, li razionalizzano e li quantificano. La conoscenza nuova che si ha del mondo è immediatamente tradotta in distanze, tempi di percorrenza, prospettive economiche.

Sul finire del Rinascimento però questa rete di controllo, che in fondo rispondeva ancora alla concezione classica di unitarietà del mondo, comincia a mostrare le sue falle. Le varie rivoluzioni che si succedono, da quella religiosa a quella scientifica, e prima ancora quelle indotte dalla stampa o dalle armi da fuoco, introducono una molteplicità di punti di vista, e quindi di potenzialità prospettiche. Si comincia a guardare da finestre diverse, con diverse angolazioni, su orizzonti che non solo si spostano, ma mutano. A mano a mano poi che si realizzano una conoscenza e un dominio sempre più ampio e performante sulla natura si scopre anche che ogni nuovo passo apre più problemi e interrogativi di quanti non ne risolva. La “docta ignorantia” di Cusano, che sembrava essere stata messa alla porta proprio con l’introduzione della prospettiva, rientra dalla finestra: solo che non riguarda più le cose di Dio, la Verità, ma le cose del mondo.

Anche in questo caso è l’arte a dare conto nella maniera più immediata ed evidente del cambiamento. Già il barocco, ad esempio, propone preferibilmente angolazioni e soluzioni “eccentriche”, e adotta una fondamentale variante prospettica, quella appunto della prospettiva accidentale. E le “capricciose invenzioni” di Piranesi, frutto di una sensibilità inquieta, precorritrice del romanticismo, vagheggiano la fuga in un mondo ideale che si sottrae ai canoni geometrici rivoluzionandoli dall’interno, e rifiuta ogni commensurabilità. L’esito ultimo della rivoluzione è questo.

Al contrario della prospettiva centrale, che pur dilatandolo chiude lo spazio, quella accidentale infatti lo apre, perché i punti di fuga sulla linea d’orizzonte possono anche uscire dalla scena, trovarsi all’esterno del quadro prospettico, cioè al di fuori dello spazio che vediamo rappresentato. Come scrive un eminente storico dell’arte, Erwin Panofsky, è la “forma simbolica” di un modo di vedere il mondo senza cercare di racchiuderlo nel perimetro dell’immagine. La prospettiva accidentale ci dice che quel mondo non lo si potrà mai rappresentare nella sua interezza, ma solo coglierne scorci, angoli fuggevoli e linee che si perdono oltre il nostro sguardo. In sostanza, la nostra conoscenza ne esce relativizzata.

Prospettive occidentali 04

Quello che accade dopo è davvero troppo complesso per azzardarne una sintesi. È una vicenda che inizia con il moltiplicarsi dei punti di vista e delle angolazioni prospettiche, e procede poi lungo tutta la modernità tra alti e bassi, speranze illuministiche e regressioni romantiche, magnifiche sorti e progressive e tramonti decadentistici. E lungo il cammino assume le caratteristiche di una proiezione squisitamente “occidentale” del posto dell’uomo nel mondo, riassumibile nell’idea di “progresso”, che viene trasmessa o imposta gradualmente a tutte le altre culture. Ma oggi, essendo approdata nella seconda metà del ventesimo secolo al nichilismo relativistico della post-modernità, parrebbe non funzionare più. E qui conviene che citi direttamente da La discesa dal Monte Analogo: faccio prima ed evito di ripetere per l’ennesima volta le stesse cose. Con una avvertenza, però: in quelle pagine riportavo la ricostruzione del percorso della modernità quale è operata dagli anti-moderni (alias anti-illuministi o anti-occidentalisti), che mi trova d’accordo solo sino ad un certo punto, perché si risolve poi nell’ipocrita rifiuto di ogni portato della civiltà “occidentale”, compreso il diritto alla critica del quale si avvalgono. Voglio dire che nelle linee di massima la ricostruzione è corretta, mentre non lo è affatto l’interpretazione che si dà dell’intera vicenda.

«Come abbiamo visto, l’imputazione più generica è di aver usato lo strumento della ragione per impadronirsi del mondo e sfruttarlo, e di aver legittimato questo dominio postulando una naturale convergenza tra sapere e potere (vedi Francesco Bacone). Ovvero, di avere attuato una “razionalizzazione del mondo”, intesa sia come modalità conoscitiva ed esplicativa che come condizione e modello per agire su di esso, per modificarlo e addomesticarlo.

Cosa significa però “razionalizzare il mondo”? Nella interpretazione antimoderna significa in primo luogo ridurne la lettura alle sole operazioni compatibili con quanto la mente umana è in grado di dominare: ovvero, costringere il reale negli schemi totalizzanti dell’unità e della storicità ed escludere il molteplice, tutto ciò che non trova spiegazione entro questi schemi. Vale a dire: supporre che esista una logica interna al tutto, e che tutto ciò che esiste o accade sia sempre spiegabile in termini razionali, e solo in essi. È quanto Hegel aveva lapidariamente riassunto in “Tutto ciò che è razionale è reale; e ciò che reale è razionale”. […]

Con la rivoluzione scientifica entriamo ormai nel pieno della modernità. Bacone, Cartesio e Galileo hanno gettato le fondamenta per una visione meccanicistica del mondo naturale: Hobbes l’ha poi trasferita ai rapporti interumani, postulando che la società sia una costruzione artificiale (un meccanismo, quindi, anziché un organismo) e che il potere abbia una natura contrattualistica, fondata sulla somma delle convenienze individuali. Dopo di lui gli illuministi settecenteschi e i positivisti dell’Ottocento hanno fatto dello studio “scientifico” della società un obiettivo prioritario. “Razionalizzare” significa infatti applicare il parametro razionale non solo come condizione del conoscere ma anche come misura dell’efficienza e della bontà, o della utilità, dell’agire: quindi adottare quell’attitudine che chiamiamo, in genere con un po’ di sufficienza, “pragmatismo”. […]

È insomma accaduto che uno strumento proprio della ragione (nel nostro caso la capacità di immaginare delle coordinate per definire degli spazi o di individuare percorsi non obbligati dalla configurazione del territorio) e funzionale al metodo scientifico, quindi applicabile alla geografia e più in generale alle scienze naturali, è stato trasferito nell’ambito delle scienze umane (nella politica e nell’economia). Questo tipo di sconfinamento è diventato più frequente e scontato mano a mano che si imponeva una conoscenza “geometrizzante” del mondo: in parallelo si affermava infatti la spinta a “razionalizzare” il potere, il dominio, l’economia, la società, e di lì a poco tutta la sfera esistenziale individuale, controllando e pilotando anche desideri ed emozioni.

Imboccando questa strada, secondo i post-modernisti, la ragione ha fatto compiere un salto qualitativo alle sue pretese: intanto si è appropriata in esclusiva di un terreno che avrebbe dovuto condividere con altre modalità conoscitive, non razionali; poi è passata dalla ricerca del logos, della coerenza interna al reale, a quella del senso, ovvero dalla descrizione del mondo alla sua interpretazione. Anziché limitarsi ad interrogare ha insomma costruito anche le risposte, e lo ha fatto naturalmente a propria immagine e somiglianza. Di conseguenza ha favorito l’atomizzazione sociale, perché ha cancellato quei legami comunitari che non erano “matematicamente” controllabili e li ha sostituti con la cultura del diritto, che definisce dei margini di autonomia individuale e consente di quantificare gli spazi e organizzare meccanicamente i rapporti.

Il risultato è che il mondo, inevitabilmente, è stato letto sempre più come il “regno della quantità”: il che comporta dissezionare un organismo e ricomporne i pezzi nei modi della organizzazione, secondo la misura umana. Ovvero separazione, omologazione e appiattimento.»

E individualismo, occorre aggiungere. Perché, tornando alla nostra metafora della prospettiva, ci siamo pian piano allontanati dalla finestra, ma non per uscire fuori e reimmergerci nella natura, cosa di cui peraltro non saremmo più capaci e che comunque non avrebbe senso, bensì per guardare dentro uno specchio. E a differenza di Alice non siamo in grado di andare oltre. Anziché continuare a dilatarsi l’orizzonte si è ristretto, le linee di fuga si sono progressivamente accorciate, fino ad appiattirsi sul piano prospettico. Non vediamo più fuori, la natura, gli altri, abbiamo perso la dimensione della profondità e siamo concentrati su noi stessi e sull’immediato presente. Si potrebbe parlare di prospettiva invertita.

In questo senso posso usare in chiusura una metafora ancor più significativa, quella offerta dal dilagare del selfie. Nel selfie il punto di vista è quello di una macchina, e il soggetto guarda se stesso diventato oggetto. Può ambientare in vari modi la sua presenza, avere alle spalle un monumento, un paesaggio naturale, il gruppo di amici o il personaggio famoso, ma lo scopo è sempre quello di “oggettivarsi”, documentare a se stesso la propria esistenza. Altro che guardare, o vedersi, “in prospettiva” centrale. L’eterno presente, l’assoluta immobilità progettuale in cui è confinato sono l’anticamera della sparizione, e il selfie è un estremo patetico tentativo di scongiurarla. Un’istantanea, appunto, che in realtà testimonia solo della nostra “accidentalità”.

Qui volevo arrivare, con tutto questo giro. Al fatto che il venir meno della fiducia in quella che era diventata la prospettiva “occidentale” crea oggi un vuoto di futuro, uno scombussolamento degli orizzonti, nel quale si cerca affannosamente di trovare non tanto nuovi punti di fuga sui quali convergere, ma delle linee di fuga sulle quali appiattire tutte le molteplicità. E lungo le quali sfuggire alla crescente e angosciante sensazione della nostra individuale irrilevanza.

La rivolta anti-occidentale, con tutte le motivazioni che può legittimamente accampare, non sembra dunque preludere ad un cambio di rotta, a un ricollocamento della specie umana nel mondo che tenga comunque conto della sua “eccezionalità”, del fatto che ormai da tempo – da ben prima che questo fatto fosse sancito dall’invenzione della prospettiva – si è collocata fuori dal quadro, e questo proprio per seguire la sua specifica natura. L’impressione è piuttosto quella di una navigazione a vista, di una visione talmente schiacciata sul presente da non consentirci di avvertire che siamo già sugli scogli. E il naufragare in questo mare ci è tutt’altro che dolce.

Prospettive occidentali 05

Tutto questo sproloquio parrebbe aver poco a che vedere con i contenuti del presente volume. Non è così. A rifletterci, sia le biografie raccolte nella prima parte che gli interventi estemporanei ospitati nella seconda parlano in fondo della prospettiva “occidentale”, raccontando le une il rifiuto nei suoi confronti, le altre la sensazione o la concreta percezione del suo venire meno. Non dicono alcunché di nuovo, ma almeno mi hanno aiutato per il tempo che mi è occorso a stenderle a distrarmi dallo specchio e a guardare dalla finestra. La speranza è ora che aiutino anche altri a farlo.

Nell’Ellade profonda

Note a margine di una scappata in Macedonia

di Paolo Repetto, 30 settembre 2023

In genere le note corredano un testo “importante”, di argomento storico o scientifico: difficilmente vengono inserite nei resoconti di viaggio. Nel mio caso però la cosa funziona diversamente. Io non so raccontare i viaggi, almeno i miei, perché non ho capacità di sintesi: sono eccessivamente cosciente di quanto in una narrazione di questo tipo va perduto, mentre non vorrei tralasciare nulla. E allora il racconto del viaggio diverrebbe lungo quanto il viaggio stesso. Faccio dunque prima a saltare a piè pari il testo e andare direttamente alle note.

In realtà sono un appassionato lettore dei viaggi altrui, proprio perché non sapendo cosa mi perdo riesco a godermi quel che mi viene offerto: ad appassionarmi però non è la parte strettamente diaristica, quanto piuttosto le considerazioni, spesso tutt’altro che pertinenti, che il viaggio induce. Brevi illuminazioni, flash, accostamenti peregrini, analogie, ecc. Quando si viaggia si è costantemente spiazzati, e questo porta a vedere le cose, non solo quelle che ci scorrono davanti, ma anche quelle che scorrono dentro, da angolazioni inedite. Le note che seguono sono per l’appunto frutto di questi spiazzamenti.

Alcune coordinate essenziali devo però fornirle, perché un improbabile lettore possa poi ricostruire l’itinerario con l’ausilio di un atlante o di una carta stradale. Dunque. Ho girovagato con Vittorio per la Grecia “continentale”, dall’Epiro alla Macedonia ellenica, alla Tessaglia settentrionale e alla Calcide, per nove giorni, nell’ultima decade di settembre. Da Atene abbiamo percorso in costa il Peloponneso sino a Patrasso, poi su a nord per Neapoli e Giannina, quindi dritto a est fino a Salonicco e di lì sino a Sithonia e al monte Athos. Successivamente abbiamo puntato la barra tutta ad ovest verso i laghi di Prespa, abbiamo toccato in barca i confini con la Macedonia del Nord e con l’Albania, e poi virato nuovamente a sud-est per arrivare all’Olimpo, Ci siamo ripetutamente bagnati in un Egeo quasi tiepido, durante la risalita del golfo Termaico e il periplo di quello di Cassandra, abbiamo valicato per dritto e per traverso i passi del Pindo e attraversato le afose pianure tessale. Tutto questo a bordo di una spompatissima Peugeot 108, praticamente una scatola di sardine. Nel corso di questo giro non abbiamo visitato né siti archeologici né musei, ci siamo dedicati piuttosto alle indagini gastronomiche e a quelle antropologiche. Insomma, siamo andati a zonzo. D’altro canto, quello che “dovevamo” vedere della Grecia “classica” l’avevamo già visto in visite precedenti.

Non aspettatevi dunque granché. Quanto segue non sarà di alcuna utilità per chi abbia in mente di muoversi sulle tracce di Pausania, e tutto sommato per nessun altro. In linea con l’assunto del nostro viaggio, risponde solo alla poetica del vagabondaggio.

Nell’Ellade profonda 02

Sulle strade. Oltre che dalla facile reperibilità di servizi igienici, per il viaggiatore automunito una civiltà si misura anche dallo stato delle strade. Uno si aspetta dunque che una Grecia da sempre economicamente in ginocchio sia quasi impercorribile, che il fondo stradale sia dissestato, che la segnaletica sia obsoleta o latitante (oltre che ostica, per via dei caratteri alfabetici). Invece è tutto il contrario. Manti asfaltati lisci come biliardi, e questo vale per tutta la rete stradale, anche quella che corre in zone dove non si scorge un casolare per decine di chilometri. Da chiedersi che tipo di bitume adottino, come già mi era accaduto in Islanda, in Spagna, persino in Turchia (ma soprattutto, che schifezza viene sparsa sulle strade in Italia). Tutto questo a fronte del fatto che lungo l’intero percorso non abbiamo trovato nessun restringimento per lavori in corso (da noi, sull’A26, nel solo tratto tra Voltri e Casale ne ho contati quattordici). E che non ho mai visto qualcuno lavorare alla manutenzione. Non solo: quasi ovunque, dove sia previsto il duplice senso di marcia, persino nei viottoli più stretti, le corsie sono divise da una doppia riga bianca. Non ho capito se questo serva a rafforzare il concetto, se cioè le autorità non si fidano del rispetto degli automobilisti per le norme: resta il fatto che la doppia riga già solo visivamente dissuade dal superarla, almeno noi che non siamo abituati.

Una parziale spiegazione di tanta scorrevolezza me l’hanno fornita le fila di pali di legno per le linee telefoniche ed elettriche che corrono ai lati delle strade, quelli che in Italia sono stati sostituiti da tempo da linee intubate sotto il manto stradale. Sembra di tornare indietro di almeno trent’anni, ma all’atto pratico da noi ad ogni novità (fibra, allacciamenti idrici e fognari, ecc…) le strade vengono sconquassate e poi rappezzate alla meno peggio, finendo per trasformarsi in autentici percorsi da cross. E per i servizi igienici? Beh, in questo la Grecia è più in linea con l’Italia che con i paesi nordici. Irreperibili. Per chi non può bere più di un paio di caffè al giorno sono problemi.

Rimanendo in tema di auto e di strade, non ho visto una sola Cinquecento L (ne possiedo una, e questo mi porta per riflesso condizionato a notarne la presenza o l’assenza). Le auto in circolazione sono nella stragrande maggioranza tedesche. Mi aspettavo, visto che la Merkel era ritenuta una decina d’anni fa la maggiore responsabile dello strozzamento dell’economia greca e che il risentimento antitedesco dura dalla seconda guerra mondiale, una qualche forma di boicottaggio, di rifiuto. Non è affatto così, la Germania è ancora la maggiore partner commerciale della Grecia. Forse questo fatto dovrebbe far riflettere i nostri più accaniti antieuropeisti sulle dinamiche reali dell’economia.

Con i cani. Varrebbe la pena riflettere (e far riflettere) anche su un altro problema, che in Grecia si presenta immediatamente, appena posi i piedi fuori dall’auto. Qui i cani randagi sono come le mucche sacre in India. Vagano per i paesi e persino al centro delle grandi città, pattugliano le spiagge e si appostano ai bordi delle strade di montagna, ti si affiancano supplichevoli o minacciosi ai tavolini dei caffè. Pare siano quasi un milione, e che la crisi galoppante ne stia moltiplicando il numero. Tra l’altro, per una legge naturale di sopravvivenza del più forte, sono tutti di grossa taglia, e non tutti sono pacifici. Il fenomeno mi aveva già colpito dieci anni fa, ma allora pensavo fosse transitorio: invece è diventato un problema endemico. Destinato purtroppo a presentarsi (e in molte regioni già presente) anche da noi.

La trama si ripete infatti ovunque sempre identica. Appena cresciuti un po’ i meravigliosi cuccioli che calamitavano e restituivano tanto affetto, che giocavano coi bimbi e alleviavano le solitudini, o che semplicemente facevano status, diventano un peso: e questo vale tanto più quando anche gli umani devono cominciare a tirare la cinghia. Li si abbandona allora senza troppi complimenti alle cure della comunità, che in realtà con questi chiari di luna non può permettersi di farsene ufficialmente carico, e neppure di sterilizzarli. Eliminarli significherebbe incorrere nelle ire degli animalisti, e allora li si lascia al proprio destino, sperando che incidenti e aggressioni rimangano entro limiti percentuali “tollerabili”. Anche da queste cose si misura lo stato di salute di una civiltà. E direi che c’è molto di cui preoccuparsi.

Geometrie post euclidee. Durante i precedenti viaggi in Grecia avevo maturato la convinzione che il paese si fosse risparmiata l’età dei geometri, quella che ha sconvolto il paesaggio italiano negli anni del boom: e ciò non in virtù di una scelta estetica ma a causa di una arretratezza economica prolungatasi sin quasi alla fine del secolo scorso. Percorrendo però le zone più prossime alle spiagge dell’Egeo ho dovuto ricredermi. C’è stata, e sembra molto recente o addirittura in corso, una fioritura di villette di una bruttezza imbarazzante, con tutta evidenza costruite in economia, ma senza risparmio alcuno di soluzioni architettoniche bizzarre e presuntuosamente avveniristiche. La crisi recente ne ha lasciate inoltre molte incompiute, e così piccoli scheletri di cemento irti di tondini rugginosi occhieggiano tristemente dalle aperture vuote: ruderi senza storia, un’archeologia da day after. Le une e le altre sorgono poi in genere su terreni spogli, con nessuna cortina di verde a nasconderle, per cui si ha l’impressione di un effetto sia voluto, di una stravaganza orgogliosamente esibita.

Nelle zone montuose dell’interno, invece, ma anche nelle vaste pianure coltivate della Tessaglia, è inquietante l’assenza di case coloniche o di piccoli nuclei abitati. Per lunghissimi tratti non si scorge l’ombra di un tetto, anche là dove si susseguono i campi, gli uliveti, i frutteti. Mi chiedo dove abitino gli agricoltori, dove ricoverino i loro attrezzi e macchinari. Mi riesce difficile ipotizzare per questa terra un’antica storia di latifondi e di concentrazioni abitative, come accade invece per la Sicilia. So troppo poco dei sistemi di proprietà bizantino prima e ottomano dopo. Immagino comunque lo sgomento di un viaggiatore che fosse rimasto in panne prima dell’avvento dei cellulari: e anche oggi dev’essere un’esperienza tutt’altro che divertente.

Menù turistico. Le zone che abbiamo attraversato non presentano particolari attrattive turistiche, almeno per quanto concerne il turismo di massa, salve le fasce costiere del golfo di Salonicco e della Calcide. Abbiamo conosciuto però una frequentazione diversa, per certi aspetti inaspettata: il turismo bulgaro. La cosa di per sé non sarebbe strana, tutto il lembo di Grecia che si spinge lungo la costa dell’Egeo sino alla Turchia europea confina con la Bulgaria, e la distanza di quest’ultima dal mare non supera mai gli ottanta chilometri: quindi per la gran parte dei bulgari l’Egeo è più vicino che non il mar Nero (e senz’altro è più caldo). È invece l’idea stessa di un turismo bulgaro a risultare spiazzante. In effetti siamo portati per molti motivi a dimenticare l’esistenza della Bulgaria: al momento non è invasa da nessuno, non ci manda quasi immigrati, non è una partner commerciale particolarmente significativa. Ce ne ricordiamo al più quando le statistiche ci dicono che il salario minimo in Bulgaria è il più basso d’Europa (un euro e mezzo l’ora), che lo stipendio medio di un bulgaro è meno di due terzi di quello di un greco, che a sua volta è poco più della metà di quello di un italiano. Rimane difficile dunque immaginare la famigliola bulgara che parte per fare le proprie vacanze in un paese in cui vige l’euro (in Bulgaria sarà adottato solo tra un paio d’anni). Probabilmente sarà un’infima minoranza a potersele permettere, sufficiente comunque a dare l’impressione che la Calcide sia la riviera adriatica dei bulgari. E la cosa non può che rallegrare.

Nell’Ellade profonda 03

Il turismo bulgaro non è la spia di un costo della vita particolarmente basso. La benzina costa in Grecia esattamente quanto nel nostro paese (il che smentisce la credenza che le accise ci siano solo in Italia), e di conseguenza le tariffe dei servizi pubblici, le consumazioni al bar e i prezzi nei supermercati sono più o meno sullo stesso livello. Solo le sigarette costano meno, ma questo riguarda esclusivamente la minoranza oppressa di cui faccio parte. Per la ristorazione il discorso è più complesso. Nelle tabernas il costo di ogni portata è grosso modo paragonabile a quello medio italiano, ma è la consistenza a fare la differenza: un secondo piatto greco ha il valore proteico e calorico di un intero pasto italiano, per cui quando l’hai capito ci sopravvivi per tutta la giornata. E comunque, un piatto colmo di ottime olive in un ristorante in riva al mare ci è costato due euro: in Italia per quella cifra ti davano giusto il piattino.

Il valore nutrizionale della cucina greca lo si può dedurre anche dalla taglia tendenzialmente robusta della popolazione, di quella maschile ma soprattutto di quella femminile. È una robustezza “solida”, da cibo, diversa da quella nordica da birra. Questo spiega anche perché le atlete greche siano particolarmente presenti e brave nelle discipline più pesanti (peso, disco, martello e giavellotto).

Nero ellenico. Un’altra caratteristica che balza immediatamente agli occhi è la preferenza dei greci, maschi e femmine, per il colore nero nell’abbigliamento. Nulla di strano, c’è dietro una tradizione millenaria e non è un costume esclusivamente ellenico, è comune nel Nordafrica, nel vicino e nel Medio Oriente e anche, da quanto ho potuto constatare, tra i bulgari. Ma in questa occasione mi ha colpito particolarmente, forse perché mi ero portato appresso lo studio sul “Nero” di Michel Pastoureau, che ne illumina tutta la storia. Non so perché, continuava a ricorrermi in mente il titolo di una tragedia di O’Neil, Il lutto si addice ad Elettra (novenario perfetto). Pare comunque che quella della mise nera sia una moda crescente anche dalle nostre parti; lì dava però l’idea di non obbedire, nemmeno nei giovanissimi, ad un capriccio stagionale. Sembrava piuttosto esprimere una rivendicazione identitaria, il che indurrebbe a supporre che i giovani greci sentano ancora fortemente il legame culturale col passato del loro paese. Che non è solo quello classico, ma quello tragico e accidentato degli ultimi duemila anni. Voglio dire che il nero delle magliette e dei pantaloncini italiani arriva dai social, quello greco dai libri di storia.

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Montagne sacre (ortodosse). Il principale movente per questa nuova scappata in Grecia è stato senza dubbio il monte Athos. Mi intrigava l’idea di una repubblica semiautonoma tutta maschile, ma non riuscivo a immaginarla e propendevo a liquidarla come folklore tenuto artificialmente in vita a scopi turistici. Non avevo in realtà idea di quale fosse l’effettivo peso della chiesa ortodossa nella vita del paese. In pochi giorni me ne sono fatta una, e anche senza mettere materialmente piede entro i confini del monte Athos, e vedendolo anzi solo dai cinquecento metri di distanza imposti ai battelli, ho realizzato che la cosa è molto più seria di quanto pensassi. Almeno a livello di impatto dell’immagine, perché poi di come materialmente si svolga la vita dei duemila e cinquecento monaci che ancora lo abitano ne so naturalmente quanto prima.

Comunque, ho constatato che almeno localmente la chiesa greco-ortodossa è una potenza, e interferisce nella vita pubblica e nel gioco politico quanto e forse più del Vaticano in Italia. Questo perché, come tutte le altre chiese che, pur essendo “autocefale” fanno comune riferimento all’ortodossia, predica una sorta di nazionalismo religioso. Ne abbiamo visto qualcosa in Russia negli ultimi tempi, ma mentre là è l’autorità politica a condizionare (e a scegliere, addirittura) quella religiosa, qui sembra funzionare diversamente. La chiesa è tra le istituzioni più apprezzate, e può contare su un sentimento religioso diffusissimo: metà dei greci adulti si dichiarano “altamente religiosi”, e lo dimostrano tangibilmente. Seduto un tardo pomeriggio a poca distanza dal sagrato di una chiesa, ho visto decine di persone di ogni età farsi il segno della croce nel transitare lì davanti. E ho notato che sui parabrezza degli autobus, come di moltissime auto private, accanto alla bandiera bianco-azzurra compaiono comunemente le icone ortodosse.

La religione qui è considerata una cosa seria, anche perché ha una forte valenza identitaria, riconducibile al modo stesso in cui è nato lo stato greco, da una rivoluzione contro gli ottomani. Il clero ortodosso è stipendiato dallo stato, ma non esita a prendere posizione contro qualsiasi “modernizzazione” i governi tentino di introdurre. Tsipras ha perso le elezioni del 2019 proprio per aver insistito sulle riforme, e il clero ortodosso non ha preso le distanze da Alba Dorata quando il partito dell’estrema destra si è fatto paladino della tradizione in suo nome. I pope hanno una presenza discreta, ma vuoi per la barba vuoi per l’obbligo di indossare l’abito tradizionale (la rjasa, una tonaca “esterna” – nera, naturalmente – con cintura, che s’indossa sopra un’altra tonaca interna, più leggera) mantengono un aspetto fortemente ieratico, malgrado siano in realtà molto più “secolarizzati” di quelli cattolici (possono anche sposarsi).

Insomma, comunque la si pensi sui suoi monaci e sulle icone, il monte Athos non ha nulla a che vedere con i mega-complessi per la produzione di miracoli sul tipo di Pietralcina, o con le Madonne che piangono (giustamente) in ogni angolo del nostro paese: e già il fatto di non ammettere la presenza femminile costituisce una garanzia in questo senso.

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Montagne sacre (pagane). Sempre a proposito di luoghi sacri (ma pagani), ho visto finalmente il monte Olimpo. Non l’ho asceso, e non per una qualche proibizione esterna o reverenza interna, ma semplicemente perché il dislivello da superare per arrivare in vetta era decisamente proibitivo per lo stato attuale delle mie gambe. L’ho quasi soltanto intravisto, e sono stato fortunato, perché è nascosto da ogni lato da una corona di altri monti e perché in via, a quanto pare, eccezionale non era coperto di nubi. Ho capito comunque perché gli antichi Elleni ne avessero fatto la dimora degli dei. Una volta superati lungo una serie di cenge i corridoi delle vallate di accesso, ti si para davanti con una prominenza di oltre duemila metri, fino a sfiorare i tremila, e la sommità non è più visibile. Dal basso sembra davvero inaccessibile, il luogo ideale per nascondersi agli occhi e alle piccinerie degli umani. Il nome stesso sembra significasse anticamente barriera, impedimento. E almeno ufficialmente pare che la sua sacralità sia stata rispettata sino al 1913, data della prima ascensione ufficiale. Penso che chi l’ha realizzata avrebbe potuto risparmiarsi la fatica: i vecchi inquilini se n’erano andati da un pezzo.

Sì, viaggiare. L’impressione che ho riportata dell’Olimpo sarebbe sufficiente a giustificare tutto il viaggio. Ma in realtà il nostro vagabondare ci ha gratificati di altre bellissime immagini: le sterminate e semideserte spiagge dell’Egeo; le montagne del Pindo, che presentano paesaggi diametralmente opposti nel volgere di pochi chilometri, nel passaggio da una valle all’altra; i laghi di Prespa, più vasti del lago Maggiore e racchiusi tra sponde pressoché disabitate; i villaggi costieri e le fantastiche baie della penisola Calcidica. E mi fermo qui, per evitare di scadere nello spot.

Piuttosto, mi sono posto per l’ennesima volta la domanda cruciale: ha ancora senso viaggiare? In genere me la ponevo prima di intraprendere un viaggio, e la risposta arrivava dall’eccitazione per l’uscita dalla consuetudine, dal flusso di adrenalina prodotto dallo spostamento. Era dunque una risposta provvisoria, occasionale. Stavolta lo faccio invece a posteriori, e forse riuscirò a darmi motivazioni meno effimere. Per il momento mi limito però ad una raccomandazione. Questi luoghi saranno ancora lì, tra cinque o dieci o cento anni, ma forse già dal prossimo non saranno più gli stessi. E difficilmente cambieranno in meglio. Vale la pena quindi vederli ora, subito, e farlo senza assilli e programmi e aspettative. Non per spuntare qualche nome dalla lista delle mete obbligate, ma per riconciliarci in tutta serenità col mondo che ci circonda, per renderci conto di quanta bellezza ci è stata concessa. Potremmo farlo senz’altro anche dietro casa, ma il paesaggio e i costumi abituali perdono per forza di cose il potere di stupirci. E così anche le loro trasformazioni. Credo che il confronto con le meraviglie di una natura inconsueta risvegli il nostro senso estetico intorpidito, così come quello con la diversità nei costumi mette alla prova il nostro sentire etico: e credo che tutto questo ci aiuti a guardare ogni volta con occhi nuovi, più attenti e critici, a ciò che c’è e a ciò che accade nel nostro cortile. Ad apprezzare diversamente quanto abbiamo, e a trovare lo stimolo e la forza per difenderlo.

Quanto a me, non ho nemmeno disfatto la valigia.

Nell’Ellade profonda 06

Cattedrali di luce

di Paolo Repetto, 14 marzo 2021 – vedi l’Album

Per il dopo Covid, sempre che arrivi, e soprattutto che io arrivi a vederlo con testa e gambe almeno a mezzo servizio, ho fatto voto di un pellegrinaggio. Supponendo che prima della fine dell’estate ci sia una parziale liberalizzazione degli spostamenti dovrei potermi muovere controcorrente, perché senz’altro si scatenerà la corsa a scaldarsi le ossa al mare (lo scorso anno, in Inghilterra, il primo week end di liberi tutti vide mezzo milione di persone riversarsi sulle spiagge della sola città di Bournemouth, dove abita mia figlia. Due giorni da incubo post-apocalittico). Io invece vorrei viaggiare tranquillo, perciò non affronterò il Camino di Compostela, ormai troppo affollato e a forte rischio di assembramenti, ma mi sposterò nelle valli Ossola e Formazza (in auto, naturalmente), per vedere come sono messe le Centrali Idroelettriche progettate un secolo fa da Piero Portaluppi. E magari, se le forze reggeranno e il tasso di inquinamento urbano scenderà, visto che tutti saranno al mare, girerò a piedi e in metrò senza mascherina per una Milano semideserta, a censire gli edifici (più di cinquanta) che Portaluppi vi ha realizzato, e a visitare la sede della Fondazione a lui intitolata.

Se poi l’entusiasmo perdura vorrei battere le valli alpine in generale, in Valle d’Aosta o nell’alto varesotto, per rendere omaggio anche alle opere di altri artisti-architetti, Giovanni Muzio in primis. Insomma, un po’ quel che fece Samuel Butler negli ultimi decenni dell’Ottocento, percorrendo (ma lui viaggiava solo a piedi) le vie dei Sacri Monti alpini (e raccontandole poi magistralmente in Alpi e Santuari, 1881)

Mi rendo conto che è un programma ambizioso, ma sono certo che ne valga la pena. Non ho nemmeno remore a renderlo pubblico perché so che pochissimi leggeranno queste righe, e quei pochi non mi spiacerebbe magari trovarli sulla mia strada, o averli come compagni di pellegrinaggio.

Da dove nasce dunque tutto questo entusiasmo? Dal fatto che nel corso del secondo inverno di clausura le immagini delle opere di Portaluppi e di Muzio, così come anche i fantastici (e fantascientifici) progetti di Sant’Elia, mi hanno aiutato molto a continuare a credere che la bellezza e il buon gusto abitino ancora questo mondo, o meglio, lo abbiano abitato anche nell’età moderna. È vero che attualmente l’una e l’altro sembrano essersi presi una vacanza, ma il fatto stesso che ancora sappiamo riconoscerli e apprezzarli depone per una loro persistenza e consente di auspicare la possibilità di un loro ritorno.

Per preparare la cosa ho pensato di lustrare un po’ gli occhi dedicandomi ad un album sull’architettura di questo particolare settore, ma non solo. I criteri si sono definiti cammin facendo, alla partenza erano solo emotivi. Le immagini che ho scelto potranno essere accusate di una bellezza facile, dolciastra, persino stucchevole, come bene o male tutto quello che ruota attorno all’Art Nouveau; o, nel caso dei disegni di Sant’Elia, di giocare su suggestioni forti, ma del tutto avulse dalla realtà e dalla concretezza. Non lo ignoro, e ammetto anche che in queste obiezioni possa esserci del vero. Ma non toccano il senso del mio discorso: non sono qui a disquisire di architettura, ci mancherebbe solo questo. Neppure però sto parlando di gusti strettamente personali: non credo sia capitato solo a me di inchiodare di colpo l’auto alla improvvisa comparsa, dietro una curva, di uno di questi edifici: o di essermi soffermato ad ammirare in uno stupito silenzio un imponente fabbricato risalente ad oltre un secolo fa e ancora perfettamente intatto, senza aver conosciuto alcuna opera di restauro o alcun intervento conservativo, come costruito ieri (anzi , no, l’avessero costruito ieri mostrerebbe già segni di invecchiamento). Nel caso specifico si trattava della dismessa centrale SEB di Cedegolo, che oggi ospita un museo dell’energia idroelettrica, per la quale non è stato necessario nemmeno un lavoro di ripulitura esterna. Prima che iniziassero i lavori di riconversione, quando l’ho vista per la prima volta, era esattamente come potete vederla nell’immagine d’apertura.

La centrale di Cedegolo non è un’opera di Portaluppi né di Muzio, ma di Egidio Dabbeni, un precursore, uno tra i primi architetti a importare in Italia lo stile razionalistico-funzionale. E impressiona perché, a dispetto della maestosità e della sensazione (assolutamente fondata) di solidità, trasmette anche un’idea di compatta leggerezza, qualcosa di simile a ciò che proviamo al cospetto delle grandi cattedrali romaniche o degli antichi manieri. Sto parlando di una costruzione in cemento armato che non presenta la minima smagliatura, nessun segno di deterioramento. Da rimanere di stucco, pensando ai viadotti del secondo novecento che cadono come birilli, e ai nuovi impianti industriali già fatiscenti dopo un decennio.

Ecco, ciò che volevo chiarire è che il tipo di bellezza cui alludo non è legato ai vezzi dell’Art Nouveau o del tardo Liberty, ma a qualcosa di più solido: qualcosa che concerne il rapporto col tempo. È paragonabile al fascino esercitato dalle illustrazioni dei vecchi libri per ragazzi, che sono lì per durare, per continuare a stupire e ad ammaliare i piccoli lettori attraverso le generazioni, magari al di là delle aspettative e degli intenti degli illustratori. In questo senso Sant’Elia parrebbe del tutto fuori posto in questa breve narrazione. È lui infatti a firmare nel 1914 il Manifesto dell’Architettura Futurista, che esordisce così: “Dopo il ‘700 non è più esistita nessuna architettura. Un balordo miscuglio dei più vari elementi di stile, usato a mascherare lo scheletro della casa moderna, è chiamato architettura moderna. […] L’architettura futurista è l’architettura del calcolo, dell’audacia temeraria e della semplicità; l’architettura del cemento armato, del ferro, del vetro, del cartone, della fibra tessile e di tutti quei surrogati del legno, della pietra e del mattone che permettono di ottenere il massimo della elasticità e della leggerezza […]”. Ma che soprattutto poi prosegue con: “Da un’architettura così concepita non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare, perché i caratteri fondamentali dell’ architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città”. Quanto alle durate, all’obsolescenza dei materiali, alla caducità, appare sin troppo lucidamente presago. Ma quanto alla dichiarazione d’intenti, i suoi stessi disegni lo smentiscono: se ogni generazione dovrà costruirsi la sua città, a propria immagine e somiglianza, i disegni di Sant’Elia sembrano appartenere ad una leva che non era senz’altro la sua ma non è nemmeno la nostra, a un mondo che neppure i film come Blade Runner hanno saputo ricreare. La sua immaginazione è fuori del tempo, ovvero ha il requisito distintivo dell’arte vera. È talmente fuori dal tempo, e pure presente nell’immaginario di ogni tempo, da non essere stata mai traducibile in realizzazioni concrete. Per quanto mi concerne, così va letto Sant’Elia. E letto così può accompagnarsi senza fare futuristicamente a pugni con Portaluppi, con Muzio e con Dabbeni. Ma anche con tanti altri.

Piero Portaluppi, La serata futurista

Mentre approfondivo la conoscenza dell’opera di Sant’Elia mi sono imbattuto negli straordinari disegni di due architetti francesi della seconda metà del Settecento, Étienne-Louis Boullée e Jean Jacques Lequeu, dei disegni dei quali ho inserito alcuni esempi in questo album. Ora, se la linea di continuità tra Sant’Elia e i progettisti di centrali idroelettriche sta nel fatto che anche il primo aveva concepito straordinari progetti per impianti di questo tipo, mai realizzati per via della sua precoce scomparsa nel corso della prima guerra mondiale (ma anche, come dicevo sopra, perché sin troppo avveniristici), quella con i due iper-visionari pre-razionalisti d’oltralpe, che l’elettricità nemmeno sapevano cosa fosse, è invece rintracciabile in altro. Nel Manifesto del 1914 Sant’Elia scriveva: “Per architettura si deve intendere lo sforzo di armonizzare con libertà e con grande audacia, l’ambiente con l’uomo, cioè rendere il mondo delle cose una proiezione diretta del mondo dello spirito”. Bene, se lo spirito umano fosse quello che vien fuori da queste immagini, Covid o non Covid davvero rimarrebbe spazio per sperare in un futuro dell’umanità. Al momento non ne sono però così sicuro, e per questo, se i vaccini non ci tradiscono, nel corso dell’estate andrò in pellegrinaggio per templi e tempietti della luce e dello spirito: per trarne conforto.

Per ora mi limito a condividere le immagini con gli amici Viandanti. Erano lì da un pezzo, ho solo colto l’occasione per metterle un po’ in riga. Ma mentre le sceglievo, le accostavo, le confrontavo, sempre più chiaro si evidenziava il filo che tiene unite nella mia mente queste immagini. È il filo dell’utopia. Mi conduce al mondo degli umani come dovrebbe essere. Un mondo governato dalla luce: dalla luce della ragione, in astratto, da quella dell’elettricità, tanto per cominciare, in concreto. Provo però una sensazione strana e inquietante: perché se si escludono i disegni di Portaluppi, negli altri gli umani non compaiono mai. Questo accadeva già prima ancora, nel Rinascimento, nelle rappresentazioni della città ideale.

Vorrà dire qualcosa?

Anonimo di Urbino, La città ideale

 

Etienne-Louis Boullée, Projet d’une Métropole

 

Antonio Sant’Elia, La città futurista

 

Antonio Sant’Elia, La centrale elettrica

 

Piero Portaluppi, Centrale idroelettrica di Crevola Crevoladossola, 1923-1924

 

Jean-Jacques Lequeu, L’Île d’amour et repos de pêche

 

Giancarlo Maroni, La centrale di Riva del Garda

 

Jean-Jacques Lequeu, Le château de plaisance

 

Antonio Sant’Elia, Progetto di stazione ferroviaria

 

Etienne-Louis Boullée, Projet d’un Musée

 

Antonio Sant’Elia. Prospettiva futurista

 

Etienne-Louis Boullé, Il tempio della Natura

 

Antonio Sant’Elia, La città futurista

 

Piero Portaluppi, Progetto per la sede della Brasital San Paolo (Brasile), 1923

 

Piero Portaluppi, Progetto per l’albergo de la Formazza, 1922-1923

 

Jean-Jacques Lequeu, Hotel de Montholon

 

Piero Portaluppi, Centrale idroelettrica di Valdo Formazza

 

Antonio Sant’Elia, Disegno per una centrale elettrica, 1914

 

Piero Portaluppi, Centrale idroelettrica di Molare, 1920-1924

 

Piero Portaluppi, Centrale idroelettrica di Crego

 

Antonio Sant’Elia, Disegno per una stazione, 1914

 

Jean-Jacques Lequeu, Grottes des Océanides

 

Etienne-Louis Boullée, Progetto per un teatro

Piero Portaluppi, Centrale idroelettrica di Grosio

 

Giovanni Muzio, palazzo della provincia di Sondrio

 

     

Giovanni Muzio, La ca’ brutta

 

Jean jacques Lequeu, Tempio dell’uguaglianza

 

Etienne-Louis Boullée, Cenotafio di Newton

 

Etienne-Louis Boullée, Progetto per una biblioteca

 

Gaetano Moretti, Centrale elettrica Taccani

 

Giovanni Muzio, Centrale idroelettrica di Maën, 1924-28

 

Giovanni Muzio/SIP Breda, centrale idroelettrica di Covalou, 1926-28

 

Giovanni Muzio, Centrale elettrica di Vizzola

 

Antonio Paoletti, Ricevitrice nord Aem, Milano, 1938

 

Jean Jacques Lequeu, Sotterranei di casa gotica

 

Giovanni Muzio, Centrale di Santa Massenza, Trentino Alto Adige

 

Carlo Mina, La Centrale “Giuseppe Ponzio” a Grosotto, 1910

 

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Prendere tempo

di Paolo Repetto, 2011

Può capitare di essere caricato in macchina alla Défense, a Parigi, di addormentarsi al suono del motore e di risvegliarsi due ore dopo davanti alla cattedrale di Bourges (non è così strano: a me è capitato). Arrivi dalla città del futuro, con torri che sono alte magari il doppio di quella di Bourges, ma che sai destinate a durare, da progetto, solo cinquant’anni; e ti trovi davanti a quest’opera incredibile, che non ha spazio attorno, per cui la devi guardare sempre dal basso, e ti sembra che aggetti, ma non dà la sensazione di cadere. Anzi, dà la sensazione che non cadrà mai. Ripensi ai grattacieli della Défense, e ti dici, tornando a guardare la cattedrale che incombe senza darti alcuna angoscia: medioevo.

Appunto.

Quando si pensa al Medioevo si pensa a “diavoli goffi con bizzarre streghe”, a spelonche puzzolenti, miseria, fame e servi della gleba. E si pensa giusto, per carità. Il medioevo era anche, e per la maggior parte dei medioevini essenzialmente, questo. Ma era, a monte di tutto, un’epoca proiettata verso il futuro. Può sembrare paradossale, dal momento che continuiamo a ripeterci che il futuro è un’invenzione moderna, che viaggia in coppia col mito del progresso; invece è solo una questione di angolo prospettico. Il futuro di cui parliamo noi, moderni e postmoderni, è quello inventato dall’uomo: il futuro cui pensavano i nostri lontani parenti del XII o del XII secolo era quello di Dio, o più semplicemente quello della natura. E allora, chi progetta la Défense ha in mente tempi umani, per i quali l’unità di misura è la durata di una vita: chi ha progettato la cattedrale di Bourges aveva in mente tempi naturali, che trascendono ogni scala di misurazione e di percezione dell’uomo.

Il tema è quello del tempo, della percezione ne abbiamo oggi e di quella diffusa in un lontano (ma non sempre, e non dovunque) passato. Sto leggendo un bellissimo libro di Diego Fusaro, Essere senza tempo, che lo sviluppa in maniera esaustiva, e forse per questo mi è tornata a mente la visione contrapposta della torre di Bourges e di quelle della Défense. Si tratta comunque di una tematica che ricorre più o meno sotterranea in tutte le cose che scrivo, tanto che ad un certo punto sono persino arrivato a considerarla un’ossessione “privata”; salvo poi realizzare che la condivido con tutta la mia specie. Provo quindi a riassumere in maniera impressionistica le mie riflessioni, senza vincolarmi alla definizione dei concetti o all’articolazione dettagliata dei percorsi.

L’umanità si è “confrontata” da sempre con il tempo. Direi che lo spartiacque dell’ominazione è proprio la consapevolezza del tempo. L’uomo è tale da quando ha la coscienza del passato e del futuro, e questa coscienza, che è poi in ultima analisi coscienza della morte, gli ha posto il problema del proprio senso, del significato da dare ad una esistenza limitata in rapporto ad una durata della natura che percepisce come illimitata. Il problema è stato risolto inizialmente accettando la sincronizzazione sui ritmi del tempo naturale, che scorreva secondo un modello ciclico (giorno-notte, estate inverno, ecc.). La vita umana, anche se tracciava una parabola un po’ diversa, rientrava in definitiva in questo schema: dall’infanzia alla morte si compie un percorso almeno semicircolare di crescita, maturità, decadenza. La sintonia assoluta, e un qualche senso dell’esistenza, potevano essere ipotizzati postulando un eterno ritorno di questo ciclo, al pari di quello dei fenomeni naturali, magari attraverso una reincarnazione sotto altra specie, come avviene nel pensiero orientale; ma nella sua versione occidentale la concezione ciclica ha dilatato i tempi di compimento del ciclo ad un punto tale da sospingerli in un indefinito prossimo all’eternità. Sarebbe lungo spiegare il perché di questa differenza: sta di fatto che nella cultura che sarebbe poi diventata dominante, quella ellenica, l’idea di una ripetizione di evi sempre uguali era magari giocata come suggestione poetica ma aveva scarso peso nell’interpretazione e nell’impostazione dell’esistenza quotidiana.

Il pensiero presocratico (ma entro certi limiti anche quello aristotelico) nasce in effetti da un radicalismo naturalista (gli ionici, gli eleati), che inserisce l’uomo nel ciclo di maturazione e decomposizione delle cose, ma lo rapporta ad un ambiente de-sacralizzato. Questo radicalismo non garantisce affatto che dalla decomposizione risorgano le stesse cose e al tempo stesso non contempla margini di trascendenza, e quindi di sottrazione al decorso naturale, a differenza ad esempio di quanto avviene per il pensiero indiano o mesopotamico o iraniano (e qui sta la sua singolarità). Anche nella versione soft, quella mitico-religiosa ad uso del popolo, l’unico spazio di sopravvivenza post mortem, l’Ade, è in definitiva un luogo di transizione verso il nulla: i suoi abitatori sono ombre, e la loro persistenza è affidata solo alla memoria dei viventi. Per questo le rare volte che un visitatore (Enea, ma vale ancora per Dante) scende all’inferno gli si affollano tutti attorno: per ottenere una citazione, un passaggio di visibilità: per procrastinare la sparizione. Accade lo stesso per i moderni frequentatori del video, con la differenza che quelli facevano conto su un ricordo legato a qualche motivo, questi puntano solo ad essere per un momento più o meno lungo inquadrati. La paura di essere invisibili li spinge a cercare una testimonianza certificata dall’oggettivatore meccanico: sono comparsi, e quindi sono. In realtà, c’è anche un’altra differenza: per i primi si tratta di resuscitare o mantenere viva una memoria, quindi c’è una proiezione nel futuro: per i secondi è pura rincorsa all’esistenza in un attimo.

Il modello giudaico nasce da una condizione abbastanza simile (l’atteggiamento disincantato nei confronti della natura), ma vissuta in maniera differente. In fondo gli Ebrei, pur riconoscendo l’innocenza di Abele (il pastore) si considerano stirpe di Caino (l’agricoltore). Di chi cioè a dispetto dell’apparenza non vive in sintonia con la natura, ma la addomestica, e cerca di forzarla. L’ebraismo prende quindi atto del problema che sorge quando l’uomo si allontana dalla natura, nel senso che si emancipa dalla soggezione ai suoi ritmi. Ciò avviene per i greci soprattutto col tramite della tecnica, ma più ancora attraverso tutto il lavorio di conoscenza che le sta a monte: per gli ebrei è eminentemente un problema di autocoscienza, sia pure collettiva, alimentata e resa sempre più acuta dalle batoste.

Una volta sganciati dai ritmi naturali riesce però difficile accontentarsi di una sola vita: per bene che vada è sempre troppo corta. Se tutto ciò che rimane è, come per i greci, la memoria, questa è riservata ad una infinitesimale minoranza: se è la speranza nel riscatto di un intero popolo, come per gli ebrei, mano a mano che si allontana nel tempo questo appare riservato a generazioni sempre più lontane, il cui glorioso riverbero non illumina affatto il presente. Non basta. E allora ecco che con la rivoluzione cristiana arriva la promessa del raddoppio. Invece dell’eterno ritorno un ritorno per l’eterno. È un’ottima soluzione, che da un lato postula una responsabilità singola, e garantisce quindi una speranza individuale, dall’altro liquida il problema del tempo, perché l’altra vita è proiettata in una dimensione nella quale il tempo non esiste. Ma, c’era da aspettarselo, nemmeno questo è sufficiente. Tutto nasce all’interno di quegli stessi ambienti nei quali si elabora la teoria della seconda vita. Conoscendo il meccanismo del gioco, si cerca di andare oltre. Di anticipare, di offrire un assaggio terreno della vita celeste. Ed eccoci tornati alla cattedrale gotica, con le guglie puntate al cielo, come tanti Shuttle pronti a decollare per il paradiso: la cattedrale è l’ascensore per la seconda vita.

Si potrebbe obiettare anche tutte le altre costruzioni monumentali dell’antichità vanno in fondo a rispondere a questo problema. Ma io ritengo che l’atteggiamento sia diverso. Il mausoleo, la piramide sono un disperato tentativo di tenere in vita quel ricordo terreno che è l’unica chance di sopravvivenza. Non sono luoghi frequentabili dagli altri esseri umani, anzi, sono esclusivi. La cattedrale medioevale ha invece un’altra funzione, oltre a quella celebrativa della grandezza e del potere della Chiesa. La cattedrale è un luogo aperto, di transito, quasi anticamera, camera di compensazione per accedere ad un mondo altro, nel quale il tempo non esiste (una funzione analoga potrebbe essere intravista nello zigurrat, ma anche qui siamo in un altro campo, perché lo zigurrat è anche magazzino, ha una funzione terrena dichiarata). Quindi deve avere come caratteristica quella di sfidare il tempo mortale, il passaggio delle generazioni. È costruita per fare da ponte tra il tempo mondano e l’eterno. Anche gli altri edifici, si dirà, sfidano il tempo: ma non è così vero. Piuttosto resistono al tempo. Dal Colosseo ai castelli, ai grandi palazzi, alle fortificazioni, queste costruzioni hanno una funzione precisa su questa terra, di resistere ad esempio all’attacco di forze e di strumenti umani: una funzione limitata nel tempo e resa obsoleta dai cambiamenti. Lo stesso vale per i luoghi di spettacolo o per gli edifici di rappresentanza (regge, ecc). Soprattutto in quest’ultimo caso l’obsolescenza è insita nella funzione. Ogni nuova forma di potere o pretesa di rappresentatività esige un forte radicamento nel presente. Le cattedrali al contrario traggono il loro significato proprio dalla loro continuità, dalla loro esistenza nel passato: più sono antiche, più sono vicine all’evento chiave, più sono autorevoli.

L’idea che l’autorevolezza possa essere legata al nuovo è invece subentrata con la modernità. La modernità ha dato il via alla rincorsa a un “ammodernamento” continuo, legato anche al sorgere di nuove tipologie di edifici, particolarmente rappresentativi (che non a caso sono proprio quelli che Augé chiama i “non luoghi”). Si pensi ad esempio alle stazioni ferroviarie. Nella prima fase della modernizzazione, quando il cambiamento era sì accelerato, ma i ritmi erano ancora bassi, esse venivano edificate come se fossero destinate a durare per sempre; e infatti quelle che sono sopravvissute all’ammodernamento, pochissime, conservano il fascino di ciò che è costruito per la lunga durata. Ma già altre cose nell’ottocento vengono costruite con la prerogativa dell’effimero: si vedano i padiglioni per le grandi esposizioni, a Londra, o la stessa torre Eiffel, che negli intenti non avrebbe dovuto andare oltre il secolo.

La scelta della precarietà è paradossalmente legata all’introduzione di nuove tecniche costruttive, di nuovi materiali che in realtà avrebbero dovuto assicurare una maggiore durata, una maggiore resistenza al tempo (il ferro, il cemento armato) e che invece ne patiscono molto più velocemente l’azione. Proprio la facilità di costruzione di strutture gigantesche con questi sistemi ha fatto sì che non si badasse alla qualità. In primo luogo non era più possibile pensare in tempi lunghi come quelli della costruzione delle cattedrali; in secondo luogo era possibile replicare gli edifici, costruendone altri sempre più aggiornati nei cambiamenti del gusto, e quindi tanto valeva costruire in fretta. È in definitiva aumentata esponenzialmente la possibilità di costruire, passando dal legno come materiale principale al cemento, ma si sono prodotte costruzioni destinate ad una obsolescenza sempre più rapida.

La storia della Défense è per il momento l’epilogo di questa vicenda. Le costruzioni vengono già da progetto pensate per una durata massima di cinquant’anni (ma par di capire che l’aspettativa di vita sia destinata a calare drasticamente). Si costruisce qualcosa di enorme e di tecnologicamente avanzatissimo nella prospettiva che non durerà nemmeno quanto la vita di un uomo. In pratica mentre prima questa vita scorreva all’ombra della cattedrale che aveva visto passare innumerevoli generazioni, e ne avrebbe viste passare ancora, ora ogni generazione vede scorrere una serie di “soggetti” che si soppiantano l’un l’altro con frequenze sempre più rapide. L’uomo è fermo in un presente esteso, e il tempo gli passa davanti come su uno schermo cinematografico. Esattamente il contrario di quanto succedeva prima, quando lo scorrere del tempo lo poteva percepire solo sul suo corpo e su quello di chi stava attorno (e infatti, l’annullamento del tempo passa oggi anche per il tentativo di fermare il naturale decadere del corpo).

Di questo volevo arrivare a parlare. Del fatto che abbiamo talmente velocizzato le durate, lo scorrimento dei fotogrammi, da perdere di vista la possibilità della visione. Il treno ormai viaggia così veloce che non vediamo nemmeno più volare via il paesaggio dai finestrini, e siamo portati a pensare ad una nostra immobilità. Che significa niente passato, perché non riusciamo a focalizzare alcuna immagine di ciò che ci siamo lasciati alle spalle, perché sono troppe e si accavallano, e niente futuro, perché siamo in perenne rincorsa rispetto all’immagine appena passata, e impreparati e impossibilitati a pensare ad un futuro.

Assieme all’idea di un futuro stanno svanendo, da un trentennio a questa parte, tutte quelle aspettative che potevano trovare spazio e proiezione solo in quella dimensione. È venuto meno il mito del progresso, si sono dissolte le grandi ideologie del riscatto sociale e della rivoluzione, persino l’unico divenire sopravvissuto, quello della scienza, suscita più inquietudini che speranze.

Per questo guardiamo a quelle pietre con rimpianto. Si opponevano al tempo, ma solo per farlo scorrere in maniera più regolare, per dargli una direzione e un senso. Erano strumenti nelle mani del potere, religioso o civile che fosse, e come tali asserviti ad interessi particolari e a disegni tutt’altro che divini: ma una volta rimosse non sono state sostituite da alcun altro punto fermo, da nessuna torre che consenta di guardare lontano. Il tempo, non più indirizzato, semplicemente incanalato e frammentato nelle durate brevi e asettiche dei misuratori meccanici, è sfuggito totalmente al controllo: nessuna divinità, nessuna idealità lo governa. Piuttosto siamo noi, falsamente illusi di averlo imprigionato nei nostri marchingegni, ad esserne diventati schiavi: e la condizione di schiavitù, rispetto a quella particolare accezione moderna del tempo che è il “tempo-valore”, accomuna tanto chi il suo tempo lo vende quanto chi lo acquista. Perché quello in commercio non è il tempo, ma una sua oggettivazione puramente convenzionale.

In sostanza, così come non può essere dilatato raddoppiando o moltiplicando le vite, il tempo non può essere costretto e gestito sminuzzandolo e “valorizzandone” ogni frammento. Intensificare l’esperienza del tempo non significa semplicemente moltiplicare le occasioni, o diversificarle: significa viverle più intensamente. E l’intensità in questo caso non è correlata alla frequenza, ma alla persistenza. A differenza che in fisica, non è un problema di quantità, ma di qualità dell’esperienza. Questa può essere vissuta verticalmente, scendendo in profondità, o orizzontalmente, viaggiando in superficie: in quest’ultimo caso o riduce il tempo a movimento nello spazio, come d’altronde faceva già Aristotele, o lo traduce in contabilità spicciola e somma matematica di azioni. Non è detto che la quantità non possa tradursi, se gestita bene, in qualità: ma il rischio che rimanga fine a se stessa è grande.

Immagino che dopo tutta questa tirata uno si aspetti delle conclusioni, in questo caso delle istruzioni per il corretto consumo del tempo. Lo deludo subito, e d’altro canto l’ho detto in partenza: non volevo affatto formulare ricette, ma solo proporre delle impressioni. Sull’uso da farne non so proprio dare consigli. Anche se, tuttavia, qualcosa da queste pagine può uscire. Per scriverle ho impiegato almeno un paio d’ore, che mi sono sembrate un attimo per certi versi, un’eternità per altri: dentro ci sono infatti il ricordo di quel viaggio, la rievocazione di quelle impressioni, il ripensamento sulle tante cose lette e più o meno digerite sul tema del tempo, il raffronto con le modalità di esperienza che quotidianamente ne ho e con quelle che mi sembra cogliere negli altri, la revisione di quello che stavo scrivendo, nel tentativo di renderlo leggibile. Insomma, quanto ad intensità non posso lamentarmi. A prescindere dai risultati, sono state due ore spese bene.

Non so se chi le leggerà potrà dire altrettanto per i cinque minuti necessari: magari riterrà di aver solo perso del tempo. Se così fosse, mi consola il fatto di avergliene rubato poco, ma più ancora la soddisfazione di sapere che evidentemente ha modi migliori per spenderlo. Se non altro ho contribuito a farglielo scoprire.

 

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